Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA GIUSTIZIA

TERZA PARTE

 

  

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

  

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una presa per il culo.

Gli altri Cucchi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un processo mediatico.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Senza Giustizia.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Qual è la Verità.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Parliamo di Bibbiano.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

Scomparsi.

La Sindrome di Stoccolma.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giustizia Ingiusta.

La durata delle indagini.

I Consulenti.

Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.

Il Diritto di Difesa vale meno…

Gli Incapaci…

Figli di Trojan.

Le Mie Prigioni.

Le fughe all’estero.

Il 41 bis ed il 4 bis.

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.

Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tribunale dei media.

Soliti casi d’Ingiustizia. 

Angelo Massaro.

Anna Maria Manna.

Cesare Vincenti.

Daniela Poggiali.

Diego Olivieri.

Edoardo Rixi.

Enrico Coscioni.

Enzo Tortora.

Fausta Bonino.

Francesco Addeo.

Giacomo Seydou Sy.

Giancarlo Benedetti.

Giulia Ligresti.

Giuseppe Gulotta.

Greta Gila.

Marco Melgrati.

Mario Tirozzi.

Massimo Garavaglia e Mario Mantovani.

Mauro Vizzino.

Michele Iorio.

Michele Schiano di Visconti.

Monica Busetto.

Nazario Matachione.

Nino Rizzo.

Nunzia De Girolamo.

Piervito Bardi.

Pio Del Gaudio.

Samuele Bertinelli.

Simone Uggetti.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Giustizialisti.

I Garantisti. 

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cupola.

Gli Impuniti.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Palamaragate.

Magistratopoli.

Le toghe politiche.

 

INDICE NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di piazza della Loggia.

Il Mistero di piazza Fontana.

Il Mistero della Strage di Ustica.

Il mistero della Moby Prince.

I Cold Case italiani.

Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.

La vicenda della Uno Bianca.

Il mistero di Mattia Caruso.

Il caso di Marcello Toscano.

Il caso di Mauro Antonello.

Il caso di Angela Celentano.

Il caso di Tiziana Deserto.

Il mistero di Giorgiana Masi.

Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.

Il caso di Cristina Mazzotti.

Il Caso di Marta Russo.

Il giallo di Polina Kochelenko.

Il Mistero di Martine Beauregard.

Il Caso di Davide Cervia.  

Il Mistero di Sonia Di Pinto.

La vicenda di Maria Teresa Novara.

Il Caso di Daniele Gravili. 

Il mistero di Giorgio Medaglia.

Il mistero di Eleuterio Codecà.

Il mistero Pecorelli.

Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.

Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.

Il Caso Bruno Caccia.

Il mistero di Acca Larentia.

Il mistero di Luca Attanasio.

Il mistero di Lara Argento.

Il mistero di Evi Rauter.

Il mistero di Marina Di Modica.

Il mistero di Milena Sutter.

Il mistero di Tiziana Cantone.

Il Mistero di Sonia Marra.

Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.

Il giallo di Mauro Donato Gadda.

Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.

Il Mistero di Nada Cella.

Il Mistero di Daniela Roveri.

Il caso di Alberto Agazzani.

Il Mistero di Michele Cilli.

Il Caso di Giorgio Medaglia.

Il Caso di Isabella Noventa.

Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.

Il caso del serial killer di Mantova.

Il mistero di Andreea Rabciuc.

Il caso di Annamaria Sorrentino.

Il mistero del corpo con i tatuaggi.

Il giallo di Domenico La Duca.

Il mistero di Giacomo Sartori.

Il mistero di Andrea Liponi.

Il mistero di Claudio Mandia.

Il mistero di Svetlana Balica.

Il mistero Mattei.

Il caso di Benno Neumair.

Il mistero del delitto di via Poma.

Il Mistero di Mattia Mingarelli.

Il mistero di Michele Merlo.

Il Giallo di Federica Farinella.

Il mistero di Mauro Guerra.

Il caso di Giuseppe Lo Cicero.

Il Mistero di Marco Pantani.

Il Mistero di Paolo Moroni.

Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.

Il caso di Alessandro Nasta.

Il Caso di Mario Bozzoli.

Il caso di Cranio Randagio.

Il Mistero di Saman Abbas.

Il Caso Gucci.

Il mistero di Dino Reatti.

Il Caso di Serena Mollicone.

Il Caso di Marco Vannini.

Il mistero di Paolo Astesana.

Il mistero di Vittoria Gabri.

Il Delitto di Trieste.

Il Mistero di Agata Scuto.

Il mistero di Arianna Zardi.

Il Mistero di Simona Floridia.

Il giallo di Vanessa Bruno.

Il mistero di Laura Ziliani.

Il Caso Teodosio Losito.

Il Mistero della Strage di Erba.

Il caso di Gianluca Bertoni.

Il caso di Denise Pipitone.

Il mistero di Lidia Macchi.

Il Mistero di Francesco Scieri.

Il Caso Emanuela Orlandi.

Il mistero di Mirella Gregori.

Il giallo del giudice Adinolfi.

Il Mistero del Mostro di Modena.

Il Mistero del Mostro di Roma.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Il Caso del Mostro di Marsala.

La misteriosa morte di Gergely Homonnay.

Il Mistero di Liliana Resinovich.

Il Mistero di Denis Bergamini.

Il Mistero di Lucia Raso.

Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.

Il mistero di «Gigi Bici».

Il Mistero di Anthony Bivona.

Il Caso di Diego Gugole.

Il Giallo di Antonella Di Veroli.

Il mostro di Foligno.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di Ilaria Alpi.

Il mistero di Luigi Tenco.

Il Caso Elisa Claps.

Il mistero di Unabomber.

Il caso degli "uomini d'oro".

Il mostro di Parma.

Il caso delle prostitute di Roma.

Il caso di Desirée Mariottini.

Il caso di Paolo Stasi.

Il mistero di Alice Neri.

Il Mistero di Matilda Borin.

Il mistero di don Guglielmo.

Il giallo del seggio elettorale.

Il Mistero di Alessia Sbal.

Il caso di Kalinka Bamberski.  

Il mistero di Gaia Randazzo.

Il caso di Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura.

Il mistero di Giuseppina Arena.

Il Caso di Angelo Bonomelli.

Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.

Il caso di Sabina Badami.

Il caso di Sara Bosco. 

Il mistero di Giorgia Padoan.

Il mistero di Silvia Cipriani.

Il Caso di Francesco Virdis.

La vicenda di Massimo Alessio Melluso.

La vicenda di Anna Maria Burrini. 

La vicenda di Raffaella Maietta.  

Il Caso di Maurizio Minghella.

Il caso di Fatmir Ara.

Il mistero di Katty Skerl.

Il caso Vittone.

Il mistero di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.

Il Caso di Salvatore Bramucci.

Il Mistero di Simone Mattarelli.

Il mistero di Fausto Gozzini.

Il caso di Franca Demichela.

Il Giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza.

Il caso di Giovanni Sacchi e Chiara Barale.

Il caso di Luigia Borrelli, detta Antonella.

Il mistero di Antonietta Longo.

Il Mistero di Clotilde Fossati. 

Il Mistero di Mario Biondo.

Il mistero di Michele Vinci.

Il Mistero di Adriano Pacifico.

Il giallo di Walter Pappalettera.

Il giallo di Rosario Lamattina e Gianni Valle.

Il mistero di Andrea Mirabile.

Il mistero di Attilio Dutto.

Il mistero del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.

Il mistero di JonBenet Ramsey.

Il Caso di Luciana Biggi.

Il mistero di Massimo Melis.

Il mistero di Sara Pegoraro.

Il caso di Marianna Cendron. 

Il mistero di Franco Severi.

Il mistero di Norma Megardi.

Il caso di Aldo Gioia.

Il mistero di Domenico Manzo.

Il mistero di Maria Maddalena Berruti.

Il mistero di Massimo Bochicchio.  

Il mistero della morte di Fausto Iob.

Il Delitto di Ceva: la morte di Ignazio Sedita.

Il caso di Stefano Siringo e di Iendi Iannelli.

Il delitto insoluto di Piera Melania.

Il giallo dell'omicidio di Nevila Pjetri. 

Il mistero di Jessica Lesto.

Il mistero di Stefania Elena Carnemolla.

 L’omicidio nella villa del Rastel Verd.

 Il Delitto Roberto Klinger.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il mistero della strage della Stazione di Bologna: E’ Stato la Mafia.

 

 

LA GIUSTIZIA

TERZA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.

Forza Italia non molla: «Ora “indaghiamo” su Mani Pulite». Il deputato azzurro Battilocchio invoca una Commissione d’inchiesta su Tangentopoli, Gotor non ci sta: «Un’autoassoluzione collettiva». di Giovanni M. Jacobazzi Prado su Il Dubbio il 13 dicembre 2022.

«Dopo aver letto i libri dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara mi pare evidente che in questi anni ci sia stato nel nostro Paese un “uso politico” della giustizia», afferma il deputato di Forza Italia Alessandro Battilocchio. Il parlamentare azzurro, il mese scorso, ha presentato una proposta di legge per l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta “sugli effetti delle inchieste giudiziarie riguardanti la corruzione politica e amministrativa, svolte negli anni 1992 e 1993, sulla successiva evoluzione del sistema politico italiano”.

«Non ho vissuto il periodo di Tangentopoli (Battilocchio è nato nel 1977, ndr) ma ritengo che a trent’anni di distanza ci siano adesso tutte le condizioni per capire cosa sia successo», aggiunge il parlamentare che è anche coordinatore provinciale a Roma di Forza Italia. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul punto, la cui istituzione era stata proposta anche nella scorsa legislatura, oltre alla lettura delle carte processuali, dovrebbe interrogare i “protagonisti” dell’epoca e chiunque possa fornire utili contributi per far luce su una inchiesta giudiziaria che cambiò per sempre la storia del Paese. Battilocchio non lo dice, ma è evidente il riferimento al fatto che la Democrazia cristiana, il Partito socialista e i tre partiti laici (Pri, Pli e Psdi) furono travolti, mentre il Partito comunista fu solo sfiorato delle inchieste. La conseguenza di tale agire fu che il Pci, poi Pds, salvò per intero la sua classe dirigente.

L’incipit delle proposta di legge riporta una intervista del settembre del 2017, durante una trasmissione televisiva, del pm Antonio Di Pietro. «Ho fatto una politica sulla paura e ne ho pagato le conseguenze. (…) La paura delle manette, la paura del, diciamo così, “sono tutti criminali”, la paura che chi non la pensa come me sia un delinquente. Poi alla fine, oggi come oggi, avviandomi verso la terza età, bisogna rispettare anche le idee degli altri. (…) Ho fatto l’inchiesta Mani pulite e con l’inchiesta Mani pulite si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, e ce n’era tanto con la corruzione, ma anche le idee, perché sono nati i cosiddetti partiti personali», le parole dell’ex magistrato, poi eletto in Parlamento proprio nella fila del Pds

. «L’avere messo la “paura” al centro delle azioni che hanno guidato le dinamiche della stagione politica e giudiziaria dei primi anni novanta dello scorso secolo necessita un approfondimento per capire in che misura i risultati elettorali di quegli anni ne sono stati influenzati. La “paura delle manette”, a cui l’ex magistrato fa riferimento, potrebbe essere stato uno strumento di “politica giudiziaria” in mano alla magistratura», sottolinea allora Battilocchio che, comunque, non ha intenzione con la sua iniziativa legislativa di «cancellare i fatti emersi nell’ambito dell’inchiesta», limitandosi a voler fare «chiarezza sulle dichiarazioni di Di Pietro, in quanto per perseguire qualsiasi scopo, anche fosse il più nobile, fece ricorso alla “paura delle manette”».

Molto critico alla proposta di Battilocchio è Miguel Gotor, ex parlamentare dem ed ora assessore alla cultura del Comune di Roma. In un articolo ieri su Repubblica, Gotor afferma che Battilocchio sarebbe mosso da «intenzioni bellicose» con il ricorso ad un «armamentario nostalgico e reducista tipico di una certa tradizione socialista che ritiene Mani pulite il frutto di un golpe mediatico giudiziario». La commissione d’inchiesta avrebbe allora la funzione di «mera propaganda se non di disinformazione e intossicazione della pubblica opinione». Su un aspetto, però, Gotor concorda con Battilocchio, quello dell’uso (abuso) della carcerazione preventiva che venne fatto dai pm in quegli anni. Per il resto il mondo stava cambiando ed il finanziamento irregolare ai partiti non era più tollerato.

Nessun complotto, insomma. Gotor si lascia andare anche ad una considerazione sui trascorsi dell’attuale compagine di governo. Quando scoppiò Tangentopoli vi era chi usava il cappio (Luca Leoni Orsenigo delle Lega Nord, ndr) o chi, i giovani del Movimento sociale, accerchiava il Parlamento al grido di «arrendetevi siete circondati». E poi Silvio Berlusconi che nel 1994 sarebbe diventato presidente del Consiglio e che aveva appoggiato fin da subito l’operato del Pool di Milano con le indimenticabili dirette di Paolo Brosio. Per Gotor, dunque, il problema attuale è quella di una «autoassoluzione collettiva» da parte della classe politica che ha voluto rimuovere il passato nella migliore tradizione “gattopardesca”. L’Italia, aggiunge l’assessore romano, non ha bisogno di una commissione d’inchiesta su Tangentopoli ma di una «civica e culturale».

Gattopardi e nostalgici che vogliono riscrivere la storia di Tangentopoli. Miguel Gotor il 12 Dicembre 2022 su La Repubblica.

Fermo restando il diritto di un singolo deputato a chiedere l'istituzione di qualsivoglia commissione d'inchiesta sarebbe saggio che il Parlamento non desse seguito a questa istanza per due buone ragioni

Nelle ore in cui una presunta vicenda di corruzione si abbatte sul Parlamento europeo, un deputato di Forza Italia, Alessandro Battilocchio, chiede l'istituzione di una Commissione di inchiesta su Tangentopoli. A quanto pare non si tratta dell'iniziativa estemporanea di un singolo parlamentare, legato alla cultura politica socialista di derivazione craxiana e alla poco fortunata esperienza del Nuovo Psi, dal momento che il capogruppo di Forza Italia Alessandro Cattaneo avrebbe condiviso la proposta.

Forza Italia riapre lo scontro dopo 20 anni: “Commissione d’inchiesta su Mani Pulite”. Lorenzo De Cicco il 12 Dicembre 2022 su La Repubblica.

Presentato un ddl in cui si cita un'intervista di Di Pietro: "Ho fatto una politica sulla paura delle manette"

Un'altra manina della maggioranza schiaccia sul tasto rewind. Forza Italia vuole una commissione d'inchiesta su Tangentopoli. Il nastro scorre veloce a vent'anni fa, allo scontro fra politica e magistratura. Cavallo di battaglia del berlusconismo rampante tra gli ultimi anni '90 e i primi 2000. Rieccoci. Dopo le picconate del Guardasigilli Carlo Nordio sulla separazione delle carriere, le intercettazioni "inutili", l'obbligatorietà dell'azione penale bollata come "intollerabile arbitrio", ecco un altro tassello del puzzle: la commissione parlamentare su Mani pulite.

Dal centrosinistra a Tangentopoli. Ecco i “testimoni” di Ugo Intini…L’ex dirigente del Partito socialista racconta in un bel saggio l’ascesa e la morte della prima Repubblica. Francesco Damato su Il Dubbio il 13 novembre 2022.

Come gli è capitato di fare nel 2014 con una bella e orgogliosa storia del suo Avanti!, intrecciandola in 754 pagine con quella dell’Italia della Monarchia e della prima Repubblica, praticamente ghigliottinata dalla magistratura a mani cosiddette pulite, così Ugo Intini – che nel quotidiano socialista ha percorso tutta intera la carriera giornalistica, da redattore a direttore- ha fatto con i suoi Testimoni di un secolo, ancora fresco di stampa, edito da Baldini+Castoldi.

In 684 pagine scritte – come gli ha riconosciuto sul Sole- 24 Ore Sabino Cassese “in maniera avvincente, con verve e acume, grande attenzione per i particolari” ha ripercorso la storia del Novecento, non solo italiano, attraverso 48 protagonisti sistemati in una metaforica galleria di ritratti. Protagonisti – ha avvertito Cassese – “oltre a comprimari e l’autore del libro, auctor e agens”.

Del Psi del garofano guidato da Bettino Craxi all’insegna dell’autonomia e del riformismo Intini non è stato solo un dirigente, e portavoce del segretario, ma anche un ispiratore: per esempio, con il suo saggio, a quattro mani col compianto Enzo Bettiza, sulla compatibilità fra liberali e socialisti. Era il lib-lab.

Dal centro- sinistra col trattino degli anni sessanta, che si diede come segno distintivo i liberali sostituti al governo dai socialisti, si passò negli anni Ottanta, con Craxi in persona a Palazzo Chigi, al centrosinistra senza trattino – il famoso pentapartito – comprensivo dei liberali. Fu un’evoluzione pragmatica e ideologica al tempo stesso.

Vi confesso che la prima cosa che sono andato a cercare nella galleria dei ritratti del mio amico Ugo è stata la parte relativa alla tragedia di Tangentopoli gestita giudiziariamente, mediaticamente e politicamente in modo che diventasse una tragedia soprattutto socialista, pur essendo arcinota la diffusione generale del finanziamento illegale dei partiti, all’ombra di una legge a dir poco ipocrita sul loro finanziamento pubblico. Che stanziava a questo scopo meno della metà di quanto si sapeva che essi costassero.

Mi ha sorpreso, in verità, una certa comprensione di Intini verso Oscar Luigi Scalfaro, eletto al Quirinale nel 1992, cioè all’alba già avanzata di Tangentopoli, grazie alla preferenza del Pds- ex Pci rispetto alla candidatura del laico Giovanni Spadolini, ma grazie anche, o ancor più, all’assenso dei socialisti.

Che fu motivato – ha spiegato Intini- dalla fiducia che Scalfaro da ministro dell’Interno di Craxi si era guadagnato tirando fuori dagli archivi del Viminale e dintorni un documento che confermava la convinzione dei socialisti, a cominciare dallo stesso Intini, che il nostro comune amico Walter Tobagi, del Corriere della Sera, fosse stato assassinato da aspiranti brigatisi rossi il 28 maggio 1980 per negligenza anche degli apparati di sicurezza della Repubblica. Ai quali era stato segnalato in tempo il progetto quanto meno di rapirlo.

Scalfaro che, consultando inusualmente nella crisi d’inizio della nuova legislatura anche il capo della Procura di Milano, rifiutò a Craxi il ritorno a Palazzo Chigi pur proposto dalla Dc di Arnaldo Forlani e dagli altri alleati, secondo Intini “ebbe certamente un ruolo nel salvare il salvabile” in quegli anni terribili.

Anche se poi, “almeno sul piano economico – ha aggiunto Intini– il merito è andato al governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi”, mandato da Scalfaro a Palazzo Chigi nel 1993.

Ho storto il muso pensando a quanto quel rifiuto di Scalfaro di conferirgli l’incarico nel 1992 avesse indebolito Craxi nella caccia al “cinghialone”, come lo chiamava il magistrato simbolo dell’inchiesta Mani pulite: Antonio Di Pietro. Poi ho capito l’illusione procurata da Scalfaro a Intini con una difesa dei partiti espressa con queste parole “Demonizzarli, criminalizzarli è terribilmente pericoloso, poiché senza partiti non c’è democrazia”.

“Credevamo che questo fosse un argomento decisivo”, ha scritto Intini al plurale. “Ma ci sbagliavamo di grosso”, ha aggiunto, “perché non sapevamo che sarebbero arrivati i grillini a teorizzare la democrazia diretta, a individuare i parlamentari come il vertice della casta e a imporre a titolo punitivo e simbolico il taglio”. No, Ugo, prima ancora dei tagli grillini al Parlamento abbiamo avuto in Italia la demonizzazione dei partiti temuta sì da Scalfaro ma da lui non contrastata, o non contrasta a sufficienza.

I ricordi di Di Pietro sull’intreccio tra Tangentopoli e Cosa Nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 04 novembre 2022

Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Il senatore Di Pietro, sulla cui deposizione si tornerà in prosieguo per gli spunti che ha offerto alla riflessione sui temi di questo processo, ha confermato che le indagini della procura di Milano su vicende di corruttela politico-affaristica che investivano alcuni dei più grossi gruppi imprenditoriali nazionali portavano (anche) in Sicilia. Così come la ricostruzione di flussi di denaro provento di tangenti a politici, conduceva a conti di comodo (prevalentemente in banche svizzere) da cui poi partivano ulteriori flussi verso altri conti nella disponibilità di faccendieri e personaggi legati ad ambienti mafiosi.

Ma non appena imprenditori e funzionari d’impresa che facevano la fila davanti alla sua stanza in procura, mostrandosi disponibili a collaborare alle inchieste, venivano invitati a parlare degli appalti in Sicilia, ecco che si trinceravano dietro un assoluto silenzio. E questo muro di omertosa reticenza s’implementò sensibilmente dopo Capaci e ancor più dopo via D’Amelio.

Alla fine, il pool di Mani Pulite riuscì, grazie alla mediazione del procuratore di Milano Borrelli e del nuovo procuratore di Palermo Caselli (ma siamo già nella prima metà del 1993), a coordinare le proprie indagini con quelle istruite dall’omologo ufficio palermitano sulla base di un riparto di competenze che valse a sciogliere il grumo di reticenze degli imprenditori del nord che avevano fatto affari in Sicilia, spartendosi gli appalti con cordate di imprese locali più o meno vicine o contigue a Cosa nostra e con la mediazione di faccendieri o imprenditori collusi (e che ottennero in pratica di continuare ad essere processati a Milano, per connessione con i reati di ordinaria corruzione/concussione ivi commessi; mentre i loro correi per gli affari in Sicilia venivano processati per il reato di cui all’an. 416 bis).

Insomma, nel sistema verticistico e unitario di gestione illecita degli appalti in Sicilia era risultato a vario titolo coinvolto il Gotha dell’imprenditoria nazionale; e Cosa nostra era proiettata a giocare un ruolo preminente in questo sistema: cosa che in effetti avvenne negli anni successivi, come i processi del filone mafia e appalti avrebbero poi dimostrato. 

Ebbene, di queste problematiche Antonio Di Pietro aveva parlato con il dott. Borsellino — che si onorava della sua amicizia, come lo stesso magistrato ucciso aveva dichiarato in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992: v. infra - e insieme avevano deciso di rivedersi per definire un programma di lavoro comune che assicurasse un proficuo coordinamento di indagini che apparivano sempre più strettamente collegate, come accertato già nel proc. Nr. 29/97 R.G.C.Ass. “Agate Mariano+26”: «Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha altresì riferito il teste che mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito tangentizio, ciò non si era verificato in Sicilia e Borsellino spiegava tale diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto Cosa nostra interveniva direttamente per gestire ed assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà di quegli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti loro assegnati nel resto d’Italia. Intenzione di Borsellino e Di Pietro era quella di sviluppare di comune intesa delle modalità investigative fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove. E Borsellino stava già traducendo in atto questo progetto, come dimostrano le dichiarazioni rese dai predetti testi Mori e De Donno, che hanno riferito di un incontro da loro avuto con Borsellino il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo».

IL SISTEMA DEGLI APPALTI E LA MAFIA

In effetti, il peculiare ruolo di Cosa nostra nella gestione illecita degli appalti in Sicilia sarà messo a fuoco quando le risultanze dell’originario proc. nr. 2789/90 N.C. a carico di Siino Angelo e altri saranno integrate con le rivelazioni di quei collaboratori di giustizia che avevano acquisito — sul campo — una vera e propria specializzazione nel settore degli appalti pubblici.

Si accerterà così che Panzavolta, Bini, Visentin e Canepa, ossia il management delle varie società del Gruppo Ferruzzi consociate della Calcestruzzi Spa di Ravenna per anni si erano prestati a fare affari con imprenditori siciliani che erano l’interfaccia del gruppo mafioso egemone.

In particolare, i Buscemi di Boccadifalco (Salvatore e Antonino) erano tra gli esponenti mafiosi più vicini a Riina, e da soli non avrebbero avuto, per quanto influenti, la forza di imporsi all’attenzione di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti dell’economia nazionale, fino a costituire una sorta di monopolio nel settore degli appalti di grandi opere e nella produzione e fornitura di calcestruzzi. La loro ascesa fu sponsorizzata dai vertici di Cosa nostra, nell’ambito di un sistema che finì per ridimensionare e poi emarginare lo stesso Siino Angelo, confinato nei limiti della “gestione” di appalti di dimensioni medio-piccole, ossia per importi inferiori a 5 mld. di lire (e su base provinciale: gli appalti banditi dall’amministrazione provinciale di Palermo: cfr. Brusca e Siino).

Ma è la grande impresa italiana a fare affari in Sicilia con Cosa nostra, attraverso cordate di imprenditori collusi o compiacenti verso le imprese mafiose.

E tale sistema, i cui prodromi s’intravedono sullo sfondo delle prime inchieste del filone mafia e appalti come quella compendiata nel rapporto del Ros depositato il 20 febbraio 1991 era già giunto a piena maturazione quando si apre la stagione delle stragi, ma era proseguito anche oltre: come accertato, tra gli altri, nel proc. nr. 1120/97 n.c.- Dda, istruito dalla Dda di Palermo a carico di Buscemi Antonino, Bini Giovanni, Salamone Filippo, Micciché Giovanni, Vita Antonio,

Panzavolta Lorenzo, Canea Franco, Visentin Giuliano, Bondì Giuseppe, Crivello Sebastiano per i reati di associazione mafiosa, turbativa d’asta e illecita concorrenza con violenza e minaccia (e per fatti commessi fino a tutto il 1991, e anche negli anni successivi. Procedimento che, avvalendosi delle propalazioni di Angelo Siino, che nel frattempo si era determinato a collaborare con la giustizia, si profilava quale naturale prosecuzione e sviluppo di quanto emerso già in altri procedimenti nell'ambito delle indagini relative all'illecita aggiudicazione di appalti pubblici ed allo strutturato sistema di controllo degli stessi da parte dell'associazione per delinquere di tipo denominata Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Totò Riina, i fratelli Buscemi e la Calcestruzzi di Raul Gardini. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 05 novembre 2022

Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore. Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa Nostra ai suoi massimi livelli.

Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

È in questo periodo che si costituisce ed opera un comitato d’affari in cui siedono Filippo Salamone, che si colloca sotto Pala protettrice dei corleonesi, stringendo legami con Buscemi Antonino e Bini Giovanni, il quale funge da interfaccia per i rapporti con i grandi gruppi imprenditoriali del Nord.

In particolare, Salamone curerà i rapporti con i referenti politici e gli amministratori e funzionari da coinvolgere nelle manipolazioni di lavori e collaudi e nell’approvazione di varianti. E questo comitato d’affari deciderà la spartizione degli appalti di maggior valore, in modo che una quota rilevante fosse assicurata alle grandi imprese sponsorizzate dai vertici mafiosi, le quali poi ricambiavano con l’assegnazione di lavori in subappalto e imprese mafiose o vicine alle famiglie mafiose, oltre al pagamento delle tangenti ai politici.

La citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini su mafia e appalti richiama un documento che sintetizza le conoscenze acquisite da magistrati inquirenti e investigatori, già nella prima metà del 1993, e quindi a pochi mesi dalle stragi siciliane e alla vigilia della nuova ondata di violenza stragista che avrebbe investito questa volte le città di Firenze, Roma e Milano, portando la guerra di Cosa nostra - e delle organizzazioni mafiose - allo Stato sul continente, sull’evoluzione del fenomeno delle collusioni politico-mafiose e affaristiche.

La richiesta di o.c.c. (poi accolta dal gip) avanzata il 17 maggio 1993 dalla Dda. Di Palermo nell’ambito del proc. n. 6280/92 N.C.- Dda. a carico di Riina Salvatore+24 per associazione mafiosa e altri reati connessi all’illecita gestione degli appalti vedeva coindagati, insieme a esponenti di spicco dei corleonesi (come Michelangelo La Barbera e i fratelli Brusca, Giovanni ed Emanuele, unitamente al padre Bernardo), imprenditori mafiosi o collusi locali e faccendieri vari (Buscemi Antonino, Martello Francesco, Salamone Filippo, Modesto Giuseppe, Zito Giuseppe, Lipari Giuseppe), ma anche esponenti della grande impresa italiana (come Claudio De Eccher e Vincenzo Lodigiani). E a proposito dell’atteggiamento omertoso e delle reticenze di tanti imprenditori che invece in analoghi e paralleli procedimenti istruiti dalle procure di altre regioni (e in particolare da quella di Milano) erano disponibili a collaborare con gli inquirenti, ivi si sottolinea che la peculiarità del fenomeno corruttivo in Sicilia era legato non solo alla presenza, ma anche al progressivo protagonismo di Cosa nostra.

L’organizzazione mafiosa, infatti, non si limitava più ad un’intermediazione parassitaria o ad un’attività di sistematica predazione, ma s’inseriva nel sistema, per dettare le proprie regole e condizioni ai vari comitati d’affari già operanti.

Sul versante delle indagini però la conseguenza era che “a differenza che in altre regioni d‘Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo dalla presente richiesta hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’A.g. I pochi disponibili a fornire utili informazioni all‘A.g. hanno limitato il proprio contributo conoscitivo al versante della corruzione politico-anininistrativa”, tentando in pratica di oscurare la peculiarità con cui il fenomeno si atteggiava in Sicilia: esattamente ciò che Paolo Borsellino un anno prima preconizzava in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992 (v. infra).

LE DICHIARAZIONI DI BRUSCA E SIINO

Nel processo Borsellino Ter (e anche nel Borsellino Quater se ne richiamano e risultanze) viene tratteggiato un lucido affresco ricavato dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca e Angelo Siino - sostanzialmente confermate nel presente processo - dei contrasti generati inizialmente dalla inedita pretesa di Cosa nostra di inserirsi con un ruolo attivo nelle collaudate pratiche di spartizione degli appalti basato su accordi di cartello con la partecipazione di amministratori e politici; e poi degli assestamenti interni al sistema c.d. del tavolino, che aveva ormai inglobato la terza gamba, rappresentata dalle imprese mafiose; nonché del tentativo di Riina di imporre l’impresa Reale che avrebbe dovuto scalzare I’Impresem di Filippo Salamone anche per subentrargli nei rapporti con i referenti politici, non avendo affatto l’organizzazione mafiosa rinunciato a ad aprire nuovi e più fruttuosi canali con la politica, neppure nel pieno della guerra dichiarata allo stato; ed essendo la cogestione del sistema illecito degli appalti un terreno fertili per la ricerca di nuovi legami e alleanze: 

«Il Brusca, pertanto, da prospettive diverse da quelle del Siino e quindi in modo autonomo, ha fornito un quadro sostanzialmente conforme dell’evoluzione dei rapporti creati da Cosa nostra con ambienti politici ed imprenditoriali per la gestione dei pubblici appalti.

Dopo una fase in cui l’organizzazione mafiosa si era occupata solo della riscossione delle tangenti pagate dagli imprenditori che si aggiudicavano gli appalti alle “famiglie” che controllavano il territorio in cui venivano realizzati i lavori, lasciando salvo qualche eccezione che fossero i politici ad individuare le imprese da favorire nella fase dell’assegnazione dell’appalto, il Siino era stato incaricato da lui di gestire per conto di Cosa nostra gli appalti indetti dall’Amministrazione provinciale di Palermo, di cui uno dei primi e più cospicui era stato quello riguardante la realizzazione del tratto stradale per San Mauro Castelverde.

Da allora il Siino si era occupato della gestione di tali appalti anche nell’ambito delle altre province, prendendo contatti con gli esponenti di vertice di Cosa nostra interessati in quei territori. Un momento cruciale era stato costituito dalla gestione degli appalti indetti dalla Sirap, di importo ben più consistente di quelli della Provincia e rispetto ai quali Cosa nostra era sino ad allora rimasta estranea alla fase dell’aggiudicazione. Allorché il Brusca aveva iniziato ad interessarsi ditali lavori tramite il Siino, si erano registrate delle resistenze da parte di alcuni politici, come il Presidente pro tempore della Regione Sicilia Rino Nicolosi. che sino ad allora aveva controllato tale gestione con l’intervento dell’imprenditore agrigentino Salamone Filippo, titolare dell’Impresem.

Per superare gli intralci burocratici con i quali si voleva impedire a Cosa nostra di gestire tali appalti, il Brusca era dovuto ricorrere al messaggio intimidatorio che era stato recepito, sicché si era raggiunto un accordo sulla base del quale il Salamone avrebbe continuato a gestire formalmente i rapporti con gli altri imprenditori mentre le decisioni sull’aggiudicazione dci lavori sarebbero state prese dal Siino per conto di Cosa nostra.

Da quel momento quell’associazione aveva anche esteso il proprio controllo sulla gestione degli appalti da quelli indetti dalla Provincia a tutti gli altri di ben maggiore importo indetti dalla Regione e da altri enti pubblici, lasciando al Salamone la cura dei rapporti con gli imprenditori ed i politici a livello regionale e nazionale ma riservando a sé il momento decisionale. In quello stesso tempo, intorno al 1988-89 era stata introdotta a carico degli imprenditori una quota tangentizia dello 0.80 per cento sull'importo dei lavori, che veniva prelevata dalla quota spettante ai politici e che veniva versata in una cassa centrale dell’organizzazione controllata dal Riina. Era però presto subentrata la volontà di creare dei rapporti diretti tra i gruppi imprenditoriali di livello nazionale ed alcuni esponenti politici nazionali, approfittando de controllo del sistema degli appalti per creare un’occasione di contatti in cui Cosa nostra avrebbe potuto dialogare da una posizione di forza.

Tale progetto prevedeva, quindi, l’accantonamento del Siino che con il consenso del Brusca venne relegato ad occuparsi degli appalti banditi dalla Provincia, solitamente di importo limitato e per i quali, quindi, non vi era interesse né degli imprenditori nè dei politici nazionali. Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a. del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore, dal quale aveva rilevato come prestanome l’impresa di calcestruzzi per sottrarla ai procedimenti di sequestro e confisca in corso a carico dei fratelli Buscemi nell’ambito delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale.

Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa nostra ai suoi massimi livelli. Intorno al 1991, infine, il Riina aveva detto al Brusca di considerare l’impresa di costruzioni Reale come una sua impresa, cosa che all’inizio lo aveva sorpreso perché il Riina non aveva mai voluto interessarsi direttamente di imprese ed anzi era ironico nei confronti di quegli “uomini d’onore” che lo facevano, ma aveva poi compreso che tramite la Reale il Riina voleva creare un “tavolo rotondo” di trattativa con i politici. La predetta impresa, che era stata in precedenza sull’orlo del fallimento, era stata salvata ed era adesso controllata da Catalano Agostino e Agostino “Benni” persone formalmente incensurate ma contigue alla loro organizzazione.

Tale impresa avrebbe dovuto sostituire I’Impresem di Salamone nel ruolo di cerniera con i gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi anche in associazione con loro gli appalti di maggiore importo e tale progetto era stato coltivato sino a quando nel 1997, a seguito della sua collaborazione, erano stati tratti in arresto il D’Agostino ed il Catalano nell’ambito di una nuova inchiesta su mafia ed appalti.

Il Brusca ha anche spiegato che da parte di Cosa nostra si era seguita con attenzione l’inchiesta del Ros che aveva dato luogo all’informativa del 1991 e che essi erano riusciti a venire in possesso di una copia della medesima, constatando che non vi erano coinvolti i personaggi di maggiore rilievo e che non si era approdati alla conoscenza degli effettivi livelli di interessi messi in gioco sicché, mancando un pericolo immediato, si era deciso di rinviare un intervento di Cosa nostra alla fase del dibattimento per aggiustare il processo.

Anche il Siino oltre a riferire sull’impresa Reale quanto già ricordato nella parte prima della motivazione allorché si è trattato della sua collaborazione, ha chiarito che la quota di quell’impresa intestata a D’Agostino ‘Benni” era in realtà di Buscemi Antonino e che vi erano altre quote del Catalano e dell’ingegnere Bini controllate da Cosa nostra. Ha inoltre confermato di aver avuto alcune pagine dell’informativa del Ros già nel febbraio del 1991, consegnategli dal maresciallo Lombardo, e che dopo una ventina di giorni l’Onorevole Lima gli aveva messo a disposizione l’intero rapporto, consentendogli di constatare che a lui era stato attribuito anche il ruolo del Salamone.

Già allora, parlandone con Lima, Brusca Giovanni e Lipari aveva saputo che il Buscemi non aveva nulla da temere dall’inchiesta, e, infatti, era poi stato arrestato insieme al Siino un geometra Buscemi che nulla aveva a che vedere con loro. Dalle dichiarazioni del Brusca e del Siino risulta, quindi, confermato l’interesse strategico che rivestiva per Cosa nostra la gestione degli appalti pubblici e la particolare attenzione con cui essa seguiva le inchieste giudiziarie condotte in tale settore, inchieste di cui essa veniva a conoscenza prima del tempo debito, sicché poteva modulare i suoi interventi, a seconda delle necessità, ancor prima che fossero emessi i provvedimenti giudiziari.

Occorre poi ricordare che l’organizzazione mafiosa in esame era a conoscenza del fatto che Falcone si interessava a tale settore e che aveva compreso il fondamentale passaggio del sodalizio criminale da un ruolo meramente parassitario, di riscossione delle tangenti, ad un ruolo attivo di compartecipazione nelle imprese che si aggiudicavano gli appalti anche in associazione con l’imprenditoria nazionale». SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

La strategia di Riina: guerra allo stato e nuove protezioni politiche. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 06 novembre 2022

La strategia stragista non era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi.

Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Il ruolo “storico” di Buscemi Antonino, quale imprenditore mafioso protagonista della penetrazione di Cosa nostra nei salotti buoni della finanza e dell’imprenditoria nazionale sarà messo a frioco nel procedimento - anche questo richiamato nella Relazione cit. su mafia e appalti — a carico dello stesso Buscemi Antonino+5 in relazione all’esistenza di un comitato d’affari sovraordinato a quello

facente capo ad Angelo Siino, e che sovrintendeva alla spartizione degli appalti di maggiore importo.

Ne facevano parte, insieme al Buscemi, anche Bini Giovanni, che curava gli interessi del Gruppo Ferruzzi e si interfacciava con gli ambienti dell’imprenditoria nazionale; Salamone Filippo, che curava invece i rapporti con gli imprenditori locali e i referenti politici ai quali veicolare le relative tangenti.

Il nome di Buscemi Antonino peraltro era stato segnalato come possibile socio del Gruppo Ferruzzi già nel primo rapporto del Ros su mafia e appalti. Ivi, il Buscemi veniva segnalato come imprenditore ramante, inserito nella Calcestruzzi Palermo, nella LA.SER.s.r.l. e nella FINSAVI s.r.l., società quest’ultima compartecipata al 50 per cento dalla Calcestruzzi di Ravenna, holding del Gruppo Ferruzzi.

Lo stesso nominativo era segnalato per una vicenda di partecipazioni incrociate e sospette compravendite di pacchetti azionari in un’informativa trasmessa per competenza dal sost. Proc. di Massa Carrara, dott. Lama, alla procura di Palermo nell’agosto del ‘91, in relazione a indagini sulla società I.M.E.G., riconducibile ai fratelli BUSCEMI. Ma il procedimento incardinato per 416 bis si concluderà con decreto di archiviazione, non essendo emersi indizi di reità per il reato di associazione mafiosa, al di là della certezza di cointeressenze societarie tra la Calcestruzzi del

Gruppo Ferruzzi, e quindi tra Raul Gardini e un imprenditore all’epoca “in odor di mafia”, come Buscemi Antonino, fatto salvo il sospetto di reati fiscali finalizzati alla creazione di provviste occulte da destinare al pagamento di tangenti.

La Calcestruzzi di Ravenna sarà peraltro indicata dal pentito Messina Leonardo, in uno dei primi interrogatori resi al dott. Borsellino, come società in qualche modo entrata in rapporti con Riina.

Quanto alla Reale costruzioni, sarebbe stato il passepartout voluto da Riina per entrare nel Gotha dell’imprenditoria nazionale, ne erano soci Reale Antonino, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano, quest’ultimo consuocero di Vito Ciancimino. Ma socio occulto era proprio Buscemi Antonino.

A dire di Brusca, uno dei personaggi più importanti era però proprio Agostino Catalano. Nelle intenzioni di Riina, in sostanza, la Reale costruzioni avrebbe dovuto scalzare la Impresem di Filippo Salamone nel ruolo di cerniera con i grandi gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi, anche mediante A.T.I., gli appalti di maggiore importo. Questo progetto in effetti non si arenò con la cattura di Riina, ma proseguì, evidentemente con altri registi, almeno fino al 1997, quando le rivelazioni di Brusca e poi la collaborazione formalizzata da Siino consentirono di squarciare il velo sul ruolo di imprenditori insospettabili come Benny D’Agostino e Benedetto Catalano.

Di un sorprendente esito delle indagini patrimoniali espletate in procedimenti apparentemente non collegati tra loro (come quelli aventi ad oggetto, rispettivamente, vicende di corruzione/concussione e traffico di droga) v’è traccia nella richiesta di archiviazione del procedimento mandanti bis e nella testimonianza del senatore Di Pietro e nelle sentenze di merito del processo sull’attentato all’Addaura. 

LA PISTA ELVETICA

Si accertò infatti che erano stati accesi presso istituti di credito e banche elvetiche dei conti “di servizio” nella disponibilità di finanzieri e faccendieri su cui confluivano i flussi di denaro provenienti dal traffico di droga. Ad occuparsene, secondo il pentito Vito Lo Forte erano Gaetano Scotto e Vincenzo Galatolo, della famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Gli inquirenti ipotizzarono che qui potesse risiedere il movente dell’attentato all’Addaura: colpire i magistrati svizzeri che cooperavano con Falcone nell’inchiesta su quel riciclaggio. Ma si adombrò pure l’ipotesi (v. pag. 236 della sentenza emessa il 27.03.2000 nel processo di primo grado per l’attentato all’Addaura e fg. 35-36 della richiesta 9 giugno 2003 e successivo decreto di archiviazione in data 19 settembre 2003 del procedimento istruito dalla procura distrettuale di Caltanissetta a carico dei presunti mandanti occulti delle stragi, c.d. “mandanti occulti bis”) che quei conti svizzeri non fossero soltanto terminali del riciclaggio di capitali mafiosi, ma servissero altresì a costituire fondi neri da destinare come provvista delle imprese interessate al pagamento delle tangenti ai politici.

È plausibile allora anche sotto questo aspetto che l’interesse manifestato da Paolo Borsellino per le indagini sull’intreccio mafia/appalti si saldasse alla sua determinazione a fare luce sulla vera causale della strage di Capaci, avendo egli ripreso l’intuizione che già era stata di Giovanni Falcone circa un possibile link tra i due movimenti di denaro illecito: riciclaggio di capitali sporchi e pagamento delle tangenti. In sostanza, chi gestiva quei conti, era al centro di un crocevia di traffici illeciti e quindi partecipava di entrambi. Ma ciò voleva dire che i capitali mafiosi, almeno in parte, servivano anche ad ungere i rapporti con la politica, anche se tale compito era affidato ad appositi faccendieri.

E il senatore Di Pietro ha confermato che Borsellino era convinto che esistesse un sistema nazionale di spartizione degli appalti, cui si uniformavano le cordate di imprenditori operanti nei vari territori e li si trovava anche la chiave della formazione delle tangenti (che era l’aspetto che più premeva all’allora sost. proc. Di Pietro approfondire: scoprire il luogo e il meccanismo di formazione delle provviste da destinare).

Peraltro, l’acquisita compartecipazione di Cosa nostra al sistema di spartizione degli appalti, ovvero un sistema di potere radicato in Sicilia ma con propaggini sul territorio nazionale (come sarebbe dimostrato dall’inchiesta della procura di Massa Carrara sulle cointeressenze societarie di un imprenditore che solo successivamente si accerterà essere organico a Cosa nostra come Buscemi Antonino e società del Gruppo Ferruzzi) capace di intercettare e redistribuire ingentissime somme di denaro pubblico, come i mille miliardi di lire per la realizzazione di insediamenti produttivi prevista dai finanziamenti in favore della Sirap, farebbe pensare alla ricucitura di un patto occulto di scellerata alleanza o di proficua coabitazione tra organizzazione mafiosa e mondo politico.

Ma ciò non è affatto in contraddizione con la guerra allo Stato, cioè con l’offensiva scatenata dai corleonesi contro le Istituzioni.

 È chiaro infatti che la guerra dichiarata da Riina era diretta contro lo Stato e le sue leggi, mentre il sistema di potere incentrato sulla cogestione illecita degli appalti si fondava su una sotterranea intesa con pezzi infedeli dello Stato e delle istituzioni politiche ed economiche, e cioè politici corrotti, amministratori e funzionari infedeli, imprenditori collusi. Né la strategia stragista era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi. Da un lato, infatti, essa ne creava le premesse indispensabili, quali l’annientamento dei nemici giurati di Cosa nostra, che avrebbero impedito l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica; e l’eliminazione dei vecchi referenti che avevano voltato le spalle all’organizzazione mafiosa, che servisse anche da monito per quanti fossero stato risparmiati o per quanti si fossero prestati a ricucire rapporti con Cosa nostra.

Ma dall’altro - ed è questa l’indicazione che proviene, sia pure con accenti diversi, dalla maggior parte dei collaboratori di giustizia che hanno saputo riferirne: Brusca, Cancemi, Giuffé, Sinacori, Malvagna, Messina, Pulvirenti, Avola: cui si sono aggiunti in questo processo Palmeri Armando e alcuni collaboratori di giustizia provenienti dalle fila della ‘ndrangheta calabrese — essa doveva costituire, nelle intenzioni dei suoi artefici, lo strumento più efficace per propiziare l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Falcone, Borsellino e le indagini sui grandi appalti in odor di mafia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 07 novembre 2022

Secondo i giudici d’appello: «Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dottoressa Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata...»

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Questo era dunque la reale dimensione e natura degli interessi in gioco, sullo sfondo delle due stragi siciliane, e di quella di via D’Amelio in particolare.

Ma l’obiezione più calzante e meritevole di attenzione che la sentenza qui impugnata muove alla tesi difensiva (secondo cui sarebbe stato il timore di un approfondimento dell’indagine mafia appalti a causare un’accelerazione dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio: ammesso che tale accelerazione vi sia mai stata) è che non vi sarebbe prova che Cosa nostra sapesse dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quel tema d’indagine; e del suo proposito di riprendere e approfondire l’indagine a suo tempo curata dal Ros, mettendo a frutto le conoscenze acquisite e sviluppando le intuizioni e le indicazioni che gli erano state trasmesse dal collega e grande amico Falcone.

Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dott. Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata con la quale Falcone rammentava all’amico Paolo che adesso toccava a lui seguire gli sviluppi dell’indagine compendiata nel rapporto “mafia e appalti” del Ros

È anche vero che Borsellino ne aveva parlato ripetutamente, e non solo come tema di dibattito conviviale (come in occasione della cena romana, tre giorni prima che il magistrato venisse ucciso, di cui hanno parlato il dott. Natoli e l’on Vizzini), ma come programma di lavoro (con Antonio Di Pietro, con il quale, in occasione dei funerali di Falcone, si incontrarono ed ebbero uno scambio di idee sul tema, ripromettendosi di vedersi proprio per mettere a punto un piano di coordinamento delle rispettive indagini), e come oggetto di una futura delega d’indagine riservata della quale i carabinieri del Ros avrebbero dovuto riferire soltanto a lui. E decine e decine di volte, come ricorda l’allora procuratore Aggiunto Aliquò, avevano discusso in procura della rilevanza di questo tema d’indagine, ossia l’intreccio tra le attività delle cosche mafiose e il sistema di gestione illecita degli appalti, e dell’ipotesi che vi potesse essere un nesso con la causale della strage di Capaci (e poco importa che, a dire dello stesso Aliquò, non si fossero trovati elementi concreti che la suffragassero, poiché ciò che si ricava dalla sua testimonianza è che il dott. Borsellino fosse seriamente interessato a quell’ipotesi investigativa e a verificarne l’attendibilità tale ipotesi). 

E come si vedrà in prosieguo, in occasione di una tesa riunione tra tutti i magistrati della procura della Repubblica di Palermo, tenutasi — per volere del procuratore Giammanco — il 14 luglio ‘92 per fare il punto sulle indagini più delicate (e per tentare di sopire le polemiche esplose a seguito di velenose campagne di stampa su presunti insabbiamenti: v. infra), il dott. Borsellino non è chiaro se già al corrente o ancora ignaro che il giorno prima il procuratore Giammanco aveva apposto il proprio visto alla richiesta di archiviazione per le posizioni che restavano da definire nell’ambito dell’originario procedimento n. 2789/90 N.C. a carico di “Siino Angelo+43” (quello oggetto del rapporto “mafia e appalti” esitato dal Ros Nel febbraio 1991) chiese chiarimenti e ottenne di aggiornare la discussione sulle determinazioni che l’Ufficio avrebbe dovuto adottare in merito, a riprova del suo concreto interesse per tale indagine.

Ma che il dott. Borsellino fosse in procinto di dedicarsi a questo tema d’indagine, partendo dal dossier mafia e appalti, e che vi annettesse una rilevanza strategica, nella convinzione che avrebbe potuto condurre fino ai santuari del potere mafioso e forse anche a fare luce sulla strage di Capaci, non erano certo notizie di pubblico dominio, né trapelavano in modo esplicito dalle pur frequenti esternazioni pubbliche alle quali lo stesso Borsellino si lasciò andare nei giorni e nelle settimane successive al 23 maggio ‘92.

E sarebbe un rimestare nel torbido se si indugiasse sui sospetti di collusione dell’allora maresciallo Canale— che certamente era a conoscenza dell’interesse di Borsellino per quel terna d’indagine così come del fatto che avesse voluto un incontro riservato con Mori e De Donno per ragioni inerenti a quell’indagine — dopo che lo stesso Canale è uscito assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, nonostante le infamanti propalazioni di Siino (che da lui, o anche da lui sarebbe stato informato delle indagini a suo carico e avrebbe avuto poi una copia dell’informativa del febbraio 1991, secondo quanto Brusca dice di avere saputo appreso dallo stesso Siino).

LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI

Dal versante interno a Cosa nostra, ovvero dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più addentro agli arcana imperii dell’organizzazione mafiosa, sono venute indicazioni non sempre chiare e univoche.

Antonino Giuffrè, interrogato sulle ragioni dell’uccisione di Borsellino, dopo avere ribadito il discorso stragistico della resa dei conti contro i nemici giurati di Cosa nostra, sia nel dottore Falcone, che il dottore Borsellino, che risaliva sempre all’ormai nota riunione di Commissione del dicembre ‘91, ha aggiunto che nella decisione di uccidere Borsellino ha pesato moltissimo, assieme al discorso della sentenza del Maxi, anche questo discorso su mafia e appalti: «se il discorso del Maxi processo è un discorso dove troviamo principalmente dei mafiosi, nel contesto mafia e appalti troviamo altri discorsi di una cera gravità, cioè che vengono fuori quei legami appositamente extra dal inondo mafioso, con alti-e entità, quali imprenditori... Quindi è un discorso abbastanza destabilizzante perché se è vero come è vero che ho detto è una delle attività più importanti di Cosa nostra da un punto di vista economico, ma non solo, non solo, perché permette di creare degli agganci con personaggi che io ho sempre sottolineato questo discorso, importanti della vita italiana anche da un punto di vista politico, cioè, si sfruttano anche il contesto imprenditoriale per creare degli agganci in altri settori dello Stato».

Ed a specifica domanda (le risulta che in Cosa nostra si ebbe notizia che il dottore Borsellino forse stava diventando più pericoloso pure del dottore Falcone, specificamente in questo campo degli appalti?) ha confermato che in effetti «l‘unica persona che era in grado, o una delle poche, per meglio dire, che era in grado di leggere il capitolo sull‘uccisione del dottore Falcone, era il dottore Borsellino. Quindi (....) sono stati messi tutti e due candidati ad essere uccisi, appositamente già si sapeva che erano, come ho detto in precedenza, dei nemici giurati di Cosa nostra, e non vado oltre».

In altri termini, prima di Borsellino già Falcone era stato ucciso non soltanto perché nemico giurato di Cosa nostra ma anche per una ragione più recondita, legata al suo impegno nei portare avanti le indagini in materia di mafia e appalti. E di riflesso, anche Borsellino doveva essere ucciso non solo per vendetta, ma perché nessuno meglio di lui avrebbe saputo individuare la giusta chiave di lettura della strage di Capaci, che andava oltre le finalità dichiarata di vendicarsi.

Alla domanda se risultasse, all’interno di Cosa nostra, che il dott. Borsellino volesse fare indagini in terna di appalti, dopo la morte di Falcone, Giovanni Brusca, all’udienza del 12.12.2013, ha dato una risposta evasiva, limitandosi a dire che «era uno dei temi che più si dibatteva, però notizie così, generiche, dettagliatamente non ne conosco». Gli è stato contestato quanto aveva risposto alla stessa domanda fattagli all’udienza del 23.01.1999, nel proc. Borsellino ter; ma il collaborante, implicitamente confermando le pregresse dichiarazioni, non ha ritenuto di aggiungere nulla a chiarimento. Resta quindi confermato che, a suo dire, si seppe all’interno di Cosa nostra che il dott. Borsellino «dopo la morte del dott. Falcone voleva vedere sia perché era stato ucciso e voleva continuare quello che il dottore Falcone stava facendo (...) Tra Capaci e via D'Amelio credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottore Borsellino vuole sapere, vuole scoprire clv ha ucciso, perché ha ucciso il dottore Falcone e riuscire a capirlo attraverso indagini che stava facendo, su cosa stava lavorando».

[…] Da queste tormentate acrobazie verbali sembrerebbe evincersi che solo attraverso conoscenze acquisite nei vari processi successivi si comprese che le ragioni per cui furono uccisi Falcone e Borsellino, a parte il fine di vendetta, avevano a che vedere anche con gli appalti o comunque con le attività giudiziarie che i due magistrati uccisi stavano portando avanti. Ma sollecitato a chiarire le sue affermazioni, Brusca, in quella sede, puntualizzava che chi lo aveva interrogava nel precedente processo (il Borsellino ter) cercava una conferma all’ipotesi che Falcone e Borsellino fossero stati uccisi per l’attività d’indagine su mafia e appalti, «cosa che per me non esiste, può darsi magari per altri si».

In realtà, ciò che vuole dire Brusca non è dissimile da quanto ha dichiarato Giuffré: c’era una verità ufficiale, all’interno di Cosa nostra, secondo la quale Borsellino doveva morire, così come Falcone, perché entrambi nemici giurati dell’organizzazione mafiosa e artefici del mai processo che tanto danno aveva provocato per gli interessi mafiosi, a cominciare dalla demolizione del mito dell’impunità. Ma c’era anche una ragione non dichiarata e più profonda, che rimandava proprio al rilievo strategico che il settore degli appalti aveva per gli interessi mafiosi.

E posto che la strage di Capaci aveva come finalità recondita anche quella di bloccare le indagini sul sistema di spartizione degli appalti, o sviarle, il fatto stesso che Borsellino fosse assolutamente determinato a venire a capo non solo dell’identità dei responsabili della strage di Capaci, ma anche della sua vera causale (segno che riteneva che la finalità ritorsiva non fosse l’unica ragione), come andava dicendo pubblicamente, sicché Cosa nostra ne era a conoscenza senza bisogno di ricorrere a talpe o infiltrati, ne faceva un obbiettivo primario da colpire, non meno di Falcone.

E in tal senso al “Borsellino Ter lo stesso Brusca era stato molto chiaro: «tra Capaci e via d’Amelio, credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottor Borsellino vuole sapere... vuole sapere, vuole scoprire chi ha ucciso, perché ha ucciso il dottor... il dottor Giovanni Falcone e riuscire a capirlo attraverso le indagini che stava facendo, su che cosa stava lavorando (...) io con Salvatore Riina di questo qua non ne ho più parlato, io lo apprendo dal.. come un normale cittadino, come tutti gli altri, che lui vuole andare avanti, lo dice pubblicamente, lo grida, cioè lo esterna... dottor Di Matteo, non è che c’è bisogno che te lo devono venire a dire a confida... in confidenza».

E sempre in questo senso si può convenire che l’interesse che il dott. Borsellino nutriva per l’intreccio mafia e appalti come tema d’indagine da approfondire era motivo di allarme per Cosa nostra non perché ne fosse venuta direttamente a conoscenza, ma già per il fatto che egli intendesse scoprire la vera causale della strage di Capaci (non solo chi ha ucciso, ma perché ha ucciso),e intendeva comunque ripartire dalle ultime indagini che l’amico Giovanni aveva curato prima di trasferirsi al Ministero (tra cui proprio quella su mafia e appalti): e questo proposito era ormai notorio. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Giustizia fanta-horror. Il reato di lesa maestà di Mani Pulite e la libertà di parola di chi non è magistrato. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2022

Tre ex pm si sono offesi per un articolo di giudizio storico-critico sul carattere eversivo della cultura di Tangentopoli, ma in passato uno di loro non si è fatto problemi con i parlamentari della Bicamerale

È passato quasi un quarto di secolo, ma molti ancora ricordano l’intervista di Gherardo Colombo a Giuseppe d’Avanzo sul Corriere della Sera del 22 febbraio 1998, in cui il pm della procura milanese fece esplodere una vera e propria bomba sotto il tavolo della Commissione Bicamerale per le riforme presieduta da Massimo D’Alema.

La tesi sostenuta da Colombo era che la riforma della Repubblica, cui la Commissione stava mettendo mano, fosse figlia della “società del ricatto” che univa in un patto occulto forze politiche e organizzazioni criminali e dunque che il tentativo di riscrivere la seconda parte della Costituzione, facendo una serie di riforme in materia di giustizia, rispondesse alla necessità di quella “società” di occultare gli scheletri del passato. «La nuova Costituzione può avere come fondamento quel ricatto». 

A D’Avanzo, che gli chiese esplicitamente se intendesse la Bicamerale come «la strada obbligata per chi, partecipe degli illeciti di ieri, oggi è obbligato a scegliere l’accordo», Colombo rispose in modo molto sincero: «È detto in modo un po’ brutale, ma è quel che penso. Ecco perché, a mio avviso, la Bicamerale deve anche affrontare la questione della giustizia».

Non ricordo tutto questo per discutere se abbia qualche pregio o fondatezza storica la tesi di Colombo sul filo rosso criminale che legava la mediazione della mafia per facilitare lo sbarco degli alleati in Sicilia nel 1943, la trattativa con la camorra per la liberazione di Ciro Cirillo, i fondi neri dell’Iri e la P2 alla proposta di separazione delle carriere dei magistrati inutilmente negoziata nella Bicamerale D’Alema. La cosa che mi interessa rilevare è che questi addebiti oggettivamente pesantissimi non solo rispetto al sistema dei partiti, ma soprattutto rispetto ai membri della Bicamerale chiamati ad attuare, per così dire, l’estorsione criminale trasfigurandola e sigillandola in innovazione costituzionale, fossero da Colombo presentati come un fattivo contributo alla discussione: «Le mie considerazioni non vogliono (come è ovvio) e non potrebbero (come è giusto) condizionare il lavoro del Parlamento nella riscrittura della seconda parte della Costituzione. Le mie sono soltanto osservazioni di carattere generale sul tema della giustizia e dei modi di amministrarla».

Malgrado le polemiche politiche, gli imbarazzati distinguo dell’Associazione nazionale magistrati e l’avvio di un’azione disciplinare, da cui Colombo uscì prosciolto, sul presupposto che si trattasse di opinioni compatibili con il suo ufficio di magistrato, la cosa che ai nostri fini importa è che Colombo non fu mai processato né condannato per avere calunniato o diffamato i parlamentari della Bicamerale, né i vertici politici impegnati a trovare un accordo dettato dalla “società del ricatto”.

Allora perché Colombo, insieme a due ex colleghi del pool milanese, Davigo e Ramondini, si è sentito personalmente diffamato da un articolo di Iuri Maria Prado su Il Riformista che descrive l’epopea di Mani Pulite, a partire dalla stessa denominazione, come una pagina di «terrore giudiziario… civilmente osceno e democraticamente blasfemo» e dichiara che la «cultura di Mani pulite, la brutalità proterva dei suoi modi e la buia temperie che li festeggiava furono e rimangono la vergogna della Repubblica», e che «svergognata» è la magistratura «che ne rivendica la paternità»? Un giudizio storico-critico sul carattere eversivo della cultura di Mani Pulite è più penalmente sensibile di un giudizio escatologico sulla trappola criminale che imprigionava la Bicamerale?

Dopo la querela presentata dai tre (due ex) magistrati, la Procura di Brescia, territorialmente competente, aveva chiesto l’archiviazione per Prado, sulla base del pacifico presupposto che il diffamato non è chi si senta offeso, in quanto parte di una categoria o di un gruppo sociale, dalle parole di qualcuno, ma quello cui la presunta offesa sia personalmente e inequivocabilmente rivolta. Insomma, Prado, chiamando in causa in quei termini l’esperienza di Mani Pulite non ha diffamato i membri del pool più di quanto Colombo un quarto di secolo fa avesse diffamato i membri della Commissione Bicamerale o i segretari e i dirigenti dei partiti del tempo, dicendo che la riforma costituzionale in preparazione era figlia di un ricatto criminale. Con una differenza rilevante: che Prado, diversamente da Colombo, non si è mai riferito a questo o quello specifico atto di ufficio di questo o quel magistrato, ma al clima e alla cultura del tempo e ai pubblici atteggiamenti di chi, fuori e dentro la magistratura, vi operava.

Il Gip di Brescia, contro la richiesta del pm, ha invece disposto l’imputazione coatta di Prado ritenendo che il combinato disposto della dicitura “Mani pulite” contenuta nel titolo (non scelto dall’autore) e nel testo dell’articolo, il riferimento al «manipolo meneghino di pubblici ministeri» e un’immagine di repertorio usata dal giornale a corredo dell’articolo (non scelta dall’autore), relativa a uno dei tre querelanti, cioè Colombo (l’unico citato per nome da Prado come «ottima persona»), permettano «in termini di ragionevole certezza di individuare in modo inequivoco i destinatari delle affermazioni diffamatorie negli odierni querelanti». In modo inequivoco, eh! 

Il Gip inoltre qualifica come in sé diffamatorio il riferimento a una «eversione giudiziaria organizzata» (anch’esso si suppone inequivocabilmente riservato ai tre querelanti) interpretando il termine “eversione” in un senso tecnico-criminale, e non nello stesso senso figurato e iperbolico per cui è consentito da decenni agli esimi rappresentanti della magistratura italiana – querelanti compresi – di qualificare come eversive o direttamente piduiste alcune proposte di riforma della giustizia, partendo – visto che tutto torna? – dalla separazione delle carriere di magistrati. 

Peraltro, per chi avrà la pazienza di leggerlo, risulterà chiaro che nell’articolo di Prado l’eversione contestata alla cultura di Mani Pulite riguarda soprattutto la proiezione extra-giudiziaria dei magistrati militanti e televisivi e la loro sinistra postura da soprastanti del potere politico-legislativo e da Consiglio dei Guardiani della morale della Repubblica.

L’articolo di Prado parla insomma di una temperie storica isterizzata e fanatizzata, di uno spirito pubblico avvelenato, di una cultura del chiedere e del fare giustizia che ha, a parere dell’autore e pure modestamente dello scrivente, irrimediabilmente corrotto la nozione e pervertito il funzionamento del sistema penale. 

Non addita le responsabilità di nessuno, ma chiama in causa quelle di tutti (non dei soli magistrati), in quella gigantesca autobiografia nazionale che si iniziò a scrivere nei corridoi delle procure, dilagò nelle piazze delle monetine contro il delinquente del Raphael che doveva marcire nelle patrie galere e infine giunse, con il maiosmo politico-giudiziario del Movimento 5 stelle, ad accomodare i peggiori e ultimi epigoni della retorica manipulitista ai vertici dello Stato. 

Prado scrive di tutto questo nello stesso modo risentito e scandalizzato con cui il “diffamato” Colombo un quarto di secolo prima faceva requisitorie in prima pagina, senza paura di scandalizzare e di diffamare (e senza timore di querele, ipotizziamo), sull’Italia della Bicamerale.

Il processo che si chiede contro Prado ha quindi molteplici profili di interesse e altrettanti di allarme. Sarà interessante verificare se per il giudice di Brescia la libertà di parola, di iperbole e di metafora dei non magistrati sia almeno pari a quello dei magistrati e se la diffamazione “categoriale” valga solo per questi ultimi o magari anche per i politici o per i giornalisti o (Prado non è né un politico, né un giornalista) per i cittadini civilmente impegnati, così da aprire nuove e funeste pagine di giurisdizione fanta-horror. 

Ma questo processo sarà anche interessante per capire se quelle cartelline “per una serena vecchiaia”, in cui Davigo dice di collezionare le querele e le richieste di risarcimento per le diffamazioni a mezzo stampa, interesseranno anche quella parte dell’informazione italiana che le querele da Davigo proprio non le rischia, ma farebbe bene comunque a preoccuparsene. Infatti a funzionare come “querele bavaglio”, con un effetto, neppure con un proposito, intimidatorio, non sono solo le querele minacciate dai politici – si pensi al notissimo e recentissimo caso del Ministro Crosetto – ma, da parecchi anni, anche quelle largamente dispensate dai magistrati a chiunque metta in dubbio la maestà delle loro persone o addirittura, come in questo caso, del fenomeno storico-politico di Mani Pulite.

Francesco Melchionda per perfideinterviste.it il 27 luglio 2022.

“Vuoi pure queste, Bettino, vuoi pure queste…” Era il 30 aprile del Novantatré, l’Italia sull’orlo del precipizio, e Craxi, il capro espiatorio di ogni male italicus. Quella sera, quando il corpo imponente di Bettino lasciò l’hotel Raphael, a pochi passi da piazza Navona, nel cielo già terso e primaverile della Capitale, il grido dei manifestanti divenne feroce. 

Avevo 13 anni, e a cena il nonno, vedendo le immagini mandate in onda da mamma Rai, non la smetteva di dire: ma che sta succedendo a Roma? Capivo nulla di politica, ma quelle urla, quelle monete sonanti che volavano sulla testa e sul corpo del gran capo socialista, mi rimasero impresse. Anche dalla provincia povera e, per certi versi, ignorante e retrograda, si capiva che la slavina stava prendendo forza e velocità e che avrebbe travolto la vecchia politica e tutti i mammasantissima del Palazzo.

A distanza di quasi trent’anni, sembra tutto sbiadito, per certi versi evaporato. La storia ha preso il sopravvento sulla cronaca. I politici della Prima Repubblica morti e sepolti e dimenticati. I partiti? Liquefatti. Le sezioni? Chiuse per sempre. 

In un Paese che non ha mai amato coltivare il vizio del ricordo, qualcuno, però, ancora si ostina a lucidare la recente storia patria… 

E così, in un sabato torrido, decido di lasciare la canicola e la sporcizia romane, per salire dalle parti di Orbetello, e raggiungere il buen ritiro di Stefania Craxi, la vera combattente della famiglia. 

A pochi metri dalla sua dimora, la sinistra borghese e noiosa, quella che si dà di gomito nei premi letterari e nelle stanze del potere capitolino, è sdraiata all’Ultima Spiaggia di Capalbio. 

La chiacchierata comincia quasi con una colazione e finisce a pranzo. 

Stefania Craxi non ha il viso pacifico, e pacificato, anzi. Quando i ricordi, ineluttabili, salgono su, fin negli anfratti più resistenti e respingenti della memoria, si rabbuia. I segni del dolore e della rabbia sono palmari, nonostante il sorriso contagioso. 

Con Tangentopoli – o la “falsa rivoluzione”, come l’ha più volte definita – Stefania Craxi non ha smesso di fare i conti, anzi. Appena può, prova a richiamare tutti alle loro responsabilità; appena può, rispolvera e riapre il vaso di Pandora, con i tradimenti, le colpe, le dimenticanze, le prese di distanze, di tutti, o quasi: socialisti, comunisti, democristiani, giudici e giornalisti…

Ripensando al suo j’accuse, una domanda, nei giorni successivi, mi ha accompagnato: riuscirà la Storia, una volte per tutte, e senza gli occhiali della ideologia, a chiarirci chi è stato veramente Bettino Craxi, e cosa ha rappresentato per il nostro Paese…? 

Stefania, cominciamo subito questa intervista con il botto: dov’era la sera del 30 aprile 1993, quando suo padre Bettino fu subissato di monetine dinanzi all’hotel Raphael?

Purtroppo non ero con lui, non mi trovavo a Roma, ma quella sera me la ricordo perfettamente. Ero a letto, a casa, perché incinta della mia terza figlia; una gravidanza che mi stava dando non pochi problemi. In serata, all’ora di cena, accendo la tivù e leggo sul Televideo di questo episodio assurdo, barbaro, un’aggressione squadrista, come l’avrebbe definita lui stesso.

A Giuliano Ferrara, che lo intervista poco dopo, in quello stesso pomeriggio, nel suo programma L’Istruttoria, e che gli chiede se ha avuto paura, Craxi risponde che no, non ha avuto paura, che ha provato solo vergogna per loro. 

E nonostante il suggerimento degli uomini della sicurezza, che lo invitano a uscire dal retro, Craxi decide di varcare il portone principale del Raphael, si infila in macchina, alza lo sguardo fiero. Alle 10 della sera, riesco finalmente a sentirlo; mi trova scossa, turbata, in lacrime. Stefania, mi dice, ricordati che una Craxi non piange. Il suo messaggio era chiaro: sei nata in una famiglia politica, quella politica che ha a che fare con la vita e con la morte, devi saper affrontare i momenti difficili che verranno.

Che emozioni provò? 

Rabbia, impotenza, un senso di ingiustizia, rammarico, forse, per non essere stata lì con lui. 

Che bambina era? 

Una bambina che ha amato trascorrere tanto tempo con suo padre… 

Addirittura. 

Da bambina, capii una cosa importantissima: se volevo relazionarmi con lui, dovevo imparare, e in fretta, il linguaggio della politica. Per questo amavo ascoltarlo tantissimo. Il fine settimana, quando tornava da Roma, io non uscivo con i miei amici fino a quando non capivo che mio padre non mi avrebbe portato con sé. Sentivo il respiro della Storia. Ma ricordo anche momenti intimi, per esempio, quando prendevamo la metropolitana e andavamo a San Siro, a vedere le corse dei cavalli. 

Perché suo padre scelse di vivere in un albergo? 

Non lo considerava un albergo: era di proprietà di uno dei suoi più cari amici, Spartaco Vannoni, personaggio straordinario e uomo coltissimo. Era stato in passato una spia della Stasi, poi divenne anticomunista. Mio padre ha sempre ritenuto Roma una città provvisoria, di passaggio, per la sua vita. E anch’io, in realtà, quando scendevo a Roma, consideravo il Raphael una seconda casa.

Quando le capita di passargli vicino, cosa prova? 

Faccio fatica a spingermi fino a largo Febo, i ricordi e le emozioni si rincorrono velocemente, sono ancora molto forti. Oggi, poi, essendo stato ristrutturato, la stanza di papà non c’è più. Una volta, ricordo, ebbi uno scontro con Filippo Ceccarelli, il quale, dalle colonne di Repubblica, scrisse che la camera di mio padre fosse lussuosa. Ma era vero l’esatto contrario. Possibile, gli dissi, che a nessuno dei giornalisti di Repubblica sia mai venuto in mente di intervistare Craxi nella sua camera? Solo Giampaolo Pansa, dalle pagine di Libero, rispose dandomi ragione.

Ha mai provato a mettersi nei panni e nella testa di quelli che lanciarono le monetine? Non erano mica tutti facinorosi e pazzi…  Lei, giustamente, pensava alle sorti di Bettino, loro, invece, al bottino e alle mazzette che, ogni giorno, spuntavano fuori. 

La campagna mediatica fu violenta, mistificatoria, denigratoria, e non stento a credere che le persone comuni possano avere creduto in toto a quello che leggevano sui giornali. Una cosa, però, ancora me la chiedo: perché da destra mi hanno chiesto scusa, e da sinistra ancora no? I leader della sinistra dovrebbero porsi una domanda: come mai l’elettorato socialista è confluito tutto nel centro-destra? 

Lo faranno, secondo lei? 

Finché c’è vita, c’è speranza… 

Che fine ha fatto il tesoro del partito socialista? L’ha mai chiesto a suo padre? 

Mio padre non si occupava della gestione amministrativa del Psi. In quel periodo ce n’erano tanti, di conti; e ogni corrente poteva disporre di denaro; qualcuno, probabilmente, sarà sparito, altri, invece, riposano in qualche banca, chissà. 

È stato un grave errore quello di aver lasciato fare… Un segretario di partito non può lasciare che fiumi di denaro scorrano senza lasciare tracce, senza controllo. È d’accordo?

Le rispondo con le parole che Bettino Craxi consegnò a Sergio Zavoli, che lo andò a intervistare ad Hammamet: ''Io, probabilmente, ho sopravvalutato il mio ruolo, la mia personalità, la mia capacità di tenere in mano, saldamente, le cose…C’erano circostanze di cui avevo perso completamente il controllo…Erano situazioni che andavano degenerando, a volte infracidendo''.  

Martelli ha dichiarato pubblicamente di aver restituito la bellezza di 550 milioni di lire, e suo padre, invece, no…

Perché non è stato chiesto ai prefetti di Milano, che non potevano non saperlo, qual era il tenore di vita di Craxi e dei suoi familiari? Mia madre, con il marito presidente del Consiglio, andava in Corso Vercelli a fare la spesa in tram. Mio padre non possedeva tutti quei soldi. Cosa avrebbe dovuto restituire? Tutti sapevano che Craxi aveva uno stile di vita per nulla sfarzoso e, del resto, sarebbe bastato chiederlo agli uomini della sua scorta, che gli stavano accanto 24 ore su 24. 

Perché non ha mai sopportato Martelli? Eppure era la punta di diamante del partito… Era invidiosa della sua brillantezza, intelligenza, dell’ascendente che aveva su suo padre?

Stimo Martelli per la sua intelligenza e per la capacità di analisi politica che ancora oggi farebbe bene a questo Paese. Ma a Claudio ho sempre detto, guardandolo negli occhi, che ha commesso un grandissimo errore, umano prima ancora che politico, ad abbandonare il segretario nel momento peggiore, quando il Psi stava fronteggiando l’avanzata di truppe assedianti, quelle giudiziarie e quelle mediatiche in primo luogo. 

Una volta ha detto: senza mio padre, Amato sarebbe ancora un professore universitario. Che cosa le ha fatto il dottor Sottile? Lo reputa vigliacco, fariseo, arrivista? 

Giuliano Amato è un uomo di grande esperienza, non gli mancano né le qualità e neppure l’intelligenza. E infatti è stato uno degli uomini più vicini a Craxi, suo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nonché fra i massimi dirigenti del partito, commissario del Psi a Torino o a Milano quando scoppiava qualche grana. Dopodiché pongo una domanda: come mai il vice di Craxi viene periodicamente indicato come potenziale candidato alla presidenza della Repubblica, mentre mio padre dovette seguire la via dell’esilio? O sono manigoldi entrambi o entrambe sono delle brave persone… 

E De Michelis? 

Gianni è stato un politico di grande statura, un uomo di profondo spessore culturale, capace di anticipare con le sue analisi alcune delle dinamiche geopolitiche che avremmo vissuto negli anni successivi. E fu una persona vera; quando mio padre morì, le sue lacrime furono vere… 

Quante lacrime di coccodrillo ha visto cadere alla morte di Craxi? 

Tante, tantissime… 

Ci faccia qualche nome. 

Beh, tutti quelli che, per esempio, non sono mai venuti ad Hammamet. 

Chi erano le troie di regime, per dirla con De André, che affollavano le cene e i congressi? Se le ricorda? 

I congressi, e poi l’Assemblea Nazionale del Psi, rappresentano il primo tentativo di aprirsi alla società civile, parola, oggi, tanto abusata. Le ricordo alcune delle figure presenti: Strehler, Francesco Rosi, Portoghesi, Treu, Pera, Veronesi, Gassman. Ci sono stati i nani e le ballerine? Ma sicuramente… Vogliamo definire Sandra Milo una ballerina? Facciamolo pure, ma è stata una grandissima attrice! E Lina Wertmuller? Vuole che continui…? 

Chi sono stati, invece, politicamente parlando, i nani socialisti? 

Il socialista più nano sapeva suonare il violino con la punta dei piedi, altroché! La classe dirigente socialista, senza dimenticare quella locale, era composta da gente di prim’ordine… 

Come reagì, sua madre, quando si venne a sapere che suo padre aveva un’amante? 

A mio padre le donne piacevano, e lui piaceva loro, perché è sempre stato un uomo di grande fascino e carisma… Mamma, quando seppe delle fughe amorose di mio padre, ha messo in campo una capacità di comprensione e perdono che ancora le invidio. 

Pensò di mollarlo? 

Assolutamente no! E men che meno lui. Era facile sedurlo, difficile tenerlo. Ci è riuscita solo mia madre. 

E lei, invece?

Ero gelosissima; appena potevo, cercavo di fargli terra bruciata, confondendo, a dire il vero, un po’ i ruoli. Una volta, ora che ci penso, strappai un orecchino a una sua fiamma… 

Quali sono state, secondo lei, le colpe che suo padre ha commesso? 

Pensare che i comunisti potessero cambiare; e dare fiducia a uomini che non la meritavano affatto… 

Tipo?

Fare sempre i nomi non è gradevole. Sa, lui aveva una giustificazione per tutto. Quando qualcuno sbagliava, o lo tradiva, diceva sempre: poverino. Aveva sempre un atteggiamento giustificatorio verso le debolezze umane. Una volta, me lo ricordo come fosse ora, arrivò un caporedattore dell’Avanti, tutto trafelato e contento, e gli disse: 

Bettino, ho scoperto che alcuni giornalisti dell’Avanti sono a libro paga del Kgb. Mio padre, senza scomporsi, gli rispose: questo ha una brutta malattia, quest’altro ha un mutuo sulle spalle, quest’altro ancora ha quattro figli da mantenere… Cambierà la storia del mondo se li metto da parte? Lasciamoli stare… Ogni tanto, ho provato a fargli cambiare idea, ma lui niente: mi diceva che ero una bacchettona… Il tempo, però, mi ha dato ragione.

Come venne a sapere che suo padre si sarebbe dato alla latitanza? Ne era a conoscenza? 

Mio padre non si è dato alla latitanza… 

Ma come, uno che scappa, come la vuole chiamare…? Viaggio Alpitour? 

Mio padre è andato in Tunisia, a casa sua, con il suo passaporto… 

Tecnicamente, e non solo, si chiama latitanza… 

I giudici, tecnicamente, hanno commesso un abuso; avrebbero potuto emettere un provvedimento di rimpatrio, perché non l’hanno fatto? Tornando alla sua domanda, lui non mi disse che sarebbe andato ad Hammamet, ma io sentivo che avrebbe lasciato l’Italia. 

Temeva le patrie galere, Bettino…? 

No, non ha inteso sottomettersi a una giustizia politica, farsi umiliare da chi lo voleva vedere in ginocchio. Tanti politici, soprattutto quelli che si sono smarcati, farebbero bene a rileggersi quel famoso discorso che mio padre fece alla Camera, il 3 luglio del 1992, in occasione del dibattito sul voto di fiducia al governo Amato, che, lo voglio ricordare, non era per niente una chiamata in correità, bensì il tentativo di affrontare con gli strumenti della politica la crisi della Repubblica. Quell’invocazione si disperde nel silenzio dell’Aula, più eloquente di ogni parola, denso di verità, come avrebbe commentato lo stesso Craxi.   

Non pensa che, come fece anche Andreotti, che santo di certo non era, avrebbe fatto meglio a difendersi nelle aule giudiziarie? 

Ma cosa vuol dire, per lei, essere un santo? Lei lo è?

No, per niente, ma io non sono un politico…

Andreotti è stato un grande politico della Prima Repubblica, ma, a differenza di Craxi, aveva lo scudo da senatore a vita, oltre che l’ombrello protettivo del Vaticano. 

Quali giudici del Pool ha apprezzato? Non erano perfetti, ma, di certo, ispiravano fiducia… 

Se quei giudici avessero fatto un’opera di vera pulizia e giustizia, senza scopi politici, li avrei di certo apprezzati. Lei mi può dire perché quasi tutti hanno fatto politica? Di Pietro, Colombo, D’Ambrosio…Non dimenticherò mai quella lettera di Borrelli, scritta in un orrendo burocratese, indirizzata a don Verzé e agli avvocati, in cui praticamente vietava a mio padre di curarsi in Italia. Solo D’Ambrosio, eletto nelle file dei Ds, ammise, anni dopo, in un’intervista rilasciata al Foglio, che la molla di Craxi era la politica, non l’arricchimento personale, che Craxi per sé non aveva mai intascato una lira. 

Come mai, se se lo è mai chiesto, il Pci di allora fu, soprattutto nei suoi nomi grossi, salvato? Erano meno corrotti degli altri? Cosa le disse suo padre, a tal proposito?

Lei fa confusione tra i casi di corruzione che, disse Craxi in Parlamento, come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati, e il finanziamento illegale ai partiti. Perché, quando nel 1989 ci fu l’amnistia, votata anche dal Pci, nessuno osa aprire bocca? Lei pensa davvero che le tangenti in Italia siano girate solo nel biennio 1992-1994? Oggi pensa davvero che la corruzione sia diminuita…? 

Le rifaccio la domanda: perché il Pci, secondo lei, è stato “salvato”? 

Perché un partito di sistema serviva per mettere in atto la falsa rivoluzione. Da dove passava gran parte del finanziamento illegale comunista, se non dall’import-export delle Coop; e ancora, che fine ha fatto il famoso miliardo di cui parla Gardini, portato a Botteghe Oscure? E l’enorme flusso finanziario proveniente dall’Urss, una potenza militare nemica dell’Italia? Ci siamo dimenticati di tutto questo? 

“La politica è sangue e merda”, disse Formica. Perché lei, nonostante le sofferenze provate e la capitolazione invereconda di suo padre, ha deciso comunque di fare politica? Ostinazione, vanità, follia?

Vengo da una famiglia politica, per noi la politica è come l’acqua dove nuotano i pesci, non potevo di certo tirami indietro. Poi volevo, dopo quello che era successo a Craxi e al Partito socialista, provare a fare un’opera di verità e restituire a quella storia socialista il posto giusto che merita. Da questo punto di vista, l’essere stata eletta presidente della Commissione Esteri al Senato ha rappresentato una piccola rivincita della storia.

Non ha mai avuto paura nel fare politica? 

Se vuoi fare politica, la paura non può esistere nel tuo vocabolario. 

Tra le tante, cosa non amava di suo padre? L’arroganza, l’attaccamento al potere, la freddezza, la scarsa empatia… 

Mio padre non era né arrogante né attaccato al potere. Il suo difetto più grande? Che era gelosissimo… 

C’è un ricordo che non le dà pace, di quando suo padre era ad Hammamet? 

Più che un ricordo, forse il rimpianto di non avere fatto abbastanza per la sua vita, soprattutto quando stava male. Forse sono stata inadeguata… 

Quante volte ha messo in dubbio l’onestà e trasparenza di Bettino, soprattutto nei momenti in cui fioccavano le inchieste?

Mai! 

Quali sono i politici della Seconda Repubblica che disprezza e perché? Le faccio dei nomi: Rutelli, Fassino, D’Alema, Veltroni… 

Intanto, la parola disprezzo non appartiene al mio vocabolario. Direi disistima. A Rutelli ho dato del grandissimo stronzo. Fui querelata. Sono passati vent’anni, col tempo le arrabbiature passano e, di recente, ci siamo anche riparlati.

Ricordo che una volta, dopo che fui condannata a pagare una multa di cinquantamila lire per l’epiteto che gli rivolsi, mio padre commentò sarcastico che, “grazie a mia figlia, tutti adesso sanno quanto costa dare dello stronzo al sindaco di Roma”. 

Fassino, pur essendo stato un giustizialista feroce, ha provato, a differenza di altri, a fare un po’ i conti con la storia di Tangentopoli. D’Alema, che ci faceva la morale tutti i giorni, in quanto ad affari, non penso debba insegnare nulla a nessuno. Veltroni, invece, ogni tanto prova a raccontare sulle pagine del Corriere la storia a modo suo. Ma nessuno ha ancora fatto davvero i conti con Craxi. 

Come mai, secondo lei, tanti socialisti, crollato il partito, sono finiti nelle mani di Berlusconi, che con il socialismo non c’entrava proprio? 

Anche per reazione a quello che era successo. Una domanda che molti dovrebbero porsi! Forza Italia ha rappresentato l’approdo naturale per sanare la ferita che era stata inferta alla comunità socialista. O lei pensa che fosse possibile muoversi nell’alveo di Botteghe Oscure, dove avrebbe continuato a dominare l’antisocialismo viscerale?

Lei si sente più una socialista o una capitalista, visto il lavoro da imprenditore fatto per anni? 

Io mi definisco una socialista craxiana. 

Perché suo padre volle aiutare un parvenu come Berlusconi con quel famoso decreto? Re Silvio finanziava il partito? 

No, Berlusconi non ha mai finanziato il partito e, soprattutto, non ha mai fatto parte dell’establishment del Paese. Mio padre lo ha aiutato molto perché le televisioni commerciali rompevano il monopolio della Rai. Fu quella una battaglia di libertà, per il progresso dell’Italia. 

Perché suo padre detestava i giornalisti? Eppure, nei suoi anni d’oro, c’era la fila per leccargli i piedi… 

Non è vero che li detestava, anzi; con alcuni aveva anche ottimi rapporti personali… 

Giulio Anselmi mi ha raccontato di una telefonata furibonda di suo padre con annessa minaccia di fargli perdere il posto… 

Credo che non si apprezzassero a vicenda. L’atteggiamento di Anselmi nei confronti di mio padre fu a dir poco scandaloso, ma comunque Craxi non ha mai fatto cacciare nessuno. 

E perché? Scandaloso perché indipendente? Anselmi è stato uno dei pochi direttori veramente liberi…

La campagna di informazione fatta da Anselmi e da tanti altri fu denigratoria. Lei forse l’ha dimenticato, ma mi vengono in mente alcune prime pagine, con le pubblicazioni di conversazioni private tra me e mio padre. Un grafico importante, tale Muzi Falcone, colui che inventò il simbolo della Quercia, mandò una lettera ai giornali in cui affermava che la sottoscritta fosse ricoverata in una casa di disintossicazione… 

Faceva uso di cocaina, o era schiava della bottiglia?

Ma no! Avevano messo in giro questa voce solo per gettarmi del fango addosso. 

A proposito di grandi direttori: cosa pensa di Scalfari? 

Penso che, da un punto di vista politico, non ne abbia azzeccata una! 

Perché tra Scalfari e Craxi il rapporto è sempre stato burrascoso? 

Semplice: Scalfari imputava a mio padre la mancata elezione a deputato, sul finire degli anni Settanta. E, come si è potuto vedere, non gliel’ha mai perdonata.

C’era qualche giornalista, invece, che lui stimava? 

Nonostante i conflitti, stimava molto Giampaolo Pansa, e tutti i giovani cronisti che lo seguivano nei viaggi, penso a Massimo Franco, a Marcello Sorgi, a Paolo Mieli. Craxi amava in modo particolare gli irregolari, i “liberi di testa”: Giampiero Mughini, Vittorio Sgarbi, Roberto D’Agostino… 

Se non erro, anche gli stilisti, un tempo tutti socialisti, hanno abbandonato suo padre… Dico bene?

Craxi capi’ e seppe interpretare il Made in Italy, la capacitàla laboriosità degli italiani e se ne fece ambasciatore nel mondo. E così anche Milano soppiantò Parigi come capitale della moda. Questo era il motivo della riconoscenza di quel mondo verso Bettino. Mi ricordo, a onor del vero, una volta in cui Krizia sostenne di non conoscerlo a cui rispose mia madre con una garbata lettera in cui disse che Krizia, tra gli altri, le prestava gli abiti durante i suoi viaggi a fianco di Craxi, presidente del consiglio, e lei aveva pensato fosse un segno di amicizia…

“Io provo un rancore tanto grande che non ho posto per i piccoli rancori”. Mi ha incuriosito questa sua riflessione, per certi versi amara… 

Una riflessione figlia del fatto che l’ingiustizia subìta da mio padre è talmente grande, che non riesco a dimenticare. Ma il mio, voglio chiarirlo, è un rancore politico. Pretendo delle scuse, in primis dalla sinistra, che, a distanza di tanti anni, ancora non ha fatto i conti con sé stessa. 

Le scuse… ma non arriveranno mai… E’ un’illusa… 

Questo lo dice lei.

Per il cognome che porta, o che portava soprattutto quando suo padre era all’apice del potere, si è mai sentita usata? 

No, perché ho pochi amici, quelli di sempre, quelli che non ti tradiscono mai… 

Ha mai avuto paura di finire in miseria, quando stava crollando tutto? 

In miseria no, ho sempre lavorato, ma con mio marito abbiamo passato momenti di grande difficoltà, perché quando scoppiò Tangentopoli nessuno ci rispondeva al telefono, la nostra azienda rischiava di fallire… 

I nomi, Stefania… 

Neanche sotto tortura. 

Qual è stato il momento più doloroso della sua vita?

La morte di Bettino Craxi. 

Nel film su suo padre, Gianni Amelio tratteggia suo fratello Bobo in maniera poco tenera. C’ha visto giusto…? 

A naso, penso non si siano piaciuti… 

E il film, le è piaciuto? 

Ad Amelio, che stimo molto come regista, non interessava fare un film “politico”, ma tracciare un parallelo fra la parabola di Craxi e le grandi tragedie classiche. Nel film c’è quindi poca politica, e Craxi era un uomo “totus politicus”. Il merito della pellicola è stato quello di avere acceso i riflettori sulla sua storia. 

Al di là dell’affetto, ha stima per la carriera di Bobo? Eppure c’è chi dice che non abbia nessuna stoffa particolare e che senza quel cognome sarebbe stato un perfetto sconosciuto? 

Penso che mio fratello abbia fatto un grandissimo errore: quello di essere passato a sinistra, quella stessa sinistra che il nome Craxi non l’ha mai sopportato e accettato. 

Che rapporto ebbe l’Avvocato con suo padre?

A differenza di tanti politici di oggi, Craxi non si è mai inchinato dinanzi al gotha dell’imprenditoria, ai santuari del capitalismo. Lo muoveva la convinzione che la politica dovesse esercitare il primato sulla finanza e sull’imprenditoria… 

Agnelli, da uomo di potere, chiedeva continui favori a chiunque… Anche a suo padre? 

Ricordo che mio padre, commentando le assoluzioni in casa Fiat, una volta mi disse: cosa andava a fare Romiti nell’ufficio degli amministratori dei partiti? A parlare del nuovo modello della 500?

Cosa le disse suo padre prima di morire? C’è un ricordo che non riesce a dimenticare? 

Dopo la sua morte, trovai un foglietto scritto a mano: “In questo processo, in questa trama di odio e menzogne devo sacrificare la mia vita per le mie idee. La sacrifico volentieri…” Ero lì con lui, ad Hammamet, poche ore prima che se ne andasse, e continuava a parlare di politica e dell’Italia. Una mattina, appena sveglio, mi disse che aveva sognato Milano, di essersi ritrovato a passeggiare in piazza Duomo.  Aveva nostalgia del suo Paese e dei tanti posti che non era riuscito a vedere. Dopo pranzo, mi disse: vado in camera a sdraiarmi, portami un caffè. Lo raggiunsi in stanza e lo trovai riverso sul letto, ormai privo di vita… 

Chi fu il primo, dopo la sua morte, a raggiungere Hammamet? 

Yasser Arafat… E poi le persone a me più care, compresi Casini e Follini… 

Dall’Italia, invece? 

Dall’Italia mi chiamarono in tanti. Ricordo che l’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, tramite il sottosegretario Minniti, offrì i funerali di Stato. Ringraziai, e risposi di no. 

Perché? 

Delle due l’una: o Craxi era uno statista, e allora aveva diritto ad essere curato in Italia da uomo libero, oppure era un delinquente, e allora non meritava tutti gli onori che gli venivano offerti in quel momento dalle massime autorità italiane. Scelsi la coerenza e la dignità. 

Quanto conta, per lei, il denaro? 

Nulla, anche perché ho un rapporto pessimo con i soldi.

È stata una donna fedele? 

Abbastanza, ma ho avuto due mariti… 

Una donna noiosamente monogama… 

Questo lo dice lei! 

Che gioventù ha vissuto lei in mezzo a quel circo? 

Non lo definirei circo, ma una comunità, una bellissima comunità… 

Le è mancata l’intimità, però… 

Assolutamente sì. Era difficile poter stare da soli con mio padre, soprattutto quando era a Roma. 

Lei ama avere il controllo su tutti, e tutti si appoggiano a lei, almeno questo è quello che ho notato… Ha mai voglia di scappare? 

Assolutamente sì, mi basterebbero tre giorni. 

E con sua madre, che rapporti ha? 

Fantastici! Ci ha sempre consentito di vivere una vita normale; quando si trovavano ad Hammamet, e la tempesta in Italia non si era ancora placata, la sentivo sempre serena, tranquilla. Probabilmente, per non affrontare il dolore nei suoi risvolti più spietati, cercava di stare sempre in superficie. Era un modo, il suo, per tenere botta.

Qual è stato il suo, e ultimo, giorno spensierato…? 

Se vogliamo parlare di spensieratezza, come tutte le mamme l’ho persa quando sono nati i figli…Se parliamo di serenità, i giorni precedenti al dramma che si è abbattuto sulla nostra famiglia e sull’Italia. 

Torna ancora volentieri in Tunisia?

La Tunisia è un Paese che mio padre ha profondamente amato, che io amo profondamente. Un Paese straniero, ma non estraneo, diceva Bettino. Lì mio padre ha vissuto i giorni dolorosi dell’esilio, lì è sepolto nel piccolo cimitero cristiano di Hammamet, di fianco al cimitero musulmano. Tutto il popolo tunisino ha protetto, amato, difeso e garantito la libertà del presidente Craxi, nel rispetto delle leggi e del diritto internazionale, accogliendo la mia famiglia in un momento molto difficile. 

Ha il viso malinconico, a tratti sofferente; ha mai conosciuto momenti di felicità? 

Ho passato periodi difficili, difficilissimi, con Tangentopoli e tutto quello che poi ne è conseguito per la mia famiglia. Chiaro che, parlando a lungo di una vicenda ancora dolorosissima, il mio viso si rabbuia e intristisce. Ma le posso garantire che nella mia vita la felicità, seppur fuggevole, abita questa casa…

Gli Usa "tifavano" per il pool. E Borrelli riferiva al console. Felice Manti e Edoardo Montolli l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il ruolo di diplomatici e 007 americani nel nostro Paese tra il '92 e il '94 in un libro sugli archivi segreti degli States.

Ai tempi di Tangentopoli l'attenzione della segreteria di Stato e dei servizi di intelligence degli Stati Uniti fu particolarmente concentrata nell'assistere alla fine della Prima Repubblica. «L'America si schiera dalla parte dei giudici che danno fiato alle inchieste sulla corruzione... Domina, nei resoconti e nelle informative dell'universo a stelle e strisce, il disinteresse per le sorti del vecchio ceto di governo, prevale nella narrazione sul regime change l'esigenza di guardare avanti, di non attardarsi nella salvaguardia dell'esistente. Un approccio, anche questo, certamente favorito dal mutamento degli equilibri internazionali, e dalla perdita di centralità geopolitica dell'Italia nel più ampio contesto di marginalizzazione del ruolo europeo».

Lo scrive Andrea Spiri nel suo ultimo libro The End 1992-1994 - La fine della prima Repubblica negli Archivi segreti americani (Baldini + Castoldi) dopo aver spulciato decine di rapporti confidenziali dell'epoca ottenuti grazie al Freedom of Information Act, la normativa che regola la declassificazione e l'accesso alle carte ufficiali conservate negli Archivi federali. Si scopre anzi che vi era un filo diretto tra la Procura di Milano e il consolato yankee all'ombra del Duomo, che veniva informato sull'andamento di Mani Pulite, specie nei momenti decisivi. Il 29 aprile 1993, ad esempio, dopo che la Camera aveva respinto le richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, il console statunitense Peter Semler incontrò «il numero due dei giudici milanesi» il cui nome è omesso nel rapporto inviato al segretario di Stato americano. Subito dopo quel diniego il Pds di Achille Occhetto aveva imposto il ritiro dal governo dei ministri Augusto Barbera, Luigi Berlinguer, Vincenzo Visco e Francesco Rutelli. E il giudice si lamentava con Semler che «il Pci di Berlinguer non avrebbe mai commesso un errore politico del genere». Non solo. Il magistrato, andando ben oltre le prerogative giudiziarie, riteneva che quella di Botteghe Oscure fosse stata una decisione che «destabilizza l'esecutivo e rischia di trascinare il Paese verso elezioni anticipate». Prospettiva che era «evitare a tutti i costi» anche perché Craxi «verrebbe financo rieletto». E la cosa evidentemente stizziva anche gli americani se si pensa che in un cablogramma del successivo 7 giugno, Daniel Serwer, incaricato d'affari dell'Ambasciata statunitense a Roma, scriveva a Washington dopo le amministrative: «Paradossalmente gli ex comunisti del Pds sono forse gli interlocutori per noi più affidabili in questo frangente storico che vede il declino inesorabile dei partiti con cui abbiamo lavorato a lungo e sui quali abbiamo fatto affidamento». Ma a parlare con gli americani non c'era solo il numero due dei giudici milanesi. C'era forse anche il numero uno degli inquirenti. In un cablogramma del 12 maggio, solo parzialmente desecretato, Semler sintetizza l'incontro con un magistrato, sempre coperto da omissis, che Spiri ritiene di poter individuare nientemeno che nel capo della Procura milanese, Francesco Saverio Borrelli, perché il console faceva riferimento al fatto che il padre della misteriosa toga era la persona che aveva convinto Oscar Luigi Scalfaro a lasciare la magistratura per entrare in politica. E storicamente è risaputo che Scalfaro fu convinto della scelta da Manlio Borrelli, papà di Francesco Saverio. Il magistrato annunciava al diplomatico uno scenario «caratterizzato da un numero di casi ancora maggiore rispetto alle attuali settecento indagini milanesi», lasciando intendere che «ci saranno pochi patteggiamenti» e, per il resto, «verranno celebrati processi lunghi» che «metteranno a dura prova le energie del pool». Ma gli americani guardavano con attenzione anche a ciò che succedeva al Sud, dove i pentiti trascinavano nell'abisso i vertici della Dc. Sicché, quando Giulio Andreotti, accusato di collusione con la mafia, chiese audizione all'ambasciata, partì dopo l'incontro il cablogramma riservato The Accused. Andreotti speaks, datato 2 luglio 1993. Il senatore a vita riteneva che dietro le accuse contro di lui ci fossero «mafiosi americani» e «spezzoni deviati dei Servizi segreti italiani» oltre che dello United States Marshals Service, ovvero l'agenzia federale che sovrintende alle operazioni giudiziarie dall'altra parte dell'Atlantico. Ma non il governo americano. Si lamentava però della diffusione da parte di Washington di un cablogramma molto particolare: «Ha chiesto informazioni in merito alla diffusione da parte del governo americano di un cablogramma del 1984 redatto dal Consolato di Palermo, nel quale veniva riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero stati confermati, allora sia Andreotti che l'intero sistema politico italiano sarebbero finiti nei guai». I diplomatici riconobbero «l'errore», ma anche che gli eventi avevano confermato la profezia. Salvo Lima, in effetti, fu il primo dei delitti che avevano sconvolto l'Italia tra marzo e luglio (così come predetto chirurgicamente da una circolare che allertava il Paese su un pericolo di destabilizzazione orchestrato all'estero) e che frantumò l'immagine del senatore a vita. Il secondo fu la strage di Capaci. Due giorni dopo al Quirinale fu scelto Scalfaro. Gli analisti del Dipartimento di Stato di Washington avevano scritto: «Le ultime speranze di Andreotti» di salire al Colle «sono svanite con l'assassinio di Falcone, per via dei rapporti che il capo del governo intrattiene con figure sospettate di essere in odore di mafia».

Lesa maestà. Mani Pulite non si può criticare, per questo Colombo mi vuole alla sbarra. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 3 Giugno 2022. 

Gentile Gherardo Colombo,

lei, in sodalizio con Piercamillo Davigo e Elio Ramondini (quest’ultimo a me, come immagino ai più, perfettamente sconosciuto), ha deciso di querelarmi per un articolo pubblicato da questo giornale. L’articolo di cui lei, con i suoi colleghi, si è doluto, argomenta in modo magari contestabile ma – almeno si spera – non meritevole di sanzione penale, che l’adozione della dicitura “Mani Pulite” costituisce in sé un pericoloso segno di inflessione autoritaria, e che la cultura che vi si richiama ha arrecato grave danno al Paese, al nostro ordinamento civile, al tenore della nostra democrazia.

Scrivere – come ho scritto qui – che “La cultura di Mani pulite, la brutalità proterva dei suoi modi e la buia temperie che li festeggiava, furono e rimangono la vergogna della Repubblica”, è espressione di un giudizio civile e politico che può non essere condiviso, ma che soltanto in forza di un gravissimo pregiudizio può ritenersi vietato. Sostenere – come ho sostenuto qui – che è “civilmente osceno e democraticamente blasfemo” intestare all’iniziativa di una funzione pubblica un segno distintivo moraleggiante (“Mani Pulite”, appunto), specie sulla scena delle acclamazioni popolari e dei suicidi che non saranno stati colpa di nessuno, ma c’erano, significa manifestare un’inclinazione morale e un convincimento politico che ancora una volta potranno essere discutibili, ma che in un assetto di tutela minima dei diritti individuali dovrebbe essere tuttavia consentito.

Lei, dottor Colombo, che pubblicamente argomenta di aver lasciato la magistratura perché era stufo di togliere la libertà alle persone, reclama invece che sia applicata una sanzione penale a chi, come me, si è reso responsabile d’aver scritto – contro la maggioranza che ne fa invece apologia – che quello di cui lei è stato personaggio è uno dei capitoli vergognosi della storia d’Italia, e che verecondia vorrebbe che i protagonisti giudiziari di quegli eventi si limitassero semmai a dimostrare di aver solo applicato la legge piuttosto che impancarsi ad agenti del bene pubblico. Ci vuole la galera, per quelli che pensano e scrivono queste cose?

Caro dottor Colombo, grattata la superficie delle vostre recriminazioni, ciò di cui in realtà vi lamentate è la lesione della maestà di Mani Pulite. Perché evidentemente non vi identificate nei provvedimenti che voi avete tutto il diritto di rivendicare quanto gli altri hanno il diritto di criticare, ma appunto nell’immagine apologetica di quell’esperienza giudiziaria e nella cultura che l’ha ispirata e vi si è ispirata. Un’esperienza e una cultura che non soltanto chi scrive, ma chiunque, avrebbe il diritto di considerare pessime. Iuri Maria Prado

Michele Santoro, Funari e gli altri: quando il talk show inventò l’indignazione della gente comune. Trent’anni fa, ai tempi di Mani Pulite, si affermarono programmi che secondo Simona Colarizi allevarono i prototipi degli odierni hater. Ma quello, a differenza di quanto accade con i social, fu un fenomeno collettivo. Giandomenico Crapis su L'Espresso il 16 Maggio 2022.

La storica Simona Colarizi nel saggio “Passatopresente” (editori Laterza ), uscito di recente, parla dell’azione «devastante» della tv nei primi anni Novanta, che allevò con i suoi talk i prototipi degli odiatori del ventunesimo secolo. Un giudizio tranchant e senza appello. Ma davvero i lanciatori di monetine dell’hotel Raphaël erano gli antenati degli odierni haters? Lo vedremo più avanti, dopo avere ricordato a trent’anni da Mani Pulite il ruolo che vi ebbe la televisione, cercando di collocarne l’azione in una prospettiva di più lungo periodo.

Milano, da emblema di Mani Pulite a simbolo del flop. Luca Fazzo il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.

Trent'anni fa i pm erano gli eroi, oggi hanno perso consenso. Di Pietro: "In toga mai fatto sciopero".

La storia a volte ha una sua elegante circolarità. Così nel giorno che segna la fine di un'epoca nelle vicende della giustizia italiana, con i giornali pieni del flop dello sciopero dei magistrati, in un'aula del tribunale di Milano ci si imbatte in Antonio Di Pietro.

Se questo palazzo è diventato il simbolo di una certa stagione di fare giustizia, è merito (o colpa) soprattutto sua. Se la categoria in toga è diventata un mito collettivo di un pezzo d'Italia, la radice di molto sta nei cortei che inneggiavano al pm di Tangentopoli, «Borrelli e Di Pietro, non tornate indietro». Oggi Di Pietro fa un po' il pensionato, un po' il contadino, un po' l'avvocato. E la distanza profonda tra quella stagione e l'oggi sta in fondo nel vederlo qui, senza nessuno che se lo fili, a ragionare con un vecchio amico sullo sciopero fallito: «Ma meno male, dico io. Come gli salta in mente? I magistrati non sono gente qualunque, sono un potere dello Stato. E si mettono a scioperare contro gli altri poteri dello Stato? Se i deputati scioperassero contro i giudici cosa diremmo? Io quando facevo il pm non ho mai fatto uno sciopero. Quando il governo provò a varare una legge per fermarci, io e gli altri ci dimettemmo dalla magistratura, che è tutt'altra cosa».

Si potrebbe ragionarci a lungo, con Di Pietro, su quei fatti di trent'anni fa: se davvero il pronunciamento del pool contro il decreto «salvaladri» fosse più o meno rispettoso degli equilibri istituzionali. Ma la sostanza è netta. Quel giorno il pool milanese sbaragliò la politica, costrinse An e Lega al retromarcia, segnò per gli anni a venire il dominio della magistratura sulla vita del paese. Lo sciopero indetto dall'Anm, con parole d'ordine altrettanto giacobine, invece si sgonfia come un palloncino, scivola via, lascia la politica libera di fare le sue scelte. E toglie all'Anm di fatto quel potere di veto che le è stato riconosciuto per decenni sulle leggi in materia di giustizia.

Visto da qua, dal palazzo che dell'attacco in toga alla Prima Repubblica fu l'incrociatore Aurora, il day after della sconfitta ha il sapore della malinconia. D'altronde perché sarebbe dovuta andare diversamente? L'epoca dello strapotere giudiziario era figlia anche di una verve professionale, di una alacrità missionaria che faceva di aule e corridoi un brulicare di inchieste e di processi. I ritmi selvaggi di Di Pietro diventarono in quegli anni un esempio per i «dipietrini». Oggi quell'esempio si è perso, e corridoi e stanze dell'incrociatore sono deserti. La Procura non fa più inchieste, e quelle poche le perde. Come può candidarsi a guidare un paese una Procura che in un giorno in teoria di lavoro è deserta come in un giorno in teoria di sciopero?

Un'epoca si è chiusa, e non è un caso che si chiuda nel Palazzo dove le alleanze di un tempo si sono dissolte in faide. A raccogliere i cocci, e a cercare di dare un senso al futuro dell'Associazione magistrati, restano giovani giudici come Sergio Rossetti, della sezione fallimentare: che ha ben presente che «colmare il gap di fiducia con i cittadini è difficile», che «lo sciopero poteva essere meglio ponderato». E intanto si aggrappa all'analisi delle cifre, spiega che se a Milano lo sciopero è andato male invece l'adesione è stata alta nei tribunali del circondario. «Dove ci sono i colleghi più giovani, e che sono oggi i più decisi nel chiedere il rinnovamento». È il ritratto di una frattura anche generazionale dentro la magistratura. Dove ad abbandonare l'Anm è paradossalmente una generazione di magistrati che nella stagione delle correnti e dell'attacco al potere si è formata. Così a Milano il buco nero dello sciopero sono la Procura generale e la Corte d'appello, uffici dove il più giovane ha sessant'anni: e sono per forza di cose magistrati che ai tempi di Mani Pulite erano in prima linea, che quella esperienza hanno apprezzato e condivisa, e che lunedì scorso però erano quasi tutti al loro posto. «Ma la riforma Cartabia non piace neanche a loro - dice Rossetti -, è l'idea dello sciopero che non li ha convinti». Come se fosse un dettaglio.

L’ultima sede del Partito Socialista Italiano, ricordo di via del Corso. Marco La Greca su Il Riformista il 6 Marzo 2022. 

Correva l’anno 1997 ed ero agente di Polizia. Per una mattina e poi una notte venni mandato a svolgere il mio servizio all’Aran, a Roma, in via del Corso n. 476. Un indirizzo che aveva un significato ben preciso, perché lì c’era stata, sino al 1994, la sede del PSI, uno dei punti cardinali della “Prima Repubblica”, da poco seppellita dalla stagione di Tangentopoli. Mi avvicinai al palazzo, all’inizio del turno, con un misto di emozione e di curiosità. Al piano terra notai il busto di Sandro Pertini, in una collocazione, per la verità, non di gran risalto. L’attribuii al fatto che Bettino Craxi, secondo la vulgata, aveva avuto con l’ex Presidente della Repubblica un rapporto, a tratti, burrascoso.

Entrai nell’ascensore: “Piano terra”, recitava una voce registrata; poi: “L’ascensore va al quarto piano”. Una postuma esibizione di lusso, valutai allora. La mattinata passò senza scossoni, sino a quando, attraverso una porta semiaperta, non intravidi un busto di Garibaldi, di fronte a un tavolo ovale; era, capii immediatamente, la mitica “Sala Garibaldi”, appunto, destinata alle riunioni della segreteria politica del PSI. Per un attimo, ebbi l’impressione di avere di fronte a me Bettino Craxi e Gennaro Acquaviva, più in là Claudio Martelli, dalla parte opposta Claudio Signorile, poi gli altri componenti la segreteria. Fu durante il turno di notte, però, che il mio servizio prese i contorni del viaggio nella storia. Iniziai le perlustrazioni scendendo al terzo piano, non occupato dall’Aran. Gli ambienti, le sale, gli arredi erano ancora del PSI. Alle pareti i manifesti con le campagne propagandistiche, i titoli dei congressi e delle conferenze programmatiche che avevano segnato, in particolare, l’era craxiana. Una foto immortalava l’ex segretario in primo piano, di tre quarti, con una sciarpa e un cappello di colore beige. Nelle stanze, gettati a terra o poggiati in qualche residuo scaffale, carte e volantini. La sensazione era di trovarsi in un luogo abbandonato di fretta, come in fuga da un nemico. Attaccato con lo scotch, un avviso che dava il senso delle ristrettezze economiche dell’ultima fase: “Si ricorda ai compagni che l’acquisto dei francobolli deve essere autorizzato dalla segreteria amministrativa”.

La collocazione degli ambienti, nel ricordo, un po’ si confonde. Mi pare però che fosse proprio al terzo piano l’altra sala, più ampia, intitolata a Pietro Nenni; vi si riuniva la direzione del partito, con una frequenza assai minore della segreteria politica, secondo una dinamica verticistica e leaderistica che sembrava essere una prerogativa (negativa) del partito socialista. Ancora non sapevamo a cosa avremmo assistito negli anni a venire. Tornai al quarto piano e, superata la “Sala Garibaldi”, entrai nell’ufficio che attribuii a Craxi, poi nei due adiacenti, che invece immaginai destinati ai vice segretari (ed uno in particolare, ma non so perché, a Claudio Martelli). Erano ambienti moderni, con soppalchi e vetrate. Sembravano più studi di architetti che uffici di dirigenti politici; almeno, secondo l’idea che avevo io della classe politica della Prima Repubblica.

In quegli allestimenti si esprimeva la cultura milanese dell’attico, contrapposta alla concezione tradizionale che – a Botteghe Oscure come a Piazza del Gesù – voleva l’area nobile al primo piano, con l’ufficio del segretario e il balcone per i comizi delle serate di successo elettorale. Dallo studio di Craxi si accedeva a uno stanzino modesto, per dimensione e arredi, nel quale era posizionato un letto. Poggiato a terra, un quadro che raffigurava Garibaldi. La sensazione era di entrare in casa d’altri, in un luogo talmente identificato con chi ci aveva vissuto, che veniva da chiudere la porta. Feci così. Chiusi la porta alle mie spalle e scesi le scale, sentendomi un po’ in colpa. Avvertii l’esigenza di uscire sul terrazzo che si affaccia su Piazza Augusto Imperatore. L’aria di Roma era dolce, contrapposta alle asprezze che quei luoghi evocavano. Stava finendo il millennio, il secondo dai tempi in cui era stata edificata l’Ara Pacis, a pochi metri da me per una operazione posticcia di demolizione e ricostruzione in un sito diverso. Le persone, i luoghi, i momenti passano, pensai. Restano le loro storie. Che poi sono le nostre. All’uomo, di oggi e di domani, il compito di raccontarle. Con rispetto e verità, possibilmente. Con questa consapevolezza mi sentii, una volta di più, insieme alla comunità che aveva abitato in quelle stanze, una misteriosa e infinitesimale parte del tutto. Marco La Greca

Arrestati i leader di Potere operaio: nessuna prova. Chi era Pietro Calogero, il primo Pm che sottomise la politica. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

Le prove generali ebbero inizio quel giorno, il 7 aprile del 1979 in cui la politica si consegnò ai Pm. Prove di Repubblica Giudiziaria, che avrà il suo epilogo tredici anni dopo con Tangentopoli e di lì non ci abbandonerà più. Con le sue carceri speciali, le infinite custodie cautelari, le trattative con i “pentiti”, le imputazioni che si modificano in corso d’opera, l’uso dei reati associativi in mancanza di fatti concreti, la legislazione d’emergenza diventata ordinaria. E il Pm caput mundi. E la politica con la testa china. Il bandolo della matassa è proprio lì, nel giorno in cui, con una grande complicità culturale e politica e forse anche altro, del Pci, il pubblico ministero di Padova Pietro Calogero diede l’ordine alla Digos per una grande retata, in diverse città italiane. In carcere un gruppo di docenti dell’Università di Padova, facoltà di scienze politiche, di cui il più famoso era Toni Negri, e poi Oreste Scalzone, Emilio Vesce, mentre in modo rocambolesco si era reso latitante Franco Piperno. Decapitata l’ex dirigenza di Potere Operaio, uno dei più agguerriti gruppi della “sinistra extraparlamentare” degli anni settanta che nel frattempo si era sciolto, e dell’Autonomia.

Il pm Calogero indagava su quel mondo della sinistra di quegli anni – un mondo che era sicuramente estremista ma anche creativo e intellettualmente appassionato – da almeno due anni prima del blitz del 7 aprile. In un’intervista a Panorama del 23 maggio 1978 aveva anticipato il suo pensiero, quello che passerà alla storia come il “teorema Calogero” e che terrà impegnato il mondo politico-giudiziario nei successivi sette anni, creando danni che diverranno permanenti all’amministrazione della giustizia e allo Stato di diritto. “Un unico vertice – aveva detto – dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega le Br e i gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alla base dello Stato”. Occorre fare un tuffo nel passato per capire la pericolosità, che l’evoluzione processuale chiarirà alla fine di quei sette anni infuocati, di questo pensiero e questa dichiarazione. Che esistesse il terrorismo in Italia era un dato di fatto. Il culmine era stato raggiunto con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Ma gli anni settanta avevano prodotto movimenti e gruppi e gruppetti impetuosi di giovani, che andavano dagli indiani metropolitani fino a coloro che avevano impugnato le armi, come le Br e Prima Linea. Non erano proprio tutti uguali.

Lo Stato era impotente, questa è la verità. Non aveva saputo né trattare con i terroristi che avevano rapito Moro e avevano saputo tenerlo nascosto per 44 giorni, né essere inflessibile da vincente, e aveva lasciato ammazzare il segretario della Dc. Così la strampalata tesi del dottor Calogero sembrò essere la soluzione cui l’intera magistratura (con qualche riserva del giudice istruttore Giovanni Palombarini, esponente padovano di Magistratura democratica), il mondo politico e quello giornalistico, con la sola eccezione del manifesto (e in particolare di Rossana Rossanda), si aggrappò come a una soluzione salvifica della tragedia che l’Italia stava vivendo. Così Toni Negri divenne il simbolo di ogni male, non solo il capo di una sorta di spectre che di giorno era solo un “cattivo maestro” di sovversione e di notte il capo delle Brigate Rosse. Non solo era a capo di un tentativo insurrezionale, questo gli veniva contestato dalla magistratura padovana. Ma era anche il capo delle Brigate Rosse e il responsabile della strage di via Fani e del rapimento e assassinio di Aldo Moro e di una serie di altri omicidi. Questa l’imputazione che gli attribuiva il procuratore capo di Roma Achille Gallucci. Le prime incrinature allo Stato di diritto partono di qui.

Mai era successo che in Italia si contestasse a qualcuno il reato di insurrezione armata contro in poteri dello Stato, che prevede l’ergastolo e che comporta quanto meno un tentativo di colpo di Stato. E mai era stato applicato il concetto del “tipo d’autore” per cui, una volta individuato il soggetto deviante, gli si attribuiscono tutti i più gravi reati della fase storica. Poiché nella realtà a Toni Negri e gli altri arrestati potevano solo esser attribuiti scritti e discorsi di tipo sovversivo. Anche la teorizzazione di progetti insurrezionali. Infatti ben presto gli inquirenti finirono con l’accontentarsi di contestare altri due reati, e li distribuirono a centinaia di imputati: l’associazione sovversiva e la banda armata. Accuse che resteranno in piedi fino alla fine e saranno oggetto, per alcuni, di condanna. Mentre il “teorema Calogero” crollava. Mentre il Pci faceva appelli alla “vigilanza democratica” per difendere i magistrati da dubbi e critiche, i quotidiani si sbizzarrivano con la fantasia. Soprattutto dal momento in cui Toni Negri fu ritenuto il “telefonista” a casa Moro, insieme a un cronista padovano di nome Pino Nicotri, arrestato nello sbalordimento generale perché sospettato di un’altra chiamata da parte delle Brigate Rosse.

Queste storie, viste oggi da lontano, paiono solo grottesche, ridicole, ma tragiche se pensiamo che sono costate anni di carceri speciali a persone innocenti. Sarebbe bastato chiedere subito gli alibi a Negri e Nicotri dei giorni delle telefonate, che erano partite da Roma mentre uno era a Padova in redazione con molti testimoni e l’altro a Milano in compagnia di due persone. E magari anche saper distinguere una parlata marchigiana (il telefonista di casa Moro) dall’accento marcatamente veneto di Toni Negri. Il settimanale L’Espresso, recordman di forche appese, aveva addirittura regalato ai lettori due dischi con le registrazioni delle telefonate con il gioco “fai da te la perizia fonica”. Si è persino chiamato in causa Emilio Alessandrini, che era stato assassinato da Prima Linea tre mesi prima. Qui devo accennare a un episodio che ha visto coinvolta anche la mia persona.

Nel 1978, proprio nei giorni del rapimento Moro, avevo partecipato con mio marito a una cena a casa di un pm mio amico, Antonio Bevere, cui erano presenti, con relative mogli, sia Emilio Alessandrini che Toni Negri. Un anno dopo, e dopo il blitz del 7 aprile, i giornali, in particolare l’Unità, cominciarono a parlare di quella cena, insinuando che quella sera Toni Negri avrebbe “preso le misure” del personaggio per poi far uccidere Alessandrini. E anche perché Paola, la moglie del magistrato assassinato (che tra parentesi ha anche fatto finire in galera per due giorni per falsa testimonianza me e mio marito dicendo che alla cena non c’eravamo) si era ricordata che Emilio ascoltando il disco dell’Espresso aveva riconosciuto la voce di Negri, la stessa che aveva potuto ascoltare per un’intera serata a casa di Bevere. Peccato che Alessandrini non l’avesse mai denunciato. Sulla base di questo tipo di “prove” si fondò il processo “7 aprile”. E bisognerà aspettare il ”pentito” Patrizio Peci, che era un brigatista vero, per far smontare tutto. Ma l’assalto allo Stato di diritto continua, da quel 7 aprile 1979.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Pietro De Sarlo per basilicata24.it il 9 maggio 2022.

Fresco di stampa il libro di Cirino Pomicino “Il grande inganno”. Per chi non ricordasse il suo contributo alla Prima Repubblica, basta sapere che fu ministro con De Mita e Andreotti sia alla funzione pubblica sia al bilancio e programmazione economica. Come dice lui stesso fu l’ultimo politico a essere ministro dell’economia.

Non ha mai goduto di buona stampa. La sua parlata stimola il vezzo, venato di razzismo anti meridionale, che si sostanzia in sottolineature denigratorie come “avvocato di Volturara Appula”, riferito a Giuseppe Conte, oppure “commercialista di Bari”, per Rino Formica, o il più garbato ‘intellettuale della Magna Grecia’ con cui Gianni Agnelli chiamò Ciriaco De Mita.

Persino Ferruccio De Bortoli, autore della prefazione, con riflesso pavloviano mette in guardia dalla “arguzia tutta partenopea” dell’autore. Già, a Milano e dintorni l’arguzia pare sia finita e da tempo.

Se però siete intellettualmente liberi e scevri da pregiudizi la lettura è interessante. La tesi del libro è che la Seconda Repubblica è stata un disastro e molto peggio della Prima che vide l’autore tra i protagonisti.

Molto “cicero pro domo sua”, certo, ma Pomicino le cose le sa. Qualcuna la dice, qualcun’altra gli scappa. Si tratta, pur nel morbido tono democristiano, di un pesante attacco al PD e al sistema della finanza e della informazione che protegge e di cui è strumento. 

Ecco il libro in pillole. 

L’informazione in Italia

Molto spazio dedica al tema della informazione, tema all’attualità visto che è appena uscita l’ultima classifica mondiale sulla libertà di informazione di Reporters sans Frontiere. L’Italia è precipitata in un solo anno dal 41 esimo al 58 esimo posto, tra la Macedonia del Nord e il Niger.

La genesi di questa situazione, con accuse pesanti, l’autore la fa risalire agli inizi degli anni novanta, quando il ‘salotto buono’ del capitalismo italiano, scelse di costruire la Seconda Repubblica dando credibilità e sostegno, con i propri media, a quelli che Cirino chiama i ‘vinti della storia’, ossia a quelli del vecchio PC, ora PD, sconfitti ideologicamente dalla perestroika e dalla caduta del muro di Berlino. 

Il salotto buono era costituito da Carlo De Benedetti, Gianni Agnelli, Marco Tronchetti Provera, Carlo Pesenti, Enrico Cuccia, Cesare Romiti, Eugenio Scalfari. Gente che deve molto al pubblico potere e in specie al PD “che si trasformò nel braccio operativo della destra neoliberista europea”.

Ma attenzione, l’intreccio tra capitale, finanza e informazione genera: “Un’arma letale per le democrazie liberali… Una potenza di fuoco difficilmente sostenibile dalle istituzioni democratiche.” Anche perché operano: “utilizzando nel contempo le insinuazioni personali e la gogna contro gli avversari, manipolando pesantemente la verità”. 

In effetti il metodo si ripropone tutti i giorni su Repubblica e dintorni, e solo una narrazione farlocca può far ritenere che il PD sia stato, e sia, un partito di sinistra. A furia di ‘spiegoni’ e ‘zorate’ qualcuno ancora ci casca.

I giudizi su Ciampi, Draghi, Letta, Prodi …

C’è altro però nel libro. A partire da Carlo Azeglio Ciampi che fece “la peggiore legge finanziaria” e “a elezioni già avvenute e a capo di un governo dimissionario da due mesi” assegnò “all’amico Carlo De Benedetti” la gara per il secondo gestore di telefonia per 700 miliardi delle vecchie lire e a rate. 

Affare girato a Mannesmann per 14.000 miliardi di lire dopo poco tempo. Poi Romano Prodi e Arturo Parisi, “dovrebbero spiegare dopo trenta anni” perché “impoverirono un grande Paese come l’Italia” certamente “a loro insaputa”.

Su Letta c’è poco, giusto per chiedere, visti passati incarichi tra cui quello di autorevole membro della Trilateral Commission, fondata da Rockefeller nel 1973, se sia “completamente libero”. Identica domanda c’è su Mario Draghi, con lodi di circostanza, insieme ad alcune vicende imbarazzanti come il giretto a Goldman Sachs, l’autorizzazione dell’acquisto di Antonveneta e le norme europee sul sistema bancario. 

Lo stato della democrazia

Da buon DC fa quindi un invito, che pare ipocritamente strumentale, a Draghi a “trasformarsi da rappresentante delle élite finanziarie internazionali a rappresentante delle élite politiche”, come? Banalmente “candidandosi”. Perché? ” Il battesimo elettorali è essenziale per la legittimità politica in un paese democratico”. E come dargli torto.

Intanto ci ricorda che il parlamento è svuotato da ogni funzione tanto che l’ultima finanziaria di Draghi è stata approvata senza il parere della apposita commissione e senza che il Parlamento abbia avuto il tempo di leggerla. E Mattarella? Nella circostanza non pervenuto. 

Insomma, la democrazia è a rischio e occorre recuperare la centralità della politica e del parlamento a partire proprio da quella media e piccola borghesia che è stata massacrata nella Seconda Repubblica.

L’Italia e la Francia

Deprimente la narrazione di come l’Italia non abbia da Sigonella, ossia da Andreotti e Craxi in poi, una politica estera, e gli effetti si vedono. Sigonella non ci è mai stato perdonato dagli USA. In ogni caso la ininfluenza del Paese è certificata dalla completa assenza di una posizione autonoma dell’Italia, appiattita sugli USA più che sull’Europa, nel conflitto attuale tra NATO e Russia sul campo Ucraino. Tanto che Mario Draghi non fu neanche invitato alla riunione tra Biden, Macron e Sholzt.

In compendo sulla Seconda Repubblica sono piovute ‘Legion d’Onore’ a tanti politici italiani, specialmente del PD. Fatto è che l’elenco delle aziende cedute ai francesi nella Seconda Repubblica è lungo e di peso: BNL, poi Pioneer e CariParma, senza dimenticare Edison, Telecom, l’agroalimentare, la grande distribuzione e il settore della moda. Quando Fincantieri cercò di fare shopping oltralpe venne però immediatamente fermata e Draghi non ha rinnovato il mandato al protagonista di quella tentata acquisizione Giuseppe Bona.

Nell’accordo di Aquisgrana del 2019 tra Francia e Germania, a detta dell’autore, tra le cose non scritte pare ci sia la divisione dell’Europa in due aree di influenza: la Grecia e l’Est alla Germania, l’Italia alla Francia. “Il trattato del Quirinale” approvato sotto gli occhi di un “compiaciuto Mattarella” pur essendo paritetico nella forma rischia di trasformarci quindi in un protettorato francese.

L’economia, Conte e il M5S

Bocciata la Seconda Repubblica anche in economia con tanto di numeri e percentuali. In compenso vede Conte e il M5S come fumo negli occhi, invece di apprezzare il tentativo di porre fine alla Seconda Repubblica, che lui stesso giudica fallimentare. Qui è la pancia che prevale, non solo nell’autore, non riconoscendo al tentativo del M5S quell’embrione di rivolta piccolo borghese e popolare che poteva dare una spallata al sistema. La spalla se la sono invece lussata.

Conclusione

Peccato gli sia rimasta la cerchiobottista sindrome DC, per cui Cirino Pomicino non arriva mai a trarre le necessarie conseguenze dai fatti. Mattarella: fortuna che c’è. Draghi: idem. Tutti amici. 

I contenuti del libro non costituiscono un vero e proprio scoop, più che altro si tratta di un esercizio di memoria. Utile specialmente a chi per fatti anagrafici non ha dimestichezza con la storia recente del Paese.

Eppure la lettura si rivela preziosa per comprendere alcune dinamiche di oggi, come la santificazione di Draghi e la sua nomina a primo ministro. Da non far cadere la denuncia degli interessi in gioco della élite economica e finanziaria, più francofila che europeista, difesi dal PD e da una stampa sempre più asservita. 

Se dovessimo essere pignoli manca ancora molta ‘materia oscura’ per apprezzare fino in fondo il degrado della nostra democrazia descritto nel libro. Ci sarebbe molta materia di ‘scandalo politico’, ma temo che siamo talmente scorati e demoralizzati che tutto ci scivolerà addosso come nulla.

Parla il giurista e storico delle istituzioni. Intervista a Sabino Cassese: “Mani Pulite ha lasciato solo macerie”. Giada Fazzalari su Il Riformista il 9 Maggio 2022. 

E’ uno dei più autorevoli giuristi italiani dell’intero dopoguerra ed è una delle voci accademiche più prestigiose di un Paese smarrito. In questa intervista all’Avanti! della domenica, Sabino Cassese propone un’analisi argomentata dello stato della giustizia italiana e, pur considerando i prossimi referendum un «forte stimolo», li ritiene «poco adatti» a dirimere questioni complesse, sulle quali la politica ha sinora mostrato la propria impotenza.

A suo parere qual è lo stato di salute della giustizia in Italia?

«La giustizia italiana è in pessimo stato. Sei milioni di cause pendenti. Più di 7 anni per concludere i tre livelli di giudizio in sede civile e più di tre per il penale. 1000 carcerazioni preventive per anno dichiarate illegittime e risarcite dallo Stato. La fiducia dei cittadini nella giustizia crollata di 20 punti negli ultimi 10 anni. Si può dire che la giustizia non sia in sintonia con la società italiana, tanto che negli ultimi anni si registra addirittura una diminuzione degli accessi alla giustizia, prova ulteriore della sfiducia dei cittadini nella giustizia».

Nel suo ‘Il Governo dei giudici’ documenta il crollo della fiducia dell’opinione pubblica nella magistratura. Per quale ragione secondo lei?

«Le ragioni le ho già indicate. Se ne può aggiungere qualcun altra. Il pessimo giudizio maturato nella collettività quando si è appreso come vengono prese le decisioni dal Consiglio superiore della magistratura. Siamo nella fase delle disillusioni, dopo le eccessive  illusioni, maturate durante gli anni 90 del secolo scorso, sulla magistratura come giudice della virtù. A questo si aggiunge l’esondazione di una parte della magistratura, impegnata in politica, nell’amministrazione, nella legislazione e, infine, la motivazione dello sciopero annunciato: ”vogliamo essere ascoltati”, che vuol dire in sostanza “vogliamo decidere noi”.

 Come giudica la riforma Cartabia passata in prima lettura alla Camera?

«La riforma Cartabia è il frutto necessario di una serie di compromessi raggiunti in un governo composto di forze politiche tra di loro opposte. Va nella direzione giusta e fa una buona parte della strada in questa direzione».

I referendum possono contribuire a incrinare la chiusura corporativa della magistratura e a contrastare la tendenza al ‘populismo giudiziario’?

«Ricordiamo innanzitutto che i referendum sono uno dei modi di partecipazione dei cittadini alla vita collettiva; sono previsti dalla Costituzione, richiedono partecipazione, senza della quale non c’è democrazia. Detto questo, va anche ricordato che i referendum sono uno strumento poco adatto a fare riforme complesse, che non possono essere decise con un si o con un no. Tuttavia, rispetto ad una classe politica tanto indecisa, possono costituire un forte stimolo. Quindi, sono uno strumento positivo e sarebbe grave se i cittadini non rispondessero o non recandosi alle urne o non votando» 

E’ giusto che  la responsabilità civile dei magistrati per gli errori commessi nei confronti di cittadini innocenti sia  diretta? Quanto può incidere sull’ indipendenza del giudice?

«Errori dei giudici possono esserci perché la giustizia è amministrata da uomini. Alla maggior parte di questi errori provvede il sistema degli appelli che sono previsti proprio perché il giudice in primo grado può sbagliare. Sulla responsabilità dei funzionari pubblici (anche i giudici lo sono), la Costituzione detta norme precise, che sono state in larga parte disattese. Non ritengo che questo tema debba essere affrontato in questa fase perché le norme esistenti bastano»

Dal 1992 al  2018 si sono registrati oltre 27.500 casi di vittime di errori giudiziari, in media più di mille innocenti in custodia cautelare ogni anno: perché accade e come si possono ridurre drasticamente queste cifre?

«La domanda solleva un problema di carattere più generale, quello delle procure composte da giustizieri. Il fenomeno detto popolarmente della gogna mediatica ha portato numerosi pubblici ministeri ad accusare, incolpare pubblicamente, ben sapendo che i processi arrivo con grande ritardo, quando tutti hanno dimenticato. Max Weber avrebbe parlato di una giustizia da cadì ».

 Come porre fine al cortocircuito tra magistratura, informazione e politica? Le porte girevoli tra magistratura e politica sono davvero un problema?

«I magistrati, sia quelli addetti alle funzioni requirenti ed inquirenti, sia quelli addetti alle funzioni giudicanti, dovrebbero essere obbligati ad astenersi da ogni impegno nella vita politica e a controllare le loro esternazioni. L’imparzialità dei giudici è connessa alla loro indipendenza e un magistrato che prende posizione a favore di questo o quell’altro partito politico o non è imparziale o non appare imparziale politici. L’Italia è l’unico paese al mondo dove due magistrati hanno costituito due diversi partiti». 

Sono 30 anni da Mani pulite. Cosa ha provocato quello tzunami mediatico-giudiziario? E cosa ne resta?

«Mani pulite: ne restano solo macerie. Non tanto per quello che fu deciso a quell’epoca, ma per quello che comportò, nel senso di diseducare l’opinione pubblica, di scaricare sulla magistratura il compito del controllo della virtù, di far maturare aspettative a cui nessun ordine giudiziario può corrispondere, di produrre, poi, un effetto di disillusione che ha finito per danneggiare gravemente la magistratura. »

 Lei ha definito i partiti “un ponte tra popolo e Stato, il veicolo della democrazia”. Ne ha descritto la crisi:  sembrano incapaci di elaborare proposte anche a causa della povertà della loro classe politica dirigente. Qual è allora la ricetta per ricostruire il ponte tra popolo e Stato?

«Domanda difficile. Qualcuno risponderebbe che, se il ponte tra società e Stato, tra  cittadini e governo, cioè i partiti, non funziona più, occorre che i cittadini entrino direttamente nella cittadella dello Stato. É la democrazia diretta. Ma la democrazia diretta, in una collettività di 60 milioni di persone, non può funzionare. Quindi, l’unica speranza è quella di ripristinare il ponte, ma questo richiede idee, programmi, uomini capaci di fare davvero politica, invece del battibecco quotidiano su problemi di breve durata.» Giada Fazzalari 

Giampiero Mughini per Dagospia il 4 luglio 2022.

Caro Dago, ti confesso che sono arrivato a un punto della mia vita in cui esito non una ma dieci volte prima di avviare la lettura un libro che di pagine ne ha non meno di 500. E invece ho esitato solo pochi minuti prima di cominciare la lettura di questo recente tomone da 700 pagine di Filippo Facci, La guerra dei trent’anni (Marsilio, 2022), da lui dedicato al terreno che vanga da tutta una vita. Nato nel 1967, aveva qualcosa più di vent’anni quando scattò il putiferio di Tangentopoli, quei dieci anni furibondi in cui venne distrutto il sistema partitico della Prima Repubblica e dunque cambiato alla grande il corso della nostra storia civile. 

Mi piacciono molto di questo libro i brani in corsivo, quelli in cui Filippo smette gli abiti dello storico/giornalista e diventa il narrante del sé stesso di allora, quando era un collaboratore esterno dell’ “Avanti!” diretto da Roberto Villetti e lo pagavano 25mila lire a pezzo pubblicato, e per giunta il più delle volte gli toglievano la firma affinché lui non campasse pretese ad essere assunto.

Erano del resto gli ultimi e stentatissimi anni del quotidiano socialista - come del resto di tutto l’universo socialista - il cui deficit stava diventando spaventoso e che pur tuttavia, al dire di Facci, pagava cifre esorbitanti i suoi collaboratori “di grido” nonché stipendi stellari. Per quel che mi riguarda  e siccome a quel tempo della mia vita sfioravo la casa socialista ed ero amico di Villetti, concordai e scrissi per il quotidiano socialista quattro pezzi. Che non mi vennero mai pagati.

Il fatto è che il Facci poco più che ventenne aveva a cuore la casa socialista pur non avendone favori né prebende, e mai un minuto è stato di quelli che il Bettino Craxi caduto in disgrazia fingevano di non averlo mai conosciuto. Tutto il contrario, lui non ha mai pensato un solo minuto che i magistrati d’accusa che fecero il bello e il cattivo tempo durante gli anni di Tangentopoli li avesse mandati a Iddio a correggere i vizi della gente. Tutto il contrario, lui fa shampoo barba e capelli ai tanti giornalisti che si occupavano di giudiziaria e che si misero in ginocchio innanzi ai magistrati d’accusa, il rude Antonio Di Pietro su tutti. 

Io non ho mai scritto una riga contro Di Pietro; di processi di colpevoli di innocenti non ne so abbastanza, non è il mio campo. Certo non ho mai scritto una riga ad adorarlo. Una volta che Di Pietro venne a una puntata di una trasmissione televisiva condotta da Piero Chiambretti, battibeccammo un istante. Lui aveva detto che gli imputati di Tangentopoli erano tutti dei malfattori, io gli obiettai se ritenesse un malfattore uno come Gabriele Cagliari, l’ex presidente dell’Eni che si suicidò in carcere il 20 luglio 1993 perché sfinito da una detenzione preventiva durata oltre quattro mesi. Non so se sia vero quello che qualcuno mi riferì, e cioè che gli autori della trasmissione non avevano gradito affatto che io contraddicessi Di Pietro.

Nel suo spassoso elenco di giornalisti “giustizialisti” Facci assegna il posto d’onore al quotidiano “L’Indipendente” allora diretto da Vittorio Feltri e di cui ero un collaboratore fisso. Quando vidi in televisione quel parlamentare/macchietta della Lega che agitava un cappio in direzione del Giuliano Amato capo del governo, subito telefonai a Vittorio dicendogli che volevo prendere le difese di Amato. Vittorio mi rispose che sarebbe stato felicissimo di pubblicare il mio pezzo, che mise in prima pagina. Accanto, e com’era nel suo pieno diritto, mise il pezzo di non ricordo più quale misirizzi che tirava calci negli stinchi ad Amato. Sì, era esattamente come scrive Facci, che nella buona parte dei giornali erano tenuti in palmo di mano i giornalisti della giudiziaria che si telefonavano ogni mattina con i magistrati d’accusa.

Sterminato è l’elenco delle piaggerie nei loro confronti documentate dal prode Facci. Sterminato è l’elenco di quel politici democristiani o socialisti o altro le cui imputazioni tuonavano dalle prime pagine dei giornali, e le cui assoluzioni per non avere commesso il fatto sonnecchiavano in basso a una paginetta del centro giornale. Sterminato è l’elenco delle anomalie procedurali e processuali di quel tempo in cui gli italiani “brava gente” si entusiasmavano al possibile nel vedere sbattuti in cella quei politici che un tempo erano apparsi onnipotenti. E a non dire dell’entusiasmo degli elettori dei partiti che avversavano i partiti degli inquisiti, a cominciare dagli elettori e simpatizzanti del Pci nel vedere Bettino Craxi e i craxiani sommersi dal fango delle accuse e dunque cancellati dalla prima linea della contesa politica.

Fu vera giustizia quella distruzione di una classe politica che aveva al suo attivo la ricostruzione democratica del Paese dopo i disastri della Seconda guerra mondiale? Sì o no la carcerazione preventiva venne usata come strumento di pressione sugli indagati affinché ne denunciassero altri? Sì no i magistrati d’accusa frugarono scrupolosamente nei retrobottega di alcuni partiti e molto meno in quelli di altri partiti? Sì o no il terremoto di Tangentopoli aprì la strada a rapporti più sani tra gli uomini dell’economia e gli uomini dei partiti?

A questa domanda lo stesso Francesco Saverio Borrelli aveva risposto qualche tempo fa di no, che Tangentopoli non aveva né sanato né migliorato alcuno dei parametri che governano il rapporto tra l’Italia dell’economia e l’Italia dei partiti. E  ammesso che quelli di oggi siano dei partiti per come noi eravamo abituati a intenderli durante la Prima Repubblica, per come noi eravamo abituati a conoscere gli uomini che avevano debuttato in politica negli anni Quaranta e Cinquanta. 

E non è un caso che quando leggiamo qualcosa che viene dai sopravvissuti di quelle generazioni, da un Rino Formica o da un Paolo Cirino Pomicino, e le paragoniamo con quello che ascoltiamo dai tanti che in tv fanno rumore con la bocca, ci vengono i brividi.

Mani Pulite non fu una rivoluzione ma guerra civile: le verità di Facci. Paolo Liguori su Il Riformista il 6 Luglio 2022. 

Guerra dunque, non rivoluzione, quella di Mani Pulite. Nessuna rivoluzione. Perché tutto nel potere giudiziario è rimasto come prima, anzi tra i rapporti tra i poteri, secondo il racconto che ne ha fatto Palamara, sono diventati ancora più confusi e torbidi. Quanto è stato scritto, detto, spiegato sull’epopea di Mani Pulite e i suoi protagonisti? Moltissimo, anche troppo. Sembra niente, a leggere il libro di Filippo Facci dedicato al tema.

“La Guerra dei Trent’anni” è il titolo e fa impressione per la scelta, il volume, la densità dei fatti narrati, la ridefinizione dei personaggi. Stiamo parlando di un’enciclopedia, di un lavoro monumentale, perfino sorprendente da parte di un giornalista, vista l’abitudine della categoria a scrivere instant-book, opere veloci, dedicate ad un singolo argomento, superficiali. In questo caso, si perdoni il paragone forte e irriverente, il contenuto ricorda più alcuni libri di Montanelli, che però scriveva in collaborazione con Gervaso e poi con Biazzi Vergani e Mario Cervi.

Filippo Facci, uno dei giornalisti più eclettici, ma apparentemente disordinati, ha fatto tutto da solo, anche per evidente mancanza di sodali. Ed ha scritto la sua Storia (di questo si tratta) con un lavoro  impressionante di ricostruzione di fatti, dettagli e persone. Non abbiate paura della mole di informazioni, vale la pena prendersi il tempo per leggere 7oo pagine scritte bene, anche per rendere omaggio all’autore che solo per le note divise per anno dal 1992, le fonti e l’indice dei nomi, pur con l’aiuto del computer non può averci messo meno di un mese. Come nella prima metà del ‘600 (1618-1648), una delle guerre più sanguinose si concluse con un riequilibrio precario dei poteri tra principi protestanti impero cattolico, così Mani Pulite viene definita da Facci una Guerra Civile tra i poteri dello Stato. Ma tanti cambiamenti significativi ci furono eccome: «la magistratura debordò e le Procure si attribuirono un ruolo di potere assoluto, l’informazione debordò e se ne attribuì un altro, l’opinione pubblica debordò di conseguenza».

Facci ha scandagliato tutte le crepe di quel terremoto, senza risparmiare nessuno, sulla base dell’archivio del proprio lavoro di giornalista e collaboratore dell’Avanti. E l’aspetto più interessante è proprio quello che riguarda l’informazione, qui descritta con una lapidaria e assolutamente vera citazione di Indro Montanelli: «Gli storici avranno un serio problema. Non potranno attingere da giornali e telegiornali, perché i cronisti durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, il soffio della piazza. Volevano il rogo e si sono macchiati di un’infame abdicazione di fronte al potere della folla».

Per chi, come me, ha vissuto nel fuoco delle polemiche quei primi anni, dalla direzione del Giorno, è una citazione da sottoscrivere senza riserve. E Facci ha il merito, con un lungo e certosino lavoro, di ricostruire una base di verità. Intanto, è l’unico, con una tesi inedita a mostrare come questa guerra di poteri inizia in Sicilia, prima che a Milano. E poi ripercorre la scalata delle Procure con minuziosa attenzione. Senza Facci, risulta poco spiegabile l’ascesa del modesto Palamara ai vertici di Csm e Anm.

Significativa la citazione di Piercamillo Davigo in una delle sue battute: «Con la Riforma, vi aspettavate Perry Mason e invece è spuntato Di Pietro». Di Pietro come simbolo ha funzionato per qualche anno, finché non si è schiantato in politica, ma intanto la Guerra dei Trent’anni continuava, proprio come quella reale: e gli Slovacchi e i Danesi e gli Svedesi e i Francesi. Gli episodi ricostruiti da Facci sono decine e affrontano la questione più interessante: il silenzio o, peggio, le menzogne interessate e servili dell’informazione. Per ogni episodio, potrete facilmente confrontare la ricostruzione di Facci con quanto credevate di conoscere e capirete.

Ma, tra tutti, un episodio vale la pena di citare, giudicato “minore” per il protagonista, ma per me gravissimo, perché si tratta di un suicidio e di una persona che ho conosciuto: Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi. Fu accusato falsamente sui giornali di aver preso una tangente di 400 milioni, si trattava di tutt’altro e Di Pietro faceva pressione per costringerlo a coinvolgere l’architetto Claudio Dini. Lui non resse e si uccise.

Scrive Facci, in sintesi: «Pareva complicata, ma era semplice. Renato Amorese, pur da morto, era divenuto la chiave per tenere in galera Claudio Dini. La dinamica era raggelante: Di Pietro aveva dato la notizia (falsa) secondo la quale Amorese era un semplice teste e non indagato; venti giorni dopo aveva dato la notizia (falsa) del ritrovamento di 400 milioni nelle cassette, mentre nello stesso giorno i giornali davano la notizia (falsa) dell’apertura delle cassette che in realtà erano ancora sigillate. E quei soldi, neppure trovati, erano diventati la giustificazione di un suicidio. Le cassette di sicurezza di Amorese vennero aperte il 16 e il 23 luglio, ma i soldi non c’erano. La notizia non comparve sui giornali. Neanche sul Corriere della Sera, che pure aveva scritto in prima pagina il contrario». “Mani Pulite, vite spezzate”, titolò il Giorno, dopo il suicidio di Primo Moroni. Filippo Facci spiega bene anche il senso di quel titolo.

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Trent’anni dopo. Il trasformismo dell’onestà, il diritto come igiene e altri orrori nati con Tangentopoli. Carmelo Palma su Linkiesta l'8 aprile 2022.

Il libro di Filippo Facci (pubblicato da Marsilio) non è solo il diario di bordo personale di quegli anni, ma anche la descrizione del contesto (in senso sciasciano) in cui ebbe origine quella rivoluzione mancata, che ne spiega tanto il fallimento quanto l’eternizzazione.

Il nuovo libro di Filippo Facci – “La guerra dei trent’anni: 1992-2022. Le inchieste, la rivoluzione mancata e il passato che non passa” (Marsilio) – di anni, a dispetto del titolo, non ne racconta trenta, ma solo tre (1992, 1993, 1994). Sufficienti però per dimostrare che Mani Pulite non fu un regime change, né il punto di rottura tra un “prima” e il “dopo” della storia nazionale, ma una sorta auto-sovvertimento del sistema e della gerarchia dei poteri italiani, l’ennesimo ballo in maschera di un’epopea trasformistica, che ha accompagnato l’Italia dai suoi esordi unitari e che di certo non sarebbe potuta finire per mano di uno dei più straordinari campioni dell’arci-italianità, Antonio Di Pietro.

Se i libri su Tangentopoli sono diventati da tempo un genere letterario, Tangentopoli ha rappresentato da subito un genere politico e dal tintinnare delle prime manette, nel 1992, si è registrata una corsa grottesca a diventarne autori ed attori anche da parte leader e partiti (uno per tutti: Umberto Bossi), che sarebbero presto stati pizzicati dai loro beniamini giudiziari con le mani nella marmellata dei finanziamenti illeciti.

La retorica del “partito degli onesti” ha accompagnato da allora le evoluzioni della cosiddetta Seconda Repubblica fino al suo esito naturale: al trionfo dell’ò-né-stà grillina, cioè al rovesciamento delle istituzioni democratiche non dall’esterno, ma dall’interno, e alla liquidazione del sistema politico dei partiti come una sovrastruttura parassitaria e rinunciabile, per un immediato autogoverno popolare. Il compimento ideologico di Mani Pulite: i partiti come ladri non solo di soldi, ma anche di democrazia.

Il libro di Facci è una sorta di diario di bordo della sua personale traversata di quei tre anni assurdi e terribili, iniziati da cronista abusivo di un giornale ufficialmente “di ladri”, cioè L’Avanti, e terminati da autore di libri che nessuno pubblicava, ma che circolavano, suo malgrado, in forma di dossier anonimi. Però da questa cronaca esce anche un affresco realistico e convincente del contesto (in senso sciasciano: del viluppo inestricabile di relazioni e di ricatti), in cui ha preso avvio quella rivoluzione mancata e che ne spiegano tanto il fallimento, quanto l’eternizzazione. “Il tradimento di Mani Pulite” come “La “Resistenza tradita”; “Ora e sempre Mani Pulite” come “Ora e sempre Resistenza”.

Facci, a differenza di molti apologeti della Prima Repubblica, che invertono semplicemente le parti ai buoni e ai cattivi del copione delle procure, evita di raccontare la contro-storia della Repubblica più bella del mondo ammazzata da una magistratura brutta, sporca e fellona. Al contrario spiega molto bene, senza alcuna indulgenza, che ad essere aggredito da Tonino e dai suoi compagni d’arme era il corpo di una Repubblica economicamente collassata e politicamente svanita e alienata, che a Maastricht aveva firmato impegni che non avrebbero potuto essere mantenuti, senza svelare dolorosamente il bluff di una crescita e di un benessere drogati da deficit, debito e svalutazioni.

A partire dal 1992, le inchieste dilagano in un Paese in cui Amato e poi Ciampi devono fare manovre monstre per evitare il default: ne esce così confermata la diceria, propalata a piene mani da politici e gazzettieri di complemento, che l’Italia stesse fallendo perché qualcuno si era rubato i soldi. Un falso dopo l’altro, anzi un falso dentro l’altro. Non era vero che l’Italia era ricca quando si indebitava per mantenere un tenore di vita da “società signorile di massa”, come – ricorda Facci – l’avrebbe definita anni dopo Ricolfi. Ma non era neppure vero che le centinaia di migliaia di miliardi di sovra-indebitamento pubblico, che avevano pagato un patto sociale e un consenso democratico disfunzionale e insostenibile, fossero finiti nelle tasche dei politici. Erano finiti, banalmente, nelle tasche degli italiani; ma erano, per l’appunto, finiti.

Un altro merito e forse la maggiore originalità del libro di Facci è di incrociare le vicende giudiziarie di Tangentopoli con quelle delle inchieste contro la mafia di Falcone e Borsellino. Dal raffronto esce il paradosso di due storie che sembrano procedere esattamente al contrario. Da una parte una pesca a strascico che miete morti, feriti e vittime innocenti (metà degli inquisiti della Procura di Milano uscirà pulita dai processi), che non moralizza affatto la politica e che fa del finto moralizzatore Di Pietro l’uomo più famoso, amato e potente d’Italia. Dall’altra una strategia vincente, che dal maxiprocesso in poi porta alla disarticolazione di Cosa Nostra e che si conclude però con l’isolamento e la morte dei due principali protagonisti. Borsellino abbandonato nella gestione del dossier Mafia e Appalti, archiviato subito dopo la strage di Via D’Amelio. Falcone schifato dall’antimafia combattente, che ne avrebbe in seguito usurpato i titoli di nobiltà, e mascariato come lacchè andreottiano, dopo il suo trasferimento agli Affari Penali di Via Arenula, con l’allora ministro della giustizia Martelli.

Il bilancio di Tangentopoli è politicamente negativo. Ha rafforzato l’idea che la giustizia e lo stato di diritto non siano sinonimi e possano anche essere contrari, quando serve “fare pulizia” e che la tutela giudiziaria della politica sia un fattore, magari sgradevole, ma necessario, di igiene democratica. Dei due leader, a cui Facci riserva nel libro calorose parole di affetto e gratitudine, Craxi e Pannella, fu il secondo a definire icasticamente questo esorcismo, questo abracadabra trasformistico che avrebbe dovuto liberare l’Italia dal maligno del malaffare e della malapolitica e a svelarne la natura nichilista: se si accontenterà di «passare dal conformismo dei clienti alla rivolta dei pezzenti, che con rabbia vogliono solo distruggere il padrone di ieri, questo Paese si autodistruggerà», disse il leader radicale a Mixer il 1 febbraio 1993. È una frase che non è presente nel libro, ma che ne potrebbe essere l’esergo. Ed è una profezia molto precisa su quello che sarebbe accaduto nei trent’anni successivi.

Esce oggi “La guerra dei trent’anni” (Marsilio) e l’autore, Filippo Facci, anticipa per noi una sintesi e i temi principali del libro. Una ricostruzione di “mani pulite”, inchiesta che terremotò l’Italia. Da “Libero quotidiano” il 7 aprile 2022.

Poco più di trent' anni fa - il 5 aprile 1992 - ci furono le «elezioni terremoto» che secondo molti fecero da detonatore alla «rivoluzione» di Mani pulite, e secondo altri - sempre meno - originarono una Seconda Repubblica. 

A ripensarci, però, non fu una scossa così violenta, anche se i risultati furono clamorosi: la Dc scese al minimo storico (dal 34,3 al 29,7 per cento) con perdite eccezionali nel Nord-Est (-12 per cento nelle province di Verona e Padova; -18 in quella di Vicenza) e il Psi non cavalcò nessuna onda lunga, ma flesse dal 14,3 al 13,6 per cento: il quadripartito che aveva sostenuto il precedente governo Andreotti (Dc-Psi-Psdi-Pli) mantenne una risicata maggioranza, e il nuovo Pds erede del Pci, che aveva appena cambiato nome dopo la caduta del muro di Berlino, si attestò sul 16,6 per cento con la nuova Rifondazione comunista che non superò il 5,6 per cento. 

Ma un discreto successo ottenne La Rete, il movimento di Leoluca Orlando che puntava tutto sulla retorica antimafia (dodici deputati e tre senatori) e poi la vera trionfatrice: la Lega Nord di Umberto Bossi, personaggio che andava a letto alle 8 del mattino e si svegliava alle 6 di sera: dallo 0,5 per cento balzò all'8,7 nazionale (55 deputati e 25 senatori) e colonizzò il settentrione con il 25,1 per cento in Lombardia, 19,4 in Piemonte, 18,9 nel Veneto, 15,5 in Liguria e 10,6 in Emilia-Romagna.

Bettino Craxi raccolse 94mila preferenze, Bossi 240mila. Il partito «razzista» passò dalle salsicce di Pontida (dove nel Medioevo fu costituita la Lega lombarda dei comuni contro Barbarossa) a una truppa di parlamentari dapprima guidati in «tour» per conoscere la Capitale e distoglierli dalle tentazioni della grande meretrice. Il responsabile amministrativo, Alessandro Patelli, organizzò un pulmino per i deputati e mise in piedi un convitto dove dimoravano tutti gli eletti che la sera facevano gruppo e formazione. Anche la sola uscita in un ristorante della Capitale era considerato potenzialmente corruttivo e invischiante.

A titolare «Elezioni terremoto» fu soprattutto il Corriere della Sera, capofila di una stampa che in generale aprì un fuoco di fila contro la maggioranza. La sera dei risultati ci fu una prima telerissa (sensazionale, per l'epoca) fra il direttore del Tg1 Bruno Vespa e il segretario repubblicano Giorgio La Malfa. L'antipolitica montava soprattutto in tv. Su Raitre c'era Gad Lerner con il suo Profondo Nord poi diventato Milano, Italia, su Italia Uno c'era Gianfranco Funari con Mezzogiorno italiano, intanto Michele Santoro faceva sempre grandissimi ascolti: anche se nelle settimane preelettorali il direttore generale della Rai gli chiuse la trasmissione per quindici giorni: da immaginarsi che cosa ne venne fuori. Il 13 gennaio di quell'anno era anche partita l'era dei telegiornali Fininvest, che sostenevano l'inchiesta mani pulite più della Rai: Silvio Berlusconi, che ormai aveva ottenuto tutte le concessioni che gli servivano, non ebbe niente da eccepire.

Una settimana prima, il 30 marzo, l'indagato socialista aveva «confessato» al «gabbiotto», una costruzione prefabbricata infelicemente piazzata nel cortile del Palazzaccio di giustizia. C'erano settanta persone tra giornalisti, cameraman e fotografi, e si sentì tutto, perché avevano aperto una finestrella laterale: «Non chiedetemi più nulla di quelli lì, basta», disse Chiesa, «M'avete rotto i coglioni con quel nome». Il nome era quello di Vittorio «Bobo» Craxi, il cui padre era candidato alla presidenza del Consiglio. 

Ancor oggi si tramanda che Chiesa avesse confessato perché Craxi il 29 febbraio lo aveva definito «mariuolo»: ma non è vero, e lo dimostra una lettera di Chiesa che il libro La guerra dei trent' anni pubblica integralmente. Chiesa, infatti, non fece mai il nome di nessun Craxi. Molte cose non sono vere: anche la favola dell'imprenditore monzese che si offrì volontario per incastrare Mario Chiesa in flagranza di reato: in realtà fu costretto a farlo - perché aveva pagato tangenti - ma dapprima non aveva intenzione di denunciare nessuno, e si ritrovò suo malgrado a fare da infiltrato, anche perché la sua Ilpi, impresa di pulizie, stava fallendo, e infatti fallirà: dovrà pure difendersi dall'accusa di bancarotta fraudolenta.

Ancora nel 2012 raccontava: «Di Pietro era il pubblico ministero di turno, quella mattina: se non ci fosse stato lui, ma un altro, forse le cose sarebbero andate in un modo diverso». Disse pure che Di Pietro votava per il Msi. Non è neanche vero che Mario Chiesa cercò di occultare i 7 milioni della tangente nel water del suo ufficio, tirando lo sciacquone: non esiste infatti nessun atto o verbale che attesti il tentativo e in ogni caso riguardava un'altra tangente pagata dall'impresa che aveva ritinteggiato l'intero stabile, la Carobbi: a rivelarla fu lo stesso Chiesa.

Non è neppure vero che l'inchiesta Mani pulite aveva atteso le elezioni del 5 aprile per trasformarsi in rivoluzionaria: aveva cominciato prima, anche senza consenso popolare. Tre giorni prima del voto il gip «unico» Italo Ghitti aveva già detto che «il nostro obiettivo è colpire un sistema, non le singole persone». 

Sulla funzione anomala del gip «unico» si è già espresso definitivamente Guido Salvini, magistrato insospettabile che passò quegli anni proprio all'ufficio gip: Ghitti - racconterà - accentrò indebitamente tutti filoni di quell'indagine che evitò così di confrontarsi con posizioni e scelte di una ventina di giudici. Il fascicolo di Mani pulite non era neanche un fascicolo, ma un registro che riguarderà migliaia di indagati per vicende tra loro completamente diverse, unificate solo da numero (8655/92) esteso anche a vicende per cui la competenza territoriale di Milano non esisteva.

Così, ancor prima del 5 aprile 1992, con o senza consenso e «dipietrismi», cominciò una nuova fase giurisprudenziale: ogni reato ipotizzato sarà inquadrato nell'affiliazione a un sistema, e la pretesa dimostrazione che l'indagato ne avesse fatto parte basterà a giustificare il protrarsi della galera preventiva. Chi parlava e denunciava altri, invece, poteva essere liberato perché ritenuto inaffidabile agli occhi dello stesso sistema, come i pentiti con la mafia.

Quello che è vero - a proposito di mafia - è che la vera rivoluzione giudiziaria in realtà nacque al Sud, o avrebbe dovuto farlo. La prima vera bastonata alla vecchia Repubblica, infatti, coincise con la prima vera bastonata alla mafia, piaccia o meno l'accostamento: e sarà il preludio, per Cosa nostra, dei suoi ultimi e terribili colpi di coda; parliamo dell'omicidio di Salvo Lima e del dossier «mafia-appalti» che- è acclarato - fu la vera causa delle stragi che uccisero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in una terra dove Mani pulite preferì non mettere becco nonostante un sistema che vedeva sedute al «tavolino» politica, imprenditoria e criminalità organizzata. Lo strumento chiave di Mani pulite - il carcere preventivo - avrebbe fruttato ben poche confessioni, anche perché qualsiasi cella, se l'indagato avesse aperto bocca, sarebbe stata preferibile alle pallottole mafiose che potevano attenderlo una volta scarcerato.

«Parlare», al Nord, equivaleva a uscire da un sistema; al Sud equivaleva a entrare al camposanto. L'informativa «Mafia-appalti» era già nelle mani di Giovanni Falcone il 20 febbraio 1991. Il 15 marzo Falcone disse «la mafia è entrata in borsa». Paolo Borsellino, pochi giorni prima di morire, fece in tempo a farsi dire che i soldi di Totò Riina era confluiti in una grande azienda italiana: che no, non è la Fininvest. I verbali sono nel libro.

Poco più di trent' anni fa - il 5 aprile 1992 - la rivoluzione giudiziaria era appena nata. Neanche un anno dopo, la composizione del sesto raggio di San Vittore sarebbe stata la seguente: 

cella numero 1: Enzo Carra, portavoce della Democrazia cristiana, in compagnia di un camionista accusato di associazione mafiosa; 

cella numero 2: Salvatore Ligresti, imprenditore; 

cella numero 3: Francesco Paolo Mattioli, manager della Fiat; 

cella numero 4: Clelio Darida, democristiano, ex ministro della Giustizia, in compagnia di Claudio Restelli, ex segretario del ministro della Giustizia Claudio Martelli; 

cella numero 5: Claudio Dini, socialista, ex presidente della Metropolitana milanese;

cella numero 6: Franco Nobili, ex presidente dell'Iri (Istituto ricostruzione industriale), in compagnia di Serafino Generoso, democristiano, ex assessore regionale della Lombardia; 

cella numero 7: Giorgio Casadei, ex segretario e assistente del ministro socialista Gianni De Michelis, in compagnia di Angelo Jacorossi, imprenditore; 

cella numero 8: Claudio Bonfanti, ex assessore della Regione Lombardia. 

Almeno sei di loro saranno prosciolti o assolti con formula piena. Poco più di due anni dopo, il 21 novembre 1994, qualcuno - una donna, come si racconta ancora nel libro - passerà a un cronista del Corriere della Sera il mandato di comparizione per Silvio Berlusconi, presidente del consiglio di stanza a Napoli per un convegno sulla criminalità.

E spariranno cinque partiti storici: la Democrazia cristiana (nata nel 1943), il Partito socialista italiano (1892), il Partito socialdemocratico italiano (1947), il Partito repubblicano italiano (1895) e il Partito liberale italiano (1922). La cinetica dell'inchiesta spazzò via anche la vecchia legge sul finanziamento pubblico e il sistema elettorale proporzionale. Benché quei partiti, oltre a foraggiare se stessi e il Paese, forse contribuirono anche a tessere quel poco tessuto civico che avevamo. 

Dagospia l'8 aprile 2022. Da «La guerra dei trent’anni, 1992-2022» di Filippo Facci, Marsilio, in libreria da oggi:

A carico di Silvio Berlusconi, il 21 novembre 1994, la procura opto per un «invito a comparire per persona sottoposta a indagine» (non un avviso di garanzia, come dicono ancora oggi) secondo l’articolo 375 del Codice di procedura penale: in pratica era un appuntamento obbligato per essere interrogati. Una convocazione. 

A scriverlo materialmente fu Di Pietro. Era composto da quattro pagine: la prima conteneva il nome di Berlusconi e due capi d’imputazione legati a presunte tangenti legate a Mediolanum e Mondadori, mentre nelle altre tre il Cavaliere era accusato per tre tangenti alla guardia di finanza legate a delle verifiche nelle società Videotime, e ancora Mediolanum e Mondadori. Il dettaglio e importante, perchè la fuga di notizie riguarderà solo una pagina: la prima. 

Il procuratore capo Borrelli diede un’occhiata al provvedimento prima di passarlo a Davigo affinchè procedesse all’iscrizione nel registro degli indagati. Poi Di Pietro parti per Parigi, si vedrà più avanti perchè: probabile, tra l’altro, che volesse sottrarsi a ogni sospetto in caso di fuga di notizie, perchè null’altro avrebbe giustificato una sua assenza in un momento del genere.

Dopodiche, eccezionalmente, Davigo scelse di non fidarsi del consueto passaggio dalla cancelleria (dove circolavano sempre una decina di persone) e decise che l’iscrizione dell’indagato dovesse passare dal computer del suo ufficio, che pero – si accorse – non era abilitato a quel genere di registrazioni. Allora si rivolse al capo della cancelleria e chiese se poteva mandargli un ingegnere per modificare il programma; cosi fu, anche se, tra una cosa e l’altra, se ne andò un’ora e mezza. I cronisti lo notarono.

Era quasi mezzogiorno e in corridoio, d’un tratto, transitarono rispettivamente il comandante regionale e quello provinciale dei carabinieri, Nicolo Bozzo e Sabino Battista, agghindati con la mantella di gala perchè probabilmente strappati a qualche cerimoniale. Alcuni giornalisti notarono anche loro. Gianluca Di Feo fece una prima telefonata al suo capocronista, Alessandro Sallusti, e gli disse che aveva notato movimenti strani. E vabbè, movimenti strani.

Si videro anche a pranzo. Il suo collega Goffredo Buccini aveva fama di apprensivo sino alla paranoia, ma Di Feo aveva invece posture da «mitomane», o perlomeno fu questa l’espressione che Buccini aveva utilizzato nel lamentarsene con il suo capocronaca: «Quando Ettore Botti mi ha comunicato che sarebbe stato il mio secondo», scriverà Buccini, «ho storto la bocca: le poche volte che ci eravamo parlati si atteggiava a segugio d’inchiesta e sosteneva di essere talvolta pedinato da qualcuno». 

Comunque i due alti ufficiali stavano andando da Borrelli, il quale, dopo i saluti di rito, chiese loro dove si trovasse quel giorno il presidente del Consiglio. Gli risposero che era a Napoli, ma che nel pomeriggio, per quanto sapevano, sarebbe rientrato a Roma. In realtà non c’era bisogno di convocare quegli alti ufficiali personalmente: fu un modo per responsabilizzarli in vista del delicato incarico che senza dubbio rappresentava recapitare a un presidente del Consiglio quella busta gialla, l’invito a comparire.

Il quale riemerse dal suo ufficio attorno alle 14 e accompagno gli alti ufficiali all’ascensore. Qui incrociarono ancora Gianluca Di Feo del «Corriere», figlio di un carabiniere ed esperto di cose di carabinieri: il quale, cortesemente e con la sua voce garrula, chiese quale gradevole ragione avesse portato i due alti ufficiali a transitare proprio da quelle parti.

Davigo rispose motivando la presenza dei due con una frettolosa cazzata: era il giorno della Virgo Fidelis – disse – patrona dell’arma dei carabinieri; ma Di Feo, da secchioncello, fece notare che durante la festa della Virgo Fidelis erano i magistrati che andavano in caserma dai carabinieri, non viceversa. Piccolo imbarazzo. E piccolo segnale, ma solo uno dei tanti, uno dei tantissimi che da settimane allertavano i giornalisti dopo il «preavviso» a Berlusconi annunciato da Borrelli nell’intervista del 5 ottobre. La gaffe sulla Virgo Fidelis verrà venduta come intuizione geniale, anche se da sola contava sino a un certo punto. 

I due ufficiali intanto, per via gerarchica, avevano passato la busta gialla al tenente colonnello Emanuele Garelli e al maggiore Paolo La Forgia, subito partiti per Roma vestiti in borghese e con un’auto con targa civile. La Forgia aveva già recapitato avvisi di garanzia a Bettino Craxi, al repubblicano Ugo La Malfa e al liberale Renato Altissimo, tre segretari di partito.

In procura, in realtà, un solo giornalista aveva già saputo con certezza che l’invito a comparire per Berlusconi era stato firmato: Paolo Foschini di «Avvenire». Lui e soltanto lui. Non sapeva che la busta gialla era pure già partita verso il destinatario, ma per quel tipo di provvedimento era da darsi per scontato. Tutto il resto – gli ufficiali, il tecnico dei computer, mille altri dettagli – apparteneva alla sfera del sempiterno clima di preallerta che da settimane regnava tra cronisti ormai ipertesi.

Piu tardi, alla macchinetta del caffe, Davigo incontro ancora Di Feo assieme a Foschini e Cristina Bassetto, la mia amica ex dell’«Avanti!» che era passata all’agenzia Adnkronos; parlarono ancora dei due ufficiali, e Davigo si lancio in un elogio del comandante Bozzo, del quale – disse – in procura si fidavano ciecamente. Quel suo volerlo sottolineare rafforzo altri sospetti. 

Con i soli sospetti, pero, non ci facevi niente. E neanche con una notizia certa ma priva di una pezza d’appoggio: Paolo Foschini sapeva che per scrivere gli occorreva ben altro, e tanto più su un quotidiano particolare come il suo. Il pool dei giornalisti, in quel periodo, si era ormai sfaldato e marciava stancamente, impigrito, diviso in base più ad amicizie personali che alla necessita di coprire le poche notizie che circolavano.

Buccini i primi di ottobre era stato promosso inviato e Paolo Mieli l’aveva addirittura trasferito a Roma (in albergo, per cominciare), si era quindi sganciato dalla cronaca di Milano e un po’ anche dal vecchio sodale Peter Gomez, passato intanto dal «Giornale» alla «Voce»; i cronisti della «Repubblica», del «Corriere» e della «Stampa» andavano sufficientemente d’accordo tra loro (Colaprico e Fazzo nella prima, Di Feo e Buccini nel secondo, Fabio Poletti nella terza) e poi, su un apparente altro fronte, c’era il solito Paolo Colonnello del «Giorno», affiancato dall’intelligenza timida e incattivita di Luigi Ferrarella, entrambi finalmente liberi dalle vessazioni dell’ex direttore Paolo Liguori.

Poi c’erano due grandi amici, Renato Pezzini del «Messaggero» e Paolo Foschini di «Avvenire»: Foschini era un educato e pigro pischello che nel suo primo giorno nella sala stampa del tribunale era stato accolto quasi con tenerezza, guidato in un tour in procura da Michele Brambilla del «Corriere» e appunto da Renato Pezzini, con cui lego molto. Poi c’era qualche eccezione solitaria e altri un po’ a rimorchio. 

Foschini aveva un discreto rapporto anche con Gianluca Di Feo del «Corriere» e tanto gli basto per tentare un azzardo, nella consapevolezza che la notizia che aveva non avrebbe potuto scriverla da solo su «Avvenire». Gli serviva una spalla. E robusta. Prese da parte Di Feo e gli rivelo che Berlusconi era indagato e che ne era proprio certo, e che forse loro due, alleandosi, avrebbero potuto trovare i riscontri necessari per poter scrivere che un presidente del Consiglio era nelle spire di Mani pulite.

Di Feo si disse d’accordo, accetto almeno formalmente: facile che pero immaginasse già tutto un altro film che tra i protagonisti non prevedeva testate concorrenti, neanche un peso piuma come «Avvenire»: corse dal capocronista Alessandro Sallusti e rivendette la notizia come solo sua; di Foschini non fece alcun cenno. Berlusconi era indagato e urgeva la presenza di Goffredo Buccini perchè aveva – era noto – una talpa particolare in procura che poteva rivelarsi decisiva. Foschini, invece, allerto l’amico Pezzini del «Messaggero» che quel giorno era fuori Milano per servizio.

Buccini intanto era «sul pezzo» come poteva esserlo uno che era stravaccato su una poltrona a intervistare Ignazio La Russa, a Roma. La telefonata di Di Feo lo riporto dal torpore capitolino alla consueta iperagitazione da cronaca giudiziaria: s’involo per Milano senza neppure ripassare dall’albergo e preallerto – o fece preallertare, più probabilmente – la sua fonte in procura, una donna che in precedenza non si era dimostrata insensibile al fatto che lui fosse un uomo, un rapportarsi che non era un segreto assoluto.

L’invito a comparire intanto stava per giungere nella capitale. 

Buccini atterro a Milano verso le 19 e passo direttamente dalla sua fonte «al solito posto», vicino alla procura. I colleghi si erano già salutati ed erano tornati nelle rispettive redazioni a scrivere oppure a non farlo. La fotocopia, o stampata che fosse, fu finalmente nelle sue mani, anche se alla fine era un foglio solo: il primo di quattro, ma questo lui non poteva saperlo. For- se era stata stampata in un solo foglio per errore o per fretta, vai a sapere. Buccini riapparve in redazione verso le 20.30 e intanto era tornato anche il direttore Paolo Mieli, rimasto fuori tutto il giorno – pur aggiornato per telefono – e reduce dalla presentazione di un libro.

Gli ufficiali dei carabinieri intanto erano giunti a Palazzo Chigi – erano ormai le 19.30 –, ma Berlusconi non lo trovarono: c’era solo un consigliere diplomatico che chiamo il sottosegretario alla Presidenza, Gianni Letta, che a sua volta chiamo Berlusconi il quale non si era mai mosso da Napoli. Verso le 20, gli ufficiali chiamarono Borrelli per sapere che cosa dovevano fare. 

Il procuratore, il quale aveva ricevuto un’ansiosa telefonata di Buccini a cui aveva risposto picche, aveva fretta che Berlusconi sapesse del provvedimento (figurarsi che cosa sarebbe successo se la notizia fosse trapelata prima della notifica) e li autorizzo a telefonare al Cavaliere per leggergli l’atto, cosa di cui si incarico il comandante Emanuele Garelli.

La chiamata, pero, duro meno di un minuto, perchè stava per cominciare il concerto di Pavarotti al teatro San Carlo. Berlusconi capi soltanto che c’erano grane in vista. Rimandarono a più tardi, e fu il Cavaliere a richiamare alla fine del concerto, verso le 23: si sorbi la lettura solo della prima pagina, perchè a un certo punto si stufo, e, seccato, diede appuntamento agli ufficiali per l’indomani, a Palazzo Chigi, alle 14.

Intanto, al «Corriere», Gianluca Di Feo viveva la sua ansia da tradimento e Goffredo Buccini viveva la sua ansia e basta. Mieli, in ogni caso, faceva la parte del direttore a cui nessuna conferma poteva bastare: in sostanza lo «scoop» di Buccini e Di Feo consisteva nella pubblicazione di una carta giudiziaria incompleta prima che degli alti ufficiali la consegnassero completa al destinatario, consistette nell’averla anticipata di qualche ora prima che il destinatario la rendesse nota comunque, consistette nell’aver impedito che il destinatario potesse gestirla mentre il nostro paese aveva puntati addosso gli occhi del mondo, consisterà – ma di questo il «Corriere» non ha colpa diretta – in una robusta spallata che quantomeno favorirà la caduta di un governo, consisterà nell’inizio di un procedimento penale che condurrà l’indagato a un’assoluzione per non aver commesso il fatto.

E consisterà in uno «scoop» che nei libri di Bruno Vespa, non per sua colpa, sarà descritto come la scoperta dello scandalo Watergate con tanto di inesistente «gola profonda» (che era un comandante generale della vicina caserma di via Moscova, che si limito a rassicurare Di Feo senza dirgli nulla) e sarà descritto prefigurando inesistenti e tenebrosi incontri in improbabili parcheggi sotterranei come in Tutti gli uomini del presidente con Robert Redford e Dustin Hoffman, quando invece la fonte primigenia era una donna che lavorava in procura, la quale aveva allungato una fotocopia a Buccini, anche se lui per anni parlerà di una «una fonte molto qualificata» che gli aveva confermato la notizia.

La notizia, dunque, fu scoperta da Paolo Foschini, non dal «Corriere», che altrimenti non avrebbe cercato conferme di alcunche. Foschini fu sostanzialmente tradito dall’amico Di Feo e le «conferme» alla fine furono le seguenti: 1) un foglio passato da una femmina non estranea ai propri sentimenti che forni una sola fotocopia su quattro; 

2) una chiamata di Buccini a Borrelli alle 21, con il procuratore che «mi attacca praticamente il telefono in faccia ma non smentisce chiaramente», anche se un’altra fonte sostiene che la risposta fu: «Come si permette di chiamarmi a casa e farmi questa domanda, non si permetta più di fare una cosa simile»;

3) poi un’altra chiamata di Buccini a Davigo che smentì ancora più chiaramente – questo almeno ha scritto Davigo in un suo libro – o che, secondo un’altra fonte, rispose cosi: «Ma le sembrano cose di cui parlare con un magistrato?». Clic; 

4) a questo aggiungiamo le infruttuose telefonate di Di Feo a vari carabinieri che fornirono «smentite non convincenti», perchè ormai al «Corriere» si basavano su questo: su quanto le smentite fossero «non abbastanza convincenti» o su quanto le smentite non fossero abbastanza smentite. Entrambi i giornalisti registrarono dei nastri con tutte le telefonate. Mieli non sembrava convinto per niente;

5) ma poi, verso le 23, Gianluca Di Feo fece un’ultima scappata in via Moscova, da un comandante dei carabinieri amico suo a cui fece una scena madre dicendogli che, se avesse sbagliato l’articolo, sarebbe stato rovinato per sempre, la sua famiglia sarebbe stata coperta di ridicolo, avrebbero chiuso il «Corriere»... cose del genere. In pratica chiese all’ufficiale di fermarlo prima che fosse troppo tardi. 

L’ufficiale diede a Di Feo una pacca sulla spalla e gli rispose soltanto: «Gianluca, vai a casa, sai che ti voglio bene». E questa e una frase che in via Solferino ritennero fondamentale, perchè, se la notizia fosse stata falsa, il generale amico avrebbe reagito diversamente. E lecito pensarlo, quell’uomo era un amico storico e familiare di Di Feo e l’amicizia era importante: anche se, forse, da principio l’aveva pensato anche Paolo Foschini. 

Di Feo tuttavia trasformerà quella banale «conferma» ottenuta nella caserma in via Moscova (e che era molto più conferma di tutte le altre messe insieme) in una serie di oscuri dialoghi telefonici con un’inesistente «gola profonda» di cui saranno infarciti i libri di Bruno Vespa. 

Nel contempo in via Solferino si era creato un surreale doppio binario: ai piani superiori c’erano il caporedattore Antonio Di Rosa, il vicedirettore Giulio Giustiniani e il vicecaporedattore centrale Paolo Ermini (non e chiaro se ci fosse anche il vicedirettore Ferruccio de Bortoli) i quali erano all’oscuro di tutto e avevano già disegnato una prima pagina senza la notizia su Berlusconi; mentre al piano inferiore, nella stanza chiusa del capocronista Alessandro Sallusti, assieme a lui c’erano Di Feo, Buccini e Mieli che preparavano un’altra prima pagina con l’ausilio di quello che in gergo si chiamava «proto», un tecnico di composizione tipografica.

Ma se l’atmosfera si stava facendo pesante non era solo per la tensione: era già da un po’ che i colleghi della giudiziaria avevano cominciato a chiamare per il consueto giro delle telefonate serali. Alle 21 aveva chiamato anche Foschini a cui Di Feo aveva risposto: «Nessuna novità». L’«Avvenire» di Foschini chiudeva prima degli altri perchè alle 23 andava già in stampa. Aveva chiamato anche Peter Gomez della «Voce», che per Buccini era più di un fratello: avevano fatto la scuola di giornalismo insieme, scritto libri a quattro mani, stretto alleanze di ferro quando il pool dei giornalisti non esisteva, avevano condiviso e sognato la stessa professione e, ora, lo liquidava con un secco: «Nessuna novità».

Gomez, proprio in quei giorni, stava aiutando Buccini e Di Feo a riaprire un canale con Di Pietro, che con il «Corriere» non aveva più voluto parlare dopo che l’amico Goffredo aveva raccattato una letteraccia amarissima che Di Pietro aveva scritto il giorno prima che morisse sua madre, a Vasto, dove Buccini oltretutto era andato facendo da autista a Davigo e Colombo: poi il Tonino sofferente aveva deciso di non farne più nulla e di non rendere pubblico quello sfogo di un momento troppo intriso di dolore privato, ma Buccini era riuscito a recuperare la bozza e l’aveva pubblicata sul «Corriere».

Strano che Di Pietro non volesse più parlargli. Ora Gomez si stava facendo in quattro per ricucire il rapporto, e ora pero drin, «Nessuna novità». Buccini la fama un po’ da stronzo ce l’aveva sempre avuta, Di Feo stava facendo un apprendistato con il turbo. Ora eccoli li, nel cabinozzo di Sallusti con i loro cellulari che suonavano e trillavano e loro ormai che non rispondevano più. Ma le telefonate continuavano, e più loro non rispondevano e più i trilli sembravano insistere, animarsi, pesare come sensi di colpa. 

Se ne accorsero anche Mieli e Sallusti. Nel libro Il duello di Bruno Vespa, tra le fantasticherie di Gianluca, c’è anche un passaggio che prefigura un Di Feo che fuori tempo massimo ha «un problema di coscienza» e spiega a Mieli che «ritiene che tra i colleghi degli altri giornali solo Foschini abbia capito che i giudici abbiano tirato l’affondo finale a Berlusconi». Lo ha «capito». E quindi «chiede a Mieli se può informarlo». Il direttore risponde di no, ora e tutto chiaro: lo stronzo e Mieli. Invece, nel libro di Buccini del 2021 sul trentennale di Mani pulite Foschini non viene neppure nominato.

Ecco infine la prima pagina, finita, approvata, quella vera: titolo di spalla (a destra del giornale) a sei colonne: Milano, indagato Berlusconi. Cosiddetto «catenaccio» o sottotitolo: «E l’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza». Si parlava di due soli capi d’imputazione perchè avevano avuto appunto un foglio solo (del quale Buccini e Di Feo peraltro negarono l’esistenza per anni, nei loro racconti romanzati) e circa la mancanza della terza imputazione, ancora nel 2021, Buccini spiegherà che su quella terza notizia «ci abbiamo messo le orecchie ma non gli occhi. Per eccesso di prudenza, sfumiamo». Certo, si.

Buccini si spingerà oltre: «Il fatto che proprio in quelle ore Berlusconi non lasci completare ai suoi interlocutori telefonici l’elenco delle accuse, chiudendo la comunicazione con i carabinieri proprio prima che quelli arrivino a citargli Videotime, induce alcuni astuti esegeti a fare due più due, producendo la straordinaria teoria che sia proprio lui la nostra fonte decisiva, cosi da potersi atteggiare a vittima la mattina dopo. Una tesi ovviamente sostenuta con qualche interesse anche da molti colleghi di altri giornali». 

Gli astuti esegeti, a dire il vero, sono i magistrati di Milano. Quella era la tesi della Procura di Milano e lo e ancora oggi. Dira Davigo: «Noi eravamo gli ultimi ad avere interesse che la notizia uscisse in quei tempi e in quei modi, essendo facilmente prevedibile l’uso che si sarebbe fatto di quella sciagurata fuga di notizie. Io resto convinto che la conferma al Corriere l’abbia data qualcuno dell’entourage di Berlusconi».

Chiesero a Borrelli nel 2010: «Davigo e convinto che la conferma dell’invito a comparire il «Corriere della Sera» l’abbia avuta dall’entourage di Berlusconi. E lei?»; Borrelli: «Si, questa e la convinzione che abbiamo tutti. Noi pensiamo che la conferma decisiva al «Corriere della Sera» l’abbiano data o l’indagato o ambienti vicini all’indagato». 

Quella sera ormai tarda il dado era comunque tratto: Mieli consegno la prima pagina autentica e raccomando che non fosse mandata ai tg della notte per le rassegne stampa, e di non fare la distribuzione serale nelle edicole di Milano e Roma. Ma dimentico di dirlo ai suoi ragazzi.

Poi tutti alla Libera in via Palermo, li vicino, pizzeria che ai tempi aveva il pregio di chiudere tardissimo e oggi e un ristorante che chiude banalmente a mezzanotte. Mieli fece discorsi dapprima un po’ paranoici: «C’erano dei timbri sulle fotocopie? Perchè con i timbri vuol dire che il provvedimento e stato notificato alla presenza di un cancelliere; se invece non ci sono, vuol dire che il documento non e ancora passato in cancelleria»; «Mi pare di no, non mi ricordo». Allora poteva essere un falso, una trappola costruita per fottere il Corriere.

Per rallegrare l’ambiente, Mieli rievoco il caso di Marina Maresca, una cronista dell’«Unita» che nel 1982 aveva pubblicato dei documenti attribuiti al Ministero dell’interno dove si parlava di trattative tra i servizi segreti, le Brigate rosse, il boss della camorra Raffaele Cutolo e dei politici democristiani che volevano liberare l’assessore Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br: documenti che poi si rivelarono falsi, tanto che Marina Maresca fu arrestata, licenziata dal giornale e processata. Bene, altri argomenti? Mieli peraltro continuava a dire che non sapeva se avvertire o no l’avvocato Agnelli, l’editore del «Corriere».

Ultima parentesi: ci sarà chi sosterrà che Mieli stesse solo inscenando una delle sue migliori commedie e che fosse già ampiamente al corrente del Berlusconi indagato. Da giorni. Leggenda voleva che a informarlo fosse stato il Quirinale: altrimenti, nello sparare una notizia del genere, non si sarebbe accontentato di pezze d’appoggio cosi scarse. Leggenda voleva che Scalfaro, perciò, sapesse da ancora prima, ma le leggende sono troppe.

Dirà il leghista Roberto Maroni in data 14 luglio 1998, intervistato dalla Prealpina: «Finora ho taciuto, ma Scalfaro seppe del provvedimento non il 21 novembre... ma prima. Qualche giorno prima. Me lo rivelo lui stesso. Nell’inverno del 1994 io ero di casa sul Colle. Scalfaro mi disse che Borrelli, con il quale aveva un franco rapporto di amicizia, l’aveva messo al corrente dell’iscrizione del premier nel registro degli indagati. Quando? Non mi preciso una data esatta. Tuttavia, sicuramente qualche giorno prima che s’aprisse la conferenza di Napoli».

Ed è vero che l’iscrizione nel registro degli indagati avvenne solo il giorno 21: ma il giorno fu senz’altro stabilito prima.

Erano le 2 passate del 22 novembre quando alla Libera di via Palermo il consumato attore Paolo Mieli cambio improvvisamente registro e passo a tutt’altro film. Era il film degli uomini soli prima che scocchi l’ora decisiva. Il film degli eroi stanchi prima dell’ultima carica. Perchè noi, vedete, «siamo giornalisti, e il nostro mestiere». Orgoglio. Commozione. Addirittura abbracci. 

Mieli lascio il ristorante per primo. Gli altri tre passarono dalla solita edicola di corso Buenos Aires, ma il «Corriere» pero non c’era. Mieli si era dimenticato di dire loro che la prima edizione sarebbe saltata. Nessun altro giornale comunque riportava la notizia, e questo si prestava a una doppia interpretazione. Alle 3, infine, a casa.

Gianluca Di Feo torno nel suo appartamento di via Paolo Sarpi: a Bruno Vespa racconterà che preparo una borsa per il carcere e che dentro mise anche una Bibbia, una raccolta di novelle di Pirandello e delle scatolette di tonno. L’ansiogeno Buccini, invece, aveva già spedito fuori casa la moglie e la figlioletta, ma di star solo non aveva voglia: divenne un problema di Sallusti, perchè Buccini si autoinvito a casa sua in via Uberti, in zona Porta Venezia. Nottata in bianco. Sigarette. Ansia contagiosa. Pessimismo cosmico.

Alle 5.40 Gianni Letta chiamo Berlusconi e gli disse che il «Corriere della Sera» aveva titolato come sappiamo.

Le prime conferme giunsero quando Mieli chiamo Sallusti: gli riferì che il Quirinale aveva confermato la notizia. Sempre il Quirinale. Il problema di avvertire Agnelli lo aveva risolto direttamente Berlusconi che aveva chiamato l’avvocato a New York (tre volte) quando li dovevano essere le 2. Pero poi Agnelli aveva chiamato Mieli.

I tre giornalisti del «Corriere» avevano pensato che, in caso di interrogatori, ritenuti certi, Sallusti sarebbe stato sentito per ultimo e che i nastri e la fotocopia li avrebbe tenuti lui. Sallusti chiese alla moglie, Elisabetta Broli, di nascondere tutto in un posto sicuro. Buccini e Di Feo, in effetti, vennero interrogati in mattinata dai carabinieri di via Moscova. Nel pomeriggio tocco invece a Sallusti in veste di testimone, trucchetto che serve per non avere avvocati tra le scatole. 

Si appello al segreto professionale come gli altri due, pero a un certo punto fu parcheggiato in una stanza a meditare, una cordiale forma di pressione: e la cosa si fece un po’ lunga. Abbastanza da spaventare l’irrequieto cronico, che decise di chiamare la moglie di Alessandro, perchè temeva che potessero perquisirle la casa. Lei rispose e cerco di tranquillizzarlo: disse che stava portando il materiale fuori citta e che si era soltanto fermata un attimo da una parrucchiera vicino a casa, in Porta Venezia.

All’ansiogeno non poteva bastare. In un nanosecondo era già dalla parrucchiera: si fiondo dentro urlando «Dov’e?, dov’è?», per poi mettersi a frugare nella borsa di Elisabetta in cui trovo ed estrasse una specie di malloppo. Nell’insieme, una scena da tarantolato che spavento a morte la proprietaria del negozio la quale stava quasi per chiamare il 113. Elisabetta cerco di spiegarle che si trattava di un giornalista, che non era un drogato e che nel fagotto non c’era droga, anche se l’invasato non aiutava, perchè intanto se n’era andato nel bagno del retrobottega e aveva gettato tutto in un water dopo avergli dato fuoco, compresi i nastri magnetici altamente infiammabili: il water erutto come il Krakatoa. 

Renato Pezzini del «Messaggero» telefono a Sallusti, suo amico di vecchia data, e gli disse che era un figlio di puttana: il loro rapporto non si ricuci mai. E la stessa espressione che uso con Di Feo, specificando che in passato aveva pensato che a esserlo fosse solo il suo compare. Insomma la prese bene. Luca Fazzo della «Repubblica» chiamo l’amico Di Feo e gli fece i complimenti «come professionista», ma aggiunse che «come amico sei uno stronzo, i conti li facciamo dopo». Paolo Foschini fu visto molto intristito.

Leggenda vuole – anzi, diversi cronisti lo credono ancora oggi – che Foschini venne poi assunto al «Corriere della Sera» in segno di risarcimento per l’ingiustizia patita. Niente porta a

crederlo. Anzitutto, con l’amico Pezzini, passo più di due anni a rifilare quanti più dispiaceri professionali possibili alla blasonata concorrenza. Poi si, la cronaca di Milano del «Corriere» aveva bisogno di un nuovo cronista polivalente da assumere: ma Gianluca Di Feo non indico Foschini, indico Luca Fazzo della «Repubblica». 

E Fazzo avrebbe anche potuto accettare, ma alla «Repubblica» lo vennero a sapere e gli offrirono un milione di lire in piu e il grado di inviato. Fazzo resto alla «Repubblica». Allora Michele Brambilla del «Corriere», l’ex cronista che all’inizio di Mani pulite aveva affiancato Buccini prima di tirarsi indietro e lasciare il posto proprio all’implume Di Feo, suggerì Paolo Foschini. Il quale ebbe un colloquio con il capo della cronaca milanese, Giangiacomo Schiavi, emiliano come lui. E sarà per questo, ma fu assunto con decorrenza dal 1° gennaio 1997. Il direttore era ancora Paolo Mieli. Di Feo, Foschini, se lo ritrovo a fianco. Tutti i giorni.

Dagospia il 30 aprile 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

Ore 20.05, del 30 aprile 1993, Hotel Raphael, Roma.

Saliamo in macchina sotto una doccia di pietre, monetine e insulti.

È chiaro che siamo protagonisti di un evento epocale (anche se, incredibilmente, il giorno dopo nessuno ne scriverà).

In realtà, ovviamente, il protagonista era Lui, Bettino Craxi, ultimo segretario del PSI nel centesimo anno della sua fondazione. Noi altri tre in quella macchina, Nicola Mansi, storico autista e Umberto Cicconi, fotografo e ombra del segretario, eravamo solo birilli decorativi di quel tiro al piccione (io, seduto dietro e alla sinistra di Craxi, ero in quel momento segretario nazionale dei Giovani Socialisti). 

Siamo consapevoli dell’odio che s’infrange sui finestrini dell’auto, ma veniamo pervasi da un sentimento di tranquillità quello che ci porta a comprendere che quel passaggio rappresentava un calvario necessario, forse ruvido, forse ingiusto, verso una nuova Italia.

Nel viaggio verso gli studi televisivi al Palatino, dove Craxi avrebbe rilasciato un’intervista a Giuliano Ferrara, eravamo sollevati dall’aver intuito il significato di quell’aggressione. 

In quei pochi minuti di una Roma addobbata a forca ci si mostrava un domani diverso, dove capivamo non ci sarebbe stato posto per noi, ma la soddisfazione che tutto questo futuro sarebbe ricaduto sui nostri concittadini ci ripagava e rasserenava. 

Intanto i partiti avrebbero trovato subito un modo per finanziarsi in modo trasparente e la politica, tutta, si sarebbe liberata da quell’immensa ipocrisia che non consentiva ai più importanti attori delle istituzioni, i partiti appunto, di organizzare la costruzione del loro consenso. Persino i rappresentanti d’interessi, i lobbisti, avrebbero esercitato il loro talento ottenendo in pochi giorni una legge che li rendesse attivi alla luce del sole. Il Paese quindi avrebbe incontrato riforme costituzionali, che attendeva da decenni, per adeguare la sua struttura istituzionale al nuovo mondo. 

E anche i partiti e la selezione delle loro classi dirigenti se ne sarebbe avvantaggiata. Gli uomini compromessi da precedenti responsabilità o quelli difensori di ideologie fallimentari e fallite si sarebbero silenziosamente sottratti alla scena politica per lasciar spazio a una nuova classe dirigente finalmente costruita sul merito, la competenza e la passione civica. Il nepotismo sarebbe stato annichilito dal virtuosismo di una nuova selezione costruita sui titoli e le capacità tecniche (e di afflato etico indiscusso). Tutto questo avrebbe portato finalmente al Paese, stabilità, prosperità e crescita. 

Intanto cominciando a fare quelle cose così semplici che nessuno era mai riuscito a realizzare. Insegnanti, forze dell’ordine, infermieri, financo le guardie carcerarie, sarebbero state ripagate e riconosciute per la centralità del loro ruolo di sviluppo e di rappresentanza dello Stato (soprattutto quando lo Stato incontra il suo unico azionista, il cittadino, nei suoi momenti di maggiore debolezza e necessità); e lo avrebbe fatto nel modo più semplice: con un riconoscimento economico e di prestigio sociale del loro ruolo.

Poi, si sarebbe dato il via al più grande progetto di ricostruzione di scuole, ospedali e infrastrutture pubbliche che aspettavano ancora un segnale da questa Repubblica tanto giovane quanto incerta e distratta nel mettere mano alle primarie urgenze dei suoi cittadini. 

La Prima Repubblica aveva lasciato un grave debito pubblico giustificandolo con l’aver dovuto affrontare un’economia da guerra fredda, poi il terrorismo, quindi scontri sociali violentissimi, il tutto dentro a un’inflazione pandemica a doppia cifra, ma sapevamo che anche questo vulnus sarebbe stato presto domato e riportato all’equilibrio e ribaltato in prosperità.

Infatti il terminare di ogni litigiosità politica e la comparsa dei civil servant, immolati solo agli interessi della collettività, annunciavano una strada che avrebbe reso una passeggiata il raggiungimento di questi obiettivi. Come infatti è stato. A cominciare dalla redistribuzione della ricchezza coniugata con un’accettazione sociale della stessa riconosciuta come premio del talento e non bersaglio d’invidia. 

Qualcuno avrebbe preteso di cedere i nostri gioielli pubblici nel settore energetico, infrastrutturale o del mondo delle comunicazioni. Le nuove forze politiche avrebbero però respinto questa scellerata prospettiva o l’avrebbero, contro voglia, applicata solo per risanare, definitivamente, il nostro debito pubblico e ripartire verso nuove avventure di un Paese che era stato capace di raggiungere primati impensabili per una nazione così piccola (come l’essere stati i terzi a lanciare un satellite nello spazio o i leader nella scienza atomica o, in un settore non secondario come quello delle comunicazioni, veri pionieri).

Avremmo fatto di necessità virtù dell’assenza di materie prima, rendendoci energeticamente, se non autosufficienti, liberi da ogni ricatto; poi ci saremmo focalizzati sulla nostra capacità manifatturiera di elaborare e migliorare il prodotto, rendendo lo Stato complice del cittadino e delle sue attività produttive, levigando quella catena montuosa di tassazioni che tratteneva risorse senza restituirle, in modo plastico, in servizi e infrastrutture.

E grazie a tutto questo, sarebbero rinate le città; e in effetti oggi è davvero una soddisfazione camminare tra strade abbaglianti per il loro decoro, lucidate da una pulizia ossessiva e maniacale, avvolti in un clima di sicurezza e serenità che solo a immaginarlo allora ci sembrava un sogno utopistico. I giovani sapevamo avrebbero ritrovato fiducia nel futuro e gli anziani la serenità per la loro meritata età. 

Queste cose così semplici, solari, di plateale buon senso, erano state tradite solo dall’incompetenza della nostra Prima Repubblica, ma avrebbero trovato una lineare soluzione.

E senza negare la fraternità italica e il sentimento di riconoscenza verso i nostri “liberatori” occidentali avremmo primeggiato nella nostra capacità di dialogo col mondo senza mostrare sudditanza per alcuno (ancor meno adombrata da miseri interessi economici travestiti da cause più nobili). Perché mai, e poi mai, queste nuove classi dirigenti, avrebbero tradito quel carattere fondato sulla lealtà, sulla gratitudine, sulla difesa degli impegni e delle promesse che ne avrebbe costituito il carattere fondativo e distinguente.

Certo sapevamo che non tutto sarebbe stato risolto subito, anche in ragione della nostra eredità, ma l’enorme talento inespresso a cui era stato negato di mostrarsi scalciava per cominciare la sua cavalcata verso questo Eden che attendeva il Paese. 

Ecco, questo accadde la sera di 29 anni fa. Per cui si trattò di un sacrificio necessario.

Stava terminando la nostra vita politica, ma quelle che potevano scambiarsi per urla di un’Italia inferocita contro di noi, era invece la voce del Paese nascente e del suo liberatorio vagito: quello del “né-né”. Luca Josi

Tangentopoli, perché il nome "Mani pulite" fu una pessima idea. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 30 aprile 2022.

Mi occupo da trent' anni di criminalità giudiziaria, cioè dei delitti perpetrati in nome del popolo italiano dalla piovra in toga. Che non è "la" magistratura, come la mafia non è la Sicilia: ma ne è l'agente plenipotenziario, dotato tuttavia di un potere che è usurpato e si impone su un consorzio sociale intimidito e omertoso.

Ora sono stato querelato da tre famosi magistrati per aver scritto che la cultura di "Mani Pulite", sin dal nome che essa ha prescelto per accreditarsi in questo Paese di giustizia corrotta, rappresenta un'oscena e proterva manifestazione di prepotenza, che ha insultato irrimediabilmente il poco residuo della civiltà giuridica (anzi della civiltà punto e basta) del nostro ordinamento sociale.

Allora, aprano bene le orecchie i querelanti, che chiedono la galera per chi scrive queste cose: non solo rivendico quel mio convincimento, e il diritto di esprimerlo, ma mi impegno a diffonderlo nuovamente e ulteriormente per quel che posso, appunto come faccio da decenni.

Rivendico il diritto di dire che la dicitura "Mani Pulite" è oltraggiosa, e che è eversiva e incivile la cultura che l'ha adottata. Così come rivendico il diritto di dire che l'azione giudiziaria che ha preteso di ispirarvisi ha danneggiato molto gravemente questo Paese, le istituzioni repubblicane, il decoro nazionale. Posso comprendere che sia inconcepibile, per i magistrati poco impensieriti dalle adunate del popolo onesto che sotto ai balconi delle procure strillava di gioia per l'ordine di arresto quotidiano: ma c'è chi crede, querela o non querela, che essi abbiano fatto molto male il loro lavoro e che abbiano fatto molto male a molte persone. È chiaro?

Riflessione su “tangentopoli” trent’anni dopo. CARLO BOLOGNESI  il 29 aprile 2022 su avantionline.it.

Trent’anni fa iniziava quell’evento che i mass media hanno chiamato “Tangentopoli”. Diverse trasmissioni televisive e vari giornali si sono occupati di rievocare ed avviare dibattiti critici su quella stagione politica e giudiziaria. Molti di questi media hanno cambiato impostazioni ed hanno espresso giudizi rispetto al passato. Accanto all’azione giudiziaria che eliminò un’intera classe politica, alcuni ricordano quel 1992 come un “anno orribile”, in cui furono anche eliminati dalla mafia (e non solo da essa) i magistrati Falcone e Borsellino e furono orditi attentati terroristici contro lo Stato, la Chiesa e le rispettive istituzioni.

Nelle scorse settimane è stato edito un documentassimo libro di oltre settecento pagine, scritto da Filippo Facci dal titolo “La guerra dei trent’anni – la rivoluzione mancata”, dove il giornalista (uno dei pochi che all’epoca si era espresso controcorrente e avvertiva i pericoli insiti nelle inchieste giudiziarie) evidenzia l’uso di manette facili praticato dal pool di magistrati di Milano e poi da altre procure, l’uso criminale della stampa allo spiccare di semplici avvisi di garanzia (date subito ai giornali ed in pasto all’opinione pubblica, sapientemente stimolata a reagire con i più ignobili sentimenti giustizialisti e di vendetta, come la “richiesta della forca”), in un paese dove si trovano troppi falsi cattolici opportunisti e giustizialisti. Da quel momento la partecipazione alla vita politica è scesa vertiginosamente, l’astensionismo è aumentato fortemente, i partiti sono stati snaturati ed indeboliti, l’intervento dello Stato in economia ed il Welfare State ridimensionati progressivamente.

Oggi vi sono tanti pentiti. L’allora capo della Procura di Milano, Saverio Borrelli, prima di morire, come riporta nel suo libro Filippo Facci, ha affermato che: “Non valeva la pena di buttare all’aria un mondo precedente per cascare in quello attuale”. Il giornalista ripercorre quegli anni in cui vi furono molti suicidi (tra quelli eccellenti, Cagliari, Gardini, Moroni) e dove tanti personaggi politici ebbero stroncata la carriera solo per aver ricevuto un avviso di garanzia. Moltissimi tra questi sarebbero poi stati assolti con formula piena. Le indagini colpivano intere Giunte regionali, per cancellarle e sostituirle con uomini graditi. Così è stato per la Giunta Regionale Lombarda e, poi, per quella abruzzese. I politici inquisiti venivano lasciati in pace solo se si fossero ritirati a vita privata, al di là dei fatti commessi.

Alle riflessioni di Facci, si possono aggiungerne altre da parte di chi, come molti di noi, hanno vissuto quel periodo. Tra le “leggende” costruite in quella circostanza, vi è quella che vuole “Tangentopoli” nata per puro caso, con l’arresto di Mario Chiesa, a causa di una piccola tangente estorta ad un impresario delle pulizie, neo fascista. Tra l’altro, questo imprenditore, nonostante l’amicizia con Antonio di Pietro, è fallito pochi anni dopo. In realtà si è saputo dopo, ma non conveniva diffondere la notizia, che i veri personaggi che hanno svelato a Di Pietro il meccanismo delle tangenti ed i luoghi dove i Partiti (tutti!) tenevano i soldi, soprattutto all’estero, sono stati l’ex segretario del Partito Socialista, Giacomo Mancini ed Eugenio Cefis, già presidente dell’Eni. Cefis è stato implicato nella morte di Enrico Mattei per prenderne il posto (così come è avvenuto) e trasformare l’Ente energetico in un’azienda di sola raffinazione del petrolio, in omaggio alle grandi compagnie internazionali del settore. Durante la Seconda Guerra Mondiale e nel dopoguerra Cefis svolgeva la funzione di agente del servizio segreto britannico ed il suo braccio destro era un giovane Gianfranco Miglio, in seguito divenuto l’ideologo della Lega Lombarda (poi Lega Nord) e fautore, insieme al venerabile maestro della loggia deviata P2, Licio Gelli, della nascita di tante leghe nelle regioni italiane, soprattutto al Sud, zeppe di esponenti mafiosi. Così hanno reso noto varie inchieste giudiziarie successive. Anche questo ci fa capire la natura internazionale della cosiddetta “Tangentopoli” e cioè il tentativo di ridurre l’Italia, uno dei quattro paesi al mondo più forti economicamente, ad una nazione “in svendita”, ad economia debole, ad un’entrata nell’Euro con ruolo subalterno e riduzione drastica della propria sovranità. Infatti, dopo Tangentopoli, il Prodotto Interno Lordo (PIL), che, fino ad allora, era cresciuto ogni anno costantemente oltre il 3%, crollò improvvisamente ed il debito pubblico, per la prima volta, superò il PIL. La crescita produttiva, durata oltre cinquant’anni, si era fermata. Le maggiori aziende pubbliche, alcune vere leaders mondiali nel loro settore (Eni, ecc.), altre forti aziende e banche pubbliche e private, sono state svendute a compagnie italiane e straniere, a fronte di somme ridicole. Persino aziende strategiche nazionali, come Telecom, sono state vendute agli stranieri. Il bersaglio da colpire per attuare questo disegno di svendita dell’ “Azienda Italia”, era, anzitutto, Bettino Craxi, che aveva ben governato l’Italia dal 1983 al 1987, rilanciando la sua immagine nel mondo e superando un difficile periodo di crisi. Craxi, infatti, si opponeva fortemente a tale disegno e ad un’Italia succube di potenze straniere.

Quasi rutti gli osservatori e gli storici sono finalmente concordi nel ritenere che tanti magistrati, oltre ad aver commesso veri e propri abusi, abbiano sostituito prepotentemente la politica. La maggioranza dei media ha accompagnato questo processo perverso, costruendo l’immagine del magistrato onesto, Antonio di Pietro e, per contro, quella negativa dei politici disonesti e corrotti che andavano spazzati via, messi alla forca, eliminati. Anche i potenti media di proprietà di Silvio Berlusconi, quotidiani, riviste, radio e televisioni, si sono messi al servizio dei magistrati e, in particolare, di Antonio di Pietro. Indicative, in tal senso, sono state, tra l’altro, la copertina del diffusissimo “Sorrisi e canzoni” dove appare, a tutta pagina, l’immagine del magistrato con l’appariscente scritta “Di Pietro facci sognare”, oppure le note trasmissioni di Funari dirette sempre contro Craxi ed i socialisti, o, ancora, i collegamenti di Emilio Fede con il giornalista Brosio, davanti al Tribunale di Milano. Berlusconi, furbescamente, aveva appoggiato in pieno Tangentopoli ed i magistrati per non essere inquisito, essendo uno dei maggiori sovvenzionatori di tangenti a uomini politici, a dirigenti pubblici e ai partiti, come lui stesso ha ammesso anni dopo dichiarando “giravo con l’assegno in bocca” per fare andare a buon fine le questioni interessanti la mia azienda. Tutto questo era accompagnato da cortei e fiaccolate organizzati dalla borghesia milanese, specie quella parassitaria e immobiliarista, a favore del pool di Milano.

Per quanto riguarda Di Pietro, sempre Filippo Facci ha pubblicato, qualche anno fa in un altro libro (“Di Pietro – la storia vera”), i misfatti del personaggio: dagli abusi del giovane magistrato in prova “dimenticando” in galera alcuni inquisiti (e per questo sconsigliato agli organi superiori di farlo diventare magistrato), ai regali della Mercedes e dei prestiti erogati dall’imprenditore Garini, ai regali inviati sotto forma di prestiti al suo amico Rea (che ha fatto assumere come comandante dei vigili dal sindaco di Milano, Paolo Pillitteri, considerato suo amico, poi fatto inquisire), alle consulenze procurate alla moglie da alcuni Ministeri dove lui era collaboratore, alla consulenza milionaria affidata al giudice di Brescia che non aveva dato il consenso a processare Di Pietro, fino ad aver lasciato sola e senza documentazione la collega Tiziana Parenti nelle famose indagini sulle “tangenti rosse”. Per questo era stato ricompensato, poi, con la candidatura nel fortissimo e sicuro collegio comunista del Mugello per l’elezione alla Camera dei Deputati. Ironia della sorte, candidato in un collegio comunista, Di Pietro era, in realtà, di idee neo fasciste, sospettato, oltretutto, di essere uomo di particolari settori dei servizi segreti italiani ed internazionali (tante sono le dichiarazioni di vari politici in tal senso, ad esempio, più volte vi sono state dichiarazioni di Fabrizio Cicchitto in proposito). Mirko Tremaglia, autorevole esponente fascista della Repubblica di Salò e neo fascista nel dopoguerra, è sempre stato considerato da Di Pietro il suo “maestro politico”. Un altro magistrato del pool, Piercamillo Davigo, in un’assemblea di cittadini a Vigevano, ripreso dalla tv locale e poi dai giornali nazionali, ha dichiarato che i magistrati di Milano tenevano in galera i politici, anche dopo aver confessato e dopo la scadenza dei termini, con la motivazione che, se li avessero liberati “la gente si sarebbe incazzata”. Altri episodi gravi hanno contrassegnato lo strapotere di diversi magistrati, come quando il procuratore capo della Procura di Milano, Borrelli, ha chiesto pubblicamente al Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, l’incarico di formare un governo di soli magistrati! Oppure quando, in violazione di una precisa legge, ha mandato agenti di polizia a far man bassa delle cassette personali appartenenti ai deputati del Parlamento. Tutte queste infamie ed illegalità venivano osannate dai mass media come operazioni tese alla moralità e alla pulizia!

Più tardi, nell’ottobre 2012, un’inchiesta avviata dalla trasmissione televisiva su Rai Tre “Report”, in merito ai rimborsi elettorali, decretò la morte politica del leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro, accusato di una gestione opaca dei finanziamenti pubblici, in parte utilizzati per l’acquisto di cinquantasei proprietà: case, terreni e casolari agricoli. Da questo momento, il giustizialismo migrò dalla casa di Di Pietro nella casa di Beppe Grillo.

In pratica, i “poteri forti” che avevano sostenuto fino ad allora il principale protagonista di “Mani Pulite”, visto anche il fallimento della lista Di Pietro – Ingroia presentata in occasione delle elezioni politiche, l’hanno abbandonato per appoggiare Matteo Renzi e Beppe Grillo. Così si è completata la progressiva azione anti – politica, attraverso un Pd maggioritario, con a capo Renzi, spostato al centro e, a volte, a destra, (sull’esempio di Macron in Francia che aveva distrutto il socialismo francese) e facendo leva, d’altro lato, su un movimento qualunquista, sguaiato e populista all’opposizione, capeggiato da Beppe Grillo. Nell’ambito dei finanziamenti ad entrambi i due esponenti (almeno in quelli dichiarati e visibili) si trovano somme elargite dalla JP Morgan, un grosso gruppo finanziario americano, cui vennero date le grandi consulenze per la svendita del patrimonio pubblico italiano prima ricordate..

A livello politico, si è arrivati a costituire tre poli contrastanti: centro destra, Pd e Cinque Stelle, cambiando vari governi senza ottenere stabilità ed efficienza. Infine, sono stati chiamati tecnici a presiedere il Governo, com’è avvenuto con Conte e poi con Draghi, vista l’incapacità dimostrata dagli schieramenti politici.

Nonostante le rivelazioni dell’ex magistrato Palamara (vendite delle Procure, lottizzazioni politiche, poteri occulti interni, ecc.), non si riesce a riformare la Magistratura autocratica e i Ministri che hanno tentato di farlo sono stati costretti a dimettersi. Allo stesso modo non va avanti la riforma proposta dall’attuale Ministro Cartabia, è snaturata quotidianamente ad ogni dibattito parlamentare e rischia di scontrarsi anche con l’Unione Europea che l’ha richiesta perentoriamente. Siamo l’unico paese al mondo in cui la Magistratura è un potere autocratico. Recentemente, l’illustre costituzionalista Sabino Cassese ha affermato che la doverosa indipendenza dei magistrati nel loro lavoro d’indagine e di giudizio non può significare in alcun modo autogoverno della stessa Magistratura, alterando così l’equilibrio dei poteri. L’autogoverno è chiaramente anticostituzionale e nocivo per i cittadini. Ma ancora oggi molti non lo vogliono capire. 

Mani Pulite: libro di Facci svela retroscena su avviso Berlusconi tra tradimenti e spie. Redazione l'8 aprile 2022 su lasicilia.it.

Tradimenti, intrighi e falsi miti. Nel libro 'La guerra dei trent'anni' (Marsilio editore) il giornalista Filippo Facci ricostruisce il periodo che dall'inizio di Mani Pulite arriva ai giorni nostri e lo fa intrecciando cronaca e ricordi personali, indagine giornalistica e psicologica, restituendo - pagina dopo pagina - una storia su cui si accende ancora oggi lo scontro politico e storiografico. Lo sguardo dell'allora giovane cronista restituisce un quadro dove protagonisti e comprimari si mescolano, insospettabili derive prendono forma rimuovendo ogni patina di ipocrisia e aneddoti segreti travalicano i corridoi della procura di Milano dove l'inchiesta Tangentopoli ha preso vita.

E tra gli episodi più curiosi c'è quello del 21 novembre 1992 che riguarda l'invito a comparire a carico di Silvio Berlusconi, una convocazione che finì sulle pagine del Corriere della Sera prima che nelle mani del diretto interessato. "A scriverlo materialmente (l'avviso, ndr) fu Di Pietro. Era composto da quattro pagine: la prima conteneva il nome di Berlusconi e due capi d'imputazione legati a presunte tangenti legate a Mediolanum e Mondadori, mentre nelle altre tre il Cavaliere era accusato per tre tangenti alla guardia di finanza legate a delle verifiche nelle società Videotime, e ancora Mediolanum e Mondadori. Il dettaglio è importante, perché la fuga di notizie riguarderà solo una pagina: la prima". Movimenti e presenze 'estranee' mettono in allarme i cronisti che seguono la cronaca giudiziaria e che del quarto piano conoscono ogni centimetro.

"In procura, in realtà, un solo giornalista aveva già saputo con certezza che l'invito a comparire per Berlusconi era stato firmato: Paolo Foschini di 'Avvenire'. Lui e soltanto lui. Non sapeva che la busta gialla era pure già partita verso il destinatario, ma per quel tipo di provvedimento era da darsi per scontato. (...) Più tardi, alla macchinetta del caffè, Davigo incontrò ancora Di Feo assieme a Foschini e Cristina Bassetto, la mia amica ex dell'Avanti! che era passata all'agenzia Adnkronos. (...) Con i soli sospetti, però, non ci facevi niente. E neanche con una notizia certa ma priva di una pezza d'appoggio: Paolo Foschini sapeva che per scrivere gli occorreva ben altro, e tanto più su un quotidiano particolare come il suo".

E così chi aveva lo scoop tra le mani tentò "un azzardo, nella consapevolezza che la notizia che aveva non avrebbe potuto scriverla da solo su 'Avvenire'. Gli serviva una spalla. E robusta. Prese da parte Di Feo (Gianluca, giornalista del Corriere, ndr) e gli rivelò che Berlusconi era indagato e che ne era proprio certo, e che forse loro due, alleandosi, avrebbero potuto trovare i riscontri necessari per poter scrivere che un presidente del Consiglio era nelle spire di Mani pulite". La storia andò diversamente e la notizia - verificata anche da Goffredo Buccini, altro cronista del Corriere della Sera - fu scritta solo dal quotidiano di via Solferino con un titolo a sei colonne 'Milano, indagato Berlusconi'. Nell'articolo si citavano solo due soli capi d'imputazione, quelli contenuti nella prima pagina del provvedimento.

Facci, nel suo libro edito da Marsilio, riparte dai fatti. "La notizia fu scoperta da Paolo Foschini, non dal 'Corriere', che altrimenti non avrebbe cercato conferme di alcunché. Foschini fu sostanzialmente tradito dall'amico Di Feo e le 'conferme' alla fine furono un foglio passato da una femmina (che lavorava in procura, ndr) non estranea ai propri sentimenti che fornì una sola fotocopia su quattro; una chiamata di Buccini a Borrelli alle 21, con il procuratore che 'mi attacca praticamente il telefono in faccia ma non smentisce chiaramente', (...) poi un'altra chiamata di Buccini a Davigo che smentì ancora più chiaramente, le infruttuose telefonate di Di Feo a vari carabinieri che fornirono 'smentite non convincenti' (...)". La prima pagina autentica del Corriere non fu mandata ai tg per le rassegne stampa e non ci fu la distribuzione serale nelle edicole di Milano e Roma.

"Ci sarà chi sosterrà che Mieli (l'allora direttore, ndr) stesse solo inscenando una delle sue migliori commedie e che fosse già ampiamente al corrente del Berlusconi indagato - continua Facci - . Da giorni. Leggenda voleva che a informarlo fosse stato il Quirinale: altrimenti, nello sparare una notizia del genere, non si sarebbe accontentato di pezze d'appoggio così scarse. Leggenda voleva che Scalfaro, perciò, sapesse da ancora prima, ma le leggende sono troppe". Diversi cronisti credono ancora oggi che Foschini venne poi assunto al 'Corriere della Sera' "in segno di risarcimento per l'ingiustizia patita. Niente porta a crederlo. Anzitutto, con l'amico Pezzini, passò più di due anni a rifilare quanti più dispiaceri professionali possibili alla blasonata concorrenza", si ricorda nel libro. Sarà assunto solo nel 1997, Foschini si ritrovò tutti i giorni al fianco Di Feo.

Messo alla gogna e perseguitato da De Pasquale. Addio all’assessore Colucci, inseguito con le manette in ospedale e fatto sfilare in barella davanti alle telecamere. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

Mentre ricordavamo, con l’articolo della sua compagna Francesca, “L’inutile martirio di Enzo”, diventato il simbolo della cattiva giustizia, ci lasciava a Milano Michele Colucci, grande socialista e pure lui diventato simbolo di quel che abbiamo scritto quel giorno: “L’Italia è ancora in mano ai signori della gogna”. Fu la gogna più violenta e disumana – mai si era visto e in seguito si vedrà qualcosa di simile – quella che colpì Michele Colucci quella notte del 1992. Mi piace ricordarlo però prima di tutto per come era, il brindisino Michele, il socialista generoso e per bene, appassionato di pesca come il fratello Ciccio (che fu anche presidente della Federazione Italiana pescatori), approdato a Milano negli anni sessanta, descritto oggi in un’immagine firmata “Gli amici e i parenti” della sua Puglia come il compagno che “Ti ascoltava con interesse sincero e partecipato e ti dimostrava, senza ombra di dubbio, che ti aveva compreso in ogni tua emozione, in ogni tuo bisogno”.

Pronto ad aiutare tutti, come lo ricorda anche Serafino Generoso, che condivise con lui le ingiustizie dei primi anni novanta (due volte arrestato, due volte assolto). Così erano i politici di un tempo. Immagino ne abbia un ricordo diverso il pubblico ministero Fabio De Pasquale, e anche gli uomini della Guardia di Finanza che lo inseguirono con le manette di ospedale in ospedale, mentre era stato appena operato e poi mentre era collassato, fino a farlo sfilare in barella davanti alle telecamere, mentre giornalisti assatanati cercavano gli infilargli il microfono tra le labbra e le cannucce dell’ossigeno. Fu la Grande Gogna della giustizia ma anche dell’informazione, quella notte. Non piacque neanche al procuratore Saverio Borrelli, che se ne lamentò. Dobbiamo aggiungere che, a trent’anni da quei fatti, non c’è traccia di condanne? Inutile.

Michele Colucci era stato assessore ai servizi sociali e in seguito capogruppo del Psi alla Regione Lombardia, che sarà l’ultima governata da un pentapartito. Il Presidente era un democristiano, come tutti i suoi predecessori, Giuseppe Giovenzana. Siamo nel maggio 1992, sono i primi mesi delle inchieste dopo l’arresto di Mario Chiesa, Tonino di Pietro già spopola sui giornali e tv, quando un altro pm milanese, Fabio De Pasquale, che non è interno al pool, ma come la gran parte dei colleghi è uomo di sinistra e altrettanto attivo, apre un’inchiesta su corsi di formazione professionale finanziati dalla Regione Lombardia con fondi della Comunità economica Europea. Nel mirino c’è l’assessore della partita, Michele Colucci, ma le indagini si sviluppano subito ad ampio spettro, fino a coinvolgere tutta la giunta e altri, 48 persone in tutto. Secondo l’accusa qualcuno aveva fatto un affare da 200 miliardi di lire, mentre Giovenzana e i suoi colleghi di giunta avevano addirittura cambiato le carte in tavola, modificando in corso d’opera il contenuto della delibera sull’uso dei finanziamenti, in seguito a un accordo politico con Colucci. Il quale era accusato di aver gestito i soldi senza mai fare i corsi.

Per la cronaca: tutti gli assessori assolti sette anni dopo. Naturalmente intanto la giunta era caduta. Seguirà il primo governo regionale rosso-verde. Il pm De Pasquale e il gip inizialmente mandano Colucci, convalescente da un’operazione, ai domiciliari in una sua casa della campagna pavese. Ma poi lo vogliono in carcere. Evidentemente non erano stati sufficienti gli striscioni e i volantini che lo bollavano come “ladro” con cui era stato accolto al paese, era ora di preparare la “Grande Gogna”. Davanti a una piccola folla urlante (allora erano i leghisti a svolgere il ruolo che sarà poi dei grillini), una notte quattordici agenti con mitragliette spianate avevano fatto irruzione nella villetta di Colucci e lo avevano prelevato per portarlo nella caserma milanese di via Fabio Filzi, dove lo aspettavano i magistrati per interrogarlo.

Ricordare le scene di quella sera fa male al cuore. L’esibizionismo degli agenti che arrivavano alla caserma a sirene spiegate portando con sé i candidati al carcere e, pur potendo entrare in auto dal passo carraio, preferivano fermarsi davanti all’ingresso principale per far sfilare a piedi ogni indagato davanti ai giornalisti. Michele Colucci non si regge, lo trascinano tenendolo sotto le ascelle due agenti. Entra e crolla a terra, collassato. Uscirà dalla caserma per salire in ambulanza, ma ancora sfilando in barella, mentre i giornalisti gli si accalcano intorno, cercano di farlo parlare, ignorando il suo pallore e la somministrazione dell’ossigeno. È stata, quella notte, forse la più brutta pagina di tutta Tangentopoli, dal punto di vista dell’informazione e della giustizia. “Chi vive per gli altri vive per sempre”, hanno scritto i familiari nel necrologio. Ricordiamolo così.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 30 maggio 2022. 

Questa la non ricordavate: ma accadde lo stesso, e proprio il 28/29 maggio di trent' anni fa, collateralmente all'inchiesta Mani Pulite. Sì, perché il pm Fabio De Pasquale non faceva parte del Pool dei magistrati: non ce lo volevano. 

Lui e Antonio Di Pietro, poi, erano cane e gatto: nel tardo settembre 1993 un litigio furibondo tra i due risuonò per i corridoi dopo che un latitante, sbarcato a Linate, si era consegnato a Di Pietro nonostante fosse ricercato proprio da De Pasquale; volarono urla, al pm più famoso d'Italia furono ricordate certe sue ambigue frequentazioni e la sua futura moglie, Susanna Mazzoleni, denunciò che un capitano che collaborava con De Pasquale le aveva rivolto insinuanti domande sulle frequentazioni di Di Pietro.

De Pasquale non nascose mai la sua fede di sinistra («il capitalismo è una cosa sporca», disse al Giornale) e sicuramente non ricordate che per l'inchiesta sui fondi neri Assolombarda (1992-93) l'intero Parlamento, sinistre e forcaioli compresi, respinse le richieste di autorizzazione a procedere chieste da De Pasquale per Altissimo e Sterpa (liberali) e per Del Pennino e Pellicanò (repubblicani) perché il loro intento fu giudicato «persecutorio» da tutto l'arco costituzionale. 

Voi ricordate un'altra cosa: il caso di Gabriele Cagliari, quando lui promise la scarcerazione al detenuto e manager dell'Eni («Lei me l'ha messo in culo, io devo liberarla») ma poi cambiò idea senza neppure avvertire le difese e se ne andò in vacanza in Sicilia, e seguì suicidio. Ma questo deve ancora succedere. Dal raccapricciante episodio di quel fine maggio 1992, tuttavia, prese le distanze anche il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli.

I FALSI CORSI CEE

L'odissea del 60enne Michele Colucci era cominciata il 4 maggio: la notizia del suo arresto l'aveva colto alla clinica Città di Milano dove l'avevano appena operato alla prostata: accusato di presunti «falsi corsi Cee» organizzati dalla Regione Lombardia, la sua convalescenza avrebbe dovuto seguire un certo decorso ospedaliero, ma De Pasquale non fu dello stesso avviso: ordinò che la degenza fosse interrotta e che entro il 14 del mese il detenuto fosse trasferito «in confino» nella sua abitazione di Ruino (provincia di Pavia) agli arresti domiciliari con obbligo di firma.

Il confino (ex articolo 283) era una soluzione di norma adottata per i mafiosi. All'arrivo a Ruino trovò un nugolo di giornalisti e degli striscioni che lo bollavano come «ladro», mentre la strada era tappezzata da volantini della Lega stampati col refrain «Benvenuto Colucci, ladro». 

In questo scenario si giunse alla sera del 28 maggio, giorno in cui fu improvvisato un «manette show» che costringerà il procuratore Borrelli a prendere dei provvedimenti. 

IL MANETTE SHOW

Una telefonata agli avvocati di Colucci, Domenico Contestabile e Dino Bonzano, li avvertì che il loro cliente era stato prelevato da Ruino e lo stavano portando alla sede milanese della Guardia di Finanza di via Fabio Filzi, assieme a un gruppo di altri arrestati. A esser precisi, quattordici agenti avevano fatto irruzione nella casa di Colucci a mitragliette spianate.

Era sera, e fuori dalla caserma si era già formato una sorta di happening dove in trepidante attesa c'erano amici degli arrestati, parenti, ovviamente giornalisti e fotografi e cameramen, curiosi, un vecchio clochard che cantava, il tutto con la via transennata e illuminata a giorno e circolazione di panini e birra. 

Un cronista dell'Indipendente, Enrico Nascimbeni, si era portato la chitarra e intonava canzoni di Lucio Battisti. In mezzo alla folla spiccava un signore benvestito che pareva furibondo: era l'avvocato Bonzano, che l'invito allo show aveva ha ricevuto per ultimo: «Ancora una volta nel mirino degli inquirenti sono gli intrecci d'affari tra politici, amministratori e mondo imprenditoriale...», esordiva un comunicato diffuso dalla Guardia di Finanza. Sinché lo spettacolo ebbe a incominciare.

IL COLLASSO

Di lontano s'intravidero le auto delle Fiamme Gialle che fecero la loro parte: rallentarono a una cinquantina di metri dal bivacco di gente, per dar modo alla stampa di prepararsi, e poi ripartirono a sirene spiegate senza neppure passare - come sarebbe stato normale - dal passo carraio, ma bloccandosi davanti alle scalinate dell'ingresso pedonale così che gli arrestati fossero costretti a sfilare uno ad uno: per i giornalisti, una manna. 

E fu subito ressa: flash, spintoni, risse tra parenti e fotografi, le telecamere che scivolarono fin dentro la caserma, sin quando da un auto ecco scendere anche il Michele Colucci prelevato a Ruino, malfermo sulle gambe e trascinato a braccia nella calca. Dopo quel trambusto, una volta dentro, durante le operazioni di identificazione, Colucci crollò a terra secco.

Chiamarono un cardiologo, che diagnosticò un edema polmonare e dispose l'immediato ricovero. I finanzieri, imbarazzati, optarono per infermeria di San Vittore.

Pochi minuti dopo ancora sirene, ma era solo l'ambulanza che era venuta a prendere Colucci: ma neanche quella fu fatta passare dall'ingresso carraio, e Colucci a sua volta venne fatto ripassare in barella tra le forche caudine dei giornalisti. 

LA BARELLA E LE TV

La ressa si strinse attorno a un corpo che venne fatto sfilare in barella coperto da un sudario e privo di sensi, e un cronista della Fininvest alzò addirittura il lenzuolo che copriva il volto per facilitare le riprese e demenzialmente infilò il microfono davanti alla maschera dell'ossigeno. Le immagini sarebbero state trasmesse l'indomani.

«Tutto il regime in manette» titolerà L'Indipendente: su una macrofoto, raffigurante Colucci trascinato da due agenti, la scritta «Il vero volto dei partiti»; Avvenire - il giornale dei vescovi- pubblicherà direttamente le foto segnaletiche; il quotidiano pomeridiano La Notte proporrà un paginone di sole foto con didascalie ragionate. 

COME UN MAFIOSO

Fabio de Pasquale dispose che Colucci non dovesse incontrare nessuno per sette giorni. Neppure i suoi legali. La salute di Colucci, tra continui interrogatori e trasferimenti dal carcere al Tribunale sempre ammanettato- non farà che peggiorare sinché i medici saranno costretti a disporne il ricovero in una struttura più attrezzata dell'infermeria del carcere. 

Il 7 agosto i termini del trasferimento inclusero le seguenti raccomandazioni: manette dal carcere all'unità dell'ospedale Niguarda; piantonamento giorno e notte da parte di poliziotti in divisa, armati; vietato ricevere visite; il detenuto non può alzarsi dal letto; non può parlare con altri degenti e neanche con le guardie; non può andare in bagno senza l'autorizzazione di quest' ultime. 

MANETTE

Nei fatti fu una detenzione, o anche peggio. Una relazione dell'Università di Milano non fu presa in considerazione, anche se spiegava che nel cranio di Colucci c'erano due ematomi che rischiavano, muovendosi, di schiacciare un'altra parte del cervello. Il 20 settembre Daniela Colucci, giornalista Rai e figlia di Michele, lanciò un appello: «In tutta la mia vita non avevo mai visto piangere mio padre, mentre da quattro mesi non l'ho più visto sorridere. Mi chiedo a cosa possa servire l'eventuale risarcimento quando questa detenzione mette a rischio il bene insopprimibile della vita. I mali che stanno distruggendo mio padre sono veri e dimostrati... Non chiediamo nient' altro se non la possibilità di salvarlo». 

Sempre agli arresti, mesi dopo giunse finalmente la data di un cosiddetto incidente probatorio che in Tribunale doveva far luce sulle reali condizioni di Colucci. Durò sette ore. De Pasquale sostenne con durezza che l'anziano socialista doveva tornare a San Vittore a basta. Il gip Fabio Paparella invece ritenne che le perizie non fossero acqua fresca e autorizzò perlomeno gli arresti domiciliari col permesso d'incontrare i conviventi: moglie e fratello. 

La figlia, Daniela, ottenne il permesso di vederlo solo in dicembre. Alla madre residente in Puglia, ottantaseienne, venne concesso un permesso d'eccezione: telefonare.

Inquisito anche per violazione del finanziamento pubblico dei partiti, il 28 ottobre scaddero i sei mesi di carcerazione preventiva ma gliene rifilarono altri tre, in quanto- sostennero - poteva inquinare le prove. Non da solo, probabilmente: per alzarsi abbisognava di robusti infermieri.

BUCO NELL'ACQUA

L'inchiesta sui falsi corsi Cee coinvolse in tutto 48 persone, ma undici mesi di indagine porteranno a escludere la responsabilità di 20 degli indagati iniziali: archiviazione. Il 28 gennaio 1999 la settima sezione del Tribunale assolse trentatré posizioni, tra le quali quelle dell'ex presidente regionale Giuseppe Giovenzana e gli ex assessori Giuseppe Adamoli, Claudio Bonfanti, Francesco Rivolta, Ugo Finetti, Maurizio Ricotti e Pietro Sarolli. 

Assolto anche Serafino Generoso, ex assessore che, nel caso, raggiunse l'assoluzione numero quattro su quattro processi. Risulta che la posizione di Colucci per i reati di finanziamento illecito dei partiti sia stata stralciata per motivi di salute, e che sia finita in niente. Risulta che, per i corsi Cee, Michele Colucci sia stato assolto in Cassazione. E non abbiamo citato il caso del regista Giorgio Strehler, accusato di truffa e malversazione e assolto con formula piena l'anno prima di morire.

Quei "metodi" della magistratura milanese che in 30 anni sono entrati nel sistema giudiziario all’italiana. Huffpost Italia su huffingtonpost.it. l'08 Aprile 2022

Huffpost ha riassunto alcune corpose parti del libro di Filippo Facci: La guerra dei trent’anni, Marsilio, appena arrivato in libreria.

Huffpost ha riassunto alcune corpose parti del libro di Filippo Facci (La guerra dei trent’anni, Marsilio, appena arrivato in libreria) che si addentrano in certi «metodi» della magistratura milanese e che, dal 1992 in poi, sono in parte rimasti prassi del sistema giudiziario all’italiana. Una «rivoluzione» o una lotta tra poteri dello Stato – è una delle la tesi del volume di 750 pagine, ampiamente documentato – che non diede vita a una seconda Repubblica, ma fu un pezzo di prima Repubblica scappato di mano, qualcosa che gli italiani decisero di fermare quando fu chiaro che le inchieste avrebbero smascherato anche loro, o meglio, quando fu chiaro che non si poteva processare un sistema mentre era ancora vivo e che non si poteva fare un’autopsia su un corpo che ancora respirava.

Forse non esisteva – non esiste – un carcere a tutt’oggi piazzato ancora così vicino al centro di una città, anzi, nel centro di una città, una vetusta e a suo modo bella struttura all’americana con sei bracci a stella, i «raggi» sovraffollati da centocinquant’anni, in un’area dove tutti dicono che costruiranno qualsiasi cosa, ma poi non succede mai niente: San Vittore, sempre lì, imperiale, incurante delle velleitarie modernità di Opera e Bollate. Chiesa era al sesto raggio, dove spesso mettevano chi non era il caso di scaraventare subito nella mischia: qualche tossico, transessuale, parente di pentiti, gente accusata di aver violentato donne e bambini, e che la comunità galeotta non accettava. C’erano loro, e c’era Mario Chiesa, arrestato il 17 febbraio 1992: un politico, che cosa strana. Neanche un anno dopo la composizione del sesto raggio però sarà la seguente: cella numero 1: Enzo Carra, portavoce della Democrazia cristiana, in compagnia di un camionista accusato di associazione mafiosa; cella numero 2: Salvatore Ligresti, imprenditore; cella numero 3:  Francesco Paolo Mattioli, manager della Fiat; cella numero 4: Clelio Darida, democristiano, ex ministro della Giustizia, in compagnia di Claudio Restelli, ex segretario del ministro della Giustizia Claudio Martelli; cella numero 5: Claudio Dini, socialista, ex presidente della Metropolitana milanese; cella numero 6: Franco Nobili, ex presidente dell’Iri (Istituto ricostruzione industriale), in compagnia di Serafino Generoso, democristiano, ex assessore regionale della Lombardia; cella numero 7: Giorgio Casadei, ex segretario e assistente del ministro socialista Gianni De Michelis, in compagnia di Angelo Jacorossi, imprenditore; cella numero 8: Claudio Bonfanti, ex assessore della Regione Lombardia16. A occhio e croce, almeno sei di loro saranno prosciolti o assolti con formula piena. A occhio e croce, oggi, nessuno finirebbe in carcere preventivo per il tipo di accuse che si portavano appresso. A occhio e croce, Mario Chiesa sarebbe stato l’unico politico in galera.

Gli imprenditori, invece, confessavano qualcosa e niente galera, anzi, immediato sblocco dei conti bancari. Coadiuvato dai suoi legali Stella e Dinoia, l’imprenditore Fabrizio Garampelli proseguì la sua attività di infiltrato e convocò una riunione ri- servata con i suoi colleghi costruttori per delle tangenti sugli appalti ospedalieri. Segnarono tutto su un foglietto. Il giorno dopo, Garampelli lo portò a Di Pietro.

Mario Chiesa decise di parlare alle ore 10 di lunedì 23 marzo 1992 e chiuderà il suo verbale il 27, dopo aver tirato in ballo socialisti e democristiani di rango elevato ma non elevatissimo. Era politicamente finito, non aveva più un lavoro né una moglie; suo figlio non gli scriveva da un mese e la sua nuova compagna era incinta da sette: parlò essenzialmente per questo. Ammise versamenti a vari big politici, e sin dal primo interrogatorio fece la sua comparsa un tizio basso con la barbetta mai notato prima: il gip (giudice delle indagini preliminari) Italo Ghitti, il malriuscito «giudice terzo» che secondo il Codice doveva stare in equidistanza tra accusa e difesa. Ex contrattista di diritto ecclesiastico, per i cronisti diverrà «Nano ghiacciato», benché bramoso di una porzioncina di celebrità tra i più sanguigni colleghi del pool. Tenterà di ritagliarsi l’autonomia che le procedure gli assegnavano (è il gip ad autorizzare gli arresti chiesti dall’accu- sa), ma ogni volta saranno rondini che non faranno primavera: si opporrà, per dire, agli arresti di quattro consiglieri dell’Ipab (un istituto di beneficienza) e poi del manager della Torno Costruzioni Angelo Simontacchi, del direttore della Siemens Italia Jürgen Ferling, del socialista Loris Zaffra: ma la mancanza di terzietà di un intero paese, oltre ai ricorsi dei pm e alla duttilità della giurisprudenza, lo ricaccerà in un ruolo da comprimario. Con un Codice stravolto dalla prassi, mai completato con una necessaria separazione delle carriere (giudici e pm) e con la fine di quell’ipocrisia chiamata «obbligatorietà dell’azione penale», la figura del gip diverrà e resterà quella di un vidimatore delle carte dell’accusa.

Sulla funzione pressoché unica del gip Italo Ghitti, giusto trent’anni dopo, si è espresso in maniera eloquente Guido Salvini, giudice istruttore delle indagini su piazza Fontana, caso Parmalat e Abu Omar, tra varie altre. Salvini fu uno dei pochissimi a non aver mai aderito ad alcuna corrente organizzata della magistratura e passò quegli anni proprio all’ufficio gip:

«Posso narrarlo in prima persona... Un unico gip accentrò indebitamente tutti filoni di quell’indagine rivolta pressoché all’intero mondo politico e imprenditoriale... L’ufficio gip in quel momento era un passaggio decisivo perché era chiamato ad accogliere o respingere la richiesta di cattura presentate dal Pool e poi le istanze di scarcerazione o di arresti domiciliari, un meccanismo da cui in pratica dipendeva il funzionamento e lo sviluppo di quell’inchiesta «sistemica». Era co- modo per la Procura avere un unico gip già sperimentato, per alcuni già direzionato, e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all’interno dell’ufficio gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo crea- re difficoltà alle indagini o comunque costringere chi le conduceva a confrontarsi con punti di vista diversi. Così il Pool escogitò un semplice ma efficace trucco, costituendo, a partire dall’arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un «registro» che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conosce- vano tra loro e vicende tra loro completamente diverse, unificate solo dall’essere gestite dal Pool. Il numero era sempre lo stesso, il 8655/92, quello del Pio Albergo Trivulzio, un fascicolo estensibile a piacere, tra l’altro anche a vicende per cui la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano non esisteva. Invece le regole, nella sostanza, volevano che a ogni notizia di reato fosse attribuito un numero e a ogni numero seguisse la competenza di un gip non individuabile priori. Ma questo espediente dell’unico numero impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell’unico gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del Pool... I principi dell’Ufficio furono quindi sovvertiti radicalmente e non si trattava di regole puramente organizzative, ma dovevano presiedere al principio del giudice naturale e cioè che il giudice fosse del tutto indipendente e non fosse scelto da altri, soprattutto non dalla Procura. Ci fu anche un episodio che mi riguardò. Nel maggio 1993 un filone arrivò a me per «sbaglio»... portava scritto sulla copertina quel famoso numero 8655/92. Nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere su al- cune richieste del Pool, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al gip Ghitti, evitando così che non solo io, ma che qualsiasi altro gip dell’ufficio interferisse nella macchina di Mani puli- te. Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell’ufficio gip. Feci loro notare con una nota documentata la situazione del tutto illegittima che si era creata. Le mie osservazioni furono semplicemente cestinate. Non era il tempo di seguire le strada giusta, ma di adeguarsi al mainstream».

La testimonianza dell’ex gip Guido Salvini non attesta solo che l’inchiesta Mani pulite rinunciò alla terzietà del giudice, fondamento della civiltà giuridica e pilastro della parità tra accusa e difesa. È interessante anche perché permette di retrodatare la decisione della procura di direzionarsi preliminarmente verso una «rivoluzione» che i magistrati di Mani pulite, in interviste e testimonianze, hanno invece sempre teso ad ancorare a uno strabordante consenso popolare che a quel tempo ancora mancava. Nel febbraio-marzo 1992, quando Ghitti diviene l’anomalo gip unico e il riferimento di ogni indagine sulle tangenti, si era ancora lontani dalle successive elezioni «terremoto» del 5 aprile 1992, che pure registreranno una sostanziale tenuta dei partiti; mentre è prossimo, invece, l’affiancamento all’inaf- fidabile Di Pietro di magistrati come Gherardo Colombo e poi Piercamillo Davigo. In altre parole, l’inchiesta Mani pulite co- minciò a correre da sola con le sue anomalie e progressive forza- ture delle regole, in attesa del plebiscitario appoggio popolare che le permetterà addirittura di volare.

Detto questo, nel tentativo di trarre un bilancio da Mani pulite, neppure i numeri possono dirci molto. Le statistiche nascondono colpevoli che erano innocenti, innocenti che erano colpevoli e gente di passaggio che non era niente; diversamente da chi, invece, era tutto, ma in quegli anni scelse di rimanere in tribuna a scommettere su chi avrebbe vinto, senza capire chi avrebbe perduto in ogni caso: lui, anche lui. Ora però interessano le condizioni del campo a fine stagione, interessa chiederci se la stagione sia mai finita e quale ne sia seguita: più del bilancio numerico, importa capire come sia stato ottenuto, che prezzo abbia comportato, che cosa abbia lasciato dietro di sé. Importa meno, pur lasciando sgomenti, che degli 88 parlamentari eletti nel 1992 – destinatari di richieste di autorizzazioni a procedere da parte di varie procure –, i prosciolti o gli assolti furono 61. Importa pure meno, anche se lascia atterriti, l’alto numero di suicidi che si concentrò proprio in quei tre anni. È più interessante notare, fermandoci all’inchiesta milanese, l’alto numero di riti abbreviati e soprattutto di patteggiamenti tra i quali si nascosero, come spiegato, colpevoli che la sfangarono con poco, ma anche innocenti che vollero solo uscire di scena e di galera; su 3.200 persone di cui la Procura di Milano chiese il giudizio, 1.300 sono risultate colpevoli, anche se il numero comprende 506 patteggiamenti e 103 riti abbreviati, cioè poco meno della metà. Il patteggiamento – molti non l’hanno ancora capito – è un accordo tra accusa e difesa che implica un’ammissione di colpevolezza da parte dell’indagato, nonché un benestare del giudice: si patteggia solo la pena, reclusiva o pecuniaria o che sia.

La cancellazione dell’articolo 513 tardivamente ripristinato (senza il quale i processi erano solo vidimazioni notarili delle indagini) nel periodo di Mani pulite portò a molte sentenze basate sulla resistenza in carcere o su un malinteso diritto al silenzio, recepito come negazione di una sorta di «pentitismo coatto». Anche qui: molti incolpevoli ne fecero le spese, molti colpevoli la fecero franca, e molti processi sbagliati furono dirottati altrove per non rovinare le statistiche dell’inchiesta. Il pool, pur abituato a dettar legge in fatto di competenza territoriale, trasmise ad altre procure ben 1.320 posizioni: sarebbe interessante conoscerne i destini processuali, visto che molti casi, anche celebri, hanno registrato assoluzioni o prosciogli- menti che sfuggono alle statistiche meneghine. Tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni, a Milano, comunque, si arriva a circa il 46 per cento delle posizioni considerate: su un piano razionale, prima che umano, sono tutte persone che al Palazzo di giustizia non avrebbero neppure dovuto entrare, e sono quasi la metà.

Moltissime però ci entrarono, e da lì traslocarono direttamente al gabbio (a San Vittore chi non «parlava», a Opera i più collaborativi), anche a seconda del reato contestato. La prassi di Mani pulite tendeva a ipotizzare reati sempre i più gravi possibile, così da giustificare ogni volta la carcerazione preventiva, anche se, in certe fasi calde, per far scattare le manette bastava- no ipotesi di violazioni amministrative come il finanziamento il- lecito dei partiti o talvolta l’abuso d’ufficio. Moltissimi dei 1.230 condannati di Mani pulite hanno subito carcerazioni preventive a dispetto di condanne poi risultate inferiori ai due o tre anni; tutte persone che non sono mai andate in carcere, anche se gli arresti complessivi, durante le indagini preliminari, hanno superato quota 900. Da qui l’abitudine di sostenere che per Mani pulite di vere condanne al carcere non ce ne sono quasi state (si menzionano sempre le eccezioni di Sergio Cusani e Walter Armanini), anche se la regola procedurale, in teoria, sarebbe chiara: se è presumibile che tizio sarà condannato a meno di due anni, non lo si dovrebbe mandare in carcere preventivo; la regola implica, ovviamente, la capacità «prognostica» di saper prevedere a quanti anni tizio sarà probabilmente condannato, e tra i compiti del magistrato vi è appunto cercare di presumerlo. Diciamo, allora, che a Milano hanno sempre presunto molto male. Antonio Di Pietro in questo si era dimostrato maestro sin dai tempi del suo esordio da magistrato, a Bergamo: ipotizzare reati gravissimi e sbattere tizio immediatamente in galera, per- ché tanto, per derubricare un reato, ossia per cambiare imputa- zione al ribasso, c’era sempre tempo.

Se dei numeri importa poco, neppure per un istante si vuole però occhieggiare al «tutti colpevoli, nessun colpevole», e nep- pure al «tutti colpevoli» e basta: nella pratica, c’era un intero paese di colpevoli in un sistema disinvoltamente colpevole che fu corrivamente rastrellato con metodi colpevoli, metodi che la giustizia di uno Stato di diritto non dovrebbe permettersi mai, non in tempi normali e neppure in tempi rivoluzionari. Qualcuno, ancora oggi, sostiene che certi mezzi fossero gli unici possibili, e si sofferma sui fini, ma furono mezzi imperdonabili, e i fini raggiunti furono desolanti.

Giuliano Spazzali, avvocato di formazione comunista e difensore di Sergio Cusani, ha riassunto a modo suo:

«In quegli anni era in corso una grande trasformazione sociale e politica. Declinavano la Dc, il Psi, il Pri, il Psdi, il Pli. Il Pci stava cambiando nome e natura. Era nata la Lega, poi arrivò con il suo partito Silvio Berlusconi. Non fu Mani pulite a provocare tutto ciò; Mani pulite fu al massimo l’ostetrica, l’assistente al parto. Mani pulite è cresciuta enormemente tutta sulle confessioni degli indagati: e non è una buona inchiesta, quella che si fonda non sulle indagini, ma sulle confessioni. Era un’inchiesta contenitore da cui erano via via aperti, a piacimento del Trio Lescano [Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, N.d.A.] i vari processi. Si è in gran parte giocata con le confessioni e i patteggiamenti, l’unico vero processo è stato il processo Cusani, con Di Pietro che esibiva mezzi ultramoderni, mai visti prima d’allora in un’aula giudiziaria, come le proiezioni di schemi dal computer. Ma poi concludeva con frasi come «ma che c’azzecca» e conquistava il pubblico tv».

Neanche lo stravolgimento dello Stato di diritto e le procedure inquisitorie decollarono con il voto del 5 aprile 1992, bensì qualche mese dopo: corrisposero a una scommessa che la corporazione togata aveva fatto autonomamente e che solo in seguito fece da abbrivio all’implosione più drammatica della ribellione. Dall’autunno 1992, lo spettatore plaudente di Mani pulite si rese conto che il tenore di vita stava calando per davvero e che la pretesa di abbassare la spesa pubblica era fondata: si fece rivoluzionario quando capì che i sacrifici non avrebbero risparmiato nessuno e che il futuro si preannunciava fosco. A insorgere fu soprattutto la gran parte di popolo evasore e assistito che non aveva mai cementato il proprio consenso attorno a valori civici, e non sappiamo, ora, se dare la colpa alle vicissitudini storiche degli italiani o alle classi dirigenti del dopoguerra. Sappiamo che quelle classi dirigenti, il consenso di quegli italiani, non furono più in grado di comprarlo.

Ne andrebbe dedotto che nel giro di pochi mesi, dai primi mesi del 1992, fosse cambiato qualcosa nella procedura penale o nella giurisprudenza. In genere è con questo argomento che il peggior manipulitista gioca la sua carta più falsa, e lo fa, di passaggio, anche per liquidare la classica e imbarazzante domanda che ai tempi sorse spontanea quando le inchieste si fecero devastanti e gli arresti presero a viaggiare con il pilota automatico. Il quesito è noto: perché la magistratura si era mossa tutta d’un tratto, dopo aver dormito per quasi mezzo secolo? Non è che la precedente inerzia del corpo giudiziario – domanda conseguente – fosse funzionale allo stesso campo di gioco che la magistratura, da giocatrice titolare, era andata improvvisamente a diserbare?

La spiegazione più fallace, ai tempi e in parte a tutt’oggi, fa coincidere la neo intraprendenza della magistratura con l’entrata in vigore del Nuovo Codice di procedura penale, varato il 24 ottobre 1989: è il cosiddetto «Codice Vassalli» (da Giuliano Vassalli, ex ministro della Giustizia, socialista peraltro legato a Bettino Craxi) e cioè un ordinamento che era stato elaborato dallo stesso guardasigilli insieme a una commissione presieduta dal già citato giurista Giandomenico Pisapia, padre dell’avvocato Giuliano, futuro sindaco di Milano. E questa, forse, resta la spiegazione storicamente più falsa tra quelle che hanno attribuito la nascita di Mani pulite a cause meramente tecniche. Anche perché quel Codice, senza timor di smentita, auspicava procedure diametralmente opposte a quelle che le procure imposero con il benestare dei più alti livelli della magistratura: lo stesso Codice, non a caso, fu dapprima osteggiato e contestato dai medesimi magistrati che poi si fecero «rivoluzionari», appunto stravolgendolo e tessendone le lodi. Sin dai primi anni novanta, e basterebbe questo, non si contavano i togati che avevano lanciato grida d’allarme contro una codificazione che ritenevano troppo garantista: lo stesso procuratore generale della Cassazione, Vittorio Sgroi, ossia il primo magistrato italiano, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 1992, due mesi prima dall’inizio di Mani pulite, definirà le nuove norme addirittura come «ipergarantiste». Dello stesso tenore le relazioni dei procuratori generali delle Corti d’appello. E allora che cos’era successo?

Non serve essere giuristi per capirlo: i principi del Nuovo Codice furono letteralmente rovesciati. Partorito faticosamente come ibridazione tra il sistema inquisitorio e accusatorio, ossia tra la vecchia normativa fascista del 1930 e il diritto di matrice anglosassone, questo rinnovato ordinamento, nelle intenzioni, si proponeva di raggiungere una pari dignità giuridica tra accusa e difesa, una totale segretezza delle indagini e, viceversa, una totale pubblicità del successivo processo, ma soprattutto auspicava che la riproposizione e la formazione delle prove (comprese le confessioni e le testimonianze) avessero luogo rigorosamente nell’aula dello stesso processo, altrimenti non avrebbero avuto valore. Non ultima, e peraltro notissima, infine, fu la sostituzione del carcere preventivo con una «custodia cautelare» da adottarsi come «extrema ratio», intesa come rimedio eccezionale, ultima possibile soluzione dopo aver tentato invano ogni altra via.

Quello che varò un Codice tanto ambizioso, o forse pretenzioso, era un paese ancora scottato dal caso di Enzo Tortora e in sostanza cercò d’inventarsi ciò che non esiste, e forse non può esistere: un sistema misto tra il sistema all’italiana e quello anglosassone; perciò non introdusse la separazione delle carriere tra pubblica accusa e giudici (le due figure fanno lo stesso concorso, seguono lo stesso percorso formativo, passano da un ruolo all’altro e spesso sono vicini di pianerottolo) e neppure abolì quell’ipocrisia chiamata «obbligatorietà dell’azione penale» (che non esiste, perché i pm mandano avanti solo i procedimenti che a loro interessano), anche perché l’introduzione di questi due pilastri del processo accusatorio avrebbe reso necessario un cambiamento delle norme costituzionali. Morale: sappiamo com’è andata, e sappiamo, in buona parte, come va ancora oggi.

Ha scritto la fondatrice del «manifesto» Rossana Rossanda:

«Certi pm vogliono abbattere quel tanto di democratizzazione che nel dopoguerra si era raggiunto con il nuovo Codice e consisteva nell’imporre un tempo ragionevole fra rinvio a giudizio e processo per non fare già del processo la pena, nello spostare l’accento sul di- battimento orale, cioè pubblico, anziché sull’inchiesta delle procure».

Ha chiosato l’ex magistrato Carlo Nordio:

«L’Italia si è data un Codice alla Perry Mason, cioè accusatorio di tipo anglosassone, ma non può goderne gli effetti a causa di una Costituzione di tipo fascista... la nostra Costituzione, nata dalla lotta contro il fascismo, ha inghiottito sano sano il basamento stesso del Codice Penale fascista».

Ha detto l’ex pm Piercamillo Davigo: «Aspettavano Perry Mason. Invece è arrivato Di Pietro».

La pari dignità giuridica tra accusa e difesa è rimasta un sogno, ma, soprattutto, la custodia cautelare è stata dispensata come regola anche a fronte di reati (presunti) che non prevede- vano il carcere neppure in caso di condanna. I magistrati milanesi, con una giurisprudenza tutta loro, inquadrarono ogni reato (presunto) come affiliazione a un sistema, e, per prolungare a piacimento le carcerazioni preventive di chi non confessava (o meglio non confessava ciò che volevano loro) era sufficiente che dimostrassero come l’indagato avesse fatto parte di questo sistema. Chi denunciava altri, invece, poteva essere liberato perché ritenuto inaffidabile agli occhi dello stesso sistema. Il segreto istruttorio, poi, sempre per interpretazione della magistratura, divenne una barzelletta buona per sputtanare determinati soggetti (e non altri) i quali, per evitare l’arresto, pellegrinavano in procura dopo aver letto il proprio nome sui giornali.

L’apparente battuta «non incarceriamo la gente per farla parlare, ma la scarceriamo quando parla» divenne la regola dei magistrati milanesi e poi di tutte le procure d’Italia, spiegata in questo modo: solo parlando l’inquisito si rende inaffidabile agli occhi del mondo criminoso cui appartiene, dunque parlan- do svaniscono il pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove – ossia i requisiti per cui dovrebbe scattare l’arresto.

Disse il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli: «Ma in fin dei conti, è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?».

Disse il procuratore generale di Milano Adolfo Beria di Argentine: «Con il clamore e la tensione collettiva che si sono cre- ati attorno a Mani pulite, oggi l’opinione pubblica accetterebbe anche la tortura per estorcere le confessioni».

L’insistenza sul punto è motivata dal fatto che, a distanza di trent’anni, c’è ancora chi ha il fegato di sostenere che Mani pulite non abusò del carcere preventivo, o non ne fece lo strumento fondamentale delle sue inchieste. Ormai lo ammette anche Piercamillo Davigo:

«Potrei cavarmela dicendo che abbiamo arrestato le persone sem- pre rispettando la legge. Però devo aggiungere che uno strumento essenziale per accertare la corruzione è l’isolamento dei complici. Bisogna allontanare uno dall’altro, impedire la comunicazione. E come si fa? Con la custodia cautelare».

In questo modo, però, l’eventualità che un soggetto non avesse nessun complice da cui isolarsi, e soprattutto alcunché da confessare – dunque non appartenesse ad alcun mondo criminoso – non veniva considerata.

Pochi esempi tra mille. Il brigadiere G.F., per esempio, fu convocato da Antonio Di Pietro il 21 luglio 1994 per l’inchiesta sulla corruzione nella guardia di finanza. Il pm gli contestò delle tangenti pagate da alcune aziende, ma lui negò l’addebito. Il brigadiere allora venne arrestato il giorno dopo, nel perio- do, purtroppo, in cui sua moglie stava rischiando di perdere il figlio in gestazione dopo averne già perso uno l’anno prima. Allora, per dirla con il pool, parlò e venne scarcerato, ma poi, il 6 marzo 1995, in aula, mise a verbale: «Signor Presidente, ho confessato di aver preso soldi durante le verifiche fiscali per uscire dal carcere, ma non è vero niente. Non ho negato quanto mi veniva contestato da Antonio Di Pietro perché dopo cinque giorni di assoluto isolamento nel carcere di Peschiera pensavo che, solo ammettendo, potessi riacquistare la libertà». Risultato: fu inquisito per calunnia. Domanda lecita: e se il brigadiere non avesse parlato, se non avesse – dal suo punto di vista – mentito? Possibile risposta: l’ex colonnello C.C., indagato nella stessa in- chiesta, colpevole o meno che fosse, fu arrestato il 5 luglio 1994 e, senza aver parlato, fu scarcerato il 17 luglio... ma dell’anno successivo, il 1995.

La confessione come unica possibilità per essere scarcerati non fu solo l’indegna sintesi di una più complessa interpreta- zione giurisprudenziale: fu proprio messa nero su bianco. Un altro piccolo esempio. R.T., normalissimo geometra dell’Anas di Milano, venne incarcerato il 1° marzo 1993 con l’accusa di aver favorito un appalto in cambio di una decina di milioni. La richiesta d’arresto era firmata dai pm Antonio Di Pietro, Ghe- rardo Colombo e Piercamillo Davigo, convalidata dal gip Italo Ghitti. Un classico. A leggere le motivazioni veniva da pensare, come si dice, che buttassero via la chiave: «Sussistono gravi in- dizi di colpevolezza...», «per i reati la legge prevede una pena superiore a tre anni», «la legge prevede pene edittali elevate» senza «beneficio della sospensione condizionale». La custodia cautelare era necessaria perché esisteva un concreto pericolo «di inquinamento probatorio», in quanto «l’indagato ha co- stanti legami con pubblici amministratori che possono proce- dere a un’alterazione documentale»; esisteva poi un concreto pericolo «di reiterazione di comportamenti criminosi gravissimi ed analoghi», e i fatti «denotano in modo più che evidente l’inserimento dell’indagato... all’interno di un sistema», sicché «la misura richiesta appare sicuramente idonea ed adeguata... la custodia cautelare è l’unica proporzionata».

Una settimana dopo il gip respinse una richiesta di scarcerazione o concessione degli arresti domiciliari, perché non era an- cora chiaro «il quadro complessivo» ossia «un più vasto ambito che deve essere dettagliatamente delineato». Doveva delinearlo l’incarcerato, forse: e infatti. Cinque giorni dopo, il 12 marzo 1993, cambiò tutto. Le motivazioni addotte dal gip non valevano più, perché R.T. aveva «parlato», assecondando la linea dell’accusa. Il gip Ghitti concesse gli arresti domiciliari, e val la pena di riportare un passo dell’ordinanza:

«Il Giudice per le Indagini preliminari... Rilevato che il pm ha espres- so il proprio parere... Rilevato che all’esito degli ulteriori atti istruttori le esigenze cautelari poste a base del provvedimento restrittivo si sono quanto meno attenuate, sia per quanto concerne il pericolo di inquina- mento probatorio sia per quanto concerne il pericolo di reiterazione di fatti analoghi a quelli per i quali si procede, in quanto l’indagato ha reso dichiarazioni confessorie in ordine ai fatti contestati... »

Il gip lo scrisse testualmente: l’indagato poteva uscire perché «ha reso dichiarazioni confessorie», cioè aveva parlato.

Lo stesso accadde per molti altri, tra cui una segretaria dell’ex ministro Gianni De Michelis, M.C. che venne arrestata il 3 luglio 1993. I magistrati volevano sapere chi, come e per- ché pagava i conti dell’ex ministro. Lei rispose che per l’attività pubblica e istituzionale faceva riferimento all’apposito fondo ministeriale, mentre per le spese personali utilizzava contanti o assegni che le passava direttamente De Michelis. L’indagata però negò l’accusa principale: disse che non aveva mai ricevuto denaro da Giorgio Casadei, segretario particolare del ministro. I magistrati non le credettero. Tra le motivazioni con cui il gip Gioacchino Termini e il pm Rita Ugolini negarono la scarcera-zione, si legge:

«Considerato che il comportamento dell’indagata non è sostanzialmente mutato, giacché le sue ammissioni e i chiarimenti forniti se- guono sempre a specifiche contestazioni... considerato che manca un chiaro segno di resipiscenza e ripensamento sul comportamento reti- cente, contraddittorio e riduttivo, questo giudice, su parere conforme del pm, rigetta l’istanza di scarcerazione».

L’indagata, in altre parole, si era limitata a rispondere alle domande dei magistrati senza raccontare episodi a loro scono- sciuti, ma che ritenevano dovessero probabilmente esistere. È un altro classico di Mani pulite, anche se quest’ultimo episodio capitò a Venezia.

Molteplici sono gli esempi dell’uso della custodia cautelare secondo la prassi di quel periodo, comprendente anche la temuta tecnica dei cosiddetti «arresti a grappolo»: in pratica il malcapitato rimaneva in carcere sin quando, poco prima che scadessero i tre mesi di custodia cautelare (termine massimo), si spiccava un nuovo ordine d’arresto legato a un episodio delittuoso che l’accusa serbava in un cassetto, o che, peggio, era stato lo stesso detenuto a confessare tempo prima: sicché restava dentro altri tre mesi, alla fine dei quali non poteva escludere che gli riservassero lo stesso trattamento.

Per comprendere la più feroce coltellata inflitta al Nuovo Codice è però richiesto un ultimo sforzo. Come detto, la magistratura aveva stravolto e sovrainterpretato il Nuovo Codice di procedura penale varato nel 1989 non avendolo mai gradito: era stato neutralizzato e poi ridestato come un Frankenstein inquisitorio/accusatorio gradito alle toghe ma non alle intenzioni originarie del legislatore. A un Di Pietro usato come ariete, in- fatti, si era affiancata una controlegislazione operata dall’alto: alcune sentenze della Corte costituzionale (n. 255 del 3 giugno 1992) e una legge suicida (la 371, che consentiva l’arresto del testimone colto in flagranza a mentire o reticente di fronte al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria) avevano di fatto ristabilito e rafforzato lo strapotere delle indagini preliminari. Da un paio di lustri, ormai, ai pubblici ministeri era sufficiente estrarre verbali d’interrogatorio e riversarli meramente in pro- cessi che non contavano più nulla, ridotti a vidimazioni notarili delle carte in mano all’accusa. La totale discrezionalità dei pm dipendeva perlopiù dalla loro buona o cattiva disposizione, dal- le trattative ossia da quanto l’indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse.

In teoria le prove e le confessioni, per essere avvalorate, dovevano essere riproposte nell’aula del processo: era nel corso del dibattimento, cioè, e non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia, che una testimonianza doveva diventare una prova. Esattamente come si vede nei film americani, dove ciò che non avviene durante il processo semplicemente non esiste. In pratica nel corso di Mani pulite la procedura fu rovesciata. Ai pubblici ministeri era sufficiente estrarre dal faldone alcuni verbali d’interrogatorio ottenuti in carcere e riversarli nel processo, che a quel punto non contava più nulla, ridotto a vidimazione notarile delle carte in mano all’accusa; se l’imputato o il testimone non ne dava conferma, ossia non ripeteva in aula quanto dichiarato durante le indagini, magari dopo mesi di galera, veniva immediatamente incriminato per calunnia. Un imputato, per capirci, poteva denunciare un altro cittadino, patteggiare una pena simbolica e quindi «uscire» dal processo senza neanche presentarsi in aula, cioè senza mai confrontarsi con la persona che aveva accusato: c’è gente, in Mani pulite, che ha subito condanne senza aver mai visto in faccia il proprio accusatore. Era sufficiente che l’accusa rileggesse in aula i verbali delle indagini preliminari perché diventassero prove. Tutto questo, ovviamente, non sarebbe potuto accadere senza una controlegislazione operata dall’alto.

Va da sé che a quasi nessun indagato interessava aspettare un processo da celebrarsi chissà quando: gli interessava uscire il prima possibile dalla galera preventiva e veder dissequestrati i conti bancari inaccessibili da mesi alla sua famiglia o alla sua azienda, ergo poter uscire dal procedimento (uscire di scena), colpevole o innocente che si ritenesse. Da qui, a primeggiare nelle statistiche dell’inchiesta, l’altissimo numero di patteggiamenti legati alla discrezionalità dei magistrati e alle concessioni che l’indagato fosse disposto ad accettare: e le condanne con patteggiamento, in Mani pulite, sono state 847 su 1.254, ottenute, ripetiamo, quando il carcere preventivo era la regola e tutto si esauriva nelle indagini, complice la stampa e le sue storture. Il ricorso al patteggiamento, in altri termini, divenne una scorciatoia pagata a caro prezzo per chi voleva uscire dal tritacarne del rito ambrosiano; chi non accettava restava ostaggio della macchina giudiziaria, o in molti (moltissimi) casi – se non parlava, e resisteva perché magari non aveva niente da dire – la sua posizione veniva spedita per competenza ad altre procure: è successo in ben 1.320 casi, con percentuali di proscioglimento altissime. Tutta gente non colpevole che però non figura nella casistica ufficiale di Mani pulite, come se a Milano avessero teso a sbarazzarsi delle posizioni scomode e indisponibili alla confessione liberatoria.

Detto questo, esistono espressioni giuridiche complesse che il cittadino pur informato avrà udito più volte pur affrontandole con reverenza: terzietà del giudice, obbligatorietà dell’azione penale, competenza territoriale, responsabilità oggettiva («non poteva non sapere») più molte altre che hanno spesso fatto parte di ordinari dibattiti giurisprudenziali anche interni alla corporazione togata. Si potrebbe dire anche, attorno a questi snodi, che per una breve ma decisiva stagione, vecchi e giovani magistrati, politicizzati o no, arrembanti o defilati, galantuomini o soggetti da sanatorio, tutti insieme superarono ogni contrasto, e l’ultimo scalcinato pretore e il più prestigioso degli ermellini si ritrovarono a remare all’unisono nella stessa dire- zione. A nessun magistrato spiacque veder accrescere il proprio potere corporativo.

Ma non c’è soltanto la maledetta questione del carcere. C’è – e forse gli italiani discussero più che altro di questo – la percezione e la possibilità che un’inchiesta sia condotta bene o male, in tutte le direzioni o solo in alcune, con il necessario approfondimento oppure con imperdonabile sciatteria; insomma: c’è il modus, la discrezionalità esercitata nell’azione giudiziaria; se un’inchiesta fosse una storia, corrisponderebbe alla differenza tra raccontarne una o un’altra, raccontarla tutta o una parte, raccontarla veritiera o inventata: senza che i narratori – i magistrati – siano per forza dolosamente responsabili dei risultati raggiunti o non raggiunti, ma corrispondano talvolta solo ai li- miti buoni o cattivi che le loro scelte hanno comportato.

Può non sembrare chiarissima, messa così. Forse fu più esaustivo il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, intervistato nel 2002:

C’è stata una gestione «politica» dell’inchiesta, nel senso di procedere per gradi, scegliendo gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento?

«Dipende dal significato del termine «politico». Io la paragonerei a certe forme di Blitzkrieg, di «guerra lampo», la tattica tipica degli eserciti germanici... penetrazione impetuosa su una fascia molto ristretta di territorio, lasciando ai margini le sacche laterali, le piú difficili da sfondare. Di Pietro agiva allo stesso modo: tendeva ad arrivare rapidamente a risultati certi, lasciando ai margini una quantità di altre vicende da esplorare in un secondo momento. Da questo punto di vista possiamo parlare di «gestione politica»: nel senso di una strategia processuale che, a essere rigorosi, costituisce un’innovazione rispetto ai canoni tradizionali di indagine».

Un primo dubbio sorge spontaneo: le vicende da esplorare «in un secondo momento» furono poi esplorate? Se no, perché? Se sì, quando? Soprattutto, furono esplorate in coincidenza con il celebre sostegno e attenzione dell’opinione pubblica?

Sono domande inutili e che, soprattutto, non vanno certo nella direzione – non sia mai – di rimpolpare le solite accuse di parzialità dei magistrati verso la sinistra, tema che si affronterà più avanti. Sono domande inutili perché, a difesa dei magistrati, va ricordato che trattasi comunque di uomini, e che nessuno, pregiudizi a parte, condurrebbe un’inchiesta nello stesso identico modo di un altro. Anche le prove di eventuali deviazioni, lassismi, approssimazioni e scarsa diligenza – in seno a una magistratura che tende peraltro ad autoproteggersi – comportano, quando va male, violazioni deontologiche da valutare in sede disciplinare.

Il punto, infatti, è molto più grave. Il punto è che il metodo di un’inchiesta rivoluzionaria e già definita «un’innovazione rispetto ai canoni tradizionali di indagine» ha per esempio portato a tralasciare – travisare, non vedere, insomma non «esplorare» – ciò che altre procure scopriranno essere stato il vero epicentro della Tangentopoli nazionale: Pierfrancesco Pacini Battaglia, puerilmente definito dal gip Italo Ghitti «un gradino sotto Dio», un banchiere che per anni, a mezzo di conti esteri e offshore, aveva riempito le casse delle principali forze di governo e funto da collaudato intermediatore per segretari di partito, grandi imprenditori, alti ufficiali dello Stato, magistrati, militari, faccendieri internazionali, lobbisti d’alto bordo, grand commis di aziende multinazionali: e che, non bastasse, dall’alto delle sue relazioni o dal basso della sua villa in Toscana, posta accanto a quella di Susanna Agnelli, era in grado di condizionare o ricattare mezzo paese e nondimeno fu in grado di orientare la stessa inchiesta Mani pulite. È questo che interessa, ora: non anticipare il ruolo di Pacini Battaglia nel procedere dell’inchiesta, e tantomeno prenderlo a pretesto per riparlare del suo particolare rapporto con Antonio Di Pietro. Interessa come funzionava l’inchiesta Mani pulite.

Molti esempi illustrano come funzionò per casi noti o meno noti. Per il caso di Pierfrancesco Pacini Battaglia, chiamato in causa da un dirigente della Saipem (gruppo Eni), andò nel modo seguente: il banchiere anzitutto riuscì a evitare l’arresto e, dalla Svizzera, decise di avvalersi come difensore dell’avvocato Giuseppe Lucibello, non altri. In quei corridoi milanesi dove miriadi di arresti non verranno risparmiati, il banchiere ottenne la fissazione di una cosiddetta «presentazione spontanea» durante la quale anticipò (in un memoriale) parte delle contestazioni che gli aveva mosso il dirigente della Saipem. Parte, appunto: delle contestazioni mancanti non gli chiesero nulla, anche se riguardavano filoni e provviste che si sarebbero rivelate milionarie. Durante l’interrogatorio, le informazioni fornite da Pacini Battaglia venivano messe a verbale quasi acriticamente: spesso presentò documentazioni incomplete o alterate (ciò risulterà) e rilasciò dichiarazioni su fatti che i magistrati già sapevano. Non faceva mai nomi nuovi, non introduceva altre responsabilità se non di qualche nemico dichiarato (lo riveleranno anni dopo alcune intercettazioni telefoniche) e in definitiva i pm del pool non fecero mai una sola indagine sui conti bancari della banca di Pacini Battaglia, la Karfinco, riferibili personalmente a lui. Ci furono poi altri interrogatori che si tradussero in una memoria in cui il banchiere spiegava di aver trasferito in Italia quaranta miliardi di lire illegali con discriminazioni tra la veridicità dei versamenti basati sulla mera parola del banchiere: con questo criterio, per esempio, l’amministratore delle Ferrovie Lorenzo Necci – amico personale di Pacini Battaglia – rimase fuori da Mani pulite ma non dall’inchiesta sull’Alta velocità ferroviaria, scoperta successivamente – però non dal pool di Milano, bensì dalla Procura di La Spezia, la stessa che smascherò il vero ruolo di Pacini Battaglia nella Tangentopoli nazionale. L’inchiesta di La Spezia, anni dopo, rivelerà che il banchiere tosco-elvetico aveva cercato di salvare i suoi amici e di inguaiare i suoi nemici, omettendo di parlare di una quantità infinita di fondi esteri.

Intercettato a La Spezia, Pacini Battaglia si vanterà: «A Milano non mi hanno rinviato a giudizio... ho fatto archiviare un’indagine su Necci». Senza contare una famigerata «ho pagato per uscire da Mani pulite» che si presterà a infinite preoccupazioni.

Dirà Piercamillo Davigo:

«Nel momento in cui è rientrato in Italia e si è presentato a noi spontaneamente, e con le sue dichiarazioni ci ha svelato una serie di episodi fino a quel momento sconosciuti, sono cessate le esigenze di custodia cautelare... Certo, oggi l’esperienza di Mani pulite ci dice che quasi mai gli indagati ci hanno detto tutto. Ma la tortura non è prevista dal nostro ordinamento. E noi, per farlo parlare, non potevamo mica picchiarlo».

Infatti non picchiavano, in genere: incarceravano.

Ha testimoniato in sede giudiziaria il pm Francesco Greco:

«Difficilmente in Mani pulite i filoni investigativi venivano approfonditi oltre un certo livello, perché non c’era il tempo per farlo. Scoperto un episodio si tornava a quello dopo... Di Pietro era sempre proiettato alla scoperta di nuovi filoni investigativi e raramente tornava sui suoi passi... anche Pacini Battaglia ha sicuramente taciuto molte sue verità illecite... ha omesso in particolare i suoi rapporti finanziari con i singoli dirigenti dell’Eni... in seguito è emerso un suo ruolo nelle vicende Allied e Cragnotti e di volta in volta è stato interrogato da Di Pietro o dalla sua struttura... di Pacini se ne occupò prevalentemente lui».

Ha confermato, sempre in sede giudiziaria, il pm Gherardo Colombo:

«Accadeva spesso che chi collaborava non collaborasse a 360 gradi e tacesse parte di quanto a sua conoscenza... succedeva a volte di richiamare questi indagati senza procedere a nuova cattura... Quan- to leggo nei documenti che mi mostrate non fa altro che confermare quelle che erano le mie convinzioni in ordine al fatto che, con ogni probabilità, Pacini, come tanti altri, aveva svelato soltanto una parte delle realtà penalmente rilevanti che erano a sua conoscenza».

Ha scritto il giornalista Antonio Galdo nel suo libro Gli sbandati:

«Davigo era diventato consigliere della quarta sezione penale... Speravo di portare a casa qualche spunto autocritico, e invece Davigo mi sorprese e mi fece capire, con un’analisi molto lucida, quale era stata la vera bussola che guidava le scelte del pool. Iniziò con un riferimento religioso: «Nei testi induisti compare questa domanda a un profeta: “Da che parte devo stare?”. E lui rispose: “Pensa a combattere, non spetta a te cambiare il mondo”».

Messa così, par di capire che l’inchiesta Mani pulite fu un’indagine irresponsabile, condotta superficialmente e imperniata sul carcere, in cui la velocità prevalse sulla qualità e sull’accuratezza. Sembra di capire questo. Dev’esserci un errore da qualche parte.

Ancora Borrelli:

«Si impose la necessità di fare in fretta, di puntare molto rapidamente a uno scopo. Non, come si è detto polemicamente, quello di abbattere il regime o l’assetto politico di allora. Ma quello di raggiungere al piú presto risultati investigativi da presentare anche all’opinione pubblica con un buon grado di certezza. Di qui la necessità di suggellare tutte quelle situazioni di corruzione che potevano essere agevolmente dimostrate e accertate, lasciando da parte altre aree piú difficili da afferrare, che si sarebbero esplorate successivamente. Di fatto, poi, la rappresentazione di quel panorama avvenne soprattutto nei grandi processi Cusani-Enimont. Poi Di Pietro lasciò la presa, e gli altri colleghi andarono avanti, ma inevitabilmente molto materiale rimase accantonato».

Rimase accantonato un intero Paese. 

La guerra dei trent’anni. Le connivenze della stampa nel raccontare Mani pulite. Filippo Facci su L'Inkiesta il 7 aprile 2022.

Filippo Facci ha sintetizzato per Linkiesta la parte del suo nuovo libro che tratta del problema degli storici nell’affrontare i primi anni Novanta – come intrappolati in una «eterna transizione» che perdura ancor oggi – e i giornalisti che in quel periodo abdicarono al loro ruolo. 

I giornalisti non fecero il loro lavoro e ora gli storici non riescono a fare il loro. Indro Montanelli, in parte, aveva anticipato il problema: «Quando gli studiosi dovranno ricostruire questa pagina della nostra storia nazionale, avranno un serio problema. Non potranno attingere a piene mani dalle fonti dei giornali e dei telegiornali, e sai perché? I giornalisti, tranne le ovvie eccezioni che confermano la regola, durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, si sono lasciati trascinare dal soffio della piazza, e spesso dalla caccia alle streghe. Sono stati dei veri piromani, che volevano il rogo, e si sono macchiati di un’infame abdicazione di fronte al potere della folla. Una cosa che complicherà il lavoro dei poveri storici».

Si registrano almeno gli ottimi ma incompleti lavori di Giovanni Orsina che denotano quantomeno uno sforzo in direzione di una rinnovata ricerca delle fonti: per il resto, sulla storia di quegli anni, c’è davvero poco, salvo epistole tra accademici piazzate nei settori più impolverati delle librerie. Si deve tornare alla «Grande slavina» di Luciano Cafagna per capirci qualcosa a dispetto del limite, nonostante una notevole preveggenza, di interrompersi ed essere pubblicato a metà del 1993. Finirà che noi peones ci limiteremo a sostituire la monumentale «Storia d’Italia» di Indro Montanelli con la puntuale annalistica di Bruno Vespa, o, nel caso di analfabeti funzionali wikipedia-dipendenti, di scambiare per Storia lo sterminato faldone giudiziario titolato «Mani pulite» di Barbacetto-Gomez-Travaglio che è un mero riversamento di un dischetto informatico contenente tutti gli atti dell’inchiesta, consegnato agli autori personalmente da un magistrato del pool milanese. In compenso, il volume di oltre 800 pagine è stato definito «La più analitica e accurata ricostruzione dei fatti che io abbia letto». Parola di Piercamillo Davigo.

Sta di fatto che anche Aurelio Lepre, docente universitario di Storia contemporanea e già autore per varie case editrici, ultima Il Mulino, è autore di una «Storia della prima Repubblica» giudicata «la più convincente ed equilibrata» da Giovanni Sabbatucci, altro accademico di Storia contemporanea tra i più accreditati. Tuttavia, fermandosi alla fine del millennio scorso, anche Lepre sembra essersi arreso:

«L’editore mi chiede di aggiornare la mia Storia della prima Repubblica e mi crea qualche difficoltà. Per due motivi: il primo consiste nel fatto che negli ultimi anni la cronaca della vita politica italiana ha assunto frequentemente, anche a causa della pressione mediatica, l’aspetto di un teatrino… Tranne poche eccezioni, gli attori recitano sopra le righe, davanti a un pubblico perplesso, tra gli applausi di claques sempre più ristrette. Anche per uno storico, perciò, la tentazione di trattarne in chiave ironica è forte. Ma il nostro mestiere ci insegna proprio a distinguere tra cronaca e storia e bisogna perciò riuscire a cogliere dietro la maschera spesso buffonesca della cronaca politica giornaliera il volto severo della storia. Con la speranza che ci sia davvero.

La seconda difficoltà è costituita dal fatto che stiamo vivendo una transizione infinita, che non sembra offrire punti certi di riferimento. La prima edizione di quest’opera si chiudeva con gli avvenimenti del 1992, una data che pareva assumere un significato epocale a causa della drammatica atmosfera creata dalle inchieste… Era diffusa la convinzione che la società italiana fosse arrivata a una svolta. Ma così non era stato…. Nel 2003 siamo però ancora in mezzo al guado. E nessuno, se non per motivi di polemica giornalistica, si azzarda a sostenere che è cominciata una seconda Repubblica… Sono ancora convinto che un’epoca della nostra storia si è chiusa, anche se non è ancora cominciata una nuova».

E veniamo alle colpe dei giornalisti. Tra la primavera del 1992 e la fine del 1994, in Italia, si creò un’alleanza tra procure e mezzi di informazione come non si era mai vista in nessun Paese occidentale, e come probabilmente non si vedrà mai più. In sintesi accaddero tre cose: L’informazione non si fece solo gregaria della magistratura «rivoluzionaria, ma divenne autenticamente uno strumento di indagine della medesima; 2) La stessa informazione si fece uniformata da testata e testata – comprese quelle televisive, pubbliche e private – in quella che fu definita una «redazione giudiziaria» unificata tra cronisti, alcuni dei quali avevano rapporti diretti e preferenziali coi magistrati in particolare del Pool Mani pulite di Milano; 3) La stessa saldatura si traspose tra i livelli più alti di alcune testate, attraverso un patto tra direttori che furono così in grado di condizionare l’opinione pubblica al punto da stravolgere o vanificare ogni iniziativa del potere legislativo.

Cominciamo con l’informazione come strumento d’indagine. Il ruolo della stampa in pratica di fece fisiologico all’inchiesta milanese: travestita da libera circolazione delle notizie, la pubblicazione di determinati verbali (piuttosto di altri) si traduceva in un irresistibile effetto richiamo per decine di soggetti che si ritrovavano il proprio nome sui giornali.

Il pm Antonio Di Pietro aveva prospettato un uso della stampa a fini istruttori sin dal primo giorno, quando lasciò filtrare la notizia – falsa – che su un conto bancario della madre di Mario Chiesa ci fossero oltre 4 miliardi. Uscita la notizia sui quotidiani, convocò la poveretta e le chiese: «Quanti soldi ha sul conto?». «Quattro miliardi e mezzo» rispose lei. Ma erano quasi 7, e questo potè dimostrare che quel denaro non era gestito da lei. Ma molte e troppe furono le strumentalizzazioni di una stampa compiacente: soprattutto in un periodo in cui un avviso di garanzia, o mezza notizia ben filtrata, erano in grado di squadernare ogni trattativa politica.

Una sola notte di prigione era poi in grado di trasformare i primi imprenditori arrestati in terribili accusatori: una sola chiamata in correità divenne presto un presupposto sufficiente per far scattare le manette. Ammetterà il pm più noto dell’inchiesta Mani pulite: «Per l’imprenditore la convenienza è soprattutto imprenditoriale. Qual è il suo primo problema quando viene coinvolto? I giornali, la televisione, l’arresto, la confessione, tutto questo produrrà effetti a catena disastrosi per la sua impresa. Le banche ritireranno i fidi, i committenti non daranno più gli appalti, i lavoratori contesteranno, sarà costretto a chiudere».

Una prima fase dell’inchiesta tenderà perciò a inquadrare l’imprenditore più nel ruolo di concusso da un potere politico ricattatore, sin da subito vero obiettivo dell’indagine: un Di Pietro stanchissimo confidò al cronista del Giorno, Paolo Colonnello: «Potrei arrivare a Craxi, ma bisogna andarci piano».

In realtà, nelle carte, non c’era nulla che facesse presagire quel punto d’arrivo. Quella stessa sera, Il 21 aprile 1992, alla pizzeria Gambarotta di via Moscova, i cronisti di giudiziaria lanciarono l’idea di riunirsi in pool «per trovarci a scrivere un pezzetto di storia», ha scritto il cronista del Corriere Goffredo Buccini. La motivazione ufficiale era non disperdere notizie, verificarle al meglio, evitare trappole, gestire la sovrabbondanza, prevenire le censure, in sostanza disciplinare la strumentalizzazione che di loro faceva palesemente Di Pietro, ottenendone i cronisti considerazione e vanagloria giornalistica.

In quella prima fase non c’era notizia o carta o verbale che uscisse senza che i magistrati lo volessero, benché, materialmente, spesso provvedevano avvocati che facevano i propri interessi. A sorvegliare il collo di bottiglia da cui passavano le notizie c’erano al massimo quattro o cinque giornalisti, ciascuno coi suoi contatti preferenziali in procura. Per buona parte erano dei cronisti ragazzini che si ponevano nell’unica strozzatura dove certe notizie potevano passare, anche se questo implicava un rapporto personale e di tacito accordo con alcuni magistrati.

Da principio a rappresentare una novità furono i telegiornali Fininvest, dapprima guardati in cagnesco e sospettati di intelligenza col nemico: spesso qualche telecronista diffondeva il panico nei servizi della notte e i cronisti della carta stampata venivano richiamati per verificare e ribattere. Circolavano elenchi di arrestati veri e falsi, e Di Pietro era letteralmente idolatrato e i cronisti l’avevano soprannominato «Dio» o «Dio Zanza» o «Zanzone» (imbroglione in milanese) mentre il capitano Zuliani dei Carabinieri era «Mago Zu». Il decano dell’Ansa, storico punto di riferimento, chiamava i più agguerriti «quelli che ce l’hanno sempre duro». Un mensile di categoria, Prima Comunicazione, li descrisse come «Un gruppo di cronisti che si comporta in maniera alterata, abbandonando il privato».

Di fatto, l’informazione si fece uniformata da giornale a giornale, ma soprattutto militante. L’entusiasmo e la giovane età, in qualche caso, giustificarono episodi al limite del fanatismo: per esempio la produzione della maglietta «Anch’io seguo Mani pulite» o il primo avviso di garanzia a Craxi appeso in sala stampa (dopo aver brindato a champagne, come accadde anche per l’arresto di Salvatore Ligresti) e più in generale una dedizione che portò alcuni ragazzi a sentirsi parte dell’inchiesta anziché strumento della medesima. Ha scritto ancora Buccini: «Che noi trentenni di allora avessimo più o meno tutti una formazione di sinistra è vero. L’inchiesta ci dava la conferma di ciò che noi avevamo sempre pensato dell’Italia: dei socialisti, degli andreottiani, di Ligresti e poi dello stesso Berlusconi. E quando ritieni di vedere la conferma di quello che pensi, non cerchi altre verità… E questo è stato senz’altro lo sbaglio di noi giovani giornalisti di allora. E lo sbaglio di tutti quanti, poi, è stato pensare che un Paese si possa riformare per via giudiziaria: i processi sono una scorciatoia solo apparente. La storia di Mani pulite dimostra che la rivoluzione giudiziaria non esiste».

Anche l’estrazione politica della maggior parte dei cronisti sembrava univoca: «Sarebbe ipocrita negare che, a parte il mio collega Brambilla, un cattolico perbene», è sempre Buccini a parlare, «noialtri abbiamo quasi tutti, chi più e chi meno, un percorso di formazione che viene da sinistra. In qualche modo, l’inchiesta contiene, almeno in potenza, la conferma del male che abbiamo sempre pensato di certi socialisti craxiani traditori della nostra causa, certi andreottiani mafiosi e maleolenti, certi imprenditori tentacolari e, in generale, di un potere costituito che sempre si oppone alle «magnifiche sorti e progressive» di cui abbiamo deciso di non essere alfieri sin dai licei e dalle università. Tutto questo può non pregiudicare il lavoro nell’immediato: ma può metterlo a rischio più in là».

Non erano tutti di sinistra, comunque. E se è vero che Michele Brambilla del Corriere era un cattolico moderato, lo è anche che presto, arcistufo, lasciò il gruppo e cedette il posto al più esaltato Gianluca Di Feo. Paolo Foschini di Avvenire, il giornale dei vescovi, aveva poco da fare il compagno di sinistra. Frank Cimini del «Mattino» lo era pure, di sinistra, ma in stile «manifesto», un garantista sovrastato dai fatti. Annibale Carenzo dell’Ansa, il decano, si limitava a dare notizie senza interpretazioni. Lo stesso valeva per Mario Tomaino e Salvatore Carloni dell’Agenzia Italia. Cristina Bassetto dell’Adn-Kronos era un ex giornalista dell’Avanti! passata ad altri lidi quando il giornale chiuse. Maurizio Losa della Rai, molto vicino a Di Pietro, era un ordinario reggi-microfono alla pari di altre due comparse rispettivamente in quota repubblicana e socialista. Andrea Pamparana del Tg5 era figlio del portinaio di casa Pillitteri ed era un bravo ragazzo senza ideologie e con limiti precisi. Enrico Nascimbeni dell’Indipendente, figlio del noto Giulio del Corriere, non era nulla che abbia senso classificare.

Piallato su una sinistra giustizialista (più giustizialista che sinistra) era semmai lo zoccolo duro composto da Goffredo Buccini (Corriere) e Paolo Colonnello (Il Giorno) e Peter Gomez (Il Giornale) e ovviamente Marco Brando e Susanna Ripamonti (Unità) più ovviamente il duo inossidabile Luca Fazzo e Pietro Colaprico (Repubblica) a cui si aggiungeva Cinzia Sasso, futura consorte dell’avvocato e sindaco Giuliano Pisapia. Nell’ammettere onestamente che «rifarei tutto», Luca Fazzo (oggi al Giornale) nel 2011 ha ammesso che l’inchiesta non sarebbe stata possibile «con il rispetto formale delle regole», e che ci fu la «sospensione temporanea delle garanzie».

Fazzo racconterà della sparizione sostanziale dell’articolo 318 del Codice Penale, sostituito regolarmente dalla contestazione dell’articolo 319 che semplicemente distingue la «corruzione per atto d’ufficio» dalla «corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio»: il primo non prevedeva l’arresto, il secondo sì. Ha raccontato ancora Luca Fazzo: «Tacitamente erano stati suddivisi i compiti: a L’Espresso si davano i verbali, al Corriere le interviste. Ricordo quando Borrelli si affacciava nel corridoio e diceva «Chiamatemi Buccini». Voleva dire che c’era un problema e che aveva bisogno di essere intervistato».

Servire e accorrere alla corte di un magistrato, per qualche ragione, suonava diverso dal servire e accorrere alla chiamata di un politico. Solo l’espressione «servire» restava identica, e andare a rivedersi la radice latina del verbo «servire» pare irrispettoso. Comunque anche alcuni avvocati facevano la loro parte. Magari il magistrato dava la dritta, i carabinieri fornivano l’ordine di cattura e i legali i verbali di interrogatorio. Con in mano i verbali, poteva capitare che i giornalisti arguissero in anticipo chi sarebbe stato arrestato o indagato di lì a poco. Ancora Luca Fazzo: «Lo chiamavamo il pigiamino, forse perché arrivavamo a chiedere interviste anche la sera tardi, nelle case di persone che non immaginavano che cosa stesse per cascare loro addosso. Erano veri agguati».

C’erano verbali autorizzati e altri che lo erano di meno. Anche allo scrivente capitò di pubblicare (sull’Avanti!) degli stralci di verbale che secondo le vecchie regole violavano il segreto istruttorio: ma non facevano parte di nessuna dinamica prevista e unificata, insomma non erano condivisi. Ufficialmente non esistevano. In un verbale che pubblicai più volte, in particolare, si chiamava in causa un democristiano moralizzatore d’ambiente addirittura curiale, Antonio Ballarin, un archetipo da «società civile» che, di passaggio, era anche cugino del pm Gherardo Colombo. Il pool dei giornalisti quel verbale non l’aveva avuto, tanto che un collega che conoscevo da quando scrivevo su Repubblica, Piero Colaprico, mi disse che a suo dire era «un falso, e altri colleghi mi sbeffeggiarono definendolo «una patacca». Invece era autentico. Lo era al punto che il moralizzatore pellegrinò in Procura, con l’Avanti! sotto il braccio, e dopo un po’ i cronisti lo videro lasciare il palazzo con lo status di indagato. Ballarin fu costretto a un imbarazzante confronto con Maurizio Prada, il cassiere milanese della Dc.

Ha scritto quasi trent’anni dopo ancora Goffredo Buccini, cronista del Corriere della Sera rimasto impigliato nel reducismo: «Dal 17 febbraio 1992 ogni interrogatorio, verbale, arresto s’è sempre tradotto in un passo verso il primo, vero bersaglio dell’inchiesta, il Cinghialone. Dovremmo chiederci se sia normale che un’inchiesta abbia un bersaglio, peraltro marchiato con un nomignolo così feroce. O se sia opportuno che i cronisti che la seguono vi partecipino con tanta foga da considerare un successo l’atto di accusa contro un indagato. Ma è inutile nascondersi dietro le ipocrisie». Il «Cinghialone» era Bettino Craxi.

Mentre l’inchiesta impazzava capitava che le notizie fossero depositate nelle edicole prima ancora che nelle mani degli avvocati. Il democristiano Giorgio Moschetti, nel settembre del 1992, raccontò: «Alle 16.45 di oggi mi è stata notificata un’informazione di garanzia. Il Tg ne aveva già dato notizia verso le 14».

Un altro democristiano, Roberto Mongini, ha raccontato che accese la radio e seppe di essere stato arrestato un paio d’ore prima. Poi c’erano altri casi, particolari, come quello raccontato dal cassiere democristiano Severino Citaristi: «Consegnai degli elenchi a Di Pietro. Conoscendo le poco corrette abitudini di Milano, gli raccomandai di fare in modo che l’elenco non fosse reso pubblico. Me lo assicurò. Infatti, due giorni dopo, quotidiani e settimanali pubblicarono integralmente i tre elenchi consegnatigli, contenenti nomi di oblatori che prima non erano mai apparsi, come per esempio Pietro Barilla. Anche in questo caso il cosiddetto Pool di Milano continuò nella sua poco corretta abitudine».

Il cronista Bruno Perini, che seguiva l’inchiesta per «il manifesto», scrisse sul mensile «Prima Comunicazione»: Bisogna pur dire che a Tangentopoli i giornalisti hanno avuto il loro padrone: la magistratura. Molti giornali si sono messi sull’attenti, si sono scordati pezzi del Codice penale, pezzi importanti delle garanzie che la legge prevede per gli imputati. È stato rispettato più il Codice Di Pietro che non il nuovo Codice penale. C’è stata una specie di identificazione totale con l’ufficio del pm, tanto che alcuni periodici [«L’Espresso» e «Panorama»] sono diventati i portavoce della Procura e i depositari dei verbali d’interrogatorio. I giornali si sono così abituati a singolari trattative sulla carcerazione preventiva o sulla consegna degli imputati, come se fosse una cosa normale … anche in questo caso ha funzionato la forte dipendenza dalle fonti di informazione. Con un’aggravante: soprattutto nell’inchiesta Mani pulite, le fonti di informazione erano univoche».

Tanta confidenza portò per esempio un cronista di giudiziaria del Corriere della Sera a fare da autista ai magistrati Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo nel percorso tra Milano e Montenero di Bisaccia – quasi 700 chilometri – per partecipare ai funerali della madre di Antonio Di Pietro. Al Corriere della Sera peraltro avevano un Cerved, un monitor che permetteva di accedere alle banche dati societarie e fare per esempio le visure camerali, e spesso, per questioni pratiche, il pool dei magistrati telefonava direttamente in via Solferino e chiedeva qualche favore. Se con certa malignità i cronisti di giudiziaria potevano essere definiti camerieri delle notizie, l’alta cucina era però materia dei gran cuochi: i direttori delle testate.

È ormai acclarato che a un pool di cronisti se ne affiancasse un altro che concordava titoli e prime pagine: Alessandro Sallusti chiamava Dario Cresto Dina della Stampa mentre Paolo Ermini chiamava l’Unità, che sua volta chiamava Repubblica perché Corriere e Repubblica non volevano sentirsi direttamente, essendo concorrenti agguerriti. C’era tutto un giro di telefonate tra Corriere, Stampa, Unità, Repubblica e talvolta anche Mattino; poi Mieli, sentite le notizie degli altri, le confrontava con le sue e decideva l’apertura del Corriere, dopodiché, ancora, i caporedattori ritelefonavano agli altri per informarli. Il direttore dell’Unità era Walter Veltroni, alla Stampa c’era Ezio Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito.

Mieli e Mauro non hanno confermato, ma prima di Mieli, che divenne direttore dal 2 settembre 1992, c’era il reggente Giulio Anselmi, che si è limitato a dire: «Capitava che ci scambiassimo informazioni… Lo sbaglio è stato di aver riproposto l’idea che molti di noi, me compreso, avessimo un ruolo nella rinascita del Paese… abbiamo dimenticato a volte che le procure sono solo una delle fonti possibili e non la verità». Il primo a rivelare questo patto deontologicamente e democraticamente criticabile (a esser gentili) è stato Piero Sansonetti, allora condirettore dell’Unità. Antonio Polito ha confermato: «Le cose funzionavano come dice Sansonetti… c’era un vuoto, i partiti pesavano pochissimo, il governo era altrettanto debole, perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano anche per le nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l’opinione pubblica. Facemmo quel patto proprio perché il nostro peso era enorme. Quella scelta di federarsi fra giornali non fu buona, non la rifarei. Ma lo dico oggi».

Furono organizzate campagne anche decisive magari nella scia dei comunicati indignati che la procura di Milano leggeva talvolta davanti alle telecamere: capitò col Decreto Conso e col Decreto Biondi. Per il primo caso, Polito l’ha messa così: «Giovanni Conso era specchiato, l’oggetto era tentatore e l’idea nemmeno campata in aria… Però decidemmo insieme di ostacolare quel decreto, di ostacolare la soluzione politica, di lasciare che i giudici andassero fino in fondo. E non fu difficile. In quel clima ci bastava scrivere “decreto salvaladri” e il gioco era fatto».

Piero Sansonetti è stato ancora più chiaro: «Il decreto non fu bocciato dal Parlamento, ma dal pool dei giornali… alle sette del pomeriggio ci fu l’abituale giro di telefonate con gli altri direttori e si decise di affossarlo. Il giorno dopo i quattro giornali spararono a palle incatenate, e tutti gli altri giornali li seguirono… Il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto, che decadde».

Tra i pochi giornali non sdraiati sulle procure c’era Il Giorno diretto da Paolo Liguori, dove scrivevano firme come Andrea Marcenaro, Carla Mosca e Napoleone Colajanni. Suo antagonista naturale era «L’Indipendente», dove ai brindisi all’avviso di garanzia si accompagnavano talvolta dei veri e propri ammiccamenti alla ribellione. La linea editoriale manettara del direttore Vittorio Feltri portò il quotidiano, partito quasi da zero, a superare le 100mila copie. Persino al «manifesto», storicamente garantista, a parte sporadici editoriali di Luigi Ferrajoli o Ida Dominijanni o Rossana Rossanda, la linea pro-giudici non conosceva soste.

Sarebbe poi fuorviante soffermarsi su certo giornalismo più di costume, affine al fenomeno del dipietrismo e a ciò che scrissero giornaliste come Camilla Cederna, Maria Laura Rodotà, Chiara Beria di Argentine, Laura Maragnani e anche molti uomini che descrissero Di Pietro come un sex symbol, tutta spuma attorno alle articolesse più seriose ma parimenti prostrate di editorialisti come Marcello Pera, Ernesto Galli della Loggia, Saverio Vertone, Paolo Bonaiuti, Maurizio Belpietro e Paolo Guzzanti. Ma il dipietrismo, rivisto oggi, fa quasi parte del comico e non del conformismo che si traduceva in una sostanziale mancanza di libertà di stampa, e che, in caso di rare critiche all’operato della magistratura, doveva sempre essere preceduto da litanìe di premesse: premesso che l’azione dei giudici è salutare, che devono fare il loro lavoro e andare fino in fondo, che si limitano ad applicare la legge, che c’era un sistema che andava debellato, che le critiche rischiano di delegittimare la magistratura facendo calare la tensione nella lotta alla mafia, che bisogna evitare colpi di spugna (eccetera).

Anche l’informazione televisiva meriterebbe un trattato a parte. Satira a parte (onnipresente) dalle tonalità del Tg3 sembrava sempre che l’Armata Rossa fosse alle porte di Trieste. Tra i sovrani delle telepiazze brillò il consueto Michele Santoro ma anche il cinico Gianfranco Funari (un talento nell’avvicinare la politica alle casalinghe) nonché il finto dimesso Gad Lerner. Va notato che Berlusconi, che ormai aveva ottenuto tutte le concessioni che gli servivano – e che prima di ottenerle aveva cercato di acquietare un pochino il «suo» Giornale – si rese co-protagonista della montante antipolitica e della sua pre-politica, lasciando ai suoi telegiornali assoluta briglia sciolta.

Secondo una ricerca, il 38enne Enrico Mentana (che dapprima, il 18 febbraio, dimenticò di dire che Mario Chiesa era socialista) sul suo Tg5 usò la parola «clamoroso» per 54 volte in un mese, battuta solo da «polemica» (61 volte). Clamorosi gli arresti. Clamorosi gli sviluppi (delle inchieste). Clamorose le reazioni (suscitate dagli arresti, dalle inchieste, dagli sviluppi delle inchieste) e insomma un martellamento con sfondo sempre di auto che sgommavano, ammanettati che entravano e uscivano dal portone di San Vittore con la sporta in mano, ovviamente il solito Di Pietro con un filo di barba che passeggiava eternamente davanti al suo ufficio. Nel mese febbraio-marzo 1993 il tg di Mentana dedicò 61 notizie a Mani pulite contro le 27 del Tg1, 61 agli avvisi di garanzia e di custodia cautelare contro i 21 del tg Rai, 29 agli arresti contro i 12 del concorrente. Il linguaggio era da calamità naturale: bufere, cicloni, raffiche, tempeste, nubi, valanghe e uragani. Il 38 per cento dello spazio del Tg5, in febbraio e marzo, nell’edizione delle ore 20 era dedicato alle inchieste di Milano, il 18 per cento alla cronaca, appena un quinto dello spazio andava alla politica. Ma inchieste e politica erano ormai la stessa cosa.

Resta il mistero – si fa per dire – di come anche la più appariscente violazione del segreto istruttorio, con l’inchiesta Mani pulite, divenne regola. Il Codice di procedura penale era anche chiamato «Pisapia-Vassalli» e allo scrivente, all’inizio del 1992, capitò di intervistare il professor Giandomenico Pisapia (morto nel 1995, dopo che, come detto, era stato presidente della commissione per la riforma del Codice) il quale disse testualmente: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il nuovo Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c’è, e serve a tutelare sia le indagini sia l’indagato, che naturalmente teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare la sua immagine, immagine che una volta guastata non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione».

Va aggiunto che, sempre nel 1992, l’allora vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, diede conferma: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l’avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio».

Dopodiché, come è noto, non successe niente del genere: allora come oggi, l’interesse dei media e dell’opinione pubblica si concentrò sulle indagini preliminari, mentre il successivo processo, sempre che abbia avuto luogo, si perse nel dimenticatoio. In sostanza che cosa fosse o non fosse il segreto istruttorio, al di là delle intenzioni del legislatore, i vari pool dei magistrati e dei giornalisti presero a raccontarselo da soli.

Il 19 dicembre 1992, al Circolo della stampa, ci fu un convegno organizzato dal Gruppo di Fiesole (un gruppo di cronisti orientati a sinistra) alla presenza dei succitati Pool, e Piercamillo Davigo la mise così: «Se una cosa la sappiamo in tre, e io sono tenuto al segreto altrimenti commetto un reato, un altro è tenuto al segreto altrimenti commette un illecito disciplinare, ma il terzo non è tenuto al segreto, allora la notizia non è più segreta…. c’è un equivoco di fondo: il segreto istruttorio è posto a tutela dell’attività investigativa, non dell’onorabilità dell’inquisito».

Disse invece il pm Gherardo Colombo: «È vero che il diritto alla riservatezza di tutti noi va tutelato, ma quando la via di tutti, il progredire di tutti confligge con l’interesse particolare, io penso che il più delle volte vada sacrificato il secondo al primo». I cronisti, ovviamente, erano d’accordo. Il giornalista della «Repubblica» Piero Colaprico avrà a vantarsi che «nessuno di noi, in dieci mesi di inchiesta, ha ricevuto una sola querela. Ciò significa che abbiamo lavorato bene, ma anche che nessuno di noi ha mai violato il segreto istruttorio».

Un sillogismo che si commenta da solo. Francesco Saverio Borrelli, in più sedi, ebbe modo di spiegare che il segreto istruttorio in pratica non esisteva più. Corso Bovio, legale dell’Ordine dei giornalisti lombardi, nella prima estate 1992, aveva detto all’Avanti!: «Per anni, come avvocato dei giornalisti, ho dovuto sostenere decine di cause per violazione del segreto istruttorio, promosse proprio dalla procura milanese. Il nuovo indirizzo di Borrelli mi auguro che valga anche in ogni circostanza, e non solo nell’inchiesta sulle tangenti».

Invece Marcello Maddalena della procura di Torino sosterrà che il diritto alla riservatezza dell’indagato «comunque è secondario rispetto all’esigenza primaria di scoprire la verità». Una buona sintesi potrebbe essere che la magistratura cancellò letteralmente il segreto istruttorio dal Codice perché le andava bene così, e la loro regola divenne la regola. Ai giornalisti piacque, ciò bastava e basta a tutt’oggi. Chi il Codice l’aveva scritto, però, aveva intenti diametralmente opposti. E anche chi non l’aveva scritto, ma si chiamava Giovanni Falcone, non la pensava diversamente: «L’informazione di garanzia non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzata nell’interesse dell’indiziato (…) I motivi dei miei contrasti, spesso con colleghi un po’ più anziani di me, derivavano proprio da questa differenza di mentalità. A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e con- testare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario».

Una violazione perpetrata all’infinito non la trasforma in regola: eppure, nove anni dopo Mani pulite, i primi vagiti forcaioli del giornalista Marco Travaglio – non per niente molto legato a Piercamillo Davigo – cercheranno di storicizzare quella che appare come una menzogna interpretativa: «Lo spirito del nuovo Codice, almeno su questo punto, è chiaro e nobile. Il diritto dell’opinione pubblica a essere informata sulle indagini e sui processi è più forte di quello dell’indagato alla riservatezza. Soltanto un altro valore può sopravanzare il diritto all’informazione: la salvaguardia delle indagini… La stragrande maggioranza delle notizie pubblicate dai giornali negli anni caldi di Tangentopoli, spacciate dagli imputati per “fughe di notizie” e “violazioni del segreto istruttorio”, non erano affatto segrete e non costituivano reato. A cominciare dall’avviso di garanzia, che per definizione è pubblico, essendo fatto apposta per informare l’indagato».

Non una sola cosa vera, come visto. Anche a proposito dell’avviso di garanzia, definito addirittura pubblico «per definizione», se non si vuole credere a chi il Codice l’ha concepito (Pisapia) si può sempre andare a leggersi il Codice stesso, all’articolo 369 che appunto regola l’informazione di garanzia («avviso» in gergo giornalistico) e che recita così: «Solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere, il pubblico ministero invia per posta, in piego chiuso raccomandato con ricevuta di ritorno, alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa una informazione di garanzia con indicazione delle norme di legge che si assumono violate».

La «garanzia» è rivolta alla persona e mira a garantire l’esercizio del diritto di difesa, perché il destinatario attraverso «l’informazione» ha la possibilità di farsi assistere da un avvocato.

Se fosse un atto pubblico, non si capirebbe la necessità di spedirlo «in piego chiuso raccomandato con ricevuta di ritorno», tantoché, già dai primi mesi di Mani pulite, anche questa regola prese a sparire. L’avviso di garanzia si consegnava a mano all’indagato e così pure ai giornalisti, all’occorrenza. Si azzarderà a dire anche Giovanni Galloni, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, il 4 dicembre 1992: «Rendere pubblico un avviso di garanzia è voler indicare un colpevole. È dunque necessario mantenere segreto l’avviso di garanzia che non è indizio di reato, ma solo la volontà del magistrato di approfondire i fatti. L’avviso di garanzia deve essere protetto dal segreto istruttorio».

Pochi giorni dopo, il 18 gennaio 1993, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale Giulio Catelani dirà che a Milano non c’era e non c’era stata nessuna violazione del segreto istruttorio. Quasi dieci anni dopo farà, diciamo così, del revisionismo: «C’era una corrente di pensiero che partiva da Oscar Luigi Scalfaro e arrivava fino alla gente nelle piazze… In quegli anni, il segreto istruttorio non esisteva più. Ora arriva l’ex giudice delle indagini preliminari, Italo Ghitti e ci dice che c’era eccome: adesso che il reato di violazione del segreto istruttorio è prescritto». Ghitti in realtà non aveva detto niente di speciale, se non questo: «Ci fu un momento in cui ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pm e mi resi conto di non riporre più fiducia nella correttezza di alcuni magistrati del Pool».

Le notizie, però, uscivano anche dall’ufficio del gip Ghitti. Da sole. Lo scrivente ha buone ragioni di fidarsi della seguente testimonianza: «Salimmo al settimo piano e la porta del gip era aperta. Io ero mimetizzato tra altri tre o quattro, complici i buoni rapporti con due dei cronisti e l’apparente ordinarietà di quello che stavamo facendo. Era sera, era buio. Entrammo nella stanza, Ghitti era a capo chino e stava scrivendo qualcosa con la penna. Non alzò il capo, non salutò, nessuno salutò lui. Non esistevamo. Sulla scrivania, ordinatissimi e in bella vista, erano appoggiati dei provvedimenti d’arresto che lui aveva appena firmato ed altri che probabilmente stava per firmare. Nessuno disse una parola, nessuno toccò niente, tutti videro tutto. Pochi minuti dopo lasciammo la stanza con tutte le notizie o conferme che ci servivano. E lui, Ghitti, ufficialmente non aveva mostrato niente a nessuno, non aveva parlato con nessuno. Un’altra cosa me l’avevano raccontata e basta: che era sufficiente piazzarsi nel bagno adiacente alla stanza del gip e aspettare che entrassero i pubblici ministeri: da lì si distingueva perfettamente ogni parola, non c’era neppure bisogno di appoggiare l’orecchio al muro. Colombo non parlava quasi mai. Di Pietro e Davigo raccontavano persino barzellette. Da un certo punto in poi però i magistrati se ne accorsero».

La testimonianza, manco a dirlo, è dello scrivente. 

Il libro “La guerra dei trent’anni. 1992-2022 Le inchieste la rivoluzione mancata e il passato che non passa” esce oggi, venerdì 7 aprile. Di Filippo Facci, Marsilio, 2022, pagine 750, euro 25.

Trent'anni da Tangentopoli. Grazie a Mani Pulite oggi abbiamo il deserto della politica. Biagio Marzo su Il Riformista il 6 Marzo 2022. 

Come nella guerra del Trent’anni – tra il 1618 e il 1648 – ci furono una serie di conflitti che coinvolsero diversi paesi, così, a trent’anni dall’inizio dell’era di Tangentopoli (1992), non ancora conclusasi, vi sono coinvolti diversi partiti e leader politici. Purtroppo è una vicenda senza fine, una lotta di potere senza quartiere, in cui la politica è soccombente. Diciamocela tutta: è sotto scacco della magistratura. Tutto iniziò a Milano, con l’arresto di Mario Chiesa il 17 gennaio 1992, per cui la Procura di Milano costituì il pool Mani Pulite, nome non nuovo per chi conosce la storia dell’Unione Sovietica, laddove, ai tempi delle grandi purghe staliniane, operava un gruppo di magistrati che lavorava a tempo pieno. Il pool Mani Pulite, applicando la custodia cautelare a proprio piacimento, portò a termine il “golpe bianco” che fece tabula rasa del pentapartito salvando la sinistra Dc e il Pci-Pds.

Non è che gli esponenti dei due partiti non ebbero dei guai giudiziari, ma tutto sommato parecchi di meno dei dante causa. Per Gerardo D’Ambrosio, all’epoca vice procuratore, il pool non avrebbe avuto successo senza il supporto di quelle forze politiche. Oltre a queste, c’era la corazzata dei mass media scritti e parlati ad alimentare il furore di una parte degli italiani, quelli che, probabilmente, sono chiamati oggi “No Vax”. Sempre sul piede di guerra contro le istituzioni e, nello stesso tempo, illiberali.

Il pool riduceva lo Stato di diritto a una specie di formaggio svizzero e faceva crescere a vista d’occhio il cosiddetto “panpenalismo”, ovvero la necessità di penalizzare al massimo. Mentre il consenso attorno a Mani Pulite raggiungeva il diapason, la classe politica giocava in difesa tanto da suicidarsi, abolendo l’autorizzazione a procedere per i parlamentari. Vale a dire la riforma dell’art. 68 della Costituzione, avvenuta sotto la spinta del combinato disposto di mezzi di informazione e di opinione pubblica. Il risultato di questa riforma ha portato a uno squilibrio dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, incidendo negativamente sul regime democratico e liberale.

Il fenomeno corruttivo chiamato Tangentopoli è complesso, ed esprime una realtà economico-politica che non si può ridurre al finanziamento illegale delle Partecipazioni statali ai partiti, come scrive Franco Debenedetti sul Foglio dello scorso 25 febbraio. Il quale, in verità, non tiene conto che i principali gruppi imprenditoriali privati sono stati indagati. D’altro lato, non va sottaciuto l’arricchimento personale, piccola cosa di fronte al mansalva del finanziamento illegale ai partiti. Insomma, se Tangentopoli è stata la causa, Mani Pulite è stato l’intervento delle Procure per estirpare il cancro del “malaffare”, conosciuto dall’universo mondo e sempre taciuto. Se Tangentopoli è stato il cancro, Mani Pulite è stata l’aspirina esiziale nel curare il male. Al che Francesco Saverio Borrelli, ex procuratore generale di Milano e capo del pool di Mani Pulite, aveva tirato le somme: “Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare in questo attuale”. Chiaramente un autodafè. Dall’inizio di Tangentopoli, la realtà sotto l’aspetto politico e giudiziario è peggiorata, con il giustizialismo pandemico in cui affondano l’idea di diritto liberale e il processo penale. Siccome il pool Mani Pulite avrebbe dovuto rivoltare l’Italia come un calzino – secondo il davighismo, il Davigo-pensiero, il “rivoltatore di calzini” -, ci siamo trovati con il sovranismo e il populismo che hanno acuito la crisi della democrazia rappresentativa. E poi, con lo scoperchiamento del vaso di Pandora giudiziario, si è visto il passaggio dall’ordinamento della magistratura al potere del partito dei pm, senza alcuna responsabilità.

L’effetto Luca Palamara è stato dirompente, ha fatto venire alla luce il sistema su cui si appoggiava la magistratura che regolava, di conseguenza, la vita politica, economica e finanziaria del Paese. Attraverso i due libri di Sallusti e Palamara – Il sistema e Lobby & logge – si comprendono molti avvenimenti che hanno sconvolto in qualche misura la politica. La magistratura non ha avuto un potere salvifico, come tanti italiani credevano. Anzi, è accaduto tutt’altro. Di fatto, c’è stato il sorgere, sull’onda giudiziaria-populista, del Movimento 5 stelle, che ha fatto fare passi indietro all’Italia, di cui oggi paghiamo amaramente il prezzo. Portatore dell’“uno vale uno e l’uno vale l’altro”, sicché il sapere e l’ignoranza sono uguali. Siamo, insomma, al “trionfo degli apedeuti”. Non è tutto. Il ministro della Giustizia Bonafede, con la sua legge “spazza corrotti”, aveva annunciato la fine della corruzione e Di Maio, con il suo provvedimento sul lavoro, proclamò da un balcone di Palazzo Chigi la fine della povertà. E, di seguito, la decrescita felice, il reddito di cittadinanza concepito con i piedi…

Chiacchiere e distintivo. Con gli altri partiti che non hanno aiutato l’Italia a uscire dalla crisi. La Lega di Salvini ha cambiato pelle rispetto alla Lega Nord di Bossi, diventando soggetto nazionale ma non con i risultati sperati nel Mezzogiorno. Così come un pendolo oscilla fra partito di lotta e di governo, entrando talvolta in palese contraddizione. Infine, l’unica cosa buona che ha fatto il “Capitano” è stato l’aderire ai referendum sulla giustizia del Partito radicale. Ancora. I Fratelli d’Italia della Meloni hanno dimostrato i propri deficit culturali e politici, nascondendosi sotto il fatuo patriottismo, lo statalismo assistenziale, l’anti-scienza allacciando alleanze in politica estera con forze reazionarie, come i filo-franchisti e i sovranisti di Vox, e con quelle conservatrici del Gruppo di Visegrad, l’alleanza composta da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia . Al dunque, lo stesso Partito democratico, senza alcuna identità, oscilla sul terreno delle alleanze, avendo come unico obiettivo stare al governo.

Un quadro desolante, in cui il trasformismo ha frazionato il sistema partitico e accresciuta la conflittualità politica. La presenza di tecnici alla guida degli esecutivi che si sono succeduti in questi decenni e la riproposizione del secondo mandato ai presidenti della Repubblica di questi ultimi 16 anni, è la prova provata della crisi della politica e della mancanza di una classe dirigente patriottica nel vero senso della parola e a misura del vuoto politico di questi tempi malvagi. Da tutti i punti di vista si vede che l’Italia è corrosa dal vuoto politico. Proprio a trent’anni dal discorso di Craxi alla Camera, quando il leader del Psi sostenne che: “Nella vita democratica di una nazione non c’è nulla di peggio del vuoto politico. Da un mio vecchio compagno e amico (Pietro Nenni, ndr), che aveva visto nella sua vita i drammi delle democrazie, io ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone”. Non a caso il vuoto dei partiti è stato occupato dal potere giudiziario.

Biagio Marzo

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 26 febbraio 2022.

30 anni dopo è tempo di processare Tangentopoli e di concedere agli avvocati il diritto di esercitare un mea culpa.

Con questo spirito ieri la Camera Penale di Milano, che rappresenta in città gli esponenti del foro in ambito penale, ha organizzato a Palazzo di Giustizia il convegno Mani pulite: voci a confronto.

L'incontro è stato l'occasione per mettere a nudo storture e abusi di Tangentopoli e comprendere quanto quella stagione giudiziaria abbia cambiato in modo irreparabile i rapporti della magistratura con politica, giornalismo e società civile. Tanto per cominciare, secondo gli avvocati presenti al convegno, Tangentopoli nacque da un complotto e si risolse in un colpo di Stato.

«Dobbiamo chiederci come il fatto giudiziario è nato», dice l'avvocato Nerio Diodà, già legale di Mario Chiesa, primo arrestato dell'inchiesta e allora presidente del Pio Albergo Trivulzio. 

«Fu un complotto organizzato da parte di Di Pietro. Si era rivolto a lui un imprenditore, il quale gli aveva raccontato che da anni pagava a destra e a manca. Di Pietro e il suo capitano prepararono 7 milioni in cui una banconota ogni dieci era sottoscritta dallo stesso Di Pietro.

Successivamente (dopo la consegna dei soldi dall'imprenditore a Chiesa, ndr)si presentarono al Pio Albergo Trivulzio, si fece la perquisizione e nel cassetto vennero rinvenuti 7 milioni». 

Fu l'inizio di un'inchiesta condotta non per appurare singole responsabilità penali ma «per dimostrare che il sistema politico era marcio», come nota l'avv. Gaetano Pecorella. «Non si trattò di una rivoluzione giudiziaria», continua, «ma di un colpo di Stato» che «trasformò i magistrati da funzionari in una forza politica».

Ma con quali metodi venne condotto questo "colpo di Stato"? Il principale fu l'uso sistematico e spropositato da parte dei pm della custodia cautelare, con arresti usati come strumento di indagine e spesso finalizzati a ottenere confessioni e chiamate in correità, in cambio di liberazioni e sconti di pena in prospettiva.

«La custodia cautelare come dolce tortura», la definisce Pecorella. O come «vulnus alla libertà personale e alla presunzione di innocenza», per dirla con l'avv. Daniele Ripamonti. 

Anche se Gherardo Colombo, ex pm, tra i protagonisti del pool di Mani Pulite, nega le dimensioni esagerate del ricorso alle misure cautelari e l'obiettivo politico dell'inchiesta. 

«Ho detto più volte che la custodia cautelare è stata applicata secondo il Codice», dice ai nostri taccuini. «Noi abbiamo proceduto per reati commessi da persone. Se poi queste persone svolgevano funzioni politiche non possiamo farci niente». Di certo, nell'applicazione di questo metodo di indagine, contò l'accondiscendenza di molti avvocati che, anziché pensare al rispetto del diritto, badarono a far sì che i loro clienti subissero i minori danni possibili, scendendo a compromessi col sistema adottato da Di Pietro. 

Fu un periodo di «frustrazione e travaglio» degli avvocati, come lo definisce l'avv. Monica Barbara Gambirasio.

A queste storture se ne sommarono altre, dall'eccessiva complicità tra pm e giornalisti, che peccarono di «voyeurismo», come ammette l'allora cronista di giudiziaria Paolo Colonnello, alla «trasformazione del magistrato in una star», come avverte il direttore di Libero Alessandro Sallusti, «con la nascita della giustizia spettacolo» e la convinzione che i «pm vivessero di consenso, non di merito» e, una volta popolari, fossero «intoccabili». 

La degenerazione di quel periodo può ben essere riassunta nei versi fulminanti dell'avvocato Jacopo Pensa: «Giro giro giro tondo qui si indaga tutto il mondo; molto a destra, poco a manca, di indagar non ci si stanca». 

L'altro anniversario di Mani Pulite: "La storia di Craxi narrata dai vinti". Luca Fazzo il 26 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Amarcord a Milano con Bobo e Pillitteri: "Poteva essere curato". Milano. Alla fine, il vero protagonista di questo contro-anniversario è un piede. Un grande piede martoriato dalla cancrena, poggiato sulla sabbia di Hammamet e inquadrato in primo piano, a lungo, più volte. È il piede di Bettino Craxi, che l'altro giorno avrebbe compiuto 88 anni. E che invece dal gennaio del 2000 riposa nel cimitero del suo esilio tunisino. Quel piede malconcio era il segno del male che segnava Craxi, e che si sarebbe potuto curare se la Procura di Milano gli avesse consentito di tornare senza passare per la prigione; o se Francois Mitterrand, l'amico e compagno di un tempo, lo avesse accolto in Francia come tanti fuggiaschi politici.

Invece finì tutto diversamente. E i sopravvissuti socialisti dell'epoca di Mani Pulite si ritrovano in un cinema milanese, la sera del compleanno di «re Bettino», a celebrare a loro modo il trentennale di Mani Pulite. Si proietta il film che Paolo Pillitteri, cognato di Craxi e travolto dalla medesima tempesta, ha voluto realizzare due anni fa. É «La Tesi», girato da Ettore Pasculli che fu un regista di dichiarata fede socialista, e che ora dice: «È la storia più importante della mia vita, una storia di cui tutti abbiamo pagato le conseguenze». La storia dell'ascesa e del crollo di Craxi e del craxismo, tra potere assoluto e trionfante, inchieste, lanci di monetine. E la fine ad Hammamet, a trascinarsi in caffetano tra mercati e catapecchie.

Eccoli, i sopravvissuti: vecchi, vecchissimi, a volte malconci. Si conoscono tutti tra di loro, portano Borsalino improbabili, si mandano ghignando a quel paese raccontandosi i tempi antichi. Pasculli arriva con un garofano all'occhiello e lo infila nel taschino di Bobo Craxi, incanutito pure lui. Pillitteri ha dimenticato l'apparecchio acustico, e così Dario Carella - che fu vicedirettore craxiano del Tg2 - deve urlargli le domande. «Il film si chiama la Tesi perché è di parte, è una provocazione, è la storia raccontata dai vinti», dice l'ex sindaco di Milano. Poi racconta della prima volta che conobbe Craxi, allora giovane assessore all'economato, presentato da Carlo Tognoli. «Quando seppe che mi occupavo di cinema mi disse: non capisci un tubo, la politica è più importante di tutto».

In sala sorridono, si danno di gomito sui cappotti fuori moda. Perché quello è proprio il loro Bettino, il leader splendido e arrogante che per quindici anni fece a pezzi i loro sensi di colpa, e sfidò a fronte alta il Moloch comunista. Eccolo il filmato clou, con Berlinguer attonito e livido sommerso di fischi al congresso del Psi, e Craxi che infierisce: «Non mi unisco a questi fischi (pausa) solo perché non so fischiare». Che nostalgia.

Dell'indagine che trent'anni fa spazzò via il loro mondo il film racconta ai reduci la tesi di allora e di oggi, la porcheria orchestrata da un ex poliziotto di oscuri trascorsi. Come tutti i reduci, aspettando che si spengano le luci di sala, fanno i conti di chi c'è ancora e di chi è morto: «Ah sì? Quando?». Sopra l'Anteo svettano nel cielo stellato le tre torri milanesi di Citylife. Pillitteri: «Belle, eh. Ma la mia giunta venne fatta cadere su una variante edilizia che aveva la metà di queste cubature».

30 anni da Tangentopoli. I tre pool che volevano la repubblica giudiziaria. Angela Stella su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022. 

“A Trenta anni da Tangentopoli e da mafiopoli – Ruolo politico anomalo della magistratura non in linea con la Costituzione per configurare una fantomatica Repubblica giudiziaria” è il titolo della conferenza promossa dal Centro Studi Leonardo Da Vinci e dall’Associazione Riformismo e Libertà. Molti gli ospiti intervenuti, tra cui il nostro direttore Piero Sansonetti, e moderati dal direttore del Dubbio Davide Varì.

Ad aprire i lavori Giuseppe Gargani, avvocato ed ex parlamentare europeo, che ha iniziato soffermandosi proprio sulla stagione di Mani Pulite: “Oggi riteniamo di poter pretendere una risposta sul perché vi furono iniziative giudiziarie che non si svolgevano nelle sedi riservate, sacrali della giustizia, ma richiedevano il consenso di interi settori dell’opinione pubblica. Tanti cittadini si riunivano davanti ai tribunali per osannare gli eroi che mettevano alla gogna i politici, praticando un metodo che non ha precedenti nella storia repubblicana. Noi non chiediamo inchieste parlamentari, chiediamo un confronto con i principali protagonisti di quel periodo, per un esame di coscienza critica e per riconoscere responsabilità colpose o dolose di ciascuno”. Allora vi fu “un disegno strategico, ebbe a dire un senatore di grande spessore come Giovanni Pellegrino, che aveva come obiettivo una posizione di primato istituzionale della procura della Repubblica e quindi della magistratura inquirente”.

Presente anche l’ex magistrato Luca Palamara: “Tanti dovevano parlare per uscire, durante gli interrogatori bisognava fare questo o quel nome: una prassi che purtroppo poi si è protratta molto nel sistema giudiziario italiano, da Tangentopoli a Mafiopoli”. Non poteva mancare il giornalista Enzo Carra, che fu condotto dal carcere al tribunale con gli “schiavettoni” ai polsi per essere incriminato da Davigo, suscitando vasto clamore: “Questo è un Paese che vive in uno stato di eccezione dal 1969, da Piazza Fontana, con cui coincide la fine della verginità di questo Paese: sia chiaro questo”. A lui è seguito Raffaele Marino, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, a cui è stato chiesto se ai tempi di Tangentopoli vi sia stata una torsione del diritto: “Davigo non rappresenta la magistratura, nel senso che le sue idee sono le sue idee, non sono le idee della magistratura, dico io per fortuna. Io ho vissuto Tangentopoli come gip: ricordo che c’era l’avvocato Taormina, che girava per le carceri a chiedere ai giudici che cosa dovesse dire il suo assistito perché potesse essere liberato. Questo era – diciamo – il clima dell’epoca”.

Tra i politici anche l’onorevole Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione: “Le storie che ho sentito mi pare che siano ancora molto attuali. Avete ricordato come il pm si scegliesse il gip, Italo Ghitti. Lo ha raccontato persino il giudice Salvini. Oggi succede la stessa cosa. Ho presentato un’interrogazione al Governo, chiedendo di sapere quante sono in percentuale le richieste di custodia cautelare respinte dai gip. La direzione statistica del Ministero della Giustizia non possiede questo dato. Capite in che in che situazione siamo! Probabilmente il dato si avvicina allo zero per cento. Così come non sappiamo quante richieste di intercettazione e di proroga delle indagini preliminari vengano rigettate”.

Le conclusioni sono state affidate a Fabrizio Cicchitto, Presidente della Fondazione Riformismo e Libertà: “Il dibattito finora svolto per il trentennio di Mani pulite è caratterizzato da un livello elevato di mistificazione. È stato cancellato il fatto che il finanziamento irregolare dei partiti ha visto come originari protagonisti i padri della patria, da De Gasperi, a Togliatti, a Nenni, a Saragat, a Fanfani. Era un finanziamento che proveniva dalla Cia e dal Kgb e da una serie di fonti interne dalla Fiat, alle cooperative rosse, alle industrie a partecipazione statale. Il “partito diverso” dalle mani pulite di cui parlò Enrico Berlinguer era un’assoluta mistificazione. Molto prima di Forza Italia e ovviamente in termini del tutto rovesciati il primo partito-azienda è stato il Pci. Tutti sapevano tutto compresi i magistrati e i giornalisti. Don Sturzo e Ernesto Rossi fecero denunce assai precise essendo del tutto inascoltati. Poi con il 1989 c’è stato il crollo del comunismo e con il trattato di Maastricht il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico. In uno Stato normale quel sistema avrebbe dovuto essere smontato con un’intesa fra tutte le forze politiche e la stessa magistratura, invece è avvenuto il contrario. I poteri forti hanno deciso di smontare il potere dei partiti, in primo luogo quella della Dc e del Psi. Anche in seguito al ’68 nella magistratura e nel giornalismo sono maturate tendenze radicali. Di qui è scattato il circo mediatico-giudiziario fondato su tre pool fra loro collegati: il pool dei pm di Milano, il pool dei direttori di giornali, il pool dei cronisti giudiziari. Tutto ciò fu fondato su due pesi e due misure. Il sistema di Tangentopoli coinvolgeva tutti e invece un numero assai ristretto di alti dirigenti del Pds e della sinistra Dc poteva non sapere, invece Craxi, tutti i dirigenti del Psi, i leader di centro-destra della Dc, i segretari dei partiti laici non potevano non sapere”. Angela Stella

Mani pulite: la parabola del pool tra politica, inchieste e polemiche. 1993 Milano, il Pool di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco. GIULIA MERLO su Il Domani il 22 febbraio 2022

Guidati dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, i magistrati che hanno svolto le indagini di Mani pulite sono  rimasti al centro della storia politica e giudiziaria italiana degli ultimi trent’anni.

Alcuni si sono candidati in politica, in particolare Antonio Di Pietro che ha fondato l’Italia dei Valori, Gerardo D’Ambrosio che si è candidato con l’Ulivo e Tiziana Parenti che ha lasciato il pool ed è stata eletta con Forza Italia.

Fino alla presunta loggia Ungheria dove Greco e Davigo si sono trovati su posizioni contrapposte, al culmine dello scontro interno alla procura di Milano. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Ma no, la Milano da bere non è mai esistita. E i partiti non prendevano tangenti. Michele Serra su L'Espresso il 28 febbraio 2022.

Nel trentennale di Tangentopoli l’Italia è divisa. Alcuni dicono che i partiti non prendevano tangenti. Gli altri vanno in processione con san Di Pietro.

Nel trentennale di Tangentopoli si moltiplicano le commemorazioni. Come ogni anno i nostalgici di Tonino Di Pietro, convenuti da tutta Italia, si sono ritrovati a Montenero di Bisaccia, paese natale del Santo, per la suggestiva Benedizione dei Faldoni Giudiziari, portati in processione per le vie del borgo e deposti ai piedi dell’altare. Nel prezzo della trasferta erano compresi anche un pranzo sociale in trattoria, una fotografia autografa di Beppe Grillo e un abbonamento al Fatto Quotidiano.

Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” il 27 Febbraio 2022.

Allora, sentite questa. L’altro giorno mi chiamano dalla direzione del Corriere e mi chiedono di provare a intervistare Antonio Di Pietro. Siamo dentro l’anniversario di Mani Pulite, trent’anni esatti: l’idea sarebbe di andarlo a trovare a Montenero di Bisaccia, parlarci, vedere che fa adesso e, soprattutto, sapere cosa pensa di tutto quanto è successo dopo quei memorabili e tremendi giorni, quando da Milano, dal Palazzo di Giustizia rotolò giù l’inchiesta che scosse violentemente il Paese, lasciandolo traballante e con crepe ancora piuttosto profonde.

Prendo la vecchia agendina telefonica e cerco alla lettera “D”: trovo due numeri fissi e un cellulare. È ancora buono. Al terzo squillo, risponde una voce pastosa, forte, inconfondibile, e come sempre gentile. Saluti di cortesia (per i cronisti, prima nella stagione da magistrato, poi in quella di politico, andarlo a trovare nella sua masseria era una gita classica, che i giornali ti costringevano a fare almeno un paio di volte l’anno).

Di Pietro va subito al sodo: «Guardi, so già cosa sta per chiedermi. Ma la mia risposta è: no. E sa perché? Perché io ho deciso di sparire. Voglio farmi dimenticare. Di Pietro, quel Di Pietro, non esiste più». 

Così, netto. Allora ci salutiamo, mi stia bene, buona fortuna, e io intanto me lo immagino con una camicia a quadri e un maglione un po’ slabbrato, le scarpe grosse da contadino e la barba un filo lunga: lo vedo in piedi dietro al cancello, dove lo lasciai l’ultima volta, lungo la strada per Palata.

Una siepe curata e i suoi tremila ulivi, i vigneti sulle colline basse, il rumore lontano di un trattore. Laggiù, la terrazza che ha trasformato in veranda, diventata il suo ufficio: un po’ contadino e un po’ avvocato, di nuovo avvocato, dopo essere stato emigrante (a 21 anni, per andare a fare il metalmeccanico a Bohmenkirch, in Germania), commissario di polizia, magistrato leggendario, deputato, senatore, due volte ministro (nel Prodi 1 e nel Prodi 2), fondatore dell’Italia dei Valori e parlamentare europeo (più una mezza intenzione di candidarsi a sindaco di Milano nel 2016 e il corteggiamento di qualche grillino ribelle, a caccia di un leader credibile). Quante cose, in questi primi 71 anni, caro Di Pietro. E che progetto gigantesco: farsi dimenticare. Ma davvero pensa di riuscirci?

Pietro Senaldi: "Di Pietro, Colombo e Davigo? Che brutta fine che ha fatto il trio di Mani Pulite". Libero Quotidiano il 17 febbraio 2022. 

Anniversario di Mani Pulite: Pietro Senaldi, condirettore di Libero, lo ricorda parlando nel suo video editoriale della fine che hanno fatto i tre eroi di allora. "Gherardo Colombo", inzia Senaldi, "il migliore di tutti gira da 15 anni in Italia dicendo che le carceri vanno abolite e che Mani Pulite non avrebbero mai dovuto risolversi in un processo perché era un'impresa titanica e si sapeva da subito che non si sarebbe andati da nessuna parte. Secondo lui dovevano semplicemente fare una sorta di amnistia che allontanasse chi aveva preso soldi dalla politica per qualche anno, salvo poi ritornare. Quindi", puntualizza il direttore, "da pm a testimonial dell'inutilità delle carceri". Senaldi prosegue con Antonio Di Pietro: "Sappiamo tutti che ha lasciato la toga in circostanze misteriose dopo che lo hanno accusato di tutto; ha fondato un partito che, non per colpa sua, m di fatto, si è dimostrato un comitato d'affari e quindi si è sciolto come neve al sole". "Ricordiamo nel partito", insiste il direttore, "oltre lui solo Razzi e Scilipoti. Di altri nessuno si ricorda. Partito tra l'altro coinvolto anche da uno scandalo immobiliare Adesso Di Pietro è sul suo trattore, fa l'avvocato di ignoti clienti". Senaldi racconta poi di Piercamillo Davigo. "È quello che ha fatto più carriera di tutti: è stato membro del Csm e adesso è indagato. È accusato", spiega il direttore, "dalla maggioranza dei suoi ex colleghi. Quando era magistrato ha subìto 36 contestazioni e le ha vinte tutte. Da non magistrato è diventato un imputato al quale non facciamo i migliori auguri". Conclude Senaldi: "Questo dice tutto di cosa è stata Mani Pulite".

I girotondi dei missini, il cappio in Parlamento della Lega, le “lezioni” del Pds. Come è potuto accadere? Il ricordo di Riccardo Nencini su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Giugno 1992, un ricordo nitido: i consiglieri comunali fiorentini del Msi in girotondo attorno alla federazione provinciale socialista di Firenze. Urlano: “Ladri”. Giorni dopo, socialisti additati dal Pds come esempio di corruzione, mentre la Lega mostra il cappio dell’impiccato a Montecitorio e le tv di Berlusconi imperversano di fronte al palazzo di giustizia di Milano.

Una tenaglia politico-mediatica alimentata dalla magistratura e un’ondata populista che si abbatte con veemenza soprattutto sui socialisti, rei di aver snaturato il loro dna (parole di Berlinguer) per cavalcare il sogno di un’Italia nuova, dinamica, che la cultura comunista proprio non riesce a incrociare. Lo slogan è semplice, tanto efficace quanto falso come bisante: la politica è malata, la società è sana. Conseguenze: chi imbraccia la questione morale è pulito, tutti gli altri appestati.

Attenzione. Non era una novità per nessuno che i partiti fossero finanziati anche illecitamente e che vi fossero politici che dell’arricchimento personale avevano fatto la loro bussola. Tutto vero. Il punto è che, da un certo momento in poi, ciò che era stato tollerato viene perseguito. Qual è quel certo momento? L’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht e il contestuale crollo del muro di Berlino. Le politiche di spesa vengono imbrigliate nelle regole ferree del Trattato, c’è un trasferimento di sovranità verso Bruxelles; il ruolo geopolitico dell’Italia cambia, si immiserisce, la presenza del più grande partito comunista d’Occidente non è più un pericolo ora che l’Urss è alle corde.

Di nuovo attenzione: non è che di scandali non ce ne fossero stati in passato, non è che fossero ignote le fonti sovietiche di finanziamento al Pci, non è che le grandi società di Stato evitassero di invitare a pranzo i tesorieri di tutti i partiti. Se vi annoiano i documenti, leggete almeno “Il tesoriere”, il bel romanzo di Gianluca Calvosa edito da Mondadori. La differenza è che la classe politica aveva reagito compatta, si era ribellata alla gogna. Tutta la classe politica. Quando Aldo Moro era intervenuto alla Camera (1977) dichiarando che la Dc non si sarebbe fatta processare (scandalo Lockheed), il Pci era rimasto in silenzio, protagonista com’era del governo Andreotti. Aggiungo che l’ombrello americano proteggeva ancora il sistema politico.

Veniamo al dunque. Con i primi anni Novanta la storia si avvita, la presunzione di innocenza si rovescia in presunzione di colpevolezza, si annuncia la rivoluzione ora che il mondo è cambiato. A morte i partiti, ma non tutti i partiti. Tuttavia, poiché “le rivoluzioni sono tristi” (Dahrendorf) e tradiscono i sogni, la generazione sessantottina allocata tra stampa e magistratura che invoca la tempesta perfetta sui partiti sacrileghi s’imbatte nell’uomo di Arcore. Storia nota, storia recente. La novità è che oggi conosciamo anche i numeri del lavoro svolto da Mani Pulite: condannato solo il 54% degli indagati.

Gli effetti: privatizzazioni selvagge, personalizzazione della politica, rottura degli equilibri costituzionali, fine del garantismo. Non sono ingenuo. Molti di questi fattori si sarebbero presentati comunque, figli di profondi cambiamenti sociali e della globalizzazione. C’è un però. In Italia sono calati come una mannaia, altrove, pur in presenza di altrettante tangentopoli (Khol sotto inchiesta in Germania, Gonzales in Spagna, uomini di Mitterrand in Francia), gli effetti sono stati più contenuti, la democrazia parlamentare ha retto senza offrire il fianco all’antipolitica.

Un’ultima domanda: perché Craxi capro espiatorio? Le tesi si rincorrono. Sigonella, Israele, complotti. Che Di Pietro frequentasse il consolato americano a Milano è un fatto accertato, e nei documenti leggi anche dell’altro e non era il the delle cinque. Ma io vedo di più. Condannato per una colpa politica. L’aver rappresentato un’eresia, il riformismo del socialismo umanitario, una minoranza invisa sia alla cultura comunista che a quella cattolica dominanti in Italia, l’aver rotto una consuetudine consociativa, l’aver difeso economia di mercato e stato sociale in un paese dove il profitto viene considerato peccato. Questo, non perché i socialisti fossero più malandrini di altri.

L’oggi è sintetizzato nelle parole di Gherardo Colombo, uno dei protagonisti del pool: “Sono finite le indagini ma non la corruzione. La sfiducia cresce, il tessuto sociale è liso, logoro, consumato”. Nutrita dallo scontro “buoni contro cattivi” la Seconda Repubblica è nata defunta. Servirebbe normalità, la normalità di un paese civile.

Sembra ieri, ma è oggi. Come uscire da questi trent’anni di Tangentopulismo. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 17 febbraio 2022.

Il dibattito pubblico è stato egemonizzato per decenni da un manicheismo isterico e paralizzante, su cui si è cementato il bipolarismo di coalizione italiano tra berlusconiani e antiberlusconiani, anticomunisti e antifascisti, garantisti e giustizialisti. Due prigioni in cui le forze ragionevoli di entrambi gli schieramenti sono rimaste ostaggio dei rispettivi mestatori

A un diciottenne di oggi, le decine di articoli che da giorni riempiono le pagine dei quotidiani per il trentennale di Mani Pulite devono fare l’effetto che ai diciottenni del 1992 avrebbero fatto altrettante pagine dedicate alla nazionalizzazione dell’energia elettrica o alla riforma della scuola media, alla nascita del quarto governo Fanfani o all’elezione di Antonio Segni al Quirinale. Un conto è il dovere della memoria e anche il gusto per le ricorrenze, un altro è l’ossessione.

Forse però non è proprio così. Forse sarebbe più esatto dire che ai diciottenni di oggi dovrebbero fare quell’effetto, trattandosi di vicende di trent’anni fa, se solo da trent’anni in qua gli eventi avessero seguito il loro corso naturale (diciamo pure un corso qualsiasi, invece di ristagnare in questa enorme pozzanghera da cui non riusciamo a uscire). La differenza, infatti, è che mentre i principali fatti politici del 1962 erano a tutti gli effetti, per un ragazzo dei primi anni novanta, materiale per musei e libri di storia, lo stesso proprio non si può dire, oggi, per Mani Pulite, per lo scontro tra politica e magistratura, per le polemiche su questione morale e stato di diritto, giustizialismo e garantismo.

Basta accendere la televisione per trovarci, quasi ogni giorno, Piercamillo Davigo intento a concionare su questi argomenti, accompagnato da numerosi colleghi (tanto quelli ancora in servizio quanto quelli nel frattempo diventati ministri, parlamentari e capi partito), sempre attorniati da uno stuolo di giornalisti amici, ma forse bisognerebbe dire compagni d’arme, perché è in quella stagione, nel fuoco della battaglia di trent’anni fa, che si sono saldate relazioni e solidarietà indistruttibili. Lo spettacolo è sempre lo stesso, gli stessi i protagonisti, lo stesso persino il lessico. Ieri, oggi e domani.

Sin dai primi anni novanta, si è pensato che riforme elettorali e istituzionali avrebbero chiuso quella fase drammatica dando vita a un nuovo sistema, fondato sulla legittimazione reciproca tra gli schieramenti in un quadro di regole condivise. Sfortunatamente, abbiamo avuto invece il tentativo di entrambi i poli di scriversi le regole a proprio vantaggio, in un contesto di delegittimazione reciproca sempre più violento, che ha prodotto di conseguenza l’esplosione del populismo e dell’antipolitica, a destra e a sinistra.

Il dibattito pubblico è stato egemonizzato per decenni da un manicheismo isterico e paralizzante. Trent’anni di tangentopulismo, su cui si è cementato il bipolarismo di coalizione italiano tra berlusconiani e antiberlusconiani, anticomunisti e antifascisti, garantisti e giustizialisti. Due prigioni in cui le forze ragionevoli di entrambi gli schieramenti sono rimaste ostaggio dei rispettivi mestatori.

Le elezioni del 2018 sono state, c’è da augurarsi, il punto più estremo di una simile deriva, cominciata con Mani Pulite, o per meglio dire con l’illusione che i magistrati non dovessero limitarsi a mettere in galera i corrotti (possibilmente dopo un regolare processo e non prima), cioè accertare precise e ben determinate responsabilità penali di ben precisi e determinati individui, ma potessero guidare l’abbattimento di un «sistema» e addirittura decidere le caratteristiche del nuovo, conservando una sorta di perpetuo potere di «moral suasion», diciamo così, sulla politica.

Ma anche per smontare una simile alterazione del nostro dibattito pubblico e della stessa divisione dei poteri è necessario ricostruire un sistema politico realmente pluralistico, non ingabbiato nella logica della coalizioni pre-elettorali. Altrimenti, per non stare coi farabutti, anche i riformisti più ragionevoli finiranno sempre per schierarsi con i mozzorecchi, e al tempo stesso anche i liberali meglio intenzionati, per non stare con i mozzorecchi, finiranno sempre per schierarsi coi farabutti. E non ne usciremo mai.

L’Altra Opinione. La stagione di Tangentopoli, cosa ne rimane 30 anni dopo. Sonia Modi su L'Inkiesta il 17 Febbraio 2022.

La storia di una strana rivoluzione nostrale, breve, intensa, travolgente e controversa 

C’era una volta un Paese democratico nel quale i partiti erano arroccati al potere fin dai primi passi della Repubblica; c’era una volta un Paese schiacciato tra due blocchi – quello del “mondo del bene”, cioè gli USA, e quello del “mondo del male”, ovvero il blocco comunista dominato dall’URSS – nel quale circolava uno strano  virus chiamato “corruzione”, un virus ineluttabile che sembrava anche  inestirpabile e refrattario a qualsiasi tipo di vaccino; c’era una volta un Paese nel quale un giorno tutto ciò che pareva durare in eterno sembrò cambiare definitivamente; quel giorno era il 17 febbraio 1992 e quel Paese era l’Italia.

Ai più giovani sembrerà strano, eppure il nostro Paese ha conosciuto un’inedita stagione, travolgente e rivoluzionaria, appassionante e controversa, in cui i grandi partiti politici, assieme ai loro leader incontrastati e ai potenti manager dei maggiori gruppi imprenditoriali italiani, furono repentinamente spazzati via dal vento del cambiamento. In quegli stessi giorni la stampa internazionale raccontava questa storia descrivendola come un’epopea che avrebbe portato l’Italia finalmente in Europa.

Questa che vi sto raccontando è la storia di “Tangentopoli”, la storia curiosa del nostro Paese improvvisamente innamorato della legalità. Quella lontana fase del Paese è la stagione delle “Procure d’assalto”. L’infatuazione degli italiani, va detto, è durata molto poco. Il suono del tintinnio delle manette ci ha accompagnato esattamente per due anni, dal febbraio 1992 a fine 1993, dopodiché tutti hanno cominciato a pensare che l’Italia fosse cambiata, finalmente liberata dal fenomeno della corruzione.

Questa, come vi ho già detto, è la storia di una rivoluzione, e come in tutte le rivoluzioni, ad un certo punto, repentinamente, tutto cambia. Cambia almeno fino alla restaurazione, quando tutto, anche se con forme diverse, torna più o meno come prima.

E come in tutte le rivoluzioni, sempre piene di contraddizioni e misteri, anche in questa ci sono i carnefici e le vittime, gli eroi e i potenti da decapitare, i morti e i sopravvissuti. Gli eroi sono gli inquirenti, mentre i potenti che ci rimettono la testa sono i politici e gli imprenditori. I morti sono i tanti che, per vergogna o perché sentendosi innocenti si vedono già condannati dall’opinione pubblica, decidono di non affrontare l’ondata del cambiamento e si tolgono la vita. I sopravvissuti sono i tanti che, anche in questa strana rivoluzione nostrale, riescono a riciclarsi nella “Nuova” era.

Ma ritorniamo al 17 febbraio 1992. Tutto inizia in un pomeriggio di un lunedì, un lunedì qualsiasi. Tutto parte da un ospizio per anziani, il più grande istituto di ricovero per vecchi indigenti della città più frenetica di Italia: Milano. E nella città dove tutti lavorano, sempre, passa inosservata una notizia: l’ennesima tangente versata da un anonimo piccolo  imprenditore ad uno sconosciuto amministratore locale.

Un piccolo caso di ordinaria corruzione, dunque. E tuttavia, quella notizia di piccola cronaca cittadina si rivelerà come il minuscolo sassolino che pian piano cresce e si trasforma in una terribile valanga.

Eppure di strani affari si vocifera da anni.  E che questo accada soprattutto a Milano, nella Milano degli anni ottanta, nella “Milano da bere”, in quel lontano 1992 non meraviglia proprio nessuno. E tuttavia, alla fine il fenomeno apparirà di dimensioni gigantesche, al di là delle più catastrofiche previsioni degli stessi inquirenti.

Quel sassolino che prenderà poi la forma di valanga si chiama Mario Chiesa, ingegnere, socialista e presidente, appunto, dell’ospizio Pio Albergo Trivulzio. Per cinque settimane questo amministratore rimane sulle sue, tace e rimane tranquillo in carcere. Dalla sua cella, ovviamente, è in grado di venire a sapere tutto ciò che su di lui viene detto fuori dal carcere: il partito e i compagni che prendono le distanze da lui e dai fatti contestategli, nonché le voci sugli imprenditori pronti a parlare e a coinvolgerlo. Insomma, si sente messo in un angolo, lasciato solo e abbandonato al suo destino.

Così quel “Mariouolo” – definito in tal modo dal Segretario del PSI, Bettino Craxi – per non sentirsi più solo prende la decisione di chiamare in causa gli altri mariuoli, vuotando il sacco su tutto ciò di cui è a conoscenza, lavandosi la coscienza e coinvolgendo chi doveva essere coinvolto, magari anche contando – chissà – su di un minimo di riconoscenza da parte di quei pubblici ministeri ai quali stava per regalare momenti di gloria.

I sodali, a loro volta, per paura di andare a San Vittore a fare compagnia al primo sassolino, adotteranno lo stesso comportamento e “spintaneamente”, come diranno in seguito gli inquirenti, affolleranno i corridoi della Procura di Milano per confessare.

Evidentemente, in quei freddi giorni di febbraio, i grandi esponenti politici dovevano essere in più importanti faccende affaccendati per non accorgersi dell’onda anomala appena partita da Milano che da lì a poco li avrebbe travolti.

Di lì a breve però, questo meccanismo esponenziale porta i penitenti a confessare il meccanismo di finanziamento illecito dei partiti e gli arricchimenti personali. Il risultato sarà, come in una reazione a catena, una valanga di denunce, ammissioni e chiamate in correità. In questo prematuro “Grande Fratello” giudiziario, tutto – arresti, confessioni, condanne, suicidi – diventa uno show.

In poche settimane, con un effetto domino, questa bizzarra sorta di confessione collettiva travolge tutto e tutti: potenti, partiti e aziende. Il culmine sarà raggiunto con la “maxi tangente” di 150 miliardi di lire. Sarà definita, e non a torto, la madre di tutte le tangenti. Risulterà essere versata dalla Montedison di Raul Gardini a favore di tutti i partiti. Sarà corrisposta per favorire la spregiudicata fusione con l’Eni, multinazionale di controllo nazionale.

Sotto processo però è principalmente il Partito Socialista di Bettino Craxi. Quest’ultimo, alla fine, lascerà Roma e Milano per rifugiarsi ad Hammamet. Esule o latitante lo si consideri, il vecchio “Cinghialone” resterà in Tunisia fino alla sua morte. Nei suoi ultimi anni di vita l’ex presidente del Consiglio appare sicuramente stanco e malato, l’ombra del grande leader socialista che fu un tempo. La sua scelta di vivere lontano dall’Italia, ingenererà in molti italiani e nel mondo intero il dubbio che, nel nostro Paese, gli scontri politici si risolvono non nelle sedi istituzionali bensì attraverso l’azione della magistratura e insinuerà in molti il sospetto del “golpe giudiziario”.

Anche il suo diretto rivale Antonio Di Pietro, il protagonista assoluto di questa stagione, lasciando la magistratura prematuramente e, soprattutto, abbandonando l’inchiesta che lo ha reso popolare per gettarsi e rifugiarsi nella politica, non ne esce assolto. Alimentando il mito dell’inchiesta di “Mani Pulite mutilata” farà crescere il populismo e il malcontento nel Paese che proseguirà fino ai nostri giorni.

Orbene, comunque si voglia leggere questa lontana storia ormai sbiadita, resta il fatto che alla fine del 1993 quasi tutti i partiti storici saranno spazzati via, prima dalle inchieste giudiziarie e poi dalle elezioni.

A conclusione di questo biennio gli italiani penseranno che l’Italia sia cambiata davvero e che da quel momento la legge sarebbe stata uguale per tutti. Si comincia a parlare di “Seconda Repubblica”, di un sistema elettorale diverso e di partiti e leader nuovi.

Mentre l’Italia si perde dietro a queste illusioni non si accorge che i benefici effetti del cambiamento sono già svaniti e hanno lasciato velocemente il posto alle vecchie abitudini.

Dalle macerie della vecchia “Prima Repubblica” nasce un modo di fare politica “nuovo” solamente di nome, ma di fatto figlio di quello passato che era stato appena sepolto. La somiglianza genetica la si ravvisa principalmente nella corruzione che non è affatto scomparsa ma piuttosto si è mimetizzata, ha cambiato vesti, si è “polverizzata” – così è stato raccontato – in micro corruzione e comunque rimane sempre presente in ogni istituzione.

La novità invece è rappresentata dal nuovo nemico, la magistratura definita “politicizzata”, responsabile di aver sconfinato dal proprio ambito istituzionale e di aver compromesso gravemente il fragile equilibrio politico-economico che aveva finora tenuto in piedi il Paese.

Dalle ceneri di quell’era cupa della democrazia italiana nasce, dunque, solo questo, non un profondo cambiamento della politica e della società.

Così a trent’anni di distanza da quel 17 febbraio 1992, “Mani Pulite” appare non più tanto il nome di un’indagine che ha fatto storia, quanto la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, fatta da una politica mediatica, priva di principi e di ideali, ma infiocchettata da slogan, una nuova epoca caratterizzata da un perdurante scontro tra poteri dello Stato. Un lungo e costante conflitto tra politica e magistratura, dunque, che diviene cronaca anche di questi giorni; ma questa è un’altra storia…

Mani Pulite 30 anni dopo, Cusani: "Ho un primato, sono l'unico pregiudicato condannato in quest'aula".  Edoardo Bianchi su La Repubblica il 17 Febbraio 2022.

"Sono assolutamente certo di avere oggi un primato in quest'aula: essere l'unico pregiudicato condannato". Inizia così il discorso di Sergio Cusani, condannato per la maxitangente Enimont, durante l’incontro dal titolo "Mani pulite 30 anni dopo  - Magistratura e lotta alla corruzione prima e dopo Tangentopoli" organizzata dall’Associazione Nazionale Magistrati di Milano (ANM) presso l'aula magna del Palazzo di Giustizia in occasione dei 30 anni dall'inizio di Mani Pulite, ovvero dall'arresto d Mario Chiesa. "Ho commesso la colpa e non ho cercato il perdono, in quanto io stesso non mi perdonerò mai per gli errori commessi", ha aggiunto Cusani, ammettendo successivamente di aver provato un coinvolgimento forte ed emotivo nel ritornare in tribunale: "Non venivo in questo palazzo da tantissimi anni. E un po' come tornare a trent'anni fa". "So che quando sarà, me ne andrò con un pesante fardello. Per quanto in cuor mio mi renda assolutamente conto di aver commesso errori di sistema, quegli errori portano la mia firma individuale. E' una responsabilità personale che non può essere in alcun modo sottaciuta", ha concluso Cusani.  

L’Anm celebra mani pulite senza nessun “mea culpa…” L’evento si è svolto ieri presso l’aula magna del Palazzo giustizia di Milano ed ha visto la partecipazione di alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex pm Gherardo Colombo. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 19 febbraio 2022.

Non poteva mancare, nel luogo del “delitto” e, soprattutto, nel giorno del trentennale dell’inchiesta che cambiò la storia del Paese, un convegno per ricordare cosa fu Mani pulite a Milano. Organizzato dalla locale sezione dell’Associazione nazionale magistrati, l’evento si è svolto giovedì presso l’aula magna del Palazzo giustizia di Milano ed ha visto la partecipazione di alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex pm Gherardo Colombo o Sergio Cusani, l’imputato eccellente del processo per la maxi tangente Enimont. Fra i relatori, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, il professore Giovanni Fiandaca, l’ex componente del Csm e giudice costituzionale Gaetano Silvestri, il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano Vinicio Nardo. Tre le sessioni trent’anni dopo l’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio: “Poteri e magistratura prima di Mani pulite”, “Mani pulite la parola ai testimoni”, “Mani pulite un bilancio”.

Una premessa: chi si aspettava un serio mea culpa sulle decine di persone che si sono tolte la vita perchè finite nel tritacarne giudiziario o sull’abuso della custodia cautelare da parte di magistrati, sarà rimasto sicuramente deluso. I lavori del convegno non hanno approfondito, come forse sarebbe stato opportuno, tali aspetti. «Prima le indagini non decollavano», hanno esordito ii relatori, cercando di spiegare perché una «banale inchiesta giudiziaria» si sia poi trasformata in un fenomeno epocale. L’antefatto è sempre lo stesso: la svolta milanese nelle indagini per corruzione che segnò un cambio di passo rispetto a quanto accadeva nelle palude romana che metteva su un binario morto tutti i procedimenti nei confronti dei “potenti”. Tesi da prendere con le molle. Le regole del gioco erano diverse. Ad esempio, si potevano riprendere le persone con le manette ai polsi. Ed il nuovo codice di procedura penale, con il grande potere dato ai pubblici ministeri, fece da volano all’inchiesta.

Fu con Mani pulite che l’avviso di garanzia divenne un marchio d’infamia. La degenerazione dei partiti agli inizi degli anni Novanta non era una novità. Da tempo «la gente aveva la percezione che qualcosa non stesse funzionando», ha ricordato Benedetta Tobagi. L’inchiesta, è stato sottolineato, venne raccontata da giornalisti giovani, senza esperienza ma volenterosi, che sposarono ciecamente le tesi dei pm, mitizzando così le loro figure, come quella di Antonio Di Pietro, trasformato in un eroe nazionale. Significativa, come nelle attese, la testimonianza di Cusani. «Non voglio minimizzare il danno della pratica tangentizia», ha esordito l’ex manager, ma quello che è successo dopo gli arresti non ha certamente raggiunto lo scopo, dal momento che la corruzione c’è ancora. «Mi hanno cambiato 16 volte i capi d’imputazione in un processo che doveva durare tre giorni ed invece è durato mesi», ha aggiunto Cusani, ricordando la storia di Enimont e le tante “novità”, come la diretta televisiva del processo, martellante, che accompagnava le giornate degli italiani, esponendo al pubblico ludibrio i politici dell’epoca.

Significativo il passaggio in cui Cusani ha evidenziato come lo Stato non volesse lasciare la chimica ad un privato: «Era interesse pubblico mantenere il controllo di un grande comparto industriale». Come poi ricordato dall’avvocato Nardo, i processi di Mani pulite furono caratterizzati da «poca pena» e da tantissimi patteggiamenti. Un meccanismo che permetteva agli inquirenti di andare avanti. Oggi è tutto cambiato. Le pene per questi reati sono aumentate in maniera esponenziale e la corruzione è stata equiparata ai reati per mafia. Ad essere sempre uguali le tante storture del processo penale, l’appiattimento dei gip sul pm, il ruolo dell’avvocato difensore che non è più “accompagnatore” dell’indagato davanti ai magistrati, ma fatica comunque a ritagliarsi il suo spazio. Da parte di Santalucia, infine, un accenno alla crisi attuale della magistratura, con livelli oggi di consenso presso l’opinione pubblica ben diversi rispetto a trenta anni fa.

I pm processarono un sistema politico, ma spesso i giudici ebbero la forza di dire no. La politica ha il diritto di capire le ragioni di questa anomalia. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Le indagini giudiziarie che vanno sotto il nome di “mani pulite” sono iniziate trent’anni fa e da quella data si attende una riforma della giustizia che metta ordine nel rapporto tra la politica e la magistratura e adegui l’ordinamento giudiziario alle nuove esigenze e al nuovo ruolo che il magistrato deve assumere nella società. Il governo a distanza di tanti anni presenta una riforma dell’ordinamento giudiziario e del CSM molto timida e incerta che può essere solo considerata una bozza per far lavorare il Parlamento. È strano che il Presidente Draghi e la ministra Cartabia non abbiano avuto più coraggio per rendere moderno il sistema giudiziario e non abbiano tenuto conto della sovraesposizione del giudiziario che determina uno squilibrio istituzionale dannoso per la democrazia, proponendo una riforma che potesse incidere sul ruolo da attribuire alla magistratura coerente con la Carta Costituzionale.

Draghi ha di fatto confessato che non poteva fare di più e ha sfidato il Parlamento a trovare un’intesa più larga promettendo di non ricorrere al voto di fiducia.

Si è parlato tanto in questi mesi della prevalenza delle decisioni del Governo che non lasciano libero il Parlamento per le molteplici questioni della pandemia; dobbiamo riconoscere che in questo caso il Parlamento ha la possibilità di dimostrare la sua autonomia e la sua capacità di trovare punti di incontro tra i gruppi parlamentari.

È una occasione preziosa e forse unica per fare una riforma che riaffermi la prevalenza del potere legislativo sull’ “ordine giudiziario“ così come statuito dalla Costituzione.

La proposta del Governo è dunque parziale e quindi suscettibile di approfondimenti.

Avremo modo di intervenire sulle singole norme e dare suggerimenti; qui ci limitiamo a dire che la riforma elettorale per le elezioni dei componenti del CSM lungi da scoraggiare la invadenza delle correnti ne accentua le caratteristiche negative. Sì è riportato nell’ambito della magistratura lo schema della legge cosiddetta “mattarellum” utilizzata per le elezioni del Parlamento, una legge maggioritaria e un po’ proporzionale che tanti danni ha procurato alla politica e alla “rappresentanza” e che creerebbe danni all’organo di autogoverno, incrementando il potere delle correnti più organizzate.

Se i quattordici consiglieri saranno eletti con il sistema maggioritario con collegi binominali è evidente che la corrente più consistente verrà premiata anche se le candidature non avranno bisogno di firme di presentazione e quindi possono essere personali e proprio per questo subordinate a gruppi di pressione organizzati. Il personalismo è dannoso in politica e in ogni consultazione elettorale perché elimina qualunque riferimento ideologico e culturale, estremizza le posizioni e alimenta le clientele Invece anche per il CSM il sistema elettorale proporzionale renderebbe più trasparente le contrapposizioni tra le liste diverse che fanno riferimento a contenuti a programmi, a idee collegiali. Questo è l’unico sistema che potrebbe eliminare la degenerazione delle correnti.

Naturalmente l’ipotesi, che pur viene proposta, del sorteggio tra i magistrati per accedere al CSM è perversa e inaccettabile: ho sempre ritenuto questa una proposta vigliacca perché elimina la responsabilità della scelta e naturalmente offende la Costituzione.

Dunque finalmente il Parlamento ha la possibilità, alla fine della legislatura di poter qualificare le sue scelte perché è davvero arrivato il momento di affrontare alcune questioni che sono fondamentali e pregiudiziali per porre rimedio ad una crisi che investe il modo di fare giustizia da parte di chi, per tutti gli eventi che sono venuti alla luce, non ha una legittimazione adeguata per essere considerato al di sopra delle parti.

Per tutto quello che è stato evidenziato le disfunzioni della magistratura hanno inciso e incidono nelle decisioni giurisdizionali, mettendo in dubbio la sua tenuta morale e, il cittadino ha capito che i nemici del “indipendenza“ non sono i politici o i contestatori di turno ma gli stessi magistrati.

È per riconquistare la fiducia dei cittadini che gli stessi magistrati dovrebbero chiedere riforme adeguate. Dobbiamo constatare che la magistratura ha assunto un ruolo politico anomalo non in linea con la Costituzione configurando una Repubblica giudiziaria che ha messo in discussione l’autonomia della Repubblica parlamentare e la separazione dei poteri.

L’espansione del potere giudiziario ha di conseguenza acuito la crisi del potere legislativo che ha perduto credibilità anche per aver esso stesso dato per legge una delega ampia al giudice di decidere le controversie sociali e quindi di incidere politicamente.

Gli accadimenti politici e giudiziari dagli anni 90 in poi, cioè dalle indagini di “Tangentopoli” che hanno colpito i partiti e tanti rappresentanti politici, hanno aggravato questo contrasto istituzionale e hanno determinato uno squilibrio tra i poteri dello Stato, hanno avvilito le istituzioni considerate dai più ostili e corrotte.

Le indagini di “mani pulite” sono finite con la assoluzione degli imputati in una alta percentuale con motivazioni a volte molto severe da parte dei giudici nei riguardi dei pubblici ministeri; le loro indagini non hanno costituito prova per una possibile condanna! Anche le indagini per “mafiopoli” sono state considerate fasulle, e hanno sancito la sconfitta dei pubblici ministeri ridando prestigio allo Stato e ai rappresentanti dello Stato.

Dobbiamo prendere atto oggi che i giudici hanno fatto giustizia della magistratura inquirente e hanno interpretato gli avvenimenti con il dovuto rigore logico per cui il Pool “mani pulite” di Milano considerato rigeneratore di uno Stato etico e della legalità, ha operato una rivoluzione giudiziaria fasulla e dissacrante.

La maggior parte delle decisioni giurisdizionali hanno cancellato la pretesa dei magistrati inquirenti di accreditare una storia falsa per screditare i partiti politici e l’apparato dello Stato.

La sentenza ha il valore giuridico di verità processuale, in base a fatti accertasti senza la pretesa di ricostruire una storia generale.

A questo punto la domanda: come è potuto avvenire tutto ciò, come è stata possibile una deviazione delle indagini così smaccata da distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così “illogica”?!

La classe dirigente che ha governato il Paese fino agli anni 90 deve pretendere una risposta perché a distanza di tanti anni è possibile fare un’analisi non in contrapposizione ai magistrati ma insieme a loro e alla Associazione che li rappresenta coinvolgendoli sulla necessità di una comune rivoluzione culturale.

L’associazione Nazionale magistrati il 17 prossimo organizza un convegno a Milano per ricordare quelle indagini con la partecipazione di uno dei principali imputati di quel periodo Cusani. Bisognerà capire se si tratta di una celebrazione per esaltare o per criticare il metodo che soprattutto la procura di Milano ha adottato con la partecipazione costante singolare del giudice Ghitti.

L’Associazione ha sempre ritenuto che le indagini di “mani pulite” fossero normali, fatte secondo le regole del codice e ora invece individua un potere della magistratura di prima e di dopo tangentopoli. Avremo modo di valutare Intanto gli avvocati, gli uomini di cultura e i politici e i giornalisti si confronteranno in un convegno a Roma il 23 febbraio sul significato che quell’indagine ha avuto per tracciare una storia vera o per indicare quella immaginata dai magistrati.

Gherardo Colombo che faceva parte di quel gruppo milanese di sostituti procuratori ha ripetuto in una trasmissione televisiva con molta forza che il “sistema” finanziamento pubblico dei partiti e corruzione è stata una scoperta importante e decisiva, e questo è il merito di quelle indagini.

Io dico da tanti anni che è stato indagato appunto il “sistema“ e non i singoli fatti, i singoli imputati, e questa è la patologia che dovremmo tutti insieme riconoscere.

Luigi Ferraioli dice che il processo penale può diventare “storia di errori” e il diritto penale “storia di orrori”.

Dobbiamo verificare questo perché a distanza di trent’anni il giudizio può avere valore storico.

Bobo Craxi e Gherardo Colombo, scontro in tv sulla P2. Il Tempo il 17 febbraio 2022.

Scontro totale negli studi di Porta a Porta tra Bobo Craxi e Gherardo Colombo. Si parla del sistema di corruzione nella Prima Repubblica e Bobo Craxi descrive il funzionamento dell'apparato corruttivo. "Il sistema politico si finanziava illegalmente - ha spiegato Bobo Craxi negli studi di Vespa - Tutti i partiti della Prima Repubblica si finanziavano illegalmente. Tutto questo era tollerato con la compiacenza della magistratura che faceva parte integrante del regime. O i giudici voltavano la faccia dall'altra parte o avrebbero dovuto cambiare mestiere". 

A questo punto viene chiamato in causa Gherardo Colombo che conferma la compiacenza della magistratura fino al 1992: "E' indubbio che la magistratura chiudeva un occhio - conferma Colombo - Fino al 1992 non è stato possibile aprire un cassetto del potere. A me sono successe due occasioni personalmente per scoprire il sistema della corruzione. Diventa anche spiacevole dirlo ma il nome di tuo papà l'ho trovato per la prima volta nelle carte della P2. Comunque non ho detto che stava nella P2".     

Bobo Craxi non ci sta e replica stizzito per correggere subito Colombo: "Non fare così sulla P2 - sbotta Bobo Craxi - Non devi guardare me perdonami. Non puoi venire in tv a dire che mio padre stava nella P2. Ogni riferimento è fastidioso. Ci ascoltano milioni di italiani e i disastri li avete già combinati. Ci sono carte e libri che dicono che voi, invece, eravate legati a servizi stranieri. Il riferimento alla P2 è fastidioso".     

"Le monetine su Craxi? Nessuna ipocrisia se adesso le critico". Francesco Boezi il 21 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex pm: "Dalla cittadinanza comportamenti scorretti. Non volevamo fare la rivoluzione".

Gherardo Colombo, membro del pool di Mani Pulite, si chiede il perché delle «domande al plurale» ma è chiaro come quella fase storica italiana abbia avuto per protagonista anche un certo modo d'intendere i rapporti tra giustizia e politica. «Possibile - annota - che abbiamo commesso errori». E che «cambiare idea», in fin dei conti, non è ipocrita.

Dottor Colombo, lei ha detto che la scena delle monetine su Craxi le fece un effetto negativo. Qualcuno, però, ritiene che sia ipocrita dolersi oggi.

«Credo di aver detto e scritto più volte che sono stati tenuti comportamenti scorretti da parte della cittadinanza seppur non riferendomi nello specifico alle monetine. Ma non è questo il punto. Vuole dire che se non l'ho detto allora non potrei dirlo oggi? Credo di averlo detto e scritto, e sicuramente lo pensavo, ma mettiamo che non l'avessi pensato, non potrei aver cambiato idea? È ipocrita cambiare idea?».

Lei forse non voleva fare la rivoluzione. L'impressione è che nel pool ci fosse chi voleva farla eccome.

«Nessuno di noi voleva fare la rivoluzione. Solo accertare i fatti corruttivi - e le relative responsabilità - che purtroppo erano gravi e molto diffusi. C'era certo una forte richiesta di cambiamento che veniva dalla cittadinanza e che era alimentata dai media, le tv che mettevano in pianta stabile giornalisti davanti al palazzo di giustizia a raccontare le malefatte di chi veniva coinvolto nelle indagini. Che spesso sbattevano il mostro in prima pagina. E forse hanno impropriamente alimentato anche reazioni emotive di rabbia nella cittadinanza».

Perché Mani pulite ha defenestrato soltanto una parte del sistema partitico italiano?

«Mani pulite non ha defenestrato nessuno. Ha svolto indagini nei confronti di persone in ordine a reati per i quali esistevano elementi per indagare. Queste persone facevano parte di tutti i partiti ad eccezione di Msi e Dp, se ricordo bene. Se si riferisce all'ex Partito comunista le posso fare l'elenco delle persone per le quali abbiamo chiesto al gip, e ottenuto, l'applicazione della misura cautelare in carcere. Abbiamo chiesto anche il rinvio a giudizio di un esponente di particolare rilievo, che il tribunale poi ha assolto. Non ricordo critiche per quel rinvio a giudizio».

I rapporti tra politica e giustizia sono ancora oggetto di discussione. Oggi sembra spirare un vento garantista.

«C'è indubbiamente un vento garantista e ne sono davvero contento. Mi dispiace che riguardi soprattutto alcune categorie (sembrano esclusi i ladri e i piccoli spacciatori). C'è anche un vento negazionista, che non considero funzionale ad una narrazione storica corretta».

La soluzione politica, ai tempi di Mani pulite, sarebbe stata preferibile a quella giudiziaria?

«Avevo suggerito l'idea che sarebbe uscito dal processo (e non sarebbe quindi andato in carcere) chi avesse raccontato come erano andate le cose, avesse restituito ciò di cui si era appropriato indebitamente, si fosse allontanato per un periodo di tempo ragionevole dalla vita pubblica. Qualcosa di analogo a quel che ha fatto il Sudafrica con la Commissione per la verità e la riconciliazione, fatti i necessari distinguo circa la drammaticità di quel conflitto. Era il luglio del 1992, il suggerimento non è stato neppure preso in considerazione».

Lei no, ma altri suoi colleghi hanno scelto la via della politica. Che ne pensa delle «porte girevoli»?

«Ho da tempo e a più riprese detto di avere una regola: se mi fosse venuto in mente di candidarmi mi sarei dimesso dalla magistratura (e quindi non vi sarei mai rientrato) e avrei lasciato passare un periodo consistente, diciamo due o tre anni, dalle dimissioni alla candidatura. Era la mia regola».

Le è capitato di affermare che «il carcere non risolve». Figurarsi la custodia cautelare.

«Se è per quello ho scritto da oltre 10 anni un libro, Il perdono responsabile, in cui dico che il carcere andrebbe abolito. Sono dell'idea che da un'altra parte (che non è il carcere) ci debba stare soltanto chi è pericoloso (e solo per il tempo in cui è pericoloso), e che questa altra parte debba essere un luogo in cui tutti i suoi diritti che non confliggono con la tutela della collettività siano garantiti e tutelati, che si debba smettere di considerare la pena una retribuzione del male commesso, che sia necessario riparare la vittima per il dolore subito e recuperare alla società chi il male lo ha agito. Ancora le regole non sono cambiate. Allora, e facendo il lavoro che facevo, dovevo rispettarle. E condividevo, peraltro, l'idea che il carcere, per quanto non mi piacesse mandarci le persone, fosse educativo, servisse a prevenire. Cosa che tanti lettori condividono e io non più. Anche per questa ragione mi sono dimesso una quindicina di anni fa. La custodia cautelare non è uno strumento punitivo, ma serve appunto ad evitare il pericolo di inquinamento della prova o la commissione di nuovi reati. Cose che pare vadano bene per i ladri d'auto ma non per i colletti bianchi. Possibile che abbiamo commesso errori, siamo esseri umani, ma personalmente ho sempre cercato di evitarli, e credo altrettanto abbiano fatto i miei colleghi».

Siete consapevoli di aver spinto, a distanza di anni, una parte di questo Paese ad allontanarsi in modo deciso dal giustizialismo?

«Non capisco perché mi rivolge costantemente le domande al plurale. Le ho già detto che apprezzo il garantismo, che non sia negazionismo, di cui ho cercato di essere interprete nei limiti del possibile anche in Mani pulite (così come nelle indagini sulla P2, sui Fondi neri Iri e così via). Però non mi pare che ci sia in giro tanto garantismo se non per i reati dei colletti bianchi. Non mi pare ci sia tanto di nuovo sotto il sole rispetto a quando era vietato aprire i cassetti del potere. Se mi sbaglio sono molto contento».

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Mani Pulite, dopo trent'anni i magistrati star si dicono toghe eroiche a loro insaputa. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022

Curioso l'argomento degli influencer in toga, che a trent' anni dall'inizio del teatro di Mani Pulite vengono ora a spiegare di essere stati senza lor colpa trasformati in eroi dai giornalisti. Non che l'argomento sia inedito. Il guaio è che questa loro impassibilità si manifestava nell'eterno esibizionismo delle conferenze stampa, negli ettari di interviste, nelle maratone e nelle piazze pulite della tv consacrante.

E che a quell'argomento ricorrano ora, dopo l'apologetica trentennale che ha fatto del magistrato eponimo la guest star dell'Italia onesta contro quella corrotta, ecco, lascia perplessi. L'altro giorno, sul Corriere, Gherardo Colombo dichiarava che «i media giocarono un ruolo determinante nel trasformarci in "eroi"».

All'intervistatrice, la quale obiettava che forse alcuni si erano prestati alla consacrazione, Colombo ha risposto «neanche tanto»: e a dar forza all'assunto ha raccontato che lui rifiutò di dare al quotidiano Repubblica delle foto da bambino, che avrebbero dovuto guarnire un articolo di Giorgio Bocca. Diciamo che questa, pur encomiabile, ritenutezza non è stata decisiva per fermare il cantiere del monumento al pool. 

Colombo: mai pensato di fare la rivoluzione. Mani Pulite poteva arrivare prima. Diego Motta su Avvenire il 16 febbraio 2022.  

La giustizia è cambiata. Trent’anni dopo lo scoppio di Tangentopoli, la corruzione resta un costume nazionale, la politica rincorre ancora vecchi fantasmi e i magistrati non sono più eroi da prima pagina. «Manca il senso della comunità, dello stare insieme» sottolinea oggi Gherardo Colombo. Figura simbolo di Mani Pulite, da quindici anni ha lasciato la toga ed è diventato una delle voci più ascoltate della società civile, per il suo impegno nelle scuole e nell’associazionismo sui temi della legalità. Dai corsi di formazione con i gesuiti alle battaglie per i migranti, è rimasto in prima linea, pur lontano dai riflettori. Per questo può raccontare adesso cosa è stata quella stagione e cosa occorre cambiare, dai limiti dell’azione penale alla necessità di percorsi nuovi, «che permettano il recupero di chi ha sbagliato», sottolinea Colombo.

Trent’anni dopo Tangentopoli, si tende a parlare di quella inchiesta come di una rivoluzione mancata. Lei stesso ha detto che «Tangentopoli è finita, ma non la corruzione». Quale fu il merito storico di quell’indagine e quali i suoi limiti?

Dal punto di vista storico, perché l’indagine non venisse bloccata sul nascere fu senz’altro decisiva la caduta del Muro di Berlino, perché di fatto segnò anche in Italia la fine del sistema dei blocchi di potere contrapposti. Infatti Mani Pulite poteva scoppiare dieci anni prima, se solo fossero rimaste a Milano le indagini sulla P2 o sui fondi neri dell’Iri, dei quali nessuno più si ricorda. Invece finì tutto a Roma e le relative inchieste evaporarono. Mani Pulite nacque da un episodio solo, quello di un imprenditore che andò dai carabinieri a denunciare un fatto di corruzione. Fu insomma la prima volta che si potè investigare sui reati delle persone che rivestivano posizioni di potere.

E sulla rivoluzione dei giudici?

Non abbiamo mai pensato di farne e non ne abbiamo mai fatte. Il nostro lavoro non consisteva nel cambiare il sistema politico: noi dovevamo semplicemente verificare la responsabilità penale delle singole persone. È quello che prima come giudice, poi come sostituto procuratore e infine ancora come giudice, ho cercato di fare e penso di aver fatto nel mio percorso dentro la magistratura.

Quale fu il vostro rapporto con l’opinione pubblica all’epoca? E con i media? Le strumentalizzazioni legate alle vostre indagini non sono mancate...

Ci sono stati momenti diversi. Sono dell’idea che non sia corrispondente ai valori della nostra Costituzione sbattere il mostro in pagina.

Quali sono i livelli di corruzione presenti oggi nel nostro Paese?

Oggi non esiste più un sistema della corruzione, come invece esisteva allora, intimamente connesso al finanziamento illecito, occulto, dei partiti, che mi pare essere, con quelle modalità, quasi scomparso. A mio parere è diffusa più o meno come un tempo la corruzione non sistematica, quella un po’ anarchica che coinvolge anche cittadini comuni.

È una responsabilità legata ai limiti dell’azione penale in sè o c’è dell’altro?

Io credo che il sistema penale non serva, eventualmente, che ad ottenere obbedienza, mentre la democrazia richiede consapevolezza. Peraltro quando la trasgressione è così sistematica come lo fu ai tempi di Mani Pulite, il sistema penale non è idoneo a marginalizzarla. Occorrerebbe invece lavorare molto sull’educazione, sulla cultura, accompagnare le persone ad osservare le regole perché le condividono, non perché hanno paura della sanzione.

I 15 anni fuori dalla magistratura cosa le hanno dato?

Dopo la mia uscita dalla magistratura ho intrapreso un’attività, soprattutto nelle scuole ma non solo, per aiutare a capire le regole ed arrivare a condividerle, a partire dalla Costituzione. I ragazzi che incontro sono molto disponibili al dialogo e al coinvolgimento, si lavora bene con loro se oltre che a parlare li si ascolta.

Anticipazione da “Oggi” l'11 febbraio 2022.

«Mani pulite? Credo che l’unico effetto di un certo rilievo sia consistito nel separare la corruzione dal finanziamento illecito dei partiti politici, che mi pare adesso non così diffuso come allora». 

Gherardo Colombo, intervistato dal settimanale OGGI, diretto da Carlo Verdelli, a trent’anni da Mani Pulite traccia il bilancio di quella stagione: «L’inchiesta sulla corruzione svolta dalla Procura di Milano, cominciata nel 1992 nel settore degli appalti pubblici, si è conclusa, con i processi, nel 2005, e ha svelato la commissione di migliaia e migliaia di reati».

Ma la sintesi dell’ex giudice del pool è chiara: «Non la magistratura, ma la politica, in senso generale, avrebbe potuto trovare una soluzione». 

È però sulle speranze, gli entusiasmi e il consenso che quelle inchieste sulla corruzione generarono che Colombo fa la considerazione più amara: «Quando è finita Mani Pulite? Quando le prove hanno cominciato a portarci verso la corruzione spicciola, dei cittadini comuni (…) 

Quando le prove portano all’ispettore del lavoro che per pochi soldi chiude un occhio sulle misure di sicurezza, all’infermiere che per 200 mila lire segnala all’agenzia di pompe funebri un decesso, al vigile urbano che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, allora la reazione è: Ma cosa vogliono questi?».

E alla domanda su cosa abbia significato personalmente, quell’impegno, dice: «È stata la conferma finale che l’amministrazione della giustizia non arriva al termine quando riguarda i reati delle persone potenti. Lo avevo visto a cominciare dal 1981, da come finirono le indagini sulle carte della P2... La mia originaria convinzione, che sarebbe stato sufficiente che le persone sapessero perché venisse marginalizzata la trasgressione nelle alte sfere della società, ha subito gli ultimi colpi. Non è così».

Giustizia e paradossi. Renzi, Berlusconi, Salvini e Craxi: quando bisogna difendersi “dai” processi e non “nei” processi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Febbraio 2022 

I protagonisti del processo Open sono quattro. I loro nomi sono questi: Giuseppe Creazzo, (Procuratore ), Antonio Nastasi (Procuratore aggiunto), Matteo Renzi (senatore ed ex premier), Luca Turco (sostituto procuratore). La posizione dei primi tre è chiarissima. Il procuratore e il suo vice hanno commesso reati, il senatore non ne ha commessi. La domanda che assilla un po’ tutti è: ma il sostituto Turco è anche lui colpevole o è innocente?

Chiariamo meglio.

Il Csm ha accertato che il procuratore Creazzo ha commesso atti di molestia sessuale (che nel codice penale equivalgono a violenza sessuale) e lo ha punito con una piccola multa. Il reato non è più perseguibile penalmente perché la vittima non lo ha denunciato entro un anno. Però ha confermato che la violenza c’è stata e il Csm ha ratificato. E uno. Il Procuratore aggiunto invece è stato interrogato ieri in Commissione parlamentare, sulla vicenda del suicidio o omicidio di David Rossi del Monte dei Paschi. Gli hanno chiesto se quel pomeriggio era stato sulla strada dove giaceva il corpo di Rossi. Ha negato. Il parlamentare dei 5 Stelle Migliorino ha insistito: “cerchi di ricordare…”. No, no, no, ha insistito a sua volta il Procuratore aggiunto. “Non ci sono andato”.

Allora Migliorino gli ha fatto vedere una fotografia dove c’era un signore proprio lì nella strada, vicino al corpo, e gli ha chiesto: “lo riconosce questo signore?”. Era proprio lui. Il procuratore aggiunto è diventato rosso rosso e poi ha balbettato: “può darsi, che vuole, io non mi ricordo neppure come ero vestito la settimana scorsa…” Già. Succede. Mi piacerebbe sapere come si comporta lui con un imputato che vistosamente mente e poi si giustifica dicendo che la sua memoria è debole… Comunque: e due. Stavolta, a occhio e croce, il reato potrebbe essere quello di falsa testimonianza. O magari di intralcio alla giustizia, chissà.

Poi c’è il senatore Renzi. Ha creato una fondazione, l’ha finanziata con donazioni spontanee dichiarate. Niente in nero. E siccome è legittimo finanziare una fondazione, è evidentemente innocente. È sul quarto uomo che c’è il mistero. Il dottor Turco. Lui dice di essere innocente, come Renzi, ma Renzi dice che anche lui è colpevole e lo ha denunciato. Colpevole di avere commesso degli illeciti durante le indagini, che in ogni caso, se fosse un reato, certo sarebbe un reato minore rispetto a quelli commessi dai suoi due colleghi. Deciderà il tribunale di Genova, chiamato a giudicare se Turco sia dalla parte dei colpevoli o degli innocenti. Però questa vicenda, abbastanza paradossale, ne richiama alla mente molte altre. Quelle di Berlusconi, soprattutto, ma non solo.

Per esempio quelle di Salvini o, tornando indietro nel tempo, di Craxi. Tutte queste storie ci dicono che quel luogo comune che spesso sentiamo ripetere (“bisogna difendersi nel processo e non dal processo), come quasi tutti i luoghi comuni è una fesseria. Il processo a Renzi, cioè il caso Open, essendo il più recente, credo che lo conosciate un po’ tutti. Non lo accusano di avere rubato ma di avere fondato di nascosto un partito mentre in realtà era un dirigente di un altro partito. Cioè i magistrati dicono che la Fondazione Open era un partito, anche se senza sedi, senza iscritti, senza congressi, senza simbolo, senza candidati alle elezioni comunali, regionali, provinciali, nazionali, senza un segretario, senza federazioni, senza sezioni… Scusi – chiede un passante – ma come può essere un partito? Loro non rispondono. Sono giovani, forse non sanno bene neppure cosa sia un partito politico. Però vogliono Renzi. Alla sbarra. Lo braccano. Sono sicuri che riusciranno a portare a casa la sua pelle.

Ora, dico, a parte il paradosso di essere indagati da un magistrato che ha molestato una donna (anzi una sua collega) e da un altro che ha reso falsa testimonianza dinanzi al Parlamento (non deve essere una bella sensazione da parte di un imputato sapere che il livello dei suoi inquisitori è questo) il problema vero è che per Renzi è stato chiesto il rinvio a giudizio in totale assenza di reato. E questa è una brutta storia. Del resto proprio Mattarella ha detto recentemente, nel suo discorso di insediamento, che la magistratura ha perso credibilità e che gli imputati non si sentono più sicuri. Ha ragione da vendere, mi pare, il caso Open è la prova provata che Mattarella aveva ragione. Come si può, francamente, avere fiducia in questi magistrati?

Poi c’è il caso Salvini, quello del processo per sequestro di persona. Voi magari sapete quanto male io pensi di Salvini, e quanto dissenta dalla sua politica di respingimento dei profughi: ma cosa diavolo c’entra l’accusa penale e addirittura il sequestro di persona? Voi direte: vabbé ma è stato il Senato a dare l’autorizzazione a processare Salvini, con il voto persino di Renzi. Obiezione giustissima. Il guaio è proprio questo: che i politici si difendono quando li mettono in mezzo a loro, e invece fanno il sorriso e l’inchino ai magistrati quando questi mettono sotto processo i loro avversari. Per questo i magistrati sono molto potenti e i politici no. Avete visto come ha reagito l’Anm all’attacco di Renzi alla Procura di Firenze? Facendo muro, come un sol uomo. Ha avvertito Renzi che la corporazione è tutta schierata coi suoi tre magistrati, sia con l’innocente che coi due colpevoli…

Vogliamo parlare di Berlusconi? Novanta processi dei quali 89 finiti con l’assoluzione e uno con una condanna – il famoso processo sull’evasione fiscale – molto scombiccherata e che con ogni probabilità verrà presto cancellata dalla Corte europea. Voi pensate che un signore che viene processato per novanta volte senza ricevere condanne sia sfortunato o perseguitato? Poi c’è Craxi. Un pezzo della magistratura, 30 anni fa, decise che andava annientato perché era lui l’ultimo baluardo dell’autonomia della politica. Era l’ostacolo all’instaurazione della repubblica giudiziaria. Era un socialista, un democratico, un liberale. Tutte parole da cancellare. Lo massacrarono, anche perché nessuno lo difese. Fu costretto a fuggire in Tunisia. Stava male. Gli negarono persino il diritto a venire a curarsi in Italia, lo lasciarono morire, solo, in un ospedale scalcinato. Che orrore.

Vogliamo invece parlare degli sconosciuti? L’ottanta per cento delle persone che ricevono l’avviso di reato alla fine saranno assolte, ma dopo essere state massacrate, economicamente, moralmente, professionalmente. La pena viene eseguita senza condanna, ed è durissima. La pena si chiama processo. E allora? Se vogliamo ristabilire lo Stato di diritto bisogna difendersi dai processi. Non nei processi: dai processi. Impedire che le Procure massacrino miglia di persone, fuori da ogni principio del diritto e senza condanna. Non è giusto lasciare ai giudici il potere di fare di noi ciò che vogliono. Renzi e Berlusconi si difendono dal processo? Beh, se lo fanno bisogna applaudirli. E seguirne l’esempio se si può. In attesa che i tempi cambino e torni la Giustizia. Chissà quanto dovremo aspettare. La riforma del Csm proposta ieri non fa ben sperare.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Caro Caselli, l’accostamento tra Renzi e le Br è un po’ eccessivo. Pur volendolo definire quanto meno paradossale, il riferimento di Caselli agli anni di piombo e ai terroristi sembra francamente eccessivo, a dir poco. Francesco Damato su Il Dubbio il 12 febbraio 2022.

Con tanto ritardo rispetto alle aspettative da cogliermi di sorpresa, ve lo giuro, i politici che resistono, reagiscono e quant’altro alle iniziative giudiziarie che li investono, di solito mentre sono più esposti sul loro terreno professionale, diciamo così, sono stati paragonati addirittura a quei terroristi che contestavano allo Stato borghese, capitalistico e altre scemenze simili il diritto di processarli. E qualcuno ammazzava anche per strada che si ostinava a fare il suo mestiere. O minacciava di morte i giudici popolari, anch’essi borghesi, capitalisti e scemenze simili, selezionati con incolpevole sorteggio.

Sentite che cosa ha appena sostenuto sulla Stampa non un Camillo Davigo particolarmente polemico in qualcuno dei salotti televisivi più o meno di casa ma un magistrato molto più accorto di lui nell’uso delle parole, iperboli e simili come Gian Carlo Caselli: «In Italia dai primi anni Novanta del secolo scorso si riscontra una pessima anomalia: l’ostilità verso la giurisdizione, il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti “celebri”; una sorta di impropria edizione del cosiddetto processo di “rottura”, utilizzato però da uomini dello Stato, anziché, come negli anni di piombo, da sue antitesi».

Con quel riferimento esplicito agli “anni di piombo” non credo di avere esagerato nel vedere tra le righe e le parole di Caselli una certa affinità, ripeto, fra i terroristi che rifiutavano i processi e i politici che dagli anni Novanta in poi – o gli inquisiti “celebri”, come li chiama l’ex capo di celebri Procure italiane – contestano i magistrati che si occupano di loro e le iniziative che assumono nell’esercizio delle proprie funzioni. E mi perdonerà il buon Caselli, col quale ho avuto già altre occasioni di polemiche, se mi permetto di dissentire ancora una volta da lui. Pur volendolo definire quanto meno paradossale, questo riferimento agli anni di piombo e ai terroristi mi sembra francamente eccessivo, a dir poco. Qui si spara solo – se si spara- con parole e carte bollate, come ha appena fatto Matteo Renzi contestando i magistrati che ne hanno chiesto il rinvio a giudizio, insieme col cosiddetto “cerchio magico” degli anni altrettanto magici della sua fulminante carriera politica, per finanziamento illegale dei partiti e tutti gli altri reati che di solito – dai tempi lontani di “Mani pulite”- si porta appresso una simile imputazione.

Sono il primo a riconoscere, per carità, che Renzi fa poco, anzi assai poco, per risultare simpatico, persino a uno come me che votò con molta convinzione nel 2016 la “sua” riforma costituzionale, anche dopo che lui l’aveva imprudentemente personalizzata a tal punto da farne un plebiscito su di lui perdendolo. Ma vederlo direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente, a ragione o a torto, come uno di quelli che dietro le sbarre gridavano contro la Corte di turno che doveva giudicarli, mi fa mettere le mani fra i capelli che fortunatamente mi sono rimasti.

“FRONTIERE” PRESENTA “DOPO MANI PULITE… LA GUERRA DEI TRENT’ANNI”.  Da spettacolomusicasport.com il 12 febbraio 2022

Qual è il bilancio di Mani Pulite a trent’anni dall’inizio dell’inchiesta che ha cambiato la storia del nostro Paese? Lo scontro fra magistratura e politica, la deriva della giustizia spettacolo e la nascita del giustizialismo, sono i temi al centro della puntata di Frontiere di sabato 12 febbraio “Dopo Mani pulite… la guerra dei Trent’Anni”, in onda alle 16.30 su Rai3. Doveva essere una rivoluzione all’insegna della lotta alla corruzione, ma da allora siamo ancora alla ricerca di un equilibrio fra poteri che garantisca l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, assicurando però l’efficienza e la tempestività della loro azione. 

In studio con Franco Di Mare Stefano Cagliari, autore del libro “Storia di mio padre” in cui ha raccolto le lettere scritte in carcere dall’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari e Goffredo Buccini, editorialista del Corriere della Sera.  Interverranno Luciano Violante, giurista ed ex presidente della Camera, Gherardo Colombo, ex magistrato del pool Mani Pulite, Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali e i giornalisti Sergio Rizzo e Paolo Guzzanti.

Magistratura e Politica… la Guerra dei Trent'anni" a Frontiere. Conduce Franco Di Mare. Rainews il 19 febbraio 2022

Magistratura e politica: a trent’anni dalla più importante inchiesta della storia italiana siamo ancora alla ricerca di un equilibrio fra poteri che garantisca l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, assicurando però l’efficienza e la tempestività della loro azione. La riforma Cartabia riuscirà a realizzare quei cambiamenti tante volte rinviati? E possiamo considerare davvero archiviati i mali che affliggono la giustizia: l’uso disinvolto delle intercettazioni e le loro pubblicazioni, il carrierismo e il correntismo venuto alla luce con il caso Palamara, le porte girevoli che consentono di passare dalla magistratura alla politica per poi farvi ritorno? Insomma, la magistratura è un potere o uno stra-potere? Questo il tema al centro della puntata di “Frontiere” in onda sabato 19 febbraio alle 16.30 su Rai 3 dal titolo “Magistratura e Politica… la Guerra dei Trent’anni”. In studio con Franco Di Mare il giornalista Enzo Carra, arrestato simbolo di Mani Pulite e Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera. Intervengono Luciano Violante, giurista ed ex presidente della Camera, Gherardo Colombo, ex magistrato del pool Mani Pulite, Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali, la storica Simona Colarizi e i giornalisti Alessandro Sallusti, Sergio Rizzo, Paolo Guzzanti e Piero Colaprico.

30 anni di Mani Pulite: la fine della prima Repubblica. "Un giorno in Pretura" racconta il processo Enimont. Rainews il 17 febbraio 2022.  

A trent’anni dall’inizio “Tangentopoli”, lo scandalo che ha travolto l’Italia degli anni Novanta, RaiPlay propone in boxset da giovedì 17 febbraio, “30 anni di Mani Pulite: la fine della Prima Repubblica”, uno speciale con 25 puntate del programma “Un giorno in Pretura” di Roberta Petrelluzzi, Tommi Liberti e Antonella Nafra, andato in onda su Rai 3 dalla fine del 1993 fino a metà del ’94. I contenuti si concentrano sul principale processo di Tangentopoli, quello Enimont, che vede coinvolti i maggiori leader politici dell’epoca, accusati a vario titolo di essersi spartiti una tangente di 150 miliardi di lire per favorire la fusione della chimica privata della Montedison con quella pubblica di Eni. Imputato è Sergio Cusani, consulente finanziario, accusato di falso in bilancio e illecito finanziamento ai partiti. Il processo ha subito un grande clamore, tocca punte di quasi cinque milioni di spettatori, a dimostrazione della qualità della trasmissione che, specialmente in quegli anni, costituisce uno strumento di approfondimento e conoscenza della realtà. Cusani viene condannato e, nel giro di pochi anni, tutta la classe politica è spazzata via, determinando la scomparsa di due grandi partiti: la Dc e il Psi. E’ la fine della Prima Repubblica. 

Tangentopoli per chi non c’era. Il post il 17 febbraio 2022.

Cosa fu il pool di Mani Pulite, chi fu coinvolto dalle inchieste, chi era “il compagno G.”, cosa successe all'Hotel Raphael, e cosa cambiò dopo

Il 17 febbraio 1992, trent’anni fa, venne arrestato a Milano Mario Chiesa, presidente della casa di cura Pio Albergo Trivulzio ed esponente del Partito socialista. I carabinieri lo colsero in flagranza di reato subito dopo aver ricevuto una tangente da sette milioni di lire. In quei giorni il caso non destò grandi attenzioni a livello nazionale, ma l’arresto di Chiesa sarebbe poi diventato famoso come quello da cui cominciò l’insieme di inchieste note come Mani Pulite, o Tangentopoli, che riguardarono l’esteso sistema di corruzione e concussione che coinvolgeva quasi tutti i principali partiti di allora e un pezzo dell’imprenditoria nazionale.

Spesso si dice che Tangentopoli mise fine alla Prima Repubblica, cioè al sistema politico e partitico che si era consolidato in quasi cinquant’anni dopo la Seconda guerra mondiale, favorendo l’ascesa di nuove forze e nuove ideologie. I nomi delle persone coinvolte nelle vicende politiche e giudiziarie di quegli anni, i posti in cui si svolsero le vicende, sono in molti casi entrati nell’immaginario collettivo, citati ancora oggi di frequente sui giornali e in tv per fare confronti e rimandi con la politica contemporanea. A questi nomi sono associati in molti casi concetti ed espressioni gergali ben noti a chi seguì o studiò quelle vicende, ma talvolta più confusi per chi nei primi anni Novanta era troppo giovane oppure nemmeno era nato.

Mario Chiesa

Soprannominato “il Kennedy di Quarto Oggiaro” per la sua ambizione, Chiesa iniziò a fare politica con il PSI negli anni Sessanta. Tra gli anni Settanta e Ottanta ottenne una serie di incarichi pubblici, dal posto di direttore tecnico all’ospedale Sacco all’assessorato ai Lavori Pubblici. Erano anni in cui a Milano i socialisti erano potentissimi: il PSI aveva espresso il sindaco della città ininterrottamente dal 1967, e Chiesa aveva legami sia con Paolo Pillitteri che con Carlo Tognoli, due esponenti di spicco del PSI milanese (il primo fu sindaco dal 1986 al 1992, il secondo dal 1976 al 1986).

Nel 1986 Chiesa venne nominato presidente del Pio Albergo Trivulzio, una nota e antica casa di cura chiamata “la Baggina” dai milanesi, dal fatto che la sede si trova sulla strada che va verso Baggio e che un tempo si chiamava appunto via Baggina. In quegli anni Chiesa coltivava l’ambizione di diventare sindaco, perciò si allontanò dagli esponenti locali socialisti e cercò di costruirsi un legame con Bettino Craxi, segretario del partito e presidente del Consiglio tra il 1983 e il 1987. 

Nel 1992 Chiesa finì però coinvolto in un’operazione dei Carabinieri. La ditta di pulizie dell’imprenditore brianzolo Luca Magni, per assicurarsi l’appalto al Pio Albergo Trivulzio, pagava regolarmente tangenti a Chiesa. Magni, stanco e sfibrato dalle continue richieste economiche di Chiesa, denunciò il fatto ai Carabinieri, i quali lo portarono dal magistrato Antonio Di Pietro. Insieme a lui organizzarono l’operazione. Colto in flagrante mentre accettava una tangente di 7 milioni di lire, Chiesa venne arrestato. Pochi giorni dopo l’arresto, Craxi cercò di sminuire l’accaduto definendo Chiesa un «mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito» fatto di gente onesta.

Sull’arresto di Chiesa si sviluppò la prima fase dell’inchiesta di Di Pietro, a cui vennero presto affiancati altri magistrati – il “pool di Mani Pulite” – e che si allargò fino a coinvolgere centinaia di persone prima a Milano e poi in tutta Italia, prima nel Partito socialista e poi in quasi tutti gli altri.

Perché “Tangentopoli”

Oggi Tangentopoli è diventato un termine che descrive genericamente gli eventi di quegli anni, dalle inchieste partite nel 1992 alle loro conseguenze politiche, e viene usato anche per descriverne gli effetti sui media e sull’opinione pubblica. Ma come raccontò poi Di Pietro, l’arresto di Chiesa fu l’innesco di una macchina giudiziaria e di indagine che era stata costruita meticolosamente e da molto tempo, mentre la procura di Milano indagava sui tanti episodi di corruzione e concussione in città.

Questi episodi finivano periodicamente sui giornali anche prima del 1992, e proprio da uno di questi nacque il nome “Tangentopoli”. Lo inventò Piero Colaprico, all’epoca inviato speciale di Repubblica. Il caso riguardava un funzionario impiegato all’urbanistica del comune di Milano che aveva messo in piedi un percorso parallelo per accettare in cambio di tangenti le pratiche che ufficialmente rifiutava. Colaprico ricorda così la genesi di Tangentopoli come definizione:

Mi era sembrata una vicenda meno brutale di altre simili, con una dinamica degna delle ideone sballate di un eroe dei fumetti, quelle che poi finiscono immancabilmente male: Paperino. E così, Paperino-Paperopoli. E Tangenti-Tangentopoli.

Milano, “la città della tangenti”: sarebbe meglio dire “la città delle tangenti che venivano scoperte”, perché non è che in altre città non ci fosse la stessa, se non una più grave corruzione. In ogni caso, Milano non era esente dal tema, che Repubblica seguiva con grande attenzione, anche per decisione del direttore Eugenio Scalfari. Cominciai a scrivere in vari articoli queste “cronache di Tangentopoli”. Non se ne accorse nessuno.

Finché non arriva il caso Chiesa, e con il passare dei giorni il caso monta fino ad arrivare in prima pagina, con un riferimento a Tangentopoli nel titolo.

Col tempo la definizione attecchì anche su altri giornali e nelle televisioni, nel vocabolario collettivo e soprattutto entrò nel gergo giornalistico il meccanismo inventato da Colaprico: ci furono perciò in seguito gli scandali di Calciopoli e Vallettopoli, solo per citare i più famosi.

Il pool di Mani Pulite

Dopo le elezioni del 5 aprile 1992, definite un «terremoto» per il calo di consensi dei partiti di governo e per l’ascesa di nuovi movimenti come la Lega Nord e La Rete, la magistratura continuò a indagare. Chiesa, dopo settimane di interrogatorio, aveva descritto un sistema di corruzione organico al finanziamento di tutti i partiti, dalla DC al Partito comunista. In seguito cominciarono a stabilire contatti con la magistratura anche altri imprenditori. L’indagine insomma si stava allargando e il capo procuratore Francesco Saverio Borrelli decise di costituire un “pool”, un gruppo di magistrati incaricati di seguire le varie inchieste condividendo le informazioni.

È una soluzione che le procure adottano di rado, quando ci sono casi molto grossi e delicati da seguire e il lavoro di un solo pubblico ministero non basta. Al sostituto procuratore Di Pietro ne furono aggiunti altri due: Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. 

Colombo era già allora un magistrato molto noto, aveva indagato sulla loggia massonica P2 di Licio Gelli e sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Davigo si era concentrato invece sulla criminalità organizzata, sui reati finanziari e contro la pubblica amministrazione. In seguito, Davigo raccontò della sua ritrosia ad accettare la richiesta di entrare nel pool, perché sapeva che Mani Pulite avrebbe avuto conseguenze enormi, e che i magistrati avrebbero passato con ogni probabilità qualche guaio: «Accadde però che in concomitanza con la mia risposta ci fu la strage di Capaci e allora io mi vergognai anche solo di aver pensato che potevo passare dei guai».

L’inchiesta venne chiamata Mani Pulite dalle iniziali dei nomi in codice usati dal comandante dei Carabinieri Zuliani e da Di Pietro durante le comunicazioni via radio (rispettivamente “Mike” e “Papa”). Di Pietro, Colombo e Davigo ne diventarono gli uomini immagine, personaggi mediatici a tutti gli effetti e con tutte le conseguenze del caso, oggetto di venerazione e cori dedicati durante le manifestazioni (“Colombo, Di Pietro, non tornate indietro!”).

Il “Compagno G.”

Primo Greganti fu uno dei pochi esponenti comunisti a essere coinvolto nelle indagini di Mani Pulite. Venne arrestato il 1° marzo 1993, quando già il PCI si era trasformato in Partito Democratico della Sinistra (PDS). Fu accusato di aver ricevuto per conto del partito una tangente di 621 milioni di lire dal gruppo Ferruzzi, una nota società agroalimentare che anni prima aveva acquistato la maggioranza del gruppo Montedison, una importante società chimica italiana sui cui rapporti illegali con partiti e amministrazioni il pool si concentrò a lungo.

L’arresto di Greganti incluse anche il PDS tra i partiti accusati di corruzione, insieme a quelli che si erano trovati al governo negli anni precedenti (DC e PSI, oltre al Partito Socialdemocratico, il Partito Liberale e quello Repubblicano). Ma lo stesso Greganti divenne famoso perché – a differenza di altri accusati che confessarono in fretta per timore della carcerazione e per le pressioni pubbliche – durante i tre mesi che passò in arresto a San Vittore a Milano si dichiarò sempre innocente e si rifiutò di ricondurre al PCI il ricco conto bancario denominato “Gabbietta” a lui intestato. 

Sui giornali dell’epoca divenne noto con il soprannome di “signor G.” e poi “compagno G.”, dopo che il PDS ne aveva preso le distanze chiamandolo “il signor Greganti”: ma al tempo stesso il suo comportamento gli guadagnò paradossali stime sia tra gli elettori del PDS che tra quelli del centrodestra nemici delle inchieste di Mani Pulite. Greganti fu scarcerato il 31 maggio 1993. Venne poi condannato, ma il suo limitato coinvolgimento rese il PDS l’unico dei partiti tradizionali che subì poche conseguenze da Tangentopoli (e anzi beneficiò della crisi che travolse i partiti suoi avversari).

Cusani, Gardini, Cagliari e il processo Enimont

Ci fu un lungo periodo in cui le indagini del pool andarono avanti, scandite dalle notizie di avvisi di garanzia arrivati a diversi esponenti politici, ciascuno trattato come un inequivocabile indizio di colpevolezza. Poi iniziarono i processi. Tra tutti, quello più seguito fu il processo Enimont, che iniziò nell’autunno 1993 e vide il coinvolgimento di esponenti politici di primo piano: Bettino Craxi, Umberto Bossi, Paolo Cirino Pomicino, Arnaldo Forlani e Giorgio La Malfa, tra gli altri. Il processo cercò di stabilire se il gruppo Ferruzzi avesse versato ai partiti una “maxi-tangente” di 150 miliardi di lire, definita impropriamente dai giornali la “madre di tutte le tangenti”. 

Il principale imputato era Sergio Cusani, all’epoca consulente finanziario del gruppo Ferruzzi. Cusani era accusato di aver avuto un ruolo centrale nell’organizzare il pagamento di varie tangenti attingendo da quel fondo di 150 miliardi.

Poco tempo prima c’era stata una vasta operazione finanziaria per unire due grandi poli della chimica italiana, quello dell’Eni, in mano pubblica, e quello di Montedison, posseduto dal gruppo Ferruzzi. La fusione aveva fatto nascere il gruppo Enimont.

I personaggi chiave di questa operazione erano i due presidenti dei rispettivi gruppi, Gabriele Cagliari, che trattava con Montedison per conto dello Stato, e Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi. La fusione però fu un insuccesso: Gardini avrebbe voluto “scalare” il gruppo, come si dice in gergo finanziario, ossia rilevare la quota di maggioranza di Enimont, ma i partiti fecero resistenza. Gardini allora si sfilò dall’affare, cercando di convincere l’Eni a rilevare le sue quote a un buon prezzo: secondo il pool di Mani Pulite attraverso il pagamento di tangenti ai vari partiti.

Il processo si concluse con le condanne definitive di molti importanti politici, tra cui Forlani, Bossi, Renato Altissimo e il tesoriere della DC Severino Citaristi. Cusani fu condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere.

Prima del processo, durante le indagini, Gabriele Cagliari era stato arrestato per un’altra presunta tangente. Dopodiché, mentre si trovava in carcere, gli furono contestati altri reati che avevano a che fare con una rete di “fondi neri” dell’Eni. In tutto, Cagliari rimase in custodia cautelare a San Vittore quattro mesi e mezzo: si suicidò il 20 luglio 1993. Tre giorni dopo, si uccise anche Gardini nella sua casa di Milano a palazzo Belgioioso.

Prima e Seconda Repubblica

Tangentopoli fu una cesura così evidente, un momento da “prima e dopo”, che fu interpretato come un passaggio tra due Repubbliche, nonostante non ci sia mai stata nessuna riforma dell’assetto istituzionale come invece avvenne in Francia (dove di Repubbliche ce ne sono state cinque). La Repubblica in Italia rimase invece sempre la stessa, eppure dopo il 1992 la politica cambiò in modo così radicale, dalla classe dirigente ai partiti stessi, che sembrò un’altra. In seguito alcuni storici e studiosi misero in discussione questa lettura ridimensionando l’effettiva trasformazione della politica, che conservò comunque molti esponenti di spicco.

La cosiddetta Seconda Repubblica, caratterizzata da un bipolarismo tra la destra di Silvio Berlusconi e la sinistra erede del PCI, viene fatta cominciare di fatto con le elezioni politiche del 1994. Con Prima Repubblica, invece, ci si riferisce convenzionalmente a tutto il periodo prima di Tangentopoli, dominato dalla contrapposizione tra DC e PCI.

Berlusconi

La rapida scomparsa dei partiti della Prima Repubblica lasciarono un vuoto enorme nella politica, alimentato dal sentimento di rigetto tra gli elettori e le elettrici, evidente prima nelle elezioni dell’aprile del 1992 e poi in quelle del 1994. Questa situazione fu abilmente sfruttata da Berlusconi, all’epoca ricco imprenditore proprietario tra le altre cose della squadra di calcio del Milan e della società Fininvest, con cui controllava molte reti televisive private. Attraverso la sua società, Berlusconi raccolse dati sui suoi telespettatori preparando con cura il suo ingresso in politica – ricordato come la “discesa in campo” – e proponendosi come “uomo nuovo”, lontano dalle trame affaristiche della vecchia politica (sebbene da imprenditore conoscesse molto bene gli ambienti politici e fosse amico personale di Craxi). 

Nel 1994 dunque entrò in politica e alle elezioni di quell’anno ottenne oltre il 42 per cento dei voti con una coalizione larga, in cui c’era il suo partito (Forza Italia), Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini e la Lega Nord. Formando il primo governo, Berlusconi offrì il ministero dell’Interno a Di Pietro, che aveva pubblicamente sostenuto più volte, per motivi di consenso. Di Pietro rifiutò, e negli anni seguenti i due sarebbero diventati acerrimi rivali. Il governo comunque rimase in carica meno di un anno, per via dei litigi tra Berlusconi e la Lega Nord.

«Un clima infame»

Tangentopoli fu anche causa di eventi tragici. Oltre alle citate storie di Cagliari e Gardini, ci furono diversi altri suicidi, tra cui quello del deputato socialista Sergio Moroni, il 2 settembre 1992. Saputo il fatto, Craxi andò in visita a casa di Moroni, e poi all’uscita venne assaltato dai giornalisti con microfoni e telecamere. Craxi disse solo cinque parole, che diventarono poi assai famose e citate nei contesti più diversi: «Hanno creato un clima infame». Non si sa se si riferisse ai magistrati o ai mezzi di informazione, o all’insieme delle due cose. 

Hotel Raphael

Sempre Craxi fu protagonista di un altro episodio, forse ancora più celebre. Era il 30 aprile 1993, Craxi era l’obiettivo più grosso a cui il pool di Mani Pulite puntava nelle sue indagini. Quel giorno il Parlamento respinse quattro delle sei autorizzazioni a procedere contro di lui. Nello sdegno generale, alimentato da toni estremamente polemici da parte dei media, una piccola folla di manifestanti andò sotto la residenza romana di Craxi, l’Hotel Raphael, a pochi passi da piazza Navona, rimanendoci a lungo per aspettarlo.

Craxi decise che non si sarebbe fatto intimidire e scese comunque, affrontandoli. Non appena lo fece partirono prima i cori e poi, quasi subito, una pioggia di oggetti: sassi, sigarette, pezzi di vetro e soprattutto monetine. Chi non lanciava nulla – alcuni la definirono “un’aggressione” – teneva in mano banconote da mille lire e cantava «Bettino vuoi pure queste?». 

Un po’ di numeri

I numeri imponenti di Tangentopoli hanno generato negli anni un po’ di confusione. Secondo il pool, soltanto a Milano, per l’inchiesta Mani Pulite, ci furono 620 patteggiamenti davanti al giudice per le indagini preliminari mentre 635 persone vennero prosciolte. Tra i rinviati a giudizio ci furono 661 condanne e 476 assoluzioni. Ci furono diversi suicidi, ma non è noto con esattezza quanti: alcune fonti parlano di 31 persone, altre ancora di 41, ma si tratta di una stima evidentemente difficile e controversa.

L’unica stima dei costi di Tangentopoli che si conosca è quella, molto citata, di Mario Deaglio: 10mila miliardi di lire annui per la cittadinanza; tra i 150mila e i 250mila miliardi di lire per il debito pubblico; tra i 15mila e i 25mila miliardi di lire per gli interessi annui sul debito. Le opere pubbliche arrivarono a costare fino a quattro volte di più rispetto agli altri paesi europei.

Noi, campioni di autoassoluzione. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2022. 

Trent’anni dopo, come è cambiato il giudizio sulla stagione di Mani Pulite.

Nel 1992 eravamo giovani e ottimisti. «Adesso l’Italia cambierà», dicevamo e scrivevamo, sballottati dall’uragano giudiziario in corso. Il bilancio, trent’anni dopo?

In questi giorni abbiamo letto e ascoltato molte opinioni, non tutte oneste, molte smemorate, alcune disinformate. Su una cosa sembrano tutti d’accordo, per motivi diversi: la stagione di Mani Pulite — la risposta giudiziaria a Tangentopoli — non ha mantenuto le promesse. Per due anni gli inquirenti si sono mossi con la nazione alle spalle. Poi è successo qualcosa.

La definizione di questo qualcosa spacca il Paese da allora. C’è chi dà la colpa al protagonismo della magistratura e ad alcune forzature, come l’uso della carcerazione preventiva per ottenere confessioni. E chi accusa una classe dirigente complice e spaventata, ansiosa di rimuovere tutto. C’è qualcosa di vero in entrambe le spiegazioni. Ma tutto questo sarebbe stato ininfluente, se la nazione avesse ritenuto di poter cambiare. A un certo punto, invece, ha smesso di crederci.

Dovessi spiegare in una frase a mio figlio Antonio — classe 1992, coetaneo di Mani Pulite — cos’è successo, sceglierei questa risposta di Gherardo Colombo in una recente intervista: «Boiardi di Stato? Ministri? Quelle erano persone con le quali non ci si poteva identificare. Ma quando le prove portano all’ispettore del lavoro che per pochi soldi chiude un occhio sulle misure di sicurezza, all’infermiere che per duecentomila lire segnala un decesso all’agenzia di pompe funebri, al vigile urbano che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, allora la reazione è: ma cosa vogliono questi, venire a vedere quello che faccio io?».

Ecco il punto: finché si trattava di condannare gli altri, tutti d’accordo; quando abbiamo capito che la faccenda riguardava anche noi, ci siamo allarmati. Cambiare, infatti, fa paura. Ed è faticoso. Certo, diverse abitudini sono cambiate, alcune pratiche oscene si sono ridotte. Ma siamo tornati ad assolverci: una cosa che ci riesce benissimo.

Ricordo lo sguardo e le parole di Indro Montanelli, in quella primavera del ’92: «Illudetevi pure, alla vostra età è giusto. Ma sarà un’illusione: quindi, preparatevi». Dargli ragione, trent’anni dopo, mi secca un po’.

Dopo trent’anni stiamo ancora pagando l’illusione di una democrazia senza partiti. MARCO ALMAGISTI E PAOLO GRAZIANO su Il Domani il 19 febbraio 2022

Tangentopoli fu la miccia che innescò l’implosione di un sistema politico già in difficoltà da un paio di decenni, costretto ad adattarsi ad un mondo reso differente dalla caduta del Muro di Berlino e dai processi di europeizzazione.

Si pensò di risolvere la crisi passando a un modello di democrazia “maggioritaria”. In realtà, è molto difficile che una democrazia cambi “tipo” in modo radicale. L’unico precedente storico di significativo era la Francia di De Gaulle e il passaggio al semipresidenzialismo. La nostra transizione si è bloccata presto.

 Nel biennio 1992-1994 cambiò la legge elettorale, ma soprattutto cambiò in modo drastico il sistema partitico: nessuna delle famiglie politiche fondatrici della Repubblica rimase in campo con i suoi simboli, il suo nome e la sua classe dirigente. MARCO ALMAGISTI E PAOLO GRAZIANO

L'anniversario dell'inchiesta. Tangentopoli ha corrotto le regole, quell’epoca ha distrutto lo stato di diritto. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 19 Febbraio 2022. 

Il dibattito su Tangentopoli, in occasione del suo trentennale, è ovviamente inquinato dalle consuete logiche di contrapposizione tra opposte tifoserie politiche. Troppo profonde sono state le cicatrici che quello tsunami ha lasciato impresse nella storia politica del nostro Paese, per pensare di poterne parlare con un minimo di equilibrio e di onestà intellettuale. La strada più comunemente liquidatoria è quella di schiacciare la riflessione sul tema della corruzione politica, come se i critici di quella indagine dovessero automaticamente iscriversi tra i paladini della corruzione politica, o di quella classe dirigente più in generale.

Ovviamente, nessuno di noi critici di quella storia giudiziaria pensa di negare che vi fosse una diffusa corruzione nella vita pubblica, in gran parte innescata dal complesso fenomeno del finanziamento della politica; né tanto meno pretende di sostenere che questa meritasse l’impunità. Il tema è tutt’altro, ed è innanzitutto il tema delle regole che una inchiesta giudiziaria dovrebbe sempre e comunque rispettare. Per esempio, l’idea di iscrivere tutte le notizie di reato per i più svariati reati contro la Pubblica Amministrazione mano a mano emergenti in un solo, gigantesco fascicolo di indagine, con quell’unico numero di registro, e soprattutto con un solo Giudice delle Indagini preliminari, fu una scelta totalmente estranea alle regole.

Nessuno ha mai fatto questo prima, nessuno ha mai fatto questo dopo, né a Milano né in qualunque altra Procura d’Italia. Dunque è lecito denunciare quella clamorosa violazione delle regole, e soprattutto è legittimo interrogarsi sulle ragioni di un fatto così clamoroso ed anomalo. Perché si volle quell’unico Gip, visto che è quel Giudice che decide se accogliere o meno le richieste di arresto o di sequestro o di intercettazione formulate dagli inquirenti, ed è suo il compito di controllare la legittimità delle indagini? E che dire dell’uso della qualificazione giuridica del fatto per ottenere confessioni o dichiarazioni accusatorie?

L’imprenditore che è sospettato di aver dato denaro al politico, sa che se nega il fatto sarà considerato corruttore, e come tale andrà a San Vittore; se accusa si salva, perché il premio sarà di considerarlo vittima di una concussione del politico. Ed anche qui, siamo fuori da ogni regola di uno stato di diritto, perché la qualificazione giuridica del fatto non è, ovviamente, uno strumento di polizia. E mentre l’indagine montava con questa idea e questa pratica delle regole procedimentali, ci si rese progressivamente conto che essa si stava trasformando in qualcosa di assolutamente inedito. Una Procura della Repubblica aveva tra le mani le sorti della vita politica ed istituzionale del Paese. Ciò accadde grazie alla formidabile sinergia sapientemente creatasi con gli organi di informazione.

Per i quali i quotidiani arresti di politici, imprenditori, pubblici amministratori, costituivano materiale di prima scelta per appassionare legioni di lettori o telespettatori. È esattamente questa l’inchiesta giudiziaria che sposta clamorosamente l’attenzione mediatica e della pubblica opinione dal processo alla indagine, dalla sentenza alla incriminazione. È l’anticipazione della potestà di giudizio, agli occhi della pubblica opinione e della società civile, dal Giudice al Pubblico Ministero. Che decide così, in una inchiesta-monstre sulla politica italiana, la vita e la morte non più di alcuni dirigenti, ma di intere storie di leaders e di partiti politici, modificando equilibri e determinando cruciali scelte istituzionali.

Non si torna più indietro da un potere così immenso, così totale, così incontrollabile; è stata questa la vera eredità tossica di Tangentopoli. È da allora che le Procure sono diventate il soggetto regolatore della vita politica ed economica del Paese. È da allora che la gente si è abituata a pensare che un arresto equivale ad una condanna. È da allora che la cronaca giudiziaria ha perso ogni interesse per il processo, cioè per il luogo deputato a verificare la fondatezza dell’accusa. È da allora che un politico raggiunto da un’accusa deve concludere la sua carriera politica, a prescindere da ogni successiva verifica di fondatezza.

È da allora che è definitivamente saltato ogni equilibrio tra i poteri dello Stato, tutto a favore nemmeno del potere giudiziario, ma di una parte di esso, cioè del potere dei Pubblici Ministeri. È da allora che la rappresentanza politica ed associativa della Magistratura è in mano ai Pubblici Ministeri, pur essendo costoro nemmeno il 20% dei 9000 magistrati italiani. È da allora che una Procura della Repubblica vale dieci ministeri, e dunque diventa oggetto non di assegnazione di merito ma di conquista politica da parte di questa o quella fazione della magistratura italiana. Con ciò che ne è conseguito, e che è oggi testimoniato dalla clamorosa crisi di credibilità ed autorevolezza della stessa magistratura italiana. Questa è stata Tangentopoli, questo è il disastro che ci ha lasciato in eredità. Ovviamente senza che il problema della corruzione politica si sia, da allora, modificato di una virgola. Auguri.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

1992, Michele Serra, direttore di Cuore: "Quel titolo che non rifarei". La Repubblica il 17 febbraio 2022.

Nel 1992 Michele Serra era direttore del settimanale satirico "Cuore", che commentava i fatti di Mani Pulite con titoli sarcastici passati alla storia. La clip è tratta dal documentario di Antonio Nasso "1992 - L'anno del diluvio".

Bene Michele Serra su Mani pulite. Non è mai tardi per piangere sul sangue versato. ANDREA MARCENARO su Il Foglio il 18 febbraio 2022.  

L'intellettuale ha ammesso che non farebbe più quel titolo su Cuore (vale a dire sull’Unità) così formulato: "Scade l’ora legale, panico tra i socialisti". E sbaglia chi gli rinfaccia questo e quello.

Scade il trentesimo anniversario di Mani pulite e ciascuno tira il bilancio che ritiene più opportuno. Evito di far presente il mio. Ma non nego di aver ricordato in particolare i 41 suicidi dovuti a quella stagione. Ed essendo un inguaribile fazioso, non nego di aver ricordato con particolarissimo dispiacere i suicidi del segretario socialista di Lodi Renato Morese, del deputato socialista Sergio Moroni, del manager socialista Gabriele Cagliari e del segretario socialista Bettino Craxi, vittima quest’ultimo di un omicidio ma in realtà, per alcune somiglianze, perfino di un suicidio sui generis. E mi scuso con i troppi non nominati. Bon. E’ stato con particolare piacere, perciò, che ho ascoltato e letto la dichiarazione di Michele Serra dove l’importante intellettuale di sinistra ammetteva ieri che non farebbe più quel titolo su Cuore (vale a dire sull’Unità) così formulato: “Scade l’ora legale, panico tra i socialisti”. Con trent’anni di ritardo, però, hanno voluto sottolineare alcuni. Non è importante. Aggiungendo che s’era fatto prendere dalla foia dell’opinione pubblica, gli hanno contestato altri, laddove era proprio lui a eccitarne una parte. E anche questo, vero o no che appaia, importante non è. La cosa importante è questa: mentre sul latte versato piangere resta inutile, beh, sul sangue versato non è mai troppo tardi.

Andrea Marcenaro. E' nato a Genova il 18 luglio 1947. E’ giornalista di Panorama, collabora con Il Foglio. Suo papà era di sinistra, sua mamma di sinistra, suo fratello è di sinistra, sua moglie è di sinistra, suo figlio è di sinistra, sua nuora è di sinistra, i suoi consuoceri sono di sinistra, i cognati tutti di sinistra, di sinistra anche la ex cognata. Qualcosa doveva pur fare. Punta sulla nipotina, per ora in casa gli ripetono di continuo che ha torto. Aggiungono, ogni tanto, che è pure prepotente. Il prepotente desiderava tanto un cane. Ha avuto due gatti.

Giampiero Mughini per Dagospia il 19 febbraio 2022.

Caro Dago, mi è piaciuta molto la pagina odierna del “Fatto” dedicata alla questione se sì o no l’ex direttore di “Cuore”, l’ottimo Michele Serra, ha fatto bene a dirsi “pentito” di quando il suo giornale _ trent’anni fa _ aveva fatto un titolo spregiante sul Bettino Craxi su cui erano piovute le accuse di Tangentopoli. E del resto sono tanti i sintomi che ci dicono come Serra oggi non sia più l’uomo che era trent’anni fa. E come potrebbe essere diversamente se uno ragiona e guarda le cose con un altro e più maturo punto di vista? Solo gli imbecilli non cambiano mai idea.

Gli ex collaboratori del “Cuore” intervistati dal “Fatto”, o meglio la più parte di loro, ritengono che quello di esagerare era il mestiere del “Cuore” e che quei loro titoli e quelle loro vignette andavano incontro allo spirito del tempo, il che è indubbio. L’ottimo Claudio Sabelli Fioretti dice che non esiste “la satira buona” e che il loro giornale non poteva non nutrirsi di titoli borderline. Dovevano far ridere, e il loro pubblico di quello rideva: di titoli sfregianti nei confronti del “cinghialone” Bettino Craxi, il politico che aveva avviato nei confronti del Pci “berlingueriano” una sfida culturale di cui i fatti dimostreranno che aveva ragione su tutta la linea. Ci provi qualcuno a dimostrarmi il contrario. Ci provi. 

Certo che la satira ha il diritto di esagerare nei confronti di chi non sta simpatico agli autori della satira. In una sua rubrica di trent’anni fa il “Cuore” mi elesse come “lo scemo della settimana”. E questo perché avrei dichiarato che alle elezioni per il sindaco di Roma il mio voto lo avrei dato a Gianfranco Fini (candidato della destra) e non a Francesco Rutelli (candidato della sinistra). Ora in punta di fatto si fosse votato duemila volte il sindaco di Roma, duemila volte io avrei votato Francesco (come del resto ho fatto), che stimo molto oltre che essere il padrino di suo figlio.

“Cuore” aveva esagerato? No, aveva mentito. Il fatto è che io stavo antipatico al loro pubblico e dunque perché mai non infilzarmi? Telefonai a Serra con un tono di voce che ancora ne stanno tremando le mura della redazione di “Panorama” di cui ero un giornalista. Serra mi disse che glielo avevano detto in quattro che io avrei votato Fini. E comunque mise sul giornale la mia smentita, aggiungendo di suo che Rutelli era mal messo se gli arrivava persino il voto di uno come me. Se lo perdono? Ma certo che sì, il Serra di oggi mi piace moltissimo.

Laddove non perdono un altro degli autori del “Cuore”, il quale era nel frattempo trasmigrato su “Repubblica”, dove firmò un corsivo in cui in buona sostanza mi diceva che io non conoscevo la lingua italiana. C’era che durante una trasmissione televisiva io aveva pronunziato il termine “càrisma” con l’accento sdrucciolo e non “carìsma” come viene pronunziato quasi sempre. Si tratta difatti di un termine nato nella lingua greca (“càrisma”) e poi passato nella lingua latina (“carìsma”).

Sta a te pronunziarlo come vuoi e preferisci, ciò che il semianalfabeta che voleva offendermi non sapeva. Ne scrisse come se da un reietto quale il sottoscritto (ero l‘autore di “Compagni addio”) non ci si poteva aspettare che conoscessi la lingua italiana. Ebbene, io non l’ho mai incontrato in questi trent’anni. Ove ciò avvenisse e lui non mi chiedesse scusa degli insulti di trent’anni fa, gli farò fare il giro di piazza Navona a calci in culo. Proprio perché il sacrosanto diritto alla satira eccessiva qui non c’entra affatto. 

Il giudizio su Mani pulite passa per quei quesiti…Il referendum, in realtà, sarà un plebiscito sugli effetti della stagione di Tangentopoli. Francesco Damato su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Consulta voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede.

A «Ma alla fine “Mani Pulite” vi è piaciuta?» Ecco la vera domanda dietro ai 5 quesiti

Il referendum, in realtà, sarà un plebiscito sugli effetti della stagione di Tangentopoli

Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Corte costituzionale voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede. E che – quasi illuminando l’altra faccia della luna – potremmo così formulare, anche a costo di scandalizzare i giudici costituzionali, a cominciare dal loro presidente Giuliano Amato, “sottile” in dottrina e in tante altre cose, compresa la politica da lui servita come sottosegretario, ministro e due volte capo del governo: siete scontenti o no degli effetti di “Mani pulite”, di cui si celebra quest’anno il trentesimo anniversario?

Se siete scontenti, come d’altronde lo fu persino l’ex capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli scusandosene pubblicamente alla presentazione di un libro evocativo scritto da Paolo Colonnello, uno dei cronisti giudiziari che le aveva raccontate più diligentemente, potete tranquillamente rispondere si alla proposta di abrogare le norme che le avevano permesse, o sopraggiunte per rafforzarne il risultato complessivo. Che fu quello di sottomettere la politica alla giustizia, rovesciando i rapporti di forza voluti dai costituenti, a cominciare dall’amputazione dell’immunità parlamentare scritta nel testo originario dell’articolo 68 della Costituzione per finire con la violazione largamente consentita a quel poco rimastone ancora in vigore, specie in materia di intercettazioni. Luciano Violante, promotore di quella modifica costituzionale, se n’è appena un po’ pentito sul Foglio.

Se non siete invece scontenti, o addirittura siete pienamente soddisfatti delle esaltazioni che ancora si fanno di quelle gesta, potete tranquillamente rispondere no all’abrogazione delle norme che ancora consentono, per esempio, l’unicità delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti, il ricorso abbondante alla carcerazione preventiva, prima del processo cui spesso neppure si arriva col rinvio a giudizio, o l’applicazione retroattiva di norme, pene e sanzioni introdotte successivamente a “Mani pulite” per rafforzarne, diciamo così, la logica.

Mi riferisco, a quest’ultimo proposito, alla cosiddetta legge Severino, contestata da uno dei referendum per fortuna ammessi dalla Corte Costituzionale e costata nel 2013 il seggio del Senato a Silvio Berlusconi con votazione innovativamente palese disposta dall’allora presidente del secondo ramo del Parlamento, casualmente ex magistrato: Pietro Grasso.

Che ancora se ne compiace e casualmente, di nuovo – si è appena doluto come senatore semplice di maggioranza del disturbo che può procurare la campagna referendaria all’esame parlamentare in corso di alcune reali o presunte riforme parziali della giustizia che il governo di Mario Draghi ha ereditato dal precedente proponendosi però di modificarle in senso più garantista, o meno giustizialista, come preferite, considerando la militanza grillina dell’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Che è quello – per darvi un’idea riuscito a strappare all’epoca della maggioranza gialloverde il consenso anche di una senatrice e avvocata come la leghista Giulia Bongiorno all’introduzione, come una supposta in una legge contro la corruzione, di una norma per la soppressione della prescrizione all’arrivo della sentenza di primo grado.

Coraggio, elettori referendari: riflettete e datevi da fare con molta e molto buona volontà.

Tanto, Travaglio in cabina non vi vede, come si diceva di Stalin nelle storiche elezioni del 1948 stravinte dalla Dc contro il fronte popolare contrassegnato dall’immagine dell’incolpevole Giuseppe Garibaldi. Cito Travaglio perché egli ha appena scritto che quella di «Mani pulite», con tutti gli effetti che ne sono derivati, «fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra», testuale.

Piercamillo Davigo e la nemesi del Movimento 5 Stelle. I gemiti di dolore e la mistificazione della realtà di Marco Travaglio. Andrea Amata su Il Tempo il 19 febbraio 2022.

Nei giorni in cui si celebrano i fasti giudiziari del pool di Mani pulite, a 30 anni dal suo esordio investigativo, il gup di Brescia rinvia a giudizio Piercamillo Davigo contestandogli il reato di rivelazione di segreto di ufficio. L'ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura e protagonista dell'inchiesta Tangentopoli, che decapitò all'inizio degli anni '90 un'intera classe politica, dovrà sottoporsi a processo per aver diffuso dei verbali coperti da segreto istruttorio in merito alle dichiarazioni dell'avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della «loggia Ungheria». A Piercamillo Davigo viene attribuita la paternità di un precetto aberrante - «non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti» - che se fosse applicata al suo autore potrebbe rivelarsi una nemesi giuridica, riparatrice di una colpa culturale per aver diffuso negli anni una veemente cultura giustizialista che ha stroncato carriere politiche, facendo coincidere l'avviso di garanzia con il verdetto di colpevolezza. Il populismo giudiziario è stato incarnato dal Movimento 5 Stelle che ha elevato l'ex pm Davigo a simbolo della scorciatoia giustizialista, invocando mezzi sbrigativi con la carcerazione preventiva e anticipando la condanna con sommari processi mediatici allo scopo di maramaldeggiare sull'indagato in spregio al principio costituzionale della presunzione di innocenza. Questa costituisce un valore di civiltà giuridica che non dovrebbe essere intaccato dal cosiddetto fattore M, cioè dal combinato disposto di magistratura e media che si fondono in un processo di reciproca connivenza, enfatizzando l'incriminazione verso i titolari di cariche pubbliche e minimizzando l'eventuale accertamento dell'estraneità ai reati contestati.

Tuttavia, nel mentre si pregiudicano irreversibilmente le carriere politiche sin dall'introduzione dell'iter di indagine. Dalle fasi embrionali del procedimento giudiziale agisce sull'indagato la pressione del patibolo mediatico che precorre la sentenza di condanna che diventa soverchiante anche se l'impianto accusatorio dovesse essere smantellato dall'avvenuta assoluzione. Ieri, in un editoriale dalla elevata tossicità giustizialista, Marco Travaglio vestiva i panni della prefica, emettendo gemiti di dolore per il rinvio a giudizio del suo paladino Davigo e non risparmiandosi nella perorazione del modello giacobino di cui è il massimo rappresentante. La solita mistificazione della realtà che è figlia di una lettura ideologica degli eventi. Il rinvio a giudizio di Davigo non è una congiura ordita da chi vuole disinnescare le guardie e blandire i ladri come evoca la narrazione travagliesca. Semmai è la sconfitta di una demagogia giustizialista andata avanti per 30 anni, che ha inquinato le istituzioni e il dibattito pubblico, creando l'humus sociale per la nascita di un partito dove l'ignoranza e l'incompetenza sono criteri di accesso nella rappresentanza.

L'eredità del giustizialismo è stata raccolta dal Movimento 5 stelle che ha prosperato su quel sentiment, riconducendo ogni interpretazione politica alla matrice moralistica attraverso processi sommari a mezzo stampa e web, dove i tre gradi di giudizio vengono compressi e riassunti nell'avviso di garanzia equiparato alla colpevolezza. In tale primitiva semplificazione si cerca il sensazionalismo incriminante e non la giustizia, e i cittadini non sono concepiti come potenziale coscienza critica ma come tricoteuse in attesa di vedere la prossima testa rotolare. Ora, si salo scettro moralistico è abbagliante, sì, ma allo stesso modo scotta. Tanto. E chi decide di impossessarsene prima o poi si brucia. La realtà è questa qui. Davigo non è un colpevole che sta cercando di farla franca, al contrario è un innocente fino al terzo grado di giudizio nonostante ciò che pensi lo stesso Davigo e i suoi cantori.

Da Mani Pulite all’inchiesta di Brescia, Davigo: «Non cambio idea: ho fiducia nella giustizia italiana».  

L'ex pm di "Tangentopoli" parla del suo presente: «Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia». Il Dubbio il 15 febbraio 2022.

Mani Pulite iniziò il 17 febbraio del 1992. Trent’anni dopo si tirano le somme. Quale è la lezione di Tangentopoli? «Nel tempo ho compreso che le difficoltà che i miei colleghi e io abbiamo incontrato sono state enormi per una ragione semplice: non si può processare un sistema prima che sia caduto». A rispondere all’Adnkronos è Piercamillo Davigo, all’epoca uno dei pm dell’inchiesta del pool guidato da Francesco Saverio Borrelli che nel 1992 sconvolse l’Italia, il suo sistema politico ed economico.

«All’inizio delle indagini sembrava che i guasti fossero limitati ai partiti politici, neppure tutti, e alle imprese che avevano rapporti esclusivi o prevalenti con la pubblica amministrazione. In seguito tuttavia ci siamo resi conto che il malaffare era dilagato ben oltre questi limiti: le falsità contabili erano diffuse. Oggi l’evasione fiscale riguarda, secondo alcune stime, 12 milioni di persone, cioè un quinto della popolazione italiana».

«Il merito cede il passo a clientele, raccomandazioni e servilismo, sia nel settore pubblico, sia in quello privato. Nella cittadinanza non sembra esservi riprovazione e neppure la consapevolezza che tali comportamenti, oltre a essere illegali, sono dannosi».

Lei sta dicendo che non c’è più etica? «Nessun popolo, cioè l’insieme dei cittadini, può vivere se non vi è un’etica condivisa e in Italia non sembra più esserci. Fra i valori predicati e i comportamenti praticati vi è una differenza abissale».  «E anche nel caso in cui si conviene su alcuni principi, come per esempio “non rubare”, scattano poi i distinguo nella sfera pubblica e interviene lo spirito di fazione, così radicato in nel nostro Paese. Si ricorre a un cavilloso richiamo a norme costituzionali anche quando si va in campi diversi da quelli regolamentati dalla Costituzione».

A cosa si riferisce? «Quando a carico di qualcuno emergono indizi di reato, è frequente che costui (e i suoi sostenitori) invochino la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva di condanna (art. 27 della Costituzione), anche al di fuori del processo penale, quando non si discute di diritti dell’imputato, ma di valutazioni di opportunità o di prudenza nella vita sociale». «I cattivi non vincono sempre – sostiene Davigo – La consolazione, per quanto magra, è che neppure loro sono (per ora) riusciti a vincere. Le leggi per farla franca hanno attirato l’attenzione di organismi internazionali e i loro rilievi sono stati un deterrente a continuare su quella strada».

«Numerose leggi sono cadute sotto le pronunzie della Corte costituzionale che ne ha dichiarato l’illegittimità. I tribunali e le corti italiane hanno adottato interpretazioni volte a salvaguardare il sistema legale. Le elezioni hanno messo in evidenza una minore presa dei poteri locali e nazionali sull’elettorato, molto più volatile che in passato, consentendo anche un’alternanza di schieramenti al governo del Paese che è un’esperienza relativamente nuova in Italia».

Rimangono i poteri criminali e le loro collusioni con la politica e l’economia, i più difficili da affrontare. «La magistratura italiana ha fronteggiato varie emergenze come la criminalità organizzata, il terrorismo, la corruzione pervasiva e il degrado ambientale, senza riuscire a eliminarle del tutto. Ma anche senza farsene travolgere.

Dopo la vicenda Palamara che accade? «Il discredito gettato sull’ordine giudiziario dalle intercettazioni operate nei confronti di Luca Palamara, e ancor più la sua linea difensiva di tentare di accreditare l’idea che i suoi comportamenti fossero condivisi e perpetrati da larga parte della magistratura -cosa non vera- richiederà molto tempo per essere superato». «Il bilancio complessivo rischia di assomigliare a uno stallo, in cui nessuno dei vari soggetti e dei loro valori riesce a prevalere sugli altri, e ciò è fonte di scoramento».

Lei stesso sta attraversando una vicenda giudiziaria complessa, non ancora chiarita: quella collegata alle dichiarazioni di Pietro Amara sull’esistenza della loggia massonica segreta “Ungheria” e alla sua iscrizione nel registro degli indagati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. A che punto è? «Attualmente sono in udienza preliminare che dovrebbe concludersi proprio il 17 febbraio con il rinvio a giudizio o con il proscioglimento. Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia e attendo il corso del procedimento» (di Rossella Guadagnini/Adnkronos)

Deciso il giudice che processerà Davigo: nel 1996 prosciolse Di Pietro. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie. Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Sarà il giudice Roberto Spanò il presidente del collegio che dal prossimo 20 aprile giudicherà Piercamillo Davigo, rinviato a giudizio dal gup di Brescia per rivelazione di atti di ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria e sui verbali dell’avvocato Amara consegnati all’ex componente del Csm dal pm di Milano Paolo Storari, che ha invece scelto il rito abbreviato, e che il sette marzo conoscerà il suo destino dopo che l’accusa ha chiesto per lui la condanna a sei mesi.

Roberto Spanò è lo stesso giudice che nel 1996 da gup prosciolse con una sentenza di non luogo a procedere Antonio Di Pietro, che era accusato a Brescia di abuso di ufficio e concussione. Spanò, motivando la sua decisione, parlò di «anemia probatoria» e «azzardato esercizio dell’azione penale» per smontare la ricostruzione dell’accusa. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie.

A 30 anni esatti da Tangentopoli. Hanno rinviato a giudizio Davigo, il più puro dei puri. Redazione su Il Riformista il 17 Febbraio 2022.

L’ex consigliere del Csm accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, su una presunta “Loggia Ungheria”, è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia Federica Brugnara. A 30 anni esatti dall’inizio dell’inchiesta di Mani pulite è ripresa a Brescia l’udienza preliminare nei confronti di Piercamillo Davigo.

Il direttore Piero Sansonetti ha commentato: “Hanno rinviato a giudizio Davigo. Piercamillo Davigo. Avete presente chi è? Torquemada, quello che doveva mandare a giudizio tutti, quello che diceva che quando si fa un’indagine gli indiziati possono o essere condannati o possono farla franca. Senza prendere neanche in considerazione l’ipotesi che potessero esistere innocenti”.

“Davigo ha frustato i politici, ha frustato gli imprenditori. Ha frustato tutti, anche i suoi colleghi. Si è sempre impancato per dire ‘Io sono la legge’, poi quando stava per andare in pensione voleva cambiare la legge perché voleva restare al Consiglio superiore della magistratura, è finito lui stesso non solo indagato ma rinviato a giudizio per aver rivelato un segreto di ufficio e per aver fatto conoscere e aver dato spazio non si sa bene a chi, in che modo e in che forma i verbali Amara che sono i verbali dell’interrogatorio di questo signore che dice cose pesantissime sulla magistratura“.

“Addirittura ipotizza che esiste una loggia che si chiama Loggia Ungheria, che sarebbe una specie di ‘Spectre’ che comanda la magistratura italiana. L’hanno rinviato a giudizio. Un pochino viene da ridere. E poi ripenso a Pietro Nenni, grande socialista, segretario del Psi per molti anni, partigiano combattente che diceva ‘Attenti puri, perché verrà uno più puro di voi e vi epurerà. Ecco qua, ci è caduto proprio Davigo”.

Tangentopoli 30 anni dopo, la parabola degli 'intoccabili' che fecero sognare l'Italia degli onesti. Piero Colaprico su La Repubblica il 17 febbraio 2022.  

Che cosa resta del pool Mani pulite: Di Pietro si è ritirato tra i vigneti, Davigo è rimasto impigliato nei verbali del caso Amara ed è in rotta con Greco, Colombo non crede più nel carcere 

Il pool 'Mani pulite', ei fu. A trent'anni di distanza dall'inchiesta che ha cambiato per sempre la storia d'Italia, è impossibile non osservare, con qualche sconcerto, l'amaro testacoda del più famoso gruppo di magistrati italiani. Cinque anni prima del cruciale 1992 era uscito un magnifico film, The Untouchables, Gli intoccabili: e c'era uno scherzoso manifesto, incollato dietro una porta del quarto piano, che lo citava.

Mani Pulite, l'avvocata Bernardini de Pace che difese la moglie di Chiesa: "Così il divorzio ci fece scoprire i suoi conti”. Luca De Vito su La Repubblica il 16 febbraio 2022.  

Parla la legale che seguiva Laura Sala, la moglie di Mario Chiesa, nella causa di divorzio: "Passammo gli estratti conto del marito alla procura, fu la ciliegina sulla torta per loro che stavano già indagando". 

L'avvocato Annamaria Bernardini de Pace ebbe un ruolo fondamentale nella vicenda di Mario Chiesa, il caso che dette il via a Tangentopoli. Da matrimonialista era la legale di Laura Sala, la moglie del presidente del Pio Albergo Trivulzio, nella causa di divorzio. E fu lei ad aiutare le indagini passando documenti importanti ad Antonio Di Pietro.

Mani Pulite 30 anni dopo, dalla scrivania alla porta rossa: cosa resta dell'ufficio di Craxi. Edoardo Bianchi su La Repubblica il 14 febbraio 2022.

Del vecchio studio di Bettino Craxi - da lui occupato dai tempi in cui era assessore della giunta di Milano fino alla fine della sua carriera politica -  rimangono solo la famosa porta rossa ormai sigillata e in disuso, le vetrate antiproiettile e le pareti in noce con gli infissi delle porte color magenta.

La famosa scrivania con la cassettiera e i mobili del suo salottino personale sono stati traslocati in un deposito del Comune, alle porte di Milano, in attesa di altro utilizzo. E l'ex assessore Lorenzo Lipparini, ultima persona ad aver adoperato la stessa scrivania del leader Psi, racconta: "Lo studio di Craxi verrà smantellato e messo a reddito. È destinato a fare spazio ad un albergo o a un'altra struttura in affitto". E' un pezzo di storia d'Italia, che in questi giorni torna alla memoria: il 17 febbraio del 1992, 30 anni fa, l'ingegner Mario Chiesa viene arrestato per una tangente alla Baggina, è l'inizio del terremoto politico e istituzionale di Mani Pulite.

"Quando mi è stato assegnato questo ufficio nel 2007 la scrivania era posizionata verso l’affaccio sulla Loggia dei mercanti”, ricorda l’attuale occupante dello studio, Dario Moneta, a capo della Direzione Specialistica Autorità di Gestione e Monitoraggio Piani del Comune di Milano. "Era una scrivania scomoda, alta e imponente. Poi è stata traslocata più volte fino a finire in un deposito comunale".

Da “la Repubblica” il 16 febbraio 2022.

Caro Merlo, se 30 anni fa non ci fosse stata Mani Pulite, l'Italia sarebbe molto differente? Marco Sostegni

Risposta di Francesco Merlo:

Tra le tante rievocazioni, spesso declamatorie, ho molto apprezzato nello speciale di Metropolis - l'ormai imperdibile programma di Gerardo Greco sul sito di Repubblica - il confronto tra Gherardo Colombo e il figlio di Gabriele Cagliari, il presidente dell'Eni che si suicidò in prigione nel 134° giorno di quella carcerazione preventiva di cui, dopo trent' anni, in Italia si continua ad abusare. (E sono persino peggiorate le già terribili carceri che violano la dignità invocata da Mattarella.)

Colombo, che ha invitato a cena Stefano Cagliari, ha detto con amara ironia che il 17 febbraio da ricordare non è quello del 1992, ma del 1600, quando fu bruciato Giordano Bruno. E mi pare che ci abbia voluto dire che non ci sono eroi della libertà in Mani Pulite. 

E arrivo alla domanda: penso che la corruzione della partitocrazia fosse soffocante e insostenibile, ma che fu una sbronza collettiva credere che l'indagine penale potesse liberarcene.

Mani Pulite svelò la corruzione politica ma non la risolse. E la si può vedere anche come una storia di eccessi: troppi reati, troppo carcere, troppa complicità tra i Pm e i giornalisti, troppi accanimenti. 

Paghiamo ancora quegli eccessi che ora confusamente affidiamo a una riforma impossibile e a 6 referendum. Con il bisogno di una giustizia che non riesce a diventare "giusta", dolentemente ci portiamo dietro un finto giornalismo che ancora spaccia per scoop i verbali di questura. 

Mani pulite trent'anni dopo. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 15 febbraio 2022.  

Il 17 febbraio del 1992 fa l’arresto di Mario Chiesa avviò l’indagine che travolse la Prima Repubblica. Fu una tangente da sette milioni di lire la prima scossa di un terremoto che avrebbe travolto la classe politica della Prima Repubblica e i più grandi gruppi industriali italiani, e che da Milano si estese in tutto il Paese. Quella mattina di trent'anni fa, il 17 febbraio 1992, primo giorno di Mani Pulite, nessuno poteva immaginare che l'arresto del socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, avrebbe sconquassato in pochi mesi il Pentapartito, coinvolto il Pci-Pds e macchiato anche la Lega in vorticosa ascesa al grido di "Roma Ladrona".

"Mazzette vere e personaggi da fumetto, così nacque il nome Tangentopoli". Piero Colaprico su La Repubblica il 15 febbraio 2022.

Era il 17 febbraio del '92 quando scoppiò il caso giudiziario Mario Chiesa e Pio Albergo Trivulzio. L'inchiesta Mani Pulite "andò avanti a un ritmo forsennato, cambiando radicalmente la storia d'Italia", racconta l'inviato di allora di Repubblica che cominciò a scrivere tra i primi del "Kennedy di Quarto Oggiaro". 

La parola Tangentopoli nasce prima di Tangentopoli. La storia è questa. Mentre finiva il 1991, viene arrestato dalla procura di Milano un funzionario comunale all'Urbanistica. Aveva inventato un metodo efficace per arrotondare lo stipendio. Al mattino si comportava da funzionario integerrimo, che nel palazzone di vetro e cemento affacciato sul traffico delirante di via Melchiorre Gioia, vietava ad amministratori, condomini, proprietari terrieri, architetti di ampliare verande e sottotetti e realizzare piccole e grandi costruzioni.

Piero Colaprico per “la Repubblica” il 15 febbraio 2022.

La parola Tangentopoli nasce prima di Tangentopoli. La storia è questa. Mentre finiva il 1991, viene arrestato dalla procura di Milano un dipendente dell'assessorato comunale all'Urbanistica. Aveva inventato un metodo efficace per arrotondare lo stipendio. Al mattino si comportava da funzionario integerrimo, che nel palazzone di vetro e cemento affacciato sul traffico delirante di via Melchiorre Gioia, vietava ad amministratori, proprietari terrieri e architetti di ampliare verande e realizzare piccole e grandi costruzioni. Ma al pomeriggio apriva una sua agenzia, a circa 400 passi di distanza. 

E là, non più mezzemaniche, bensì consulente in giacca di cammello, studiava le stesse pratiche che poi, come funzionario, sarebbe riuscito a far approvare. Si pagava ancora in lire: bastava un milione, vale a dire 500 euro attuali, per sentirsi dire sì quando si erano incassati una serie di no. Insomma, un'idea criminale, con una dinamica involontariamente umoristica.

Il funzionario-consulente era andato avanti un bel po' di tempo a inglobare piccole e grandi somme quotidiane, finché la sua epopea era finita all'improvviso. E si era ritrovato a San Vittore. Mi era sembrata una vicenda meno brutale di altre simili, con una dinamica degna delle ideone sballate di un eroe dei fumetti: Paperino. E così, Paperino-Paperopoli. E Tangenti-Tangentopoli. Milano, "la città della tangenti": sarebbe meglio dire "la città delle tangenti che venivano scoperte".

Non è che in altre città non ci fosse la stessa, se non una più grave corruzione. In ogni caso, Milano non era esente dal tema, che Repubblica seguiva con grande attenzione, anche per decisione del direttore Eugenio Scalfari. Cominciai a scrivere in vari articoli queste "cronache di Tangentopoli". Non se ne accorse nessuno. Fra Milano e l'Italia intera si ripeteva infatti il medesimo schema giudiziario: veniva scoperto un corrotto, si indagava su politici, amministratori e funzionari, e qualcuno di loro entrava in carcere. Nessuno o quasi accettava però di rispondere agli interrogatori dei magistrati.

Quel sistema, che verrà definito dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro «dazione ambientale», non veniva intaccato. Mai. Ma l'Italia è anche il Paese dei "Finché". Uno crede sempre di avere successo, potere e potersela cavare, finché: finché, in un pomeriggio buio e freddo, il 17 febbraio 1992, viene arrestato nel suo ufficio il socialista Mario Chiesa. Era sfottuto come il "Kennedy di Quarto Oggiaro", dal nome di un quartiere di periferia, aveva non nascoste ambizioni da sindaco e millantava una forte amicizia con i Craxi. Era il presidente del Pio Albergo Trivulzio. La "Baggina", casa di riposo amata dai milanesi, un'istituzione dotata di un grande patrimonio immobiliare.

Chiesa aveva intascato le banconote di una tangente senza poter immaginare di essere caduto in trappola. Accanto alla filigrana delle 50mila ci sono le firme di un capitano dei carabinieri, Roberto Zuliani, e di Pietro. Il caso viene seguito dai cronisti giudiziari. Sono un inviato speciale da oltre due anni, nei primi giorni non me ne occupo, finché - c'è sempre il finché - vengo convocato dall'allora capo redattore Guido Vergani, che chiude la porta e dice: «Piero, non puoi dire di no. Devi darci una mano, a Scalfari non piace come stiamo lavorando, ci ha chiesto di dare il massimo in questo servizio. Tanto, quanto durerà? Un paio di mesi al massimo, poi torni a girare».

Non avrei detto "no" comunque. Quando con il collega del Giorno Paolo Colonnello, restando cinque ore davanti a San Vittore, scopriamo che Mario Chiesa sta parlando, quel termine mi rispunta. E lo riutilizzo nelle settimane successive. Cronache di Tangentopoli. Nessuno se lo fila. Sarà infatti un ignoto titolista delle cronache nazionali di Repubblica a "spararlo" in grossi caratteri. Ed è così che entra nell'immaginario. 

Le televisioni lo riprendono subito, mentre i giornali, specie i diretti concorrenti, ci mettono un po' di più. Poi cedono. Com' è noto, l'inchiesta non durò "due mesi", ma anni, e il termine ha purtroppo figliato i vari Calciopoli, Concorsopoli e Vallettopoli, come se "poli", invece di "città", significasse "scandalo", ma in qualche modo è rimasto nel tempo.

Viceversa, la storia dell'inchiesta subisce continue riletture, aggiustamenti, ritocchi. Anche se la sostanza vera non cambia: c'era un fortissimo e ramificato sistema di corruzioni negli appalti, nelle assunzioni, negli incarichi, in grado di uccidere ogni merito, pesare sui bilanci pubblici, sostenere le casse dei partiti, e anche di non pochi singoli personaggi. Tangentopoli, per l'appunto. L'edificio simbolo Il palazzo di giustizia di Milano.

Tangentopoli, Colombo e Cagliari jr: “Una cena per ricordare che senso ha la giustizia”. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 15 febbraio 2022.  

Il confronto tra il pm del pool e il figlio di un indagato morto suicida in carcere tre giorni prima di Raul Gardini. “Sembrava tutto più grande di noi”. Gherardo Colombo, uno dei magistrati del pool di Mani Pulite, e Stefano Cagliari, il figlio di Gabriele Cagliari, l'ex presidente di Eni morto suicida in carcere, il 20 luglio 1993, dopo 134 giorni di carcerazione preventiva. Si ritrovano trent'anni dopo il primo arresto di Tangentopoli a Metropolis Live, la trasmissione sul sito di Repubblica condotta da Gerardo Greco, insieme al vicedirettore di Repubblica Carlo Bonini e al direttore dell'Espresso Marco Damilano.

Mani Pulite, quando Gabriele Cagliari accusò i magistrati prima di suicidarsi. Le missive di Gabriele Cagliari, suicida in carcere e indagato in "Mani Pulite", contro i giudici e i pm milanesi. Lettere che sono un atto di accusa contro i metodi dell'epoca. Il Dubbio il 16 febbraio 2022.

Trent’anni fa iniziò Mani Pulite. Lunedì 17 febbraio 1992, nel suo ufficio in via Marostica 8 a Milano, al Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa fu arrestato per concussione per una tangente da 14 milioni di vecchie lire che gli venne consegnata dal giovane imprenditore Luca Magni. Ma in carcere finirà anche Gabriele Cagliari. Ecco una delle lettere scritte dall’ex presidente dell’Eni, nel luglio del 1993, in cella ai suoi familiari e al suo avvocato. Un atto di giustizia contro le decisioni della magistratura dell’epoca. Le missive sono tratte dal sito gabrielecagliari.it

Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Ghiti, sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto.

Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto. Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun documento che possa essere alterato. Neppure potrei fuggire senza passaporto, senza carta di identità e comunque assiduamente controllato come costoro usano fare. Per di più ho 67 anni e la legge richiede che sussistano oggettive circostanze di eccezionale gravità e pericolosità per trattenermi in condizioni tanto degradanti.

La lettera di Gabriele Cagliari al suo avvocato

Caro Avvocato, da quattro mesi ormai siamo in prima fila, meglio in prima linea, bersagliati da provocazioni e ingiustizie. Non è ulteriormente tollerabile essere colpiti da questi provvedimenti, illegittimi e applicati in modo discriminatorio. Questa dei magistrati è un comportamento che ha come unico scopo quello di coprirci di vergogna e di rancore. Deve assolutamente cessare.

La ringrazio per tutto il brillante lavoro che ha svolto e voglia con questo, ringraziare anche il proc. dott. Gianzi. Vi prego di stare vicini a mia moglie e di aiutarla a superare questo momento per lei molto difficile, tragico. Le confermi, La prego, che le ho inviato una lettera per posta, per lei e i ragazzi. Ho scritto ai miei cari, e confermo qui, che intendo che il mio corpo sia cremato e le ceneri siano affidate a mia moglie. Di nuovo grazie. Una cordiale stretta di mano. 

TANGENTOPOLI. ESCE “L’ULTIMA NOTTE DI RAUL GARDINI”. PAOLO SPIGA su La Voce delle Voci il 15 Febbraio 2022.

“L’ultima notte di Raul Gradini” è il titolo di un fresco di stampa per le edizioni di ‘Chiarelettere’. Lo firma il giornalista e scrittore Gianluca Barbera. Ecco, di seguito, i passaggi salienti di una intervista rilasciata a Sara Perinetto per ‘Affaritaliani’.

“Nel libro ripercorro un fatto reale grazie a un protagonista fittizio, Marco Rocca, giornalista d’inchiesta che segue la vicenda Enimont, innestata nel filone Mani Pulite, il processo chiave di tutte le inchieste nate da Tangentopoli e che riguarda una ipotetica maxitangente da 150 miliardi che i Ferruzzi avrebbero pagato ai partiti. Rocca entra in scena la mattina del 23 luglio 1993 a Palazzo Belgioioso, dove è appena stato trovato il cadavere di Raul Gardini. Subito si rende conto che le indagini verranno archiviate per suicidio, ma non è convinto che questa sia la verità”.

“La sentenza che stabilisce che si è trattato di suicidio è legata a un elemento probatorio chiave ma ambiguo, un bigliettino trovato sul comodino con cui Gardini dice addio ai propri familiari. La prima perizia stabilisce che la scrittura era sì di Gardini, ma di 11 mesi prima. La seconda data il bigliettino a pochi minuti prima della morte, il cui orario però non è mai stato accertato”.

“Sulle mani di Gardini, poi, il guanto di paraffina non ha rivelato polvere da sparo. I magistrati dell’epoca dissero che c’era stato un errore nel rilevamento tecnico: non sarebbe una novità, ci sono spesso errori nelle inchieste italiane che inquinano il quadro indiziario. Altro elemento dubbio è la pistola, all’inizio nelle mani di Raul e in un secondo momento sul tavolo: chi l’ha spostata?”.

“Per tutto il romanzo le due ipotesi, omicidio e suicidio, rimangono in equilibrio, ma alla fine non mi sottraggo e propongo, attraverso il parere del protagonista, una ricostruzione plausibile dei fatti. Diciamo che il protagonista scopre la verità, che però, comunque, rimane ambigua. Ma questo libro non è solo un giallo: la mia intenzione era raccontare la storia familiare dei Ferruzzi, che è importante e non è stata mai raccontata”.

“Alla morte del fondatore Serafino Ferruzzi, nel 1979, anche quello un evento misterioso, il genero Raul Gardini viene messo a capo di questo gruppo, che porterà a essere leader anche internazionale”.

“E’ all’apice fino alla fine degli anni ’80 ma poi decide di mettere gli occhi su Eni, la cassaforte dei partiti, la più grande azienda statale italiana. Gardini dà così vita ad Enimont, una joint venture tra le due società più grandi della chimica, Eni e Montedison, di cui il 40 per cento è controllato da Gardini, un altro 40 per cento da Eni e il restante 20 per cento sono azioni sul mercato. Quindi nessuno comanda”.

“Questa operazione produce un guadagno per la Montedison di Gardini, su cui avrebbe dovuto pagare mille miliardi di lire di tasse allo Stato. Gardini aveva acconsentito all’operazione in cambio di uno sconto su queste tasse: una promessa che De Mita fa ma non riesce a mantenere. Allora Gardini comincia a comprare le azioni sul mercato diEnimont per acquisirne il controllo, fino a dichiararlo pubblicamente, ‘la chimica sono io’. Craxi se lo lega al dito e blocca tutto. Da lì nasce la maxi tangente con cui Gardini voleva sbloccare la situazione, ma la famiglia, terrorizzata dalla politica, lo esautora dai suoi incarichi”.

“Quella mattina Gardini doveva recarsi in procura per parlare con Antonio Di Pietro. Per lui è stato un colpo durissimo perché la testimonianza di Gardini avrebbe cambiato la storia d’Italia, rivelando dove erano andati a finire quei 150 miliardi della maxi tangente”.

“Se davvero è stato un suicidio, è spiegato dal fatto che Gardini in quel periodo era molto teso, aveva passato tutto il giorno precedente con i propri avvocati. L’idea di finire in prigione lo terrorizzava, anche perché in quel periodo i magistrati usavano il carcere preventivo per far leva sui testimoni. Tre giorni prima era morto Gabriele Cagliari, suo concorrente, arrestato per tangenti e tenuto in uno stato psicologico di pressione per indurlo a parlare e che invece l’ha portato al suicidio”.

“In realtà, non è stato chiarito praticamente nulla: primo fra tutti, non si sa dove siano finiti i due terzi della madre di tutte le tangenti”.

La Voce ha scritto diversi pezzi sul giallo della morte di Gardini. Potete   trovare i principali cliccando sui link in basso. E leggerete cose ancora oggi molto interessanti suo ruolo giocato da Antonio Di Pietro in quella tragica story.

Raoul Gardini, gli insulti alla vedova a di un morto suicida: che roba è stata Mani Pulite. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 21 febbraio 2022.

Il 23 luglio i funerali dell'ex presidente dell'Eni Gabriele Cagliari sfilavano mentre una la folla di scalmanati gridava «ladri», «vergogna» e «nessuna pietà» alla vedova Bruna Cagliari e i suoi figli Silvano e Stefano, che stavano raggiungendo il feretro. Il sindaco di Milano Marco Formentini aveva rifiutato di partecipare con la benedizione di Umberto Bossi, che quel giorno però disse una frase profetica su Bettino Craxi: «I re, quando scoppiano le rivoluzioni, non sono mai destinati alla galera. O salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l'esilio». Al viaggio definitivo per Hammamet mancava ancora un anno. Alle 9.40 le esequie erano ancora in corso quando l'agenzia Ansa batteva una notizia: «Gardini si è suicidato». La ricostruzione è ormai definitiva ma apre squarci inquietanti. Gardini si sparò con la Ppk calibro 7,65 fuori produzione dopo aver letto i giornali che avevano accuse come queste: "Tangenti, Garofano accusa Gardini", "Ferruzzi allo sbando, ora tremano i big". A pagina quattro: "Cinque eccellenti nel mirino di Mani pulite", e c'era la sua foto. I giornali traevano la notizia da alcune anticipazioni del settimanale Il Mondo che pubblicava un articolo scritto da una giornalista sotto pseudonimo che in realtà era Renata Fontanelli del manifesto. I verbali li aveva avuti solo lei dal carabiniere Felice Corticchia, anche perché il pool dei giornalisti si stava un po' sfaldando. Quando lo trovarono, affianco aveva i giornali e un biglietto con scritti i nomi della moglie e dei figli, più un «grazie». Il proiettile gli aveva trapassato il cranio, ma era ancora vivo. Morì alle 9.07.

PUNTI DI VISTA

Antonio Di Pietro scese dall'auto tra gli applausi mentre poco più in là c'era il funerale di Cagliari. Racconterà sempre che una mancanza di tempestività nell'arrestare Gardini fu uno dei grandi errori della sua vita. Lo dirà, però, cambiando sempre versione. "Il mio errore su Raul Gardini. Non lo arrestai per una promessa": questo per esempio fu il titolo di un'intervista che rilasciò ad Aldo Cazzullo del Corriere del 21 luglio 2013, e già qui i fatti appaiono distorti: sia perché Gardini figurava già formalmente arrestato (l'ordine era firmato da tempo, come ben sapevano il pm Francesco Greco e il gip Italo Ghitti) e sia perché era stato lo stesso Di Pietro, in precedenza, a spiegare che era stato semplicemente un problema di orario: varie versioni si accavallano in "Intervista su Tangentopoli" (Laterza, 2000, con Giovanni Valentini) ene "Il guastafeste" (Ponte alle Grazie, 2008, con Gianni Barbacetto) e in "Politici" (Ponte alle Grazie, 2012, con Morena Zapparoli Funari) più qualche intervista che prefigura, direbbe Di Pietro, una reiterazione del reato di omissione. Di Pietro disse ad Aldo Cazzullo, nella citata intervista: «Il 22 luglio, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso, e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Domanda: ma voleva arrestarlo o no? Risposta: «Con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità». Il quadro prefigura un Di Pietro quasi umano che adottava le manette come remota ipotesi. Questa versione, data anche in passato, venne sintetizzata verso la fine dell'intervista: «Avrei dovuto ordinare di arrestarlo. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data». Sul valore della parola di Di Pietro i testi a discarico riempirebbero uno stadio, ma vediamo come andò davvero. Già nel libro scritto con Giovanni Valentini cambia tutto: «C'erano perquisizioni da eseguire, si rischiava di cominciare la sera e di finire a notte inoltrata, per cui decisi di rinviare tutto all'indomani». Rinviare che cosa? L'arresto già firmato: la parola data non c'entrava niente.

RICHIESTA RESPINTA

Ma per comprendere lo stato d'animo di Gardini (di una persona, ossia, poi giunta a suicidarsi) occorre tornare alla prima estate 1993, quando il finanziere aveva ragione di pensare che avrebbe potuto fare come Cesare Romiti e Carlo De Benedetti e Romano Prodi: accordarsi con la Procura e presentare un decoroso memoriale al momento giusto, possibilmente non gravemente omissivo come si rivelò quello di Cesare Romiti. Ma per Gardini c'erano segnali di presagio diverso: venne a sapere che il pm Francesco Greco (non Di Pietro: Francesco Greco) aveva chiesto un primo mandato d'arresto contro di lui, e lui, Gardini, quasi non ci credette: il gip Antonio Pisapia, in ogni caso, respinse la richiesta. Greco tornò tuttavia a lavorarci, sinché un altro gip, Italo Ghitti, il 16 luglio accolse il mandato di cattura, che però rimase sospeso come una spada di Damocle. Il 16 luglio 1993, dunque, Gardini venne a sapere che il mandato d'arresto contro di lui era già stato firmato: e a quel punto, coi suoi due avvocati, predispose qualcosa di più di un decoroso memorialetto: si dichiarò disponibile a parlare di tutta la vicenda Enimont e anche di soldi ai partiti e di paradisi fiscali. Chiese un interrogatorio spontaneo, come altri avevano ottenuto, e mandò l'altro avvocato, Dario De Luca, in avanscoperta. Con una lettera: «Con la presente desidero portare a Loro conoscenza la mia più ampia e illimitata disponibilità a ragguagliare le S.V. Ill.me su tutti i fatti che saranno ritenuti per Loro di interesse».

Il riferimento era alle mazzette Enimont e a «dazioni di denaro a partiti politici e, più specificatamente, a personalità politiche in occasione di vicende attinenti la joint-venture Enimont ein altre occasioni. Si leggeva che avrebbe spiegato il sistema che consentiva alla Montedison di finanziare le attività con sedi nei paradisi fiscali di mezzo mondo e che avevano alimentato gli ingenti fondi neri della contabilità parallela del gruppo Ferruzzi. Non era poco, anzi. Ma quando l'avvocato De Luca tornò con le pive nel sacco, il segnale si fece preciso: non volevano interrogarlo, volevano espressamente arrestarlo. O meglio: volevano interrogarlo, arrestarlo e poi reinterrogarlo da galeotto. Vent' anni dopo, nell'intervista al Corriere, Di Pietro la girò così: «Io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo». Sì, ma per arrestarlo: tanto che è sempre il contraddittorio Di Pietro, nel libro con Valentini, a precisare che «Gardini non viene sorpreso dal provvedimento restrittivo, i suoi legali lo informano già dalla sera prima». Gardini, in sintesi, fu lasciato "in cottura" per un tempo insopportabile con un mandato d'arresto sopra il cranio; il 20 luglio, di passaggio, apprese che il manager socialista Gabriele Cagliari si era suicidato nello stesso luogo in cui Di Pietro lo voleva spedire, e questo con un mandato d'arresto che intanto era sempre lì, sospeso. Sinché i legali confermarono a Gardini che il mandato d'arresto era firmato, e che la galera doveva farsela.

LETTURE FATALI

Dissero che avevano ottenuto di rimandare l'arresto al giorno dopo, ma, stando a Di Pietro, fu solo per evitare che le perquisizioni proseguissero sino a notte: cosìcchè, con le sue gambe o col cellulare della polizia, Gardini l'indomani sarebbe andato in procura e poi in galera. Ma non resse la tensione. Il mattino dopo lesse i giornali con le confessioni di Garofano pubblicate prima ancora che lui potesse raccontare la sua versione, vide la prova della verità: non ci sarebbe stato un margine di trattativa, volevano arrestarlo e basta, non c'era una disponibilità che lui potesse offrire senza l'umiliazione delle manette. Si uccise. La reazione a caldo di Di Pietro (il Corriere la riporta) fu questa: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino». Aveva ragione: qualcuno si ammazzava prima ancora di finirci. E comunque, per farsi perdonare, Di Pietro, nello stesso giorno, il 23 luglio, mandò ad arrestare parenti e amici di Raul Gardini, tra i quali Carlo Sama e Sergio Cusani. Il gip Italo Ghitti fu piu che d'accordo: «Eccezionalmente», dirà, «su quei provvedimenti ho indicato l'ora, Le 9 del mattino. Pochi minuti dopo il dramma. Per testimoniare che, nonostante il dolore, la giustizia deve andare avanti».

Più che la giustizia, gli arresti. Il lettore potrà farsi l'idea che vuole circa la perdurante excusatio non petita di Antonio Di Pietro. Ma nulla esclude che Gardini quest' ultimo potesse anche temere, una volta incarcerato, che dalle fogne del Paese potesse tracimare di tutto. E qui si torna al dossier mafia -appalti che probabilmente fece saltare in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si ricordano, succintamente, le parole del pentito Antonino Giuffrè: «Una indagine dei Carabinieri mise a nudo il legame strettissimo tra Cosa Nostra, il mondo imprenditoriale e quello politico per la spartizione delle commesse. Falcone e Borsellino capirono subito l'importanza di questo legame... Il "tavolino" controllato da Angelo Siino sedevano personaggi molto importanti... L'ingegnere Bini, il tecnico che si occupava di calcestruzzi per conto della Ferruzzi, divenne il punto di collegamento con i mafiosi e con i politici». Si ricorda pure quanto disse a Paolo Borsellino, nei suoi ultimi giorni, il pentito Leonardo Messina: «Totò Riina i suoi soldi li tiene nella Calcestruzzi». Angelo Siino, il "ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra", a proposito del suicidio di Gardini, sarà nondimeno esplicito: «Credo che abbia avuto paura per le pressioni del gruppo mafioso sul carro del quale era stato costretto a salire, quello dei fratelli Nino e Salvatore Buscemi, legatissimi a Totò Riina... Secondo me Gardini ha capito che non era più in grado di sganciarsi dall'orbita mafiosa in cui era entrato». Mani pulite non è storia vecchia. È storia nuova, tutta da riscrivere.

Tangentopoli: in un libro idee, cronache e interviste trent'anni dopo l'inchiesta. La Repubblica il 14 febbraio 2022.

Un crocevia della storia, uno snodo cruciale per il Paese che segna un prima e un dopo. A trent'anni dall'inizio dell'inchiesta che portò alla fine dei partiti figli del dopoguerra, svelando il sistema corruttivo che li teneva in piedi, Repubblica torna su quel biennio caldissimo. Lo fa con un libro, "L'Italia di Mani Pulite" (in edicola da giovedì 17 febbraio in abbinamento a Repubblica, L'Espresso o La Stampa a 14,90 euro più il prezzo della testata) che, in circa 400 pagine, raccoglie gli articoli più significativi di quei lunghissimi mesi, scritti dalle firme che quotidianamente raccontavano le inchieste, le manette, i protagonisti di un'epoca che stava cambiando. Nel libro c'è spazio pure per una riflessione più profonda sulle parole chiave di quella stagione, a 30 anni di distanza, portata avanti dai direttori delle testate del gruppo Gedi, Maurizio Molinari, Ezio Mauro, Massimo Giannini, Marco Damilano, Mattia Feltri e dai cronisti che seguivano in prima linea Tangentopoli, da Gianluca Di Feo a Piero Colaprico a Carlo Bonini. Tra le testimonianze inedite dei protagonisti (il socialista Gennaro Acquaviva, il democristiano Paolo Cirino Pomicino, l'ultimo segretario del Pci, Achille Occhetto), il libro contiene anche una mole di numeri e di infografiche che aiutano a comprendere cosa accadde in quegli anni di svolta per tutta l'Italia.

Tangentopoli 30 anni dopo: la rivoluzione legale è finita, la corruzione continua. Il 17 febbraio 1992 l’arresto di Mario Chiesa scoperchia il sistema delle mazzette e dei fondi neri ai partiti. Da Colombo a Davigo, dal pm veneziano del Mose a Francesco Greco, da Giuliano Pisapia all’ex presidente dell’Anac, magistrati, avvocati e studiosi spiegano perché è esplosa l’inchiesta, come fu fermata e le nuove tecniche di malaffare tra politici e imprese nell’Italia di oggi. Paolo Biondani su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

Una tangente di 3500 euro che fa crollare il sistema dei partiti. A dispetto di tante dietrologie, il vero mistero di Mani Pulite è la modestia dell’innesco: 7 milioni di sporche vecchie lire. Banconote fotocopiate da Antonio Di Pietro, trent’anni fa pubblico ministero a Milano, e consegnate da un piccolo imprenditore monzese, Luca Magni, a un politico che lo taglieggia.

Per gli italiani mafia e corruzione sono una malattia inevitabile. Ilvo Diamanti su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

Il 17 febbraio 1992 partiva l’inchiesta Tangentopoli che ha cambiato la storia repubblicana. Oggi su criminalità organizzata e malaffare i cittadini hanno più consapevolezza ma tendono a considerarli una patologia consolidata. Come rivela la ricerca Demos-Libera.

Le vicende legate alla corruzione, alle mafie e alle organizzazioni criminali, in Italia, hanno una storia lunga. I cittadini ne sono consapevoli. E si rendono conto che i programmi e i piani avviati, dal governo, per affrontare le emergenze economiche e sanitarie, attirano l’attenzione e “l’interesse” (…gli interessi) di soggetti con “altri e diversi interessi”. Che vanno oltre ogni limite di “legalità”.

Da "il Giornale" il 16 febbraio 2022.

L'ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, risponde piccato a Cirino Pomicino che, commentando dopo trent' anni la stagione di Mani Pulite, aveva parlato di un disegno ben preciso per eliminare per via giudiziaria, un intero sistema politico. Il magistrato non ci sta e, intervistato a «Monetine - cinque storie di Mani Pulite», il podcast originale di Radio 24 da un'idea di Simone Spetia replica: «Mani Pulite un disegno politico? Ci diano le prove. Le aspetto da trent' anni».

«La corruzione era un sistema e come tale andava resettato». «Bisogna intervenire sull'educazione: la corruzione fa male anche a chi la pratica». Poi risponde a Cirino Pomicino: «Ormai è lecita qualsiasi affermazione senza nessuna base scientifica. Perché nessuno è mai venuto in trent' anni a supportare questa affermazione con una minima dimostrazione?».

Quell'uragano che spazzò l'Italia. Paolo Guzzanti il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La resa del Parlamento sfidato alla tv dal Pool di Milano. Craxi sconvolto dal suicidio di Cagliari: "Stai attento c'è gente che ammazza..." 

A sentire e leggere quello che dice oggi Piercamillo Davigo, uno dei magistrati che scatenarono l'inchiesta «Mani Pulite» contro Tangentopoli 30 anni fa, la storia si dovrebbe ripetere ripete ciclicamente e quindi, lui prevede, fra poco si ripeterà anche con i soldi del Pnrr perché a suo parere ci sarà un magna-magna colossale. Ecco un caso in cui un vecchio magistrato sogna di tornare Ghostbuster a caccia di fantasmi con i vecchi compagni del Pool che sfidò il Parlamento. Magistrati come profeti? È normale? Tre decenni dopo l'Inquisizione di Mani Pulite il bilancio è semplice e terribile; si sono rotti gli argini che avrebbero dovuto contenere le esuberanze di alcuni magistrati e i danni seguitano a produrre altri danni.

Proviamo a mettere insieme il contesto. Partirò da un mio ricordo, anzi una testimonianza: nel 1980, in anticipo di 12 anni per puro caso inciampai in Tangentopoli provocando grande clamore, del tutto inutile. E quando poi nel 1992 il fattaccio venne definitivamente a galla, tutti avevano nel frattempo perso la memoria di quel che era già emerso e ficcato di nuovo sotto la sabbia. Nel 1980 fui mandato dunque da Eugenio Scalfari a intervistare il ministro Franco Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti in quotidiana comunicazione con il suo omologo del Partito comunista Antonino Tatò.

Lo dovevo intervistare per una faccenda di assegni irregolari pubblicata sul settimanale L'Espresso. Evangelisti mi accolse in modo festoso e appena lo estrassi, mi chiese di rimettere in tasca il bloc-notes perché, disse, prima, mi doveva spiegare il retroscena. E lo fece con queste parole: «Qua abbiamo rubato tutti, dal primo all'ultimo. Tutti! I comunisti prendono soldi dai russi e noi, che non siamo più scemi di loro, i soldi li prendiamo dove è possibile e li chiediamo agli industriali e agli enti pubblici e ai Paesi amici».

Mi fece l'esempio di un industriale che mensilmente faceva il giro dei partiti offrendo assegni. Quando arrivava il suo turno, l'industriale gli diceva: «A Fra' che te serve?». Bastava specificare la somma. Poi pretese di dettarmi che cosa scrivere pronunciando parole innocue e generiche. Tornato in redazione, io invece scrissi invece tutto ciò che mi aveva detto e feci senza volerlo uno scoop eccezionale. Grande clamore, ma tutti facevano finta di non aver capito che cosa Evangelisti avesse confessato nel 1980: che tutti i partiti senza eccezione estorcevano denaro in barba alla legge.

Il clamore fu dirottato sul linguaggio volgare del ministro, una questione di stile. Non un solo magistrato aprì un fascicolo ma Evangelisti fu costretto a dimettersi.

Anche i magistrati di allora facevano parte del Sacro Graal del silenzio? So soltanto che tutto ciò che aveva confessato Evangelisti coincise con quanto dirà il segretario del Partito socialista Bettino Craxi alla Camera il 3 luglio del 1992, quando chiamò come correi degli stessi crimini di cui era stato accusato (e per cui fu costretto a rifugiarsi fino alla morte nella sua casa in Tunisia) tutti i capi di tutti i partiti, che avevano fatto ricorso a finanziamenti illeciti per mantenere in piedi le loro baracche della politica.

Ma fra la surreale confessione di Evangelisti e Tangentopoli qualcosa di nuovo era stato introdotto come elemento morale: dopo la caduta dell'impero sovietico e la fine dei foraggiamenti al Pci, era stato introdotto con grande e ben diretto sforzo comunicativo, il principio etico secondo cui «rubare per il partito, è cosa buona; mentre rubare per le proprie tasche è criminale».

Era un criterio capovolto essendo vero il contrario: chi pompa denaro illecito in un partito, manomette la raccolta del consenso e dunque la base del sistema democratico perché i soldi portano voti grazie ad un reato, mentre paradossalmente chi intascava soldi destinati al partito commetteva un reato ma non un attentato alle istituzioni.

La stampa in modo pressoché unanime accolse quella ipocrita gerarchia capovolta di valori perché lo scopo finale dell'operazione era quello di far fuori i partiti che avevano governato dal 1948, lasciando indenne il solo Partito comunista velocemente ribattezzato Partito democratico della sinistra affinché conquistasse il potere senza concorrenti e con il pieno consenso degli americani (ma non solo) che da tempo sognavano di togliersi dai piedi una classe dirigente che aveva sfruttato la posizione di geografica di cerniera fra Est e Ovest dell'Italia per fare il porco comodo di alcuni politici e di molti poteri economici.

Questo era lo scenario in cui esplose uno scandalo che diventò un uragano, qualcosa di simile a una rivoluzione alimentando nel Paese un limaccioso sentimento di vendetta nei confronti dei politici montando la cupa idea che fossero soltanto una banda di ladri. Come giornalista della Stampa fui incaricato di seguire il procuratore più visibile del Pool: Antonio Di Pietro con i suoi buffi errori di italiano, il suo passato agreste, l'emigrazione in Germania. Intervistando più tardi la famiglia Setti Carraro dopo l'uccisione a Palermo del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa con la giovane moglie Emanuela Setti Carraro, seppi da loro che Di Pietro faceva parte del gruppo del capo dell'antiterrorismo.

Il giorno in cui Gabriele Cagliari presidente dell'Eni arrestato dal Pool fu trovato soffocato in carcere con un sacchetto di plastica sul volto, incontrai Bettino Craxi seduto in un piccolo ristorante di via dell'Anima poco prima che fuggisse in Tunisia. Mi chiamò pallido e agitato, dicendomi: «Stai attento a quello là. Stai attento a tutti loro. È gente che ammazza». Di Cagliari dissero che era suicidato. Provate un po' voi a suicidarvi (facendovi assistere) ficcando la testa in un sacchetto. Lo show arrivò alla fine. Le sentenze furono irrisorie, le morti assurde. Ma la democrazia della prima Repubblica cadde quando il Pool di Mani pulite sfidò, davanti alle telecamere, il Parlamento. E il Parlamento si arrese. Paolo Guzzanti

Il "fattore umano" e i segreti del Pool. Quelle primedonne che si detestavano. Luca Fazzo il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Erano tutti permalosi. Borrelli non si fidava di Di Pietro. Ed era odiato da D'Ambrosio.

Gerardo D'Ambrosio detestava Borrelli. Borrelli, che un po' subiva e un po' usava Di Pietro, in cuor suo non se ne fidava né umanamente né professionalmente. Eccetera. Archiviato - grazie al cielo - il trentennale, e in attesa del quarantennale, cosa resta da dire dell'inchiesta Mani Pulite? Forse per capire come nacque e imperversò l'indagine su Tangentopoli manca, nelle lodevoli ricostruzioni di questi giorni, qualche sprazzo sul «fattore umano» che, come spesso accade, ebbe nelle tempestose vicende di quei mesi il suo bel peso. Lo ebbe nei comportamenti degli indagati, che io non conoscevo. Ma lo ebbe anche in quello degli indagatori: che invece ebbi modo di frequentare quotidianamente. E che mi fa un po' impressione rivedere oggi, a trent'anni di distanza, alle prese con i guai e le rughe.

Con loro ci si dava del tu, con due eccezioni: Borrelli, cui ovviamente tutti davano del lei (tranne Chiara Beria, che però era figlia di un suo augusto collega), e Davigo. Di Pietro aveva un caratteraccio, diceva un sacco di balle, e infatti tra di noi lo chiamavamo lo «zanzone», l'imbroglione. Ma di fondo era un lineare, un buono e a suo modo un fragile, come dimostrano in parte le sue vicissitudini successive. Un pomeriggio, nella sua stanza, insieme a Maurizio Losa della Rai lo vedemmo scoppiare in lacrime senza motivo apparente: capimmo solo dopo che sulla sua testa si addensavano le nubi che poco dopo lo avrebbero costretto a dimettersi dalla magistratura. D'Ambrosio non poteva essere buono per definizione, perché nella cultura del Pci dell'epoca - forgiata nella Resistenza e temprata trent'anni dopo nella lotta al terrorismo - per i sentimenti non c'era molto spazio: ma era l'unico del gruppo a pensare che la politica avesse ruolo e dignità quanto la magistratura, e non a caso fu l'unico a tenere fino all'ultima la porta aperta al rientro di Bettino Craxi dall'esilio.

Gherardo Colombo era e resta un moralista cattolico, ma proprio questa sua matrice lo portò all'epoca a esporsi con coraggio proponendo una soluzione politica che - se fosse stata accolta - avrebbe cambiato il corso dell'inchiesta; e lo ha portato di recente a una sincera resipiscenza. Francesco Greco non amava mandare la gente in galera, e forse anche per questo scelse di curare la parte economica dell'indagine, dove il ricorso alle manette era meno fisiologico. Ho stima di lui, e credo che si sia pentito di avere chiesto e ottenuto la guida della Procura di Milano, con tutto quello che ne è seguito nel gigantesco pasticcio del caso Eni e della loggia Ungheria.

Erano tutti permalosi, non amavano le critiche e i dissensi. Per questo Fabio De Pasquale, che era un giovane e ambizioso pm, restò sempre fuori dal pool, viaggiando per la sua strada che lo portò per primo a far condannare Craxi, ma che porta ancora oggi a associare il suo nome alla morte in carcere di Gabriele Cagliari. Anche con lui mi davo del tu, ma mi ha tolto il saluto (e querelato) dal 1995 perché scrissi che si era fatto sfuggire un serial killer. È in buona fede ma è animato da una assenza di dubbi che sta alla base dei suoi problemi recenti.

Fu questo cocktail di caratteri diversi a rendere possibile una offensiva giudiziaria senza precedenti. Borrelli, che era una mente superiore, rivendicava come proprio principale merito l'oculatezza con cui aveva assortito la squadra (ma anche lui fece un errore, cooptando Tiziana Parenti). Sui loro metodi si è discusso molto, e non li ho mai visti davvero disperati per il suicidio di un indagato. È valsa la pena di quel carcere e quei lutti, o era meglio tenersi la politica pagata dai Gardini, dai Romiti eccetera? Boh. Di sicuro, rispettando le regole non si sarebbe mai fatta Mani Pulite. Come è noto, la rivoluzione non è un pranzo di gala.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Da adnkronos.com il 17 febbraio 2022.

"Non parlo di politica. Non ho titoli per farlo. Anche se per anni mi è parso che vantare un’inscalfibile incompetenza risultasse una precondizione abilitante per essere candidabili a tutto...". 

Ultimo segretario dei giovani socialisti, poi braccio destro di Bettino Craxi in tutti gli anni di Hammamet, quindi produttore televisivo di celebri trasmissioni fino all’ultima vita di comunicatore del mondo Tim (suoi gli spot dal ballerino in poi; oggi è uscito dal gruppo telefonico), Luca Josi, interpellato dall'Adnkronos sui trent'anni da Tangentopoli, spiega di essere stato interrotto in una riunione sul metaverso. Dopo trent’anni tre minuti ce li dedica? "Grazie no". Ancora timori? "Guardi, l’opportunismo mondano e tattico, di cui diventare craxiano nel ’92 rappresenta l’epifania, non è il mio obiettivo esistenziale".

Alla fine Josi una riflessione la fa: "Tangentopoli? Parliamo di una stagione che si alimenta dei fatti consumatasi tra l’89 e il ’92 (dall’amnistia che aveva cancellato tutti i precedenti reati di finanziamento verificatisi prima del crollo del muro di Berlino fino alla caduta della 'prima repubblica'). 

Una finestra di poco meno di tre anni che rappresenta la ragione del lavacro degli ultimi trenta in cui l’italiano ha affinato un suo carattere: ferocemente calvinista col prossimo; generosamente cattolico con se stesso". 

"Dopo trent’anni la politica scivola ancora sul materialismo storico di uno scontrino, di una sovvenzione o di un’erogazione di una fondazione dimenticandosi che tutto costa, anche organizzare il proprio funerale, figuriamoci costruire e gestire un movimento politico - osserva - Il finanziamento illecito è drammaticamente sempre esistito. 

Chi è senza peccato s’informi dal proprio cassiere..." Il finanziamento illecito, secondo Josi, "è stato definito lecito o illecito a seconda dell’epoca e nella stessa epoca a seconda dei partiti. A meno che non si desideri una plutocrazia, che non sarà la democrazia di Minni e Topolino, ma quella di un manipolo di paperoni che si autofinanzierà per governare un universo di paperini".

Pessimista? "Assolutamente no, forse consapevole dei rischi - sottolinea Josi - Come quello che si passi, senza soluzione di continuità, dai 'no vax' ai 'fiat lux”, per la bolletta elettrica. Per poter philosophari occorre prima vivere. E una volta detto grazie al vaccino ritroviamo il cretinismo emotivo incistato nelle politiche energetiche di chi è contro il nucleare, ma non si preoccupa di accendere il suo tostapane grazie all’energia atomica francese (nel clima del ’92 si sarebbe configurato il reato di 'ricettazione energetica' essendo il nucleare in Italia bandito dal referendum del 1987). 

È una società buffa quella in cui molti parlano in modo illiberale grazie a una libertà che non hanno conquistato; vivono e godono di un benessere che non hanno prodotto; sentenziano su un passato che non conoscono. Insomma forti di quel senso del nuovo, dell’ideale, che comunque si incarni non permetterà a un cretino di essere altro che un cretino".

Josi dice all'Adnkronos di non essere pentito delle posizioni sostenute in quegli anni. "Ma no! Perché se sei così pessimista da non voler difendere la tua storia non puoi essere così ottimista da sperare che qualcuno lo faccia al posto tuo. Sono nato da socialisti, vissuto tra socialisti e morirò socialista. Scoprendo, forse, un giorno cosa questa parola - così maltrattata dalla storia - voglia dire nel suo fondo".

Ci voleva coraggio? "Non era coraggio, che a volte è solo la misura della codardia e del tradimento altrui. Ho trovato giusto parlare quando altri tacevano e poi tacere quando in tanti hanno ricominciato a parlare. In verità da noi vige una certa forma di coraggio tombale. Viene dopo e si crede abbia effetti retroattivi (condonando le pavidità del prima). Comunque, continuo a pensare che se non affronti i problemi, loro, presto o tardi, affronteranno te". 

Quanto all’antipolitica, "non è che la politica di qualcun altro in cui il parlamentare non è più il percorso finale di una selezione ma quello casuale della sua designazione", sottolinea Josi, che poi, alla domanda se abbia in mente di tornare a fare politica, si schernisce: "Sì sì, certo. Tra trent’anni".

Antonio Di Pietro: «Craxi era solo uno dei tanti. Io puntavo ad Andreotti, mi hanno fermato». L'ex pm riscrive la storia di Mani Pulite: «L'inchiesta nasce a Palermo, con Falcone e Borsellino, ucciso per quel che poteva ancora scoprire». E poi: «Gardini doveva farmi il nome di Salvo Lima, avrei chiuso il cerchio e aperto il processo mafia-appalti». Sul segretario Psi: «Un politico normale, ha agito come gli altri. Non fatelo più grosso di quel che è». Susanna Turco su L'Espresso il 16 Febbraio 2022.    

«Craxi? Ma Craxi era solo uno dei tanti». D’improvviso, allo scoccare della seconda ora e mezza di conversazione, con quel suo modo un po’ buffo e stratificato di parlare – sopra approssimativo, sotto preciso, fulmineo - Antonio di Pietro, 69 anni, ex pm, ex politico, oggi avvocato sostanzialmente lontano dalle scene, butta già l’ultimo feticcio che era rimasto in piedi di una pagina che ripercorre in un modo mai visto.

Di Pietro: "Non è cambiato nulla, prima di morire metto 'Mani Pulite' in rete". Affari Italiani.it Giovedì, 17 febbraio 2022

A 30 anni da Tangentopoli, Antonio di Pietro dice la sua verità sull'inchiesta Mani Pulite. Tantentopoli, Di Pietro: "Il nostro paese era malato di corruzione endemica, ma dopo 30 anni non è cambiato niente".

"Ci volevano fermare. Si sono messi in azione appena hanno capito che stavamo per arrivare ai piani alti del potere. Mani pulite è stata fermata, anche perché mentre stavamo indagando sui bauscia del Nord, siamo andati a toccare quelli che avevano contatti con la mafia al Sud. Da allora a oggi, l'unica cosa che è cambiata è che adesso c'è desolazione da parte dell'opinione pubblica".

Così Antonio Di Pietro in un post su Facebook sui trent'anni di tangentopoli. "Dalla fine della Prima Repubblica sarebbero dovute emergere nuove idee e persone che le portassero avanti. Invece da quell'inchiesta è nato un grande vuoto e sono comparsi personaggi rimasti sulla scena politica più per se stessi che per altro. Penso a Berlusconi, a Bossi, a Salvini, a Renzi - aggiunge. "Noi abbiamo fatto quello che fa un qualsiasi medico radiologo quando vai a fare i raggi per vedere se hai una malattia; abbiamo scoperto che il nostro Paese era malato di corruzione endemica.

Non è un giorno di festa 30 anni dopo. Sono 30 anni passati ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima. Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete affinché qualcuno un giorno possa leggere, per vedere quella diversa verità rispetto a quel che è stato raccontato. Sono una vergogna per il Paese i ladri, i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi o chi - come me - li ha scoperti con l'inchiesta Mani Pulite?".

Sorgi su Mani Pulite/ “Di Pietro disse a console Usa che sarebbe arrivato a Craxi e…” Silvana Palazzo su ilsussidiario.net il  17.02.2022 

Marcello Sorgi a L’Aria che tira svela un retroscena su Mani Pulite: “Antonio Di Pietro disse al console Usa di Milano che sarebbe arrivato a Craxi, Andreotti e Forlani”. Ma l’ex magistrato…

Marcello Sorgi svela un retroscena sull’inchiesta di Mani Pulite che riguarda Antonio Di Pietro. Lo fa a L’Aria che tira, parlando di un incontro tra l’allora magistrato e il console statunitense a Milano. Quattro mesi prima di arrestare Mario Chiesa, andò a trovarlo: «Gli disse che avrebbero arrestato un personaggio di seconda fila ma poi sarebbe arrivato a Craxi, Andreotti e Forlani». Il giornalista spiega che ancora oggi non è chiaro il motivo per il quale rivelò un segreto istruttorio al console americano che poi parlò con l’ambasciatore a Roma.

«Non gli credette, gli disse che parlava ogni giorno con Craxi, Andreotti, Forlani e Cossiga che era presidente della Repubblica e diceva che erano tranquilli. Sta sui documenti della Cia che sono stati desecretati», aggiunge Sorgi nello studio di Myrta Merlino. Il console in questione era Peter Semler. «Di Pietro aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato. Da Di Pietro, da altri giudici e dal cardinale di Milano seppi che qualcosa covava sotto la cenere. Eravamo informati molto bene», sono le parole di Semler raccolte nel 2012 da La Stampa.

Peter Semler al quotidiano piemontese raccontò anche che rapporti aveva con il pool di Mani Pulite. «Incontrai più giudici di Milano, c’era un rapporto di amicizia con loro ma non cercavo di conoscere segreti legali. Erano miei amici. Ci vedevamo in luoghi diversi. Di Pietro mi piacque molto». Parole a cui Antonio Di Pietro rispose spiegando che il console era stato impreciso, come sulle rivelazioni riportate anche oggi da Marcello Sorgi.

«Nel novembre 1991 non potevo anticipargli il coinvolgimento dei vertici di Dc e Psi perché, in quel novembre, già indagavo su Mario Chiesa ma non avevo idea di dove saremmo andati a parare. Nel novembre 1991 non potevo anticipargli ciò che non sapevo», disse nel 2012 Antonio Di Pietro, il quale sostenne di non aver mai violato il segreto istruttorio. In merito agli incontri con Peter Semler spiegò: «Perché lo incontravo? Perché lo desiderava, faceva il suo lavoro. Voleva capire e infatti capì perfettamente, a differenza di altri suoi connazionali. E incontrò un sacco di altre persone». 

Facebook. Antonio Di Pietro il 17 febbraio 2022

Ci volevano fermare.

Si sono messi in azione appena hanno capito che stavamo per arrivare ai piani alti del potere. Mani pulite è stata fermata, anche perché mentre stavamo indagando sui bauscia del Nord, siamo andati a toccare quelli che avevano contatti con la mafia al Sud.

Da allora a oggi, l'unica cosa che è cambiata è che adesso c'è desolazione da parte dell'opinione pubblica.

Dalla fine della Prima Repubblica sarebbero dovute emergere nuove idee e persone che le portassero avanti. Invece da quell'inchiesta è nato un grande vuoto e sono comparsi personaggi rimasti sulla scena politica più per se stessi che per altro. Penso a Berlusconi, a Bossi, a Salvini, a Renzi.

Noi abbiamo fatto quello che fa un qualsiasi medico radiologo quando vai a fare i raggi per vedere se hai una malattia; abbiamo scoperto che il nostro Paese era malato di corruzione endemica.

Non è un giorno di festa 30 anni dopo. Sono 30 anni passati ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima.

Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete affinché qualcuno un giorno possa leggere, per vedere quella diversa verità rispetto a quel che è stato raccontato.

Sono una vergogna per il Paese i ladri, i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi o chi li ha scoperti con l'inchiesta Mani Pulite?

Il post di Antonio Di Pietro: "Mani Pulite? Tutto è nato dalle indagini di Giovanni Falcone..." Sandra Figliuolo, Giornalista, il 19 febbraio 2022 su palermotoday.it.

L'ex pm del pool milanese spiega l'origine del terremoto giudiziario di 30 anni fa: "Non ho scoperto nulla, furono le rivelazioni di Buscetta al giudice sul patto tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia a far partire il nostro lavoro". Per la famiglia Borsellino è proprio questo legame tra le due inchieste che andrebbe approfondito per trovare la verità su via D'Amelio

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"Mani pulite non l'ho scoperta io: nasce all'esito dell’inchiesta del Maxiprocesso di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l'accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia. Là nasce. E Falcone dà l'incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui venne trasferito". A scriverlo è l'ex pm componente del pool milanese che coordinò le indagini su Tangentopoli, Antonio Di Pietro.

Ed è uno spunto interessante, quello che Di Pietro, perché è proprio su questo nesso tra "Mani Pulite" (che partì in questi giorni, 30 anni fa) e gli appronfondimenti svolti invece dai magistrati palermitani che la famiglia di Paolo Borsellino ha cercato di puntare i riflettori per tentare di arrivare ad una verità a 30 anni dall'eccidio di via D'Amelio e dopo enormi despistaggi.

Lo stesso Di Pietro, qualche mese fa, in un confronto televisivo in cui era presente una delle figlie di Borsellino, Fiammetta, aveva dato sostegno a questa pista, esattamente come aveva fatto deponendo nel primo grado del processo sulla così detta trattativa tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra.

Secondo le motivazioni di quella sentenza, però, Borsellino sarebbe stato invece eliminato perché avrebbe appunto scoperto, a meno di due mesi dall'uccisione di Falcone, l'esistenza di questo presunto patto. Una sentenza che è stata in buona parte rivista in appello. Si attende nelle prossime settimane il deposito delle motivazioni, dopo una proroga richiesta dai giudici. 

30 anni di Mani Pulite, Di Pietro rompe il silenzio: "Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete". Da ilgiornaledelmolise.it il 17 Febbraio 2022.

Per mesi è rimasto in silenzio. Niente dichiarazioni, niente interviste, nessuna apparizione in tv. Antonio Di Pietro negli ultimi tempi ha scelto di spegnere i riflettori su di lui. E alla vigilia del trentesimo anniversario dell’inchiesta Mani Pulite ha fatto rumore il silenzio del protagonista principale di quella pagina di storia italiana. L’ex pm trascorre gran parte del tempo in Molise, nella sua masseria di Montenero di Bisaccia. A quanto pare sta dedicando molte giornate per mettere posto il suo archivio di documenti. Forse anche questa la ragione del silenzio. Rotto ora attraverso i social, proprio nel giorno dell’anniversario dell’arresto che nel 1992 diede avvio all’inchiesta che sfocio’ in Tangentopoli: “Sono 30 anni passati ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima – ha scritto l’ex magistrato sul suo profilo Facebook ricordando quei giorni – Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete affinche’ qualcuno un giorno possa leggere, per vedere quella diversa verita’ rispetto a quel che e’ stato raccontato”. “Ci volevano fermare. Si sono messi in azione appena hanno capito che stavamo per arrivare ai piani alti del potere. Mani Pulite e’ stata fermata, anche perche’ mentre stavamo indagando sui bauscia del Nord, siamo andati a toccare quelli che avevano contatti con la mafia al Sud. Da allora a oggi – ha proseguito Di Pietro – l’unica cosa che e’ cambiata e’ che adesso c’e’ desolazione da parte dell’opinione pubblica”. “Dalla fine della Prima Repubblica sarebbero dovute emergere nuove idee e persone che le portassero avanti. Invece da quell’inchiesta e’ nato un grande vuoto e sono comparsi personaggi rimasti sulla scena politica piu’ per se stessi che per altro. Penso a Berlusconi, a Bossi, a Salvini, a Renzi”, ha sottolineato l’ex magistrato. Di Pietro ha scritto il suo post pubblicandolo con una foto dell’epoca che lo ritrae insieme a Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, gli altri due protagonisti di quell’inchiesta. Sotto l’immagine c’e’ un interrogativo: “Sono una vergogna per il paese i ladri, i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi o chi li ha scoperti con l’inchiesta Mani Pulite?” Poi sempre nel post scrive ancora: “Noi abbiamo fatto quello che fa un qualsiasi medico radiologo quando vai a fare i raggi per vedere se hai una malattia; e abbiamo scoperto che il nostro Paese era malato di corruzione endemica”.

IL TESORIERE DELL’UNICO PARTITO SOPRAVVISSUTO A MANI PULITE. La tangente Enimont raccontata dal (quasi) fedelissimo tesoriere di Bossi. FEDERICO FERRERO su Il Domani il 23 febbraio 2022

A trent’anni dall’innesco di Mani Pulite, l’ex tesoriere della Lega Lombarda Alessandro Patelli racconta come il suo movimento, antisistema e antipartito, sia finito invischiato nell’affare della maxitangente Enimont nel 1992.

Condannato, insieme al leader Umberto Bossi, per finanziamento illecito, fu rimosso dal capo nonostante lo avesse difeso anche in aula e assistette alla fine della Lega bossiana.

Si è laureato a quasi settant’anni con una tesi sul suo Carroccio, e la Lega di oggi non gli piace: Salvini, a suo dire, scimmiotta Bossi senza averne le qualità e rincorre la Meloni dimenticando il vero progetto leghista: il regionalismo.

FEDERICO FERRERO. Giornalista, 1976. Commento il tennis su Eurosport dal 2005. Ho collaborato con l'Unità e l'Espresso. Scrivo di tennis un po' dappertutto; di vite altrui sul Corriere di Torino, di storie criminali per Sette. Un saggio su Mani Pulite per ADD nel 2012, la vita di Palpacelli per Rizzoli nel 2019.

30 anni di Mani Pulite. Il Compagno G. ha scelto di parlare: intervista esclusiva a Primo Greganti. Quando Tangentopoli colpì il Pci-Pds: "Io avevo chiesto di vedere Di Pietro e lui mi mandò a casa i poliziotti per arrestarmi”, racconta l'ex cassiere. Giorgio Santelli su Rainews.it 17 febbraio 2022 

Il Compagno G., Primo Greganti, ex cassiere di Pci e Pds, tra i pochi a rifiutare ogni collaborazione con i magistrati ai tempi di Tangentopoli, ricorda per Rainews.it e Rainews24 gli anni di quell’inchiesta che cambio la faccia all’Italia a trent’anni dall’arresto di Mario Chiesa.

Il primo marzo 1993, su richiesta del pm Antonio Di Pietro, il Giudice per le indagini preliminari Italo Ghitti emise un ordine di custodia cautelare nei confronti di Greganti. Era accusato di corruzione per aver ricevuto in Svizzera 621 milioni dal gruppo Ferruzzi per alcuni appalti dell'Enel, tra il 1990 e il 1992. Ripercorrendo quel giorno, racconta di aver deciso di presentarsi a Milano con il suo avvocato difensore, dopo essersi riconosciuto nelle dichiarazioni dell’amministratore della Calcestruzzi di Ravenna, Lorenzo Panzavolta, rese in un interrogatorio riportato dai giornali: “Chiamai Di Pietro, fissai l’incontro ma quando arrivai in Procura vidi che con il magistrato c’erano anche dei poliziotti con gli stivali sporchi di fango, il fango di casa mia. Io avevo chiesto di vedere Di Pietro e lui mi mandò a casa i poliziotti per arrestarmi”. Quel denaro, secondo la magistratura, rappresentava la prima delle due quote riservate al Pci-Pds delle tangenti concordate con il sistema dei partiti.

Primo Greganti ricostruisce quegli anni, il suo arresto, il rapporto con il magistrato Antonio Di Pietro, gli arresti preventivi a San Vittore, l’incontro in carcere con Gabriele Cagliari. Difende l’inchiesta del pool di Mani Pulite e non perdona ad Achille Occhetto la richiesta di scuse agli italiani per conto del Pds: “Noi non eravamo come gli altri partiti. Non ci sono mai state mazzette per il partito”.  

Negò sempre ogni addebito e continuò a ripetere che quei soldi erano il pagamento di consulenze personali fatte alla Ferruzzi. Alla fine dell’inchiesta Greganti venne condannato a tre anni e sette mesi per finanziamento illecito al suo partito, pena successivamente patteggiata e ridotta a tre anni e infine confermata dalla Corte di Cassazione nel marzo 2002, pur decurtata dei sei mesi che Greganti aveva già scontato in regime di carcerazione cautelare preventiva a San Vittore durante le indagini. 

“Quell’inchiesta fece male alla mia famiglia - dice ancora Greganti - Di Pietro mi disse: 'Quando tornerai a casa i tuoi figli ti sputeranno in faccia'. In carcere io non mi abbattei. Ero convinto di stare nel giusto, forse per questo non fui preso dallo sconforto”.

Secondo il Compagno G., in conclusione, “si cancellò la prima Repubblica per dare in mano il Paese ai poteri finanziari, senza una nuova classe politica. I risultati di quell’inchiesta li viviamo quotidianamente”. 

Feltri, Mani Pulite “graziò” solo i comunisti: “Chiesi il motivo a di Pietro e lui…” Gabriele Alberti venerdì 18 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Fa bene Vittorio Feltri a ribadirlo anche a trent’ anni dall’inizio di Mani pulite. Il pool che indagò sui partiti poi spazzati via dal ciclone delle inchieste salvò solo l’ allora partito comunista poi Pds. E a tal proposito il direttore editoriale di Libero fornisce anche una rivelazione interessante per mettere a posto le tessere di un mosaico composito. Già, si tratta di una circostanza che i più trascurano, “un particolare su cui tutt’ ora si sorvola, quasi fosse una sciocchezza”. E invece trattasi di un particolare rilevantissimo.

Feltri: Mani Pulite salvò i comunisti. “Di Pietro mi disse…”

Scrive Feltri: “Antonio (Di Pietro, ndr), cioè il Pm paragonato alla Madonna, era mio amico e mi confidò che alle ruberie partecipavano tutti i politici, chi più e chi meno. I partiti erano coinvolti nella spartizione delle bustarelle, non ce n’era uno che non avesse profittato della mangiatoia; compreso il revisionato Pci, che aveva cambiato l’insegna a Botteghe oscure, ma i suoi costumi non erano mutati. Dissi a Di Pietro: come mai voi della Procura avete finora distrutto tutte le forze politiche tranne quella di ispirazione sovietica?”.  La risposta di Di Pietro alla domanda cruda fu attendista “Lui mi rispose: tempo al tempo, arriverà anche il loro turno. Che invece non giunse mai“.

Feltri: “Il Pds si accomodò al governo”

Sappiamo come sono andate le cose. Mentre il pentapartito fu spazzato via, “il Pds si accomodò al governo”. La conclusione a cui è giunto Feltri è la seguente: gli ex comunisti furono risparmiati dalla ventata di Tangentopoli “per il semplice e drammatico motivo che essi erano amici della Procura di Milano dalla quale furono protetti”. Un solo esempio, ricorda Feltri: ” Si accertò che una mazzetta gigante, un miliardo e 300 milioni, sganciata dalla Montedison, fu recapitata a Botteghe Oscure”. Ebbene, si arrivò a una bizzarra conclusione delle indagini: “nessuno fu incriminato perché non si era capito in quali mani i quattrini fossero andati. Cosicché i capi della sinistra si salvarono”. Sprizza indignazione il direttore di Libero: “Se questa non è una schifezza io sono Giulio Cesare. Trattasi di una storia che autorizza a sospettare che i comunisti e i magistrati erano culo e camicia. Ed è meglio ricordarlo”. 

“Un particolare su cui tutt’ora si sorvola”

Feltri già si è scusato qualche giorno fa per avere all’epoca cavalcato l’onda di Tangentopoli, che lui ha definito una “strage degli innocenti”, per i risvolti giustizialisti e la furia manettara che palesò . La sua lettura trova conferma nelle rivelazioni di qualche giorno fa di Cirino Pomicino. Ossia la volontà di voltare la pagina politica verso sinistra a determinata con l’appoggio dei grandi gruppi industriali. L’ex  ministro Dc ha rivelato  come dietro la rivoluzione giudiziaria che azzerò la politica italiana ci fosse uno schema ben preciso. L’establischment industriale disegnò un vero e proprio disegno politico: virare a sinistra, cambiando lo schema precedente. Fu De Benedetti, mesi prima che scoppiasse mani Pulite a farglielo capire in un colloquio riservato. Ora si capiscono tante cose. Fa bene Feltri a rammentare che l’esclusione dei comunisti dalle indagini di Tangentopoli non può essere derubricato a particolare insignificante. 

"Perché la magistratura ha graziato i comunisti": Mani Pulite, Vittorio Feltri e una sporca verità sui compagni. Vittorio Feltri su Mani Pulite: "Perché la magistratura ha graziato i comunisti". Libero Quotidiano il 17 febbraio 2022.

Oggi è il 17 febbraio e Vittorio Feltri, direttore di Libero, dedica il suo video editoriale al 30esimo anniversario dell'inizio di Mani Pulite. "Fu un episodio piuttosto importante per la vita del nostro Paese", dice Feltri facendo notare che "si dice che quella inchiesta abbia fatto piazza pulita di tutti i politici corrotti. Ma non è del tutto vero". E spiega: "Il finanziamento ai partiti era illegale per cui erano quasi costretti a rubacchiare qua e là. C'è da chiedersi come mai il pentapartito che all'epoca governava non avesse cercato di legalizzare il finanziamento ai partiti". Ma soprattutto, fa notare il direttore, "di tutta la vicenda di Mani Pulite ho potuto constatare che tutti i partiti furono spazzati via, la Democrazia Cristiana, il partito socialista, i socialdemocratici, i repubblicani e persino i liberali. Solo uno riuscì a sopravvivere: il vecchio partito comunista che nel frattempo aveva cambiato nome, ma solo il nome". "Come mai si è salvato", chiede provocatoriamente Feltri. "Il sospetto può essere uno: la magistratura ha favorito un partito che, secondo Antonio Di Pietro che lo disse a me personalmente, era coinvolto come tutti gli altri nella spartizione del denaro sgraffignato". "Dicono i magistrati che furono trovate delle prove", continua Feltri, "ma in realtà le prove non le hanno mai cercate, mentre per gli altri partiti le hanno cercate e le hanno trovate per poi fare quel massacro che tutti sappiamo". Conclude Feltri: "Noi vogliamo solo sapere come mai la magistratura era tanto affezionata e voleva tanto bene al partito comunista". 

Mani Pulite, l'affondo di Vittorio Feltri: "L'unico tabù del pool furono i comunisti. E chissà perché..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022

A trenta anni dall'inizio di Mani pulite, la famosa o famigerata inchiesta che ha frantumato la Prima Repubblica, c'è ancora qualcosa che non è stato detto ad alta voce. E non riguarda una mia idea bislacca, ma una realtà evidente, come dire che il mare è salato. Il pentapartito, che all'inizio degli anni Novanta era la maggioranza di Governo, fu completamente massacrato da Di Pietro e soci togati. Il povero e rimpianto Citaristi, segretario amministrativo della Dc, fu messo in croce: gli rifilarono un numero spropositato di avvisi di garanzia, relativi al reato di finanziamento illegittimo, tale da costituire un record mondiale. A lui, che era ricco di suo, e non aveva certo bisogno di incassare tangenti. Ma allora questi erano considerati dettagli ininfluenti. Egli pur essendo persona specchiata fu trattato quale delinquente incallito. Poi la faccenda si chiarì, ma intanto il mio concittadino bergamasco per lungo tempo rimediò una figuraccia, per quanto immeritata. Di Craxi, la Malfa ed altri personaggi schiaffeggiati dalla magistratura sappiamo tutto, incluse le persecuzioni di cui furono vittime.

C'è solo un particolare su cui tutt' ora si sorvola, quasi fosse una sciocchezza. Antonio, cioè il Pm paragonato alla Madonna, era mio amico e mi confidò che alle ruberie partecipavano tutti i politici, chi più e chi meno. I partiti erano coinvolti nella spartizione delle bustarelle, non ce n'era uno che non avesse profittato della mangiatoia, compreso il revisionato Pci, che aveva cambiato l'insegna a Botteghe oscure, ma i suoi costumi non erano mutati. Dissi a Di Pietro: come mai voi della Procura avete finora distrutto tutte le forze politiche tranne quella di ispirazione sovietica? Lui mi rispose: tempo al tempo, arriverà anche il loro turno. Che invece non giunse mai. Infatti chi ha buona memoria rammenterà che mentre il pentapartito fu sgominato e finì in galera, il Pds si accomodò al governo.

Io, persona semplice, pensai e penso tuttora che i compagni furono risparmiati, pur avendo incassato denaro sporco, per il semplice e drammatico motivo che essi erano amici della Procura di Milano dalla quale furono protetti. Un solo esempio. Si accertò che una mazzetta gigante, un miliardo e 300 milioni, sganciata dalla Montedison, fu recapitata a Botteghe Oscure. Una prova inequivocabile che anche i rossi amavano i soldi in nero. Alla conclusione delle indagini, nessuno fu incriminato perché non si era capito in quali mani i quattrini fossero andati. Cosicché i capi della sinistra si salvarono. Se questa non è una schifezza io sono Giulio Cesare. Trattasi di una storia che autorizza a sospettare che i comunisti e i magistrati erano culo e camicia. Ed è meglio ricordarlo.

"Così il Pci ha approfittato di Tangentopoli..." Edoardo Sirignano il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale. 

Enzo Carra, protagonista dell'arresto più celebre di Mani Pulite, ribadisce come il giustizialismo di quel periodo storico servì a cancellare solo una parte di storia politica del nostro Paese.

“Il Partito Comunista approfittò di quel periodo per rigenerarsi”. A rivelarlo è Enzo Carra, già portavoce della Democrazia Cristiana e protagonista dell’arresto più celebre di Mani Pulite, a margine di un convegno sull’anniversario di Tangentopoli, che ribadisce come il giustizialismo di quel periodo, nei fatti, è servito a cancellare una parte di storia del nostro Paese.

Che ricordo ha di quegli anni?

“E’ stata una fase in un certo senso rivoluzionaria. Tutti quanti, politici, partiti, magistratura e giornalisti, avevano perso un po' la testa. Ciò non vuol dire impazzire, ma che alcuni credevano davvero nella possibilità di un processo rigeneratore. Altri, invece, inerti, mi riferisco ai politici, cercavano di frenare, ma quando uno corre come un ossesso è difficile stopparlo. C’è stato, quindi, uno scontro violento. E’ chiaro, però, che chi andava a piedi non poteva sconfiggere carrarmati possenti, come quelli di una certa magistratura”.

Non sono stati, quindi, tempi semplici?

“A trent’anni di distanza, avendola conosciuta bene quella stagione e sulla mia pelle, non come altri, posso dire che non è stata una passeggiata, né per una parte, né per l’altra. Insistere su quel periodo come se fosse ancora pagina a parte della storia italiana è un errore. Ancora non abbiamo, direbbe qualcuno più saggio di me, storicizzato quella stagione, frutto di difficoltà, paura, terrore, assassini e criminalità”.

Da cosa ritiene sia venuto fuori tutto ciò?

“Mani Pulite non è sbocciata come un fiore nel deserto o un veleno, ma è stata generata dalla grande paura, dal degrado che c’era stato in precedenza nel nostro paese e che in molti avevano ignorato”.

Chi è stato più penalizzato?

“Le parti politiche più colpite sono state quelle che avevano ancora qualche carta da spendere ed erano i socialisti, che avevano il problema Craxi e una certa parte della Dc”.

Possiamo, quindi, dire che i Ds allora furono risparmiati dai giudici?

“Ho rivisto tutte le carte. I Ds già avevano messo in conto l’esigenza di cambiare. Non erano più il partito comunista di un tempo. Non dimentichiamo che Mani Pulite avviene a ridosso della caduta del muro di Berlino, avvenimento di cui si sono accorti in pochi. Anzi tutti hanno finto che fosse successo niente per continuare un po'. Questo è stato il guaio. Tutto ciò, quindi, è stata una riscossa per il Partito Comunista che ha trovato una via d’uscita. Diciamo che ha approfittato di quel periodo per rigenerarsi”.

Quali sono state le conseguenze?

“L’Italia, quando è scomparsa la Dc, che metteva insieme la tradizione dei cattolici, ha perso un pezzo della sua storia”.

Una certa magistratura, però, ancora oggi tende a cancellare chi la pensa in modo diverso, come accaduto prima con Berlusconi, poi con Renzi, Salvini…

“Stiamo parlando di parti in conflitto tra loro. Non sempre la politica ha dimostrato di saper combattere ad armi pari con la magistratura. Un dibattito come quello dell’altro ieri al Senato che ha votato non per Renzi, ma a favore della politica, della democrazia, può essere la strada. Si tratta di un caso sintomatico di come spezzettando i problemi a volta la stessa politica sbaglia. Sul singolo episodio chi dice che il magistrato non possa aver ragione”.

Da Tangentopoli a mafiopoli: la lunga egemonia dei pm. Cicchitto, Gargani, il pg Marino e Sansonetti ricordano gli anni di Tangentopoli: fu un blitz contro i partiti ordito dai poteri forti con giornali e toghe. Valentina Stella su Il Dubbio il 25 febbraio 2022.

«Il dibattito finora svolto per il trentennio di Mani pulite è caratterizzato da un livello elevato di mistificazione. È stato cancellato il fatto che il finanziamento irregolare dei partiti ha visto come originari protagonisti i padri della patria, da De Gasperi a Togliatti, a Nenni, a Saragat, a Fanfani. Era un finanziamento che proveniva dalla Cia e dal Kgb e da una serie di fonti interne, dalla Fiat alle cooperative rosse, alle industrie a partecipazione statale. Il partito diverso dalle mani pulite di cui parlò Enrico Berlinguer era un’assoluta mistificazione». Partiamo dalle conclusioni di Fabrizio Cicchitto per darvi conto del convegno “A Trenta anni da Tangentopoli e da Mafiopoli – Ruolo politico anomalo della magistratura non in linea con la Costituzione per configurare una fantomatica Repubblica giudiziaria”, organizzato dal Centro Studi Leonardo Da Vinci e dall’Associazione Riformismo e Libertà, e moderato dal nostro direttore Davide Varì.

Secondo Cicchitto «molto prima di Forza Italia, e ovviamente in termini del tutto rovesciati, il primo partito- azienda è stato il Pci. Tutti sapevano tutto, compresi i magistrati e i giornalisti. Don Sturzo ed Ernesto Rossi fecero denunce assai precise: rimasero del tutto inascoltati. Poi con il 1989 c’è stato il crollo del comunismo e, con il trattato di Maastricht, il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico. In uno Stato normale, quel sistema avrebbe dovuto essere smontato con un’intesa fra tutte le forze politiche e la stessa magistratura, invece è avvenuto il contrario. I poteri forti hanno deciso di smontare il potere dei partiti, in primo luogo quello della Dc e del Psi».

Ad aprire i lavori della conferenza Giuseppe Gargani, avvocato ed ex parlamentare europeo, che ha iniziato soffermandosi proprio sulla stagione di Mani Pulite: «Oggi riteniamo di poter pretendere una risposta sul perché vi furono iniziative giudiziarie che non si svolgevano nelle sedi riservate, sacrali della giustizia, ma richiedevano il consenso di interi settori dell’ opinione pubblica. Tanti cittadini si riunivano davanti ai tribunali per osannare gli eroi che mettevano alla gogna i politici, praticando un metodo che non ha precedenti nella storia repubblicana. Noi non chiediamo inchieste parlamentari: chiediamo, come ho fatto per tanti anni, un confronto con i principali protagonisti di quel periodo, per un esame di coscienza critica e per riconoscere responsabilità colpose o dolose di ciascuno, la politica, la giustizia, i magistrati, l’informazione, per riconoscere le degenerazioni derivanti dal potere di supplenza che la magistratura accentuò in maniera vistosa in quel periodo».

Allora vi fu «un disegno strategico, ebbe a dire un senatore di grande spessore come Giovanni Pellegrino, che aveva come obiettivo una posizione di primato istituzionale della procura della Repubblica e quindi della magistratura inquirente. Il pubblico ministero aveva solo funzioni di giudice etico, di far vincere il bene sul male, che riscatta la società, punisce in maniera emblematica il male ed esaurisce nell’indagine la fase giurisdizionale che ha bisogno del processo».

A Gargani è seguito Raffaele Marino, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, a cui è stato chiesto se ai tempi di Tangentopoli vi sia stata una torsione del diritto: «Davigo non rappresenta la magistratura, nel senso che le sue idee sono le sue idee, non sono le idee della magistratura, dico io per fortuna. Io ho vissuto Tangentopoli come gip: ricordo che c’era l’avvocato Taormina, che girava per le carceri a chiedere ai giudici che cosa dovesse dire il suo assistito perché potesse essere liberato. Questo era, diciamo, il clima dell’epoca».

Il direttore del Riformista, Piero Sansonetti, si è soffermato sul ruolo della stampa: «Allora i giornali lavorarono in maniera unificata: Stampa, Repubblica, Unità, Corriere della Sera, in parte anche il Messaggero. Non cercavano le notizie ma unificavano le veline. Vi posso raccontare il giorno in cui arrivò il decreto Conso che depenalizzava il finanziamento dei partiti. Io ero all’Unità. Arrivò un editoriale di Cesare Salvi, molto favorevole al decreto. Poi la sera ci fu come al solito la consultazione fra i direttori verso le sette e si decise di buttare a mare il decreto. Fu cambiato l’ editoriale dell’Unità, fu fatto un editoriale contro il decreto. Il giorno dopo tutti i giornali uscirono contro il decreto e a mezzogiorno Scalfaro annunciò che non avrebbe firmato il decreto. Esso non cadde per l’opposizione politica, cadde per l’opposizione dei giornali. Non erano liberissimi giornali allora, non raccontiamoci balle». Tutto il dibattito e gli interventi degli altri numerosi ospiti si possono riascoltare su Radio Radicale.

Mani Pulite, Sallusti: “C’era un patto. I giornalisti concordavano le prime pagine. Ma su Greganti”…Redazione venerdì 18 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Sallusti conferma: è vero. C’era un patto fra direttori negli anni di Mani pulite: concordavano le prime pagine. E aggiunge addirittura che in quel periodo si crearono persino due pool di testate e giornalisti: uno di serie A e uno da girone minore. E, soprattutto, guardando a ritroso rilancia: «è lì che nacque la “giustizia spettacolo”. Lì nacque il patto fra procure e giornalisti. E in quel momento che i cronisti– ricostruisce il direttore di Libero – divennero gli addetti stampa delle procure. E se qualcuno non assecondava il pool, addio notizie e addio verbali»…Quella in corso in quegli anni di rivolgimenti e dramma, fu una vera caccia all’ultimo scoop. Una guerra spietata tra le testate – dai direttori in giù – per carpire l’ultimo dato e aggiornare il bollettino delle vittime. Poi divenne impossibile tenere quel ritmo e continuare su quel crinale: e si dichiarò una tregua. Descrive così Alessandro Sallusti all’Adnkronos, l’atmosfera e il modus operandi di quegli anni: quasi come un’ossessione, l’estenuante ricerca di nomi e notizie dell’ultimo minuto. Un incubo in cui si erano infilati i giornalisti nelle anni di Mani Pulite, pronti a «scannarsi per un nome in più o uno in meno». Fino a ritrovarsi in un incubo insostenibile… 

Mani Pulite, Sallusti conferma: il patto fra direttori? C’era eccome

«Sì, si era creato un pool di direttori, che avevano, ovviamente, i loro capiredattori. I loro terminali interni. E si coordinavano per i titoli e le prime pagine». Così Alessandro Sallusti, conferma all’Adnkronos l’esistenza del cosiddetto “patto fra direttori” negli anni di Mani Pulite. «Però attenzione allo scambio di carte», racconta direttore di Libero, che in quegli anni era caporedattore centrale del Corriere della Sera: «Ci sono state due fasi. All’inizio c’era la guerra, nel senso che si faceva a gara per avere l’esclusiva. Ogni giorno era un bollettino, ogni giorno c’era l’elenco degli indagati, degli arrestati, e così via. Inizialmente fra i giornali, che allora si vendevano, c’era una concorrenza spietata. Questa gara portò sostanzialmente a uno sfinimento quasi fisico dei partecipanti. Era diventato un incubo. Un’ossessione. Non si mollava mai la presa. Ricordo che è ad un certo punto il segretario di redazione del Corriere mi disse “Alessandro, hai battuto il record di permanenza consecutiva al giornale: 136 giorni senza mai staccare un giorno”. Ma non ero l’unico, ovviamente»…

«Si crearono due pool tra le testate giornalistiche: uno da Champions League e uno minore»…

Poi, prosegue Sallusti, «a un certo punto, almeno secondo la percezione con cui io l’ho vissuto, si è detto basta. La vita era diventata impossibile. E anche la professione. Tutte le notti svegli fino alle due a correre nelle edicole notturne, era diventato un incubo. E allora si dichiarò tregua. Invece di stare a scannarci per un nome in più o uno in meno, ci si metteva d’accordo scambiamoci le informazioni. E sostanzialmente – rammenta Sallusti – si crearono due pool. Uno da Champions League, diremmo oggi, formato da Corriere della Sera, Repubblica e Stampa, che al suo interno era mediato dall’Unità che triangolava tra Corriere e Repubblica, che anche per una questione di stile non si parlavano direttamente. E poi c’era un altro pool, diciamo minore, formato, se non ricordo male, da Messaggero, Avvenire e Giorno. Questi due pool erano in concorrenza fra loro, ma all’interno di ogni poll c’era un patto. Ovviamente il patto fra Corriere, Repubblica e Stampa aveva una valenza giornalistica e anche politica».

Sallusti: «Così i giornalisti diventarono gli addetti stampa delle Procure»…

E allora, continua la sua ricostruzione Sallusti: «Verso le cinque o le sei del pomeriggio, quindi prima di iniziare a pensare alla prima pagina, c’era questo scambio di telefonate per chiedere quello che si sarebbe fatto il giorno dopo. Che cosa si pensava e così via. Poi si arrivava anche a informarsi reciprocamente del titolo in maniera letterale. Ma non era tanto una questione di titolo letterale, ma di dire “oggi si va addosso a Tizio, domani a Caio”. E questo era un lavoro che avveniva quotidianamente: non c’è il minimo dubbio. Nessuno può smentirlo”. “E comunque sì, si può dire anche che il ruolo del giornalista fu quello di fare il passacarte della procura – sottolinea Sallusti -, si sperimentava non solo un nuovo modo di fare le inchieste giudiziarie, ma anche un nuovo modo di fare il giornalismo. Fino a quel momento tirare fuori una carta delle procure era impensabile. Ed è lì che nacque la “giustizia spettacolo”. Lì nacque il patto fra procure e giornalisti, ma non nacque perché ci fu una riunione per deciderlo, nacque. Ed è ovvio che tra il furore cieco dell’opinione pubblica, tra i giornali che ogni giorno vendevano 10mila copie in più, fra l’ebrezza di partecipare a un’impresa, si è diventati, non per scelta, gli addetti stampa delle procure. E se qualcuno non assecondava il pool, addio notizie e addio verbali».

«Ma quando mi venne cassato il titolo su Primo Greganti, cassiere del Pds, indagato…»

E ancora: «Quando tu per giorni fai titoli “indagato Craxi”, “indagato Forlani”, e così via. Poi a un certo punto, per sbaglio, le procure mettono gli occhi su Primo Greganti, cassiere del Pds, e io faccio il titolo “indagato il cassiere del Pds”, e mi viene cassato perché non si poteva fare: allora lì cominci a chiederti “ma com’è questa storia?“. E quindi poi maturano certe considerazioni e certe scelte»… E a tal proposito, Sallusti con l’Adnkronos conclude la sua disamina soffermandosi su quanto scritto oggi dal direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Secondo il quale «quella del 1992-’93 fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra che, prima e dopo, ha sempre confuso le guardie con i ladri, i giornalisti con i leccaculo». «Diciamo che i giornalisti alle procure da quel periodo in poi hanno leccato il culo a lungo – chiosa Sallusti –. E qualcuno lo fa ancora adesso in maniera totalmente acritica e omertosa. Quindi sì: Travaglio ha ragione. Talmente ragione che siamo ancora in una stagione di giornalisti leccaculo. Solo che adesso lecchiamo il culo alle procure. Ora non so se il culo delle procure è più profumato del culo di qualcun altro, ma sempre culo è…».

"Il pool non toccò i Ds perché aveva bisogno di un sostegno politico". Francesco Boezi il 22 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex pm di Mani pulite: "Io avrei dovuto essere il trait d'union, ma non ho accettato".

L'avvocato Tiziana Parenti, l'ex pm e parlamentare soprannominata «Titti la Rossa», ricorda il sostegno dei Ds a Mani Pulite, «l'imprevisto» Berlusconi ed i motivi per cui decise di lasciare.

Come mai soltanto alcune forze politiche vennero defenestrate?

«L'interrogativo su cui ancora oggi ci si interroga per cui tutti i partiti di governo furono travolti da Mani Pulite e in primis il PSI e la DC, quest'ultima seppure con i dovuti distinguo, mentre rimase fuori dalla tempesta il PCI -PDS, ad eccezione di alcune posizioni per responsabilità personale, si può risolvere solo se pensiamo alle contingenze politico-economiche e alla fine del comunismo che ormai rendeva accettabile, anche oltre Oceano, come referente l'ex Pci, ormai PDS».

Lei avrebbe voluto indagare sui Ds ma qualcuno la fermò?

«È pacifico, solo se si rileggono i giornali dell'epoca che, il PDS, dopo un momento iniziale di esitazione, appoggiò in toto, sul piano politico, Mani Pulite. Al tempo stesso Mani Pulite aveva bisogno, secondo le stesse parole di D'Ambrosio, di avere una forza politica, che fosse stata forza di governo, che li appoggiasse a prescindere da se, come e quanto anche questo partito avesse partecipato al finanziamento illecito o tangentizio, che di sicuro, almeno per una buona parte degli anno ottanta, si era svolto in modo diverso dagli altri partiti».

In che senso ne «aveva bisogno»?

«Perché, a prescindere dalle simpatie politiche di alcuni e non certo di tutti i componenti del pool, un'operazione del genere ed una loro conquista diretta del potere non sarebbe stata possibile senza l'appoggio di un grande partito popolare che comunque sarebbe restato sotto scacco proprio perché salvato».

E lei?

«Avrei dovuto essere lo strumento dell'operazione e questo non l'avevo capito in perfetta buona fede all'inizio. Ho ritenuto che il mio compito fosse quello di un normale Pm che svolge le sue indagini. Ma non era questo che mi si richiedeva. Quando ho avuto chiara la situazione, non ho lasciato equivoci circa il fatto che o mi veniva ritirato l'incarico o non potevo fare altro che andare avanti secondo i miei doveri, a prescindere e magari anche contro le mie idee».

C'è chi pensa che l'obiettivo del pool non fosse la rivoluzione.

«Che cosa perseguisse il pool non lo so e neppure so su quali basi potesse ritenere di conseguire il risultato di andare al potere. Ho l'impressione che non si sia mai detta la verità da parte di tanti soggetti e non solo del pool».

Poi arrivò la discesa in campo di Silvio Berlusconi...

«Di certo Berlusconi è stato l'imprevisto che nessuno aveva calcolato ma che nelle pianificazioni della strategia politica sempre dovrebbe essere calcolato. Il fatto è che quella strada era stata fin troppo liscia, solo se si pensa che in due anni scarsi è stata distrutta una classe politica, che pur con tutti i torti e peccati ha reso questo Paese ricco, libero e sicuro. L'unico che ha avuto il coraggio di impersonare questo imprevisto è stato Berlusconi».

Craxi, Berlusconi e oggi Renzi. Siamo alle solite?

«Con Berlusconi e la lunga sequenza dei processi a suo carico, poi finiti nel nulla con una sola eccezione che peraltro nulla aveva a che fare con la sua attività politica, inizia una nuova epoca che in qualche misura resiste come nel caso di Renzi. Ma questi scontri non sono più contro un intero sistema come all'epoca, ma sono contro la singola persona».

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la 

La “confessione” del compagno Ranieri ignorata da giornali e politica. Lo storico dirigente del Pds riconosce la deriva giustizialista ai tempi di Tangentopoli. Ma nessuno (o quasi) se n'è accorto...di Francesco Damato su Il Dubbio il 22 febbraio 2022.

Umberto Ranieri, storico dirigente napoletano del Pd, cinque volte deputato, una volta senatore, tre volte sottosegretario agli Esteri, un migliorista a 24 carati di quello che fu il Pci, ha scritto per Il Mattino una lunga, onestissima e sotto molti aspetti inedita “riflessione” su Mani pulite da lui vissute non certo come un passante.

Riconosciuto ad Enrico Berlinguer il merito di avere sollevato per primo la cosiddetta questione morale denunciando l’esorbitante spazio occupato dai partiti in una situazione bloccata dalla mancanza di alternative agli equilibri politici formatisi a livello sovranazionale dopo la seconda guerra mondiale, Ranieri ha contestato all’allora popolarissimo segretario del Pci di non avere praticamente fatto nulla per andare oltre alla denuncia e rimediarvi. All’alternativa da costruire con gli scomodi cugini o compagni socialisti, specie quando Bettino Craxi ne assunse la guida, pur non citati né gli uni né l’altro stavolta da Ranieri, il segretario comunista in effetti preferì il compromesso storico con la Dc. Che pure era la prima beneficiaria del blocco politico in cui l’economia “ampiamente statalistica” la faceva da padrona. E alla cui ombra, tra appalti e simili, si sviluppava la pratica del finanziamento “irregolare” che “in una certa misura riguardava anche il Pci”, per cui “sarebbe una manifestazione di ipocrisia negarlo”, ha scritto Ranieri.

Quando esplose il bubbone con Tangentopoli, Mani pulite e varianti «il Pci/ Pds fornì un acritico sostegno all’azione giudiziaria persuaso che l’attività repressiva potesse favorire quel rinnovamento che non si era capaci di produrre per via politica. Un appoggio – ha insistito Ranieri- che non venne meno neppure di fronte all’emergere di riserve sulla legittimità o correttezza delle modalità operative della procura di Milano», specie con l’abuso delle manette.

«Fu Gerardo Chiaromonte – ha raccontato Ranieri- a denunciare senza incertezze ed esitazioni lo sconfinamento della giurisdizione penale e la messa in mora dei principi di garantismo. Fu un drammatico errore che Gerardo denunciò assecondare gli umori giustizialisti e non prevedere che “gli effetti di un terremoto giudiziario sulla evoluzione del sistema politico avrebbero potuto essere più dannosi che vantaggiosi».

Infatti «all’orizzonte comparve il cavaliere Berlusconi» vincendo le elezioni del 1994 non solo o non tanto per le capacità manipolatrici e di fuoco mediatico attribuitegli dagli avversari quanto perché «in realtà, una parte considerevole degli elettori non ritenne giusto che a essere spazzata via dalle inchieste fosse solo l’area dei partiti di governo, che non corrispondesse alla realtà quella sorta di “univocità di colpa”».

A proposito del tentativo fallito dal governo Amato, col famoso decreto legge del ministro della Giustizia Giovanni Conso, per una uscita cosiddetta politica da Tangentopoli, e non solo giudiziaria o manettara, Ranieri ha scrupolosamente testimoniato, da deputato qual era a quei tempi, che la Commissione degli affari costituzionali della Camera se n’era già occupata convenendo con un complesso di «sanzioni amministrative e pecuniarie per l’illecito finanziamento dei partiti, e clausole che comportavano insieme alla confessione l’uscita dei responsabili del reato dalla vita politica». «Altro che colpo di spugna», ha scritto Ranieri aggiungendo che «furono il pool di Mani Pulite e l’Associazione nazionale dei magistrati a impedire che si adottasse il provvedimento» varato da governo «minacciando fuochi e fiamme e intimorendo il presidente Scalfaro, che rifiutò di firmare il decreto».

Di fronte ad “una politica rimasta debole”, che “ha continuato a subire negli anni successivi un forte condizionamento da parte del potere giudiziario”, per cui “non si è riusciti a ripristinare rapporti di maggiore equilibrio istituzionale”, i referendum sulla giustizia appena ammessi dalla Corte Costituzionale “forse aiuteranno il Parlamento a misure di modernizzazione del sistema giudiziari”, ha scritto Ranieri esortando a “impegnarsi perché accada”.

Ebbene, sapete dove Il Mattino ha pubblicato domenica questa pò pò di riflessione, testimonianza e quant’altro? A pagina 43, senza un rigo – dico un rigo – di richiamo in prima pagina. Dove invece si è preferito il richiamo che meritava, per carità, ma non meno dell’articolo di Ranieri, il drammatico ricordo del suicidio del padre e parlamentare socialista bresciano Sergio Moroni da parte della figlia Chiara: un dramma che senza la “riflessione” di Ranieri non si potrebbe certo valutare appieno.

Ma ieri, lunedì, non so per caso o per una qualche graduatoria politica, ho trovato sulla prima pagina dello stesso Mattino il giornale al cui allora direttore Giovanni Ansaldo chiesi e ottenni da studente universitario di scrivere, vedendomi commissionare un bel pò di recensioni di libri politici- il richiamo in prima pagina di un’intervista di Luciano Violante in cui si dà “ragione a Craxi”. Ma allora cosa avrà mai fatto Ranieri al Mattino, mi chiedo cogliendo l’occasione per attribuire anche a noi giornalisti la responsabilità della crisi della politica.

Gustavo Bialetti per “La Verità” il 22 febbraio 2022.  

Il gruppo Gedi della famiglia Elkann ha pensato bene di ricordare i 30 anni di Mani pulite con un agile libercolo in vendita in edicola. Sono quasi 380 pagine. Il titolo è L'Italia di Mani Pulite. 

A trent' anni dall'inchiesta che segnò la fine dei partiti figli del dopoguerra, svelò la corruzione di un sistema e cambiò il volto del Paese. Ci sono articoli dell'Espresso, di Repubblica e della Stampa.

Ritroviamo così gli autori dell'epoca, di ieri e di oggi. Eppure a un certo punto, a pagina 360, compare un articolo non firmato preso da Repubblica del 28 maggio 1995. 

Il titolo è inequivocabile. Il giorno della Mondadori. Tocca al manager Urbano Cairo. Nel catenaccio si legge: «Il dirigente, 37 anni appena, è coinvolto, attraverso una piccola società controllata dalla sua famiglia nel giro di fatture false che ruota intorno a Publitalia». La storia dell'attuale azionista di maggioranza del Corriere della sera sotto Tangentopoli è nota sebbene non sia così importante. Fu uno dei pochi a chiedere il patteggiamento.

«Ancora uno degli uomini più vicini a Silvio Berlusconi viene interrogato dai sostituti procuratori dell'inchiesta di Mani pulite ed è sotto inchiesta per false fatturazioni. 

Si tratta di Urbano Cairo, attuale amministratore delegato della Mondadori pubblicità, giovane ed emergente manager del gruppo del Biscione, che, senza dire una parola, ma rilassato e sorridente, esce alle 14 dalla stanza dell'interrogatorio, cominciato tre ore prima dai pm Gherardo Colombo e Francesco Greco».

Va detto, per amor di cronaca, che nel tomo si ricordano anche le inchieste sulla Fiat e Cesare Romiti. In quel caso non si indagò proprio. 

I trent'anni di Mani Pulite. "De Benedetti sapeva già tutto pochi mesi prima". Stefano Zurlo il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Non un golpe, per carità, ma piuttosto un disegno politico. Paolo Cirino Pomicino torna, trent'anni dopo, alle sorgenti di Mani pulite e svela quel che accadde dietro le quinte della Rivoluzione giudiziaria.

Non un golpe, per carità, ma piuttosto un disegno politico. Paolo Cirino Pomicino torna, trent'anni dopo, alle sorgenti di Mani pulite e svela quel che accadde dietro le quinte della Rivoluzione giudiziaria. «Nella primavera del 1991 - è il racconto al Giornale del politico democristiano, allora ministro del Bilancio nel governo Andreotti - venne a trovarmi Carlo De Benedetti con cui avevo un rapporto di amicizia, anche se la pensavamo in modo diverso. In pratica mi spiegò che con altri imprenditori legati al «salotto buono» di Enrico Cuccia voleva modificare gli assetti politici del Paese e spostarli verso i post-comunisti che al congresso di Rimini, in febbraio, avevano fondato il Pds e si erano convertiti a posizioni riformiste».

Insomma, l'establishment italiano aveva annusato l'aria e aveva intuito, o sapeva, che il vento stava cambiando e si stava preparando una nuova stagione. Non era ancora Mani pulite, ma certo con la caduta del Muro gli equilibri nati nel 1945 erano saltati e l'epoca del bipartitismo imperfetto, la Dc al potere e il Pci all'opposizione, era arrivata ai titoli di coda.

Servivano schemi diversi e combinazioni inedite e il gotha dell'industria tricolore aveva fatto le sue scelte, sposando la sinistra.

È esattamente quel che Cirino Pomicino ha narrato a Simone Spetia per il podcast di Radio 24 Monetine, confezionato per l'anniversario di Mani pulite. «Parlare di golpe sarebbe una fregnaccia», mette le mani avanti il neurologo da sempre nel Palazzo - piuttosto direi che De Benedetti voleva cavalcare quei rivolgimenti e dunque mi lanciò l'idea: Fai il mio ministro. Fai tu il nostro industriale replicai capovolgendo la frittata e chiamando in causa anche Andreotti. Insomma, la questione finì sul ridere, ma De Benedetti capì che non condividevo quel progetto».

Cirino Pomicino aveva già accennato a questa vicenda nei suoi scritti, ma ora si sofferma su quelle settimane cruciali che portarono al tramonto della Prima Repubblica: «Io condussi le mie verifiche e scoprii che la trama c'era ed era molto articolata. Dunque, preoccupato e inquieto, informai i capi della Dc ma ho sempre avuto il privilegio di non essere creduto e la cosa finì lì».

Insomma, la Dc e il governo scivolarono verso il baratro senza prendere alcuna contromisura, impreparati all'appuntamento con la storia e a quello ancora più drammatico con la cronaca giudiziaria.

«A dicembre '90 la corrente andreottiana si era riunita e in quel convegno c'erano state presenze importanti, a cominciare dallo stesso De Benedetti, dal Presidente di Confindustria Sergio Pininfarina e da imprenditori del calibro di Giorgio Falck. Sembrava che tutto filasse per il meglio, ma era solo un abbaglio. A settembre '91, al Forum Ambrosetti di Cernobbio, mi accorsi che il clima era completamente cambiato. I cosiddetti poteri forti ci avevano abbandonato, i grandi giornali, dal Corriere alla Repubblica, iniziarono a criticarci pesantemente, e mi avvidi che la Dc e il pentapartito avevano perso la sintonia con le classi dirigenti del Paese».

Un altro campanello d'allarme, pochi mesi prima dell'avvio della grande inchiesta condotta da Antonio Di Pietro. Il 17 febbraio 1992 finisce in manette Mario Chiesa, il potente presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio e il vecchio sistema di potere comincia a sfaldarsi. Molti leader assistono sbigottiti e increduli all'escalation delle manette e immaginano complotti e macchinazioni, magari orchestrate da potenze straniere; intanto la procura guidata da Francesco Saverio Borelli falcia i big socialisti e democristiani che cadono come birilli uno dopo l'altro. «A giugno '92, con Amato a Palazzo Chigi - prosegue l'ex deputato napoletano, autore di numerosi libri - Gerardo Chiaromonte, uno dei pezzi da novanta della nomenklatura rossa, mi fece sapere riservatamente che il Pds aveva scelto la via giudiziaria per andare al potere. E so che la stessa comunicazione arrivò al leader liberale Renato Altissimo. Cosa questo significasse in concreto non me lo chiarì, ma certe anomalie sono evidenti anche oggi, a distanza di tanto tempo e, in parte, restano inspiegabili: il Pds e la sinistra democristiana, insomma i soggetti che poi formarono l'Ulivo, schivarono miracolosamente la tempesta. Solo non avevano calcolato tale Silvio Berlusconi. Ma quella è un'altra storia». Stefano Zurlo

Pomicino su Mani Pulite: "Non fu golpe giudiziario ma disegno politico. De Benedetti ebbe un ruolo". Rec News dir. Zaira Bartucca il 15 febbraio 2022.

Le dichiarazioni del politico sul filone di inchieste che scompaginò gli assetti e travolse i partiti.

A trent’anni da Mani Pulite, Paolo Cirino Pomicino: “Non fu golpe giudiziario ma disegno politico”. “Definirlo solo un golpe giudiziario è una fregnaccia”. “Sapevo già tutto dal 1991, Carlo De Benedetti mi parlò del suo disegno politico”. “Avvertii i miei riferimenti nazionali ma non fui mai ascoltato”. Così Paolo Cirino Pomicino a “Monetine – cinque storie di Mani Pulite”, il podcast di Simone Spezia su Radio 24 che racconta dal suo punto di vista Mani Pulite e quello che accadde nel 1992.

Alla domanda “Ma nel 1992 aveva capito che stava per succedere qualcosa di enorme?” Pomicino risponde: “Mi avevano avvertito da un anno prima di quello che sarebbe successo perché nel 1991, in primavera, venne da me Carlo De Benedetti per dirmi che stava preparando un disegno politico, insieme ad altri imprenditori, per modificare l’assetto politico del paese. Io dissi, ironicamente, che mi stava spiazzando, dicendogli che con Andreotti stavamo pensando a un progetto industriale e gli volevo chiedere, sempre ironicamente, se volesse essere il nostro imprenditore. La portai sullo scherzo sottolineando il primato della politica, ma nella verità De Benedetti si convinse che non ero d’accordo con il suo disegno. Avvertii i miei riferimenti nazionali di questa cosa ma non fui mai ascoltato. Non lo definisco golpe giudiziario ma disegno politico. Definirlo solo golpe giudiziario è una fregnaccia”.

30 anni di Mani Pulite, dall’arresto di Chiesa alla scoperta del sistema. il racconto di Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo al Fatto. Il Fatto quotidiano il 17 febbraio 2022.

Sono passati 30 anni quando Antonio Di Pietro ha arrestato Mario Chiesa. Era il 17 febbraio 1992: allora iniziò l’inchiesta giudiziaria che ha segnato un prima e un dopo nella politica italiana: Mani pulite. Mario Chiesa finisce in carcere per aver intascato una mazzetta, dopo pochi giorni inizia a collaborare e l’inchiesta ha una svolta. Chiesa, socialista vicinissimo a Craxi, scaricato dal partito, chiama in causa alcuni imprenditori e tutti gli imprenditori improvvisamente collaborano.

“In realtà c’erano delle altre cose, la prima è che Chiesa all’inizio non parla – spiega Piercamillo Davigo -. Decide di parlare per due fattori. Secondo me. Il primo fattore riguarda la sua causa di separazione. Di Pietro era venuto a conoscenza dell’esistenza in Svizzera di due conti intestati al nome di acque minerali. E aveva fatto una rogatoria credo ottenendo il sequestro delle somme. Aveva detto all’avvocato di Chiesa: dica al suo cliente che l’acqua minerale è finita. L’avvocato disse che non capiva, Di Pietro rispose capirà lui. E la seconda cosa fu che Craxi, il segretario del Partito Socialista cui apparteneva la Chiesa, disse che lui si trovava nei guai per colpa di un isolato mariuolo e che in 50 anni nessun amministratore del suo partito nella città di Milano era mai stato condannato con sentenza definitiva per reati contro la pubblica amministrazione”.

E questo, secondo il racconto dell’ex magistrato, è un passo falso da parte di Craxi: “Chiesa l’ha presa come l’essere scaricato e isolato. Pochissimo tempo dopo, il 3 luglio, Craxi alla Camera pronuncia un famoso discorso in cui dice che fin da quando sono ragazzino che so che si fanno queste cose ecc. il sistema di finanziamento della politica è in larga misura irregolare o illegale eccetera eccetera”.

Ma perché gli imprenditori iniziano a parlare proprio nel 92? Perché non prima? “Fino a quel momento – spiega Davigo – gli imprenditori erano riusciti tranquillamente a trasferire il costo delle tangenti sulla pubblica amministrazione, attraverso la revisione e le varianti in corso d’opera o le revisioni dei prezzi, i costi che c’erano. Nel 92, anzi forse già nel 91, c’era stata una stretta di bilancio imposta dal governo. Ovviamente la stretta di bilancio serviva a impedire la traslazione dei costi delle tangenti sulla Pubblica Amministrazione, quindi improvvisamente questi costi andavano a incidere non più sul costo delle opere ma sul profitto degli imprenditori i quali hanno cominciato a sentirsi concussi. La concussione quando uno è costretto o indotto a pagare in una situazione di inferiorità rispetto al pubblico ufficiale”.

A Piercamillo Davigo fa eco un altro ex magistrato, componente del pool di Mani Pulite, Gherardo Colombo: “Adesso la vulgata, il senso collettivo di questa roba qua è che Mani pulite è stata una specie di invenzione, che la corruzione non c’era, e che abbiamo messo in prigione le persone per fare un colpo di Stato e addirittura se chiediamo che sia accertato che quel che si dice in proposito non è vero da parte delle autorità giudiziarie ormai il diritto di critica copre praticamente tutto…”. Poi, conclude raccontando il sistema: “Sulla sanità lombarda abbiamo trovato proprio lo schema di distribuzione degli appalti con le percentuali per ciascuna impresa, riferite a ciascun ospedale. Io credo che alla fine noi siamo arrivati a 700 rogatorie internazionali rivolte a una trentina di paesi, sopratutto alla Svizzera, tutte indirizzate a ottenere conti correnti bancari o documentazione societaria. Ogni volta che ci arrivava una risposta erano decine e decine di corruzioni in più che noi scoprivamo… e invece adesso c’è questa credenza popolare secondo cui ci siamo inventati tutto…”

La verità su Tangentopoli: ecco i verbali che hanno cambiato la storia d’Italia. Le confessioni di Chiesa, il primo arrestato. Le rivelazioni di Larini, il tesoriere del Psi di Craxi e Martelli. La maxicorruzione Enimont. Le tangenti rosse di Primo Greganti. Le ammissioni di Romiti, De Benedetti, Scaroni. I fondi segreti di Pacini Battaglia. Le buste di denaro da Pomicino a Salvo Lima. I soldi della Montedison alla Lega. Le mazzette Fininvest mentre Berlusconi è al governo. Tutta l’inchiesta Mani Pulite raccontata dai protagonisti: 15 big della politica e dell’economia che spiegano ai magistrati «il sistema». Paolo Biondani su L'Espresso il 15 Febbraio 2022.

Trent'anni fa, il 17 febbraio 1992, un arresto a Milano ha fatto partire un'inchiesta giudiziaria, chiamata Mani Pulite, che ha cambiato la storia del nostro Paese. In meno di tre anni quell'indagine ha fatto emergere migliaia di casi di corruzione, svelando un sistema organizzato, gerarchico, diffuso da decenni a tutti i livelli, di saccheggio delle risorse pubbliche. Tra gli oltre 1200 condannati per tangenti e fondi neri ci sono i più importanti imprenditori dell'epoca e tutti i leader e tesorieri dei partiti che hanno governato l’Italia per quasi mezzo secolo, tutti liquidati con le elezioni del 1994 e la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica. Da allora la corruzione è cambiata, ma non è certo finita. E non si mai fermate le polemiche, contrapposizioni e riletture di quel periodo di svolta storica, in un'Italia che sembra ancora spaccata in due, pro o contro Mani Pulite.

Per dare ai lettori la possibilità di capire direttamente, senza filtri o mediazioni, cosa è stata Tangentopoli (un fortunato neologismo coniato da un cronista giudiziario di Repubblica, Piero Colaprico) abbiamo deciso di pubblicare i verbali integrali dei protagonisti: il sistema della corruzione raccontato dai big della politica e dell'economia che ne hanno fatto parte o l'hanno dovuto subire. Sono gli interrogatori e i memoriali che hanno svelato la storia segreta del potere in Italia. Le confessioni del primo arrestato, Mario Chiesa, presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, che mettono in moto la valanga giudiziaria. Le ammissioni di Gianstefano Frigerio, il tesoriere della Dc lombarda, poi diventato parlamentare di Forza Italia, dopo tre condanne, e riarrestato nel 2014 per le tangenti dell'Expo. Le rivelazioni di Silvano Larini, il tesoriere del Psi che portava le buste di contanti a Bettino Craxi e ha prestato il suo conto svizzero per incassare i soldi della P2: 7 milioni di dollari versati dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, con la regia di Licio Gelli e dell'ex ministro Claudio Martelli.

E ancora, le tangenti rosse di Primo Greganti, il «compagno G», l'ex funzionario comunista che incassava all'estero i bonifici della Calcestruzzi, la società di costruzioni del gruppo Ferruzzi, confessate dal manager Lorenzo Panzavolta. L'interrogatorio cruciale di Pierfrancesco Pacini Battaglia, il banchiere segreto dell'Eni, che ammette di aver mandato dalla Svizzera in Italia almeno 50 miliardi di lire (25 milioni di euro), consegnati in contanti ai tesorieri del Psi e in parte minore della Dc.

All'aprile 1993, l'anno delle indagini sulle grandi aziende pubbliche e private, risale il memoriale di Cesare Romiti, con l'ammissione che anche i manager di sei società del gruppo Fiat «non hanno potuto resistere» e hanno dovuto accettare «un sistema altamente inquinato» di finanziamenti illeciti ai partiti di governo. In maggio arriva la confessione di Carlo De Benedetti che diverse società del gruppo Olivetti, osteggiate da «un regime politico prevaricatore», hanno dovuto versare, «a partire dal 1987», circa 20 miliardi di lire ai collettori e tesorieri della Dc, Psi, Psdi e Pri. E poi ci sono le ammissioni di moltissimi altri capitani d’azienda, come il super manager Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan, che negli anni di Tangentopoli guidava la Techint e raccoglieva anche da altre imprese i soldi che lui stesso poi consegnava ai tesorieri socialisti, per ottenere appalti per le centrali a carbone dell'Enel, di cui poi è diventato il numero uno.

Al processo simbolo di Mani Pulite si arriva con gli interrogatori per la maxitangente Enimont, con tutti i nomi dei politici che si sono spartiti oltre 150 miliardi di lire: segreti rivelati dal cervello finanziario del gruppo Ferruzzi-Montedison, Giuseppe Garofano, dopo i suicidi Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni, e di Raul Gardini, che aveva guidato per anni il colosso chimico privato. Tra i politici, spicca il verbale di Paolo Cirino Pomicino, ministro del Bilancio nell'ultimo governo Andreotti, che nel novembre 1993 confessa di aver intascato più di cinque miliardi di lire in titoli di Stato, consegnatigli «in tre buste» da Luigi Bisignani, che li aveva riciclati allo Ior, la banca del Vaticano. Davanti al pm Antonio Di Pietro, l'allora parlamentare spiega di aver usato quei soldi per pagare le campagne elettorali dei candidati della sua corrente andreottiana, precisando di aver girato un miliardo e mezzo a Salvo Lima, il politico siciliano colluso con la mafia (secondo numerose sentenze) che fu ucciso dai killer di Cosa Nostra dopo la conferma in Cassazione delle condanne del primo maxiprocesso.

Tra le sorprese politiche, c'è il verbale del tesoriere della Lega, Alessandro Patelli, che nel dicembre 1993 viene arrestato e confessa di aver incassato una tangente di 200 milioni di lire, già ammessa dai manager della Montedison. Umberto Bossi, fondatore e segretario del partito, nega di aver saputo, ma il 20 dicembre consegna alla procura un assegno con il rimborso integrale del finanziamento illecito.

Il capitolo finale di Mani Pulite è l'indagine sulla corruzione per evadere le tasse, che coinvolge anche la Fininvest di Silvio Berlusconi, capo del governo in carica. Nel luglio 1994 il manager Salvatore Sciascia ammette che tre società del gruppo hanno versato tangenti a diversi militari della Guardia di Finanza, che lo hanno già confessato. Sciascia dichiara che a dare l'autorizzazione e a fornire i fondi neri era Paolo Berlusconi, mentre il fratello Silvio non ne sapeva nulla. Condannato in primo grado, il leader di Forza Italia ottiene la prescrizione in appello e una trionfale assoluzione in Cassazione, che conferma solo le condanne dei manager, compreso Sciascia, poi diventato parlamentare.

Il sipario su Mani Pulite si chiude il 6 dicembre 1994, quando il pm Antonio Di Pietro, simbolo e motore delle indagini, lascia la procura all'improvviso, dopo la requisitoria del processo Enimont, proprio alla vigilia dell'interrogatorio di Berlusconi. Che una settimana dopo, interrogato nell’ufficio del procuratore Borrelli, polemizza con i magistrati: «E voi per una cosa del genere indagate il capo del governo? Ma vi rendete conto del danno all’Italia?». Lasciata la magistratura, nel 1995 Di Pietro viene indagato e poi assolto a Brescia.

Attenzione: tutti i documenti che pubblichiamo negli altri articoli di questo sito sono verbali d'interrogatorio, non sentenze di condanna. Hanno valore di prova solo nelle parti in cui l'indagato confessa i propri reati. Tutte le altre persone chiamate in causa per ipotetiche accuse, invece, vanno considerate innocenti, fino a prova contraria, perché nei successivi processi potrebbero aver dimostrato la propria estraneità o essere stati prosciolte per prescrizione, amnistia o altre ragioni. Gli interessati possono inviare commenti, repliche o precisazioni a L'Espresso (all'indirizzo p.biondani [chiocciola] espressoedit.it), che le pubblicherà integralmente su questo stesso sito, all'interno dell'articolo in questione. Abbiamo deciso di pubblicare integralmente questi quindici verbali di Mani Pulite perché sono documenti di interesse pubblico e di importanza storica, che riguardano problemi ancora attuali: contengono le ricostruzioni del sistema della corruzione fornite direttamente dai protagonisti, da personaggi che hanno segnato la vita politica ed economica del nostro Paese e che durante le indagini, assistiti dai loro avvocati di fiducia, si sono assunti la responsabilità di deporre davanti alla magistratura, ripetendo più volte di voler dire tutta la verità.

Gianstefano Frigerio, il tesoriere nero della Dc lombarda: condannato, diventato onorevole di Forza Italia e riarrestato. Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.

Milano, 17 febbraio 1992: il presidente del Pio Albergo Trivulzio viene ammanettato mentre intasca una mazzetta. A fine marzo, ammette vent’anni di corruzioni. Ecco l’atto d’inizio di Tangentopoli

L'inchiesta Mani Pulite inizia trent'anni fa, il 17 febbraio 1992, con un arresto in flagranza. Quel pomeriggio a Milano i carabinieri ammanettano un dirigente pubblico di nomina politica, il socialista Mario Chiesa, nel suo ufficio di presidente dello storico ospizio Pio Albergo Trivulzio. L’ingegner Chiesa ha appena intascato sette milioni di lire in contanti, pari a 3500 euro.

Le rivelazioni di Larini: le buste di soldi per Bettino Craxi, i 7 milioni della P2 gestiti da Martelli. Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.  

L’architetto socialista ammette di aver prestato il suo «Conto Protezione» per incassare in Svizzera le tangenti pagate dal banchiere Calvi con la regia di Licio Gelli. Ecco l’accusa che nel febbraio 1993 fa dimettere l’allora ministro della giustizia. Silvano Larini, architetto e faccendiere socialista, è stato per anni uno degli amici più fidati di Bettino Craxi. Nel febbraio 1993, indagato e ricercato come collettore delle tangenti del metrò di Milano, si costituisce dopo una latitanza all'estero e confessa ai magistrati di Milano quindici anni di tangenti.

In questo storico verbale di Mani Pulite, Larini spiega di aver avuto da Craxi in persona (e dal suo padrino politico, il defunto parlamentare milanese Antonio Natali) l’incarico di «incassare per il Psi il denaro versato dalle imprese per gli appalti della metropolitana (...)

Quando gli Stati Uniti scaricarono Bettino Craxi. L'incontro tra il presidente Bush e Falcone a Roma. E il colloquio segreto tra Cuccia e il leader Psi. Così, tra il 1989 e il 1990, si preparò la fine della Prima Repubblica. Fabio Martini su L'Espresso l'8 gennaio 2020.

Bettino Craxi Anticipiamo in queste pagine uno stralcio del nuovo libro di Fabio Martini “Controvento. La vera storia di Bettino Craxi”, Rubbettino editore, in uscita il 9 gennaio, in occasione del ventesimo anniversario della morte del leader socialista, avvenuta il 19 gennaio 2000 nella sua casa di Hammamet, in Tunisia.

Quel saggio su Proudhon con cui Bettino Craxi segnò la storia della sinistra in Italia. Nell’agosto del 1978 il segretario del Psi pubblicava sull'Espresso il "vangelo" del suo socialismo. Uno spartiacque per ?la sinistra di ieri. Un modello ?per gli aspiranti leader di oggi? Marco Damilano su L'Espresso il 30 agosto 2018.

Bettino Craxi Il Vangelo socialista, lo titolò il direttore dell’Espresso Livio Zanetti, con malizia, perché dopo tanto girovagare il popolo socialista aveva finalmente trovato il suo messia: una buona novella, soprattutto per lui, l’autore del testo, il segretario del Psi Bettino Craxi. 

«Un baedeker ideologico e un argomento di discussione», si leggeva nel sommario, «il segnale d’avvio di un’offensiva destinata a tenere alta la temperatura tra il Pci e il Psi per molte settimane», precisava nell’introduzione Paolo Mieli, giornalista del settimanale di via Po, come ci chiamavano all’epoca sugli altri giornali, ma alla fine il saggio firmato da Craxi si rivelò molto di più.

Hammamet, un grande Pierfrancesco Favino per un piccolo film. Superba la prova dell’attore che interpreta Bettino Craxi. Ma il resto lascia a desiderare. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 14 gennaio 2022.

Il vecchio carroarmato è arenato nella sabbia africana dai tempi dell’ultima guerra. Imponente ma inoffensivo, trasmette una hybris luciferina e insieme una solitudine definitiva, minerale. Insomma è la perfetta metafora di quell’uomo malato e costretto all’autoesilio, un esilio che molti chiamano fuga. Così, davanti a quel residuato bellico il Presidente (nel film Craxi resta innominato) decide di parlare.

Il tesoriere della Lega confessa la tangente Montedison. E Umberto Bossi risarcisce la Procura. Paolo  Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.  

Nel 1993 il Carroccio vince le elezioni a Milano attaccando «Roma ladrona», ma in dicembre finisce in carcere Alessandro Patelli, che ammette di aver ricevuto 200 milioni di lire dal gruppo chimico. Il senatur nega di aver saputo, ma viene condannato in tutti i gradi del processo Enimont insieme ai big dei vecchi partiti

Dopo i primi boom di voti alle regionali del 1990 (oltre il 18 per cento in Lombardia) e alle elezioni politiche del 1992 (8,7 a livello nazionale) la Lega Nord nel giugno 1993 conquista il Comune di Milano. Il partito fondato da Umberto Bossi cavalca le indagini di Mani Pulite con una dura campagna contro la corruzione e i vecchi partiti di «Roma ladrona» che tartassano il Nord produttivo. 

L’ex ministro dell’ultimo governo Andreotti, dopo le confessioni dei dirigenti ammette di aver ricevuto tre buste di fondi neri riciclati in Vaticano. E spiega di averli usati per pagare le campagne elettorali dei candidati della sua corrente, dalla Campania alla Sicilia, Puglia, Toscana e Veneto

Paolo Cirino Pomicino, parlamentare democristiano dal 1976 al 1994 e ministro del Bilancio nell'ultimo governo Andreotti, ha superato da tempo la bufera di Tangentopoli: è stato parlamentare europeo fino al 2006 e tuttora viene intervistato da giornali e televisioni come un grande saggio della politica italiana. Pochi ricordano che a Milano ha dovuto patteggiare una storica condanna per lo scandalo Enimont: della maxitangente pagata dalla Montedison, ha incassato più soldi lui di tutta la Dc.

Carlo De Benedetti: «L’Olivetti costretta a piegarsi ai ricatti dei politici, mi assumo la responsabilità». Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.  

L’industriale ed editore consegna al pm Di Pietro, nel maggio 1993, una memoria con l’ammissione che il suo gruppo ha dovuto versare circa 20 miliardi di lire dal 1987 “al regime prevaricatore dei partiti”. «I ministri perseguitavano l’azienda».

Tra l'autunno 1992 e la primavera 1993 anche il gruppo Olivetti entra nelle indagini di Tangentopoli, prima per le forniture di alcune società controllate alle aziende pubbliche dei trasporti, poi per gli appalti del ministero delle Poste. Domenica 16 maggio 1993 Carlo De Benedetti consegna personalmente ai pm Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Paolo Ielo, nella caserma di via Moscova dei carabinieri di Milano, un memoriale di undici pagine, con l’ammissione che diverse società del suo gruppo hanno versato, «a partire dal 1987», finanziamenti illeciti per circa 20 miliardi di lire ai collettori e tesorieri della Dc, Psi, Psdi e Pri.

Silvio mi disse: sono più forte di Craxi. L'Espresso il 19 gennaio 2012.

"Nel '90 Berlusconi aveva cominciato a maturare l'idea che il sistema fosse alla fine. Ricordo una colazione con lui a casa mia. "Sai", mi disse, "se volessi farei il culo a Craxi domani mattina, perché io ho molto più potere di lui, con il Milan, le mie tv, lo faccio fuori in cinque minuti"".

L’INIZIO. LA STORIA. Mani Pulite e Tangentopoli: cosa sono state e perché non hanno cambiato niente. anni '90 archivio storico Mani pulite (comunemente nota anche come tangentopoli) è il nome giornalistico dato ad una serie d'inchieste giudiziarie, condotte in Italia nella prima metà degli anni novanta da parte di varie procure giudiziarie, che rivelarono un sistema fraudolento ovvero corrotto che coinvolgeva in maniera collusa la politica e l'imprenditoria italiana. nella foto: Tangentopoli. Busta n° 6241. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 16 febbraio 2022

Prima dello scoppio della più grande inchiesta di corruzione della storia recente, l’Italia era un paese in crisi e con una classe politica distante e disprezzata: trent’anni e migliaia di arresti dopo, la situazione non sembra essere cambiata.

Sono passati esattamente 30 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani Pulite e Tangentopoli, lo scandalo giudiziario che ha segnato un’epoca, tra gli eventi più importanti tra quelli che hanno contribuito a creare l’Italia di oggi.

Tangentopoli fu l’insieme di inchieste della magistratura che tra 1992 e 1994 scoperchiò un vasto sistema organizzato di corruzione utilizzata da tutti i partiti per finanziare le loro attività e, in molti casi, per arricchire singoli politici e dirigenti.

Mani Pulite è il nome della prima è più vasta di queste inchieste, quella condotta dal gruppo di magistrati di Milano di cui facevano parte nomi entrati nella storia italiana: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombro, Ilda Boccassinni, il procuratore Francesco Saverio Borrelli. Altre inchieste furono condotte in tutte il paese, coinvolgendo centinaia di politici e imprenditori. Tra il 1992 e il 1996, ci furono una media di duemila persone indagate per corruzione, concussione o altri reati cosiddetti “contro i doveri d’ufficio” ogni anno. Cifre mai raggiunte in precedenza e mai più raggiunte negli anni successivi.

Tangentopoli portò al crollo degli storici partiti che avevano guidato la Prima repubblica, ma non generò una moralizzazione della vita italiana. I problemi alla radice della corruzione e della generale percepita immoralità della vita pubblica non sono cambiati.

La scomparsa dei grandi partiti ha messo fine al finanziamento illecito organizzato, ma il nostro paese rimane uno dei più corrotti dell’Europa occidentale secondo tutti i principali indicatori, anche se in forme e modi diversi rispetto al passato.

L’eredità stessa di Tangentopoli e dell’azione dei magistrati è divenuta controversa. I metodi di indagine che in certi casi hanno superato il confine delle garanzie per gli indagati, lo stretto rapporto creato dai magistrati con la stampa, sono diventati l’elemento centrale in un processo di “revisionismo” ancora in atto. 

MANI PULITE

L’inchiesta Mani Pulite e lo scandalo di Tagentopoli iniziano il 17 febbraio del 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, politico socialista di seconda fila e presidente della più grande struttura di cura e ricovero degli anziani di Milano, il Pio Albergo Trivulzio.

Chiesa viene arrestato da Antonio Di Pietro, quello che sarebbe divenuto il più carismatico e popolare dei magistrati del “pool” di Mani Pulite, mentre riceveva una tangente da un imprenditore. Durante l’arresto, Chiesa si liberò di un’altra tangente che teneva nel cassetto gettandola nello scarico del water (il racconto sullo scarico bloccato e la fuoriuscita di liquami, per quanto suggestivo, è probabilmente apocrifo e Chiesa nega di aver gettato qualsiasi cosa nel gabinetto).

Da quel momento gli arresti si susseguirono uno dopo l’altro. Come in un gigantesco domino, ogni indagato conduce ad altri indagati. Gli imprenditori denunciano i colleghi che hanno pagato insieme a loro tangenti per ottenere appalti pubblici. I politici di seconda fila coinvolti si affrettano a denunciare i superiori non appena questi accennano a scaricarli.

In breve diviene chiaro che i magistrati non avevano di fronte numerosi casi di corruzione slegati l’uno dall’altro, ma un sistema strutturato e preciso, in cui per vincere appalti o realizzare opere pubbliche era necessario pagare tangenti, attentamente calcolate sull’importo totale dei lavori.

Queste tangenti venivano poi redistribuite a tutti i partiti. A Milano, il 50 per cento di quanto raccolto spettava al Partito socialista italiano (il Psi), fortissimo in città, il 20 per cento alla Dc, il 20 per cento al Pds (partito erede del Pci) e il resto ai partiti minori.

Inizialmente, i leader nazionali e locali parlano di poche mele marce. Bettino Craxi, il potente e carismatico leader del Psi, dice che il suo partito era vittima del cattivo comportamento di «pochi mariuoli». Ma le inchieste stavano rapidamente assumendo una dimensione che era impossibile trascurare.

Erano ormai decenni che la corruzione della classe politica veniva data per scontata, così come veniva dato per scontato che i politici non pagassero mai. Le indagini stavano dando la stura a un sentimento diffuso.

Alle elezioni politiche dell’aprile 1992, a meno di due mesi dall’inizio dell’inchiesta, i partiti tradizionali subirono un tracollo di fronte all’ascesa della Rete, movimento del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, e la Lega Nord di Umberto Bossi, che a Milano divenne il primo partito.

LE POLEMICHE

I magistrati di Mani Pulite vengono accolti come eroi da un’opinione pubblica non solo stanca di corruzione e soprusi, ma che all’inizio degli anni Novanta, per la prima volta da molto tempo, sente venire a mancare la spinta verso la crescita che c’era stata fino a quel momento. L’Italia è entrata in quel lungo trentennio di stagnazione che dura ancora oggi. Molti italiani hanno la sensazione che non solo la classe politica è corrotta, ma che ha anche smesso di fare il suo lavoro.

Di Pietro diventa uno dei personaggi più popolari del paese. Si organizzazione manifestazioni e fiaccolate di solidarietà con il pool. A Milano, sui muri compaiono graffiti con scritto “Grazie Di Pietro”. I media si accodano. Le procure sono presidiate dagli inviati della cronaca giudiziaria, dai fotografi e dalle telecamere. L’arrivo di un nuovo arrestato, la notizia di un nuovo inquisito vengono accolto da torme di giornalisti che fanno a gara per seguire l’inchiesta. 

Anche se gran parte dell’opinione pubblica e dei media è dalla parte dei magistrati, non mancano le voci critiche. Craxi è il più deciso e fermo oppositore del pool, mentre la Dc appare più timorosa. «Non è tutto oro quel che luccica. Presto scopriremo che Di Pietro è tutt'altro che l'eroe di cui si sente parlare. Ci sono molti, troppi aspetti poco chiari su Mani Pulite», scrive Craxi ad Agosto sul suo giornale di partito, l’Avanti.

Per Craxi e un gruppo di opinionisti e intellettuali, ristretto, ma capace di far sentire la sua voce, le azioni del pool sono frutto di un disegno politico. Un modo di eliminare per via giudiziaria avversari politici, al quale collaborano insieme forze di estrema destra e sinistra, forse persino col beneplacito degli Stati Uniti, a cui non piacerebbe l’atteggiamento troppo indipendente di Craxi. 

Le critiche colpiscono anche i metodi dei magistrati. Le inchieste procedono veloci e di allargano a macchia d’olio perché gli indagati confessano a decine. E quasi tutti i protagonisti ammetteranno di aver confessato perché terrorizzati dal carcere. I magistrati fanno ampio uso della carcerazione preventiva. Centinaia di persone, spesso anziani, quasi tutti ricchi e potenti e abituati a comandare, si ritrovano arrestati, a volte di sorpresa e in piena notte, condotti fuori di casa o in tribunale circondati da fotografi e giornalisti, sottoposti alla rituale umiliazione della camminata in manette in mezzo a due ali di folla. Poi finiscono sbattuti nelle stanze anguste delle carceri, con compagni di cella che a loro sembrano alieni. Lo shock è enorme e quasi tutti parlano.

Alcuni, invece, non reggono alla prospettiva di passare attraverso tutto questo. Il 17 giugno si uccide Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi. Era stato interrogato da Di Pietro il giorno prima. Il 2 settembre si uccide il deputato socialista Sergio Moroni, molto vicino al leader socialista. «Hanno creato un clima infame», commenterà Craxi all’uscita dalla camera ardente.

IL FINALE

Tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993, le inchieste continuano ad allargarsi e altre procure in tutta Italia seguono le orme del pool di Mani Pulite. I magistrati iniziano a puntare ai leader di partito. Il sistema capillare di corruzione e finanziamento dei partiti, sostengono, non può essersi svolto all’insaputa di segretari e presidenti. 

E tra loro, il bersaglio numero uno è lui: Craxi. Il politico più influente del paese, la figura carismatica che ha preso il mantello della difesa della classe. Il giornalista Vittorio Feltri, all’epoca direttore dell’Indipendente ed entusiasta sostenitore del pool (posizione che ha poi rinnegato), soprannomina Craxi “il chiangolone”: l’animale più pregiato della partita di caccia.

Foto LaPresse Torino/Archivio storico Storico 1992 Bettino Craxi Benedetto Craxi, detto Bettino (Milano, 24 febbraio 1934 – Hammamet, 19 gennaio 2000), è stato un politico italiano, Presidente del Consiglio dei ministri dal 4 agosto 1983 al 17 aprile 1987 e Segretario del Partito Socialista Italiano dal 1976 al 1993. nella foto: Bettino Craxi Photo  

I magistrati iniziano ad aprire indagini sui più importanti personaggi politici italiana. I telegiornali sembrano i bollettini della pandemia, dove al posto di nuovi casi e decessi vengono letti i numeri di avvisi di garanzia spediti quel giorno. L’edizione del Tg3 del 15 marzo inizia con questa lettura: «Dieci avvisi di garanzia ad altrettanti parlamentari tra cui esponenti politici di primo piano. Renato Altissimo, segretario del Pli al primo avviso di garanzia, Bettino Craxi all'ottava informazione di garanzia, Severino Citaristi, segretario amministrativo della Dc, alla 17esima, Antonio Cariglia, Partito socialdemocratico, al primo avviso di garanzia. Terzo avviso per Antonio del Pennino, ex capogruppo del Pri alla Camera».

Dopo un anno di indagini, oltre cento parlamentari e quasi tutti i principali leader di partito coinvolti nello scandalo, in molto iniziano a temere per la stabilità delle istituzioni democratiche. Dove si fermeranno i magistrati e come si può governare legittimamente il paese in queste condizioni?

Il governo, guidato dal socialista Giuliano Amato, tenta una soluzione e approva il decreto Conso, dal nome del ministro della Giustizia Giovanni Conso. L’idea è semplice: depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti e inasprire le pene per gli arricchimenti personali, così da mettere un chiaro confine tra condotte personali e quello che invece era frutto del modo di funzionare del sistema. 

Il decreto però viene bloccato. Gran parte dei giornali attacca quello che viene accusato di essere un “colpo di spugna”, ci sono manifestazioni in piazza sostenute dai partiti di opposizione: dagli ex comunisti del Pds ai neofascisti del Movimento sociale italiano. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, per la prima volta si rifiuta di firmare il decreto che finisce così archiviato.

Tangentopoli è arrivata all’acme e anche per Craxi è arrivato il momento di cedere. Nel suo interrogatorio di fronte a Di Pietro e nei suoi ultimi discorsi al parlamento, si difende con energia, accusando i magistrati per i loro metodi e quelli che ritiene essere i loro disegni politici e giustificando le tangenti con i costi necessari della democrazia. 

Ma i magistrati arrivati a questo punto hanno abbastanza indizi di arricchimenti personali anche sul suo conto. Si parla di conti segreti in Svizzera, di finanziamenti alle attività dell’amante e a quelle del fratello. Dopo le elezioni del 1994 in cui non è riletto per la prima volta in Parlamento in oltre 25 anni, Craxi si trova senza immunità parlamentare. Il 12 maggio viene disposto il sequestro del suo passaporto, ma è troppo tardi. Pochi giorni prima, l’ex leader socialista ha lasciato l’Italia e si è trasferito ad Hammamet, in Tunisia, dove trascorrerà i suoi ultimi anni fino al decesso, avvenuto il 19 gennaio del 2000.

Le inchieste proseguiranno ancora per anni e il numero di indagini per corruzione inizierà a calare significativamente solo a partire dal 1996 per poi non raggiungere mai più il livello toccato nel periodo precedente. Ma è il 1994 l’anno in cui simbolicamente termina Tangentopoli. E non solo per via della fuga di Craxi.

È anche l’anno in cui, alle prime elezioni senza Dc e Pci dal 1945, trionfano Silvio Berlusconi e Forza Italia, che della guerra alla magistratura farà un punto centrale del suo messaggio politico. I movimenti che invece avevano sostenuto i magistrati vengono sconfitti, come il Pds, scompaiono, come la Rete, oppure si riconvertono ad altre istanze, come la Lega.

Prima di Tangentopoli, l’Italia era un paese stagnante e in crisi, con una classe politica distante dagli elettori e disprezzata per la sua corruzione. Sono passati trent’anni e il quadro non sembra essere poi così cambiato.

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Storia di Luca Magni, l’uomo che ha fatto arrestare Mario Chiesa. FEDERICO FERRERO su Il Domani il 15 febbraio 2022

Nel 1992 Luca Magni era il titolare della Ilpi, una ditta specializzata in uso di macchinari necessari a disinfettare grandi superfici. Da due anni aveva accettato di sottostare al ricatto di Mario Chiesa che per farlo lavorare gli chiedeva tangenti

Venerdì 14 febbraio Magni decide di denunciare ai carabinieri questo sistema. La denuncia finisce nella mani del magistrato Antonio Di Pietro. Il 17 Magni consegna a Chiesa sette milioni di lire e lo fa arrestare in flagrante 

FEDERICO FERRERO. Giornalista, 1976. Commento il tennis su Eurosport dal 2005. Ho collaborato con l'Unità e l'Espresso. Scrivo di tennis un po' dappertutto; di vite altrui sul Corriere di Torino, di storie criminali per Sette. Un saggio su Mani Pulite per ADD nel 2012, la vita di Palpacelli per Rizzoli nel 2019.

Immunità parlamentare, da Renzi a Giovanardi vietato indagare sugli eletti. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 18 febbraio 2022

Nei giorni in cui la politica dibatte sulla storia di Mani Pulite, la giunta per le immunità del Senato si è resa protagonista una raffica di no a procure e tribunali, che vanno ad aggiungersi a quelli della Camera e di Palazzo Madama dall’inizio della legislatura.

Martedì 22 febbraio l’Aula dovrà esprimersi su Matteo Renzi (Iv), accusato di finanziamento illecito ai partiti. La giunta a dicembre aveva appoggiato il senatore e respinto la richiesta di arresto per Cesaro (Fi).

Mercoledì scorso, dopo che l’Aula ha salvato Giovanardi, la giunta ha deciso su Siri accusato di corruzione: le intercettazioni per i parlamentari non risultano necessarie né casuali, e così è stata negata l’autorizzazione al loro utilizzo. 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore. 

Corruzione e sangue: le storie parallele di Milano e Palermo nel 1992. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 17 febbraio 2022

Il direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, Giovanni Falcone, il giorno dell’omicidio di Salvo Lima dice: «Da questo momento, in Italia, può succedere di tutto».

Se a Milano le confessioni dell’ingegnere Mario Chiesa decapitano i partiti politici, l’esecuzione di Palermo sbarra per sempre la corsa al Quirinale di Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e ventuno volte ministro della Repubblica.

Il “patto del tavolino”, la mafia che si fa classe dirigente e impone la sua legge alle grandi imprese del nord che sbarcano nell’isola per realizzare dighe e aeroporti. I grandi lavori e l’intesa fra i boss e i capitani d’industria.

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia. 

Il glossario di Tangentopoli per capire il 1992 e l’inchiesta Mani Pulite. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 17 febbraio 2022

Il “cinghialone”, lo “squalo”, “mariuolo”, “bustarelle”, il “cappio”. Sono nomi e termini che hanno segnato la vita repubblicana, fondamentali per comprendere cosa è accaduto nell’anno dell’inchiesta di Mani Pulite

Non è semplice destreggiarsi nel racconto storico degli anni di Tangentopoli per chi è nato a cavallo dai primi anni Novanta in poi. C’è un glossario di parole nato e usato all’epoca che oggi non sono più comuni e fanno riferimento a eventi e fasi che hanno cambiato la storia repubblicana. Qui una breve lista in ordine alfabetico:

A fra’ che te serve? 

La frase è attribuita all’imprenditore e costruttore Gaetano Caltagirone (morto all’età di 80 anni nel 2016) e secondo i racconti dell’epoca la ripeteva ogni volta che riceveva una telefonata da Franco Evangelisti, dirigente sportivo e politico cresciuto sotto l’ala dell’ex presidente del Consiglio della Democrazia Cristiana, Giulio Andreotti. A confermarlo è stato lo stesso Evangelisti, ex ministro della Marina mercantile, che in un’intervista rilasciata a Repubblica nel 1980 ha ammesso di aver ricevuto soldi da Caltagirone: «Ci conosciamo da vent’anni e ogni volta che ci vedevamo lui mi diceva: “a Fra’, che ti serve?”». 

Bustarella

La bustarella è un involucro contenente una somma di denaro che viene consegnata di nascosto a una persona investita di una pubblica funzione per ottenere in cambio un favore. Nel 1992 le mazzette per corrompere politici e funzionari venivano consegnate sia attraverso delle bustarelle ma anche con assegni o bonifici bancari depositati in conti esteri per evitare di essere tracciati. Generalmente la mazzetta partiva da una cifra intorno al 3 per cento del valore della gara di appalto che sarebbe stata pilota in favore di chi pagava.

«Cinghiale» o «cinghialone» fu il termine metaforico coniato dall’allora direttore del quotidiano L’indipendente, Vittorio Feltri, per indicare l’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi quale il bersaglio della “caccia grossa” delle indagini condotte dalla procura di Milano. Nel suo libro Il borghese. La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato Vittorio Feltri ha raccontato come nasce il soprannome: «Scrissi che sarebbe stato opportuno acciuffare “il cinghialone”, che era appunto il leader dei socialisti. Lo battezzai io con questo simpatico epiteto, che peraltro gli calzava a pennello considerata la sua mole. Da quel momento, per tutti Craxi fu “il cinghialone” e fu davvero perseguitato». Quel soprannome è finito su tutti i giornali e l’ex direttore de L’indipendente ha ammesso le sue colpe: «Io sbagliai. E lo ammetto. E ho imparato dal mio errore».

Democrazia Cristiana

La Democrazia Cristiana (Dc) è il partito che ha dominato la vita politica italiana dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1992. Alcide De Gasperi è stato uno dei fondatori e leader della Democrazia Cristiana, diventato presidente del Consiglio di otto governi dal 1945 al 1953 in un periodo di forte instabilità politica per l’Italia. Nel 1992 la Dc, come anche la maggior parte degli altri partiti e movimenti politici italiani finirono al centro delle indagini nello scandalo di Tangentopoli. Tra gli esponenti di spicco del partito c’è stato anche Giulio Andreotti.

Il cappio 

Il 16 marzo del 1993 Luca Leoni Orsenigo, allora deputato della Lega Nord, si presentò in Aula alla Camera con un cappio in segno di protesta contro le inchieste di corruzione che coinvolgevano i partiti. «Il mio fu un gesto legittimo, il cappio in Aula lo rivendico, lì si stava votando il decreto Conso che gettava un colpo di spugna sulle malefatte dei partiti, sulle politiche del malaffare», ha detto di recente in un’intervista rilasciata all'Adnkronos.

Lo squalo

Negli anni in cui i soprannomi venivano affibbiati agli esponenti politici con facilità non può mancare “Lo squalo”, l’appellativo attribuito a Vittorio Sbardella, colui che veniva considerato come il “padrone” della Democrazia cristiana a Roma e uno degli uomini più vicini a Giulio Andreotti. Anche lui, come altri membri del suo partito venne travolto dallo scandalo tangentopoli. Dopo le indagini si dimise dal consiglio di amministrazione della Edit, la società editrice del settimanale Il Sabato. Morì nel 1994 all’ età di 59 anni per via di un tumore all’apparato digerente.

Mani Pulite

È uno dei termini più conosciuti dell’epoca e fa riferimento al nome giornalistico usato dalla stampa per identificare le inchieste giudiziarie portate avanti dalla procura di Milano e successivamente condotte ad altre procure italiane sulla corruzione tra mondo politico e imprenditoriale dell’epoca.

L’accostamento di «Mani pulite» alla politica è stato diffuso dal film Le mani sulla città del 1963 di Francesco Rosi, vincitore della Palma D’oro al festival del cinema di Venezia. In una scena del film alcuni deputati del Consiglio comunale di Napoli si difendono dalle accuse di corruzione dicendo: «Le nostre mani sono pulite!». Anche il deputato del Pci, Giorgio Amendola, in un’intervista rilasciata a il Mondo nel 1975 disse: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l'abbiamo mai messe in pasta». 

Mariuolo

Mariuolo, cioè furfante, è il termine utilizzato dal leader del Psi Bettino Craxi per definire Mario Chiesa, dirigente di seconda fila del suo partito e primo arrestato nell’inchiesta Mani Pulite. Definendolo un «mariuolo isolato», Craxi intendeva distanziare dall’inchiesta un partito che in realtà, a suo dire, era integro e non corrotto. Le confessioni di Mario Chiesa, però, diedero inizio a una serie di indagini che provarono come il partito socialista aveva partecipato al finanziamento illecito dei partito fino ai suoi vertici.

Monetine

Monetine, oggetti e banconote sono quelle lanciate dai manifestanti contro Bettino Craxi all’uscita dell’hotel Raphael dove alloggiava quando si trovava a Roma. Il 30 aprile del 1993 la Camera aveva negato quattro delle sei autorizzazioni a procedere contro l’allora Segretario del Partito socialista per corruzione e ricettazione chieste dalla magistratura. I manifestanti si radunarono fuori l’hotel di lusso e appena Craxi uscì tirarono monetine e sventolarono banconote dicendo: «Bettino vuoi pure queste?». 

Nani e ballerine

L’espressione venne coniata da Rino Formica, ex ministro delle Finanze, per definire in maniera dispregiativa gli ambienti in cui si muovevano alcuni esponenti del suo Partito socialista. Il termine è stato poi ripreso dall’ex ministro degli Esteri, Gianni De Michelis, per descrivere i suoi anni “festaioli” a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta con Craxi e altri esponenti del partito. La locuzione «nani e ballerine» è stato usato in quegli anni per evidenziare la mondanità di una classe politica vista come corrotta, ricca e lontana dagli interessi dell’elettorato. De Michelis è anche autore del libro Dove andiamo a ballare questa sera, una raccolta di luoghi in cui trascorrere le serate tra club e discoteche.

Pentapartito

Con il termine pentapartito si intende la coalizione di governo formata da cinque diversi partiti che hanno governato in Italia dal 1981 al 1991. I partiti che ne facevano parte erano: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico, Partito Repubblicano e Partito Liberale. Tutti implicati nell’inchiesta di Mani Pulite. Si dice che l’accordo venne siglato nel 1981 durante il congresso del Psi fra il democristiano Arnaldo Forlani e il segretario socialista Bettino Craxi con la “benedizione” di Giulio Andreotti, tanto che il patto venne chiamato anche CAF, richiamando le iniziali di Craxi-Andreotti-Forlani.

Pool

Il pool è la squadra di magistrati (Di Pietro, Colombo, Davigo, Greco, Ielo, Ramondini, Parenti e Tito) che hanno condotto l’indagine su Mani Pulite. È storico il video in cui Antonio Di Pietro interrogò pubblicamente il leader del Psi Bettino Craxi il quale, davanti alle telecamere, spiegò come funzionava il sistema. Secondo gli ultimi dati i numeri dell’inchiesta sono i seguenti: 3.200 richieste di rinvio a giudizio, 1.254 condanne (circa il 40 per cento), 269 scioglimenti in udienza preliminare, 161 assoluzione nel merito in tribunale (in totale il 13 per cento).

Psi

Psi è la sigla del Partito socialista italiano nato nel 1892 e protagonista della storia politica italiana. Dopo lo scandalo tangentopoli il partito ricevette una sonora sconfitta alle elezioni politiche del 1994, anno in cui venne sciolto. Tra i suoi leader più importanti prima di Craxi si ricordano Filippo Turati e Pietro Nenni.

Tangentopoli

Stando alla definizione della Treccani per tangentopoli si intende: «Città in cui è diffuso il malcostume di pretendere e incassare tangenti, ossia somme di denaro richieste in cambio di favori, concessioni o altre forme d’intermediazione illecite da parte di chi è in grado d’influenzare la buona riuscita di tali affari o pratiche. Per estensione, il fenomeno, lo scandalo delle tangenti nella pubblica amministrazione e in ambienti politici». Il termine è entrato nel linguaggio di uso comune soprattutto dopo lo scandalo del 1992.

YOUSSEF HASSAN HOLGADO

Tangentopoli: serie, film, documentari e libri per chi non c’era. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 16 febbraio 2022.

Dal Divo ad Hammamet, dalla serie 1992 al libro più lungo mai scritto su Mani Pulite, passando per i migliori documentari disponibili in streaming

Sono passati 30 anni dallo scandalo di Tangentopoli e un’intera generazione di italiani è cresciuta e diventata adulta senza aver vissuto quel momento storico. Non è facile per chi non c’era rievocare l’atmosfera concitata di quei giorni e farsi un’idea di cos’è accaduto realmente. Per questo abbiamo deciso di mettere insieme una breve lista di film, documentari, serie tv e libri, alcuni recenti, altri scritti quanto gli eventi erano ancora freschi, per aiutare i più giovani a ricostruire quei giorni e per farli rievocare a chi invece già c’era. 

FILM E SERIE 

Il portaborse (1991)

In questo film di Daniele Lucchetti, Silvio Orlando interpreta un professore di lettere chiamato a lavorare per un ambizioso ministro interpretato da Nanni Moretti, un’esperienza in cui toccherà con mano la corruzione dell’ambiente politico. Uscito pochi mesi prima dell’inizio delle indagini di Mani Pulite è stato un grandissimo successo di pubblico. Oggi è considerato un ritratto delle ultime fasi della Prima repubblica e un film “profetico” dello scandalo che sarebbe scoppiato poco dopo la sua uscita.

Il divo (2008)

Un film che ha bisogno di poche presentazioni: si tratta della biografia di Giulio Andreotti, figura centrale della Prima repubblica, interpretato da Toni Servillo e diretto da Paolo Sorrentino. Il film non è dedicato in modo particolare a Tangentopoli, ma riprende molti dei momenti storici dell’inchiesta e cerca di riflettere il clima di quegli anni nel modo barocco e surreale tipico di Sorrentino.

Hammamet (2020)

Diretto da Gianni Amelio, con Pierfrancesco Favino nel ruolo dell’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi, più che un film su Tangentopoli e un ritratto umano del suo più importante protagonista, il controverso leader del Partito socialista, fuggito in Tunisia per evitare la condanna per corruzione.

1992 (2015)

«Da un’idea di Stefano Accorsi» è una delle pochissime fiction esclusivamente dedicate allo scandalo di Tangentopoli. Accorsi interpreta il protagonista della serie, un rampante manager di Publitalia ‘80, la concessionaria pubblicitaria di Silvio Berlusconi, e la sua vicenda si intreccia con quella di altri protagonisti di quella stagione. Il racconto è romanzato ed è stato criticato da alcuni per la sua mancanza di accuratezza. La serie fa parte di una trilogia che comprende anche 1993 e 1994, che oltre agli scandali di corruzione si concentrano sugli attentati mafiosi e sull’ascesa politica di Berlusconi.

DOCUMENTARI

Mani pulite (1997)

Uno dei documentari più lunghi e completi sull’inchiesta Mani Pulite e lo scandalo Tangentopoli. Sono quattro puntate di circa due ore l’una e quasi tutto il racconto si svolge attraverso filmati e interviste girati al culmine delle indagini. Realizzato a soli cinque anni dai fatti da Pino Corrias e Renato Pezzini, è ancora oggi uno dei più completi ed equilibrati documentari che si possono trovare u quei giorni.

Blu Notte – Tangentopoli (2008)

Chi invece non ha ore ed ore da dedicare alla ricostruzione di Tangentopoli attraverso i filmati dell’epoca, può guardare la puntata di Blu Notte che lo scrittore Carlo Lucarelli ha dedicato all’inchiesta. Un racconto più succinto e narrativo, ma ugualmente coinvolgente. 

LIBRI

Intevista su Tangentopoli (2000)

È il più importante libro-intervista realizzato dal più carismatico e controverso magistrato del pool Mani Pulite, un vero e proprio simbolo dell’inchiesta: Antonio Di Pietro. L’intervista è stata realizzata dal giornalista Giovanni Valentini.

Mani pulite. La vera storia, 20 anni dopo (2012)

Un’autentica opera monstre di quasi 1.200 pagine: in questo libro, i giornalisti Marco Travaglio, Peter Gomez e Gianni Barbacetto raccontano l’intera inchiesta Mani Pulite, con l’ausilio di centinaia di documenti e altrettante pagine di dettagliate ricostruzioni. Il taglio è molto favorevole alla magistratura e lascia poco spazio ai dubbi e alle interpretazioni differenti. Ma in quanto ad ampiezza, sono pochi i libri che possono competere.

Tangentopoli (2011)

Tono completamente diverso in questa ricostruzione scritto dalla giornalista e politica Tiziana Maiolo, una delle voci più critiche nei confronti del modo in cui venne gestita l’inchiesta. Il suo è punto di vista particolare, poiché all’inizio dell’inchiesta era una consigliera comunale a Milano, la città centrale nell’inchiesta Mani Pulite. 

Il tempo delle Mani Pulite (2021)

Nel 1992, il giornalista del Corriere della Sera Goffredo Buccini era uno degli inviati che seguivano l’inchiesta Mani Pulite. A 30 anni da quei fatti, però, ha deciso di scrivere un libro per raccontare come la stampa ha raccontato quei fatti, in un modo che oggi Buccini giudica troppo piegato sulle posizioni di giudici e magistrati.

L’antipatico (2020)

Una biografia di Bettino Craxi scritta da un autore d’eccezione: Claudio Martelli, a lungo erede designato del segretario socialista e poi, negli ultimi anni, suo ultimo rivale interno. Anche se è una biografia che non nasconde i tratti più aspri del carattere di Craxi, si tratta comunque di un libro che mostra il punto di vista dei socialisti e più in generale degli inquisiti, più che quello dei magistrati. 

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

“Mani pulite” 30 anni dopo: solo 1.408 condannati su 2.565 indagati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Febbraio 2022

Data la mancanza di statistiche giudiziarie, in quanto i database ministeriali non erano e non sono pensati per questo tipo di statistiche adesso può essere detto praticamente tutto ed il contrario di tutto: Basti pensare che persino nelle cancellerie dei magistrati della Procura di Milano ad un certo punto si perse il conto degli esiti

Molti continuano a chiedersi se l’inchiesta  “Mani Pulite” della Procura di Milano che fece saltare il “banco” politico ed economico della 1a Repubblica, dal punto di osservazione delle sentenze sia finita pressochè nel nulla, come propagandano i critici più accesi ? Data la mancanza di statistiche giudiziarie, in quanto i database ministeriali non erano e non sono pensati per questo tipo di statistiche adesso può essere detto praticamente tutto ed il contrario di tutto: Basti pensare che persino nelle cancellerie dei magistrati della Procura di Milano ad un certo punto si perse il conto degli esiti .  Persino gli archivi dei giornali non aiutano, considerato che moltissimi indagati non finirono mai sotto i riflettori delle cronache. 

L’unica maniera per arrivare ad una percentuale accettabile di statistiche è stato quindi quello di provare ma dal basso delle statistiche,  e non dall’alto, per ritrovare il corso degli incartamenti processuali, riuscendo ad abbinare a un nome e cognome un ultimo stato noto dei processi, fino a inizio 2000. Applicando questo parametro si può provare a ragionare con attendibilità sul destino giudiziario di 2.565 persone in carne ed ossa indagate dai pm del pool vero e proprio degli anni 1992-1994 (Antonio Di Pietro, Colombo e Piercamillo Davigo, quindi Francesco Greco, a cui si affiancarono Paolo Ielo, Elio Ramondini, Tiziana Parenti e Raffaele Tito) piuttosto che sul numero dei procedimenti iscritti con 3.146 imputazioni di reato, a volte la stessa persona per più ipotesi). 1.408 di loro sino all’anno 2000  avevano patteggiato o erano stati condannati , mentre 544 erano stati assolti e 448 prosciolti per prescrizione (o in pochi casi per amnistia o morte dell’indagato o imputato). 

All’appello manca l’esito per i rimanenti che non si è riusciti a ricostruire, poichè spesso si trattava di fascicoli spezzettati in più filoni d’indagine o di posizioni trasmesse per competenza territoriale ad altre procure italiane anche se l’ipotesi più realistica è che siano finiti per ingrossare la casella delle prescrizioni.

Secondo quanto scrive il Corriere della Sera a scontare una pena in carcere nel 2000 erano solo in 4 persone, tutte coinvolte nel filone delle tangenti alla Guardia di Finanza: indice del fatto che, pur di portare a casa una sentenza in tempi compatibili con il rischio di prescrizione, le pene eseguite non furono in generale abbastanza soft, al punto che che tra sospensioni condizionali, ricalcoli per l’istituto della continuazione e cumuli  la pena massima definitiva nei processi di “Mani pulite” in fin dei conti  non è stata quella di Mario Chiesa conclusasi con 5 anni e 4 mesi), o quella di Sergio Cusani di 5 anni e 5 mesi di cumulo finale, ma bensì quella di un quasi  ignoto capo-compartimento Anas, che non essendo figura di rilievo pubblico oggi non avrebbe senso rinominare, e che in uno stralcio trasmesso a Genova fu condannato nel 1998 a 5 anni e 6 mesi: la stessa pena alla quale scese con un patteggiamento in Appello il generale della GdF Giuseppe Cerciello, partito da un iniziale condanna complessiva a 16 anni.

Mani pulite, il bilancio 30 anni dopo: su 2.565 indagati i condannati furono 1.408. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.  

Le indagini del pool composto da Di Pietro, Colombo e Davigo, poi Greco, poi ad affiancarli Ielo, Ramondini, Parenti e Tito. La pena più alta: 5 anni e 6 mesi a un dirigente Anas 

Ma davvero Mani pulite è finita in niente dal punto di vista delle sentenze, come propagandano i suoi critici? Tutto e il contrario di tutto può essere detto nell’indisponibilità di statistiche giudiziarie, perché i database ministeriali non erano e non sono pensati per questo tipo di elaborazioni; perché persino lo staff dei pm in Procura dopo un po’ perse il conto degli esiti sempre sfrangiati e spesso sovrapposti; e perché neppure gli archivi dei giornali aiutano, posto che moltissimi indagati non finirono mai sotto i riflettori delle cronache. Così l’unico modo per avvicinarsi a un tasso accettabile di approssimazione è stato provare non dall’alto delle statistiche, ma dal basso del ritrovare il filo degli incartamenti processuali, riuscendo ad abbinare un ultimo stato processuale noto (fino a inizio 2000) a un nome e cognome.

Con questo parametro si può ragionare con attendibilità non tanto sul numero dei procedimenti iscritti (3.146 imputazioni, a volte la stessa persona per più ipotesi), quanto sul destino giudiziario di 2.565 persone in carne ed ossa indagate dai pm del pool vero e proprio degli anni 1992-1994 (Di Pietro, Colombo e Davigo, poi Greco, poi ad affiancarli Ielo, Ramondini, Parenti e Tito). Sino all’anno 2000 avevano patteggiato o erano stati condannati 1.408 di essi, mentre 544 erano stati assolti e 448 prosciolti per prescrizione (o in pochi casi per amnistia o morte del reo).

Manca all’appello l’esito per i rimanenti che non si è riusciti a ricostruire, spesso perché si trattava di fascicoli spezzettati in più filoni o di posizioni trasmesse per competenza territoriale altrove e lì «desaparecide», ma la prognosi più realistica è che abbiano finito per ingrossare la casella del fuori tempo massimo, cioè delle prescrizioni.

In carcere a scontare una pena nel 2000 erano in quattro, tutti nel filone delle tangenti alla Guardia di Finanza: indice del fatto che, pur di portare a casa una sentenza in tempi compatibili con il rischio di prescrizione, le pene eseguite non furono in generale draconiane. Tanto che — tra sospensioni condizionali, ricalcoli per l’istituto della continuazione e cumuli — in fin dei conti la pena massima definitiva nei processi di Mani pulite non è stata appannaggio di Mario Chiesa (che ha chiuso con 5 anni e 4 mesi) o di Sergio Cusani (5 anni e 5 mesi di cumulo finale), ma di un poco noto capo-compartimento Anas, che oggi non avrebbe senso rinominare qui (non essendo figura di rilievo pubblico), e che in uno stralcio trasmesso a Genova fu condannato nel 1998 a 5 anni e 6 mesi: stessa pena alla quale scese con un patteggiamento in Appello il generale della GdF Giuseppe Cerciello, pur partito da un iniziale conto complessivo di 16 anni.

Appartiene invece non a Cerciello (7 mesi) e neanche a Cusani (5 mesi), ma anche qui a un assai meno noto colonnello della GdF il record di custodia cautelare di tutta Mani pulite: un anno in carcere nella fortezza di Peschiera. Centoquaranta i miliardi di lire rientrati all’erario come risarcimenti: compresi i 56 miliardi versati da un costruttore (nel frattempo morto) che nel processo Enimont poi vide infine paradossalmente prescriversi la propria imputazione.

Mani pulite, 30 anni dopo: le tappe e i numeri. Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.  

desc img Trent'anni da Mani pulite: una rivoluzione immaginaria. Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.

La quinta puntata della serie audio sulle verità nascoste della storia della Repubblica racconta la stagione di Tangentopoli che cancellò la Prima repubblica: fu il corso naturale della giustizia o un'operazione giudiziaria per far saltare in aria un sistema politico? 

Sono passati trent’anni dallo scandalo di Tangentopoli, e ancora ci si divide sull’inchiesta giudiziaria che ha decretato la fine della prima Repubblica e del suo sistema dei partiti, con i governi e il Parlamento decimati dagli avvisi di garanzia. È stato solo il naturale corso della giustizia oppure un’operazione giudiziaria innescata per far saltare in aria un sistema politico? Poteva andare diversamente o si è trattato di un percorso obbligato? Molte morti hanno insanguinato quella storia: i suicidi del deputato socialista Sergio Moroni, del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, dell’imprenditore Raul Gardini, fino alla morte di Craxi, ex presidente del Consiglio rifugiatosi in Tunisia: esule o latitante?

La stagione di Mani pulite è il tema della quinta puntata di «Nebbia - Le verità nascoste nella storia della Repubblica», con le voci di Stefano Cagliari, figlio di Gabriele Cagliari; Paolo Ielo e Francesco Greco, ex pm del pool di Mani pulite; e l’avvocato (e poi sindaco di Milano) Giuliano Pisapia. 

Stefania Craxi: «Io e mio padre Bettino». Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.  

È Stefania Craxi, figlia di Bettino, la protagonista della quinta e ultima puntata del podcast «Le figlie della Repubblica». Nei giorni in cui ricorre il trentennale di Tangentopoli, che segnò l'inizio della fine dell’allora segretario del Partito socialista ed ex presidente del Consiglio, la sua primogenita difende la figura del padre, morto nel gennaio del 2000 in Tunisia, nella casa di Hammamet. È lì che Craxi era fuggito (la figlia da allora parla e parlava di «esilio») nel 1994 dopo le condanne per corruzione nel processo Eni-Sai e per finanziamento illecito per le tangenti della Metropolitana milanese. Ma il racconto di Stefania Craxi va molto oltre, ricordando il suo rapporto simbiotico con tutto ciò che era politica e che inevitabilmente finì per sottrarre suo padre alla famiglia. Cosa che spinse la giovane Stefania a vivere una gioventù molto diversa da quella dei suoi coetanei e coetanee: una gioventù fatta di politica pur di passare qualche ora in più col padre.

«Le figlie della Repubblica» è un podcast della Fondazione De Gasperi, l’istituto che custodisce e promuove gli insegnamenti ideali, morali e politici di Alcide De Gasperi, realizzato nell’ambito del programma di eventi con cui nel 2022 celebrerà i 40 anni dalla sua nascita. La serie, prodotta in collaborazione con il Corriere e con il sostegno della Fondazione Cariplo, nasce da un’idea di Martina Bacigalupi ed è stato scritta e diretta da Emmanuel Exitu con la supervisione dello storico Antonio Bonatesta e realizzata da Ways - The storytelling agency, con la voce narrante di Alessandro Banfi.

Sospeso in aria. Raul Gardini, il tuffatore. Elena Stancanelli su L'Inkiesta il 16 Febbraio 2022.

L’imprenditore coinvolto nella inchiesta di Tangentopoli aveva imparato da ragazzino a tuffarsi dal molo di Ravenna. Come racconta Elena Stancanelli nel suo nuovo libro pubblicato da La Nave di Teseo, condivise per tutta la vita l’amore per il mare e per i tuffi con gli amici e la moglie Idina.

Uno dei più famosi aneddoti su Gardini riguarda i tuffi. Lo racconta lui stesso, l’ha raccontato Idina, sua moglie, lo raccontano gli amici. Non so neanche se lo si può considerare un aneddoto. Sembra piuttosto l’episodio di un’agiografia: Gardini il contadino, il cacciatore, il tuffatore. Da ragazzino frequentava il molo, come tutti i ravennati. Ma lui si tuffava meglio di chiunque altro.

Idina era bella, ricca e molto elegante. Primogenita di Serafino Ferruzzi, aveva un corpo sottile e un naso leggermente adunco. I capelli lunghi acconciati con cura, una sigaretta sempre tra le dita. Abbronzata, sorridente, le gambe magre e slanciate. Anche lei frequentava il molo con le sue amiche. Si era innamorata subito di quel ragazzo coraggioso, agile, che faceva di tutto per farsi notare da lei.

Raffaele La Capria, scrittore napoletano, tuffatore, autore di uno dei più bei romanzi del Novecento italiano, Ferito a morte, ha scritto un saggio sulla letteratura e i tuffi. Dove spiega che i tuffi, tutti quanti, sono salti mortali. E si giudicano sulla base di due criteri: la perfezione della figura, in aria e nell’entrata in acqua, e il rischio. «Un tuffo», scrive, «è tanto più bello quanto più alto si svolge sulla tavola del trampolino. Ma più in alto si slancia il tuffatore sulla tavola, più la tavola per una legge fisica lo attira a sé. Lo slancio più alto sarebbe infatti quello perpendicolare alla tavola, e il tuffatore pagherebbe l’altezza raggiunta ricadendo sul trampolino. C’è, come si vede, un collegamento molto stretto, immediato, tra la bellezza del tuffo e il pericolo che si corre». Così la letteratura, spiega La Capria, dove la riuscita di un’opera si misura anche da quanto rischio di fallimento comportava la premessa. Come, per esempio, provare a immaginare che un uomo si svegli una mattina nel suo letto trasformato in uno scarafaggio.

I tuffi sono un rito di iniziazione. Suscitano ammirazione per l’eleganza e il coraggio. Di Gianni Agnelli si racconta che, quando arrivava in Costa Azzurra con l’elicottero, anziché atterrare preferiva buttarsi direttamente in mare davanti alla spiaggia. Per dimostrare ardimento, giovinezza, sprezzo del pericolo, ma anche perché l’energia, la fretta, premeva dentro e gli faceva alzare la posta, esagerare.

L’Avvocato, si diceva, non aveva mai superato il trauma della guerra. Tutta quella morte lo aveva segnato, la provvista di energia vitale veniva da lì, dall’aver assistito, dall’aver partecipato al massacro. Gardini non aveva fatto la guerra, era troppo giovane. L’aveva riconosciuta intorno a sé ma non l’aveva patita in prima persona. Non aveva visto la forza fisica e il coraggio spregiati dalle battaglie. Non aveva guardato i corpi mutilati, non aveva schivato le pallottole. Eppure entrambi tra la perfezione e il rischio scelgono sempre il rischio.

Quando più tardi passiamo da casa sua, il giorno in cui ci siamo incontrati a pranzo al ristorante Al Gallo, Vanni Ballestrazzi mi mostra una foto bellissima. Le foto di Raul le ho fatte quasi tutte io, racconta, mi chiedeva di scattargliele perché non aveva voglia di mettersi in posa davanti ai fotografi. Io le scattavo a raffica e poi quando i giornali me le chiedevano gliele regalavo. Non ci ho mai guadagnato una lira, dice.

Nella casa di Ravenna, dietro la piazza del Duomo, con un giardino fiorito dove ha addirittura una pianta di vite (le mie vigne, dice scherzando), Vanni tiene alcuni album di foto. Sono quasi tutte foto di mare. In una di queste si vede una scogliera. Alta, saranno almeno una decina di metri. E davanti un uomo, in volo. Un tuffo ad angelo, in posizione perfetta. Quell’uomo è Raul Gardini, ha cinquantasei anni. Vanni, che scatta la foto, è in barca, sotto. Sono in Grecia in vacanza, nell’estate del 1989. Gardini ha il corpo di un ragazzo e la tecnica di un tuffatore esperto.

Idina e Raul si sposeranno nel 1957 e avranno tre figli: Eleonora nel 1965, Ivan nel 1969 e Maria Speranza detta Coquette nel 1970.

Elena Stancanelli, Il tuffatore da “Il tuffatore”, di Elena Stancanelli, La Nave di Teseo, 2022, pagine 240, euro 18

Mario Chiesa, simbolo di Mani Pulite: «Oggi il Fisco pretende 2 milioni di tasse non pagate sulle tangenti». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2022.

Mario Chiesa fu condannato a 5 anni e 4 mesi per le mazzette al Pio Albergo Trivulzio di Milano. Oggi, a 77 anni, vive da pensionato tra la Lombardia e la Svizzera: «Ho fatto come tanti altri ma solo per me vale l’ergastolo della reputazione». E rivela il verbale dell’interrogatorio nel 1992: «La prima volta che ricevetti denaro risale al 1974»

Stanco dei processi, degli anniversari, delle ricostruzioni dell’inchiesta Mani pulite che inevitabilmente ne seguono, Mario Chiesa è stanco che da trent’amni nell’immaginario collettivo italiano lui venga identificato come «il» politico corrotto. «Perché puntate sempre su di me? Ero solo una piccola ruota di un meccanismo molto più grande», si lamenta mentre fa ancora i conti con gli strascichi dell’indagine che portò al suo arresto, come i due milioni di euro che gli chiede l’Agenzia delle entrate per le tasse non pagate sul reddito generato dalle tangenti.

Il profilo di Mario Chiesa

Politico in carriera in quel Partito socialista che con i quarantenni d’assalto di Bettino Craxi tra gli anni Ottanta e Novanta sgomitava per farsi largo tra la Dc dei Forlani e degli Andreotti e il Pci-Pds di Occhetto, Chiesa possedeva tutti i caratteri per incarnare il perfetto capro espiatorio quando fu arrestato la mattina del 17 febbraio 1992. Era il modello dell’uomo di partito sprezzante e arrogante con cui si era costretti a scendere a patti, e non fu difficile per Craxi liquidarlo come un «mariuolo» nella vana speranza che lo scandalo che emergeva con prepotenza sulle tangenti al Pio Albergo Trivulzio si sgonfiasse catalizzando solo sull’ingegnere rampante la crescente indignazione popolare. Fu un errore di sottovalutazione. Ormai «politicamente finito, privo di qualsiasi lavoro», come mise a verbale Mario Chiesa nel primo interrogatorio a San Vittore, decise di confessare facendo partire la valanga che di lì a breve avrebbe spazzato la prima Repubblica, con gli imprenditori che fecero la fila davanti la porta di Di Pietro per confessare le tangenti pagate e poi patteggiare. Primi tra tutti quelli che avevano goduto del sistema a scapito delle imprese oneste.

La sentenza

Condannato a 5 anni e 4 mesi che in parte trascorse in affidamento ai servizi sociali, di cui tre condonati, di Chiesa si persero le tracce fino al marzo del 2009 quando tornò sotto i riflettori perché fu arrestato a Busto Arsizio per un traffico di rifiuti con al centro la Servizi ecologici Milano (Sem), una società di cui era amministratore di fatto. Chiusa anche questa vicenda, patteggiando tre anni di reclusione poi cancellati da un nuovo indulto, Mario Chiesa, 77 anni, qualche problema fisico, oggi vive da pensionato tra la Lombardia e la Svizzera, dove risiede il più giovane dei suoi due figli. Le sue considerazioni filtrano mediate dal legale attuale, l’avvocato Stefano Banfi: «L’ingegnere affronta malissimo tutte le notizie sugli episodi di corruzione e concussione perché, anche nelle vicende che non lo riguardano, c’è sempre chi fa comunque il suo nome». «Ho fatto un qualcosa che molti altri hanno fatto prima e dopo di me, anche in forma più grave, ma di costoro nessuno ricorda mai il nome», confida l’ex presidente della Baggina, come i milanesi chiamano il Trivulzio. «Ho ammesso le mie responsabilità, pagato il mio debito con la giustizia, ho restituito tutto quanto dovevo restituire. Non sono io che ho organizzato il sistema di corruttela», dice al suo difensore ricordando i 6 miliardi di lire restituiti e i risarcimenti versati. Per questo il trentennale di Mani pulite lo lascia del tutto indifferente, anzi rafforza in lui la convinzione che «la condanna vera è la consapevolezza che non potrà mai beneficiare del diritto all’oblio. Un ergastolo della reputazione».

I conti cifrati «Levissima» e «Fiuggi»

In tre decenni, Mario Chiesa ha tentato di difendere, per quanto possibile, ciò che resta della sua privacy. «Gli è capitato più volte di essere riconosciuto ed anche i figli e la ex compagna hanno patito questa sua cattiva notorietà», spiega Banfi. Che Chiesa sia stato lo strumento con cui Antonio Di Pietro e la Procura guidata da Francesco Saverio Borrelli hanno scardinato larga parte del sistema corruttivo — non tutto — di quegli anni è la storia a certificarlo, ma per l’avvocato l’arresto che diede il via ufficiale alla stagione di Mani pulite non fu un episodio casuale. Convinzione, evidentemente condivisa con il suo assistito, alla quale giunge analizzando fatti e documenti dell’epoca. Di Pietro aveva indagato nei mesi precedenti su un racket delle pompe funebri alla Baggina mettendo sotto controllo i telefoni di Chiesa ed in procura era arriva l’informazione che dagli atti della separazione tra l’ingegnere e la moglie emergeva che aveva 10 miliardi di lire in banca e altri soldi in Svizzera, depositati sui conti cifrati «Levissima» e «Fiuggi». Una «situazione patrimoniale non ufficiale» totalmente spropositata per il presidente di un ente cittadino benefico.

Di Pietro: «L’acqua minerale è finita»

Per fargli capire che ormai era all’angolo, dopo l’arresto Di Pietro gli fece sapere: «L’acqua minerale è finita». L’ingegnere confessò. Alla stregua della maggior parte di coloro che furono presi «con le mani nella marmellata», come disse Di Pietro con una delle sue celebri frasi, «era fedele all’accordo di spartizione che c’era tra i partiti», ammette Banfi, ma tenne anche qualcosa per sé. Rivendicò, però, di aver migliorato il Trivulzio: «Nonostante le mie responsabilità (…) ho anche lavorato seriamente per la trasformazione del Pat» che fino ad allora era luogo dove «la gente andava solo a morire». Secondo Banfi, quindi, «Chiesa è l’anello di congiunzione forgiato con calma e pazienza per collegare la corruzione già esistente da tanti anni ai vertici dei partiti italiani». Un sistema di cui era parte integrante già a 30 anni, appena entrato con un contratto a termine nell’amministrazione dell’ospedale Sacco.

Il primo interrogatorio nel 1992

Lo rivela il 23 marzo ’92 nel primo interrogatorio di fronte a gip Italo Ghitti: «La prima volta che ricevetti denaro risale al 1974 (…) il 10% dell’appalto per la manutenzione ordinaria annuale del Sacco». A pagare 18 anni prima era stato lo stesso imprenditore che alle 15 del fatidico 17 febbraio 1992 gli consegnò altri 37 milioni di lire in contanti, parte di una tangente sull’appalto per la tinteggiatura degli mobili dell’ente che, dichiarò Chiesa nello stesso interrogatorio, aveva poi gettato nel water dell’ufficio all’arrivo dei carabinieri prima dell’arresto, salvo poi smentire di averlo fatto. Sta di fatto che quei soldi sparirono e non furono sequestrati sempre quel 17 febbraio. Due ore e mezza dopo Luca Magni entrò nel suo ufficio e gli consegnò la stecca di 7 milioni per l’appalto delle pulizie. L’imprenditore era d’accordo con Di Pietro e con i carabinieri che avevano controfirmato le banconote e che di lì a poco irromperanno nell’ufficio trovando la somma in una busta bianca «in biglietti da lire 100.000» nella scrivania «all’interno del cassetto di sinistra», riporta burocraticamente il verbale di sequestro. Fu la fine dell’uomo che da segretario della sezione Musocco-Vialba del Psi sognava di diventare sindaco di Milano.

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 17 febbraio 2022.

È il 17 febbraio 1992. Scatta l'arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Comincia così «Mani pulite», l'inchiesta che terremoterà la vita politica italiana. Una stagione a cui è dedicato il libro dell'inviato speciale del Corriere della Sera Goffredo Buccini, disponibile da oggi anche in edicola. 

«Il tempo delle mani pulite», questo il titolo, esce sempre in collaborazione con Laterza, che lo ha pubblicato in prima edizione per le librerie nell'autunno scorso. Ora si potrà acquistare a 12 euro, più il prezzo del Corriere , e rimarrà in edicola a disposizione per un mese.

Di Tangentopoli oggi si parlerà anche in due convegni. Uno, «Tangentopoli 30 anni dopo», è all'Università di Pisa . Ci saranno, tra gli altri, Nando Dalla Chiesa (Statale di Milano), Piercamillo Davigo (all'epoca nel pool «Mani pulite») e Gian Antonio Stella (editorialista del Corriere della Sera ). Altro dibattito a Milano (ore 15): è organizzato dall'Anm a Palazzo di Giustizia. Tra i moderatori , l'ex direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli. 

Gherardo Colombo, 75 anni. Trent' anni fa magistrato del pool Mani pulite, oggi saggista, scrittore, portatore sano di impegno sul fronte carcerario, etico, di educazione alla legalità. 

Trent' anni dopo Mani pulite le parole più evocate sono «bilancio» e «sconfitta».

«Fatico a parlare di sconfitta o di vittoria. Indagini e processi non sono match. Non avevamo, né mi sembra che ci siano adesso, somme da tirare: dovevamo verificare le responsabilità penali delle persone e questo abbiamo fatto, dentro le regole del codice penale e di procedura penale». 

Secondo lei la corruzione è cambiata?

«Sì, non è più così connessa al finanziamento illecito dei partiti. Non è un sistema, mentre allora lo era con le sue regole ben definite. Ora riguarda vari livelli, e coinvolge anche le persone comuni...».

Perché si è dimesso 15 anni fa dalla magistratura?

«È stata una scelta dolorosa, maturata col tempo. Ebbi per la prima volta la tentazione di dimettermi nel 1986. Ero a Tivoli a fare una lezione ai giovani magistrati, vidi un titolo di giornale sui fondi neri dell'Iri. Io sapevo cosa c'era dentro quel mare di carte. Il titolo diceva che erano stati tutti prosciolti, salvo qualcuno che non contava nulla...». 

Parla dei rapporti di allora fra politici e magistrati?

«Non era soltanto l'aggressione della politica contro la magistratura, che abbiamo assaggiato quando scoprimmo la P2: fu chiesta una misura cautelare per un grande banchiere e ci fu una reazione molto pesante da ben definiti ambienti politici. Il fatto è che anche dentro la magistratura succedevano cose».

 Cose di che genere?

«Per esempio: uno investigava, trovava prove, si accingeva a trovarne altre, arrivava la Cassazione e su sollecitazione di Roma le indagini trasmigravano, tutto finiva sostanzialmente in niente. Le racconto un episodio per farmi capire meglio». 

Prego...

«Quando investigavo per i fondi neri dell'Iri c'era un imputato che era intimo dell'onorevole Fanfani, che si dice mirasse al Quirinale. Ora: so per certo che il presidente della Corte di Cassazione protestò con un collega che conoscevo bene: tu che vieni da Milano, mi spieghi? Che vuole fare sto' Colombo? Vuole nominarlo lui il presidente della Repubblica? Il processo finì a Roma e tutto finì nel dimenticatoio...». 

Sta dicendo che suoi ex colleghi seguirono gli inviti della politica per cambiare la sorte dei processi?

«Sto dicendo che ci sono stati casi in cui è andata così. E quelli che trasferivano i processi da Milano o che non si accorgevano dei reati sono sempre passati come magistrati indipendenti». 

Come visse il fatto che con Mani pulite per molti eravate degli idoli?

«Con imbarazzo. Le racconto un episodio. Ero andato dal fotografo per fare delle fototessere. Il signore del negozio non voleva farmi pagare. Gli ho dovuto dire che se non mi avesse fatto pagare non mi avrebbe più rivisto nel suo negozio, e alla fine acconsentì. Va detto che i media ebbero un luogo determinante nel trasformarci in "eroi"». 

Forse qualcuno di voi si è prestato al gioco.

«Neanche tanto. Anche lo stesso Di Pietro: a parte quell'intervista che rilasciò a Biagi per il Corriere poi non si è messo sotto i riflettori. Però, per dire, il giorno dopo Giorgio Bocca, per Repubblica , chiese a me di fare una cosa analoga, con le foto di quando ero bambino e così via. Non mi sembrò opportuno mettermi in pista su quella strada, espormi, avrei anche creato l'occasione di un dualismo fra noi del pool. Rifiutai». 

Che effetto le fa vedere oggi le monetine tirate a Craxi davanti al Raphael?

«Mi fece un effetto negativo anche all'epoca. Le persone vanno rispettate comunque. Non credo proprio che abbiamo stimolato noi reazioni del genere, certamente non io».

Gherardo Colombo: «Il lancio di monetine a Bettino Craxi mi disturba ancora». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2022.

L’ex magistrato del pool di Mani Pulite ripercorre Tangentopoli: «Noi pm venimmo trattati da eroi, un errore che non fu colpa nostra».

Gherardo Colombo, 75 anni. Trent’anni fa magistrato del pool Mani Pulite, oggi saggista, scrittore, portatore sano di impegno sul fronte carcerario, etico, di educazione alla legalità. Trent’anni dopo Mani Pulite la parola più evocata di questi giorni è “bilancio”. 

È una sconfitta la perseveranza della corruzione?

«Fatico a parlare di sconfitta o di vittoria. Le indagini e i processi non sono dei match. Non avevamo né mi sembra che ci siano adesso somme da tirare: dovevamo verificare le responsabilità penale delle persone e questo abbiamo fatto. E vorrei che fosse chiara una cosa: quel che abbiamo fatto stava dentro le regole del codice penale e di procedura penale».

Secondo lei la corruzione è cambiata?

«Sì, nel senso che oggi non è più così connessa al finanziamento illecito dei partiti politici come prima. Non è un sistema, mentre allora era un sistema con le sue regole ben definite. Ora riguarda vari livelli, e coinvolge ancora anche le persone comuni: il vigile, l’infermiere, l’agente della guardia di finanza… Se vogliamo una sintesi estrema, a proposito di bilanci, possiamo dire che è finita la stagione di Mani Pulite ma non la corruzione».

Lei si è dimesso 15 anni fa dalla magistratura. Ci fu un motivo scatenante?

«E’ stata una scelta dolorosa, maturata col tempo. Ebbi per la prima volta la tentazione di dimettermi nell’86. Ero a Tivoli a fare una lezione ai giovani magistrati su indagini patrimoniali e bancarie, passai davanti alla reception dell’hotel e vidi un titolo di giornale sulla conclusione delle indagini sui fondi neri dell’Iri. Io sapevo cosa c’era dentro quel mare di carte. Il titolo del quotidiano diceva che erano stati tutti prosciolti, ad eccezione di qualcuno che non contava proprio nulla…»

Sta parlando dei rapporti di allora fra politica e magistratura?

«Ho quasi 76 anni, ne ho vista passare di acqua sotto i ponti… Non era soltanto l’aggressione della politica nei confronti della magistratura, che abbiamo assaggiato quando scoprimmo la P2: fu chiesto un provvedimento cautelare nei confronti di un grande banchiere e ci fu una reazione molto molto pesante da ben definiti ambienti politici. Il fatto è che anche dentro la magistratura succedevano cose».

Cose di che genere?

«Per esempio: uno investigava, trovava prove, si accingeva a trovarne altre, arrivava la Cassazione e su sollecitazione di Roma le indagini trasmigravano, tutto finiva sostanzialmente in niente. Le racconto un episodio per farmi capire meglio».

Prego.

«Quando investigavo per i fondi neri dell’Iri un imputato, che aveva manovrato una parte consistente dei 360 miliardi di lire dell’epoca, era intimo dell’on. Fanfani, che si dice mirasse alla presidenza della Repubblica. Ora: so per certo che il presidente della Corte di cassazione protestò con un collega che conoscevo bene: tu che vieni da Milano, mi spieghi? Che vuole fare sto’ Colombo? Vuole nominarlo lui il presidente della Repubblica? Il processo finì a Roma e tutto finì nel dimenticatoio…. Vuole un altro esempio?»

Dica.

«Sempre sulla P2. La scoprimmo il 17 marzo del 1981. Avevamo fatto tutto in silenzio assoluto ma le voci cominciavano a trapelare e allora io e il collega Turone andammo dall’allora procuratore capo, Mauro Gresti, per chiedergli che facesse un comunicato pubblico per dire che erano da ritenersi fondate soltanto le notizie ufficiali della procura. Ci disse che dovevamo restituire le carte a Gelli. C’erano 37 buste sigillate da Gelli e lui ci disse, dopo aver insistito molto che non potevamo aprirle, almeno che lo facessimo in presenza dei suoi avvocati. E di far “politica” siamo stati accusati noi...»

Sta dicendo che suoi ex colleghi seguirono gli inviti della politica per cambiare la sorte dei processi?

«Sto dicendo che ci sono stati casi in cui è andata così. E quelli che trasferivano i processi da Milano o che non si accorgevano dei reati sono sempre passati come magistrati indipendenti».

Mi sembra di capire che la magistratura non le manca.

«Non mi manca per niente. É stata una scelta difficile e dolorosa, ma una volta fatta non ho rimpianti».

Al tempo di Mani Pulite per una parte dell’opinione pubblica eravate eroi, idoli. Lei come visse questa cosa?

«Con imbarazzo. Le racconto un episodio. Ero andato dal fotografo per fare le fototessere per un documento. Il signore del negozio non voleva farmi pagare. Gli ho dovuto dire che se non mi avesse fatto pagare non mi avrebbe più rivisto nel suo negozio, e alla fine acconsentì. Va detto che i media giocarono un luogo determinante nel trasformarci in ‘eroi’».

Però forse qualcuno di voi si è prestato a quell’amplificazione.

«Neanche tanto. Anche lo stesso Di Pietro: a parte quell’intervista che rilasciò a Biagi per il Corriere poi non si è messo sotto i riflettori. Però, per dire, giorno dopo Giorgio Bocca, per Repubblica, chiese a me di fare la una cosa analoga, con le foto di quando ero bambino e così via. Però mi sembrava per niente opportuno mettermi in pista su quella strada, espormi, avrei anche creato l’occasione di un dualismo fra noi del pool. Rifiutai».

Cosa ne pensa della riforma Cartabia e in particolare dei giudici in politica?

«Io avevo una regola personale, che condivido tuttora: se avessi mai deciso di candidarmi in politica mi sarei dimesso dalla magistratura, avrei lasciato passare un lasso di tempo consistente dalle dimissioni e solo dopo mi sarei candidato. E la scelta sarebbe stata irreversibile. Però questa, ripeto: è la mia regola, e la Costituzione non pone limiti del genere».

Torniamo a Mani Pulite. Che effetto le fa vedere oggi le immagini delle monetine tirate contro Craxi davanti all’Hotel San Raphael ?

«Mi fece un effetto negativo anche all’epoca. Le persone vanno rispettate comunque. Non credo proprio che abbiamo stimolato noi reazioni del genere, certamente non io».

L’invito del vostro procuratore di allora, Borrelli, a “resistere, resistere, resistere” vale ancora oggi?

«Era un momento particolare, si stavano depotenziando gli strumenti d’indagine, ridimensionando reati molto rilevanti nel quadro generale. Oggi lo trasformerei in: troviamo una soluzione insieme. La disponibilità al dialogo è il punto di partenza».

Marco Travaglio smascherato da Filippo Facci: la verità "omessa" sui suoi idoli magistrati. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 16 febbraio 2022

Cominciamo coi numeri, quelli delle dita di Marco Travaglio: perché l'altra sera, in uno dei suoi monologhi, ha detto che gli innocenti di Mani pulite si possono contare «sulle dita di una mano o forse due», il che solleva interrogativi su quante dita abbia Travaglio per ciascuna mano: pur già consapevoli che trattasi di personaggio da baraccone. La prendiamo alla larga: cominciamo col dire degli 88 parlamentari eletti nel 1992 - destinatari di richieste di autorizzazioni a procedere da parte di varie procure - i prosciolti o gli assolti furono 61. Cominciamo anche a notare che tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni, restando invece alla Milano cara a Travaglio, si arriva a circa il 46% delle posizioni considerate: su un piano razionale, prima che umano, sono tutte persone che a Palazzo di giustizia non avrebbero dovuto entrarci, e sono quasi la metà. Siamo già a un Travaglio con 450 mani, considerando che le posizioni rilevate dalle statistiche ufficiali contemplano 4.520 soggetti. Ma prima di spiegare quello che le statistiche riportate cèlano, anticipiamo che nel suo libro eternamente rispolverato in cui cambia solo il packaging (Mani Pulite, si chiama, e in origine fu agevolato da un dischetto di computer elargito da un pm) risultano 469 persone prosciolte dal tribunale, di cui le «prescritte» sono solo 243; poi ci sono quelle persone prosciolte direttamente dal gup, giudice dell'udienza preliminare: e sono altre 480, di cui solo 179 per prescrizione. Tutti affari d'oro per il guantaio di Marco Travaglio.

PRESCRIZIONE

Parentesi sulla prescrizione: non è che sia una maledizione scagliata dal cielo, è un'eventualità maturata quasi sempre dai pm durante le indagini preliminari: il 60% matura prima dell'udienza preliminare (ne sono responsabili i magistrati delle indagini) e un altro 15% matura prima della sentenza di primo grado (sempre determinata da magistrati). Tenendo conto di quella notoria panzana che chiamano indiscrezionalità dell'azione penale, i pm di Mani pulite in pratica hanno accelerato i dibattimenti che parevano loro e lasciato ad ammuffire quelli che interessavano meno. Parziale dimostrazione: nel triennio 1992-1993-1994, tralasciando quindi la maggioranza dei rapidissimi dibattimenti riguardanti Silvio Berlusconi, che furono successivi - alcuni imputati sono stati condannati nei tre gradi di giudizio in soli 2 o 3 anni (citiamo solo Sergio Cusani, Walter Armanini e Paolo Pillitteri) mentre uno come Bettino Craxi, nonostante processare un parlamentare comportasse rallentamenti procedurali, ottenne la prima condanna definitiva il 12 novembre 1996 (era già ad Hammamet) in poco più di 3 anni.

Quando fu condannato a 3 anni per il processo Enimont, il 1° ottobre 1999, il giudice, oltre a leggere il dispositivo della sentenza, lesse in aula anche le motivazioni evidentemente già preparate nonostante in genere vengano elaborate nei due o tre mesi successivi, e sviluppate per centinaia di pagine: la primizia assoluta (mai vista prima) evitò ogni rischio di prescrizione. Ultimo esempio: lo stesso Craxi, il 16 aprile 1996, venne condannato in primo grado a 8 anni e 3 mesi per le tangenti della Metropolitana Milanese, e il 5 giugno 1997 la corte d'Appello confermò, ma l'anno successivo, il 16 aprile 1998, la Cassazione annullò la condanna d'Appello: ma ecco che venti giorni dopo il presidente della Quarta sezione della corte d'appello di Milano (oggi defunto) con una procedura mai vista telefonò alla Cassazione per avere gli atti del processo e «assegnarselo» prima ancora che fossero scritte le motivazioni della sentenza, così da evitare rischi di prescrizione. La Cassazione trasmise gli atti in tre giorni e il 24 luglio 1998 Craxi venne di nuovo condannato in Appello, e in un baleno, il 20 aprile 1999, una diversa sezione della Cassazione confermò. Ministro Cartabia, impàri: nessuna Corte Europea si lamenterebbe dei nostri tempi della Giustizia, se fossero tutti così.

RITI ABBREVIATI

Ma veniamo al cuore del problema: l'alto numero di riti abbreviati e soprattutto di patteggiamenti tra i quali si nascosero colpevoli ma anche innocenti che vollero solo uscire di scena e di galera preventiva, pena la rovina economica e dell'azienda e della famiglia coi conti bloccati. Su 3.200 persone di cui la procura di Milano chiese il giudizio, 1300 sono risultati colpevoli, certo, ma il numero comprende 506 patteggiamenti e 103 riti abbreviati, cioè poco meno della metà. Il patteggiamento è un accordo tra accusa e difesa che implica un'ammissione di colpevolezza da parte dell'indagato, nonché un benestare del giudice: si patteggia solo la pena, reclusiva o pecuniaria o che sia. Prima che il fondamentale articolo 530 fosse tardivamente ripristinato (senza il quale i processi erano solo vidimazioni notarili delle indagini, come non accadeva in nessun Paese occidentale) nel periodo di Mani pulite per condannare chicchessia era sufficiente estrarre verbali d'interrogatorio ottenuti in galera (da gente disposta a tutto pur di uscirne) e riversarli in processi ridotti a certificazioni delle carte in mano all'accusa. La totale discrezionalità dei pm dipendeva perlopiù dalle trattative che l'indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse. La teoria base del nuovo Codice doveva essere che le prove e le confessioni, per essere avvalorate, fossero riproposte nell'aula del processo, nel corso del quale una testimonianza diventare una prova: non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia. Esattamente come si vede nei film americani, dove ciò che non avviene nel processo semplicemente non esiste.

PRATICA ROVESCIATA

La pratica, in Mani pulite, fu rovesciata. Ai pm fu sufficiente estrarre dal faldone alcuni verbali d'interrogatorio: se l'accusatore non ne dava conferma, o più spesso non c'era proprio, bastava sventolare il verbale, e se l'accusatore cambiava versione (dicendo che aveva detto certe cose solo per essere scarcerato) veniva incriminato per calunnia. Un imputato, per capirci, poteva denunciare un altro cittadino, patteggiare una pena simbolica e quindi uscire dal processo senza presentarsi in aula e senza confrontarsi con la persona che aveva accusato: c'è gente, in Mani pulite, che ha subito condanne senza aver mai visto in faccia il proprio accusatore. Tutto questo ovviamente non avrebbe potuto accadere senza una contro-legislazione operata dall'alto: ma vi risparmiamo le sentenze della Cassazione in un periodo in cui tutta la magistratura remava nella stessa direzione. Traduzione: a pochi interessava fare l'eroe e attendere in carcere un processo da celebrarsi chissà quando: gli interessava uscire dalla galera preventiva il prima possibile e vedere normalizzata la vita sua e della sua famiglia, ergo poter uscire dal procedimento (uscire di scena) colpevole o innocente che si ritenesse.

Da qui, a primeggiare nelle statistiche dell'inchiesta, l'altissimo numero di patteggiamenti legati alla discrezionalità dei magistrati e alle concessioni che l'indagato fosse disposto ad accettare. I patteggiamenti o riti alternativi, in Mani pulite, sono stati circa i due terzi del totale. Il ricorso al patteggia mento, in altri termini, divenne una scorciatoia pagata a caro prezzo per chi voleva uscire dal tritacarne del rito ambrosiano: chi non accettava, restava ostaggio della macchina giudiziaria - se non parlava, e resisteva perché magari non aveva niente da dire - oppure la sua posizione veniva spedita per competenza ad altre procure, tutte dita che mancano dalle ormai mostrificate mani di Travaglio: è successo in ben 1320 casi, con percentuali di proscioglimento altissime. A memoria: Clelio Darida, Franco Nobili, Daniel Kraus, Generoso Buonanno, un sacco di gente che nelle statistiche di Mani pulite e mostruose (perché hanno le dita di Travaglio) non risultano: come se a Milano avessero teso a sbarazzarsi delle posizioni scomode e indisponibili alla confessione liberatoria. Sui patteggia menti, infine, un esempio simbolico: gli stilisti Mariuccia Mandelli (Krizia) e Gianfranco Ferrè e Santo Versace, più altri inquisiti con l'accusa di corruzione, furono assolti in Appello: ma altri stilisti come Giorgio Armani e Gimmo Etro, inquisiti nella stessa indagine e pur dicendosi innocenti, in precedenza avevano scelto di patteggiare e quindi di ammettere una colpa che pure reputavano di non avere, in cambio di una pena ridotta; ma è giusto pensare che, se non avessero scelto il patteggiamento, sarebbero risultati innocenti anche loro. Invece Armani ed Etro, secondo le cifre ufficiali di Mani Pulite, risultano nel novero dei colpevoli. Qualcosa, e moltissimo altro, non quadra. Ne riparliamo in una prossima puntata, di numero inferiore - rassicuriamo - alle dita di Travaglio.

Mani Pulite, a Milano due indagati su tre non risultarono colpevoli. La macchina organizzativa di Mani Pulite fu così vorace che oggi non esistono dati certi su quelle inchieste. Di 700 casi non si sa più nulla. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

Ma quanti sono stati i soggetti effettivamente coinvolti nell’inchiesta Mani pulite? Anche se i giornali hanno provato in questi giorni a dare dei numeri, è molto difficile avere un dato esatto in quanto l’inchiesta, partita dalla Procura di Milano, aveva interessato un po’ tutta Italia con gli stralci di numerose posizioni. Non essendo poi stato celebrato alcun “maxi processo” alla corruzione, ma tanti diversi dibattimenti, la ricerca statistica si complica ancora di più. All’epoca il ministero della Giustizia non aveva una raccolta dei dati, come avviene invece oggi: non esistendo infrastrutture informatiche, le ricerche potevano essere effettuate solo in maniera cartolare, partendo dalle iscrizioni nelle cancellerie.

Non ultimo, va considerato come nel 1992 fosse entrato in vigore da poco l’attuale codice di procedura penale, che modificava in radice il rito, archiviando il modello inquisitorio in favore di quello accusatorio. Erano stati previsti istituti del tutto nuovi. Si pensi, ad esempio, ai riti abbreviati e, fra questi, al patteggiamento, che da iniziale accordo fra le parti è successivamente stato equiparato ad una condanna a tutti gli effetti. E solo a Milano i patteggiamenti per reati contro la pubblica amministrazione e l’illecito finanziamento dei partiti erano stati oltre 500. Fra questi molti che, pur innocenti, avevano solo voglia di uscire quanto prima dal gorgo giudiziario. Comunque, considerando le sentenze di condanna, di proscioglimento (anche per intervenuta prescrizione)e quindi i patteggiamenti, Mani pulite ha interessato circa 4.250 soggetti.

Impossibile indicare per ognuno di costoro i reati contestati, anche perché ogni singolo soggetto poteva essere destinatario di diverse contestazioni, e in momenti successivi. Ed è impossibile calcolare i termini di custodia cautelare, a cui molti furono sottoposti e che venne usata come strumento di pressione per agevolare confessioni e chiamate in correità, così come puree non c’è modo di calcolare la media delle pene erogate.

Soffermandosi sugli “stralci” effettuati ad altri uffici giudiziari, il Corriere della Sera ha riportato nei giorni scorsi un dato enorme: 700 persone vennero indagate, e se del caso sottoposte a misure cautelari, dalla Procura di Milano senza averne competenza. Del destino di queste 700 persone non si è mai avuto contezza. Sempre il Corriere ipotizza che le loro posizioni processuali siano finite in prescrizione.

La Procura di Milano, comunque, al termine delle indagini, aveva chiesto il giudizio per 3.200 persone. Tolti i 500 patteggiamenti, i 480 prosciolti già in udienza preliminare, i colpevoli al termine del processo furono 1.300. In pratica meno di un terzo dei soggetti inizialmente iscritti nel registro degli indagati. L’unico dato certo in questo conteggio delle manette sono, purtroppo, i suicidi, 31, e i parlamentari coinvolti, 81. Di questi, gli assolti furono ben 61. A parte, dunque, i grandi nomi, di politici di livello nazionale o di famosi imprenditori, Mani pulite fra il 1992- 1994 colpì a pioggia, senza guardare molto per il sottile, notevolmente agevolati dal clamore mediatico.

L'anniversario di Mani Pulite. Tangentopoli fu un colpo di Stato fatto dai Pm. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Febbraio 2022.  

Il 17 febbraio del 1992 – domani sono trent’anni – fu arrestato Mario Chiesa, socialista milanese, e iniziò la sconvolgente avventura di mani Pulite. Un piccolo gruppo di Pm, spalleggiati da un Gip, guidati dal Procuratore Francesco Saverio Borrelli, impiegarono circa un anno di lavoro per smantellare la prima Repubblica, frenare lo sviluppo economico del paese, annientare i vecchi partiti e i loro riferimenti sociali e acquistare un enorme potere, mettendo in scacco il Parlamento, il governo, l’opinione pubblica, sorretti dall’appoggio pieno e incondizionato di quasi tutti i giornali e le televisioni.

In un tempo piuttosto rapido furono eliminati prima i leader di secondo piano dei partiti, poi i loro massimi esponenti. L’obiettivo numero 1 era Bettino Craxi, perché lui era considerato, giustamente, il più robusto e indipendente dei capi della politica italiana.

Craxi aveva due difetti considerati imperdonabili: credeva nel socialismo democratico e credeva nell’autonomia della politica. Erano quelli i nemici. Il pool dei Pm agì velocemente e in appena due anni rase al suolo tutto l’impianto della democrazia italiana. Braccò Craxi, lo costrinse ad espatriare e poi fece in modo che morisse, in Tunisia, senza poter rientrare a curarsi in Italia. Ci furono migliaia di arresti, molti poi risultarono innocenti. Alcuni suicidi. Morti in carcere.

Il risultato? Lo vediamo oggi, la politica si è arresa senza condizioni. È nata la repubblica giudiziaria nella quale tutti viviamo e nella quale il potere delle Procure è praticamente assoluto. L’economia italiana, che era la più fiorente d’Europa e aveva portato l’Italia al quarto posto tra le potenze economiche del mondo, si è accartocciata su se stessa. Hanno pagato soprattutto i poveri. Sia in termini economici sia di perdita della libertà.

Oggi non sappiamo neppure se esiste la possibilità di reagire. E sappiamo che, certo, viviamo ancora in un regime democratico, ma che ha divorziato dallo stato di diritto.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

30 anni dal suicidio del dirigente del Psi. Sergio Moroni e la lettera a Napolitano prima del suicidio: parole attuali da cui non abbiamo imparato nulla. Biagio Marzo su Il Riformista il 7 Settembre 2022. 

Nell’anniversario della morte di Sergio Moroni, che fu deputato nonché segretario regionale del Partito socialista italiano della Lombardia.

Moroni si sparò, con il fucile da caccia in bocca, lasciando una lettera indirizzata all’allora Presidente della Camera, Giorgio Napolitano, che la lesse in un’Aula ammutolita e incapace di prendere posizione davanti alla slavina giudiziaria populista che avanzava. Nella lettera, c’è la riflessione del personaggio figlio della politica di quell’epoca in cui si militava in un partito e per il partito. In parole povere, ammise l’appartenenza al sistema partitocratico, ma lungi da lui di averne tratto profitto, cioè di essersi arricchito con la politica.

Moroni fu indagato dal pool Mani pulite per finanziamento illegale dei partiti e la sua morte fu una morte politica e non fu l’unico caso. A pensarci, espresse efficacemente il suo il peso del suo atto estremo: “Quando la parola è flebile, non resta che il gesto”. Non è tutto. C’è nella lettera spedita a Napolitano, un passaggio di un politico dalla vista lunga: “Al centro sta la crisi dei partiti ( di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure non è giusto che avvenga attraverso un processo sommario e violento…”. Ancora. “Né mi estranea la convinzione che forze oscure coltivano disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la ‘pulizia’. Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e il loro sistemi di finanziamento”.

Nel settembre del 1992, l’avviso di garanzia, al contrario di ciò che recita il Codice penale, era il reato più infamante che potesse colpire un politico. Con lo strombazzamento del circo giudiziario mediatico. Uno dei due “direttori d’orchestra”, il vice procuratore, Gerardo D’Ambrosio, così commentò: “Noi ci siamo limitati a perseguire, reati. Poi c’è qualcuno che si vergogna e si suicida”. Di seguito, l’immancabile Piercamillo Davigo: “Le conseguenze dei reati devono ricadere su chi li ha commessi e non su chi li ha scoperti”. La nemesi ha detto la sua poi su chi voleva rivoltare l’Italia come un calzino. Il concerto fu eseguito da orchestrali che suonarono contro Moroni, tra questi ricordiamo alcuni: Giorgio Bocca, Vittorio Feltri e Massimo Fini. Quest’ultimi due scrivevano sull’Indipendente – direttore Feltri- il quotidiano che più degli altri si contraddistinse a favore di Mani Pulite e dell’antipolitica.

Insomma gettarono le basi del populismo giudiziario che, in verità, vive e vegeta, anche oggi, con arresti di massa. A ben vedere, non fu l’unico organo di stampa a combattere la politica e la Prima repubblica soprattutto, ma ebbe compagni d’avventura in tutti i mezzi di informazione scritti e parlati. Chi non ricorda i telegiornali di Berlusconi, per esempio, quello condotto su Rete 4 dal telecronista giudiziario, Paolo Brosio, che “alloggiava” sotto il palazzo di giustizia di Milano, per informare i telespettatori degli arresti eccellenti. Moroni nella missiva dice la sua su questo argomento: “Né mi pare giusto che una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive a cui è consentito di distruggere l’immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste il diritto di informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie.

A ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino, dimenticando di essere stati per molti versi di un sistema rispetto al quale, si ergono censori. Non credo che questo paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da “progrom” nei confronti della classe politica, i cui limiti sono noti, ma pure ha fatto dell’Italia uno dei Paesi più liberi dove i cittadini hanno potuto non solo esprimere le proprie idee, ma operare per realizzare positivamente le proprie capacità e competenze”. E, comunque, la lettera è di grande attualità e, alla luce dei fatti profetica, per gli avvenimenti che si sono succeduti dal 1992 al 2022. Il passato che non passa. La morte di Moroni, – anzi le morti per mano giudiziaria -, è segnata dalla verità di Mani pulite; verità che non è rivoluzionaria, più delle volte è menzognera. Di fatto, come la guerra dei trent’anni di Mani pulite. Biagio Marzo

Una rivoluzione che impose lo Stato etico. Da chi era composto il pool di Mani Pulite, i paladini del bene contro i politici corrotti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Febbraio 2022 

Francesco Saverio Borrelli – L’aristocratico feroce

L’unica volta in cui il Procuratore capo di Milano degli anni di mani Pulite si era veramente offeso, fu quando l’avevo descritto in un articolo come persona per bene ma scialba, una sorta di omino “in grigio”. Era prima di Tangentopoli e lui appariva così, in ufficio o alla prima della Scala. Ma aveva ragione a non riconoscersi in quella definizione, perché “dopo” si manifestò completamente diverso. E divenne colui che non arrossiva nel dire: «Ma in fin dei conti è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?».

Se poi questo tipo di choc abbia lasciato sul campo morti e feriti, fa parte del gioco per cui il fine giustifica sempre il mezzo. E non si versa mai una lacrima per i 40 e più morti suicidi di Tangentopoli, così come il non consentire a Bettino Craxi di venire a curarsi e farsi operare a Milano, e lasciarlo morire esule. E poi assumere il ruolo di capo dell’opposizione politica al leader che non piace, Silvio Berlusconi. Prima consigliargli di non candidarsi in presenza di “scheletri nell’armadio”, e poi offrire se stesso al presidente Scalfaro per governare l’Italia “come servizio di complemento”. E infine passare dal vero corpo a corpo con il nemico di sempre con quel “resistere, resistere” gridato con il piglio del capopopolo nell’aula magna del Palazzo di giustizia, fino al melanconico addio politico della sconfitta, quando chiede «scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale».

Piercamillo Davigo – Sottile? Macché

Di sottile, colui che fu indebitamente definito “dottor sottile” (mentre era piuttosto uno bravo ad “aggiustare”) dai soliti giornalisti laudatores, non ha mai mostrato neppure l’ombra. Al contrario è sempre stato piuttosto muscolare nelle sue apparizioni pubbliche, manifestando senza timore la sua cultura da Santa Inquisizione, a disagio con le regole e le procedure. Cosa che ha dimostrato anche di recente. Era quello non di sinistra del pool, ma non meno politico degli altri.

Fin da quando parlò della necessità di “rivoltare l’Italia come un calzino” e poi stese il testo (pare sia stato proprio lui) di quella clamorosa protesta del gruppetto che andò in televisione a protestare contro un provvedimento del governo, il famoso “decreto Biondi” sulla custodia cautelare. Teorizzò il proprio diritto all’”obiezione di coscienza” quando “vengono toccati i fondamenti etici del mio mestiere”. In che cosa consiste la sua etica? Nel teorizzare che l’indagato A non esce dal carcere finché non denuncia B e C, i quali a loro volta devono denunciare altri. Tutti in galera. Ci dicono che arrestiamo troppo? La verità è che qui si scarcera troppo, disse un giorno. Può tornare a essere libero solo chi fa i nomi di altri, perché “diventa inaffidabile per il sistema del malaffare”. Sottile?

Gherardo Colombo – Fonzie tormentato

Proprio come Fonzie, non riesce a dire “ho sbagliato”. Nel suo percorso di oggi, che lo ha portato a capire l’inutilità del carcere e persino l’eccesso dell’intervento penale su problemi sociali o economici, c’è un abisso di vuoto di memoria su quel che lui stesso ha detto e fatto negli anni di Mani Pulite. Proprio sull’uso del carcere. Non riesce, come Fonzie, a dire più di “ho sb..”, anzi neanche quello. Fa fatica persino a riconoscere le palesi violazioni di legge, come quella, per esempio, sulla predeterminazione del giudice naturale e la competenza territoriale. Pure lo sapeva di essere fuori legge, quando, in una discussione con il suo amico Francesco Misiani, pm a Roma che gli contestava «..e poi non è che ogni volta possiamo fare finta che non esistano il codice e le regole sulla competenza..», rispondeva disinvoltamente «…se esiste una sola possibilità di arrivare in fondo a Tangentopoli, questa possibilità ce l’abbiamo noi».

E intanto il pool di Milano teneva in carcere l’ex ministro Clelio Darida e il presidente dell’Iri Franco Nobili, che saranno in seguito assolti, quando le inchieste in cui erano imputati saranno tornate all’alveo della competenza territoriale, cioè a Roma. Una certa spregiudicatezza Gherardo Colombo la ebbe ancora, in due diverse circostanze. Quando mandò i finanzieri in Parlamento per sequestrare i bilanci del Psi, grave sgrammaticatura istituzionale, come disse uno scandalizzato Giorgio Napolitano, cosa di cui il procuratore Borrelli fu costretto a scusarsi (lui sì). Non sapeva neanche che i bilanci dei partiti sono pubblici? E ancora quando –erano ormai passati tremila giorni da Tangentopoli e Mani pulite– tirò un vero siluro politico e affossò la Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema con un’intervista sparata a tutta pagina dalla prima del Corriere, in cui denunciava “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. E raccontava la storia d’Italia come storia criminale. Le riforme morirono allora, mille giorni dopo Mani Pulite. Per mano di uno che oggi non crede più neanche nell’uso del diritto penale come soluzione dei problemi sociali.

Tiziana Parenti – L’intrusa

L’intrusa era l’ultima arrivata, veniva da Genova e pareva, a occhio, una di sinistra. Forse per quello fu accolta nel pool e le fu affidato il filone che avrebbe potuto (non necessariamente dovuto) portare al Pci-Pds. Nessuno aveva fatto i conti con la caparbietà di Tiziana Parenti. La sua storia nel gruppo di Mani Pulite comincia e finisce con un’informazione di garanzia che la giovane pm osò inviare all’amministratore del Pds, il senatore Marcello Stefanini. Quel che era parso normale finché si erano turbati i sonni dei dirigenti della Dc e del Psi, provocò il terremoto quando si arrivò a toccare il partito di D’Alema e Occhetto. Il partito gridò alla “strategia della tensione”.

Ma nel frattempo a Milano due pezzi da novanta come Maurizio Prada, tesoriere della Dc e Luigi Carnevale, che svolgeva lo stesso ruolo nel Pci, avevano rivelato con molta precisione il sistema della spartizione delle tangenti fra i tre principali partiti, Dc, Psi e Pci, sulle grandi opere. Come finì? Con il famoso intervento del procuratore D’Ambrosio in favore di Primo Greganti e con la cacciata di Tiziana Parenti dal pool in quanto “fuori linea”. L’anno dopo la pm entrò in politica, candidata in Forza Italia. E oggi svolge, felicemente, il ruolo di avvocato a Roma.

Francesco Greco – Il rivoluzionario pigro

Uno scritto in cui lo avevo definito “frivolo” ( l’introduzione al libretto di Giancarlo Lehner “Borrelli, autobiografia di un inquisitore”) aveva suscitato l’interesse di Bettino Craxi, che da Hammamet mi aveva mandato un messaggio, dicendosi interessato a capirne il significato. La prevista telefonata poi non ci fu, diversamente gli avrei spiegato che a mio parere Francesco Greco era semplicemente diventato magistrato un po’ per caso. Così ne parlava il suo (ex) amico Francesco Misiani: «Francesco, come molti di noi, invitava nei congressi all’abbattimento dello Stato borghese..». La toga indossata per caso, ma poi il mancato rivoluzionario, quello delle riunioni “del mercoledi” con Primo Moroni, il libraio più trasgressivo d’Italia, ha finito per prenderci gusto proprio con Mani Pulite, arrivando a definire quello il periodo “più bello della mia vita” .

Sarà anche stato bello, ma qualcosa di brutto ci fu, quando lui stese quella relazione di servizio con cui mandò il suo amico di Magistratura Democratica, il suo maestro e mentore Francesco Misiani davanti al plotone del Csm a farlo processare per incompatibilità ambientale a causa della sua amicizia con il procuratore di Roma Renato Squillante. È strano che questo magistrato per caso sia poi diventato lui stesso il capo della procura più famosa d’Italia. E che l’incendiario sia diventato più che pompiere. Con tutto quel che ne segue, fino all’inchiesta dei magistrati di Brescia sulla procura ormai la più disastrata d’Italia e lo stesso Greco in pensione con una finale di carriera non proprio brillante.

Gerardo D’Ambrosio – Soccorso rosso

Era stato per tutti noi cronisti giudiziari lo “zio Gerri”, il simpatico bonario giudice istruttore di Piazza Fontana e della morte di Pino Pinelli, inchiesta chiusa con qualche nostra delusione. Poi in Procura, nella veste di vice di Borrelli, divenne il militante difensore d’ufficio del Pci-Pds. Neppure lui negò a se stesso qualche stilla di cinismo, quando dopo il tragico suicidio di Sergio Moroni, che fece commuovere anche il presidente della Camera Giorgio Napolitano che nell’aula di Montecitorio aveva letto la sua lettera in lacrime, aveva commentato: «Si può morire anche di vergogna». Senza vergognarsi a sua volta. Neanche di continuare la carriera per due volte come senatore di quel partito che gli doveva tanto.

Fin da quando, nella sua veste di procuratore, aveva preso per mano l’imputato Primo Greganti, funzionario comunista tutto d’un pezzo, trovandogli prove a discarico meglio di qualunque difensore di fiducia. Aveva scoperto che Greganti, nella stessa giornata in cui aveva prelevato 621 milioni di lire dal conto svizzero Gabbietta, aveva anche acquistato una casa a Roma. «Ecco la prova -aveva detto- che il funzionario rubava per sé e non per il partito». Inchiesta chiusa. Ma due anni dopo, quando il ministro Mancuso, guardasigilli del governo Dini, manderà gli ispettori al pool di Milano, si scoprirà la relazione di un graduato della guardia di finanza che aveva rivelato come la Procura di Milano avesse rifiutato di ricevere un documento che attestava come il famoso rogito per l’acquisto della casa a Roma fosse stato stipulato in banca alle 9,30 del mattino, e non in seguito al prelievo nella banca svizzera. I 626 milioni avevano preso un’altra strada, quindi. Le casse del Pci-Pds? Del resto lo stesso D’Ambrosio aveva definito chiuse le inchieste di Tangentopoli con le responsabilità della Dc e del Psi. Tertium non datur, aveva detto, anche se non in latino.

Antonio Di Pietro – Il testimonial

Non è mai stato il Capo del pool Mani Pulite. Ne è stato l’esecutore e anche l’immagine, il Testimonial. Amato dagli italiani, anche con le sue debolezze che lo rendevano simile a tutti quelli che facevano i cortei intorno al Palazzo di giustizia gridando ”facci sognare”. E mentre lui, chiuso nel suo ufficio in ciabatte agitava le manette e gli imprenditori milanesi facevano la fila per farsi interrogare, diventare delatori e mandare in carcere gli altri per non finirci loro, i suoi colleghi si trastullavano vendendo all’opinione pubblica la sua immagine come figurina sacra. L’origine contadina con il trattore rosso e la mamma con il foulardino nero in testa facevano proprio sognare.

Ma proprio le sue debolezze e una sentenza in cui era stato parte lesa ma che le aveva rese palesi e lui era descritto come un avventuriero (e contro cui lui non fece appello) e il timore fondato di una brutta fine nel procedimento disciplinare aperto al Csm, ne determinarono l’uscita dalla magistratura. E la caduta del personaggio, non sanata dal successivo suo ingresso in politica come ministro e come fondatore del movimento moralistico “Italia dei valori”. La vera storia di Di Pietro è finita con la “sentenza Maddalo”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

30 anni da Mani Pulite. Il risultato di Tangentopoli: 40 suicidi e centinaia di innocenti incarcerati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Febbraio 2022 

Mani Pulite e Mani Sporche. Tutto sta a intendersi, per giudicare questi trent’anni, quelli che ci separano da un piccolo episodio che creò una grande valanga politica, un colpo di Stato senza armi. Ma con il sangue, quello dei morti suicidi, da Sergio Moroni a Gabriele Cagliari e gli altri quaranta. Le vittime di quella rivoluzione che assunse un nome da Stato Etico, quello di Mani Pulite. Il contraltare di chi aveva invece le Mani Sporche. La storia la scrivono i vincitori, questo lo si sa. Ed è chiaro che da quei due anni tremendi che furono il 1992 e il 1993, quelli delle bombe con le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e in contemporanea le inchieste di Tangentopoli, chi uscì con le ossa rotta fu la Politica.

Cinque partiti che avevano governato l’Italia per quarant’anni, distrutti. E il partito forte dell’opposizione di sinistra, il Pci, colpevole come gli altri ma salvo perché complice dei pubblici ministeri e traditore dei sodali con cui aveva sempre spartito il “bottino”. Che poi bottino non era, ma finanziamento illecito. Tutto era partito da Milano, da quella che diventerà proprio allora la procura più famosa e vezzeggiata d’Italia e che oggi piange le proprie macerie. E proprio a Milano i due tesorieri della Dc e del Pci avevano illustrato ai magistrati il meccanismo del trenta per cento nella spartizione delle tangenti che gli imprenditori pagavano alla politica sulle grandi opere. Avevano anche spiegato che nella quota destinata al Pci, due terzi andavano nelle casse della segreteria nazionale occhettiana e un terzo era destinato alla minoranza “migliorista”. Questa parte del finanziamento illecito dei partiti rimase però in ombra, per motivi generali (ai magistrati era utile avere un partito importante che appoggiava la loro inchiesta) e anche relativi all’impronta di sinistra dei principali uomini del pool.

Bettino Craxi, che era un grande statista e uomo di governo, ci aveva provato, con il suo appello in Parlamento, a trovare una soluzione politica. Ma era necessario che tutti i partiti che erano stati complici nella spartizione e i cui bilanci erano falsi o falsificati, trovassero il coraggio e la forza per una pubblica comune dichiarazione di responsabilità e un comune programma di svolta. Prevalsero la vigliaccheria e la speranza da parte di alcuni di potersi appropriare delle spoglie dei partiti in via di distruzione. Anche questo fu uno degli aspetti della debolezza della politica. Che accettò di essere definita come il soggetto delle Mani Sporche, tanto da rinunciare all’unico contrappeso che la Carta dei Costituenti aveva previsto a bilanciare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, cioè l’immunità parlamentare.

Fu quello il vero momento della sconfitta. Anche perché, sopra il cadavere dei partiti affondati le acque si erano chiuse, creandone la tomba. Toghe, imprenditori e giornali avevano stretto la politica a tenaglia. I ministri della Giustizia caduti come birilli, ogni tentativo di riforma spazzato via dal broncio dei pm, mentre i quotidiani con i loro proprietari beneficati da accordi di alto livello erano diventati i servi muti di ogni sospiro di Borrelli o D’Ambrosio. Di conseguenza pareva normale il fatto che Romiti e De Benedetti avessero evitato le manette e se la fossero cavata con la presentazione di memoriali, mentre la stessa cosa non fu concessa a Raul Gardini fino al suo suicidio. E altrettanto normale parve il fatto che mentre il gallo (il padrone) faceva chicchirichì, al Palazzo di giustizia di Milano le galline (i cronisti giudiziari) rispondessero coccodè in girotondo intorno al pool di piemme, anche loro ormai organizzati in piccolo pool, con le magliette che inneggiavano a Di Pietro e la bottiglia in frigo per brindare alla prima informazione di garanzia nei confronti di Craxi. Così, di normalità in normalità alle Mani Sporche della politica si rispondeva con le Mani Sporche di Mani Pulite.

Era Mani Sporche violare i principi della libertà personale e del diritto di difesa, del principio del giudice naturale e della competenza territoriale, della presunzione di non colpevolezza. Era Mani Sporche l’uso della custodia cautelare in carcere. Per chi è entrato a San Vittore in quei giorni e ha visto l’ex ministro di giustizia Darida, persona per bene che, proprio come Cagliari, alla vista del parlamentare diceva di non preoccuparsi per lui ma per i tanti ragazzi buttati lì come bestie. O l’assessore regionale Serafino Generoso in sciopero della fame, arrestato due volte e due volte assolto. Perché c’era l’ossessione: devi parlare, devi fare i nomi, parlami di Craxi. Quello era il clima, peggio che nei processi di mafia o di terrorismo. I procuratori volevano i nomi, i nomi. Craxi, Craxi. Anche questo era Mani Sporche.

Ma ancora non ci siamo, visto che proprio ieri il Corriere della sera dava i numeri (un po’ strampalati, in verità) per dimostrare che con Mani Pulite i condannati erano tanti e gli assolti pochi. Come se il problema fosse solo quello. Come se non sapessimo che ben pochi giudici avrebbero avuto in quegli anni il coraggio di mettersi contro i capitani coraggiosi con le Mani Pulite. Ma perché non parliamo anche delle Mani Sporche che hanno violato le regole? Perché almeno uno dei quattro (Davigo, Di Pietro, Colombo, Greco) che andarono in tv a dire che si sarebbero dimessi perché con il decreto Biondi non avrebbero più potuto arrestare, non spiega oggi quel che successe dopo? Cioè dopo che riuscirono a far ritirare dal governo Berlusconi il decreto, come mai di tutti quelli che erano stati scarcerati loro ne rimisero in prigione meno del dieci per cento? Anche questo è Mani Sporche.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Quel giorno tutto cominciò, anzi finì. Da Mario Chiesa alle assoluzioni e ai 45 suicidi: Mani pulite e la scomparsa dei partiti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Febbraio 2020 

Quella sera a Milano. “Hanno arrestato Mario Chiesa”. “E chi è?”. E’ il 17 febbraio del 1992, il consiglio comunale è riunito – da un mese è caduta la giunta “rossa” e gli eredi del Pci non torneranno più a Palazzo Marino fino al 2011 – e la tensione è molto alta perché il Tar ha annullato 400 nomine sia di municipalizzate che di società per azioni quali Sea (aeroporti), Mm (metropolitane) e Sogemi (mercati generali). La situazione è paradossale perché il ricorso al Tar era stato presentato dai democristiani quando erano all’opposizione e oggi sono in imbarazzo per aver innescato una slavina che danneggia la giunta di cui loro ormai fanno parte.

Mentre la sinistra del Pci-Pds che era stata compartecipe di quelle nomine è agitata perché non vorrebbe perderle. Quattrocento “clientes” disoccupati all’improvviso sarebbero una bella pugnalata. Per questo quella sera a Milano il clima politico era caldo, quando d’improvviso qualcuno lanciò la bomba in mezzo al consiglio comunale. Toccò a un uomo dell’opposizione, Tomaso Staiti di Cuddia, parlamentare del Msi, chiedere la parola sull’ordine dei lavori e dire a voce alta quel che si stava già bisbigliando tra i banchi e nei capannelli dei corridoi intorno all’aula: era vero che era stato arrestato Mario Chiesa, beccato con una mazzetta di sette milioni di lire che aveva tentato di buttare nel cesso? Il neo-sindaco di Milano Piero Borghini, moderato ex vice direttore dell’Unità, voluto personalmente da Craxi alla guida della città al posto di Paolo Pillitteri, ebbe un moto di orgoglio.

Proprio come Aldo Moro quando in Parlamento aveva detto “non permetterò che si processi la DC né qui né nelle piazze”, liquidò la domanda con un “Non sono a conoscenza di nessuna notizia che riguardi il dottor Chiesa né permetterò processi senza imputati né imputazioni”. Prese allora la parola un preoccupatissimo Carlo Smuraglia, consigliere del Pci-Pds e famoso avvocato che pochi mesi dopo siederà in Senato per tre legislature: “Nessun processo – disse – ma la cosa ci riguarda da vicino. Chiesa è stato nominato da noi alla guida di un ente comunale, il Pio Alberto Trivulzio”. Nel parlamentino milanese per tutta la sera le facce rimasero corrusche. E che facce, in quello che fu l’ultimo consiglio comunale della prima repubblica! C’erano due ministri, il dc Virginio Rognoni, titolare della Difesa e il liberale Egidio Sterpa, ministro dei rapporti con il Parlamento.

Poi c’era il dc Andrea Borruso, sottosegretario agli esteri, il repubblicano Antonio Del Pennino, capogruppo del suo partito alla Camera dei deputati. Il Pci-Pds aveva messo in campo il deputato Franco Bassanini, Barbara Pollastrini e Chicco Testa, futuro presidente dell’Enel. Il drappello della Lega, che cominciava a farsi sentire come movimento anti-sistema, era guidato da Umberto Bossi. E c’ero anch’io, unica rappresentante antiproibizionista del Partito radicale. Ero all’opposizione sia della giunta di sinistra che di quella moderata e non conoscevo Mario Chiesa. Ma gli altri sì, lo conoscevano bene. Sedeva in quell’aula una classe politica di tutto rispetto, che nel giro di pochi giorni fu resa debolissima perché a Milano, come nel resto del Paese, erano ormai altri i Poteri che contavano. Il capoluogo lombardo è una città piccola, anche per estensione. Niente a che vedere con le grandi capitali del mondo e con la stessa Roma, che ha anche il triplo dei suoi abitanti. Ma mai come in quei giorni fu importante il perimetro che congiungeva nel centro di Milano il Palazzo di Giustizia con la sede di Assolombarda e quella dell’Arcivescovado. E i palazzi dei grandi giornali. E il carcere di San Vittore. Palazzo Marino era nella penombra di piazza della Scala, a poche centinaia di metri dai luoghi del potere e mai come allora da questi lontano.

L’Arcivescovado parlò idealmente quella sera con le parole di un giovane consigliere comunale dell’Aziona cattolica, Giovanni Colombo, considerato vicino al cardinal Martini, arcivescovo di Milano, che si scontrò con il sottosegretario Borruso, esponente di Comunione e Liberazione e prendendo le distanze dal proprio partito disse: “Io vi propongo oggi l’onestà come valore politico”. E si capì bene chi fosse stato il suo ispiratore quando qualche tempo dopo, a un convegno organizzato dall’Anm, il sindacato dei magistrati, lo stesso cardinal Martini, sommerso dagli applausi, disse che “ce n’era bisogno e bisognava fare pulizia”. La sentenza morale era arrivata prima di quella dei tribunali. Era tramontato in quei giorni il partito unico dei cattolici. A poche centinaia di metri da Palazzo Marino e dall’Arcivescovado svetta il Palazzo di giustizia costruito nel ventennio fascista dall’architetto Piacentini. Poco più in là, in via Pantano, c’è la sede di Assolombarda, l’associazione degli imprenditori della regione “locomotiva d’Italia”. Nei corridoi del tribunale succedono cose strane, in quei giorni.

Il procuratore capo della repubblica Francesco Saverio Borrelli pare favorevole ad accettare un patteggiamento di Mario Chiesa con confessione per la tangente e venti mesi di carcere. Anche perché è da poco entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che favorisce i riti alternativi. Non la pensa così il giovane sostituto Antonio Di Pietro, che da bravo ex poliziotto preferisce l’inquisizione e le tecniche poliziesche di interrogatorio e, a quanto pare, ha qualche carta nascosta che potrebbe portarlo alla caccia grossa. Di Pietro riesce a stoppare Borrelli, fa parlare Chiesa e lo libera dopo 45 giorni, alla vigilia delle elezione politiche, le ultime della prima repubblica. Quel giorno chi doveva capire, capì. Capirono subito gli imprenditori. Soprattutto dopo la retata del 21 aprile, quando l’arresto dei primi otto di loro si trasformerà in una slavina. Gli otto capirono al volo, nominarono i difensori giusti (i famosi “accompagnatori”) e dissero di esser stati obbligati dalla politica a pagare. Erano concussi, non corruttori.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Mani pulite, la stagione dei suicidi. Roberta Caiano su Il Riformista il 19 Novembre 2019 

Tangentopoli e tutto ciò che ne conseguì non solo cambiò il volto della politica italiana, che segnò la fine della cosiddetta Prima Repubblica, ma provocò 41 suicidi tra politici e imprenditori. Conosciuta anche come l’inchiesta di Mani Pulite, deve il suo nome al Pm Antonio Di Pietro il quale aprì un fascicolo alla Procura di Milano nel 1991 dando inizio alle indagini. Il vero inizio, però, si ha nel febbraio 1992 quando Di Pietro chiese e ottenne un ordine di cattura nei confronti dell’ingegnere Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro del Psi di Milano.

Dapprima Chiesa, incarcerato a San Vittore, si rifiutò di collaborare con il pubblico ministero, ma in seguito confessò che lo scandalo delle tangenti era in realtà molto più esteso di quello che si riteneva. Da quel momento lo scalpore si allargò a macchia d’olio attraverso una risonanza mediatica molto forte.

I PRIMI SUICIDI – Furono 41 le persone che si tolsero la vita a causa di queste indagini. La maggior parte lo fece al di fuori dal carcere o ancora prima di essere ufficialmente indagati. Questo accadde come conseguenza della pressione dell’opinione pubblica, per il timore che si venisse marchiati a vita, oltre che condannati. Il primo a suicidarsi fu Franco Franchi, coordinatore di una USL di Milano. Sebbene non fosse ancora entrato nelle indagini, sapeva che prima o poi sarebbe rientrato e così si uccise nella sua auto soffocato dal monossido di carbonio. A seguire ci furono quello del segretario del Partito Socialista di Lodi, Renato Morese, che si tolse la vita con un colpo di fucile alla testa, poi quelli di Giuseppe Rosato, della Provincia di Novara, Mario Luciano Vignola, della Provincia di Savona, e dell’imprenditore di Como Mario Comaschi.

I SUICIDI ECCELLENTI – Il 2 settembre del 1992 è la volta del deputato del Partito socialista Sergio Moroni. Tesoriere del partito in Lombardia, a Moroni vengono notificati ben tre avvisi di garanzia per una serie di presunte tangenti e il pool di Mani Pulite chiede alla Camera l’autorizzazione a procedere. Moroni scrive una lettera all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano nella quale parla di ipocrisia e sciacallaggio e di un processo sommario e violento. Rifiuta che venga definito come un ladro e contesta di non aver mai preso una lira concludendo con una frase inquietante: “ma quando la parola è flebile non resta che il gesto“. Il 2 settembre si spara un colpo di fucile alla testa nella cantina della sua casa di Brescia.

Uno dei nomi più famosi è quello Gabriele Cagliari. Presidente dell’ENI ed uno dei più importanti manager pubblici, dopo 4 mesi nel carcere di San Vittore si toglie la vita soffocandosi con un sacchetto di plastica. La sua vicenda è quella che ha destato più scalpore perché vengono trovate delle sue lettere in cui esprimeva il suo senso di impotenza nei confronti della gogna mediatica a cui era sottoposto. Cagliari più volte aveva dichiarato di essere all’oscuro delle tangenti ma la pressione proveniente dall’esterno della cella è stata più forte portandolo al suicidio.

A soli tre giorni dalla morte di Cagliari, si uccide un altro indagato: Raul Gardini. Il manager, a capo dell’impero agro-alimentare della famiglia Ferruzzi di Ravenna, viene indagato per una maxi-tangente da 150 miliardi dell’affare Enimont. Quando uno dei suoi dirigenti viene arrestato in Svizzera, Gardini pensa che lui sia il prossimo ad essere arrestato così si toglie la vita nella sua casa di Milano. Infine il 25 febbraio del 1993 viene ritrovato il corpo senza vita di Sergio Castellari, ex direttore generale del Ministero delle Partecipazioni Statali, che muore con un colpo di revolver Calibro 38.

Risultano brutali le parole di Piercamillo Davigo del pool di Mani Pulite “la morte di un uomo è sempre un avvenimento drammatico. Però credo che vada tenuto fermo il principio che le conseguenze dei delitti ricadono su coloro che li commettono non su coloro che li scoprono“. Roberta Caiano

Il ruolo della Corte. Mani pulite e carcere preventivo, tutte le colpe della Cassazione. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

L’articolo di Tiziana Maiolo del 16 febbraio sui trent’anni di Mani Pulite ha giustamente messo in rilievo il ruolo avuto in quella vicenda dalla Procura di Milano e dagli organi di informazione, che l’hanno affiancata. Vi è stato, peraltro, un altro protagonista, restato sempre dietro le quinte, ma il cui contributo è stato decisivo. Si tratta della Corte di Cassazione. La quale ha legittimato l’ondata di arresti e conseguenti confessioni, che hanno caratterizzato quel periodo.

Ciò avvenne attraverso tre precise direttrici. Innanzitutto, con un sofisma di bassa lega, la Corte affermò che era certamente illegittimo ricorrere al carcere per estorcere delle confessioni, ma che, al tempo stesso, era pienamente giustificato liberare le persone quando avessero confessato, perché la confessione avrebbe segnato il distacco dal contesto corruttivo, in cui avevano operato. Quindi, non sei in carcere per confessare, ma se confessi ti liberiamo. E così avvenne che le carcerazioni duravano fino alla confessione, autentica o costruita che fosse.

Del resto, una volta ottenuta la confessione con chiamata in correità di altre persone, questa diventava prova incontestabile a carico dei nuovi accusati, atteso che non era neppure necessario che quella prova fosse sottoposta al vaglio del controesame. Centinaia di processi si svolsero con i pubblici ministeri che depositarono in udienza i verbali delle confessioni ottenute in carcere, senza che i difensori dei nuovi accusati da quelle confessioni potessero interrogare chi le aveva rilasciate. Ed i processi si sono conclusi, senza la reale possibilità di verificare se quelle chiamate in correità fossero o no rispondenti a verità.

In secondo luogo, il criterio di valutazione dei “gravi indizi di colpevolezza”, richiesto dal codice di procedura penale per ricorrere alla carcerazione preventiva, fu profondamente svilito. I gravi indizi dovevano, difatti, essere visti in una “prospettiva dinamica”. Il che significava che qualsiasi elemento, anche debole ed incompleto, siccome suscettibile di rafforzarsi nello sviluppo delle indagini, era idoneo a legittimare la privazione della libertà personale. In definitiva, un altro sofisma, con il quale si svuotava di contenuto un requisito fondamentale previsto dal codice come condizione indispensabile per l’utilizzo della carcerazione preventiva. Era evidente che, in questo quadro, la chiamata in correità in una confessione legittimava ampiamente la moltiplicazione delle misure cautelari.

L’ultima sottigliezza, infine, riguardò l’effetto di un eventuale accoglimento dei ricorsi in Cassazione. Il buon senso porterebbe a ritenere che un provvedimento di carcerazione impugnato, se annullato dalla Cassazione, avrebbe dovuto implicare la liberazione. Ma la Corte di Cassazione osservò che se, come di regola avviene, alla sua attenzione giungono le impugnative alle decisioni del Tribunale del riesame, l’annullamento con rinvio di tali provvedimenti lascia comunque in piedi l’originaria ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP. Di conseguenza, le persone devono restare in carcere, sino ad un eventuale esito favorevole del giudizio di rinvio.

In poche parole: è vero che il provvedimento che ti mantiene in carcere è viziato, ma ci devi restare lo stesso. La Corte di Cassazione, dunque, ebbe un ruolo fondamentale nel legittimare quel costante abuso dell’utilizzo della carcerazione preventiva, che fu uno dei tratti salienti di Mani Pulite e che, incontestabilmente, ebbe un ruolo decisivo in quella operazione. È “giusto”, nella ricorrenza dei trenta anni, darne atto. Astolfo Di Amato

Mani Pulite: l’arresto di Mario Chiesa e l’inizio di Tangentopoli. Redazione Notizie.it il 17/02/2022

L'inchiesta "Mani Pulite" comincia qui, nel bagno di una casa di riposo per anziani di Milano, il 17 febbraio 1992. 

Sono le 17:30 di lunedì 17 febbraio, è il 1992, nell’ufficio di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e politico di primo piano del PSI milanese, sta per fare il suo ingresso Luca Magni, imprenditore monzese e amministratore delegato della Ilpi, l’Impresa Lombarda Pulizie Industriali.

Tra i due ci sarebbe un accordo, l’assegnazione di un appalto da 140 milioni di lire in cambio di una tangente del 10%, quello che Chiesa però ancora non sa è che quell’incontro è solo l’inizio della fine della Prima Repubblica.

L’inchiesta “Mani Pulite” comincia qui, nel bagno di una casa di riposo per anziani di Milano.

L’arresto di Mario Chiesa

Il giorno di San Valentino a Milano, per l’appuntato Domenico Lupinetti e il carabiniere Francesco Fancello, conosciuti meglio con lo pseudonimo di Lupo e Falco, è un giorno qualunque. Lo è stato, almeno fin quando alle porte del Comando di via Moscova non si è presentato Luca Magni.

È lui che sporge denuncia contro Chiesa, stanco di pagare le mazzette. Puntava all’appalto per le lavanderie del PAT.

Un affare. Gli avevano chiesto il 10 % o non avrebbe vinto. Lui fa un nome.

Prima di quel giorno, puntare alla politica era quasi impossibile. Della corruzione c’erano le voci ma mai gli elementi per arrestare qualcuno.

La denuncia passa dal capitano Zuliani che la gira al pubblico ministero in turno. È Antonio Di Pietro, che in quel periodo si occupava di patenti false. Chiesa al tempo era nel giro della Milano che contava, conosceva tutti e faceva da collettore per le tangenti del partito del segretario Bettino Craxi.

Quel giorno si decise di intercettare la consegna dei 14 milioni. In una busta vengono messe le banconote, alcune sono firmate per essere riconoscibili, ma si decide di consegnarne solo 7 di milioni. La valigetta è una mandarina duck, con telecamera e microspia. Alcuni giorni dopo, il brigadiere Sebastiano De Jannello, fingendo di essere il suo assistente, accompagnò Magni allo scambio, puntando la telecamera contro Chiesa.

Giù in auto, sul retro della baggina – come la chiamano i milanesi – ci sono Lupo e Falco, il cavo della telecamera si stacca ma la cimice funziona ancora. Lo scambio avviene e Chiesa rassicura Magni, dice che la sua percentuale si può rateizzare. Lì c’è il segnale “La torta è pronta” e Falco sale su nell’ufficio del presidente del Pio Albergo Trivulzio.

Chiesa all’arrivo dei Carabinieri cerca di occultare la tangente, ne afferra un’altra, da 37 milioni, scaricando le banconote nel gabinetto di un bagno, poi tenta la contro-denuncia – poco credibile, le banconote firmate sono già all’interno di un cassetto della scrivania. È concussione. Nell’appartamento della sua casa in via Mosé Bianchi, i carabinieri trovano 160 milioni in un altro cassetto, quello della cucina. Per Chiesa si spalancano le porte di San Vittore. L’ingegnere non parlò mai, almeno finché Craxi non gli dette del mariuolo e Mani Pulite decollò.

Mario Chiesa, dal PAT a Tangentopoli

Chiesa, classe ‘44, è laureato in Ingegneria Elettrica. Inizia a fare politica nel PSI alla fine degli anni Sessanta e si fa le ossa nel quartiere milanese di Quarto Oggiaro, fino a dirigere il PAT.

Ma il Trivulzio non gli basta, la sua ambizione è la politica, il potere. Chiesa si fa strada nell’élite politica locale, diventando amico della famiglia Craxi, consigliere comunale prima e assessore poi. Ma la sua vera aspirazione è Palazzo Marino. Vuole diventare sindaco di Milano e prendere il posto di Giampiero Borghini, in una città che è vestita dai colori socialisti sin dal dopoguerra. Una via facile, scontata, alla portata di uno come Chiesa. Servono soldi, tanti soldi, e tante conoscenze, che il direttore del Trivulzio può vantare.

D’altronde prima di Borghini, a Palazzo Marino, c’è stato Paolo Pillitteri, cognato di Craxi, che aveva preso il posto di un altro socialista, Carlo Tognoli. Per entrambi, il primo maggio 92 scatterà l’avviso di garanzia.

Per Chiesa sembra andare tutto nella giusta direzione, fino a quel 17 febbraio.

Quello scandalo, iniziato con una piccola mazzetta e che oggi chiamiamo Tangentopoli, ebbe ampie ripercussioni anche in Svizzera. Era lì, dietro alle porte sicure e impenetrabili degli istituti di credito elvetici, che andava a finire il denaro sporco, quello delle stecche versate a funzionari e politici. Centinaia di conti sospetti, bloccati e confiscati dalle autorità.

I primi furono proprio quelli legati a Chiesa. Nello specifico, due relazioni bancarie, a Lugano, denominate Levissima e Fiuggi, come il nome delle famose acque in bottiglia, limpide agli occhi dei magistrati, che fino a quel momento navigavano nelle acque torbide degli intrecci del PSI. Entrambe erano intestate alla sua segretaria, Stella Monfredi, che nelle pagine dell’Unità veniva descritta come una ragazza tranquilla, colpevole soltanto di non sapere che a suo nome c’era anche un conto da 5 miliardi di lire.

Poi anche migliaia di milioni in una cassetta custodita nella Banca Provinciale Lombarda di Paullo, farina del sacco di Chiesa, che scorreva nel fiume dei miliardi che si scambiavano all’ombra del garofano.

Al telefono con il legale di Chiesa c’è Antonio Di Pietro: “Avvocato, l’acqua minerale è finta”. Sono bastate queste parole per far capire all’ingegnere milanese di essere al capolinea. Rimasto solo, isolato e rigettato dal suo stesso partito, Chiesa, dopo cinque settimane di carcere e un interrogatorio di oltre una settimana, vuota il sacco. Il caso esplode, escono fuori nomi di altri politici e imprenditori coinvolti in un giro che si rivela molto più esteso di quanto gli stessi magistrati potessero immaginare.

Un sistema in cui la tangente – a Milano come in tutto il Paese – era divenuta una sorta di “tassa”, dritta nelle casse della Democrazia Cristiana, del PSI e del PCI. Chiesa ottiene i domiciliari, la classe politica trema, e la squadra di Mani Pulite – il pool – prende vita.

1992, Mani pulite e la Calabria: Mancini, Craxi e le fioriere di Reggio Calabria. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 17 febbraio 2022.

NEL 1992, in Calabria, terra di malaffare politico, si aspetta che il vento del Nord alimentato dal pool dei giudici milanesi di Mani Pulite arrivi a far pulizia di corrotti e malfattori. Reggio Calabria è dilaniata da una feroce guerra di mafia ma quell‘anno si aggiungerà molto altro.

IL SINDACO DI REGGIO CALABRIA

Agatino Licandro, 36 anni, nel 1990 era diventato il sindaco più giovane della città. Figlio d’arte democristiano. La Dc da Roma cercava di mettere ordine in una città in cui avevano ammazzato Vico Ligato, il potente della città già azzoppato dallo scandalo delle lenzuola d’oro da presidente della Ferrovie dello Stato. Licandro tuona contro la ’ndrangheta in consiglio comunale e sull’Espresso. Dialoga con Leoluca Orlando, il rinnovatore. Sarà lui il Mario Chiesa di Calabria. Nel luglio del 1992, mentre da tempo incassa tangenti per grandi opere da distribuire alla politica di ogni ordine e grado, è costretto alle dimissioni su una semplice richiesta di rinvio a giudizio. In procura i magistrati Pennisi e Verzera adottano il metodo della scuola milanese. Un abuso amministrativo sull’arredo urbano della città catapulta Reggio Calabria sull’asse del Nord.

E’ lo scandalo delle fioriere. Un banale abuso d’ufficio. Un acquisto senza appalto di 97 milioni fa scattare gli arresti per l’intera giunta Licandro. Pochi mesi prima il sindaco era pronto a candidarsi alle politiche. Ma Forlani in testa aveva chiesto di restare in Comune: “La città ha bisogno di te”.

LICANDRO CANTA

Sarà lui il Mario Chiesa di Calabria. Nel luglio del 1992, mentre da tempo incassa tangenti per grandi opere da distribuire alla politica di ogni ordine e grado, è costretto alle dimissioni su una semplice richiesta di rinvio a giudizio. In procura i magistrati Pennisi e Verzera adottano il metodo della scuola milanese. Un abuso amministrativo sull’arredo urbano della città catapulta Reggio Calabria sull’asse del Nord. E’ lo scandalo delle fioriere. Un banale abuso d’ufficio. Un acquisto senza appalto di 97 milioni fa scattare gli arresti per l’intera giunta Licandro. Pochi mesi prima il sindaco era pronto a candidarsi alle politiche. Ma Forlani in testa aveva chiesto di restare in Comune: “La città ha bisogno di te”.

La partitocrazia reggina è decapitata. Pds e Msi cavalcano la protesta. Accade l’imprevedibile, Agatino detto Titti collabora con la giustizia e vuota il sacco su una città corrotta fino al midollo. Il 18 settembre di quello storico 1992 gli arresti sono veramente eccellenti. Finiscono in carcere in 18. Tre ex sindaci, amministratori, ex parlamentari, consiglieri regionali, persino un giornalista. Ma i nomi eccellenti sono i manager dell’Iri-Italstat e della Lodigiani che hanno pagato le tangenti ai partiti di governo. Un miliardo in lire di cresta su un appalto di 113 per il Centro direzionale. Lo scandalo è nazionale.

Licandro in città lo apostrofano come “Titti dei Rolling Stones” per le sue cantate. Torna a lavorare in banca ma non è gradito. Neanche al Circolo di società dove tutti chiedevano favori e prebende. Licandro va via da Reggio e sparisce per anni. Patteggia la pena a pochi mesi.

LA CITTA’ DOLENTE

Licandro lascia una testimonianza imponente che è il più importante spaccato di quel tempo. Con Aldo Varano pubblica “La città dolente”. Sono le confessioni di un sindaco corrotto che ancora oggi aiutano a comprendere come si finanziava la politica. La vicenda giudiziaria finirà nel tempo in una grande bolla. Licandro ogni tanto tornerà a Reggio nel corso del tempo rilasciando interviste ai media locali. Vive lontano. Quella clamorosa vicenda a Reggio Calabria sostituisce una classe dirigente. Quella precedente passa all’oblio.

MANCINI NON ELETTO IN PARLAMENTO

In quel 1992 si vota per il rinnovo del Parlamento. Al Nord è il trionfo della Lega, si affaccia la Rete di Orlando. Si vota con la novità della preferenza unica decisa dal referendum di Mario Segni. Giacomo Mancini, pregato da Craxi, fa da capolista, per dare credibilità alla lista socialista. Dopo dieci legislature, viene clamorosamente trombato da una congiura ben orchestrata. E’ un colpo durissimo. Ma il vecchio leone sa attendere.

LA MORTE DI BALZAMO

Il 14 ottobre l’amministratore nazionale del Psi, Vincenzo Balzamo, è raggiunto da un avviso di garanzia del pool milanese. Il tesoriere viene colpito da un infarto mortale prima che inizi il processo nei suoi confronti. E’ una delle vittime di Tangentopoli.

L’INTERVISTA DI MANCINI AL CORRIERE DELLA SERA

Balzamo aveva fatto parte della corrente manciniana. L’8 novembre Giacomo Mancini rilascia un’intervista al Corriere della Sera. Difende il suo compagno e dice “Balzamo era il segretario amministrativo, ma la parte delle entrate che conosceva era quella che riguardava i grandi progetti dell’edilizia, i lavori pubblici. Ma la vastità del fenomeno, i flussi di finanziamento che hanno avuto come destinatario il Psi non sono certamente passati da Balzamo, non sono stati registrati. Li conosceva solo Craxi”. 

Nella vivace pubblicistica del tempo è la notizia del giorno. Non sfugge ai magistrati di “Mani pulite”.

DI PIETRO CONVOCA MANCINI A MILANO

Dieci giorni dopo, Mancini, come persona informata sui fatti, viene convocato in Procura a Milano. A porre le domande sono Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro. Nel verbale è documentato che Mancini conferma i contenuti dell’intervista e spiega i meccanismi di finanziamento del Psi. Un mese dopo Craxi sarà raggiunto dal primo di numerosi avvisi di garanzia a suo carico.

Non c’è prova provata che il verbale di Mancini abbia dato l’indizio decisivo al pool di giudici. Mancini fece opera di verità e di rivalsa politica. La questione tornerà d’attualità nel 2015, quando a Tangentopoli viene dedicata una serie di grande successo, 1992, ideata da Stefano Accorsi.

La prima serialità, che mescola verità e finzione, si chiude con Giacomo Mancini (interpretato da un per niente somigliante Pietro Biondi) che va dai giudici a denunciare Craxi.

Il Corriere è creato ad hoc, con titolo diverso. Non è quello autentico. Mancini sembra il vecchio cattivo di una trama. Abbiamo potuto ricostruire la genesi del plot con il regista della serie, Giuseppe Gagliardi, calabrese di successo. “1992’ ha avuto fior di consulenti giornalisti, da Filippo Facci a Marco Damilano. Sulla base dei loro resoconti la parte creativa ha apportato svisate inventate. Il Mancini della fiction non è quello della Storia.

L’OMICIDIO AVERSA

La Calabria del 1992 era in attesa di un riscatto messianico. Come in tutta Italia il tintinnare delle manette ai politici era molto gradito. L’anno si era aperto con l’uccisione del sovrintendente di polizia a Lamezia, Salvatore Aversa, e della moglie, Lucia Precenzano. Poche settimane dopo la “svolta” sulle indagini con la supertestimone Rosetta Cerminara. Vicenda tristemente attuale che, in quel complicato periodo, farà nascere un professionismo dell’Antimafia molto praticato da sociologhe, giornalisti e maestri del nuovo pensiero che arriva ai giorni nostri.

LE INCHIESTE DI CORDOVA

A Palmi opera Agostino Cordova. Mette sottosopra la Piana a più alta densità mafiosa della regione. Torturando un sigaro avvia inchieste sull’Enel che si intrecciano con i grandi scandali nazionali, manda i carabinieri a sequestrare facsimile dei candidati nelle case dei picciotti, scova un conto protetto a Palmi che risponde al nome di una tedesca amica del Guardasigilli dell’epoca, Claudio Martelli. Persegue la massoneria deviata. Ma quei verdetti saranno in larga parte assolutori, le inchieste a volte non sono arrivate neanche in aula.

A COSENZA E CATANZARO

A Cosenza la magistratura è attendista. Ci sono piccoli sussulti. Un assessore socialista viene pescato con i gioielli in tasca dai carabinieri. Pietro Mancini lo mette fuori. Le grandi inchieste arriveranno qualche anno dopo. Ma la tangentopoli cosentina che vede alla sbarra il senatore Franco Covello finisce con una raffica di assoluzioni. Catanzaro registra schizzi di fango per Agazio Loiero a processo per i fondi neri del Sisde. Sarà prosciolto da ogni accusa nel 2000.

LA STAGIONE DEI SINDACI

Anche Lamezia sarà scossa dal terremoto italiano. Consiglio comunale sciolto per mafia, processo per l’ex sindaco socialista. Da quelle macerie spunterà un giudice, Doris Lo Moro, che diventerà sindaco. Sarà il fattore M. Quello dei municipi. Dal 1992 nasce l’onda lunga che crea nuove maggioranze nei comuni calabresi. Argiroffi a Taurianova, la destra che alza mani pulite nella Sibaritide a Corigliano e Rossano. Un’altra donna per la prima volta porta la sinistra al potere a Paola: si chiama Antonella Bruno Ganeri. Giacomo Mancini conquista Cosenza con liste civiche.

A Reggio, sulle rovine di una città a pezzi, avanzerà e diventerà progetto realizzato la città a misura d’uomo di Italo Falcomatà. Realtà di base costruiscono un nuovo municipalismo anche a Soverato. In quei mesi si accendono i primi fuochi di rivolta dell’Enichem. Poco dopo, Crotone, la Stalingrado del Sud, darà i suoi consensi alla destra.

QUELLO CHE RESTA

Dobbiamo registrare che Tangentopoli contribuì a migliorare le nostre città, ma non le aree interne. Gli anni Novanta vedranno un ritorno di molti laureati che dopo avere studiato fuori rivitalizzeranno la Calabria. Il ceto politico si rinnova, la magistratura sarà supplente contro il grande problema criminale. Il Porto di Gioia Tauro e le università diventano poli di sviluppo. Sono passati trent’anni da Mani Pulite. In Calabria quelle sporche prosperano ancora.

Il saggio del difensore. Chi è Davide Steccanella, l’avvocato degli “indifendibili” Battisti e Vallanzasca. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Febbraio 2022. 

Lui dice che «questo libro non è né un trattato sul processo penale né un manuale sul mestiere dell’avvocato…». Ma non è così, perché La giustizia degli uomini (Mimesis Edizioni, 18 euro) di Davide Steccanella dovrebbe proprio essere non solo letto, ma anche studiato. Dagli studenti di giurisprudenza, prima di altri. Sia che sognino di diventare dei Carnelutti, ma anche se si accontentassero del più modesto ruolo di un Di Pietro, visto che in questo febbraio 2022 siamo in clima di celebrazioni per il trentennale di un arresto, evento per il quale non si dovrebbe mai festeggiare. E questo dovrebbe essere il primo insegnamento, per gli studenti. Il secondo potrebbe riguardare il coraggio, quello di assistere “gli indifendibili”, come Cesare Battisti, il terrorista, e Renato Vallanzasca l’incontrollabile delinquente abituale.

Lui l’ha fatto, perché Davide Steccanella è un avvocato un po’ particolare. Prima di tutto perché non ritiene la propria professione una missione religiosa, e anche perché è diventato penalista un po’ per caso, benché figlio di avvocato. E si sa che le toghe, quelle giuste e quelle sbagliate, generano altre toghe. Ma da lui abbiamo queste due garanzie di un rapporto “laico” con l’amministrazione della giustizia. Infatti il nostro autore è entrato per la prima volta nel sacrario del Palazzo di giustizia di Milano un po’ dalla porta di servizio, a ventiquattro anni, mentre era militare nel corpo dei carabinieri, cui all’epoca era affidato il servizio traduzioni dei detenuti dal carcere di San Vittore al tribunale. Così, negli anni in cui, pur avendo in tasca una laurea in giurisprudenza (quella che ti apre tutte le porte, come si diceva un tempo), non si è ancora ben deciso che cosa fare “da grandi”, il giovane Steccanella si ritrovò a guardare il processo con occhio neutro. Con stupore guarda il trattamento riservato ai detenuti. E li vede così: «Animali trascinati in catene da una gabbia all’altra nell’indifferenza generale, questo erano».

E le toghe? «…provavo un malcelato fastidio nel vedere quegli avvocati parlarsi addosso per ore davanti a tre signori, altrettanto agghindati che – seduti su una sorta di scranno reale con aria annoiata- il più delle volte neanche ascoltavano. Alla fine il signore seduto al centro – vecchissimo, ai miei occhi- leggeva il verdetto con tono solenne e dizione incomprensibile». Attenzione a vedere nelle impressioni di questo ragazzo qualcosa di superficiale, perché quello lì con la divisa da carabiniere aveva capito qualcosa di profondo, che il processo è violenza, e che tra le lungaggini e la noia delle toghe, quelle giuste e quelle sbagliate, c’è un soggetto-vittima, un animale in catene. In un canile, aggiungerà anni dopo un detenuto tragicamente eccellente, Gabriele Cagliari.

Davide Steccanella, avvocato per caso, quel palazzo lo frequenta ancora da trentacinque anni. E mette la sua esperienza, il suo vissuto, a disposizione di chi voglia conoscere senza gli occhi dell’ideologia o dello schieramento di campo. Ricorda senza piaggeria due grandi avvocati milanesi, Corso Bovio e Ludovico Isolabella, suo primo e unico maestro. Dipinge come pubblici ministeri-tipo, due ancora famosi ancorché da poco pensionati, Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini. Il primo, la cui indole era «ontologicamente accusatoria, cosa che lo portava a ritenere che non esistessero imputati innocenti, ma solo imputati che erano riusciti a farla franca». Uno che pareva appartenere a quella “cultura becera” che considerava gli avvocati come azzeccagarbugli, «furbastri dediti… a lucrare sul crimine impunito».

La seconda colpiva, racconta l’Autore, per «… quella devozione ai limiti del maniacale allo Stato». «La sua missione era catturare i mafiosi, cosa che fece sebbene non tutti lo fossero davvero, prendendosi qualche ingiusto anno di galera». Descrizioni perfette dei due, più efficaci di tanti commenti. Con una considerazione generale, alla fine del capitolo. «Una cosa sono i pubblici ministeri “militanti”, durissimi e in buona fede, sebbene sorretti da certezze tanto granitiche da diventare sordi a qualunque istanza della difesa; altra cosa sono quelli che semplicemente giocano sporco». Ecco. Ma fuori dagli schemi dei personaggi famosi, dei militanti e di coloro che giocano sporco, per capire come funzionava (e funziona) spesso nella quotidianità il processo, ricordiamo un episodio che riguardò un riconoscibile (pur se non citato con nome e cognome) ex assessore regionale democristiano della Regione Lombardia.

Arrestato due volte, la seconda costretto al digiuno per sollevare un po’ di attenzione sul suo caso. Precisiamo che fu poi assolto in ambedue i processi. Ma nel secondo, ricorda Steccanella che fu suo difensore con Isolabella, la pm aveva chiesto la condanna a cinque anni di carcere. E avendole fatto notare il difensore che gli parevano un po’ tanti per un semplice tentativo, la “sventurata” ammise di non essersene accorta e modificò la richiesta a un anno e quattro mesi. Così, con indifferenza, per lei gli anni erano solo numeri, non furto di vita di persone. La carriera politica dell’assessore era finita ( da tempo fa l’avvocato), non quella della pm, che divenne giudice di cassazione. Con quale imparzialità possiamo immaginare.

Ma erano poche, in quegli anni di Tangentopoli, le occasioni per il giovane avvocato, oggi sessantenne, di andare a difendere un innocente. La gran parte del tempo gli avvocati lo trascorrevano facendo gli “accompagnatori” di indagati disposti a tutto, alla delazione, al tradimento, pur di non andare in carcere. Il che non era proprio un bel mestiere, per chi doveva difendere. Facile, soprattutto. Sicuramente l’avvocato Steccanella ha tratto maggior soddisfazione, pur se i risultati non gli hanno dato il merito che gli sarebbe dovuto, nell’assistere “gli indifendibili”, Cesare Battisti e Renato Vallanzasca.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Pecorella: «Le procure fecero politica e pianificarono il pogrom della prima Repubblica». Il professore e avvocato Gaetano Pecorella parla di Mani Pulite. «Tutti i partiti sono stati eliminati dalla scena politica, salvo il Pci». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

A trent’anni dallo scoppio di Tangentopoli, facciamo un bilancio con il professore e avvocato Gaetano Pecorella, già parlamentare di Forza Italia, presidente della commissione Giustizia e, ai tempi di Mani Pulite, numero uno dell’Unione Camere penali.

Come si può sintetizzare quella stagione?

È stato un periodo in cui tutti coloro che hanno partecipato a questo “pogrom”, a questa specie di grande “epurazione” hanno lasciato l’Italia in una situazione peggiore di come era prima di quel 17 febbraio 1992. La magistratura, accusando di reati che definiamo di creazione giuridica, come il finanziamento illecito ai partiti, ha colpito anche situazioni economiche floride e ha azzerato completamente un classe politica.

Si sono salvati in pochi.

Craxi nel suo discorso alla Camera nel 1993 ricordò che tutti i partiti “hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale”. Non dico che la politica non avesse delle cadute di stile, e che non ci fossero politici corrotti, come ci sono oggi. Il problema è che allora si costruì una campagna militare, andando a stanare solo determinati soggetti. La prova è che tutti i partiti sono stati eliminati dalla scena politica, salvo il Pci.

Possibile che il presunto fenomeno corruttivo non abbia riguardato neanche uno tra i dirigenti del Partito Comunista?

Le cose poi sono cambiate quando è arrivato il partito che ha deluso le aspettative di chi voleva l’Italia governata da quella sinistra: appena sulla scena politica entra Silvio Berlusconi tutta la magistratura milanese si concentra su di lui.

Quindi secondo lei con l’avvio di Mani Pulite la magistratura ha perseguito un disegno extra giudiziario?

La magistratura è diventata un vero soggetto politico. Il chiaro obiettivo era far andare al Governo quella parte politica a cui apparteneva quella magistratura. Tanto è vero che l’ex procuratore capo Gerardo D’ambrosio è stato poi eletto in Parlamento tra i Democratici di Sinistra. Il celebre “resistere, resistere, resistere” di Francesco Saverio Borrelli non può essere applicato ai magistrati, ma ha senso solo nel corso di uno scontro politico. La magistratura, quindi, ha tradito il suo ruolo e ha cominciato a combattere con la classe politica. Basti pensare a quando Antonio Di Pietro andò in televisione a leggere un comunicato del pool di Mani Pulite contro il Decreto Biondi e poi la gente scese in piazza. Gli effetti del disegno politico della magistratura sono stati disastrosi per il Paese.

I protagonisti di quella stagione sostengono che non c’è stato abuso della custodia cautelare. E però si fece in modo che il gip fosse sempre lo stesso, Italo Ghitti. E Claudio Martelli in una intervista all’Agi ricordò quanto disse Borrelli, una cosa del tipo “non li incarceriamo per farli parlare, li scarceriamo quando hanno parlato”.

Ricordo un episodio che mi capitò di leggere negli atti di un processo. Antonio di Pietro chiede l’autorizzazione per arrestare un imprenditore. La risposta che ebbe da Ghitti fu: ‘ trova un altro argomento perché per questa ragione l’ho già arrestato una volta’. Si utilizzava l’arresto per ottenere una collaborazione, il carcere divenne una ‘ tortura dolce’, per ottenere elementi di prova, che sono sospetti di per sè, perché ottenuti per avere in cambio la libertà. Eppure, alla fine di tutto, la pena più alta comminata è stata quella a 5 anni e 6 mesi: un risultato modestissimo rispetto al grande prezzo che il nostro Paese ha pagato per quella iniziativa giudiziaria.

Quale fu invece il ruolo dell’avvocatura?

Anche la nostra categoria ha avuto dei torti. Già al tempo parlai di ‘ avvocato accompagnatore’: appena il proprio cliente chiamava in causa un altro soggetto, l’avvocato si affrettava ad informarlo per portarlo in Procura e farlo collaborare.

Possiamo dire che con Mani Pulite nascono o si aggravano alcune gravi patologie di cui attualmente soffre il nostro sistema giudiziario, a partire dal fenomeno della mediatizzazione del processo penale e del perverso intreccio tra stampa e magistratura?

La stampa ha svolto la sua funzione, ossia vendere copie di giornali. Ha fatto scandalismo, schierandosi con i magistrati, perché il Paese si è schierato con il pool. Se vogliamo la stampa ha svolto un ruolo di supporto alla magistratura. Era difficile poter pensare ad una stampa contraria alla linea della Procura, sarebbe stata una stampa isolata.

Oggi com’è il rapporto tra magistratura e politica?

Credo che a Milano sia cambiato molto il clima, in senso positivo. In generale la magistratura ha modificato il modo di fare politica: fa politica con i politici, condivide il potere politico. Questo è quello che ha spiegato Luca Palamara.

Lei prima ha citato D’Ambrosio, ma Di Pietro è persino diventato Ministro. La classe politica non dovrebbe fare mea culpa secondo lei?

Ancora oggi la politica risente del peso condizionante della magistratura. Lo si vede guardando alle recenti riforme. Faccio un esempio: la Commissione Lattanzi aveva proposto di reintrodurre l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione di primo grado. Invece la Ministra della Giustizia Marta Cartabia non ha fatto sua questa proposta, pur essendo Lattanzi un ex presidente della Corte Costituzionale. E poi basta poco per far saltare un Presidente del Consiglio: basta che un magistrato apra una indagine su di lui e quel politico è subito in grande difficoltà.

Da questo punto di vista possiamo dire, quindi, che anche l’invito all’astensione rivolto agli elettori da Forza Italia e da Silvio Berlusconi in occasione del referendum del Partito radicale e dell’Unione Camere Penali sulla separazione delle carriere del 2000 fu un grave errore?

Fu sicuramente un grave errore, determinato, credo, dal fatto che vi erano altri quesiti non condivisi da Forza Italia: diventava un po’ difficile, come messaggio, dire sì ad un quesito e no ad un altro.

Alla fine di tutto che bilancio possiamo fare di quella stagione?

Per quanto si potesse essere critici con i partiti di allora, adesso la classe politica non esiste più. Siamo costretti a chiamare dei tecnici per poter governare. Inoltre è sopravvissuta l’idea, che all’epoca ebbe grande peso, che collaborando si evita il carcere. Abbiamo un Paese che ha magistrati che si siedono allo stesso tavolo con i politici per decidere le nomine. Infine un grande errore commesso dalla politica è di aver eliminato nel 1993 l’unica forma di difesa contro la magistratura, ossia l’autorizzazione a procedere, fatta eccezione in caso di arresto.

Dagospia il 17 febbraio 2022. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”.

Paolo Brosio, tra gli inviati tv più celebri di Mani Pulite, di cui oggi ricorrono i 30 anni, ha raccontato a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, quei giorni così difficili per il nostro Paese. 

Si ricorda il giorno in cui tutto è iniziato? “Si, ero su un ghiacciaio austriaco a fare un servizio sulla mummia Ozzy che avevano appena ritrovato quando mi chiama il mio direttore di allora, Emilio Fede, che mi dice di tornare subito a Milano perché avevano arrestato Mario Chiesa. Così arrivo a Milano, in corso di Porta Vittoria. Dovevo rimanerci dieci giorni e ci rimasi quattro anni, più di 900 giorni”.

Come nacque l'idea del collegamento davanti al Tribunale con i tram che passavano? “La Rai poteva stare vicino alla scalinata principale, mentre noi potevamo stare vicino al chiosco e l'edicola. Io ci sono stato talmente tanto tempo che avevo fatto una buca. Ci sono stato talmente a lungo, anche d'estate, con 40 gradi, che alla fine il cemento aveva l'impronta delle mie scarpe. E i tramvieri, quando passavano, mi chiedevano 'chi hanno arrestato'?”. 

Con chi andava più d'accordo nel pool di Mani Pulite? “Sono sempre andato d'accordo tutti. Salvo una volta”. Quale? “Avevamo scoperto che nella toilette dei magistrati c'era una parete più sottile - ha raccontato a Un Giorno da Pecora Brosio - io ero lì col bicchiere e ascoltavo. Una volta arriva Borelli e mi becca...”

E cosa le dice? “Brosio che fai li!” Quali altri aneddoti ricorda di quel periodo? “Una volta stavo per andare in onda, avevo su un'agendina tutti i nomi e i dati degli avvisi e degli arresti imminenti e Di Pietro passa e me lo prende”. E' riuscito a recuperarlo? “Sono partito come un treno per rincorrerlo, e alla fine me lo ha tirato. Sono riuscito ad andare in onda all'ultimo secondo...” 

ANDREA PAMPARANA. Dagospia il 17 febbraio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, in questi giorni assistiamo in tv, sui giornali, in radio, alle celebrazioni per il trentennale di Mani pulite. Come sai fui inviato del Tg5 per ben cinque anni nella trincea della cosiddetta Tangentopoli. Fu vera gloria? No. Martedì 2 ottobre 2012 venne arrestato, a Roma, l'ex capogruppo del Pdl alla Regione Lazio, Franco Fiorito.

Era accusato di essersi appropriato di 1.300.000 euro dai fondi destinati al gruppo consigliare. Grande scandalo, indignazione, “ecco, vedi a vent'anni da Mani pulite la Casta, la maledetta Casta, non ha imparato nulla, sono tutti uguali, per fortuna noi cittadini onesti che paghiamo le tasse siamo diversi e prima o poi li puniremo”. In realtà, non pochi tra quegli indignati cittadini, le tasse non le pagano affatto.

Nel 1992 e 1993, spesso, soprattutto alla sera nei collegamenti del Tg5 in diretta dal Palazzo di Giustizia, ero circondato da una folla inferocita e berciante che ci insultava, lanciava monetine, inneggiando a Di Pietro, “forza Tonino, Borrelli sei tutti noi, resistere, resistere, resistere!”. Facevo il mio lavoro sovrastando quella massa di pseudo rivoluzionari, molti, anzi molte delle quali scendevano dai loro borghesi appartamenti del centro di Milano, a due passi dal Duomo, con tanto di pellicce di visone, borse firmate, accessori di lusso.

Noi servi del padrone, Berlusconi, amico di Craxi, il Cinghialone, i potenti alla gogna nella stanza del loro eroe, Tonino, il contadino che si fece re, loro, i cittadini, gli onesti che finalmente trovavano giustizia. Ma non era affatto così.

Nella prossimità del Natale del 2012, pochi mesi dopo l’arresto del citato Fiorito, quando Roma si trasforma in una cloaca di auto, la più piccola di solito un Suv da 50.000 euro, ero in taxi in piena in piazza Venezia, completamente bloccato da auto e camioncini parcheggiati in terza fila davanti al vecchio palazzo col famoso balcone, sotto lo sguardo indifferente di vigili urbani il cui unico pensiero era, lo si poteva capire dai loro sguardi, “tanto tra poco mi finisce il turno”. 

In quel momento di caos calmo, perché s’era fermi da qualche minuto, il vecchio tassinaro guardandomi dallo specchietto mi disse: “Diretto’, vede? Qui sono tutti Fiorito!” Vecchia saggezza popolare romana. O se vogliamo da Gattopardi: “Cambiare tutto affinché nulla cambi”. Questa è l’Italia, questi siamo noi. Andrea Pamparana

TANGENTOPOLI a cura di GLUCK per Dagospia il 17 febbraio 2022.  

Nelle settimane della merla e della scalata al Quirinale con il bis di Mattarella già evocato alla prima della Scala è calata pure la nebbia a offuscare per giorni la Milano scintillante raccontata dalle gazzette locali. Una città del tutto insensibile alle vicende politiche romane, ma intenta ad autocelebrarsi trent’anni dopo l’avvio di Tangentopoli. 

Tra rimorsi e rimozioni dei cronisti giudiziari al servizio dei Poteri marci che possedevano e controllavano il sistema dei media. Tant’è, che nei primi due anni della mattanza manettara non furono mai sfiorati dal pool di Mani pulite che incoraggiavano il loro lavoro: dalla Fiat di Cesare Romiti alla Fininvest di Silvio Berlusconi, che ben presto saranno costretti a portare anche loro la croce giudiziaria degli inquisiti nel malaffare e non quella dei concussi come sostenevano (a torto).

MANI PULITE, PENNE SPORCHE

Alla libreria “Arcadia” a due passi del palazzo di Giustizia, l’avvocato di lungo corso è un fiume in piena: “Sa cosa pensava dei giornalisti un premier inglese? La stampa pretende quello che pretendono le prostitute: potere senza responsabilità. Sa come si dice nella mia Sicilia? Cu’ s’ammuccia soccu fa, è signu chi mali fa… vale a dire, chi nasconde quel che sa ha qualcosa da nascondere”. 

E ancora: “Nella stampa dalla memoria curta non troverete una riga sul ruolo avuto anche dai corruttori in Mani pulite, ma solo dei corrotti. Parlo delle grandi imprese…alla Fiat il dottor Romiti confezionava pacchi di mazzette con la carta dei giornali… Così, una volta superata la sbornia giudiziaria qualcuno l’ha forse dimenticato? al momento di risolvere Tangentopoli che l’investiva - a Torino non a Milano con buona pace del pool -, a Cernobbio i padroni del vapore evocarono un condono salvifico, ma il compianto professor Guido Rossi fu lapidario (e inascoltato) nel bocciarlo: “Non è Tangentopoli a creare il falso in bilancio, sono i bilanci falsi a creare Tangentopoli”. 

LA FAVOLA DELLA SOCIETA’ CIVILE

Poi aggiunge: “Per salvare i corruttori, tali erano i grandi imprenditori che hanno sempre pagato i partiti, all’arresto del manager Fiat, Enzo Papi, il loro penalista di fiducia, Vittorio  Chiusano, sostenne che le società per azioni non erano enti pubblici, ergo tutti i reati di concussione e corruzione dovevano essere cancellati… Ma la stampa strabica nel ricucire la tela del malaffare pubblico e privato continua a guardare solo dalla parte degli eroi di Mani pulite”.    

Mette ordine nel passato (che non passa) nel suo ultimo lavoro la storica Simona Colarizi (“Passatopresente, Laterza): “Stampa e televisione avevano costruito e alimentato la favola di una società civile e sana, dominata per quasi mezzo secolo da partiti corrotti (…) un mito devastante che avrebbe contribuito a distruggere il sistema dei partiti della prima Repubblica”. 

Parla il portavoce della Dc al tempo di Mani pulite. Il dramma di Enzo Carra: “Mostrato in manette per dare un segnale di sottomissione alla politica ma ero innocente”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

Trent’anni dall’inizio di Mani Pulite. E poco meno da quando il terremoto giudiziario arrivò a Roma, travolgendo – con il colpo di cannone della maxi tangente Eni Montedison – anche il cuore della politica. Enzo Carra ne fu, suo malgrado, protagonista. Era il portavoce della Dc. Un professionista che di tangenti non ne aveva mai viste. Ma che fu prescelto dal pool della Procura di Milano per farne una vittima sacrificale sull’altare dei simboli. Era pur sempre il portavoce del partito che teneva le relazioni tra il mondo dei media e il partitone del potere, “non poteva non sapere”. Andava colpito, quasi per educarne cento.

All’epoca era il portavoce della Dc, come ci arrivò?

Ero giornalista da quando avevo 22 anni. La mia passione all’inizio era il cinema, la critica cinematografica. Fondai un giornale, Il Dramma.

Un nome profetico…

Sì, quello fu un dramma vero. Non solo mio, collettivo.

Torniamo a quando diventa giornalista politico.

Avevo ridato fiato alle pagine di politica del quotidiano Il Tempo, a Roma. Avevo reinventato la nota politica, rinnovando il modo di informare i lettori. A un certo punto Forlani, nel 1989, mi chiese di diventare portavoce della Dc, accettai. Era un momento vibrante, che sentivo carico di sfide.

Nell’ 89 cambiava il mondo.

E però molti tardavano ad accorgersene. Come pure fu per Tangentopoli. La politica era gerontocratica, non percepiva velocemente i cambiamenti in arrivo.

Come fu l’arrivo di Tangentopoli, con l’arresto di Mario Chiesa?

Nessuno fece caso. Sembravano questioni milanesi, secondarie. L’atteggiamento era “‘a da passà ‘a nottata”. Una sottovalutazione generale. E invece fu l’inizio di un passaggio da un’epoca a un’altra.

Viene in mente Gramsci: il vecchio tramonta ma il nuovo stenta a nascere.

E guardi che siamo ancora in quel guado. Tangentopoli fu l’abbattimento di una classe dirigente, senza un progetto vero di sostituzione. Uno sconquasso che ha creato il vuoto della politica che si vede anche oggi.

Veniamo a lei. Lambito dalle indagini sulla supposizione del “non poteva non sapere”. Scoppia lo scandalo della maxi tangente Eni Montedison e Di Pietro chiama a testimoniare tanti. Tra cui anche lei.

Esatto. Vado a Milano, Di Pietro mi interroga. Gli spiego che non so quasi nulla, tranne quel che leggo dai giornali. Il mio era un ruolo tecnico, da comunicatore. Mi dice: “Ma sa, andando al bagno in quei palazzi del potere uno le cose le viene a sapere”.

Lei non frequentava i bagni giusti, Carra. E come costruiscono l’imputazione su di lei?

Mi dà appuntamento al venerdì, tre giorni dopo. “Perché dobbiamo fare dei riscontri”. Al mio ritorno, venerdì, mi trovo davanti a una sceneggiatura, per quanto fantasiosa, già scritta. Un tipo mai visto, un faccendiere che doveva uscire di prigione, gli avrebbe detto di essersi riunito con me a Roma. E io gli avrei parlato della maxi tangente. Io lo guardo negli occhi, gli chiedo in quali circostanze. Quello farfuglia: nel suo ufficio a Roma, c’erano diverse segretarie… e alla fine della frase si mette a piangere. Doveva recitare la parte per uscire di galera, lo compatisco. Di Pietro sorride e mi stampa addosso l’accusa di aver mentito al Pm. Mi difendo ma non mi dà retta. Aveva bisogno di imputati freschi, e io che ero il portavoce del segretario Forlani ero succulento, per lui.

Poi come accadde che la fece comparire ammanettato con gli “schiavoni”?

Dovevo comparire davanti ai giudici, ero al pianterreno del Palazzo di Giustizia. Due Carabinieri si apprestavano ad accompagnarmi tenendomi per il braccio, poi arrivò una telefonata. Non seppi mai di chi. Li vedi consultarsi: era arrivato l’ordine di mettermi in ceppi. Dovevo comparire davanti al ‘muro’ delle telecamere e dei fotografi ammanettato, come simbolo della vittoria dei magistrati sulla politica. Ero molto colpito ma rimasi, per fortuna, lucido.

Quell’immagine suscitò per fortuna anche un sussulto di risposta, un minimo di sdegno.

E fu per il pool di Mani Pulite un segnale. Non potevano affondare le persone e umiliarle senza fine. Tornato in cella, vidi alla tv diverse dichiarazioni di tutti gli schieramenti che chiedevano più rispetto.

Un anno e quattro mesi, la condanna. Per “non aver sentito niente, andando al bagno”. Li ha perdonati?

Non ho né il potere del perdono, né la voglia di vendetta. Ciascuno di loro, del pool, ha dovuto rivedere le sue posizioni. Io no, non ho mai avuto niente di cui pentirmi. I bilanci, sa, si fanno alla fine.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Giustizia, l'ex assessore: "Vi racconto il tritacarne in cui sono finito". Francesco Boezi il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex assessore ai Giovani del comune di Genova racconta, attraverso un libro, quanto subito a causa dei rapporti tra certo giornalismo e certe magistrature. 

L'ex assessore al comune di Genova Massimiliano Morettini non è guarito da quella che definisce una "malattia", ossia la passione politica, ma certo la vicenda che stiamo per racconatare non ha coadiuvato una vocazione per l'amministrazione della cosa pubblica. E non ha abbattuto neppure la fiducia nella Giustizia.

Siamo nel 2008 e, nel capoluogo ligure, scoppia uno scandalo che le cronache ribattezzano "Mensopoli". Morettini, che in seguito verrà scagionato del tutto, viene sottoposto ad indagini, mentre il contenuto di parecchie intercettazione finisce sulla cronaca locale.

Questa è una storia che riguarda tanto i rapporti tra politica e giustizia quanto quelli tra certo giornalismo e certe magistrature. La vicenda che ha colpito Morettini viene raccontata oggi attraverso le pagine di "Quella volta che sono morto", un'opera edita da Erga Edizioni in cui il protagonista rammenta, in prima persona, i sei giorni in cui ha avuto paura d'inciampare in qualcosa che non aveva neppure sfiorato. Prima di addentrarci nelle particolarità di quello che assomiglia ad un caso paradigmatico di questi tempi, conviene evidenziare un dettaglio: l'ex assessore non è stato soltanto un esponente del centrosinistra ligure ma anche uno dei promotori del Genoa Social Forum al G8 di Genova.

"Rispetto della legalità e giustizialismo non sono affatto la stessa cose - premette l'ex amministratore, ascoltato in merito alle sue vicissitudini da IlGiornale.it - . Ma è vero purtroppo che nel corso di questi ultimi anni una parte della sinistra ha confuso rispetto della legalità e giustizialismo, abbandonando il suo alveo naturale che sarebbe quello del garantismo".

Morettini non ha difficoltà a ricordare le fasi clou delle perquisizioni: "Un giorno si presenta la Guardia di Finanza. Avevo in mano soltanto un foglio in cui si diceva che avessi avuto rapporti corruttivi con un imprenditore. Poi passa una settimana in cui continuo a non ricevere notizie dalla Procura. Scarico dal sito del Secolo XIX l'intera ordinanza del Gip che motivava le indagini in corso. La scarico io e la scaricano migliaia di persone. E in quell'ordinanza c'era un anno e mezzo di intercettazioni ambientali".

Gran parte dei passaggi che hanno riguardato Morettini e le tangenti che non ha mai preso sono stati ripercorsi su Radio Leopolda, nel podcast (In)Giustizia che è curato dall'opinionista Benedetta Frucci.

Al Giornale.it, Morettini aggiunge quanto segue: "I media avevano stralci delle ordinanze. E quindi in quei giorni fecero grandi titoli sui miei presunti affari". Il sistema dell'informazione diviene così il detonatore di una narrativa: "In quel modo, si decide di consegnare ai lettori delle pagine dei giornali la possibilità di costruirsi un'opinione sommaria sulle vicende giudiziarie in corso. Come se si sottraesse alla magistratura la facoltà di andare avanti nelle indagini". Morettini definisce tutto ciò "l'inizio della cultura giustizialista". La fuoriuscita di atti giudiziari è dunque il principio di una cultura complessiva che può investire le esistenze.

L'ex assessore sottolinea come la condanna preventiva dei media distrugga la reputazione. Morettini, a questo punto della storia, dà le dimissioni. E si ritrova senza reddito, con un figlio piccolo, e con tutto quello che può comportare in termini pubblici il sospetto che avesse avuto a che fare con soldi destinati alle mense scolastiche dei bambini. "Io ce l'ho fatta. Mi sono rimesso in piedi. Ben quattordici mesi dopo, il Pm ha detto che il fatto non sussisteva. Ho raccontato questa storia perché mi interessava far sentire qual è lo stato d'animo di una persona innocente che si trova in quel tritacarne".

L'ex amministratore genovese ci tiene a chiosare sul taglio che ha voluto dare all'opera: "Il libro è un racconto personale e non è un libro bianco sulle ingiustizie. Ho cercato di essere equilibrato".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Spunti inattuali su Mani pulite: fra guardie e ladri si deve stare col diritto. Massimo Adinolfi il 20 Febbraio 2022 su huffingtonpost.it.  

Storia di Egisto e Oreste, ovvero l'abietta commedia della colpa. Hegel, il prof. Racinaro e la micidiale saldatura fra morale e terrore. Evidenza di una terza via. 

"Per un uomo morto, ventimila altri uomini immersi nel pentimento, ecco il bilancio". Si tratta ora di valutarlo, e Giove – perché è Giove che parla – non ha molti dubbi: non ha fatto un cattivo affare, perché ad Argo, dove il delitto si è consumato, dove Egisto ha ucciso il re Agamennone ed è divenuto il padrone della città, si è costruito nel rimorso, nel continuo rimuginamento del passato, nell’abietta commedia della colpa, il legame sociale che mette al riparo la città da ogni velleità di giustizia, di rivoluzione, di libertà. 

30 anni di Mani Pulite, Davigo: “Toghe rosse? Accuse stravaganti. In tutto il mondo la destra vuole legge e ordine, in Italia l’impunità”. Il Fatto Quotidiano il 19 febbraio 2022.

A 30 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani Pulite, che a partire dal 1992 ha tolto il velo dal sistema corruttivo su cui si era basata la politica degli anni precedenti, due dei protagonisti di quella stagione, gli ex magistrati Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo, hanno ricordato le fasi salienti dell’inchiesta dialogando con Peter Gomez e Gianni Barbacetto, che seguirono e raccontarono quelle vicende da cronisti. Una delle accuse che da sempre è stata rivolta al pool è stata quella di aver, per certi versi, risparmiato l’ex Partito Comunista (poi Pds) dall’ondata di arresti che ha, invece travolto altri partiti storici, come il Partito Socialista e la Democrazia Cristiana.

“La sensazione che avevo io – racconta Davigo – è che mentre le imprese normali finanziavano i partiti della maggioranza, le cooperative cosiddette rosse finanziavano il Pci. Dare soldi ai partiti non è vietato, è vietato farlo di nascosto e le cooperative iscrivevano a bilancio i soldi che davano al partito, perlomeno una parte, quindi non c’era una pista immediatamente illegale da seguire”. E, continua :”Però in alcuni casi è accaduto, per esempio dalle dichiarazioni di Sama risulta che un miliardo di lire era stato destinato ai vertici dell’allora Pci e fu portata a Botteghe Oscure da Gardini e Cusani. Gardini si è suicidato, Cusani non ha mai parlato, cosa potevamo fare? Torturare Cusani? Lo stesso per quanto riguarda Greganti. Greganti ha preso una somma dello stesso ammontare di altre somme, ma anche i decimali, che erano destinate ad altri partiti. Quindi era verosimilmente una tangente. Però dalle indagini che sono state fatte è risultato che questo si era comprato la casa… e non ha mai parlato. Certo, è stato in carcere, è stato condannato ma non ha detto una parola”.

Poi conclude il racconto con una nota di ironia: “Comunque ci venivano rivolte delle accuse a volte davvero stravaganti. Sono stato accusato di aver voluto favorire Partito Comunista perché avendo fatto fare una perquisizione Botteghe Oscure anziché farla fare alla Guardia di Finanza l’avrei fatto fare ai carabinieri. Ora, pensare che i carabinieri abbiano simpatie comuniste… anche perché non si trattava di fare un’analisi di documenti, ma di vedere cosa ci poteva essere prenderlo. Detto questo, l’idea che ci possa essere una strategia politica è un’idea talmente cretina… che non riesco a prenderla sul serio. Faccio solo due considerazioni di ordine politico: in tutto il mondo la destra vuole legge e ordine solo in Italia la destra vuole l’impunità… Io ho fatto il servizio militare come ufficiale, ho fatto anche il richiamo alle armi ed era l’epoca della guerra fredda: non diventavi ufficiale se eri di sinistra…”

Mani pulite. La vera storia. di Gianni Barbacetto (Autore), Peter Gomez (Autore), Marco Travaglio (Autore), Chiarelettere, 2012

"Mani pulite, vent'anni dopo". Altro che storia passata, questo libro racconta l'Italia dell'illegalità permanente. Un documento storico che rimarrà per sempre sul tradimento della politica. La cronaca di fatti e misfatti parte da Milano, 17 febbraio 1992, arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio: il primo tangentomane che fa tremare l'impero, a due mesi dalle elezioni. Saranno elezioni terremoto, quelle del 1992, stravinte dal partito degli astenuti (17,4 per cento) e dalla Lega nord. Intanto la Prima Repubblica va in galera ed è ancora solo superficie. Falcone e Borsellino trucidati a Palermo (e nel 2012 molti processi ancora aperti sulle stragi). Un anno dopo la corruzione è ormai un fatto nazionale, nessun partito escluso (70 procure al lavoro, 12.000 persone coinvolte per fatti di tangenti, circa 5000 arresti). "L'Italia sta risorgendo", saluta così l'anno nuovo il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Peccato che sia il 1994, l'anno di Silvio Berlusconi e dell'inizio della restaurazione. Scatta l'operazione Salvaladri, con gli imputati che mettono sotto accusa i magistrati. È il mondo alla rovescia e gli italiani assistono allo spettacolo. Alcuni protestano, molti si abituano e finiscono per crederci. Poi gli anni dell'Ulivo, della Bicamerale e dell'inciucio centro-destra-centrosinistra, che produce una miriade di leggi contro la giustizia. Prefazione di Piercamillo Davigo.

“Mani Pulite, la vera storia”, il racconto più completo sulla tempesta politica e giudiziaria: in edicola e in libreria. L’anticipazione di Travaglio . Il Fatto Quotidiano il 16 febbraio 2022.

Cosa resta oggi di Mani Pulite? Secondo la vulgata dominante, nulla, perché la corruzione da allora è continuata, forse addirittura aumentata. Ma un’indagine non si giudica dal numero di reati simili commessi dopo: altrimenti tutte sarebbero un fallimento, visto che nessuna è mai riuscita ad abolire i reati successivi.

Questo libro, pubblicato per la prima volta nel 2002 e ora riproposto in una nuova edizione aggiornata e ampliata, è il racconto più completo di una tempesta politica e giudiziaria che non ha eguali nella storia: per il numero di persone indagate, processate e giudicate colpevoli in sentenze di condanna, patteggiamento, prescrizione e persino assoluzione o proscioglimento o archiviazione o amnistia o indulto o condono per i più svariati cavilli.

In questi trent’anni, c’è chi ha provato a raccontare Mani pulite come un’operazione politica di magistrati ideologizzati per colpire gli innocenti di una parte e favorire i colpevoli dell’altra. Ma le campagne politico-mediatiche negazioniste e revisioniste non hanno scalfito la percezione di quei fatti nell’opinione pubblica, sebbene abbiano fatto breccia e proseliti nel mondo politico, in quello mediatico sottostante e persino in una parte di quello giudiziario.

È vero, quasi nessuno dei colpevoli di Tangentopoli ha scontato la pena in galera, ma ciò non è dipeso però dalle indagini delle procure, bensì dalle leggi fatte prima, durante e dopo per assicurare l’impunità ai criminali. Leggi che fanno del nostro Paese l’inferno delle vittime e il paradiso dei delinquenti. Infatti ancora oggi le Italie sono due: quella che vive nel terrore che il 1992 si ripeta, e quella che lo spera con tutto il cuore.

Il libro, un’opera unica di quasi 1000 pagine, edita da Paper First, la casa editrice del Fatto Quotidiano, sarà in vendita da giovedì 17 febbraio in tutte le edicole a 15 euro + il prezzo del giornale

Il racconto di una tempesta politica e giudiziaria che non ha eguali nella storia – Per chi non c'era, per chi ha dimenticato, per chi continua a rubare e a mentire. Mani Pulite – Di G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio. Da ladigetto.it il 20/02/2022

Titolo: Mani pulite. La vera storia

Autori: Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio 

Prefazione: Piercamillo Davigo

Editore: Chiarelettere, 2022 

Pagine: 912, Brossura

Prezzo di copertina: € 18 

Descrizione: Cosa resta oggi di Mani pulite? Secondo la vulgata dominante, nulla, perché la corruzione da allora è continuata, forse addirittura aumentata.

Ma un'indagine non si giudica dal numero di reati simili commessi dopo, altrimenti tutte sarebbero un fallimento, visto che nessuna è mai riuscita ad abolire i reati successivi.

Questo libro, pubblicato per la prima volta nel 2002 e ora riproposto in una nuova edizione, è il racconto più completo di una tempesta politica e giudiziaria che non ha eguali nella storia: per il numero di persone indagate, processate e giudicate colpevoli in sentenze di condanna, patteggiamento, prescrizione e persino assoluzione o proscioglimento o archiviazione o amnistia o indulto o condono per i più svariati cavilli. 

In questi trent'anni, c'è chi ha provato a raccontare Mani pulite come un'operazione politica di magistrati ideologizzati per colpire gli innocenti di una parte e favorire i colpevoli dell'altra.

Ma le campagne politico-mediatiche negazioniste e revisioniste non hanno scalfito la percezione di quei fatti nell’opinione pubblica, sebbene abbiano fatto breccia e proseliti nel mondo politico, in quello mediatico sottostante e persino in una parte di quello giudiziario. 

È vero, quasi nessuno dei colpevoli di Tangentopoli ha scontato la pena in galera, ma ciò non è dipeso dalle indagini delle Procure bensì dalle leggi fatte prima, durante e dopo per assicurare l’impunità ai tangentisti.

Leggi che fanno dell’Italia il paradiso dei delinquenti e l’inferno delle vittime.

Infatti ancora oggi le Italie sono due: quella che vive nel terrore che il 1992 si ripeta e quella che lo spera con tutto il cuore.

Ecco la sciocchezzona di Travaglio su Mani Pulite. Gianfranco Polillo su startmag.it il 20 Febbraio 2022.

Perché apprezzo poco, anzi nulla, del libro “Mani Pulite” di Marco Travaglio. Il commento di Gianfranco Polillo.

Se fossimo ai tempi di “Quaderni piacentini”, paludata rivista della sinistra snob, l’ultimo libro di Marco Travaglio, Peter Gomez e Gianni Barbacetto (ordine invertito per tener conto della caratura dei singoli coautori) “Mani pulite” sarebbe stato collocato tra quelli da “non leggere”. Noi siamo più tolleranti e non arriviamo a tanto. Per chi ama leggere una sorta di mattinale, troverà in quel migliaio di pagine (per l’esattezza 912) una miriade di notizie e la descrizione di altrettanti episodi descritti con la lente dell’inquisitore.

Vi troverà anche lontane reminiscenze. Quel lungo saggio degli stessi autori (allora era di 712 pagine), edito venti anni fa ed ora ripubblicato, con qualche aggiunta, per ricordare quel lontano giorno di 30 anni fa – era il 17 febbraio del 1992 – quando Mario Chiesa, il “mariuolo”, secondo la definizione di Bettino Craxi, fu preso con le mani del sacco. Dando origine a quella grande mattanza che sarà poi “mani pulite”. C’è quindi da aspettarci un futuro aggiornamento – non sapremo se fra cinque o dieci anni – per celebrare nuovamente la ricorrenza.

Qualcuno potrà sospettare in questa insistenza una sorta di ossessione. La verità è più prosaica. Quella di Travaglio & Co è un’attività che rende. Continua a solleticare una parte – si spera sempre minore – di opinione pubblica, che ovviamente, nel grande mercato della comunicazione, si dimostra sensibile a quei prodotti. Probabilmente quest’attività non li porterà ai vertici del potere, ma, come cantava Edoardo Bennato, si può anche vivere di sole “canzonette”. Che, tuttavia, per funzionare devono rispondere ad un minimo di canoni estetici.

Il nuovo/vecchio testo supera la prova del budino? I dubbi sono tanti e numerosi. Nell’immaginario di Travaglio l’epopea di “mani pulite” rappresenta il “capitolo più luminoso” della storia italiana degli ultimi trent’anni. Difficile capire su quali basi si fondi questo giudizio: sul coinvolgimento forse di oltre 3.800 persone in vicende di malaffare? Dovrebbe essere considerata una storia triste, altro che luminosa, considerato da quanto tempo essa durava. La vicenda del Pio Albergo Trivulzio fu solo la punta dell’iceberg, la cui piattaforma sommersa aveva caratterizzato l’intera storia del dopoguerra italiana.

Da un lato “l’oro di Mosca” dall’altro i finanziamenti americani. Su un fronte le donazioni delle grandi imprese a favore soprattutto dei partiti governativi, sull’altro l’azione delle cooperative rosse verso le opposizioni di sinistra. In entrambi i casi finanziamenti illegali, ma tollerati in quanto esso stessi figli di una guerra che si combatteva nella dura contrapposizione tra l’Occidente e l’Impero del male. Soldi che servivano per mantenere le “truppe”. Quei milioni di militanti destinati, da entrambi le parti, a mantenere viva l’impossibilità che si potesse pervenire ad una qualche vittoria degli uni sugli altri.

C’era qualcuno che si arricchiva? Certo che c’era. Ma tollerarlo era inevitabile se si voleva far funzionare il sistema nel suo complesso. “Mani pulite” hanno solo scoperchiato questo gigantesco verminaio. Noto da tempo, ma tollerato nel nome di un’esigenza superiore. Evitare al Paese guai peggiori, come quelli che potevano derivare da un suo repentino cambiamento di fronte, seppure determinato dai risultati di libere elezioni. Chi, come nella Grecia dell’immediato dopoguerra, non aveva tenuto conto del vincolo internazionale aveva pagato duramente quell’atto d’orgoglio.

Ed ecco allora svelato il mistero dell’improvvisa presa di coscienza nazionale. Il momento della verità non fu il 1992, ma il 1989 con la caduta del muro di Berlino e la “fine della storia”, come si azzardò a dire qualcuno. Non di quella universale, ma di quella del ‘900 con le sue enormi contraddizioni. Un’Italia, finalmente liberata, poteva fare i conti con se stessa, e porre fine ad un sistema che, nel frattempo, era degenerato.

Travaglio & Co pensano invece che quella svolta fu determinata dalla dimensione della corruzione, che aveva svuotato le casse dello Stato. Con il dovuto rispetto: una sonora sciocchezza, senza nulla togliere alla dimensione effettiva dei fenomeni corruttivi. Ma nella logica dei grandi numeri, che descrivono gli equilibri macroeconomici di un Paese, sono altri i fenomeni che portano alla crisi. E dal 1992 in poi fu soprattutto la riunificazione tedesca a mettere in crisi il Sistema monetario europeo, espellendo i Paesi più fragili: la Gran Bretagna, l’Italia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda.

E chi volle resistere, come la Svezia fu costretta ad elevare al 500 per cento i tassi d’interesse a breve. Furono questi avvenimenti, del tutto indipendenti dalla corruzione, a determinare in Italia quella reazione popolare che consentì al pool di Milano di portare avanti il lavoro, vincendo quelle resistenze che, in passato, avevano (dalla P2 ai fondi neri dell’Iri) tutto insabbiato.

Di tutto ciò non esiste traccia nel poderoso tomo dei nostri eroi. Siamo portati a conoscere i particolari più insignificanti della quotidianità. Ma nessun accenno a quei fondamentali in grado di condizionarne il relativo sviluppo. Compito degli analisti e degli storici: si dirà. Non dei cronisti. Ma allora che serve sorbirsi quasi mille pagine, se non è chiaro il senso della storia raccontata?

30 ANNI DI TANGENTOPOLI.  Il mito di un “golpe” che manca di onestà verso la storia. Antonio Pagliano su il  sussidiario.net il 20 febbraio 2022.

Sotto il profilo tecnico, i numeri di Mani pulite non mentono. E lo scontro tra politica e magistratura deve essere vista sotto un’altra luce

Sono passati 30 anni da quando l’arresto di Mario Chiesa segnò l’inizio di “Tangentopoli”. Era il 17 febbraio 1992 e l’anniversario di quell’evento ha animato un vivace dibattito sul bilancio di quella stagione che senza alcun dubbio ha segnato un prima e un dopo nella politica italiana.

Nella prospettiva meramente tecnico-giuridica, i numeri parlano da soli e danno l’evidenza del fenomeno. In riferimento al solo tribunale di Milano, l’inchiesta denominata “Mani pulite” ha prodotto circa 3.200 richieste di rinvio a giudizio da cui sono scaturite 269 proscioglimenti, 1.254 condanne e 161 assoluzioni nel merito. Numeri che non parlano di un fenomeno patologico. Non può quindi certo affermarsi, come pure invece tutt’ora si è detto da parte di alcuni, che quell’inchiesta sia stata una specie di invenzione finalizzata a realizzare una sorta di colpo di Stato. La corruzione c’era ed era particolarmente diffusa.

Si è inoltre molto discusso dell’abuso della custodia cautelare da parte dei pubblici ministeri che quella stagione animarono. Per un verso, va ricordato che nessun provvedimento cautelare di quell’epoca ha conosciuto annullamenti o particolari bocciature nei diversi gradi di giudizio successivi. È allora più corretto riconoscere come quei pubblici ministeri riuscirono a dare alle norme cautelari un’incisiva ma non illecita applicazione che consentì il sistematico arresto di personaggi politici e grandi funzionari che, certamente, mai prima avrebbero immaginato di poter essere posti in manette.

Da questo punto di vista fu davvero una rivoluzione. Sul punto va sottolineato un interessantissimo passaggio di una bella intervista rilasciata da Gherardo Colombo al Corriere della Sera di qualche giorno fa in cui l’ex magistrato ricorda, per averlo vissuto in prima persona, come sino a quel momento ogni tentativo di avviare analoghe attività di indagine era miseramente naufragato in quello che veniva considerato “il porto delle nebbie”.

Ricorda infatti Colombo come fino a quel momento storico accadeva che si avviassero indagini, che si trovassero prove, ma poi arrivava la Cassazione, su sollecitazione della procura di Roma le indagini trasmigravano e tutto finiva sostanzialmente nel nulla. Il rapporto fra politica e magistratura era evidentemente stato fino a quel momento improntato a una certa attenzione a che il manovratore non venisse disturbato. Poi quella sorta di rispetto salta. La magistratura, che sin lì si era preoccupata di seguire gli “inviti” della politica per cambiare la sorte delle inchieste, complice anche la caduta del muro di Berlino, decide che è arrivata l’ora di percorrere altre strade.

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Questo aspetto, assai poco ricordato, ha invece un’estrema rilevanza per una obiettiva ricostruzione di quella stagione giudiziaria, rappresentando in modo cristallino quell’inversione del rapporto di forze fra politica e magistratura che, se per un verso a distanza di anni ancora anima la vita della nostra Repubblica, per altro verso rende comprensibile lo stato d’animo di frustrazione vissuto sino a quel momento da alcuni magistrati che poi, all’improvviso, hanno trovato il modo di rifarsi.

Se è quindi difficile parlare di abusi sul piano tecnico, non c’è dubbio che il vero problema era e resta la stabilizzazione di quel rapporto che da quegli anni in poi ha vissuto l’eccesso opposto, producendo la famigerata supplenza che, per esempio, spinse quei pubblici ministeri milanesi a ribellarsi pubblicamente contro il governo per l’approvazione di un decreto che riscriveva le norme sui criteri di applicazione delle misure cautelari.

A distanza di trent’anni paghiamo ancora quello scotto. Tuttavia, lo ripetiamo, “Mani pulite” non fu una rivoluzione. Da un punto di vista politico, la fine della prima Repubblica era già scritta nei conti dello Stato prima ancora che nelle sentenze. Nel 1970, anno in cui si attua il decentramento amministrativo, il rapporto debito/Pil era al 37,1%; appena due anni dopo, completato il trasferimento di alcune funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni, il suddetto rapporto balzò al 47,7%; alla fine del governo Spadolini, nel 1983, il rapporto era al 70%, per spiccare il volo fino al 92% con il successivo governo Craxi. Nel 1992, infine, il deficit del bilancio dello Stato aveva raggiunto la cifra monstre di 150mila miliardi con un rapporto debito/Pil del 118% da cui derivò, l’11 settembre 1992, l’abbandono dell’Italia al suo destino da parte della Germania. Poco dopo la caduta del Muro, agli albori degli anni 90, l’Italia fu quindi costretta a una prima storica stretta del bilancio pubblico e così il sistema economico del paese, imperniato sulle tangenti, implose.

Gli imprenditori iniziarono a parlare con i pubblici ministeri non perché sottoposti a torture, ma semplicemente perché fino a quel momento erano riusciti a trasferire il costo delle tangenti sulla pubblica amministrazione, mentre da lì in poi, improvvisamente, non poterono più farlo, erodendosi così fatalmente i loro margini; ciò li indusse a sentirsi concussi e non più complici della corruttela diffusa.

Tutto questo la politica di allora non ebbe la lucidità di comprenderlo. Nel drammatico discorso pronunciato da Craxi in parlamento nel luglio del 1992, non c’è traccia della formulazione di una proposta che partendo dalla reale consapevolezza del fenomeno, ipotizzi la strada per venirne fuori. Da qui la radicalizzazione dello scontro fra i due poteri che la successiva stagione di Berlusconi porterà all’apoteosi. Mentre Craxi in Parlamento si limitava, con quell’intenso discorso, a operare la chiamata in correità dell’intero sistema, pensando così di risolvere la questione, dall’altra parte iniziava a costituirsi il “partito” dei giudici, che se rendeva plausibile la ribellione alla volontà del Parlamento, ancor di più escludeva qualsiasi possibilità di riconoscimento della legittimità altrui. Un corto circuito alimentato dalla spinta popolare e dallo slancio dei media.

Se quindi la stagione di “Mani pulite” ha fatto tabula rasa di un sistema politico marcio, la cancellazione di quelle identità politiche su cui si fondava la democrazia postbellica non ha prodotto la rigenerazione di una nuova vera classe politica, lasciando di fatto un vuoto e una supplenza, il tutto senza poi eliminare la corruzione, come riconosciuto da tutti.

Se si può rimproverare alla magistratura di aver agito da lì in poi pensando di dover essere i commissari di una politica corrotta, a quella classe politica va rimproverato di non aver saputo riconoscere lo stato in cui versava, auto emendandosi. Esattamente, corsi e ricorsi storici, ciò che ora qualcuno rimprovera alla magistratura travolta dallo scandalo Palamara.

Come allora auspicato sempre da Colombo, occorre ora operare uno sforzo per trovare tutti insieme una soluzione, a differenza di quanto non accadde 30 anni fa. Alle monetine lanciate a Craxi occorre sostituire la disponibilità al dialogo, che deve essere avvertito come l’ineludibile punto di partenza di cui il paese ha ancora bisogno, benché a predicarlo, ahinoi, siano ancora in pochi.

30 ANNI DI TANGENTOPOLI/ Quell’odio verso il riformismo che unì Pci, pm e giornali. Gianluigi Da Rold il  19.02.2022 su Il Sussidiario.net.

Trent’anni da una “rivoluzione” giudiziaria che ha eliminato un’intera classe politica e disastrato una repubblica. Ma alla fine Craxi batte Davigo.

Chissà se esistono delle congiunzioni astrali che intrecciano passato con presente, e magari con il futuro, per comprendere una svolta storica epocale. Forse la filosofia della storia diventerebbe quasi una riflessione banale rispetto alle sequenze cronologiche di un’epoca trentennale che ti fa riflettere sul passato e sulle cause che hanno provocato il presente.

La nemesi diventa una sorta di banale mistero di fronte a questo ultimo 17 febbraio 2022, quando è caduto il trentesimo anniversario dell’inizio della grande tragica buffonata di Tangentopoli e, nello stesso giorno, viene rinviato a giudizio per violazione del segreto d’ufficio uno dei “principi” di quella operazione del 1992: il pubblico ministero Piercamillo Davigo. Qualcuno ha commentato che la coincidenza è solo uno  scherzo della storia, ma ha subito aggiunto che è “una storia grave”.

Tutto questo ha avuto l’effetto di rilanciare ancora di più il dibattito e lo scontro ancora in corso su Tangentopoli. 

Da più di tre anni stanno uscendo, con un ritmo quasi ossessivo, delle rivelazioni incredibili sull’operato scandaloso della magistratura italiana in questi ultimi trent’anni. E nello stesso tempo si ricordano i soprannomi che si davano a Davigo: “Il Kelsen della Lomellina”, “il giurista che difende la presunzione di colpa, al posto di quella d’innocenza”. Applausi amari!

Nello stesso tempo si ricordano i protagonisti politici  di quell’epoca, il trattamento loro riservato. E quindi la tragedia di 32 suicidi, diverse morti poco chiare legate alle famose privatizzazioni, la perversione della carcerazione preventiva per costringere (ad ammettere?) il sistema delle tangenti e del finanziamento illecito ai partiti che, come disse Bettino Craxi in una udienza processuale, si conosceva in Italia fin da quando lui e i suoi amici e colleghi portavano i pantaloni alla zuava. Solo la magistratura non si era accorta di nulla.

In più, nel ricordo di questi giorni, molti fanno i paragoni di come si stava trent’anni fa e di come gli italiani stanno adesso.

Nessuno mette in dubbio ad esempio che quella classe politica liquidata dal celebre pool di “Mani pulite” fosse più preparata di quella attuale.

Tuttavia, molti hanno insistito per anni sul problema del debito pubblico creato in quei tempi. Eppure secondo i dati ufficiali di Bankitalia (vedere per credere o per querelare) il debito pubblico in rapporto al Pil nel governo Craxi 2 sale all’89,11%, l’inflazione è stata ridotta dal 17 al 4% e l’Italia è il quarto paese economicamente più forte del mondo.

Il debito sale dopo cinque anni con i governi di Goria, De Mita e Andreotti, fino a superare i 100 punti nel rapporto con il Pil con l’Andreotti 6 e l’Amato 1. Il debito scenderà solo una volta sotto il 100, al 99,79 nel 2007 con il Prodi 1, ma solo per un anno, poi riprenderà la sua corsa fino al livello attuale che è ormai vicino al 160% del Pil. 

E non sembra che la cosiddetta “gente” stia meglio che negli anni della cosiddetta prima repubblica, che poi è l’unica che ci sia stata perché la Costituzione e la struttura dei tre poteri è sempre stata la stessa. E non è stata male solo per la pandemia.

È piuttosto difficile dimostrare le colpe della prima repubblica sul piano politico quando furono di fatto sciolti cinque partiti democratici e rimasero solo i post-comunisti e i post-fascisti, che poi lasciarono spazio, per incapacità, all’antipolitica che si vede ancora adesso, senza oltre tutto avere dei partiti che almeno fanno un congresso.

Si è insistito soprattutto sulle colpe di Bettino Craxi, costringendolo all’esilio, facendolo morire dopo averlo fatto operare in un ospedale dove si lavorava al lume di candela e lo si demonizzava perché probabilmente, anche nei dieci anni i cui sopravvisse allo “scandalo” di “Mani pulite”, continuava a parlare prevedendo tutto quello che avveniva e sarebbe avvenuto. Si era creato, secondo il leader socialista, un sistema mediatico-giudiziario al servizio di grandi poteri italiani (che erano al disastro e furono ben dipinti come “capitani di sventura”) e di poteri esteri che volevano un’Italia “svenduta”, come spiegavano gli analisti più attenti.

L’economia mista italiana venne smantellata, la parte pubblica letteralmente svenduta attraverso le banche d’affari anglo-americane senza neppure una trattativa chiara e utile per risanare il debito. 

Craxi poneva anche la questione di una globalizzazione fatta senza criterio, che alla fine avrebbe procurato grandi diseguaglianze e seri guai all’Italia. In più prevedeva che non solo la politica stesse per essere eliminata dalle ragioni della finanza, ma nella magistratura si sarebbe scatenata una lotta incredibile al punto “che si sarebbero arrestati l’un l’altro”. Non sbagliò di molto a quanto si può vedere nelle varie procure italiane. È forse per questa ragione che l’ipocrisia del governo D’Alema volle un funerale di Stato per Craxi? Cose da non credere! 

In tutti i casi, ci si chiede: perché avvenne tutto questo? Il finanziamento pubblico andava riformato e quello illegittimo era conosciuto da tutti, ma ci si accorse solo nel 1992 che esistevano le tangenti, mentre ci si dimenticò delle valanghe di miliardi che il Pci incassava periodicamente da una potenza nemica come l’Urss. Ci sono libri, documenti al proposito. C’erano i presidenti delle Camere che approvavano sistematicamente i bilanci dei partiti. Anche la signora Nilde Jotti sapeva che il suo partito prendeva sistematicamente i rubli dall’Urss che venivano controllati a Fiumicino quando arrivavano in aereo e poi venivano scambiati in Vaticano. Eppure la signora Jotti approvava i bilanci dei partiti. Ma la colpa era solo di Craxi.

È strano che nessuno fosse a conoscenza dell’incontro tra Leonid Breznev ed Enrico Berlinguer, nel novembre del 1978, quando il leader russo disse a Berlinguer di finirla con l’eurocomunismo e il compromesso storico altrimenti le casse non potevano essere più rifornite adeguatamente.

Era tutto volutamente dimenticato: forse ci si chiudeva gli occhi di fronte all’evidenza persino del numero dei conti correnti, e quando crollò il muro di Berlino nel 1989 il Pci non ebbe più nulla da dire politicamente e dovette persino cambiare il nome due o tre volte. L’operazione scattò per questo e si poteva lasciar vivere, sotto altro nome, anche i post-fascisti, che comunque non costituivano certamente un’alternativa politica.

Uno scandalo sul finanziamento illecito era quindi la scoperta dell’acqua calda, che però andava indirizzato contro tutte le forze democratiche italiane, ma soprattutto contro i riformisti, che con Craxi avevano ottenuto l’ingresso dell’Italia nel G7, la ricchezza del Nord e di Milano, che era fra le prime tre più ricche città del mondo. Il tutto diventava insopportabile a chi da sempre aveva criticato o combattuto il riformismo turatiano, quello che era nato proprio a Milano.

Era stato il centrosinistra, con i riformisti in prima linea a varare, malgrado l’astensione del Pci, lo Statuto dei lavoratori e a impegnarsi nel 1978 per la creazione del Welfare state. Nel frattempo Milano diventata capitale della moda nel mondo e dava solo in questo campo il 5% del Pil all’Italia.

Era, di fatto, la rivincita di Filippo Turati, la sconfitta del bolscevismo nel mondo, l’affermazione del socialismo liberale e democratico. Nel 1977, quando fu ricostruita a Treviri la casa di Marx distrutta dai nazisti, Willy Brandt chiamò il giovane segretario socialista Bettino Craxi a tenere l’intervento inaugurale. Chissà perché non chiamò qualcun altro magari legato all’Urss?

Di fatto, l’odio verso il riformismo fece decollare la più perversa alleanza tra grande finanza ed ex partiti della sinistra comunista storicamente perdente, che si trasformarono in accaniti privatizzatori e amici di quelli che, sul “Britannia”, fecero il lavoro dei “babbei” come disse Enrico Cuccia.

L’alleanza per quella che fu chiamata all’inizio, malgrado morti e suicidi, la “rivoluzione di velluto”, era un quadrilatero tra finanza neoliberista in aperto contrasto con il keynesismo, sinistra sconfitta storicamente, magistratura cresciuta in Italia con il codice penale di Alfredo Rocco (guardasigilli di Mussolini) controfirmato da Vittorio Emanuele III, e una stampa asservita perché sempre agli ordini degli editori che in Italia erano poi i “capitani di sventura”.

Curioso come oggi tra alcuni giornalisti si parli di “vendetta” della   “casta” che non si capisce bene quale sia e ci siano ripensamenti per aver fatto da megafoni contro gli inquisiti degli anni Novanta, anche se poi molti vennero assolti.

Qui bisognerebbe sconfinare nella storia poco edificante del giornalismo italiano. Si può però ricordare solo una frase di Carlo Tognoli, il sindaco della “Milano da amare” che nel 2010, in una ricorrenza al Corriere della Sera, parlò di Walter Tobagi: “Tobagi – disse Tognoli – non era una vittima simbolica del terrorismo, ma l’obiettivo preciso di ambienti che lo volevano eliminare  perché socialista, riformista, preparato, studioso, con una prospettiva professionale di grande rilievo nel mondo giornalistico”.

Sarebbe stato difficile, con Tobagi direttore, pubblicare in anteprima una “dritta” che arrivava direttamente dal Palazzo di giustizia.

Al termine di un riassunto triste, si può comunque ricordare una frase che Craxi ripeteva spesso: no, la battaglia storica non gliela farò mai vincere.

Da Mani Pulite alla Trattativa, i processi di piazza hanno lunga tradizione. GIUSEPPE SOTTILE il 19 febbraio 2022 su il Foglio. 

Célestin Guittard guardava la ghigliottina di Luigi XVI. Oggi ovunque ci sia un magistrato che cerca l’onnipotenza lì c’è un giornalista che lo serve fedelmente.

E’troppo facile e forse anche un po’ maramaldesco prendersela oggi con Sigfrido Ranucci, padre padrone di “Report”, e accollare a lui tutti i vizi, le storture e le nefandezze del cosiddetto giornalismo d’inchiesta. E’ sin troppo comodo contestare a lui e solo a lui il rapporto malsano con i magistrati più politicizzati, con i servizi segreti più deviati, con le fonti d’informazione più opache e più spericolate.

E’ troppo facile e forse anche un po’ maramaldesco prendersela oggi con Sigfrido Ranucci, padre padrone di Report, e accollare a lui tutti i vizi, le storture e le nefandezze del cosiddetto giornalismo d’inchiesta. E’ sin troppo comodo contestare a lui e solo a lui il rapporto malsano con i magistrati più politicizzati, con i servizi segreti più deviati, con le fonti d’informazione più opache e più spericolate. Nel grande circo mediatico giudiziario ci sono dieci, cento, mille Ranucci e ciascuno recita la sua parte a perfezione. Senza sbavature, senza errori, senza passi falsi. Hanno la dritta – si chiama così la soffiata dell’amico poliziotto o dell’amico procuratore – e partono subito all’assalto dell’uomo da sputtanare, della vittima da impiccare all’albero della gogna, dell’indagato da cucinare al fuoco lento, del politico da mettere fuori gioco, dell’imprenditore da condannare comunque al fallimento. Lo chiamano scoop. Lo ammantano quasi sempre con quel principio sacro e inviolabile che è la libertà di stampa.

Sono i giornalisti coraggiosi. Trent’anni fa, al tempo di Mani Pulite, camminavano in gruppo. Si erano addirittura costituiti in pool – come le tre punte schierate in attacco dalla procura di Milano: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo – e avvertivano lo stesso zelo rivoluzionario, salvifico, purificatore che si respirava nelle stanze del Palazzo di Giustizia. Loro, i magistrati, arrestavano corrotti e corruttori, manager e tangentisti, boiardi di stato e assessori di provincia, democristiani e socialisti. Davano la caccia a Bettino Craxi, detto il Cinghialone, tenevano sotto scacco Arnaldo Forlani e Romano Prodi, martellavano sui vertici dell’Eni e su quelli delle Ferrovie, strizzavano le palle a un mariuolo che prendeva mazzette al Pio Albergo Trivulzio e anche a un capitano d’industria conosciuto e stimato in tutto il mondo come Raul Gardini. Loro, i magistrati, non si lasciavano intimorire da nessuno e non si lasciavano impietosire nemmeno da chi si ammazzava in carcere per la disperazione. Erano implacabili e intoccabili. Erano i Reverendissimi Inquisitori. Ai loro piedi – hic genuflectur – c’erano i cronisti del pool che, come chierici vaganti, predicavano urbi et orbi la necessità di radere al suolo ogni male, ogni colpa, ogni peccato, ogni compromissione. Non cercavano una Bastiglia da abbattere, ma un San Vittore da riempire. E ogni giorno informavano lettori e telespettatori sulla contabilità della rivoluzione. Somigliavano tanto, scusate l’accostamento, a Célestine Guittard, il proprietario terriero di Parigi che, negli anni della ghigliottina, annotava su un diario – lo ha scoperto e pubblicato, nel 1973, lo storico Roger Aubert, si intitola Journal d’un bourgeois de Paris sous la Révolution – il numero di teste mozzate. Era originario d’Evergnicourt, un villaggio della Champagne, ma abitava a Saint-Sulpice a due passi dal palchetto infame dove il cittadino Robespierre apparecchiava ogni giorno il grand guignol delle condanne a morte. Célestine segnava ogni dettaglio. La mattina del 21 gennaio 1793, alle dieci e venti, assiste alla decapitazione di Luigi XVI, re di Francia e puntualmente scrive che faceva freddo, che il termometro segnava tre gradi. Non batte ciglia, non emette un minimo segno di orrore. E il giorno dopo, come al solito, invita a pranzo una sua amica, Madame Sellier, perché Guittard con tutti i guai che il paese attraversa ha sempre di che mangiare o dar da mangiare ai propri ospiti. Nel marzo 1794 assiste all’esecuzione di Hébert e di altri 19 cospiratori e saluta, con una pennellata di luce, la nuova primavera: “Il faisait le plus beau temps du monde, et chaud”.

Altri tempi, va da sé. Ma la domanda resta terribilmente attuale: senza i giornalisti che facevano da coro a quell’immane lotta tra il bene e il male, i magistrati di Mani Pulite avrebbero avuto tutto il potere che hanno avuto? Si affacciavano alla tv e bloccavano i decreti del governo sulla carcerazione preventiva; camminavano per strada e venivano applauditi, incoraggiati, osannati. Nell’aula di Montecitorio venivano fiancheggiati da deputati che esibivano il cappio, che inneggiavano alla forca, che sventolavano le manette. A Roma, davanti all’hotel Raphael, il già presidente del Consiglio – Bettino Craxi, sempre lui – viene insultato nella maniera più sordida: con il lancio delle monetine. Allons enfant. E quando all’ancien regime, decapitato dalle inchieste, succede Silvio Berlusconi – era venerdì 21 novembre 1994, vigilia del vertice Onu di Napoli – ecco che una “manina manona” della Procura confida sottobanco a un cronista del Corriere della Sera che il Cavaliere è stato colpito, manco a dirlo, da un avviso di garanzia per concorso in corruzione. Una data da segnare. Rivela che da quel momento la magistratura sa come amministrare, per fini politici, i tempi di una notizia: nasce la “giustizia a orologeria”. E rivela anche che tra gli inquisitori e i chierici, in forza della lunga frequentazione, si è stabilita una complicità, un pactum sceleris che non ammette tradimenti. Da un lato c’è il magistrato che viola il segreto istruttorio e organizza all’un tempo l’aggressione politica; dall’altro lato c’è un giornalista che promette di non rivelare mai la fonte e che già pregusta l’avvento di altre indiscrezioni, di altre carte cedute di contrabbando, di altri dossier consegnati in barba a tutte le leggi. A chi apparteneva la “manina manona” della fatale confidenza? Dopo trent’anni il mistero resiste ancora.

Mani Pulite, comunque, non c’è più. Antonio Di Pietro, l’attore più popolare e ombroso di quella stagione giudiziaria, ha tentato la strada della politica ma alla fine, inseguito da incresciosi interrogativi sulle sue attività e sulle sue relazioni, ha preferito ritirarsi nelle campagne di Montenero di Bisaccia e lasciare ai posteri l’immagine di un Cincinnato inseguito da mille dicerie: dirà che lo perseguitavano le dicerie degli untori. Piercamillo Davigo ha scalato invece tutti i gradi e i trofei della giurisdizione, ha predicato a tutte le ore la buona novella del giustizialista che vede solo colpevoli e mai un innocente, ed è finito come per contrappasso in una palude maleodorante dove affiorano faide e rancori tra toghe che fino a un giorno prima sembravano campioni di rigore e santità. Con lui, nelle inchieste di Brescia, sono finiti anche nomi altisonanti della procura milanese, a cominciare da quel Fabio De Pasquale, l’aggiunto di Francesco Greco, che per oltre dieci anni ha dato la caccia all’Eni e ha perso in malo modo la sua personale partita con la giustizia. Le indagini sono ancora alla fase preliminare. Chi vivrà, vedrà.

E’ rimasto intatto invece il sistema inaugurato il 21 novembre del 1994 dal giornalista del Corriere – unico e solo, non più in pool – che ricevette da una manina della procura milanese la soffiata dell’avviso di garanzia a Berlusconi. Gli eredi non si contano. Spaziano da Palermo a Firenze, da Catanzaro a Reggio Calabria, da Napoli a Trani. Si sono attaccati soprattutto alle costole dei “magistrati coraggiosi”, di quelli che vogliono riscrivere la storia d’Italia e che per compiere questa ardita impresa hanno bisogno di essere eroi e di avere le mani libere su tutto, anche sui codici. Fateci caso: ovunque c’è un magistrato che cerca l’onnipotenza lì c’è un giornalista che lo serve fedelmente, che dilata ogni suo respiro, che avalla le sue ambizioni, che consacra i suoi teoremi, che sa come sfogliare e leggere le intercettazioni, che sa come condurre il gioco perverso di mascariare i nemici e mettere in difficoltà un partito, un governo, un sindaco o un presidente. E’ il giornalista con le stellette, praticamente un soldato. Ma per darsi un tono si definisce giornalista d’inchiesta e come tale si guadagna anche lui uno strapuntino nel piazzale degli eroi: se gli va bene gli assegnano pure la scorta.

Un magistrato teoricamente – molto teoricamente – può anche pagare pegno dopo uno scivolone. Va bene che cane non mangia cane; però può sempre capitargli un inciampo o un procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura. Mentre al giornalista d’assalto – o dalla schiena dritta, decidete voi – difficilmente succede qualcosa. Partiamo dai fatti: fu mai richiamato alla decenza l’autore dello scoop che qualche anno fa portò alle dimissioni di una ministra, definita in uno scazzo con il fidanzato “sguattera guatemalteca”, ministra puntualmente archiviata? Il giornalista coraggioso, ma soprattutto premuroso nei confronti del magistrato che gli ha rifilato l’indiscrezione, avrà certamente sostenuto, con gli amici e con i colleghi, di avere esercitato il diritto di cronaca; quel diritto che garantisce anche la possibilità di entrare a gamba tesa nella vita privata degli altri, di devastarla di sfregiarla, di distruggere storie e reputazioni, di polverizzare carriere e patrimoni. E’ la stampa, bellezza!

Ma per scoprire come il connubio tra malagiustizia e giornalisti diventa a tratti persino velenoso bisogna entrare nel rito palermitano. Qui la lotta tra mafia e antimafia non ha mai conosciuto tregua. Qui ci sono stati i veri eroi, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, trucidati da attentati che hanno segnato punte altissime di morti, di sangue e di terrore. Ma sull’onda lunga della doverosa e strenua guerra ai boss e ai picciotti, ai complici e ai fiancheggiatori, si sono istruiti anche molti processi finalizzati – quasi tutti in buonafede, ci mancherebbe altro – a colpire chi aveva garantito alla cupola di Cosa Nostra coperture politiche, oltre che istituzionali. Si cominciò, già nel 1993, subito dopo l’arrivo di Gian Carlo Caselli alla procura di Palermo, con il processo a Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio dei Ministri e leader nazionale di una corrente democristiana che in Sicilia aveva come massimo esponente Salvo Lima, morto ammazzato nel marzo del ’92, e i terribili cugini Nino e Ignazio Salvo, esattori mafiosi di Salemi. Un processo non facile, per carità. Ma Andreotti finì assolto: non c’erano prove sufficienti. I giornalisti più vicini alla procura si impegnarono fino allo spasimo. Tirarono fuori persino il bacio tra il callido statista e il sanguinario Riina, detto “Totò u’ curtu”, boss latitante dei sanguinari corleonesi. Ma non ci fu niente da fare.

Poi si montò un processo per mafia anche contro Corrado Carnevale, presidente della prima sezione della Corte di Cassazione, definito dal circolo delle anime belle un “ammazzasentenze” perché aveva annullato condanne che lui, giureconsulto di scuola eccellente, aveva ritenuto ingiuste e approssimative. Apriti cielo. Si mobilitarono plotoni di pentiti che parlarono di borse piene di soldi in viaggio da Palermo fino al palazzaccio romano di piazza Cavour. L’anziano giudice fu intercettato, offeso, oltraggiato, umiliato. “Prima lo chiacchierano selvaggiamente e poi dicono che è un giudice chiacchierato”: fu questo il commento di Leonardo Sciascia, scrittore di verità. Ma, nonostante lo schieramento militare di giornali e professionisti della diffamazione, anche Carnevale fu assolto: non c’erano prove.

Il salto nel cielo delle cose mai viste avviene però nell’immediata vigilia delle elezioni del 2013. Antonio Ingroia, un procuratore aggiunto di Palermo che coltiva l’ambizione di una carriera politica, riesuma brandelli di inchieste più volte archiviate e imbastisce una mastodontica trama su una improbabile trattativa tra i vertici dello Stato – a cominciare dai generali dei carabinieri che nel gennaio del ’93 avevano catturato Riina – e i padrini di Cosa Nostra. Una boiata pazzesca, affidata quasi esclusivamente alle patacche di Massimo Ciancimino, figlio di quel Vito Ciancimino che negli anni del sacco edilizio fu sindaco di Palermo e uomo dei corleonesi nel gioco sporco della politica. Massimuccio – divenuto per esigenze di copione “icona dell’antimafia” e incoronato come tale da un bacio pubblico di Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato in via D’Amelio –  diventa il ventriloquo del padre e ha quindi il diritto di inventarsi tutte le sceneggiature necessarie per trasformare l’inchiesta in un romanzo criminale. Un romanzo che Ingroia, vicino alla discesa in campo come candidato alla poltrona più alta di Palazzo Chigi, affida per intero nelle mani di una fidatissima confraternita di giornalisti e dei loro tambureggianti talk-show. E’ il trionfo – pubblico e assordante – del circo mediatico giudiziario. E’ il punto di arrivo di un processo che non si celebra più in un’aula del tribunale ma direttamente e ufficialmente in piazza perché il magistrato che lo ha istruito preferisce le luci della ribalta ai ritmi lenti e un po’ noiosi della Corte d’Assise. Massimo Ciancimino non è più un testimone a disposizione di accusa e difesa, ma un attrezzo di scena nel palcoscenico della finzione e di una politica fatta di cenere e fango, per dirla con Giobbe.

Povero Célestine Guittard. Nel dicembre del 1795 la rivoluzione, che aveva creato e spezzato tanti idoli, non lo incanta più. Troppa violenza, troppa oratoria inutile e beffarda, troppi disastri. “Tous les beaux discours ne flattent plus l’oreille”, scrive. E chiude il diario.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 17 febbraio 2022.  

Qualcuno non ha ancora capito che rischia di passare alla storia (minore) come un servo, come un cronistello che abdicò al proprio dovere per servire dei padroni nuovi anziché quelli vecchi, anzi peggio: perché oltre a sdraiarsi a pelle di leopardo sulle toghe furono anche funzionali all'inchiesta che seguirono, ne furono uno strumento eterodiretto che diffondeva carte (alcune, non altre) e serviva a fare da effetto richiamo.

Forse i cronistelli pensano che gli storici leggeranno le loro cronache, ma ha già risposto Indro Montanelli: «Quando gli studiosi dovranno ricostruire questa pagina della nostra storia, avranno un serio problema. Non potranno attingere a piene mani dalle fonti dei giornali e dei telegiornali, perché i giornalisti durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, si sono lasciati trascinare dal soffio della piazza, e spesso dalla caccia alle streghe. Sono stati dei veri piromani, che volevano il rogo, e si sono macchiati di un'infame abdicazione».

La «redazione giudiziaria unificata» si formò il 21 aprile 1992 alla pizzeria Gambarotta di via Moscova, e la motivazione ufficiale era non disperdere notizie, gestire la sovrabbondanza, prevenire le censure, in pratica disciplinare la strumentalizzazione che di loro faceva palesemente Di Pietro in cambio di vanagloria.

Un cronista del Corriere l'ha ammesso trent' anni dopo: «Dal 17 febbraio 1992 ogni interrogatorio, verbale, arresto s' è sempre tradotto in un passo verso il primo, vero bersaglio dell'inchiesta, il Cinghialone». Craxi. 

«Dovremmo chiederci se sia normale che un'inchiesta abbia un bersaglio...o se sia opportuno che i cronisti che la seguono vi partecipino con tanta foga da considerare un successo un atto di accusa».

E pure stappare una bottiglia per specifici avvisi di garanzia, appendere il primo lancio Ansa dell'avviso a Craxi, stampare magliette con scritto «Anch' io seguo Mani pulite», partecipare a festicciole in una villetta di Merate - del fidanzato della mia amica carissima Cristina Bassetto, ex Avanti!, morta nel 2017 - dove per caso c'ero anch' io, e dove c'era pure la prosperosa segretaria che un giorno avrebbe passato a un cronista del Corriere la fotocopia del mandato di comparizione per il premier Silvio Berlusconi, 21 novembre 1994.

Ma il pool dei cronisti in quel periodo si era già praticamente sciolto, anche se mondo continuava a girare attorno sempre alla stessa cosa. Sì, quella. Capitò anche quando il Carabiniere Felice Corticchia, invaghito della cronista Renata Fontanelli del Manifesto, le passò i verbali del manager Giuseppe Garofano che accusavano Raul Gardini, e che lei, sotto pseudonimo, scrisse sul settimanale Il Mondo ripresa da tutti giornali: Gardini lesse e si sparò. Ma stiamo correndo troppo.

Anzitutto diamo per scontato che io da questo pool ero escluso: mi capitava di entrare nella sala stampa del palazzo di Giustizia e di vedere uscire gli altri, spesso dovevo fingere di non conoscere i soli due o tre cronisti che più tardi, segretamente e per telefono, mi avrebbero dato una mano. Non c'era notizia o carta o verbale che uscisse senza che i magistrati lo volessero, benché, materialmente, spesso provvedevano avvocati che facevano i loro interessi.

Ecco: i verbali che uccisero Gardini non erano autorizzati. Ma capitò anche a me, di rompere il giochino. Sull'Avanti! ne pubblicai uno - solo io- che chiamava in causa un democristiano moralizzatore, Antonio Ballarin, di passaggio anche cugino del pm Gherardo Colombo. 

Gli altri cronisti quel verbale non l'avevano avuto, tanto che un collega, Piero Colaprico, mi disse a brutto muso che era «un falso». Invece era vero, tanto che Ballarin, con l'Avanti! sotto il braccio, chiese spiegazioni in procura e ne uscì da indagato. Che bello: brindai anch' io alle disgrazie altrui, per un giorno ero diventato un servo di procura, lo strumento di un gioco basato sulla pelle altrui.

Ma non abbiamo ancora inquadrato la truppa dei ragazzotti. Bruno Perini del Manifesto, nel 1993, li descrisse così: «A Tangentopoli i giornalisti hanno avuto il loro padrone: la magistratura... si sono scordati pezzi del Codice penale, pezzi importanti delle garanzie che la legge prevede per gli imputati... sono diventati i portavoce della Procura e i depositari dei verbali d'interrogatorio... Con un'aggravante: le fonti di informazione erano univoche». 

 I cronisti chiamavano «Dio Zanza» o «Zanzone» Di Pietro (imbroglione in milanese) mentre il capitano Zuliani era «Mago Zu» e il tentacolare avvocato Federico Stella era «Luce prima», il cronista Buccini del Corriere era «Duracell» (sarebbe stato meglio Lexotan) e Luca Fazzo di Repubblica era «Panzer». Il decano dell'Ansa li chiamava «quelli che ce l'hanno sempre duro».

Un mensile di categoria, Prima Comunicazione, li descrisse come «un gruppo di cronisti che si comporta in maniera alterata, abbandonando il privato». Buccini del Corriere ha scritto: «Nella nostra sala stampa comincia a fare capolino un biondino poco più che ventenne. Si chiama Filippo Facci... ci fa l'effetto di un milite di Salò entrato per sbaglio in una riunione del Cln. Sta cominciando a raccogliere carte che in capo a un anno finiranno sotto l'ambigua etichetta degli "omissis di mani pulite"... è un collega, persino più giovane di noi... In un altro tempo saremmo solidali. 

Ora gli stendiamo attorno una specie di cordone di avversione e isolamento. Del resto ci sentiamo più che mai in prima linea». In prima linea a sparare e basta: senza controffensiva. Ma con la forza della fede: «Che avessimo più o meno tutti una formazione di sinistra è vero. L'inchiesta ci dava la conferma di ciò che noi avevamo sempre pensato dell'Italia: dei socialisti, degli andreottiani, di Ligresti e poi dello stesso Berlusconi.

E quando ritieni di vedere la conferma di quello che pensi, non cerchi altre verità...Sarebbe ipocrita negare che, a parte il mio collega Brambilla, un cattolico, noialtri abbiamo quasi tutti, chi più e chi meno, un percorso di formazione che viene da sinistra... Tutto questo può non pregiudicare il lavoro nell'immediato: ma può metterlo a rischio più in là». Può e poté, infatti. Ma non erano tutti di sinistra, comunque.

E vero che Brambilla era un moderato, infatti lasciò il gruppo e cedette il posto al più esaltato Gianluca Di Feo. Paolo Foschini di Avvenire, il giornale dei vescovi, aveva poco da fare il compagno. Frank Cimini del Mattino lo era pure, di sinistra, ma in stile «manifesto», un garantista sovrastato dai fatti. Maurizio Losa della Rai, molto vicino a Di Pietro, era un ordinario reggimicrofono. Andrea Pamparana del Tg5 era figlio del portinaio di casa Pillitteri ed era un bravo ragazzo.

Enrico Nascimbeni dell'Indipendente, figlio del noto Giulio del Corriere, non era nulla che abbia senso classificare. Giustizialisti puri erano Buccini, Paolo Colonnello (Il Giorno, amicone di Di Pietro) e Peter Gomez (Il Giornale) e i cronisti dell'Unità più ovviamente Luca Fazzo e Pietro Colaprico, quest' ultimo capace di scrivere un libro titolato «Capire Tangentopoli» senza mai nominare (mai) l'epicentro fondamentale di Tangentopoli sfuggito clamorosamente ai magistrati milanesi: il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia, il cui ruolo fu scoperto solo nel 1996 da un'altra procura.

AMMISSIONI

Luca Fazzo nel 2011 ammetterà che l'inchiesta non sarebbe stata possibile «con il rispetto formale delle regole», e che ci fu la «sospensione temporanea delle garanzie». E che sarà mai. Ancora Fazzo: «Erano stati suddivisi i compiti: a L'Espresso si davano i verbali, al Corriere le interviste. Borrelli si affacciava nel corridoio e diceva «Chiamatemi Buccini», voleva dire che aveva bisogno di essere intervistato».

Signorsì signore. Quando poi uscirono il «dossier» del Sabato e il mio semiclandestino «Omissis di Mani pulite», che rivelavano giù un sacco di verità sull'ambiguo Di Pietro e criticità su Mani pulite, ecco Buccini trent' anni dopo: «Sarebbe stato nostro compito di giornalisti trovare quelle verità intermedie, se esistono, o almeno disporci a cercarle, per raccontarle... Non siamo in grado di farlo».

Non furono in grado di fare i giornalisti: perché fare i giornalisti significa scrivere e farsi inseguire dai magistrati, non inseguire i magistrati per pietire carte e cartacce, come dei Travaglio qualsiasi. In quei due «dossier» non c'era una sola cosa falsa, ma tutti i giornali ne imboscarono a dir poco i contenuti. Ancora Buccini del Corriere, trent' anni dopo, la liquiderà così: «Un lavoro di verifica sul passato dell'eroe nazionale avremmo ben potuto e dovuto farlo anche noi... Non lo facciamo.... Dismettiamo la pratica stampigliandovi sopra il timbro «spazzatura» e ci mettiamo l'animo in pace».

 Ma di vero c'era tutto, in quei dossier. Una sentenza bresciana ne darà questa definizione: «Puntigliosa analisi di fatti meticolosamente documentati... contrassegnati da profili di rilevanza quanto meno disciplinare... in quel dossier ve n'era abbastanza per ottenere una qualche attenzione da parte di autorità disciplinari». Per Di Pietro. C'è da capirli, i cronistelli: dovevano render conto a capi e direttori, quelli che la sera si telefonavano per concordare le pagine. Ne parliamo domani, come di certi telegiornali.

Mani Pulite, lo scandalo rivelato da Filippo Facci: "Il cronista che faceva l'autista per Di Pietro". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022

La giusta distanza tra Milano e Montenero di Bisaccia - calcolando il percorso più breve - è di quasi 700 chilometri. La giusta distanza tra una fonte e un giornalista, invece, quel giorno fu di mezzo metro per sei ore filate: perché in auto, diretti ai funerali della madre di Antonio Di Pietro, a fare da autista a Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo fu Goffredo Buccini del Corriere della Sera. Pure autista. Era il 9 settembre 1994. A quelli del Corriere mancava solo di pulirgli casa, ai magistrati, o di fare le indagini al posto loro: e non è una battuta. Al Corriere infatti avevano un Cerved, un monitor verde che permetteva di accedere alle banche dati societarie e fare per esempio le visure camerali, e spesso, per questioni pratiche, il Pool dei magistrati telefonava direttamente in via Solferino e chiedeva il favore. Il Corriere dettava legge e la esercitava pure. Dei camerieri delle notizie, il pool dei cronisti, abbiamo parlato ieri: l'alta cucina, però, era materia dei gran cuochi e del masterchef Paolo Mieli, peraltro eletto per disposizione di Craxi perché un tempo era stato praticamente uno di famiglia. L'ennesimo errore di Craxi.

Comunque: i vari direttori si mettevano d'accordo a loro volta, un po' come i cronisti, per concordare titoli e prime pagine: Alessandro Sallusti chiamava Dario Cresto Dina della Stampa (il direttore può smentirmi, ovviamente) mentre Paolo Ermini chiamava l'Unità, che sua volta chiamava Repubblica perché Corriere e Repubblica non volevano sentirsi direttamente, essendo concorrenti agguerriti. C'era tutto un giro di telefonate tra Corriere, Stampa, Unità, Repubblica e talvolta anche Mattino; poi Mieli, sentite le notizie degli altri, le confrontava con le sue e decideva l'apertura del Corriere: dopodiché, ancora, i caporedattori ritelefonavano agli altri per informarli. Il direttore dell'Unità era Walter Veltroni, alla Stampa c'era Ezio Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito. Mieli e Mauro non hanno confermato, ma prima di Mieli, che divenne direttore dal 2 settembre 1992, c'era il reggente Giulio Anselmi, che si è limitato a dire: «Capitava che ci scambiassimo informazioni... Lo sbaglio è stato di aver riproposto l'idea che molti di noi, me compreso, avessimo un ruolo nella rinascita del Paese... abbiamo dimenticato a volte che le procure sono solo una delle fonti possibili e non la verità».

L'ACCORDO

Il primo a rivelare questo patto deontologicamente e democraticamente vergognoso è stato Piero Sansonetti, allora condirettore dell'Unità. Antonio Polito ha confermato: «Le cose funzionavano come dice Sansonetti... c'era un vuoto, i partiti pesavano pochissimo, il governo era altrettanto debole, perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano anche per le nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l'opinione pubblica. Facemmo quel patto proprio perché il nostro peso era enorme. Quella scelta di federarsi fra giornali non fu buona, non la rifarei. Ma lo dico oggi». Furono organizzate campagne anche decisive magari nella scia dei comunicati indignati che la procura di Milano leggeva talvolta davanti alle telecamere: capitò col Decreto Conso e col Decreto Biondi. Per il primo caso, Polito l'ha messa così: «Giovanni Conso era specchiato, l'oggetto era tentatore e l'idea nemmeno campata in aria... Però decidemmo insieme di ostacolare quel decreto, di ostacolare la soluzione politica, di lasciare che i giudici andassero fino in fondo. E non fu difficile. In quel clima ci bastava scrivere "decreto salvaladri" e il gioco era fatto».

IL DECRETO CONSO

Piero Sansonetti è stato ancora più chiaro: «Il decreto non fu bocciato dal Parlamento, ma dal pool dei giornali... alle sette del pomeriggio ci fu l'abituale giro di telefonate con gli altri direttori e si decise di affossarlo. Il giorno dopo i quattro giornali spararono a palle incatenate, e tutti gli altri giornali li seguirono... Il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto, che decadde». Tra i pochi giornali non sdraiati sulle procure c'era Il Giorno diretto da Paolo Liguori, dove scrivevano firme come Andrea Marcenaro, Carla Mosca e Napoleone Colajanni. Suo antagonista naturale era L'Indipendente, dove ai brindisi all'avviso di garanzia si accompagnavano talvolta dei veri e propri ammiccamenti alla ribellione. La linea editoriale manettara del direttore Vittorio Feltri portò il quotidiano, partito quasi da zero, a superare le 100mila copie. Persino al Manifesto, storicamente garantista, a parte sporadici editoriali di Luigi Ferrajoli o Ida Dominijanni o Rossana Rossanda, la linea pro-giudici non conosceva soste. Parleremo un'altra volta del giornalismo di costume, più affine al fenomeno del dipietrismo e a ciò che scrissero senza pudore giornaliste come Camilla Cederna, Maria Laura Rodotà, Chiara Beria di Argentine, Laura Maragnani e persino molti uomini (tacciamo per solidarietà di specie) che descrissero Di Pietro come un sex symbol, tutta spuma attorno alle articolesse più seriose ma parimenti prostrate di editorialisti come Marcello Pera, Ernesto Galli della Loggia, Saverio Vertone, Paolo Bonaiuti, Maurizio Belpietro e Paolo Guzzanti.

NESSUNA CRITICA

Il dipietrismo fa parte del comico, non del conformismo che si traduceva in una sostanziale mancanza di libertà di stampa, e che, in caso di rare critiche all'operato della magistratura, doveva sempre essere preceduto da litanìe di premesse: premesso che l'azione dei giudici è salutare, che devono fare il loro lavoro e andare fino in fondo, che si limitano ad applicare la legge, che c'era un sistema che andava debellato, che le critiche rischiano di delegittimare la magistratura facendo calare la tensione nella lotta alla mafia, che bisogna evitare colpi di spugna (eccetera). Sulle tv poi servirebbe un trattato. Satira a parte (era dappertutto) sul Tg3 sembrava sempre che l'Armata Rossa fosse alle porte di Trieste. Tra i sovrani delle telepiazze brillò il solito Michele Santoro ma anche il cinico Gianfranco Funari (un talento) nonché il finto dimesso Gad Lerner. Va notato che Berlusconi, che ormai aveva ottenuto tutte le concessioni che gli servivano - e che prima di ottenerle aveva cercato di acquietare un pochino il «suo» Giornale - si rese co-protagonista della montante antipolitica e della sua pre-politica, lasciando ai suoi telegiornali assoluta briglia sciolta.

Secondo una ricerca, il 38enne Enrico Mentana (che dapprima, il 18 febbraio, dimenticò di dire che Mario Chiesa era socialista) sul suo Tg5 usò la parola «clamoroso» 54 volte in un mese, battuta solo da «polemica» (61 volte). Clamorosi gli arresti. Clamorosi gli sviluppi (delle inchieste). Clamorose le reazioni (suscitate dagli arresti, dalle inchieste, dagli sviluppi delle inchieste) e insomma un martellamento con sfondo sempre di auto che sgommavano, ammanettati che entravano e uscivano dal portone di San Vittore con la sporta in mano, ovviamente il solito Di Pietro con un filo di barba che passeggiava eternamente davanti al suo ufficio. Nel mese febbraio-marzo 1993 il tg di Mentana dedicò 61 notizie a Mani pulite contro le 27 del Tg1, 61 agli avvisi di garanzia e di custodia cautelare contro i 21 del tg Rai, 29 agli arresti contro i 12 del concorrente. Il linguaggio era da calamità naturale: bufere, cicloni, raffiche, tempeste, nubi, valanghe e uragani. Il 38 per cento dello spazio del Tg5, in febbraio e marzo, nell'edizione delle ore 20 era dedicato alle inchieste di Milano, il 18 per cento alla cronaca, appena un quinto dello spazio andava alla politica. Ma inchieste e politica erano ormai la stessa cosa. 

Mani Pulite, Filippo Facci e il metodo-Di Pietro: "Perché i giudici lasciavano la porta aperta". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 20 febbraio 2022.

Chi le passava le notizie ai cronisti, in definitiva? Cominciamo col parlare di Italo Ghitti, che è sempre stato ipocrita come tutti i veri cattolici: sin in dal primo interrogatorio di Mario Chiesa era comparso con la sua barbetta nel ruolo di gip (giudice delle indagini preliminari) inteso come malriuscito "giudice terzo", quello che secondo il Codice doveva stare in equidistanza tra accusa e difesa. Ex contrattista di diritto ecclesiastico, per i cronisti diverrà "nano ghiacciato", benchè bramoso della sua porzioncina di celebrità. Fu lui ad autorizzare gli arresti chiesti dai pm, e le sue rarissime opposizioni furono rondini che non fecero mai primavera: non convaliderà le manette di quattro consiglieri dell'Ipab (un istituto di beneficienza) e poi del manager della "Torno Costruzioni" Angelo Simontacchi, del direttore della Siemens Italia Jurgen Ferlinge, del socialista Loris Zaffra, del cassiere Pds Marcello Stefanini. Sono solo esempi, ma la mancanza di terzietà di un intero Paese, oltre ai ricorsi dei pm, lo ricacciarono sempre in un ruolo comprimario, da vidimatore delle carte dell'accusa. Ghitti è stato il gip "unico" di Mani pulite, un'anomalia assoluta sulla quale di recente si è espresso Guido Salvini, giudice istruttore delle indagini su Piazza Fontana (e caso Parmalat e Abu Omar), che non aderì mai a nessuna corrente della magistratura e passò quegli anni proprio all'ufficio gip: «Un unico gip accentrò indebitamente tutti filoni dell'indagine... un meccanismo da cui dipendeva il funzionamento di quell'inchiesta sistemica... fu comodo non doversi confrontare con una varietà di posizioni che si potevano incontrare all'interno dell'ufficio gip», ha detto Salvini, «che era formato da una ventina di magistrati... Così il Pool escogitò un trucco, costituendo un fascicolo che in realtà era un registro che riguardava centinaia di indagati (poi migliaia, con circa 9.000 richieste di arresto, ndr) su vicende completamente diverse: il numero era sempre lo stesso, il 8655/92, estensibile a piacere anche a vicende per cui la competenza territoriale di Milano non esisteva».

PRINCÌPI SOVVERTITI

Insomma, i princìpi dell'Ufficio furono sovvertiti radicalmente, spiega Salvini: «Ci fu un episodio che mi riguardò. Nel maggio 1993 un filone arrivò a me per sbaglio... portava scritto sulla copertina quel famoso numero 8655/92... prima ancora che potessi decidere su alcune richieste del Pool, il fascicolo mi fu sottratto e passò al gip Ghitti, evitando così che io o qualsiasi altro gip interferisse nella macchina di Mani pulite». Parentesi: la testimonianza dell'ex gip Salvini non attesta solo che Mani pulite rinunciò alla terzietà del giudice, ma permette di retrodatare la decisione di direzionarsi verso una "rivoluzione" che i magistrati di Mani pulite hanno sempre teso ad ancorare a uno strabordante consenso popolare che a quel tempo ancora mancava: quando Ghitti divenne l'anomalo gip unico, a ben vedere, mancava ancora tempo alle elezioni "terremoto" del 5 aprile 1992, che pure registrarono una sostanziale tenuta del partiti; mentre era prossimo l'affiancamento all'inaffidabile Di Pietro di magistrati come Gherardo Colombo e poi Piercamillo Davigo. Mani pulite cominciò così a correre da sola, con le sue anomalie e progressive forzature delle regole, in attesa del plebiscitario appoggio popolare (da maggio e soprattutto dall'autunno) che le permetterà addirittura di volare. Ancora prima delle elezioni del 1992, il gip Ghitti disse: «Il nostro obiettivo è colpire un sistema, non le singole persone». Bene, ma perché l'abbiamo definito ipocrita? La risposta sta in un altro esempio a margine del mancato arresto di Marcello Dell'Utri: il Tg5 anticipò la notizia (dopo discussione tra Andrea Pamparana ed Enrico Mentana) e il gip Ghitti disse: «Ricordo anche l'ora... le 15.57 dell'8 marzo 1994... Mi resi conto che non riponevo più fiducia nella correttezza di alcuni pm, ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pubblici ministeri». Ah, lo capì allora. Gherardo Colombo spedì in sala stampa addirittura un finanziere: «Allora, chi è stato? Chi vi passa le notizie?». Un cronista rise: «Ma dite sul serio?». Ma Ghitti era ipocrita anche per un'altra ragione, e qui segue un racconto personale. Ricordo bene: salimmo al settimo piano e la porta del gip era aperta, complici i buoni rapporti con due dei cronisti (uno era il mitico Frank Cimini) e l'apparente ordinarietà di quello che stavamo facendo. Era sera, era buio. Entrammo nella stanza, Ghitti era a capo chino e stava scrivendo qualcosa con la penna. Non alzò il capo, non salutò, nessuno salutò lui. Noi non esistevamo. Sulla scrivania, ordinatissimi e in bella vista, erano appoggiati dei provvedimenti d'arresto che aveva appena firmato ed altri che probabilmente stava per firmare. Nessuno disse una parola, nessuno toccò niente, tutti videro tutto. Pochi minuti dopo lasciammo la stanza con tutte le notizie o conferme che ci servivano. E lui, Ghitti, ufficialmente non aveva mostrato niente a nessuno, non aveva parlato con nessuno. Funzionava anche così. Ghitti peraltro sapeva essere spietato: dopo aver firmato l'ordine d'arresto per Raul Gardini il 16 luglio 1993 (che però non gli venne consegnato per settimane, tenendolo in cottura e contribuendo al suo suicidio), ecco che subito dopo che il finanziere si era sparato Di Pietro mandò ad arrestare vari parenti e amici di Gardini, tra i quali Carlo Sama e Sergio Cusani; e il gip Italo Ghitti disse: «Eccezionalmente su quei provvedimenti ho indicato l'ora. Le 9 del mattino. Pochi minuti dopo il dramma. Per testimoniare che, nonostante il dolore, la giustizia deve andare avanti». Più che la giustizia, gli arresti.

IL BAGNO ADIACENTE

Bene, ma allora: chi passava le notizie ai giornalisti? La risposta è: tutti. Magistrati, avvocati, segretarie dei magistrati, poliziotti, carabinieri, le squadre investigative dei pubblici ministeri, cancellieri, gente che coi giornalisti aveva anche tresche sessuali o voleva averne. Dall'aprile 1992 all'estate 1993 furono condivise in pool, poi non più. Poi naturalmente facevano qualcosa anche i cronisti, ce n'erano di bravi e non mancarono risvolti anche divertenti. Sino a un certo periodo fu sufficiente piazzarsi nel bagno adiacente alla stanza del gip e aspettare che entrassero i pubblici ministeri: da lì si distingueva perfettamente ogni parola, non c'era neppure bisogno di appoggiare l'orecchio al muro. Colombo non parlava quasi mai. Di Pietro e Davigo raccontavano barzellette soprattutto sui socialisti. Da un certo punto in poi però i magistrati se ne accorsero: uno entrò in bagno e trovò i cronisti come colpiti da dissenteria di massa. Poi c'era uno come Luca Fazzo, detto Panzer, che placcarlo era dura: il 30 marzo 1992, quando Mario Chiesa venne interrogato al gabbiotto (una costruzione prefabbricata infelicemente piazzata nel cortile del Palazzaccio), c'era una finestrella aperta, e per ascoltare bene Fazzo si appese a una grondaia. A semplificare tutto c'era che il Pool di Milano abolì di fatto il segreto istruttorio e anche in questo si sostituì al legislatore: che cosa fosse il segreto istruttorio presero a raccontarselo da soli, anche se il Codice prevedeva il contrario rispetto a certi comporti. Il 19 dicembre 1992 ci fu un convegno organizzato dal Gruppo di Fiesole (giornalisti di sinistra) eil neo giurista Piercamillo Davigo la mise così: «Il segreto istruttorio è posto a tutela dell'attività investigativa, non dell'onorabilità dell'inquisito... Se mi dicono "sei un ladro" non posso difendermi dicendo "è un segreto", ma dimostrando che non è vero». Chiamasi inversione dell'onere della prova. Più ideologicamente, al convegno, disse il neo giurista Gherardo Colombo: «È vero che il diritto alla riservatezza va tutelato, ma quando il progredire di tutti confligge con l'interesse particolare, io penso che il più delle volte vada sacrificato il secondo al primo». Io penso. Anche il neo giurista Francesco Saverio Borrelli, in più sedi, aveva spiegato che il segreto in pratica non esisteva più. Talché il noto avvocato Corso Bovio, legale dell'Ordine dei giornalisti lombardi, rispose: «Per anni, come avvocato dei giornalisti, ho sostenuto decine di cause per violazione del segreto istruttorio promosse proprio dalla procura milanese. Il nuovo indirizzo di Borrelli mi auguro che valga in ogni circostanza, e non solo nell'inchiesta sulle tangenti». Il procuratore neo giurista Marcello Maddalena, da Torino, sostenne invece che il diritto alla riservatezza dell'indagato «comunque è secondario rispetto all'esigenza di scoprire la verità». Insomma, la magistratura cancellò letteralmente il segreto istruttorio perché le andava bene così, e la loro regola divenne la regola. Ai giornalisti piacque e piace a tutt' oggi.

L'AUTORE DEL CODICE

Chi il Codice l'aveva scritto, però, la pensava al contrario. Nel 1992 provai a intervistare Giandomenico Pisapia, co-relatore del Nuovo Codice chiamato "Pisapia Vassalli". Mi disse così: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto serve a tutelare sia le indagini sia l'indagato, che naturalmente teme che la divulgazione di notizie possa pregiudicare un'immagine che, una volta guastata, non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione». Sempre nel 1992, il vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, diede conferma: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l'avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio». Fantascienza. Se interessa, era d'accordo anche un certo Giovanni Falcone, che lo disse davanti al Csm: «L'avviso di garanzia non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzata nell'interesse dell'indiziato». Archeo-fantascienza. 

“L’inciucio” delle carriere tra pm e giudice in una foto del ’92. Il Dubbio il 23 Febbraio 2022. 

Nel libro di Goffredo Buccini, “Il Tempo delle Mani Pulite”, spunta la foto del Gip Italo Ghitti e del Pm Di Pietro fianco a fianco. Eppure il primo avrebbe dovuto verificare la tenuta delle inchieste del secondo.

Un estratto del libro di Goffredo Buccini, “Il Tempo delle Mani Pulite”, Laterza, Bari-Roma 2021, pp. 231, 18,00 euro.

«Mentre Amato sale al Quirinale con la lista dei ministri, i socialisti scagliano attacchi pesanti contro Mani pulite, minacciando perfino dimissioni a raffica dalle cariche pubbliche se l’inchiesta non verrà fermata: una linea da cui si dissocia, pur tra distinguo, Claudio Martelli. Gennaro Acquaviva, un senatore molto vicino a Craxi, sostiene che “nelle indagini vengono adottati provvedimenti di tale violenza che non trovano riscontro neppure nelle inchieste contro la mafia e vengono commesse illegalità sempre più evidenti in dispregio dei diritti dei cittadini”. Ovviamente è in questione la “dottrina Davigo”, l’arresto e la confessione come passaggi necessari a spezzare il vincolo tra tangentisti. Il giorno prima sono finiti in cella il segretario politico e quello amministrativo del Psi lombardo, il partito regionale è decapitato. Un avviso di garanzia arriva anche al deputato Sergio Moroni, a sua volta ai vertici regionali del Garofano fino a poco prima. Ormai pubblichiamo quasi ogni giorno gli elenchi dei “politici coinvolti”, una specie di summa quotidiana del crollo di sistema ridotta a infografico come le formazioni delle squadre di calcio nelle pagine sportive. A fine giugno i dc arrestati sono 11, 7 i pidiessini della corrente migliorista, 11 i socialisti, un repubblicano, 11 i parlamentari indagati tra democristiani, socialisti, repubblicani e pidiessini, 24 gli imprenditori incarcerati: ed è, chiaramente, solo l’inizio di ciò che ci aveva preconizzato ad aprile l’avvocato D’Aiello nei giardinetti davanti a San Vittore.

Severino Citaristi, segretario amministrativo nazionale della Dc, riceve il suo primo avviso di garanzia per finanziamento illecito del partito. Gliene arriveranno decine, facendone il recordman degli avvisi. In questo, a guardar bene, si potrebbe già cogliere un paradosso dell’indagine: perché Citaristi è un vecchio bergamasco onestissimo, tutti sanno che non si è messo in tasca una lira, e tuttavia il meccanismo è spietato, scivola verso la responsabilità oggettiva (che nel diritto penale non trova spazio, tranne che per eccezionali fattispecie). “Non può non sapere” è un assunto che, per il momento, affonda i contabili ma promette di arrivare ben oltre. Si danno intanto alla macchia Giovanni Manzi, presidente della Sea, e Silvano Larini, l’architetto craxiano animatore delle notti di Brera. Entrambi considerati membri del circolo più stretto attorno al leader. Il partito di Craxi si sente preso di mira, e lo è, ma non per congiura: piuttosto, per il semplice motivo che l’inchiesta ha quale epicentro Milano, la città dalla quale Craxi aveva iniziato a costruire la sua ascesa e in cui ha radicato il suo potere. Dopo l’affondo di Acquaviva, i giornali ci chiedono una reazione dalla Procura. In gruppetto saliamo alla stanza di Borrelli, dove ci riceve in anticamera Alfonso, il fidato segretario del procuratore, che dispensa a noi ragazzetti della cronaca sorrisi tra il bonario e l’altezzoso, da vecchio ciambellano della Real casa. Consumata una certa dose di attesa, si manifesta infine Borrelli, ironico, felpato, l’aria di chi sia appena stato distolto da una battuta di caccia alla volpe: alza gli occhi con un lieve moto di sopportazione verso il soffitto del suo studio imbiancato di fresco quando gli riferiamo le battute sulle illegalità dell’inchiesta. Finge chiaramente di apprenderle in quel momento e sogghigna a mezza bocca: “Vorrei proprio conoscere in dettaglio quali sarebbero le illegalità cui fanno riferimento i nostri critici. In realtà ne abbiamo molte di illegalità sotto gli occhi e riguardano comportamenti del passato. Finché la legge penale non cadrà in desuetudine, il mondo dell’illegalità starà lì, nelle cose e nei fatti di cui ci stiamo occupando”. È la prima volta che questo magistrato quasi invisibile, noto soprattutto per la sua prudenza e la sua discrezione, usa il rasoio contro chi critica l’inchiesta. Ho l’impressione che il ruolo non gli dispiaccia affatto. E ho quasi la certezza che quel ruolo possa trasformarlo in un grande comunicatore. In quelle ore, Giulio Anselmi pubblica sul Corriere un editoriale molto netto, “Di chi è la giustizia”, che traccia la linea ufficiale del giornale: ci chiama fuori dalla mitizzazione di Di Pietro ma chiede ad Acquaviva di produrre qualcosa di più di generiche accuse se vuole essere creduto. In realtà la vera notizia starebbe nella foto accanto al testo che gira in terza pagina: Di Pietro e il gip Ghitti insieme, sorridenti e sottobraccio alla festa dell’Arma; “due dei giudici che indagano sulle tangenti”, recita la didascalia, nella sostanza ineccepibile, nella forma giuridica gravemente sbagliata. Perché Di Pietro non è un giudice ma un pubblico ministero e perché Ghitti non dovrebbe indagare con Di Pietro ma giudicarne le indagini, essendo appunto il giudice delle indagini preliminari, il gip.

Questa confusione non scuote granché noi cronisti del pool, ma forse dovrebbe. Perché è il punto di caduta della storia del decennio precedente, che Anselmi sintetizza con efficacia nella prima parte dell’editoriale. La contesa comincia con il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (nato dagli errori e dagli orrori del caso Tortora e voluto da Craxi nell’87) e si trascina fino alla battaglia sulla superprocura antimafia che avrebbe coinvolto Falcone. “In passato la maggioranza dell’opinione pubblica era assai ostile agli uomini in toga, spesso arroccati in una inaccettabile difesa dei loro interessi corporativi e non creduti neppure quando sostenevano che i politici volevano colpirli per motivi tutt’altro che nobili: svincolarsi da ogni controllo, impedendo ai magistrati di applicare la legge. Prendersela con i giudici, insomma, era politicamente redditizio. Oggi la situazione è radicalmente diversa…»

Tangentopoli vista da dentro: il libro di Goffredo Buccini in edicola con il «Corriere». MARCO IMARISIO su il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2022.

Siamo tutti reduci di qualcosa. E non c’è nulla di male. Abbiamo tutti una esperienza, lavorativa o di vita, e quasi sempre i due aspetti si sovrappongono, che ha in qualche modo definito quel che siamo, che ci ha segnato più di ogni altra vicenda. Goffredo Buccini, oggi editorialista e inviato del «Corriere», è stato un giovane redattore che all’inizio degli anni Novanta entrava nel palazzo di giustizia di Milano, intimidito dai suoi marmi razionalisti e dall’autorevolezza di colleghi più esperti di lui, convinti che la cronaca giudiziaria fosse ormai finita, non era più quella di una volta.

Il libro di Goffredo Buccini, «Il tempo delle mani pulite», sarà in edicola a partire dal 17 febbraio con il «Corriere della Sera» al prezzo di 12 euro. Il libro è realizzato in collaborazione con LaterzaNon sapevano di essere sull’orlo del vulcano. E ben presto la politica italiana e la società italiana sarebbero state travolte dalla sua esplosione. Non potevano immaginare che ben presto sarebbe cominciato un tempo nuovo, quello delle Mani pulite. Dopo, nulla sarebbe più stato come prima. Così la pensava Buccini in quegli anni, a dire il vero così la pensavamo tutti. Per chi cominciava a fare questo mestiere, e stava alla finestra, quella inchiesta e quel che stava succedendo, era tutto ciò a cui si poteva aspirare.

Goffredo Buccini è inviato speciale ed editorialista del «Corriere della Sera». Ha seguito in presa diretta per il quotidiano di via Solferino tutta la stagione di Mani puliteLa speranza di cambiare un mondo con i propri articoli, di redimere il proprio Paese dai suoi vizi endemici, si è rivelata una illusione. Poi venne la Seconda Repubblica e ora siamo nella Terza, e insomma, non rimane poi molto di quella stagione così aspra, se non una discussione ormai trentennale su quel che avrebbe potuto essere, e sugli errori e gli eccessi che lo hanno impedito. Ma il reduce Buccini non fa certo del reducismo, ai miei tempi era tutto più importante, eravamo tutti più bravi. Anche perché, a differenza di altri, lui è andato avanti, ha compiuto altri viaggi, altre esperienze, ha continuato a studiare.

Proprio per questo, Il tempo delle mani pulite (1992-1994) non è soltanto un libro di ricostruzione, di memoria e di riflessione su quella esperienza così importante. È anche un romanzo di formazione, è vita vissuta, elaborata con gli occhi di oggi, perché nessuno dovrebbe mai essere uguale al sé stesso giovane. Si cambia, si cresce, si diventa più consapevoli, così dovrebbe essere.

Anche chi ha trascorso gli ultimi trent’anni su Marte e non conosce Mani pulite dovrebbe leggere questo libro. Perché dentro ci sono tante altre cose. C’è quel rito così desueto in una società bloccata come la nostra, il passaggio del testimone tra diverse generazioni di cronisti, c’è la Milano degli anni Ottanta, forse da bere ma così orgogliosa di quel che era, fino a sconfinare nella presunzione, nel senso di impunità delle sue principali figure. C’è un percorso personale, raccontato senza sconti a sé stesso, con il quale è possibile immedesimarsi a prescindere dal proprio mestiere, con quella immagine del Duomo nella nebbia che per Buccini «è un ricordo di libertà, e di possibilità» che lo accompagna nei suoi primi anni, e chi non l’ha provata quella sensazione di Milano come terra promessa, che in qualche modo anche se non ci sei nato ti riconosce, come cantava Giorgio Faletti.

E poi, certo, Il tempo delle mani pulite è un bellissimo libro sul giornalismo. Sul senso di questo mestiere. Sulle scelte estreme che bisogna fare nel giro di dieci minuti, sulla fatica che ci vuole, per tirare fuori una notizia, scriverla, impaginarla. E subito pubblicarla, perché il frigorifero che le tiene al fresco consentendo di soppesarle e farle maturare non è stato ancora inventato. Quando, di preciso, abbiamo cominciato a pensare che «le carte» fossero l’unico prisma possibile per interpretare la realtà? Chi mette in circolo atti di procedimenti ancora aperti, brani di intercettazioni? Se ne discute da sempre. Anzi, da allora. Buccini lo sa, e lo racconta con episodi reali e senza fare teorie, come è cambiato il modo di fare cronaca e quali siano le conseguenze che ancora oggi paghiamo. Perché c’era quando tutto questo è cominciato, perché ha vissuto quell’epoca da protagonista, facendola coincidere per altri due anni con la sua vita, senza staccare, senza mai dormire tranquillo, con la paura del buco, la notizia mancante, sempre a ronzare nella testa.

L’opera che adesso viene pubblicata con questo giornale ha già fatto molto discutere, perché non si tratta di memorialistica, ma di una ricostruzione dei fatti che tiene conto di quel che sappiamo oggi, e di quel che siamo diventati. Buccini fa rivivere un’epoca che non considera più gloriosa come pensava allora. L’indignazione per quelle tangenti, per un malcostume noto a tutti e del quale nessuno parlava, era nell’aria. E non fu un bel sentimento collettivo. Produsse senso di onnipotenza nei magistrati, negli indagati paura di essere arrestati e messi alla pubblica gogna, con la confessione come unica via di uscita. Il popolo applaude, in Parlamento sventola il cappio.

I giornalisti di Mani pulite si sentono supereroi del fumetto che loro stesso contribuiscono a creare. Tempo per riflettere, non ce n’è, e in fondo nessuno vuole farlo. Ci sono invece i reati, dettaglio che troppo spesso oggi si tende a scordare, nell’autodafé del senno di poi. Buccini adotta la giusta distanza che all’epoca era oggettivamente impossibile mantenere. E nel farlo, scrive un libro al tempo stesso intimo e di interesse pubblico, che ci aiuta a capire davvero l’essenza di quel biennio così cruciale. E cosa ha significato, per tutti noi.

Mani Pulite trent’anni fa. Rivoluzione mancata che ha reso gli italiani più faziosi. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 13 febbraio 2022.  

Tutto cominciò a Milano il 17 febbraio 1992: il socialista Mario Chiesa riceve dall’imprenditore Luca Magni 7 milioni di lire in contanti. «Soldi miei» dice al capitano Zuliani che lo arresta. «No, sono nostri», replica il carabiniere. E parla a nome dell’Italia. 

30 luglio 1993: alcuni pm di Mani pulite in Galleria, nel centro di Milano, si dirigono verso il Duomo per partecipare ai funerali di Stato delle vittime della strage di via Palestro. Da sinistra Di Pietro, Colombo e il capo Borrelli

Quella sera a Milano c’è nebbia. Nella caserma della Celere di via Cagni, tra Bicocca e Niguarda, avvolge i lampeggianti delle volanti che scaricano 102 arrestati, una vera retata. Ed è rotta da un vocione che pare dirigere il traffico: «Di qua, di qua, portatemeli qua!». Si sbraccia Antonio Di Pietro mentre colloca nei loculi per gli interrogatori medici e notai, funzionari comunali, faccendieri e ispettori della motorizzazione catturati nell’inchiesta sulle patenti facili: un Caronte che smista anime in pena. Torchierà tutti quasi in contemporanea, saltabeccando da un terzo grado all’altro per contestare contraddizioni, e sbraitando a uso di noi cronisti, passati ... casualmente da quelle parti. Annoto con scrupolo, ma non capisco. Non ho gli elementi per rendermi conto che la sera del 1° dicembre 1987 sto assistendo alla nascita di un metodo: giudiziario e mediatico. Quando, oltre quattro anni dopo, mi ritrovo davanti quel semisconosciuto sostituto procuratore con astuzie da commissario messicano ed eloquio da presepe vivente, il metodo è perfezionato. E molte cose sono cambiate. Nel mondo, con la caduta del Muro di Berlino. E da noi: perché gli italiani cominciano a votare in libertà senza più lo spauracchio del comunismo.

Nuovo metodo e nuovo codice

Il nuovo codice di procedura penale (rito accusatorio, all’americana) ha ottenuto l’effetto contrario a quello che (occultamente) si proponeva: i socialisti al governo sognavano di ridimensionare i pubblici ministeri, facendone parti del processo pari agli avvocati; logico sarebbe stato alla lunga mettere i magistrati sotto qualche forma di controllo politico: prima che accadesse, i magistrati si sono messi a remare tutti assieme contro la politica.

QUEL GIORNO COMINCIO’ IL CROLLO DI UN SISTEMA DA CUI NASCERA’

UNA TRANSIZIONE CHE ANCORA OGGI NON SI E’ AFFATTO CONCLUSA

L’Italia ancora governata dal Caf (l’asse tra Bettino Craxi, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani) è attraversata da una crisi economica devastante: il premier socialista Giuliano Amato (braccio destro di Craxi) è stato costretto a una Finanziaria lacrime e sangue, la lira è uscita dallo Sme (il serpentone monetario progenitore dell’euro). Sono insomma finiti i soldi, sui quali si reggeva il patto degli anni Ottanta tra un sistema politico che otteneva consenso in cambio di debito pubblico, finanziamenti occulti in cambio di appalti truccati, e una popolazione ormai assuefatta all’assistenzialismo clientelare. Gli imprenditori si sfilano: i grandi perché sperano in una nuova Italia neoliberista che mandi al macero il keynesismo dei vecchi partiti e salti subito sul treno europeo del Trattato di Maastricht; i piccoli semplicemente perché strangolati da mazzette che non riescono più a pagare, in un Paese in cui il malcostume è diventato cavallo di battaglia di un comico genovese, Beppe Grillo, epurato dalla Rai per le sue barzellette anticraxiane.

Impresa di pulizia al Pio Albergo Trivulzio

Uno tra i più piccoli, Luca Magni, titolare di una ditta di pulizie che lavora col Pio Albergo Trivulzio (la Baggina, per i milanesi), non riesce più a sostenere l’ingordigia del patron dell’istituto, Mario Chiesa, socialista in rampa di lancio per Palazzo Marino e gran boiardo delle tangenti milanesi. Va dai carabinieri. Il capitano Roberto Zuliani lo porta da Di Pietro. Insieme firmano le banconote (sette milioni delle lirette d’allora) che Magni dovrà consegnare a Chiesa. Quando quello le prende, scatta il trappolone. «Sono soldi miei», dice il tangentista. «No, sono nostri», replica Zuliani a nome dell’Italia. È il 17 febbraio 1992, Mani pulite nasce così. E comincia così il crollo del sistema, da cui nascerà una transizione che ancora oggi, trent’anni dopo, non si è affatto conclusa. Finché il sistema teneva, nessuno aveva mai parlato, certo dell’impunità. Chiesa ci mette cinque settimane a San Vittore per capire che il sistema non tiene più e che il suo leader, Bettino, è così indebolito da doverlo insultare al tg («un mariuolo») per prenderne le distanze. 

Il crollo di Chiesa , tutti cella

Il 23 marzo, crolla. Parlerà per giorni, tirando dentro tutte le imprese che avevano rapporti col Trivulzio e attivando un meccanismo esponenziale, perché gli imprenditori chiamati in causa finiscono in cella e a loro volta parlano coinvolgendo altri ancora: per uscire. Solo chi confessa rompe il patto coi complici diventando inaffidabile: è la teoria di Piercamillo Davigo, il Dottor Sottile che, con il saggio Gherardo Colombo, il procuratore Saverio Borrelli affianca in pool Di Pietro quando, infine, si capisce che l’inchiesta è decollata e «i magistrati faranno centinaia di arresti e scriveranno un romanzo», come prevede il facondo avvocato Vittorio D’Aiello che intercettiamo nei giardinetti del carcere, tra un interrogatorio e l’altro dei suoi clienti. La novità sconvolgente è che per la prima volta in galera ci vanno tanti colletti bianchi, non più solo i barabba. Comincerà così, e durerà per mesi, la processione di “penitenti”, big indagati o solo sospettati che, per evitare il passaggio in carcere, si mettono in fila davanti all’ufficio di Di Pietro (la mitica stanza 254) assistiti da “avvocati accompagnatori”, legali amici della Procura aventi il solo vero mandato di verbalizzarne le confessioni.

Le elezioni e la Lega

Dopo le elezioni di aprile, che sanciscono la crisi dei partiti di governo e l’ascesa della Lega di Bossi, in poche settimane l’inchiesta travolge la politica milanese e poi quella nazionale, i tesorieri e i segretari di partito e i manager delle imprese maggiori: la spartizione è a monte, per quote fisse, con collettori designati dai segretari, e tiene dentro tutti, anche l’opposizione del Pci-Pds tramite cooperative.

Sotto il palazzo di giustizia di Milano cominciano a raccogliersi supporter, cortei, fiaccolate al grido di «Tonino salvaci dal male», si vendono magliette col logo di Tangentopoli, poster con le facce dei pm in versione Intoccabili , un film che spopola. Di Pietro, con la sua callidità da Bertoldo, diventa in breve l’eroe pop che dovrebbe vendicare gli italiani vessati dai partiti: la sua Montenero di Bisaccia sembra Camelot, la sua ostentata rudezza un antidoto marziale alle mollezze da fine regime della Prima repubblica. Una rappresentazione forzata, alla quale molto contribuiamo noi dei media, i primi talk show, la carta stampata. Noi, cronisti assegnati a questa storia, siamo quasi tutti giovanissimi e seconde firme: all’inizio nessuno credeva che Chiesa parlasse, così i big non erano stati mandati in campo; quando quello parla, noi abbiamo in mano tutte le fonti, così l’inchiesta non può togliercela più nessuno. Si tratta però di rischiare molto, raccontando dieci arresti e venti avvisi di garanzia al giorno: non ha senso contenderci notizie, ha senso piuttosto controllare che siano tutte vere, che non ci lancino una “polpetta avvelenata” per intossicare l’intera narrazione (attorno al palazzo di giustizia corvi e volpi cominciano a raccogliersi in gran copia).

Il pool dei giornalisti

Una sera di primavera, al ristorante Gambarotta di via Moscova, nasce dunque il pool dei cronisti: reggerà bene il primo anno, la prima lunga ondata dell’indagine. Ma, certo, ci toglierà qualcosa; avendo quasi tutti la stessa formazione da sinistra studentesca, quasi tutti abbiamo gli stessi pregiudizi: il nostro Craxi “ideale” assomiglia molto a quello delle caricature di Forattini, gli imprenditori a certi caratteristi della Piovra. Siamo decisi a salvare il mondo per via giornalistica. Poiché l’inchiesta sembra regalarci proprio la verità che abbiamo già in testa, quasi nessuno di noi sente il bisogno di guardarla anche da qualche altra angolazione: il bene di qua e il male di là, è manicheismo giovanile.

NOI CRONISTI SIAMO GIOVANISSIMI, CON UN PASSATO NELLA SINISTRA STUDENTESCA: NON SENTIAMO IL BISOGNO DI DARE ALTRE ANGOLAZIONI

Sicché del memorabile discorso del leader socialista alla Camera, il 3 luglio, cogliamo solo la disperata e vana chiamata di correità davanti a colleghi muti e atterriti («se gran parte di questa materia va considerata criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale») e non, anche, la portata visionaria per quanto allucinata (da allora in avanti, la politica sarà sterco del demonio per tanti, troppi italiani). Quando ad agosto, isolato e ormai col fiato dei pm sul collo, Craxi lancia quattro corsivi sull’ Avanti per sostenere che Di Pietro non è forse l’eroe che pensiamo, elencando una lunga serie di suoi rapporti pregressi nello stesso milieu milanese poi oggetto dell’inchiesta, noi derubrichiamo tutto a fango. E, certo, il fine di Craxi è quello, infangare. Ma noi non ci domandiamo se in tanto fango ci sia qualche fiorellino di verità, non rilevante penalmente, s’intende, ma significativo sul piano dell’immagine se non della deontologia. Così, un po’ tradiamo i lettori o, almeno, impediamo alla parte più moderata di essi di avere un punto di vista completo, distante dalle fazioni che già si vanno delineando. Neppure sui suicidi, che iniziano quell’estate, ci soffermiamo a riflettere.

Il calderone

Il deputato socialista Sergio Moroni ammette, nella lettera d’addio al presidente della Camera, Giorgio Napolitano, di avere preso 200 milioni (di lire) per il partito. Ma non è un ladro, per sé non ha intascato un soldo. Sui media dovremmo distinguere meglio, proteggere le dignità: tutto finisce in un calderone da dove la rabbia popolare attinge. Ormai il piano è inclinato, verso l’inevitabile. Craxi prende il primo avviso di garanzia a metà dicembre 1992: molti gli appioppano l’infame soprannome di Cinghialone, l’obiettivo della caccia. Non c’è da stupirsi se, quando la Camera ne nega, ad aprile ‘93, l’autorizzazione a procedere, una folla inferocita lo copra di sputi e monetine davanti all’Hotel Raphaël, sua abituale residenza romana.

Il sistema è in ginocchio. E, come spesso in simili frangenti, in Italia si muovono forze oscure. Se il primo anno è stato segnato dagli attentati a Falcone e Borsellino, la seconda estate dell’inchiesta risuona delle bombe piazzate a Roma, Firenze e Milano. Nella città di Mani pulite, un’autobomba davanti alla villa comunale fa cinque morti e dodici feriti. Due giorni dopo, ai funerali solenni, i milanesi seguono in un corteo spontaneo Borrelli e gli altri magistrati del pool, inneggiano a Di Pietro, invocano la forca, coprono di fischi e insulti le autorità dello Stato.

DI PIETRO È IL CAMPIONE DEL PAESE REALE ANTI ÉLITE E IL DIPIETRESE UN MIX DI PROVERBI DELLA NONNA E STRAFALCIONI FORSE STUDIATI

L’onda giustizialista

Nemmeno altri due suicidi eccellenti, quello del finanziere Raul Gardini e del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, invertono la grande onda giustizialista che sembra conquistare il Paese. Le vere esequie della Prima repubblica si celebrano pochi mesi dopo, in diretta tv. Al primo processo per la maxitangente Enimont (i 150 miliardi versati da Gardini ai partiti per sciogliersi dalla letale joint venture con la mano pubblica), Di Pietro decide di portare alla sbarra un solo imputato, il finanziere Sergio Cusani, consulente di Gardini, e tutti i segretari di partito come testimoni. In decine di udienze trasmesse al mattino da Un giorno in pretura , gli italiani vedono così i potenti d’un tempo flagellati dal loro amato pm: che li umilia (tutti tranne Craxi), sfoggiando per l’occasione il dipietrese, un mix di proverbi della nonna, imprecazioni, sbuffi e strafalcioni forse anche studiati, che ne accentuano la distanza di campione del Paese reale (che «parla come mangia») dall’élite tanto deprecata. Le forche caudine vengono però risparmiate al Pci-Pds: questo, oltre a generare polemiche che durano tuttora, convincerà gli eredi di Berlinguer e della sua questione morale di avere infine la via spianata (dai giudici) verso la conquista del potere. Achille Occhetto arma la sua «gioiosa macchina da guerra», che diventerà invece simbolo di sconfitta.

L’arrivo dell’imprenditore populista

Perché le elezioni di marzo ‘94 (le prime con un sistema a prevalenza di maggioritario) dimostrano che dalla caduta di un sistema parlamentare nessuno di quel sistema si salva. E consegnano il Paese al primo vero populista della nostra Repubblica, Silvio Berlusconi: imprenditore non certo osteggiato dai vecchi partiti, amico personale di Craxi, e tuttavia capace, con uno straordinario illusionismo politico e televisivo, di convincere milioni di italiani di essere una specie di maverick, un anticonformista, portatore di un ossimoro, la rivoluzione liberale. I lunghi mesi di tensione del suo governo con il pool sfociano nell’invito a comparire che Borrelli e i suoi gli fanno recapitare mentre è a Napoli, presiedendo per l’Italia un vertice mondiale sulla criminalità (sfregio che lui mai perdonerà) e nell’inopinato addio alla toga di Di Pietro, proprio a ridosso dell’interrogatorio cui il pm avrebbe dovuto sottoporre il premier (dopo avere annunciato ai colleghi «quello lo sfascio»). È un’Italia smarrita e avvelenata, quella che esce infine dai due anni più turbolenti della sua storia repubblicana, il 1992-94.

Due falsi miti

Gravata nei decenni successivi da due miti fasulli e contrapposti: il golpe giudiziario (mai avvenuto, poiché i partiti si suicidarono tramite corruzione e degrado morale) e la Mani pulite “mutilata” da un sistema ricompattato (altra fandonia, poiché a fermarla furono l’ambigua defezione di Antonio Di Pietro e la caduta di consenso tra cittadini stufi della mistica delle manette). Dopo stagioni di berlusconismo e antiberlusconismo, giustizialismo di piazza e garantismo peloso, retorica del vaffa e partitocrazia senza ormai partiti, l’etica pubblica è svanita quasi del tutto, la corruzione è più diffusa di prima e ha infettato perfino la magistratura: l’illusione di riformare un Paese per via giudiziaria mostra oggi tutte le sue falle. Più che un clamoroso processo in tv servono molte discrete ore di educazione civica in classe. «Sei un rinnegato», mi dice con ostinazione un vecchio cronista del nostro pool. Qualche orologio è rimasto fermo all’ora di trent’anni fa.

Tangentopoli, Di Pietro vs Buccini: “Smettila di fare complottismo”. “Acrimonia inutile”. Gisella Ruccia su Il Fatto Quotidiano il 30 marzo 2015. 

Scontro concitato in più momenti tra l’ex leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, e il giornalista del Corriere della Sera, Goffredo Buccini, a L’aria che tira (La7). Il tema del dibattito verte sull’eredità di Mani Pulite, che Di Pietro difende appassionatamente, smentendo, in primis, la sua fama di pm “cattivissimo”. Poi spiega la frase di Piercamillo Davigo (“Rivolteremo l’Italia come un calzino”): “Significava voler andare a fondo delle indagini”. Buccini puntualizza: “Voleva anche dire rivoltare moralmente l’Italia, un’idea evidentemente sbagliata“. “Sono proprio curioso di vedere che ti inventi”, ribatte Di Pietro, che rinfaccia al giornalista il suo celebre scoop sull’avviso di garanzia all’allora premier Silvio Berlusconi (Fi), mentre guidava a Napoli un vertice sulla criminalità. Il dibattito esplode quando l’ex pm parla dell’operato del suo pool: “Prima di occuparci di Mario Chiesa, a Milano avevamo fatto tante inchieste. Buccini se lo dovrebbe ricordare, invece di teorizzare complotti politici e di fare il maestro. Eravamo solo funzionari dello Stato che facevano il loro dovere”. E, commentando un articolo dello stesso Buccini, rincara: “La mancata sconfitta della corruzione? E che è, colpa nostra? Andate a leggere i giornali oggi. Tutti pieni di questo fatto: ‘Avete sbagliato’. Noi abbiamo fatto quello che abbiamo potuto fare, fino a quando l’abbiamo potuto fare. Se andate a leggere tutte le carte, vi accorgete che, man mano che siamo andati avanti, ci siamo soltanto dovuti difendere”. Buccini replica: “Mi sembra che da parte tua ci sia dell’acrimonia inutile“. E spiega il suo punto di vista, stigmatizzando l’entrata in politica dell’ex pm  di Gisella Ruccia

Il tempo delle mani pulite. 1992-1994 di Goffredo Buccini

Recensione del libro. Mani pulite non è stata soltanto un’inchiesta che ha rivoluzionato la politica in Italia. È stata soprattutto una stagione di grandi illusioni: l’illusione della fine della corruzione e degli intrighi, l’illusione secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica marcia. A costruire questa mitologia furono la carta stampata e le televisioni. E questa è la loro storia.

Trent’anni fa un giovane giornalista del “Corriere della Sera” viene assegnato alla sala stampa del palazzo di giustizia di Milano. Siamo nel 1992 e la grande Storia ha deciso di mettersi improvvisamente in movimento e di farlo proprio a partire da qui. Nasce Mani pulite e a raccontarla è una banda di giornalisti ragazzini, i ‘mozzi’ delle diverse redazioni lasciati a seguire quelle che in un primo momento erano apparse come indagini senza futuro. Come un romanzo di formazione, li vediamo confrontarsi con i protagonisti di quei giorni, alle prese con la ruvida genialità di Di Pietro e le enigmatiche strategie di Borrelli, gli iperbolici paradossi di Davigo e l’amara saggezza di Colombo. Attorno, imprenditori e politici, avvocati e spioni, faccendieri e boiardi compongono una polifonia che non fa sconti su errori e orrori, dagli eccessi negli arresti alla catena di suicidi. Un’Italia dove si staglia la figura drammatica di Craxi e già emerge quella affabulatrice di Berlusconi; l’Italia scossa dagli attentati a Falcone e Borsellino e dalle stragi del ’93; quella della gogna per la Prima Repubblica in diretta tv al processo Cusani. È un racconto che abbraccia la vita di redazione di un grande giornale e le avventure sulle tracce dei latitanti di Santo Domingo. Trent’anni dopo, sarà solo la delusione di un gioco a somma zero.

Riduci

Una triste storia italiana. Il tempo di mani pulite e gli errori eterni del giornalismo giustizialista. Beppe Facchetti su L'Inkiesta il 30 Dicembre 2021.

Il libro di Goffredo Buccini dedicato a Tangentopoli, come quello di Mattia Feltri sul 1993, è un ottimo modo per ripercorre come in quegli anni i principi base dello stato di diritto sono stati calpestati in nome di un repulisti generale. Dovrebbero leggerlo i cronisti di oggi che hanno conosciuto non la tragedia, ma la sua ripetizione in farsa.

Nel 2022 saranno trascorsi 30 anni dalla discussa epopea di Mani pulite ed è prevedibile una ulteriore proliferazione di libri dedicati al Sacro Evento. Ulteriore, perché già ne sono usciti molti, quasi tutti di giornalisti o testimoni vari, in genere un po’ contriti per aver partecipato in modo acritico al banchetto retorico dell’epoca, i cui veleni hanno poi sparso, fino ai giorni nostri, conseguenze sulla vita pubblica (Regioni che cambiano colore politico in attesa che il Presidente arrestato venga infine assolto per non aver commesso il fatto) e purtroppo su quella privata di tanti.

Il suicidio di Natale del consigliere regionale piemontese Burzi assomiglia a un ultimo frutto tragico, coda interminabile anche di morte (44 casi, con questo), di quell’impasto mediatico giudiziario che ha radici nel doppio pool, giudiziario e giornalistico, che si occupò della questione dal 1992 al 1994. Nell’immaginario collettivo sono rimaste le mutande verdi del presidente leghista del Piemonte e tutti giù a ridere. Ma di cosa? Andrebbe davvero rivista e meglio approfondita anche questa rimborsopoli: spese definite legittimamente discrezionali, diventate peculato e variamente sanzionate a seconda delle Regioni, dell’esibizionismo dei pm e dei timori reverenziali dei giudici (nel caso Burzi: assoluzione, condanna, rinvio, condanna).

Della abbondante letteratura che si è occupata e sta occupandosi della questione, si segnalano in particolare due testi che meritano attenzione: “Novantatrè” di Mattia Feltri e il più recente “Il tempo delle mani pulite”, di Goffredo Buccini. Dicono cose simili, ma in modo molto diverso. Feltri ha inferto a sé stesso il supplizio di rileggere giorno per giorno l’agenda di quell’anno fatidico, reinterpretando gli appunti e gli articoli dell’epoca, propri e altrui, fino a rovesciarne spesso completamente il senso iniziale. Una specie di autofustigazione, un rimasticare le passioni violente di quei momenti, una espiazione da deglutire boccone per boccone, rospo per rospo.

Un esercizio che non sarà piaciuto ai tanti non pentiti di questa triste storia italiana, che non hanno nessuna voglia di rimettere in discussione qualcosa che la volontà generale ha già battezzato per sempre. Molto italianamente, si è storicizzato quell’evento al più come un eccesso necessario, un uscire dalle righe di gravità veniale, a fin di bene. È anche l’autoassoluzione degli stessi protagonisti: mica verranno a contestare a noi qualche forzatura del codice di procedura rispetto al codice penale, quello si, violato da corrotti e corruttori!

Nessun riferimento al fatto che la procedura è sostanza, e violarla significa cancellare gli assi portanti dello stato di diritto, conquista della civiltà giuridica, anzi della civiltà tout court. Che sarà mai? Stiamo a guardar il capello. Il giudice naturale spazzato via dal giudice per le indagini preliminari tuttofare, la custodia cautelare come strumento per sciogliere la lingua. Noi siamo i buoni, c’è stato ben altro, sul fronte dei cattivi!

Di queste forzature è ben consapevole Goffredo Buccini, che nel suo libro sceglie un approccio descrittivo più problematico, meno godibile di quello scoppiettante di Feltri, infarcito da citazioni e dichiarazioni Ansa dell’epoca che farebbero accapponare la pelle a un padre della Patria come Piero Calamandrei o all’autore del moderno codice penale, Giuliano Pisapia, ma forse anche al grande giurista del regime, Alfredo Rocco.

In modo molto sofferto e profondamente argomentato, Buccini ripercorre le vicende di quegli anni sfogliando non solo la propria memoria ma i ragionamenti, le riflessioni e un po’ anche i pregiudizi, le parzialità che lo avevano portato in quei momenti a giudicare in un certo modo i fatti che raccontava, giovane cronista tra l’incudine di Palazzo di Giustizia e il martello di un direttore, Paolo Mieli, che incombeva da via Solferino come un ascetico abate del nome della rosa, sempre imperscrutabile nella sua algida severità, disponibile a un buffetto amichevole solo in occasione dei numerosi scoop del cronista (le numerose interviste esclusive a Francesco Saverio Borrelli, la caccia ai latitanti di Santo Domingo).

Trent’anni dopo, le aberranti promesse di Piercamillo Davigo sull’Italia da rivoltare come un calzino, i cinici commenti di Gerardo D’Ambrosio per i suicidi evidentemente frutto della vergogna, i foruncoloni di Bettino Craxi irrisi da Antonio Di Pietro, possono essere riletti con distacco critico, ma in quel momento era oggettivamente impossibile qualunque obiezione.

L’aria era soffiata dall’indignazione, il peggiore sentimento collettivo che possa emergere in un popolo. Come la contestazione a Craxi davanti al Raphael, replica vergognosa di un eterno piazzale Loreto.

Le obiezioni odierne di Buccini al giornalismo dell’epoca, a cominciare da sé stesso, sono argomentate e sofferte – bisognerebbe le leggessero i cronisti della generazione successiva che hanno conosciuto non la tragedia, ma la sua ripetizione in farsa – ma nessuno in quella fase osava alzare il sopracciglio. Il pool, guidato dal moderato e aristocratico Borrelli, sembrava il politburo di un golpe quando si presentò alle telecamere per ricattare Governo, presidente della Repubblica con la penna già in mano, Parlamento, partiti e democrazia intera: se non ci fate più arrestare la gente per violazione del finanziamento dei partiti (per poi farli cantare in cella), noi ci dimettiamo e vedetevela voi con il popolo.

L’ordine giudiziario, funzionari statali scelti per concorso, che alzava la voce, sudato e affranto, in diretta TV, per intimidire gli unici poteri riconosciuti come tali dalla Costituzione.

Un appello furbastro alle casalinghe infuriate, agli imbrattatori di cavalcavia inneggianti a Di Pietro, al popolo dei fax che a spese del proprio ufficio, mandava lenzuolate a Palazzo di Giustizia, ai fiaccolatori della notte, ai tanti italiani sollevati dall’idea che le loro marachelle fossero ben poca cosa rispetto ai ladri di stato.

Popolo contro casta, un anticipo e un investimento sul primo comico che si fosse fatta venire l’idea di organizzare questa protesta all’insegna del fatti più in là, che tocca a me, perché l’onestà è tutta da una parte sola. Ma non si creda che il libro di Buccini sia la confessione di uno che ci ripensa, che vuol mettersi in pace con degli errori fatti in gioventù.

Il libro non cancella affatto quegli articoli scritti di getto, poco prima della chiusura del giornale. Li integra, li completa, consente di vedere i fatti da tutte le angolazioni ed è questo il suo contributo più importante alla ricostruzione della verità fattuale.

Le sue denunce sull’orrendo clima dell’epoca tengono dentro di sé anche le buone ragioni di una lettura critica di un contesto, e comunque non c’è alcuna intenzione di riabilitazione. I reati che c’erano, c’erano. L’omertà del sistema del cosi fan tutti erano un collante da sciogliere, ed era giusto farlo. Buccini non è insomma un Di Maio, che per convenienza dei tempi nuovi si converte al contrario di tutto ciò che lo ha portato al successo, uno che pensa che – per andare avanti e rinnovare il consenso – basta chiedere scusa, tenersi i voti raccolti con il populismo e praticare con compunzione, in giacca e cravatta, il più bieco conformismo del potere, auto blu e lottizzazione compresi.

Buccini non chiede scusa. Spiega a posteriori, e ci aiuta a capire.

Non è poco, e anche solo per questo val la pena di leggere un libro ben scritto, che serve anche a ricordare fatti e concatenazioni che tutti abbiamo un po’ dimenticato. È una ricostruzione che può illuminare meglio la storia recente d’Italia. Un solo errore, tra tanto anticonformismo: aver raccontato senza variazioni la storia della madre di tutte le tangenti, cioè la vicenda Enimont, cadendo nell’inganno che il processo Cusani sia stato anche il processo Enimont. Buccini è peraltro in buona compagnia, perché ripete quello che hanno detto e continuato a dire tutti i commentatori. Peccato, in un libro tanto controcorrente. Sarà per la prossima volta, dopo aver letto la sentenza Simi De Burgis, Cappelleri, Gatti, che parla non di una maxitangente ma di una molto successiva appropriazione indebita di privati versi altri privati. Meriterebbe un libro a sé.

Tangentopoli e i cronisti, il terremoto visto da Napoli: «Quelle urla in Procura...» Antonio Menna su Il Mattino Domenica 16 Gennaio 2022

Aleggia con dolcezza il fantasma di Giancarlo Siani, in questo bel libro di Goffredo Buccini, inviato ed editorialista del Corriere della Sera, origini napoletane e una carriera intera tra Milano e Roma. È una stella polare, Siani, che compare qui e là nel libro, quasi a voler raccontare la via di una generazione verso l'ambita professione. Cosa sarebbe stato se non avessi preso la strada per Milano, per quella scuola di giornalismo i cui diplomati sono stati poi tutti assunti? Che giornalista sarei diventato? Che opportunità avrei avuto? Con una domanda nella domanda: e se fossi stato al posto di Giancarlo, nelle periferie, nella rampa di accesso più estrema e contorta, così a ridosso del pericolo e della solitudine? Quanto poco è mancato perché lo fossi? Quasi come a dire che, per quella generazione di giornalisti non figli di giornalisti, che avevano la grande ambizione di entrare in una redazione, la vita era testa o croce. Testa ce la fai, croce no. A Buccini è uscito testa. A queste domande sull'esistenza e sul mestiere, sulle ambizioni e sulle vocazioni, sembra voler rispondere lungo tutto il libro, che annuncia di voler raccontare un'altra storia - un saggio storico su Mani pulite, l'inchiesta milanese che ha dato il via a Tangentopoli - mentre ci consegna un romanzo di realtà sui giornalisti che hanno raccontato Mani pulite, che si sono formati nell'altoforno del cambiamento d'epoca, e che poi hanno continuato a informare un Paese ubriaco di speranze e tramortito dalle delusioni, dove speranze e delusioni erano personali e universali. 

Per questo soprattutto vale la pena leggere Il tempo delle mani pulite (Laterza): non solo la memoria di una inchiesta giudiziaria che ha attraversato il Paese, scomponendolo, e di cui forse si è detto quasi tutto; ma l'epica di un giovane cronista di origini napoletane a Milano, nella sala stampa del Palazzo di Giustizia, nella retrovia del più grande quotidiano italiano, accanto a veterani e nuove leve, a guardare la storia formarsi e formarsi lui stesso nella storia. Hanno sempre un grande fascino i racconti delle vite minime, personali, quando incrociano i grandi momenti collettivi. Buccini avanza con lo sguardo timoroso e spavaldo al tempo stesso, quello di un giovane trentenne uscito da pochi anni dalla scuola di giornalismo, approdato dopo un po' di gavetta al Corriere della Sera. È una epopea di capicronisti burberi e leali, come Ettore Botti, altro napoletano (calvinista) a Milano, detestato, temuto, amato, rispettato, quasi un prototipo di giornalista della fatica e del sacro fuoco, che muore troppo presto, anche un po' di solitudine. Buccini ci porta dentro la formazione di un giornalista, ed è molto affascinante questo viaggio nella professione. È un libro che deve leggere chi vuole fare questo mestiere: anche se il mondo è cambiato, sono cambiati i giornali, non è cambiato lo spirito, direi l'anima, del mestieraccio, e qui emerge tutta, col suo carico di dubbi, paure, guasconerie, sfide, trucchi, sussulti di coscienza, agendine nascoste, questioni di principio, vittorie, sconfitte, quasi mai un pareggio. L'esperienza di Buccini in quella sala stampa del Palazzo di Giustizia milanese, proprio quando da lì sta per venire giù il mondo, viene raccontata come deve essere: un cammino di formazione. 

Un romanzo dove i protagonisti sono colleghi come Peter Gomez (stessa scuola, quasi compagni di banco). E Piero Colaprico, Luca Fazzi, un laborioso e sardonico Alessandro Sallusti: rivalità, ostilità, amicizie, rispetto. E per una volta sullo sfondo, strano a dirsi, i protagonisti di quella storia. I politici, come Pillitteri, Tognoli, ovviamente Craxi. I magistrati, con i loro caratteri, raccontati sul particolare, come Di Pietro, Borrelli, Colombo, Davigo, D'Ambrosio, ma anche Ghitti, e la Boccassini, il suo atto d'accusa dopo la morte di Falcone, e l'amarezza di Falcone stesso, quando riceve al Ministero della Giustizia, guidato dal socialista Martelli, atti da Milano senza gli allegati, perché magari poteva spifferarli proprio ai socialisti. Lui. Falcone. 

E raccontata oggi, questa storia, ti mette davanti alla realtà a volte misera degli uomini, piccola, incapace di leggere la grandezza quando questa si manifesta. Tutto il libro di Buccini, seguendo un appassionante registro cronografico - dai primi anni Novanta con un capitolo finale sui 30 anni dopo - è una saggia mescolanza tra fatti minimi e fatti grandi, con l'inchiesta che parte timida, con la disillusione dei capi, quella Duomo connection che sfiora i vertici e tutti credono vada a tacere come sempre, fino a Mario Chiesa, con quella parola (mariuolo) che se Craxi non avesse pronunciato, forse non si sarebbe aperto il libro delle confessioni, tenuto ben vivace dal poliziotto Di Pietro. Insomma, c'è tutta la storia, nel racconto di Buccini, ma c'è soprattutto uno sguardo diverso. Muta il punto di vista rispetto a come ci è stata raccontata Mani pulite fino a oggi. Non è un resoconto esterno ma un origliare dalla stanza accanto. Sembra di stare lì, vicino alla 254 (ufficio laboratorio di Di Pietro), sembra di sentire le urla, sembra di capire, da un caffè al bar, da una telefonata a gettoni, da un dubbio, dalla paura di prendere un buco, dal titolo sparato con coraggio, che la storia poi quando si forma, lo fa proprio così: piano, lenta, dubbiosa, a piccoli passi sulle spalle degli uomini come Giancarlo Siani, che viene citato spesso, o come lo stesso Buccini - che imparano a fare tutto quello che stanno facendo già. 

Gli anni delle Mani pulite in un libro di revisionismo (e pentitismo) giornalistico-manettaro. SALVATORE MERLO il 2 novembre 2021 su Il Foglio.

Da Davigo a Mieli, da Borrelli a Boccassini: l'ultima opera di Goffredo Buccini ripercorre gli anni di Tangentopoli. Nei suoi punti più illuminanti, non mancano i ripensamenti di un cronista di quel “pool di giornalisti “che alla procura di Milano affiancò il “pool dei magistrati”

Quando la cacciò dal pool antimafia di Milano, nel 1991, Francesco Saverio Borrelli spiegò la scelta con questo motivo dichiarato: “L’individualismo, la carica incontenibile di soggettivismo, di passione, la non disponibilità al lavoro di gruppo… La mancanza di freddezza e di controllo nervoso… La scarsa volontà di porre in comune risultati, riflessioni e intenzioni”. Questo ritratto di Ilda Boccassini fatto dal procuratore Borrelli, ritratto in cui non si faticherà a riconoscere ancora oggi l’ex magistrato impegnata a raccontarsi in televisione da Enrico Mentana pure ieri sera come protagonista principale della storia d’Italia degli ultimi trent’anni (fino al cattivo gusto di strumentalizzare il nome di Giovanni Falcone per farsi pubblicità), ebbene questo ritratto così calzante e attuale è contenuto in un bellissimo libro di Goffredo Buccini, uscito da poco per Laterza: Il tempo delle mani pulite (1992-1994). 

Si tratta della biografia d’una procura, quella di Milano, fotografata negli anni determinanti in cui crollava la Prima Repubblica ma si ponevano anche le premesse per la delegittimazione cui sarebbe incorsa la magistratura italiana negli anni immediatamente successivi, fino a oggi, tra eccessi di protagonismo, inchieste farlocche, uso politico dell’azione giudiziaria, carrierismo e quant’altro. Un libro in cui, dunque, ricorrono oltre a quello di Ilda Boccassini soprattutto i nomi dei protagonisti di allora, da Francesco Greco a Piercamillo Davigo, fino a Gherardo Colombo: l’unico pm  del pool  che si è elegantemente sfilato dalla magistratura prima che emergesse il marciume. Lui infatti usciva da galantuomo, mentre Davigo e Greco quella stessa magistratura la scalavano (Di Pietro aveva già fatto in tempo a fare due volte il ministro). 

Ma quello di Buccini, oggi inviato del Corriere della Sera, è forse soprattutto un interessante diario a ritroso di quel periodo. E’ la storia ri-raccontata, riletta (o meglio rivissuta) da parte di uno dei giovani cronisti che in quegli anni di furore cavalcarono professionalmente il drago giudiziario entrando a far parte, a Milano, del “pool di giornalisti “che affiancava il “pool dei magistrati” e che dunque offriva quotidianamente scalpi di democristiani e socialisti a un’opinione pubblica assetata di sangue. A trent’anni di distanza Buccini (che con Gianluca Di Feo diede sul Corriere della Sera la notizia del primo avviso di garanzia a Berlusconi nel 1994) fa dunque un prezioso, documentato, vivace – e onesto – esercizio di revisionismo sugli eccessi giudiziari e sul ruolo militante dell’informazione in quegli anni. Persino sul suo giornale, il Corriere diretto da Paolo Mieli. 

Anche se l’autore non lo ammetterebbe nemmeno a se stesso. “Sarebbe ipocrita negare che, a parte il mio collega Michele Brambilla, un cattolico per bene vicino a Comunione e liberazione, noialtri abbiamo quasi tutti, chi più e chi meno, un percorso di formazione che viene da sinistra”, scrive infatti a un certo punto Buccini con il passo appunto del diario. E poi: “In qualche modo l’inchiesta contiene almeno in potenza la conferma del male che abbiamo sempre pensato di certi socialisti craxiani traditori della nostra causa, certi andreottiani mafiosi, certi imprenditori tentacolari e, in generale, di un potere costituito che sempre si oppone alle ‘magnifiche sorti e progressive’ di cui abbiamo deciso di essere alfieri sin dei licei e delle università”. E ancora: “Bisogna ammettere che dall’arresto di Chiesa in avanti abbiamo perso qualcosa di essenziale della nostra funzione, guardando troppo spesso in una sola direzione e non consentendo a tanti lettori moderati non militanti di formarsi un’opinione davvero indipendente”. Ecco, questo grado di consapevolezza e di onestà ce l’hanno avuto in pochi finora. Tra i magistrati, nessuno.  

Salvatore Merlo. Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.

Mani pulite, coscienza sporca: analisi della rivoluzione per via giudiziaria. GIOVANNI FIANDACA il 19 novembre 2021 su Il Foglio  

La presunzione di potere rivoluzionare un paese intero per via giudiziaria si è rivelata uno zibaldone di errori e giudizi sommari. Il gran libro di Goffredo Buccini, entusiasta della prima ora convertito al realismo 

Èancora diffusa una narrazione, alimentata non a caso da alcuni esponenti della magistratura, noti anche per la loro esposizione mediatica, che somiglia a una favola e che può essere sintetizzata così. Ci sono stati negli ultimi decenni, e ci sono tuttora nel nostro paese, pubblici ministeri coraggiosi che hanno tentato e tentano di esercitare un controllo di legalità esteso al potere politico-amministrativo e a quello economico-finanziario. Ma gli appartenenti agli ambienti che temono questo controllo, simili ai cattivi delle favole che si coalizzano contro i buoni, fanno di tutto per bloccare le indagini giudiziarie, in combutta con criminali di varia specie e con la collaborazione di settori istituzionali “deviati” (a riprova della persistente attualità di questa vulgata si veda, ad esempio, l’intervista rilasciata da Nino Di Matteo al Fatto del 1° novembre scorso).    

Che le cose possono essere abbastanza più complicate di quanto vorrebbero far credere i narratori della favoletta moralisticamente semplificatrice di cui sopra ce lo dicono però la storia e la stessa esperienza umana, da cui traiamo l’insegnamento che quasi mai il bene sta tutto da una parte e il male dall’altra. Di questa vecchia verità fornisce significative conferme il recente libro “Il tempo delle Mani Pulite”, scritto da Goffredo Buccini ed edito da Laterza (ne ha già parlato su questo giornale, definendolo bellissimo e prezioso, Salvatore Merlo in un articolo del 2 novembre). In effetti, si tratta di un libro ben fatto e la cui lettura risulta utile sotto più angolazioni. Non solo cioè in chiave di importante testimonianza, essendo stato Buccini trent’anni fa un componente di primo piano del pool di “giornalisti ragazzini” addetti a seguire le indagini su Tangentopoli della procura milanese, capeggiata allora da Saverio Borrelli e simbolicamente rappresentata soprattutto da Antonio Di Pietro. Il maggiore valore del libro risiede, anche a mio avviso, nell’avere Buccini sottoposto a revisione critica, con lucidità e onestà intellettuale, un’esperienza giovanile di lavoro giornalistico che lo aveva entusiasmato e profondamente coinvolto, anche in termini di piena condivisione ideale di una “rivoluzione giudiziaria” che appariva – almeno nei primi tempi – davvero volta e idonea a promuovere quel rinnovamento politico e quella rigenerazione morale di cui un’Italia percepita come sempre più marcia e corrotta avrebbe avuto bisogno. Solo che, riconsiderando a tre decenni di distanza quella straordinaria stagione di grandi aspettative (destinate però a rivelarsi in gran parte illusorie), Buccini prende realisticamente atto che tentare di “raddrizzare per via giudiziaria il legno storto dell’umanità è sempre una pratica che rischia di sfuggire al controllo di chi la applica”. Ma vi è di più. Anche se nel libro lo si adombra o accenna più di quanto non lo si riconosca espressamente, l’analisi che vi è sviluppata finisce anche col suffragare la fondatezza della tesi che fa risalire all’esperienza di Mani Pulite la genesi o l’aggravamento di alcune delle principali patologie di cui il sistema giudiziario e, più in generale, il nostro complessivo sistema democratico continuano a soffrire. Di quali patologie si tratti è facilmente intuibile, ma forse non è superfluo esplicitarle ancora una volta.    

Come primo fenomeno patologico consideriamo i danni o pericoli prodotti dal circuito mediatico-giudiziario, che la lettura del libro qui in discussione pone in evidenza in maniera difficilmente eguagliabile. La lucida e onesta narrazione di Buccini fornisce, infatti, un’emblematica riprova di come la cosiddetta rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite non si sarebbe potuta realizzare senza il complice sostegno sistematico di un gruppo di giovani giornalisti: per lo più, e non a caso, con formazione politica di sinistra, in qualche modo pregiudizialmente convinti che l’inchiesta milanese potesse confermare diffusi sospetti preesistenti su malaffari e malefatte – per dirla con le parole del libro – di certi socialisti traditori della causa, di certi andreottiani maleolenti e di certi imprenditori tentacolari (un pregiudizio, questo, che – come oggi Buccini riconosce – rischiava di inficiare l’obiettività del lavoro giornalistico nei suoi successivi sviluppi). Ma Mani Pulite ha anche fortemente contribuito a quella mediatizzazione del processo penale, soprattutto per via televisiva, che ha determinato il duplice effetto, da un lato, di proiettare fuori dall’aula di tribunale lo scenario giudiziario e, dall’altro, di rendere i magistrati d’accusa personaggi sempre più simili a tribuni del popolo che impersonano ruoli politico-mediatici che si sovrappongono confusivamente ai ruoli giuridico-istituzionali. In particolare poi la trasmissione televisiva del processo Cusani, riletta in una prospettiva sociologica e semiologica, ha dato esemplare dimostrazione dell’attitudine di un processo mediatizzato gestito con abilità scenica a fungere da “rituale di degradazione” in grado di discreditare agli occhi del pubblico, al di là dei singoli imputati coinvolti, un’intera classe politica simbolicamente additata come corrotta e imbelle (come notato nel libro di Pier Paolo Giglioli e altri, “Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani”, il Mulino, 1997).    

Un secondo fenomeno sotto diversi aspetti patologico, strettamente connesso al primo, è costituito dalla tendenza a concepire e utilizzare il processo penale non solo come mezzo di lotta contro fenomeni di criminalità sistemica, ma al tempo stesso come strumento di rinnovamento politico e moralizzazione collettiva (anche di questa tendenza o tentazione, il libro di Buccini offre numerosi riscontri concreti, sia espliciti sia impliciti o per facta concludentia). Sappiamo che in proposito, specie sul versante magistratuale, si suole ricorrere a un ben noto argomento autodifensivo: è lo stesso potere politico a delegare di fatto ai giudici la gestione dei mali sociali che esso non riesce ad affrontare e i problemi che non riesce a risolvere; per cui non è la magistratura a compiere invasioni di campo, bensì una politica debole e inetta a non avere la capacità di assolvere i propri compiti, e meno ancora di rinnovarsi e recuperare credibilità anche morale. E, quanto alla lamentata ispirazione politica di alcune inchieste, si obietta che le ripercussioni politiche rappresentano un inevitabile effetto oggettivo delle indagini che vertono sull’operato dei politici indagati, mentre i magistrati inquirenti non perseguirebbero intenzionalmente alcuno scopo politico trascendente il doveroso controllo di legalità spettante al potere giudiziario. Ora, a parte l’indeterminatezza e l’ambiguità del concetto di controllo di legalità (vuol dire che le procure dovrebbero attivarsi pure in via preventiva, per andare alla ricerca di eventuali ipotesi di reato, e non già soltanto quando se ne siano in concreto profilati i possibili presupposti, così trasformando l’attività giurisdizionale in attività amministrativa di polizia?), anche queste autogiustificazioni, a ben vedere, rischiano di somigliare a favole. Non perché non sia vero che vi è stata e continua a esserci una certa tendenza della politica a scaricare sui magistrati responsabilità che non riesce ad assumersi o compiti che non è in grado di svolgere. Ma perché è un’ipocrita bugia che non vi sia stata e non vi sia, a maggior ragione nei settori più militanti della magistratura, la volontà soggettiva di orientare anche politicamente l’azione giudiziaria: intendendo per orientazione politica sia l’obiettivo  (in teoria censurabile) di influire su dinamiche e scelte politico-partitiche contingenti, sia una mirata valorizzazione (in teoria ammissibile o comunque meno censurabile) delle accresciute dimensioni di politicità intrinseche a un’attività giurisdizionale esplicata nell’orizzonte della democrazia costituzionale contemporanea. 

Riportando il discorso su Mani Pulite, sarebbe da ingenui o da sprovveduti interpretare lo stile operativo di un pm come Di Pietro e dei colleghi al suo fianco come del tutto circoscritto nei limiti di una rigorosa e asettica ortodossia tecnico-giuridica, riluttante a farsi carico di valutazioni e preoccupazioni politiche in realtà anche esterne rispetto al momento investigativo-processuale in sé considerato: riferite cioè alla concreta incidenza che lo sviluppo e la direzione delle indagini giudiziarie avrebbero potuto esercitare allora sui partiti politici in profonda crisi e sul loro possibile destino. In realtà, funge da spia abbastanza sintomatica del fatto che Mani Pulite perseguiva obiettivi di rinnovamento politico (trascendenti, appunto, la funzione istituzionale di perseguire reati e condannarne gli autori) lo stesso linguaggio usato dai magistrati protagonisti, come emerge ad esempio persino dalle parole di un gip come Italo Ghitti, che Buccini riporta come emblematiche altresì di un ruolo di giudice vissuto in rapporto più di stretta contiguità che non di distanza critica rispetto ai colleghi pubblici ministeri: “(…) il nostro obiettivo non è rappresentato da singole persone, ma da un sistema che cerchiamo di ripulire”. Affermazione, questa, che in bocca a un giudice avrebbe in teoria dovuto sollevare reazioni pubbliche (in realtà mancate) ancora più vivaci di quelle che si sarebbero dovute levare contro il proposito, ancora più esplicito e drastico, di “rivoltare l’Italia come un calzino”, più volte com’è noto enunciato dal pubblico accusatore Piercamillo Davigo.    

Considerato nell’insieme, il libro di Buccini potrebbe costituire una fonte preziosa di riferimenti, dati, informazioni e spunti di analisi potenzialmente valorizzabili anche in vista delle più volte auspicate (ma finora compiute soltanto in piccola parte) indagini scientifiche a carattere multidisciplinare (giuridico, economico, politologico, sociologico e psicologico) su Mani Pulite come terreno privilegiato di osservazione e studio dei rapporti di scambio e delle relazioni ambigue tra – per dirla con Pierre Bourdieu – il campo della giustizia penale e gli altri campi con esso interagenti. Infatti, Buccini ben ricostruisce le situazioni e occasioni in cui i diversi componenti del pool milanese, agendo in gruppo o come singoli, hanno in formale veste giudiziaria svolto funzioni e realizzato condotte (anche extrafunzionali) dotate di una sostanziale valenza politica in vari sensi e in varie direzioni. Si considerino – oltre alle performance investigative o processuali con le quali in particolare Tonino Di Pietro si atteggiava a tribuno del popolo o a eroico vendicatore delle ingiustizie e dei soprusi compiuti dai politici corrotti, assurgendo così a simbolo di una sperata palingenesi – le spettacolari reazioni pubbliche o alle forme meno eclatanti di intervento di cui lo stesso Di Pietro da solo, o più spesso insieme ad altri colleghi, si è reso protagonista per bloccare riforme governative considerate inaccettabili o per promuovere invece riforme gradite allo stesso pool milanese: si allude al comunicato stampa contro il pacchetto di modifiche abbozzato dal neo guardasigilli Conso per depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti; al successivo pronunciamento televisivo contro il decreto Biondi volto a ridurre la possibilità di ricorrere alla custodia cautelare in carcere; e, in forma questa volta propositiva, alla presentazione da parte di Di Pietro all’annuale forum di Cernobbio di una proposta (destinata in realtà a rimanere tale) di un  disegno di legge di riforma dei reati di concussione e corruzione, recante altresì innovazioni in materia di benefici premiali per la collaborazione giudiziaria, elaborato dalla procura milanese insieme a un gruppo di professori universitari e avvocati e finalizzato ad agevolare la chiusura dei conti con gli episodi corruttivi del passato. A ben vedere, non è difficile individuare in queste prese di posizione del pool di Mani Pulite, miranti a interdire riforme avversate oppure a sollecitare riforme auspicate, significativi precedenti di una tendenza, successivamente consolidatasi nel potere giudiziario, a pretendere di sindacare in via preventiva il merito delle scelte politiche in materia penale, in teoria di esclusiva competenza del Parlamento e del governo, con conseguente (ma di fatto prevalentemente tollerata!) violazione del principio costituzionale della divisione dei poteri.    

Ma, come bene emerge anche dal libro di Buccini, una confusa sovrapposizione di ruoli giudiziari e ruoli sostanzialmente politici dipendeva anche dal fatto che in particolare Di Pietro e Davigo mantenevano rapporti sotterranei di vicinanza, non esenti da inevitabile ambiguità, con settori e personaggi del mondo politico di allora, perché in qualche modo e in qualche misura tentati di lasciare la toga per transitare in politica, cedendo alle offerte (a loro volta tutt’altro che disinteressate) di parti politiche desiderose di sfruttare a proprio vantaggio l’ampio consenso popolare acquisito dai due pubblici ministeri grazie alla guerra contro Tangentopoli. Così stando le cose, non solo si incrementava la sostanziale valenza politica dell’azione del pool, ma finivano con l’esserne corresponsabili anche quei settori politici che cercavano di attrarre nelle loro file i magistrati più in vista e più idolatrati. Com’è comprensibile, rispetto alla tentatrice scesa in politica hanno giocato un ruolo ancora più determinante le diverse caratteristiche psico-antropologiche dei singoli componenti del pool, e ciò è comprovato dalla scelta di lasciare la toga infine compiuta dall’eroe molisano e dal successivo andamento della sua non certo luminosa e gloriosa carriera politica.   

Quanto alla funzione di moralizzazione pubblica (complementare a quella di presunto rinnovamento politico), che non pochi magistrati specie dopo Mani Pulite ritengono rientrare nel loro ambito di competenze, tanto più se impegnati nel contrasto della corruzione o delle mafie, merita di essere ricordato un libretto di Alessandro Pizzorno dal titolo emblematico: “Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù”, edito da Laterza nel 1998. Da sociologo, Pizzorno non affronta il problema giuridico-costituzionale relativo al senso e ai limiti di una moralizzazione collettiva da perseguire con gli strumenti della giustizia penale, perché ciò che più gli interessa non è il piano deontologico: quel che più lo intriga è indagare il crescente spazio che i giudici sono di fatto andati conquistando nella sfera pubblica esterna alle aule giudiziarie, e nella comunicazione mediatica, quali autorità beneficiarie di consenso da parte della pubblica opinione anche nel ruolo di custodi o controllori delle virtù morali degli uomini politici e, più in generale, degli esponenti del ceto dirigente. Senonché, a Pizzorno è facile rivolgere – a maggior ragione oggi – più di una obiezione. Sullo stesso piano sociologico, è pressoché scontato obiettare che è quantomeno dubbio che il ceto giudiziario visto nel suo insieme si distingua per un livello di moralità superiore rispetto a quello della media dei cittadini (sembrerebbero confermarlo proprio certi comportamenti moralmente discutibili o deontologicamente scorretti dello stesso magistrato-simbolo della  rivoluzione giudiziaria milanese, di cui ben riferisce Buccini), per cui non è detto neppure che un magistrato abbia sempre una capacità di giudizio morale comparativamente più elevata (e ciò va rilevato anche a prescindere da recenti fenomeni di grave decadimento culturale e degrado morale registratisi in seno alla nostra magistratura). Premesso questo, rimane l’ulteriore problema – di natura appunto giuridico-costituzionale – di capire e specificare cosa significhi “virtù morale” di un politico nella prospettiva di un magistrato: vuol dire semplicemente che il politico deve essere onesto, non deve rubare e non deve corrompere e farsi corrompere, o significa qualcosa di più impegnativo? Se la risposta dovesse essere nel secondo senso, dubito che un giudice possegga una speciale legittimazione e una speciale competenza per formulare nuove regole morali nell’ambito di una società pluralistica come la nostra.  

Come sappiamo, tra i rilievi critici mossi all’esperienza di Mani Pulite ve ne sono alcuni che attengono più direttamente alle modalità di utilizzazione degli strumenti penalistici, sul duplice terreno sostanziale e processuale: ci si riferisce a una certa tendenza a forzare o manipolare l’interpretazione-applicazione di classiche figure di reato come la concussione e la corruzione, a un uso spregiudicato o ricattatorio a fini confessori della custodia cautelare in carcere, a un’insufficiente attenzione alle reazioni psicologiche e al conseguente rischio suicidiario di alcuni indagati e imputati (come sarebbe dimostrato dai non pochi suicidi effettivamente verificatisi). Anche di tutto questo troviamo più di una eco nella rivisitazione critica di Buccini, il quale fa – tra l’altro – questa osservazione che vale la pena riportare: a Di Pietro interessava “non tanto processare i singoli politici quanto sputtanare il sistema dei partiti”. Quale riprova migliore di questa si potrebbe ottenere di un possibile tradimento degli scopi fisiologici del diritto e del processo penale consumato in nome di eteronome finalità lato sensu politiche? Sempre a proposito di questo uso non canonico della giustizia penale, è il caso di richiamare un passo contenuto in una drammatica e commovente lettera scritta prima di togliersi la vita dal deputato socialista Sergio Moroni (indagato per avere raccolto mazzette non per sé ma per il partito) e indirizzata a Giorgio Napolitano, a quel tempo presidente della Camera: riferendosi all’esigenza da lui stesso condivisa di un diverso modo di operare dei partiti, Moroni rilevava che “non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito delle ‘decimazioni’ in uso presso alcuni eserciti”. Mi ha colpito, e continua a colpirmi questa idea di una sorta di decimazione realizzata per via di processi sommari e poco individualizzati: vi rinvengo una curiosa e inquietante coincidenza con l’impiego dello stesso termine da parte del presidente della Corte suprema Riches nel celebre dialogo con l’ispettore Rogas inscenato nel romanzo sciasciano “Il contesto”, in cui appunto il presidente della corte azzarda la pessimistica e paradossale previsione che nel futuro “la sola forma di possibile giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra si chiama decimazione”. Per fortuna, questa tragica previsione non si è avverata, ma resta il fatto che non è soltanto la pur sempre eccezionale stagione di Tangentopoli ad avere evidenziato in forma macroscopica un approccio molto sommario e affrettato alla questione del come punire. Come ho rilevato in un precedente articolo su questo giornale (il Foglio del 25 ottobre 2021), a tutt’oggi la determinazione concreta della pena da parte degli stessi magistrati giudicanti non è per lo più fatta oggetto di quella scrupolosa ponderazione che sarebbe in teoria auspicabile.  

In un precedente articolo su Mani Pulite, a venticinque anni di distanza (sul Foglio del 30 marzo 2017), avevo provato a stilare un bilancio complessivo degli esiti pratici anche di lunga scadenza di una rivoluzione politica tentata per via giudiziaria, che specie all’inizio tante speranze aveva acceso a dispetto della paradossale contraddittorietà insita nel considerare “rivoluzionaria” un’attività repressiva di fatti criminosi, sia pure ritenuti sistemici. Da allora a oggi, quel bilancio mi sembra ulteriormente avvalorato dalle conclusioni che Buccini trae nel suo libro. In sintesi, ribadirei che quella cosiddetta rivoluzione ha prodotto conseguenze fallimentari, o comunque negative su più versanti. E infatti non ha certo eliminato il fenomeno della corruzione, ma ha forse contribuito a determinare un mutamento delle sue modalità di manifestazione (per condivisibili rilievi sulla attuale fisionomia della corruzione in Italia si veda il recente intervento di Giuseppe Pignatone su Repubblica del 30 ottobre scorso); in luogo di promuovere un rinnovamento politico degno di questo nome, ha finito col (con)causare effetti politicamente regressivi, definiti persino “disastrosi”, ad esempio da Sergio Romano (sul Corriere della sera del 19 settembre 2016), alimentando una rozza e velleitaria antipolitica di ispirazione populista; ha inoltre, sul terreno dell’amministrazione della giustizia, fomentato il fenomeno del populismo giudiziario, inducendo parte dei magistrati  a ricercare il consenso popolare come fonte di vera legittimazione di un’azione giudiziaria che si vorrebbe pur sempre, e nonostante ogni contraria indicazione,  orientata al cambiamento  e alla moralizzazione (da qui l’emersione di nuove figure di magistrati d’accusa, imitatori più o meno credibili di Tonino Di Pietro, nell’ambiguo ruolo di ircocervi metà attori giudiziari e metà attori politico-mediatici).  

Certo, di questa eredità complessivamente fallimentare la causa unica non può essere ravvisata in un tentativo, invero di problematica idoneità in partenza, di fare la rivoluzione con procure e tribunali. I fattori causali coinvolti nelle complesse dinamiche politiche successive a Mani Pulite sono indubbiamente molteplici e chiamano in causa la responsabilità di diversi attori, non solo politico-istituzionali. Verosimilmente, ha ragione Goffredo Buccini nel rilevare nell’ultimo capitolo del suo libro: “Nessun problema appare risolto trent’anni dopo, perché il problema non erano i partiti, il problema siamo noi”.

Milano 1992, sogni e illusioni di una generazione tradita. VENANZIO POSTIGLIONE su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. 

Goffredo Buccini era un giovane cronista quando scoppiò Mani Pulite. Ora ricostruisce quella stagione in un libro in uscita per Laterza 

Bettino Craxi entra a Palazzo di giustizia per l’interrogatorio del processo Enimont. È il 17 dicembre 1993 (Fotogramma)

Il momento. Un pezzo di storia italiana. Un processo che diventa show e una catarsi che rimane sospesa: perché si entra con la bandiera del bene e si esce con quella del dubbio. La fila per entrare, l’aula strapiena, la diretta televisiva, Di Pietro interroga Craxi in nome di (quasi) tutto il popolo italiano, Bettino allunga i tempi con le pause, la rivoluzione sta uccidendo i vecchi partiti e le macerie porteranno un bel sole o ancora ombre, nessuno può dirlo.

«Il tempo delle mani pulite» di Goffredo Buccini (Editori Laterza, pagine 248, euro 18)

Quel 17 dicembre 1993 la Milano da bere sembra lontana un secolo e appare (appare) come la peste nera, il processo Cusani è la rappresentazione della politica alla sbarra, la capitolazione di Forlani con la bava alla bocca ha seppellito la Dc e forse anche la pietà cristiana. Ma arriva Craxi e lo spartito salta in aria. Di Pietro appare timido, prudente, quasi impaurito, un mistero che resta un mistero, mentre il leader socialista ripete che tutti sapevano, la politica ha un costo, si doveva competere con i democristiani e i comunisti. Forse quel giorno Tonino si immaginò politico e Bettino si vide già esule, noi capimmo che Tangentopoli aveva raggiunto la vetta e imboccava la discesa.

Goffredo Buccini è inviato speciale ed editorialista del «Corriere della Sera»

È anche un saggio, certo, con il merito della ricerca e il culto dei fatti. Ma è soprattutto il romanzo di una stagione e di una generazione, la biografia di un Paese che ha chiesto la ghigliottina quando colpiva i politici e i manager e poi l’ha rinnegata quando inseguiva le persone comuni. Goffredo Buccini ha scritto Il tempo delle mani pulite (Editori Laterza) perché ha vissuto quell’epoca e poteva raccontarla in modo diretto e appassionato. Perché sono passati già trent’anni e ci fa un certo effetto. Ma anche perché lo doveva a se stesso. Il cronista oggi editorialista del nostro «Corriere della Sera» non è un pentito, non banalizziamo: però ogni passaggio chiave diventa un punto interrogativo e a volte anche un’autocritica. Con l’espressione di pagina 34, «il senso della misura è tra le prime vittime di questa ubriacatura collettiva», che diventa la linea storica e psicologica del saggio-romanzo. I giornalisti ragazzini furono i testimoni ma spesso pure i combattenti di un’epopea: come buona parte del Paese, peraltro. Il tempo delle mani pulite è anche l’età dell’illusione.

Una cronaca che intanto è diventata storia. Trent’anni sono tanti, lo stesso tempo che corre dal 1945 al 1975, quando i genitori raccontavano la fine della guerra a noi bambini e sembrava un altro mondo. Nel libro i personaggi sono vivi come a teatro, la scrittura è nitida, sempre piacevole, senza diventare semplicistica, e l’affresco funziona perché è un pezzo di noi tutti. Buccini era in prima fila, anzi tra la prima fila e il palco, ogni tanto nei camerini: il pool dei cronisti a Palazzo di giustizia, le interviste esclusive e dirompenti a Borrelli, la caccia ai latitanti a Santo Domingo, lo scoop dell’avviso di garanzia a Berlusconi con il collega Gianluca Di Feo in una delle notti più difficili e tormentate di via Solferino.

«Il telefono squilla presto e troppo», scrive Buccini. È la mattina del 18 febbraio ’92, la sera prima hanno arrestato Mario Chiesa, atto d’inizio. A chiamare è Ettore Botti, capo della cronaca di Milano del «Corriere», talent scout per natura e cultura: fiducia nelle regole e nel giornalismo senza ideologie e pregiudizi, scetticismo sul mito della città splendente, difesa a oltranza della propria squadra di veterani e ragazzi che lavorano assieme. Botti manda Buccini a Palazzo di giustizia e gli cambia la vita: la caduta di Chiesa è l’avvio della voragine, la prima Repubblica finiva e non sappiamo più dire se siamo nella seconda o nella terza, ci siamo persi da qualche parte.

Carcere, carcere, carcere. Ogni giorno. «Ecco la dottrina Davigo, l’arresto e la confessione come passaggi necessari a spezzare il vincolo tra tangentisti». Il ’92 italiano è il pool di Mani Pulite, con Borrelli alla guida e Di Pietro che spacca tutto, è la maglietta Tangentopoli con i luoghi delle mazzette, è il cordone di gente comune attorno al Palazzo, è l’avvicinamento delle inchieste a Bettino Craxi, è la fila in Procura di «un popolo di confidenti e flagellanti», è la giustizia sostanziale (tutti i ladri in galera) che forza le procedure e le consuetudini. I pm non sono magistrati ma «i vendicatori per anni di soprusi, di corruzione, di inefficienza». E qui Buccini ci va dritto: «Noi giornalisti sicuramente sposiamo la militanza. E noi ragazzi del pool di cronisti ne siamo l’avanguardia, certi, certissimi, di aver ragione». Non solo. «Siamo eroi del nostro stesso fumetto: se la nostra verità è vera, perché mai cercarne un’altra?». C’era da cambiare l’Italia, come dicono i reduci di Mediterraneo, il film di Salvatores.

Il socialista Sergio Moroni, indagato, si uccide. La lettera che lascia è una frustata: «Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da pogrom nei confronti della classe politica». Craxi dice che «hanno creato un clima infame», Gerardo D’Ambrosio replica che «il clima infame l’hanno creato loro, noi ci limitiamo a perseguire i reati». E i giovani socialisti contro-replicano: «Si è caricata l’inchiesta milanese di un improprio valore morale, attribuendole un ruolo di vendetta popolare». Una guerra civile di parole. Ma si sarebbero suicidati anche Gabriele Cagliari in una cella di San Vittore, Raul Gardini a casa sua, e altri ancora.

Il decreto Conso nasce e tramonta subito per l’opposizione del pool. La piazza ribolle, su Craxi piovono le monetine, il leghista Leoni Orsenigo tira fuori il cappio in Parlamento. «La rivoluzione giudiziaria non sembra andare esattamente nel senso di un allargamento dell’area democratica del Paese…». Un labirinto. Il Paese è corrotto (vero), i pm indagano (giusto), ma la nuova epoca comincia a fare spavento. Al di là delle inchieste e delle intenzioni, l’età della pancia nasce in quei giorni, non si è ancora conclusa.

Il giorno dei funerali dopo la strage di via Palestro, a Milano, ecco Borrelli, Colombo e Di Pietro che percorrono la Galleria a piedi. La gente li chiama, li segue, li abbraccia, un tripudio di entusiasmo e di rabbia: «La forca, la forca, Di Pietro mettili alla forca!». Borrelli è il più lucido: «Non è giusto che sia così… ma non è colpa nostra». La critica alle manette facili evapora nell’ovazione di una folla che non chiede garanzie ma invoca il patibolo. Sergio Cusani, prima del processo-evento («un’autobiografia nazionale»), si confida con l’autore del libro: «Il Paese dopo Tangentopoli potrebbe essere assai peggio di quello che c’era prima». Il dibattimento consacra il personaggio Di Pietro e chiude cinquant’anni di storia politica italiana, con i suoi partiti, le sue liturgie, il suo sistema proporzionale, il suo stesso linguaggio educato e fumoso.

Tocca al «nuovo miracolo italiano», alla nuova protesta del pool (contro il ministro Alfredo Biondi), all’avviso di garanzia a Berlusconi, all’addio di Tonino Di Pietro. Gli aneddoti e i retroscena sono tanti, le battute di Paolo Mieli, allora direttore, sono imperdibili: ma non avrebbe senso bruciare i contenuti del libro. Mani pulite rivoluzione vera o scoperta dell’acqua calda? Svolta sacrosanta o mutilata? Magistrati santi o vendicatori? Il punto, scrive Buccini, è che «tanti ragazzi negli anni Novanta hanno sognato (sbagliando, certo) una palingenesi nazionale». La stiamo ancora aspettando.

Trent’anni dopo non ci sono più Borrelli e D’Ambrosio. Di Pietro passa tanto tempo a Montenero di Bisaccia, partenza e ritorno. Greco e Davigo hanno rotto in modo clamoroso: metafora per una stagione e forse una categoria. Colombo gira l’Italia e incontra i ragazzi per parlare di legalità, «perché sa da un pezzo che la risposta non può essere giudiziaria». La mattina dopo le manette a Chiesa, il secolo scorso, Ettore Botti chiamò anche chi sta finendo quest’articolo: «Corri al Trivulzio e racconta come hanno preso l’arresto». La voce roca, decisa, profonda, poche parole. Un comandante temuto e amato: allo stesso tempo. Nell’etimologia di nostalgia c’è la parola dolore.

"Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto". Stefano Baldolini su huffingtonpost.it il 22 Ottobre 2021.

Chiacchierata con Goffredo Buccini, autore de "Il tempo delle mani pulite" (Laterza). Sui pm: "L'autonomia va garantita ma col pool ci fu abuso industriale degli arresti". Su Craxi e Di Pietro: "Il 1992 ha illuso una generazione e prodotto il grillismo" .

“Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto”. Non ha mezzi termini Goffredo Buccini, inviato speciale ed editorialista del Corriere della Sera, nel suo “Il tempo delle mani pulite” (Laterza), libro di ricostruzioni, di memoria e di forte autocritica. Testimone dei fatti del 1992-1994, dall’escalation “industriale” degli arresti all’avviso di garanzia all’“uomo nuovo” Berlusconi. Un biennio drammatico che ha lasciato eredità complesse e non ancora risolte. 

Domanda di prammatica: perché è nata Mani Pulite?

“Per una serie di concause, anche internazionali. Dopo la caduta del muro di Berlino gli italiani avevano ripreso a votare liberamente senza ‘doversi turare il naso’, per citare Montanelli. Ma soprattutto perché i soldi erano finiti. Questo è un punto dirimente. I soldi erano il centro dell’accordo fondamentale tra impresa e politica che prevedeva da una parte il finanziamento illecito e dall’altra l’accesso agevolato agli appalti. Era un intero sistema ammalato che a un certo punto si è spezzato, in un momento di grande debolezza della politica. E questo ha fatto sì che la magistratura fosse chiamata a esercitare un ruolo di supplenza che in una città viva ed eticamente reattiva come Milano è diventata l’inchiesta Mani Pulite.”

Quindi il sistema non si è ammalato con Mani Pulite?

“Certamente no. Lo era da un pezzo e produceva consenso politico. Non è un caso che negli anni ’80 abbiamo avuto l’impennata del debito pubblico. Il sistema comprava consenso pompando debito. Comprava il nostro consenso a nostre spese. Dalla fine degli anni ’70 è andato via via avvitandosi su se stesso.”

Mani Pulite inizia il 18 febbraio 1992 con l’arresto dell’ingegner Mario Chiesa. Ma in realtà il presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano non parla per cinque settimane. Poi arriva la parola chiave -“mariuolo” - pronunciata da Bettino Craxi. 

“La vulgata vuole che Chiesa si sia sentito schiaffeggiato da Craxi in pubblico. In realtà penso che l’interpretazione più corretta sia che in quel preciso momento Chiesa percepì il senso di debolezza del leader socialista. Dobbiamo confrontare questa situazione con l’arresto negli anni ’80 di Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese, snodo della circolazione delle tangenti. E soprattutto padre politico di Craxi, che lo andò a trovare in carcere da presidente del Consiglio. Poi lo fece senatore, e l’autorizzazione a procedere venne negata. Fu una manifestazione di forza del sistema straordinaria. Chiesa invece, che non è scemo, capisce che è stato lasciato solo, ha grandi problemi, anche personali, da risolvere e a quel punto comincia a parlare.”

E la slavina ha inizio. Nell’aprile successivo vengono arrestati otto imprenditori. Però a differenza di Chiesa che venne preso, citando Antonio Di Pietro, “con le mani nella marmellata”, i colletti bianchi milanesi non erano in ‘flagranza di reato’. È corretto dire che quello è stato il primo cambio di fase?

“Sì, ed è un cambio di fase clamoroso. L’idea di arrestare degli imprenditori, a Milano, non in flagranza di reato è un salto decisivo. Anche perché deriva sostanzialmente dalle confessioni di Chiesa e quindi apre un meccanismo esponenziale che nel giro di qualche settimana porterà alla grande serie di arresti veri e solo minacciati e alla grande fila di confessioni davanti alla porta di Di Pietro. Ognuno di quegli otto parla di altri otto. In una gigantesca catena di Sant’Antonio, e non è una facile battuta. Non era mai successo.” 

Ma perché si era creata la corsa a confessare?

“Bisogna essere onesti, la paura di essere arrestati è molto forte. E non stiamo parlando di persone della mala milanese, ma di borghesi abituati a una certa rispettabilità, che viene compromessa. Questa cosa peraltro si riverbererà nei suicidi degli indagati. Dopo di che, da un certo punto in poi c’è una sorta di condizionamento ambientale, di una grande bolla dentro cui tutti ci troviamo. Opinione pubblica, indagati, magistrati, giornalisti. È brutto dirlo, ma come in un rito catartico collettivo.

Poi un ruolo decisivo l’hanno giocato i cosiddetti avvocati “accompagnatori” degli indagati alla stanza 254 di Di Pietro, anticipando le istanze dello stesso pm. Lo racconta bene Gherardo Colombo che parla di fila di questi “penitenti” e del problema per il pool di Mani Pulite, siamo nell’estate ’92, di star dietro a questa messe di confessioni, ammissioni, chiamate di correo...”

Il pool si è già formato?

“Il pool nasce verso maggio-giugno per affiancare a Di Pietro, lui stesso non si è mai ritenuto un giurista raffinato, due magistrati di maggiore spessore dal punto di vista giuridico, strutturatissimi, di orientamento politico opposto, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Com’è noto, a coordinare il nucleo storico c’era il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, e l’esperto di reati finanziari, Francesco Greco.”

Un gruppo composito.

“Borrelli era una grande alchimista, grande conoscitore dei suoi pm e dell’animo umano. Bisogna tener conto però che all’inizio a parte Di Pietro nessuno ci credeva, a questa inchiesta. Ed è una delle ragioni per cui i giornalisti che la seguono sono le seconda file della giudiziaria e della cronaca, non le grandi firme. Non ci credeva nemmeno Borrelli che caricava Di Pietro di ‘processetti’. E una delle ragioni per cui lo stesso Di Pietro comincia ad avere relazioni con noi giornalisti è per avere un rapporto strumentale a suo favore.”

Addirittura.

“L’uomo è molto sveglio. Fa uscire piccoli brandelli di notizie, per spaventare questo o quell’indagato, ma soprattutto per mantenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica. E il suo obiettivo era tenere alta l’attenzione per tutto il tempo necessario per produrre effetti ulteriori. Fino alla grande svolta mediatica che arriva il primo maggio ’92 con il sindaco e l’ex sindaco di Milano, Tognoli e Pillitteri, indagati. Quando si capisce per la prima volta dove si stava andando a parare.”

“Solo chi confessa spezza il vincolo associativo: non può delinquere, quindi può uscire di galera”. Il metodo del ‘dottor sottile’ Davigo è efficace. 

“Intendiamoci su Davigo che nonostante si sia perso nelle sue reiterate iperboli per ‘épater le bourgeois’, da piccolo borghese lombardo che ama stupire, ha una fortissima cultura giuridica. Tuttavia, quel metodo era odioso e oggi provocherebbe reazioni molto forti. Ma non era un metodo illegale, com’è stato ampiamente riconosciuto, concorrendo nel manager o nel politico le note ragioni per cui puoi arrestarlo: il pericolo inquinamento prove, di reiterazione di reato e pericolo di fuga. Il problema semmai è l’abuso, è l’uso industriale. Ma questo diventa possibile proprio in virtù della debolezza della politica, del sistema, che non fu in grado di reagire in modo credibile e anzi si divise, e iniziò a scappare da tutte le parti. Anche con una certa miopia, e qui arrivo al discorso di Craxi del luglio del ’92. Alla chiamata di correità, a cui si reagisce o col silenzio o pensando di trarne vantaggio, senza capire che stava saltando tutto.” 

Per parlare di responsabilità, però neanche voi giornalisti che raccontavate Tangentopoli dagli albori avete colto che qualcosa non andava. Che c’erano delle storture, a partire dal metodo, dallì‘abuso ‘industriale’ degli arresti?

“Detto con una battuta, perché in parte su di noi aveva ragione Berlusconi.”

In che senso?

“Quando si è lamentato che i giornalisti sono tutti comunisti, ci è andato vicino. È indubbio che la mia generazione si è formata a sinistra. Il gruppo di ragazzini che seguivamo i fatti di Palazzo di Giustizia di Milano, tutti tra i 28 e i 32-33 anni, a parte rare eccezioni, era fortemente orientato a sinistra. Cresciuto in ambienti politici, universitari, liceali, di sinistra. Un grande brodo di coltura dove più o meno si pensava che Craxi fosse un manigoldo, Ligresti fosse un imprenditore della Piovra, che gli andreottiani fossero tutti marci. Così quando ti trovi a seguire un’inchiesta che ti racconta esattamente questo, tu pensi ‘hai visto, hai trovato la verità, non c’è altra verità da cercare’. Nel libro uso l’espressione: ‘Eravamo gli eroi del nostro stesso fumetto’.”

Sintesi notevole.

“Allora, io ho sempre pensato che uno che ha vent’anni e vuole fare il giornalista e non vuole cambiare il mondo, a cinquanta fa una brutta fine, perché è un mascalzone. A vent’anni devi avere dei sogni, delle utopie. Il problema è che quando ti sembra si stiano realizzando, devi essere pronto anche a guardare altrove. A non accontentarti di dire ‘è fatta’. Almeno questo è stato il mio sbaglio, la mia responsabilità. Poi ognuno si assuma le proprie.”

Quindi è stato un errore di visione politica?

“Direi di visione culturale. Eviterei di associare l’idea del Minculpop rosso al nostro pool. Che peraltro durò un anno e che nacque per le stessa esigenze del pool di Borrelli. Noi avevamo dieci arresti e venti avvisi di garanzia al giorno. Non aveva senso farsi concorrenza tra testate, anzi il tuo unico problema era verificare che fossero tutte vere, non polpette avvelenate, che pure giravano, perché erano in molti a voler inquinare l’inchiesta. Tant’è che il pool dei giornalisti è finito, si è spaccato, quando è entrato in ballo il Pds e la Fininvest, le grandi questioni divisive, e quando le notizie sono diventate di meno. Quando la spinta di Mani Pulite iniziò ad affievolirsi e il consenso generale scemare perché - come racconta Gherardo Colombo - dagli intoccabili si iniziava a scender per li rami, a sfiorare la gente comune.” 

Quanti eravate prima di dividervi?

“Una decina, e non abbiamo guardato in tutte le direzioni perché quella direzione corrispondeva a una nostra formazione culturale. Errore gravissimo. Sto dicendo che altrimenti avremmo scoperto una Spectre dietro Mani Pulite? No, perché non lo penso nemmeno oggi. Ma avremmo scoperto che gli eroi non sono tutti giovani e forti ma sono anche dei personaggi con una vita con dei compromessi. Avremmo potuto tingere di chiaroscuro il nostro quadro per permettere ai lettori di averne uno più vero. E in secondo luogo avremmo dovuto avere più attenzione ai diritti individuali. Dietro a ognuno di quegli indagati c’era una persona, e io, parlo per me ovviamente, questo non lo coglievo molto chiaramente.”

Un’autocritica forte.

“Assolutamente. Per dire, il primo indagato che ho visto come persona è stato Sergio Cusani. Di Sergio Moroni, ho scritto due righe quando è stato indagato e l’ho ritrovato a settembre quando si è suicidato. Non l’ho mai visto. Ma il punto  era proprio quello. Quando tu scrivi della gente dovresti guardarla in faccia. Non era semplicissimo allora ma avremmo dovuto farlo. Quando ho guardato in faccia Cusani ho visto una persona estremamente più complessa, comprensibile e persino giustificabile, rispetto a quello che era stato tratteggiato semplicisticamente come ‘il Marchesino rosso’ dal chiacchiericcio della procura.” 

Se ho capito bene si è trattato di una fase molto disumanizzante.

“Non c’è dubbio e questa è una responsabilità che ci portiamo dietro. Certo, abbiamo attenuanti, bisognava starci per capire quanto il contesto fosse complicato per mantenere la barra dritta.”

Traspare un po’ di senso di colpa.

“Il senso di colpa è una categoria che non mi piace mettere dentro un dibattito pubblico. Eventualmente faccio i conti con me stesso. Sicuramente, dopo i primi suicidi avremmo dovuto lavorare diversamente. La lettera di Moroni - premesso che tutte le accuse a suo carico saranno confermate e i coimputati tutti condannati - ha una forza che viene colta dall’opinione pubblica, dai giornali, ma archiviata troppo in fretta. Avrebbe dovuto accompagnarci nel lavoro dei mesi successivi, invece fummo subito presi dalla rincorsa ‘alla prossima cosa’. Al vero bersaglio di quella stagione, il ‘toro’, Bettino Craxi. Il cui avviso di garanzia arrivò dopo tre mesi. Inoltre c’era una retorica odiosa, autoassolutoria e un po’ ipocrita, per cui la colpa dei suicidi era del sistema a cui apparteneva il suicida. Sicuramente abbiamo fatto, e ho fatto, errori importanti.”

Non per discolparti, e prendendo spunto dallo straordinario spaccato del giornalismo italiano di quegli anni che si trova nel libro, c’è da dire che le responsabilità non erano solo di chi come te stava in procura, o per strada, ma anche dei vostri superiori...

“Non c’è dubbio. Ma i giornalisti italiani, capiredattori, direttori... non erano scesi da Marte, ma appunto erano italiani e stavano in un Paese dove la selezione, le scelte erano fortemente condizionati. Si sono mescolati il senso di appartenenza, che poi diventava colpa, a senso di opportunismo. Non c’è bisogno di citare Flaiano per parlare degli italiani, della capacità di passare dalla parte dei vincenti.”

Come vincente fu l’irruzione di Berlusconi, nel momento più duro per il ‘toro’ ferito Craxi.

“Questo è il paradosso di tutta la storia. Berlusconi era un uomo con i colori della Prima Repubblica eppure viene percepito come nuovo. Gli stessi italiani che, nel giorno dei funerali per le vittime della bomba di via Palestro, inneggiano a Borrelli, Di Pietro e co., una sorta di corteo spontaneo e forcaiolo, sono gli stessi che neanche un anno dopo plebiscitano l’imprenditore più assistito dal sistema della Prima Repubblica. Questo è un popolo che cerca sempre una palingenesi ma non si guarda mai dentro. E non è un gran popolo.”

Non salvi né Craxi né Di Pietro. 

“Perché ciascuno dei due ha compiuto mosse che hanno condizionato gli italiani nel non credere ulteriormente nell’Italia. E non parlo delle vicende strettamente giudiziarie. Ma se un uomo di Stato a fronte di due condanne definitive comminate da sei collegi di magistrati se ne va all’estero, cosa sta dicendo agli italiani? Che non si può credere al Paese che pur si ama.

Prendiamo poi Di Pietro, che esce dalla magistratura in modo ambiguo e inspiegabile, e due anni dopo aver interrogato duramente Prodi come testimone diventa suo ministro. Per non parlare della candidatura al Mugello sostenuta dallo stesso Pds che la vulgata dice essere stato graziato dalle sue inchieste. Il combinato disposto delle due cose produce il messaggio che non si può credere alla magistratura. Se il moralizzatore passa alla politica che non è riuscito a moralizzare, non c’è nulla di vero. L’esito finale di queste due vicende personali è, molti anni, dopo il grillismo, l’onda selvaggia, la fine della credibilità delle istituzioni. Tu deludi e uccidi i sogni di un’intera generazione, i ragazzi degli anni ’90.” 

Siamo arrivati alla ‘rivoluzione interrotta’.

“Sì, anche se non penso affatto che quella fosse una rivoluzione. I Paesi non cambiano così. La scelta giusta, di medio e lungo periodo, l’ha fatta invece Gherardo Colombo, che ha lasciato la magistratura e ha iniziato a insegnare. Con l’idea che si debba ripartire non dai processi, ma dalla formazione di una classe dirigente, di una cittadinanza. La via giudiziaria non è risolutiva.” 

Concludendo, in occasione del trentennale di Mani Pulite, anche grazie al tuo libro, non c’è un rischio revisionismo? Senza parlare di criminalizzazione dei magistrati, che comunque ce la stanno mettendo tutta per perdere di consenso, non si corre il pericolo opposto, che non debba salvarsi proprio nulla del ’92? 

“Assolutamente. Di quel periodo va invece salvata la spinta di molta gente in perfetta buona fede. Va salvata in parte l’autonomia della magistratura, da rivedere ma non da cancellare completamente col rischio di uno scenario ungherese o polacco, di asservimento all’esecutivo. È stata una stagione di grande speranza, che non va buttata via. Però dopo trent’anni credo che se ne possa parlare diversamente, abbandonando i radicalismi, senza vedere l’altra parte necessariamente come un nemico. Basta con la storia della ‘rivoluzione’ contro i ‘manigoldi’. Troviamo una medietà e una compostezza che dobbiamo anche ai nostri figli. Ecco, io vorrei poter parlare con i ragazzi dell’età di mia figlia di quella storia, e del nostro mestiere. Perché quella è stata anche la storia del nostro mestiere. E di come questo si possa fare con più autonomia, con più coraggio, e forse con più attenzione.”

Il finanziamento illecito è figlio di Yalta. Finanziamento illecito ai partiti, dove nasce il sistema che ha fatto crollare la prima repubblica. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

L’Italia è stato l’unico paese europeo nel quale cinque partiti da sempre presenti nel parlamento e nel governo sono stati distrutti a colpi di avvisi di garanzia, di arresti, dalle cosiddette sentenze anticipate. Ciò ha riguardato in primo luogo il Psi, ma anche il centro-destra della Dc, il Psdi, il Pli, il Pri. Ciò è avvenuto in un paese nel quale dagli anni ’40 in poi tutti i partiti sono stati finanziati in modo del tutto irregolare. Tutto ciò deriva da ragioni tutt’altro che banali. La divisione del mondo concordata a Yalta fra Stalin, Roosevelt e Churchill aveva sancito un patto fondato sul fatto che la spartizione dell’Europa per sfere di influenza avveniva sulla base dell’occupazione militare da parte dell’Armata rossa o dell’esercito angloamericano.

Però nei paesi dell’Est Europa liberati-occupati dall’Armata rossa rapidamente i partiti comunisti conquistarono in modo totale il potere. Invece nelle zone liberate dall’esercito angloamericano la situazione era molto più articolata e in Francia e in Italia c’erano due forti partiti comunisti. Anzi, siccome Stalin, grazie all’operazione che passò sotto il nome di svolta di Salerno aveva costruito per il Pci di Togliatti uno spazio di piena agibilità politica, ecco che per rendere quel partito il più forte possibile esso ebbe dal fondo di assistenza per i partiti fratelli gestito dal Kgb degli enormi finanziamenti diretti. Valerio Riva ha calcolato che dall’Urss fra gli 850 e i 1.000 miliardi di lire sono stati immessi nel mercato della vita politica italiana. Quindi il finanziamento irregolare dei partiti deriva essenzialmente da qui, dalle conseguenze dell’intesa di Yalta e poi della guerra fredda.

Il primo partito azienda in Italia è stato il Pci che ha “figliato” le cooperative rosse, le società di import/export, l’Unipol, la gestione del Monte dei Paschi di Siena. Poi dal 1976 in poi ci sono state anche cose in comune fra i partiti: in Italstat l’esito degli appalti pubblici era concordato in partenza e alle cooperative rosse era riservata una quota fissa fra il 20 e il 30%. Sul lato opposto la Dc di De Gasperi era finanziata dalla Cia e dal “quarto partito” dell’Assolombarda, della Fiat, di una serie di altre imprese private e di alcune banche. Poi Fanfani per evitare che la Dc fosse finanziata solo dagli imprenditori mise in campo le industrie a partecipazione statale. L’Eni di Mattei finanziava tutti i partiti e poi, d’intesa con Albertino Marcora, egli fondò la sinistra di Base. Fino a Craxi, il Psi fu finanziato dal partito con cui era alleato, quindi prima dal Pci ai tempi del frontismo e poi dal sistema delle partecipazioni statali controllato dalla Dc ai tempi del centro-sinistra. Con Craxi la musica cambiò nel senso che egli puntò a realizzare un’assoluta autonomia del Psi sia dal Pci che dalla Dc anche sul piano finanziario.

Ora, tutto ciò era conosciuto benissimo sia dai magistrati, sia dai giornali. Poi quando fra il 1989 e il 1991 è crollato il muro di Berlino e è caduto il comunismo in Russia e nei paesi dell’Europa dell’Est, Francesco Cossiga è stato il primo a capire che sarebbero sorti enormi problemi non solo al Pci, ma anche alla Dc, al Psi, ai partiti laici. Infatti non appena venne meno il pericolo comunista, i “poteri forti” (in primo luogo la Fiat, Mediobanca e ancora di più la Cir di De Benedetti) ritirarono o ridimensionarono la delega data alla Dc e al Psi, ai partiti laici, specie per quello che riguardava la gestione dell’economia. Perdipiù a livello europeo il trattato di Maastricht cambiava tutto il quadro: l’economia italiana, con le buone o con le cattive, era sospinta a collocarsi sul terreno del libero mercato e della concorrenza. A quel punto il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico.

Di conseguenza in uno stato normale si sarebbe dovuta fare una grande operazione di unità nazionale con un’annessa amnistia per superare tutto il sistema allora in atto di finanziamento irregolare. Invece accadde esattamente l’opposto. Si aggregò un circo mediatico-giudiziario fondato sia su un nucleo di magistrati inquirenti, sia sui direttori di alcuni giornali che ritenne che era venuto il momento di smantellare il sistema dei partiti. In una prima fase anche il Pds era estraneo al circo mediatico-giudiziario, tant’è che tremò. Proprio per questo Occhetto si recò per la seconda volta alla Bolognina a “chiedere scusa agli italiani”. Quali scuse doveva chiedere se il Pds era estraneo al sistema di Tangentopoli? A sua volta per qualche mese Borrelli accarezzò il sogno che il presidente della Repubblica chiamasse un nucleo di magistrati a gestire anche sul piano politico quel cataclisma. Quando questa operazione fu impraticabile ebbe buon gioco il viceprocuratore capo Gerardo D’Ambrosio, da sempre militante del Pci, a spiegare al pool che era indispensabile avere un punto di riferimento fra i partiti e che questo non poteva che essere il Pds.

A quel punto il pool dei pm usò la linea dei due pesi e due misure, puntando a distruggere in primo luogo Craxi e il Psi, ma anche il centro-destra della Dc e i partiti laici e a salvare i massimi dirigenti del Pds e della sinistra Dc. Per portare avanti questa linea, poi, furono adottate procedure e sistemi del tutto perversi e forzati. Il primo era quello della sentenza anticipata. Siccome erano in azione e collegati fra loro i due pool, il pool dei pm e quello dei direttori del Corriere della Sera, della Stampa, di Repubblica e dell’Unità, con il concorso del Tg3 e dei telegiornali Fininvest, ogni avviso di garanzia sparato sui giornali in prima pagina e dai Tg in prima serata era una sostanziale condanna definitiva con la conseguente distruzione del consenso dei leaders e dei partiti così investiti.

In secondo luogo, come ha ben spiegato Guido Salvini, tutti i procedimenti giudiziari vennero surrettiziamente concentrati in un unico faldone con un unico gip, Italo Ghitti, che controfirmava quasi tutte le richieste dei pm. In questo modo fu possibile utilizzare la minaccia del carcere o la sua messa in atto allo scopo di ottenere confessioni, spesso confessioni mirate rispetto a precisi uomini politici, in primo luogo Craxi. Non parliamo poi della sistematica violazione del segreto istruttorio e anche degli interventi davvero eversivi del pool rispetto a proposte di legge avanzate dal governo e dal parlamento.

Certamente, in seguito al blitzkrieg del ’92-’94, proseguito fino al 2013 con l’attacco frontale a Berlusconi, la magistratura inquirente ha conquistato il potere e il sostegno politico. Le conseguenze, però, sono state disastrose. In primo luogo i partiti o sono stati distrutti oppure sono stati ridotti in condizioni di subalternità (è il caso del Pd).

Il risultato è quello di un vuoto politico molto preoccupante. Ma effetti devastanti ci sono stati anche per ciò che riguarda la stessa magistratura. Essa oggi è dominata da un sistema (quello descritto nei libri di Sallusti e Palamara) fondato sulle correnti.

A loro volta le correnti sono dominate dai pm (con annessi cronisti giudiziari) che nel Csm fanno il bello e il cattivo tempo e in quella sede gestiscono anche le carriere dei magistrati giudicanti. In tutti questi anni la vita politica italiana è stata caratterizzata dal fatto influenti procure hanno messo di volta in volta nel mirino prima Craxi, poi Berlusconi, in certi momenti Salvini, adesso Renzi. Quindi l’anomalia italiana che nel passato consisteva nell’esistenza del più forte partito comunista dell’Occidente adesso fino a pochi mesi fa è stata caratterizzata dal prepotere di alcune procure. Ci auguriamo che alcuni dei referendum sulla giustizia servano a cambiare profondamente questo quadro. Fabrizio Cicchitto

La trama internazionale di Mani Pulite. Di Igor Pellicciari il 20/02/2022 su formiche.net.

Dal mancato ruolo di attore primario nella crisi dei Balcani alle difficoltà nei negoziati europei sull’immigrazione fino alla strada (in salita) nelle trattative sull’austerity. La vicenda Mani Pulite ha avuto un'(enorme) onda d’urto internazionale per l’Italia. L’analisi del prof. Igor Pellicciari (Università di Urbino) 

A ben tre decenni dal suo inizio, una ricostruzione storiografica di Mani Pulite resta complessa per la mancanza di fonti certe, di difficile accesso per via dell’acceso dibattito che persiste sul rapporto tra politica e giustizia. 

Qualche certezza in più la da contestualizzare Mani Pulite nel quadro internazionale del suo tempo, per cogliere specificità e tratti comuni di un fenomeno sì prettamente italiano ma non unicum assoluto (positivo o negativo) come è stato spesso raffigurato. 

Primo aspetto da sottolineare è che nei de-ideologizzati anni Novanta del post-bipolarismo, la Questione Morale acquista nuova forza come legittimo strumento di scontro politico non solo in Italia ma in numerosi contesti nazionali e multilaterali di prim’ordine.

In Francia l’episodio più eclatante è la campagna a mezzo stampa contro il primo ministro Pierre Beregovoy che lo spingono nel 1993 alla sconfitta elettorale e poi di lì a poco al tragico gesto di togliersi la vita, che segnerà l’inizio dell’ultima fase crepuscolare della Presidenza di Francois Mitterrand.

In Germania, sistema politico in genere meno esposto alla questione morale, gli anni Novanta vedono una concentrazione senza precedenti (ben nove) di scandali pubblici che al culmine bruciano il mostro sacro Helmut Kohl, tra i principali artefici della riunificazione tedesca.

In Spagna, accuse di corruzione amplificate dai Media portano nel 1996 alla sconfitta elettorale che impone al leader di lungo corso Felipe Gonzales di lasciare la guida del governo – tenuto ininterrottamente dal lontano 1982. 

Nello stesso quadro va collocato anche il più famoso scandalo presidenziale del decennio, con Bill Clinton sottoposto ad impeachment per avere mentito sul tipo di relazione avuto con la stagista alla Casa Bianca Monica Lewinsky.

Sul versante multilaterale, basti ricordare l’eclatante caso delle dimissioni cui viene obbligata nel 1999 la Commissione Europea guidata da Jacques Santer (ex-primo ministro del Lussemburgo) per le accuse di peculato mosse alla commissaria Edith Cresson (ex-primo ministro francese).

La specificità italiana è che ad iniziare l’ondata moralizzatrice sono settori del potere giudiziario; con un impatto radicale sul sistema politico, rivoluzionato in dinamiche e protagonisti. Altrove in Occidente sono invece i media a trainare l’azione moralizzatrice, con effetti non-sistemici che non vanno oltre il condizionamento delle sorti dei singoli esponenti politici coinvolti e non scuotono il sistema dalle sue fondamenta.

Altro aspetto poco trattato sono le conseguenze della sostituzione determinata da Mani Pulite della vecchia classe politica della Prima Repubblica con una nuova tutta concentrata sulla politica interna, con poco interesse per la dimensione internazionale e scarse competenze in politica estera.

Questo determina l’inizio di una fase di indebolimento del ruolo e del peso dell’Italia su scala europea, sancito dalla rinuncia a giocare un ruolo politico primario nella gestione delle crisi balcaniche, dalla Bosnia al Kosovo, cruciali nel ridefinire i nuovi equilibri del mondo post-bipolare.

Aprendo un trend ancora in corso, come dicono le periodiche difficoltà di Roma nel far valere le proprie ragioni a Bruxelles su temi come la ristrutturazione del debito pubblico (e revisione dei parametri del Patto di Stabilità) o la gestione dei flussi di immigrazione illegale (e riforma del trattato di Dublino).

Infine, la dimensione internazionale si incrocia con una delle questioni più controverse e aperte, riguardanti l’origine stessa della stagione di Mani Pulite. A fronteggiarsi sono ipotesi di una sua genesi endogena/italiana vs esogena/esterna.

Le prime la considerano nata dalla presa di coscienza della necessità di reagire ad un sistema di finanziamento illegale della politica attraverso appalti pubblici talmente endemico (riassunto nel neologismo Tangentopoli) da essere diventato insostenibile.

Secondo queste tesi, il contesto internazionale post-bipolare avrebbe l’effetto non di determinare ma semmai solo accelerare un processo oramai irreversibile di moralizzazione whatever-it-takes del sistema politico, perseguito da settori della magistratura, sostenuti da un diffuso sentire popolare.

Per le tesi esogene, invece, Mani Pulite sarebbe il capitolo italiano (magari sfuggito di mano ad un certo punto) di un’azione nata oltreoceano e rivolta a tutto il vecchio continente, con l’obiettivo statunitense di ridimensionare il ruolo politico europeo in rapida crescita. A partire dalle leadership carismatiche che hanno guidato l’affermarsi Occidentale nella Guerra Fredda, ora diventate ingombranti perché troppo autonome nell’aprirsi ai nuovi mercati politici ed economici dell’Est Europa post-comunista.

Il caso italiano sarebbe particolarmente attenzionato per via del paradosso di un paese che perde centralità come avamposto politico-istituzionale contro il blocco sovietico negoziato da Alcide De Gasperi; ma al contempo aumenta il suo peso strategico-militare come base imprescindibile per interventi nei crescenti scenari di crisi, dai Balcani al Medio Oriente.

Per sfruttare al meglio il potenziale logistico italiano, necessita che a Roma vi sia una classe politica pronta a ospitare passivamente operazioni straniere sul proprio territorio, senza opporvisi o trarne un proprio vantaggio autonomo. In controtendenza con quanto sperimentato nella Prima Repubblica con l’attivismo diplomatico di Giulio Andreotti in Medio Oriente o il protagonismo nazionale di Bettino Craxi nel G7 o nell’emblematico episodio dell’incidente di Sigonella.

Entrambe le tesi endogene ed esogene accanto a considerazioni credibili (ma non per questo vere), presentano punti deboli prontamente rimarcati dal fronte opposto. Resta innegabile che risale proprio agli anni Novanta e all’imporsi della questione morale in politica il crollo verticale di carisma che affligge le leadership europee, riducendone legittimità e impatto dell’azione di governo.

Si è trattato di un prezzo molto alto pagato in nome dell’obiettivo di moralizzare il sistema politico che peraltro – stando alle cronache – sembra essere rimasto largamente incompiuto. Lungi dall’avere debellato la corruzione dalla sfera pubblica (non solo in Italia).

Quell’Italian desk che teneva d’occhio Di Pietro e i suoi. Le responsabilità degli USA in Tangentopoli: occasione per fare piazza pulita dei politici e sostituirli con gli ex comunisti. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

Quanto c’entrano gli americani con l’operazione Mani pulite? “Mani Pulite”, giova ricordare, è la traduzione pura e semplice di “Clean Hands”, nome di un’operazione americana da lungo tempo attiva per combattere criminalità e malaffare. In Italia con la partecipazione di giudici italiani e americani, tra cui lo stesso Giovanni Falcone e Rudolph Giuliani all’epoca eccellente Procuratore, prima di diventare sindaco di New York durante l’attacco alle Torri Gemelle e poi avvocato del presidente Trump.

È totalmente inaccettabile l’idea che un evento del tutto casuale come il denaro trovato addosso a uno sconosciuto Mario Chiesa potesse essere la prima e unica esca affinché si accendesse il grande incendio dell’inchiesta che decapitò la Repubblica. Ho partecipato anche ieri a un talk show mattutino con vecchi cronisti che come me vissero le ore di Di Pietro al palazzo di giustizia di Milano come una seconda vita e proprio perché l’ho fatto e conservo ancora i quaderni scritti a mano con tutti gli appunti di quei giorni posso dire con certezza che quell’operazione fu voluta, fu fatta con determinazione secondo un piano, ebbe gli effetti desiderati che furono la decapitazione di una democrazia in vista di una sostituzione dell’intera classe dirigente con un’altra classe dirigente selezionata direttamente fra i quadri del vecchio partito comunista italiano costretto fino alla fine dell’impero sovietico a non poter entrare nei governi di maggioranza ma che era stato valutato con grande interesse dagli americani non soltanto democratici, se solo si ricorda quanto Henry Kissinger fosse diventato amico di Giorgio Napolitano e non soltanto perché fosse l’unico comunista che parlasse un buon inglese.

Gli americani hanno sempre chiarito il punto di vista: a noi non importa nulla di quale sia la politica di un governo alleato, vogliamo soltanto essere sicuri che i suoi ministri non vadano a spifferare tutto al nemico. Quindi non vogliamo comunisti nel governo italiano perché altrimenti dovremmo sospendere il flusso di informazioni a quel governo, come effettivamente fecero con il Portogallo dopo l’ingresso dei comunisti dopo la rivoluzione dei garofani. Contrariamente alla vulgata comunista secondo cui gli americani intendevano favorire governi di destra, liberticidio e nemici della classe operaia, gli americani erano al contrario favorevoli a governi progressisti, moderni, interclassista e per loro naturale tendenza sono sempre stati contrari a tutti i tipi di neofascismo e di conservatorismo: al Dipartimento di Stato la linea è sempre stata una sola per l’Italia: isolare i comunisti finché sono legati a filo doppio con Mosca e praticare una politica riformatrice e prepararsi ad accogliere un Pci totalmente autonomo che aspettiamo anche nella Nato. Non fu per caso che Enrico Berlinguer dichiarasse a Giampaolo Pansa sul Corriere della Sera che lui poteva sentirsi al sicuro soltanto sotto l’ombrello della Nato ma poi quando si trattava di schierarsi di fronte alla questione degli euromissili seguiva il gioco della grande potenza sovietica amica.

Fino al 1989 la guerra fredda fu una cosa reale ma già sgonfiata dalle sue asperità. Si era già formata nel Partito comunista italiano un’ala fortemente filoamericana e antisovietica. L’ambasciata di via Veneto era diventato un oggetto del desiderio di molti comunisti e fra loro e il gruppo di Armando Cossutta rimasto sempre fedelissimo al Cremlino cominciò una sorda guerra che raggiunse il suo acme quando anche in Italia fu pubblicato il libro Dossier Mitrokhin che provocò molta agitazione all’interno della sinistra italiana, ma questa è una storia che cominciò sei o sette anni dopo l’inchiesta Mani pulite. L’inchiesta si scatenò soltanto sui partiti non comunisti ovvero su quelli che avevano sempre governato la Repubblica dal 1948 e senza ipotizzare che ci fosse una reale etero direzione da parte degli americani, certamente dal Dipartimento di Stato e da quello della giustizia da Washington arrivarono soltanto grandi segnali di solidarietà e incoraggiamenti a proseguire su quella strada.

Qual era stato l’evento che aveva determinato la riesumazione di quanto, già noto almeno da 12 anni, era stato insabbiato? La logica suggerisce solo un punto: fine dei contributi annui del partito comunista dell’Unione Sovietica al partito comunista italiano. Quei miliardi versati nel corso degli anni avevano corrotto la politica interna italiana fornendo al partito comunista molti più mezzi di quanti potesse produrne e avevano offerto un gigantesco alibi a tutti gli altri partiti e politici per dire se lo fanno loro, noi non saremo da meno. Ma il rubinetto si era chiuso, il partito comunista dovete in fretta e furia cambiare nome, vendere la casa troppo prestigiosa per rifugiarsi in un locale al piano terra meno sfarzoso, per forza di cose il Pci ormai Pds non era più un’appendice dello Stato russo anche perché l’Unione Sovietica scompariva suddividendosi in tronconi, gli stessi che oggi vediamo minacciarsi tra loro di guerra appunto.

A dirla in breve, il gruppo di intellettuali e di funzionari del dipartimento di Stato dell’ “Italian Desk” videro che era arrivata l’occasione per fare piazza pulita di tutti quei democristiani, socialisti socialdemocratici e repubblicani e sostituirli con gente nuova. Il partito di Achille Occhetto, appunto. Nel frattempo, la magistratura aveva scoperto di possedere una forza invincibile e di poter godere se necessario di una impunità intimidatoria: aveva scoperto anche di poter sfidare il Parlamento e sostituirsi ad esso, leggendo un comunicato eversivo in televisione, equivalente a un colpo di Stato. Il Parlamento era umiliato. Craxi rifugiato come un malfattore sulle coste africane. Il democristiano Arnoldo Forlani umiliato in un processo e quanto a Giulio Andreotti – violentemente antiamericano – gli furono gettati di traverso alcuni cadaveri sul cammino (fra cui quello di Ambrosoli e Lima) e la sua carriera fu stroncata insieme all’ambizione di salire al Quirinale.

La stessa mafia che mai e poi mai si era permessa di varcare a mano armata i confini siciliani aveva fatto bravate incomprensibili come le operazioni a via dei Georgofili o a San Giovanni o nei pressi del teatro Parioli di Maurizio Costanzo, seguendo un copione mai sperimentato prima. Gli stessi omicidi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino si erano svolti secondo modalità totalmente estranee alle tradizioni della mafia di cui la giustizia non ha ancora trovato il bandolo. Ad Achille Occhetto che parlava metaforicamente di una sua «gioiosa macchina da guerra» tutti i giochi sembravano fatti: la vecchia politica era ridotta a poco meno di quaranta ladroni ed era arrivata l’ora del sangue nuovo.

Fu allora che l’imprenditore Silvio Berlusconi decise di compiere un’azione sconsiderata e meticolosa al tempo stesso radunando forze fra di loro ostili come il partito neofascista di Gianfranco Fini e la Lega Nord federalista di Umberto Bossi e vinse. Andò al governo ma un avviso di garanzia pubblicato sul Corriere gli stroncò subito le gambe e quasi sessanta processi piombarono su di lui come avvoltoi. Una legge retroattiva lo mise fuori dal Senato e un’orda di populisti analfabeti come nella notte dei morti viventi, cominciò a sciamare per le strade e nel Parlamento portando l’Italia al disastro da cui un Commissario benevolente mandato dall’Europa cerca di tirarla fuori dal baratro. Così è finita la grandiosa operazione Mani Pulite che dir si voglia, di cui alcuni dettagli potrete trovare nel libro “The Italian Guillotine” di Stanton H. Burnett e Luca Mantovani, libro proibito per eccellenza, resta da acquistare una sola copia in magazzino.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.

HMY Britannia (1953) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il Britannia a Cardiff.

Descrizione generale 

Proprietà Her Majesty's Government

Identificazione IMO 8635306

Costruttori John Brown & Company

Cantiere West Dunbartonshire, Scozia

Varo 16 aprile 1953

Entrata in servizio 11 gennaio 1954

Radiazione 11 dicembre 1997

Destino finale Esposta in museo aperto al pubblico

Caratteristiche generali

Dislocamento 4.320

Lunghezza 126 m

Altezza 42 (albero di maestra) m

Velocità 21,5 nodi (39,8 km/h)

Autonomia 2.400 mn

Equipaggio 19 ufficiali e 217 uomini di equipaggio, oltre ad un plotone di Royal Marines

HMY Britannia è stato il panfilo della Famiglia Reale Britannica. Si è trattato dell'83ª nave avente questa funzione dalla restaurazione di Carlo II d'Inghilterra (1660), ed il secondo a portare questo nome (il primo fu un cutter costruito per il Principe di Galles nel 1893). La nave è ormeggiata in modo permanente all'Ocean Terminal di Leith, Edimburgo.

Nel corso della sua vita operativa, percorse 1.087.623 miglia, pari a 2.014.278 chilometri. Oggi fa parte della National Historic Fleet ed è conservato come nave museo presso l'Ocean Terminal a Leith, Edimburgo.

Storia

La nave fu varata il 16 aprile 1953, ed entrò in servizio l'11 gennaio 1954. Dal punto di vista tecnico, era caratterizzata dalla presenza di tre alberi (alti 41 metri l'albero di trinchetto, 42 quello di maestra e 36 quello di mezzana). Gli ultimi 6 metri dei due alberi più alti erano incernierati, in modo da permettere il passaggio sotto i ponti. Il Britannia fu progettato per essere facilmente convertito in tempo di guerra in nave ospedale. 

Il Britannia, durante la sua vita operativa, è stato ampiamente utilizzato per il trasporto non solo dei membri della Famiglia Reale, ma anche di importanti personalità straniere. Il panfilo reale fu utilizzato anche da Carlo e Diana per il loro viaggio di nozze, nel 1981. Inoltre, il Britannia venne usato anche nel 1986 in occasione della guerra civile in Aden, per l'evacuazione di circa 1.000 rifugiati.

Nel 1997, il governo conservatore di John Major promise di costruire un successore al Britannia se fosse stato rieletto. Tuttavia, questo non avvenne: il 1º maggio 1997, la vittoria alle elezioni arrise al Partito Laburista. Questo decise di ritirare dal servizio la nave, che non sarebbe stata sostituita: tale scelta fu dettata da ragioni di ordine economico. La sua ultima missione fu quella di portare via dalla città di Hong Kong l'ultimo governatore della stessa, Chris Patten, ed il Principe di Galles, dopo che l'ormai ex colonia fu restituita alla Cina il 1º luglio 1997. Il Britannia fu radiato l'11 dicembre dello stesso anno, dopo oltre 40 anni di servizio.

Convegno sulle privatizzazioni in Italia e teorie del complotto[modifica | modifica wikitesto]

Il 2 giugno 1992, a bordo della nave si tenne un convegno sulle privatizzazioni in Italia, a cui presero parte importanti manager ed economisti[1]. Questo evento ha dato luogo a una delle più diffuse teorie del complotto che ritiene che quell'incontro abbia promosso la svendita delle imprese pubbliche italiane[2][3] e dato avvio alla caduta della Prima Repubblica italiana.

L'incontro avvenne in acque italiane. La nave attraccò al porto di Civitavecchia facendo poi rotta lungo la costa dell'Argentario. Alla riunione parteciparono, oltre ad alcuni banchieri inglesi, anche un gruppo di manager ed economisti italiani: Herman van der Wyck, presidente Banca Warburg; Lorenzo Pallesi, presidente INA Assitalia; Jeremy Seddon, direttore esecutivo Barclays de Zoete Wedd; Innocenzo Cipolletta, direttore generale di Confindustria; Giovanni Bazoli, presidente Banca Antonveneta; Gabriele Cagliari, presidente Eni; Luigi Spaventa. Fece anche un breve saluto scendendo prima che la nave salpasse il Direttore Generale del Ministero del Tesoro Mario Draghi. L'Unità e Il Fatto Quotidiano ricostruirono un suo discorso sull'inevitabilità delle privatizzazioni in Italia.

Fusaro, il Britannia e i complotti...e l'incapacità di usare internet. Michelangelo Coltelli (maicolengel) il 05 Febbraio 2021 su  butac.it 

Oggi facciamo davvero in fretta visto che quanto segue ci è stato segnalato da un nostro lettore che aveva già verificato i fatti. Il 4 febbraio 2021 sul canale YouTube di Diego Fusaro è apparso un video dal titolo:

Perché Wikipedia ha modificato il 3 febbraio 2021 la pagina del Panfilo Britannia?

Il video (che poi in realtà è un podcast) dura ben 2 minuti e 40 secondi. Così pochi che credo di fare cosa utile a riportare tutta la trascrizione di quanto viene detto dal turbocoglfilosofo:

…vi è un piccolo mistero che riguarda la pagina Wikipedia del panfilo Britannia. Il panfilo Britannia sapete fu quel quell’evento in realtà che caratterizzò l’Italia nel ’92 allorché sul panfilo della regina d’Inghilterra si diedero convegno al largo delle coste di ostia alcuni dei principali esponenti dell’élite turbo finanziaria i quali decisero la privatizzazione totale dell’Italia. La svolta neoliberista che proprio con Mani pulite fu possibile nel ’92 con un colpo di stato giudiziario ed extraparlamentare che cancellò la Prima repubblica e pose in essere la nuova governance tecnoliberista di liberisti di centro, liberisti di sinistra, liberisti di destra. Ebbene la pagina del panfilo Britannia su Wikipedia è stata modificata in data 3 di febbraio 2021 alle ore 18 e 05, curiosa coincidenza davvero, anche perché come sapete Mario Draghi fu sul panfilo Britannia nel 1992, fu quindi tra coloro i quali decisero o quantomeno discussero delle sorti liberalizzatrici e privatizzatrici del Paese. Ebbene curiosamente la pagina del panfilo Britannia su Wikipedia è stata modificata proprio il 3 di febbraio del 2021 alle ore 18 05 proprio nel giorno in cui Mario Draghi è stato convocato dal Presidente della Repubblica Mattarella per il nuovo governo. Ora si legge sulla pagina del panfilo Britannia, leggo, fece anche un breve saluto scendendo prima che la nave salpasse il direttore generale del ministero del tesoro Mario Draghi, insomma la pagina Wikipedia del panfilo Britannia ci spiega che Mario Draghi fece solo un breve saluto e prima che salpasse. Sul Fatto Quotidiano trovate invece il discorso che Mario Draghi tenne sul panfilo Britannia e consiglio davvero a tutti la lettura di quel discorso perché ci permette di capire molto di quello che accadde già nel ’92 e molto di quello che accadrà ora nel 2021 che Mario Draghi terrà tra le sue mani il timone della barca Italia, del nostro vascello italico, ebbene possiamo dire forse che ora è arrivato per Draghi il momento di portare a compimento i compiti del panfilo Britannia del ’92…

Come chiunque non sia nato prima degli anni Sessanta sa, le modifiche su Wikipedia sono pubbliche, non c’è nessun mistero su cosa sia cambiato nella pagina dedicata al panfilo Britannia e a quel viaggio, che sono ormai quasi trent’anni che solletica le fantasie prima di signoraggisti, poi di sovranisti e infine di turbofilosofi e criminologi de noantri…

Come ci è stato riportato nella segnalazione: il corpo del testo della pagina Wikipedia è invariato dal 2016. L’unica cosa che al 3 febbraio era stata modificata era la nota [6] a piè di pagina, che si accosta alla nota nota [5] già presente. La nota bibliografica [6] altro non è che un articolo del Fatto Quotidiano, che lo stesso Fusaro richiama dal minuto 2.10 al minuto 2.40. 

Quindi non c’era nessun mistero nella modifica della pagina, e non ci credo che un soggetto giovane come Fusaro possa non sapere, nel 2021, che tutte le modifiche apportate su Wikipedia sono pubbliche e verificabili dagli utenti. Se davvero non lo sa questa dovrebbe essere dimostrazione che non è un soggetto da seguire. Uno che parla di complotti e nemmeno conosce il funzionamento dello strumento su cui ogni giorno carica le sue sbrodolate in salsa complottista non è una fonte di informazione affidabile.

Della vicenda del Britannia ne ha parlato il sempre bravo Alessandro D’Amato su Today, con queste conclusioni:

La lunghezza del discorso pubblicato dal Fatto Quotidiano ci permette di far notare che non si trattava di un semplice “saluto a nome del governo”, ma Draghi era lì per il suo ruolo e fece quello che andava fatto: spiegò a chi aveva capitali da spendere quale sarebbe stato il processo di privatizzazione delle aziende di Stato italiane, allo scopo di invitarli a investire. Questo e nient’altro. A distanza di anni l’assalto dei complottisti di QAnon alla Casa Bianca ci ha insegnato cosa può succedere quando molta gente crede a una balla: che si comporta come se quella balla fosse realtà, finché non finisce male. Anche per chi (Donald Trump) quella balla ha cercato di alimentarla per convenienze personali. E lo sciamano con il turbante oggi ha cambiato completamente verso prendendosela proprio con Trump, cosa che succede abbastanza spesso quando un complottista va a sbattere contro la realtà. Da quanto circolerà ancora questa storia di Draghi e del Britannia capiremo se anche in Italia c’è qualcuno che ha voglia di fare un frontale con la realtà.

Fusaro è uno di quelli alla guida del bus che sta tentando il frontale, fossi nei suoi follower scenderei alla prossima fermata. Detto ciò le modifiche alla pagina Wiki dedicata al panfilo non si sono fermate, come è normale che sia se un argomento torna virale dopo un po’ che non se ne è parlato. 

Basta andare sulla pagina “cronologia” per vederle tutte, e cliccando sul testo in blu potete vedere chi ha aggiunto o eliminato qualcosa e cosa è stato aggiunto o eliminato. Nulla di così difficile, a meno che non siate turbofilosofi.

Non credo sia necessario aggiungere altro.

Cos'è questa storia di Draghi e del Britannia Today . Alessandro D'Amato il 03 febbraio 2021 su Today.

Da quando Mattarella ha annunciato di volergli conferire l'incarico è tornata a circolare la teoria del complotto su SuperMario e sul panfilo dove tenne un discorso sulle privatizzazioni italiane nel 1992. Ecco un estratto del suo discorso e un inquadramento storico della vicenda

Non appena Sergio Mattarella ha annunciato di voler conferire l'incarico di formare un nuovo governo a Mario Draghi, subito le agenzie di stampa facevano rimbalzare una dichiarazione del senatore del MoVimento 5 Stelle Elio Lannutti: "Draghi sul Britannia: il discorso dell'inizio della fine dell'Italia. Nel 2011 Monti. Oggi Draghi. Non governerà col mio voto. Mi spiace!". Subito dopo arrivava a dargli man forte l'ex grillino Gianluigi Paragone in un video su Facebook: "Draghi è quello del Britannia, quello delle privatizzazioni con cui abbiamo svenduto il paese. Ma ora vedremo le carte, si gioca a carte scoperte". Non solo: in alcune chat complottiste su Telegram e Whatsapp rimbalzava questo estratto di una dichiarazione a Uno Mattina dell'allora senatore a vita e già presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che di Draghi diceva: "Un vile affarista. Non si può nominare premier chi è stato assunto dalla Goldman Sachs. E male feci io ad appoggiarne la candidatura a Silvio Berlusconi. È il liquidatore, dopo la crociera sul Britannia, dell'industria italiana. Ora svenderebbe quel che rimane: Finmeccanica ed Eni". Ma cos'è questa storia di Draghi e del Britannia? 

Cos'è questa storia di Draghi e del Britannia

Si tratta di una delle più longeve teorie del complotto che abbiano mai attraversato la Repubblica italiana. Tutto parte dal 1992, ma prima bisogna fare un passo indietro. Dopo la conclusione del suo incarico come direttore esecutivo della Banca Mondiale, nel 1991 Draghi diventò direttore generale del ministero del Tesoro, chiamato a quel posto dall'allora ministro del Tesoro del settimo governo Andreotti Guido Carli. A suggerire il suo nome fu Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia e qualche anno dopo presidente del consiglio di un governo tecnico, come si appresta a diventare oggi proprio SuperMario. Nel 1992, mentre le finanze italiane versano in condizioni drammatiche (e di lì a poco il presidente del Consiglio Giuliano Amato decretò il famigerato prelievo sui conti correnti: la famosa patrimoniale del 6 per mille), si decide di dare il via per fare cassa a un piano di privatizzazioni delle società partecipate dallo Stato. Prima dell'inizio della stagione delle privatizzazioni, il 2 giugno Draghi si recò sul panfilo della regina d'Inghilterra Elisabetta II HMY Britannia per incontrare alti rappresentanti della comunità finanziaria internazionale. Di qui l'accusa: Draghi si accordò con la finanza internazionale per svendere l'Italia. 

Il 22 gennaio del 2020 il Fatto Quotidiano pubblicò un articolo a firma di Alessandro Aresu che parlava della vicenda, il commento dell'allora caporedattore dell'economia Stefano Feltri (che nel frattempo è diventato direttore di Domani) e il discorso integrale fatto da Draghi. Il contesto storico sintetizzato nella presentazione ricordava lo scioglimento delle Camere decretato da Francesco Cossiga il 2 febbraio 1992, la firma cinque giorni dopo del Trattato di Maastricht, in cui Carli ha un ruolo chiave, le elezioni di aprile con la prima affermazione della Lega Nord, l’accelerazione di Mani Pulite. Quel 2 giugno arriva pochi giorni dopo la strage di Capaci e l’ekezione di Scalfaro: "Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico", esordì Draghi. I British Invisibles erano allora il gruppo di interessi finanziari della City.

Per poi spiegare: "La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio. Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit. Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento".

Chi è Mario Draghi, chi voterà il suo governo tecnico e cosa succede adesso

Il discorso di Draghi sul Britannia il 2 giugno 1992

Poi, dopo aver elencato le condizioni dello Stato italiano e la decisione di muoversi verso un percorso di riforme insieme alle privatizzazioni: poco più tardi un referendum cambiò la legge elettorale introducendo il maggioritario e aprendo la via alla cosiddetta Seconda Repubblica. Draghi aggiungeva: "Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo".

E infine concludeva così: "I mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’ag - giustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni". E quasi trent'anni dopo Feltri commentava: "La lista di quello che bisognava fare e non è stato fatto è lunga. Draghi probabilmente riscriverebbe oggi quel discorso, parola per parola. Inclusa la parte che analizza perché gestire le aziende con logiche politiche e di consenso a breve termine è la premessa di disastri scaricati presto o tardi sui conti pubblici". Oggi Alessandro La Barbera su La Stampa ricorda che già in quei mesi a Draghi toccò l'accusa di aver svenduto l'Italia agli interessi stranieri: 

Gli capita ancora, a distanza di trent’anni, di ricordare con fastidio la campagna di discredito che gli fu riservata per essere salito pochi minuti sul panfilo della Regina d’Inghilterra attraccato al molo di Civitavecchia. L’invito fu spedito da un gruppo di investitori. Lui salì, fece un saluto a nome del governo, e se ne andò. Quel piano di privatizzazioni, attaccato da molti, fu una delle premesse per far entrare l’Italia nella moneta unica.

Draghi, il Britannia e... Beppe Grillo

La storia di Draghi e del Britannia va a incastrarsi con un'altra teoria del complotto che vede coinvolto Beppe Grillo. A partire dal 2000, per motivi non chiari, circolò la voce che anche l'attuale Garante del MoVimento 5 Stelle fosse a bordo del Britannia. Una storia alimentata da immagini che mostravano dichiarazioni attribuite a Enrico Mentana come questa: "Il 2 giugno 1992 ero sulla banchina del porto di Civitavecchia con la trouppe (sic) del TG5 per una edizione speciale sulla riunione a bordo del panfilo inglese di Elisabetta II. Saranno state le 14:30, intervistai in diretta Beppe Grillo subito dopo lo sbarco dal motoscafo che lo riportò in porto". Un'altra invece tirava in ballo Emma Bonino, “al microfono dell’unica troupe giornalistica del TG1 accreditata sulla nave. Si tratta di due bufale. Il direttore del Tg di La7 la smentì con il suo stile sei anni fa su Facebook: "Qualche mestatore imbecille ha rimesso in circolo la panzana secondo cui nel 1992 avrei intervistato Beppe Grillo che scendeva dal panfilo Britannia nel porto di Civitavecchia. Intervenga - se è possibile - chi è preposto a impedire la circolazione di notizie palesemente false sui social network. E riflettano tutti coloro che utilizzano Fb e Twitter per drogare la circolazione virale di bufale a scopo politico. E sono tanti.".  

Ma allora cos'è questa storia del Draghi e del Britannia? La lunghezza del discorso pubblicato dal Fatto Quotidiano ci permette di far notare che non si trattava di un semplice "saluto a nome del governo", ma Draghi era lì per il suo ruolo e fece quello che andava fatto: spiegò a chi aveva capitali da spendere quale sarebbe stato il processo di privatizzazione delle aziende di Stato italiane, allo scopo di invitarli a investire. Questo e nient'altro. A distanza di anni l'assalto dei complottisti di Qanon alla Casa Bianca ci ha insegnato cosa può succedere quando molta gente crede a una balla: che si comporta come se quella balla fosse realtà, finché non finisce male. Anche per chi (Donald Trump) quella balla ha cercato di alimentarla per convenienze personali. E lo sciamano con il turbante oggi ha cambiato completamente verso prendendosela proprio con Trump, cosa che succede abbastanza spesso quando un complottista va a sbattere contro la realtà. Da quanto circolerà ancora questa storia di Draghi e del Britannia capiremo se anche in Italia c'è qualcuno che ha voglia di fare un frontale con la realtà.  

PRIVATIZZAZIONI. 1992, FALSI MITI ED ERRORI VERI 

“Privatizzazioni inevitabili, ma da regolare con leggi ad hoc”: il discorso del 1992 (ma attualissimo) di Mario Draghi sul Britannia. Il Fatto Quotidiano il 22 gennaio 2020.

Pubblichiamo il discorso di Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, alla Conferenza sulle Privatizzazioni tenutasi sullo yacht Britannia, del 2 giugno 1992: l'ex presidente della Bce parlò della vendita delle azioni pubbliche. Un processo con cui, 28 anni dopo, l'Italia fa i conti. Nelle sue parole i mercati come strada per la crescita, la fine del controllo politico, l'idea di public company, ma anche i tanti rischi: "Sarà più difficile gestire la disoccupazione. Non c'è una Thatcher - disse - servono strumenti per ridurre i senza lavoro e i divari regionali. Andranno tutelati gli azionisti di minoranza". E ancora: "Questo processo lo richiede Maastricht, facciamolo prima noi. Ma va deciso da un esecutivo forte e stabile. Ridurremo il debito".

DI MARIO DRAGHI:

Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico. Durante gli ultimi quindici mesi, molto è stato detto sulla privatizzazione dell’economia italiana. Alcuni progressi sono stati fatti, nel promuovere la vendita di alcune banche possedute dallo Stato ad altre istituzioni cripto-pubbliche, e per questo la maggior parte del merito va a Guido Carli, ministro del Tesoro. Ma, per quanto riguarda le vendite reali delle maggiori aziende pubbliche al settore privato, è stato fatto poco.

Non deve sorprendere, perché un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile.

Altri oratori parleranno dello stato dell’arte in quest’area: dove siamo ora da un punto di vista normativo, e quali possono essere i prossimi passaggi. Una breve panoramica della visione del Tesoro sui principali effetti delle privatizzazioni può aiutare a comunicare la nostra strategia nei prossimi mesi. Primo: privatizzazioni e bilancio. La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio. Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit.

Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento. (Questo fatto, nella visione del Tesoro, ha alcune implicazioni che vedremo in un secondo momento). Le conseguenze politiche di questa visione sono due. Dal punto di vista della finanza pubblica, il consolidamento fiscale da mettere a bilancio per l’anno 1993 e i successivi non dovrebbe includere direttamente nessun ricavo dalle privatizzazioni. Nel contempo, dovremmo avviare un piano di riduzione del debito con gli incassi dalle privatizzazioni. Ciò implicherà più enfasi del Tesoro sulle implicazioni economiche complessive delle privatizzazioni e sull’obiettivo ultimo di ricostruire gli incentivi per il settore privato.

Secondo: privatizzazioni e mercati finanziari. La privatizzazione implica un cambiamento nella composizione della ricchezza finanziaria privata dal debito pubblico alle azioni. L’effetto di riduzione del debito pubblico può implicare una discesa dei tassi di interesse. Ma l’impatto sui mercati finanziari può essere molto più importante, quando vediamo che la quantità di ricchezza privata in forma di azioni è piccola in relazione alla ricchezza privata totale e che con le privatizzazioni può aumentare in modo significativo. In altre parole, i mercati finanziari italiani sono piccoli perché sono istituzionalmente piccoli, ma anche perché – forse in modo connesso – gli investitori italiani vogliono che siano piccoli. Le privatizzazioni porteranno molte nuove azioni in questi mercati. L’implicazione politica è che dovremmo vedere le privatizzazioni come un’opportunità per approvare leggi e generare cambiamenti istituzionali per potenziare l’efficienza e le dimensioni dei nostri mercati finanziari.

Tre: privatizzazioni e crescita. (In molti casi) vediamo le privatizzazioni come uno strumento per aumentare la crescita. Nella maggior parte dei casi la privatizzazione porterà a un aumento della produttività, con una gestione migliore o più indipendente, e a una struttura più competitiva del mercato. La privatizzazione quindi potrebbe parzialmente compensare i possibili – ma non certi – effetti di breve termine di contrazione fiscale necessaria per un bilancio più equilibrato. In alcuni casi, per trarre beneficio dai vantaggi di un aumento della concorrenza derivante dalla privatizzazione, potrebbe essere necessaria un’ampia deregolamentazione. Questo processo, se da una parte diminuisce le inefficienze e le rendite delle imprese pubbliche, dall’altra parte indebolisce la capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale. Tuttavia, consideriamo questo processo – privatizzazione accompagnata da deregolamentazione – inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea. L’Italia può promuoverlo da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea. Noi preferiamo la prima strada.

Le implicazioni di policy sono che: a) un grande rilievo verrà dato all’analisi della struttura industriale che emergerà dopo le privatizzazioni, e soprattutto a capire se assicurino prezzi più bassi e una migliore qualità dei servizi prodotti; b) nei casi rilevanti la deregolamentazione dovrà accompagnare la decisione di privatizzare, e un’attenzione speciale sarà data ai requisiti delle norme comunitarie; c) dovranno essere trovati mezzi alternativi per perseguire obiettivi non di mercato, quando saranno considerati essenziali. Quarto: privatizzazioni e depoliticizzazione. Un ultimo aspetto attraente della privatizzazione è che è percepita come uno strumento per limitare l’interferenza politica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche. Questo è certamente vero e sbarazzarsi di questo fenomeno è un obiettivo lodevole. Tuttavia, dobbiamo essere certi che dopo le privatizzazioni non affronteremo lo stesso problema, col proprietario privato che interferisce nella gestione ordinaria dell’impresa. Qui l’implicazione politica immediata è l’esigenza di accompagnare la privatizzazione con una legislazione in grado di proteggere gli azionisti di minoranza e di tracciare linee chiare di separazione tra gli azionisti di controllo e il management, tra decisioni societarie ordinarie e straordinarie.

A cosa dobbiamo fare attenzione, per valutare la forza del mandato politico di un governo che voglia veramente privatizzare? Primo, occorre una chiara decisione politica su quello che deve essere considerato un settore strategico. Non importa quanto questo concetto possa essere sfuggente, è comunque il prerequisito per muoversi senza incertezze. Secondo, visto che non c’è una Thatcher alle viste in Italia, dobbiamo considerare un insieme di disposizioni sui possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione (se essa dovesse aumentare come effetto della ricerca dell’efficienza), sulla possibile concentrazione di mercato, e sulla discriminazione dei prezzi (quest’ultima in particolare per la privatizzazione delle utility). Terzo, occorre superare i problemi normativi. Un esempio importante: le banche, che secondo la legislazione antitrust (l. 287/91) non possono essere acquisite da imprese industriali, ma solo da altre banche, da istituzioni finanziarie non bancarie (Sim, fondi pensione, fondi comuni di investimento, imprese finanziarie), da compagnie assicurative e da individui che non siano imprenditori professionisti. In pratica, siccome in Italia non ci sono virtualmente grandi banche private, gli unici possibili acquirenti tra gli investitori domestici sono le assicurazioni o i singoli individui. Una limitazione molto stringente.

In ordine logico, non necessariamente temporale, tutti questi passaggi dovrebbero avvenire prima del collocamento. In quel momento, affronteremo la sfida più importante: considerando che una vasta parte delle azioni sarà offerta, almeno inizialmente, agli investitori domestici, come facciamo spazio per questi asset nei loro portafogli? Qui giunge in tutta la sua importanza la necessità che le privatizzazioni siano a complemento di un piano credibile di riduzione del deficit, soprattutto per ridurre la creazione di debito pubblico. Solo se abbiamo successo nel compito di ridurre “continuamente e sostanziosamente” il nostro rapporto tra debito e Pil, come richiesto dal Trattato di Maastricht, troveremo spazio nei portafogli degli investitori. Allo stesso tempo, l’assorbimento di queste nuove azioni può essere accelerato dall’aumento dell’efficienza del nostro mercato azionario e dall’allargamento dello spettro degli intermediari finanziari. Qui il pensiero va subito alla creazione di fondi pensione ma, di nuovo, i fondi pensione sono alimentati dal risparmio privato che da ultimo deve essere accompagnato dal sistema di sicurezza sociale nazionale verso i fondi pensione. Ma un ammanco dei contributi di sicurezza sociale allo schema nazionale implicherebbe di per sé un deficit più elevato. Questo ci porta a una conclusione di policy sui fondi pensione: possono essere creati su una base veramente ampia solo se il sistema nazionale di sicurezza sociale è riformato nella direzione di un sistema meglio finanziato o più equilibrato rispetto a quello odierno.

Questa presentazione non era fatta per rispondere alla domanda su quanto possa essere veloce il processo di privatizzazioni – non è il momento giusto per affrontare il tema. L’obiettivo era fornirvi una lista delle cose da considerare per valutare la solidità del processo. La conclusione generale è che la privatizzazione è una delle poche riforme nella vita di un paese che ha assolutamente bisogno del contesto macroeconomico giusto per avere successo. Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo.

Lasciatemi concludere spiegando, nella visione del Tesoro, la principale ragione tecnica – possono esserci altre ragioni, legate alla visione personale dell’oratore, che vi risparmio – per cui questo processo decollerà. La ragione è questa: i mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’aggiustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni. 

Mario Draghi, servitore dell’alta finanza massonica internazionale e dei poteri forti. Da Iacchite il 4 Febbraio 2021.

Accolto da un coro pressoché unanime e plaudente, Mario Draghi divenne il nuovo governatore della Banca d’Italia il 29 dicembre 2005. Per lui sono state sprecate le lodi e gli aggettivi specie da parte del “centrosinistra”: “una scelta di alto profilo” (Prodi), “Una guida forte e sicura per Bankitalia” (Veltroni), una “biografia intellettuale di tutto rispetto” (Liberazione), “Ama il dialogo, il lavoro di staff, la discussione, circondarsi di intelligenze” (il manifesto).

Ma chi è veramente l’uomo che venne presentato come una sorta di “salvatore della patria”, colui che sarebbe stato capace di restituire “prestigio” e “credibilità” a Palazzo Koch e all’Italia intera a livello internazionale?

Draghi è innanzitutto il grande privatizzatore che ha contribuito in prima persona a svendere tutto il patrimonio industriale e finanziario pubblico gettandolo nelle fauci del mercato privato italiano e internazionale con un costo sociale altissimo soprattutto in termini di occupazione.

È l’uomo dell’alta finanza massonica internazionale da Soros, ai Rothschild, alla Goldman Sachs, accusato di essere “l’anima nera” dei “poteri forti” internazionali organizzati in associazioni di tipo massonico come Bilderberg e Trilateral alle cui converticole è stato spesso presente.

Draghi è nato nel 1947 a Roma. Frequenta il liceo dei gesuiti Massimo. Il suo compagno di scuola è il futuro presidente della Fiat e di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, che, guarda caso, oggi è stato uno dei suoi principali sponsor. Negli anni ’70, all’università, è allievo prediletto di Federico Caffè, col quale si laurea in economia e che, da barone, imporrà la sua carriera accademica. Studia e insegna nei migliori campus Usa e consegue un Ph.d in Economics presso il Massachussetts Institute of Technology (MIT). Gli Usa saranno una sua seconda patria. Poi verrà anche Londra, o per meglio dire la City.

Dal 1981 torna in Italia e insegna all’Università di Firenze. Alla fine degli anni ’80 approda nei corridoi ministeriali come consigliere economico del ministro del Tesoro Giovanni Goria, che lo designa a rappresentare l’Italia negli organi di gestione della Banca Mondiale. Draghi comincia così a tessere i suoi forti legami internazionali e interni.

Nel ’90 è consulente proprio della Banca d’Italia con Ciampi governatore, del quale si dice a tutt’oggi sia uomo fidato. Alla Banca d’Italia lavorava anche il padre di Draghi, Carlo, all’epoca di Donato Menichella.  Nel 1991 diventa direttore generale del Tesoro. Fino ad allora un incarico poco ambito. Ma Draghi riesce a trasformare quell’incarico in una delle poltrone chiave del potere economico e finanziario del Paese.

Negli stessi anni è membro del Comitato monetario della CEE e del G7, nonché presidente di Gestione Sace. Dal ’91 al ’96 è nel CdA dell’IMI e dal ’93 presiede il Comitato per le privatizzazioni. Dal ’94 al ’98 è presidente del G10 Deputies. Al nome di Draghi si lega anche il nuovo testo per la finanza societaria, che passa alla storia, appunto, come Legge Draghi. Una legge che contiene le nuove regole sull’Opa.

In sostanza, per dieci anni, fino al 2001, Draghi resta alla torre di controllo dell’industria e della finanza pubbliche nonostante la giostra di ministri e di governi che si sono succeduti: dal governo Andreotti, che lo nominò la prima volta, a quelli Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, ancora Amato e ancora Berlusconi.

La chiave di volta della sua inarrestabile carriera, sembra essere il 2 giugno del 1992 quando Draghi partecipa a una “crociera” sul lussuoso yatch “Britannia” della regina Elisabetta d’Inghilterra che incrocia a largo di Civitavecchia. Tra i passeggeri figurano i rappresentanti delle banche più importanti e dell’alta finanza “giudaico-anglosassone”, Barings, Barchlay’s e Warburg, il banchiere e speculatore internazionale George Soros e, per l’Italia, Mario Draghi, Beniamino Andreatta, collaboratore di Prodi, e, sembra, il ministro del Tesoro Barucci.

Si dice che su quella nave sia stata messa a punto e deliberata una strategia che doveva portare alla svalutazione della lira e alla completa privatizzazione delle partecipazioni statali italiane a prezzi stracciati grazie alla svalutazione. Non vi sono prove, ma certo ciò che avvenne a distanza di soli tre mesi, non può essere pura coincidenza. Fatto sta che a settembre dello stesso anno viene lanciato un attacco speculativo che porta a una svalutazione della lira del 30% ed al prosciugamento della riserva della Banca d’Italia con Ciampi che arriva a bruciare 48 miliardi di dollari.

Una crisi che portò anche allo scioglimento del Sistema Monetario Europeo (SME). E subito dopo si apre la stagione delle privatizzazioni: da Eni a Telecom, da Imi a Comit, al Credit, a Bnl. Passano in mano del mercato estero, oltre a buona parte del sistema bancario, i colossi dell’energia e delle comunicazioni, la Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Perugina, Mira Lanza e molte altre aziende dei settori strategici.

A governare lo smantellamento dell’Iri c’è Prodi col quale Draghi vanta un’antica amicizia e collaborazione nata nella frequentazione del Centro di studi economici bolognese Prometeia del DC Andreatta.

Sono tanto forti i legami di Draghi con buona parte della finanza internazionale, che Ciampi affida a lui tutto il lavoro diplomatico legato a superare le resistenze in Europa all’entrata dell’Italia nell’euro nel gruppo di testa. La lunga stagione di Draghi al ministero del Tesoro si chiude solo nel 2001, quando il ministro Tremonti chiama a sostituirlo Domenico Siniscalco.

Draghi lascia via XX Settembre e torna ad insegnare negli Stati Uniti. Dopo soli 5 mesi, nel 2002 entra in Goldman Sachs a Londra di cui ben presto diviene vicepresidente per l’Europa. Un altro clamoroso caso di conflitto d’interesse.

Nel curriculum di Draghi pochi ricordano il curioso riacquisto di una fetta di Seat da parte della Telecom che l’aveva appena ceduta. O del fatto che si è reso conto dell’affare “Telekom Serbia” solo quattro mesi dopo che l’operazione era stata conclusa. O della vendita alla Goldman Sachs per tremila miliardi delle vecchie lire dell’intero patrimonio immobiliare dell’Eni appena un anno prima, nel dicembre 2000, di essere nominato vicepresidente guarda caso proprio della Goldman Sachs.

Altro che “ottimo servitore dello Stato”. Piuttosto un ottimo servitore degli interessi speculativi dell’alta finanza e del capitalismo italiano e internazionale, quanto se non di più del deposto Antonio Fazio dal quale lo distinguono solo le principali correnti e lobby politiche, economiche e finanziarie di riferimento, che a volte agiscono in combutta, a volte in contrapposizione. Fonte: Il Bolscevico 

SERGIO ROMANO su corriere.it Martedi' 16 Giugno 2009 

LA CROCIERA DEL BRITANNIA FRA AFFARI E SOSPETTI. Che cosa accadde realmente il 2 giugno 1992 a bordo del Britannia, il panfilo della Corona d’Inghilterra, dove manager ed economisti italiani discussero con i banchieri britannici della prospettiva delle privatizzazioni in Italia? Una minicrociera di mezza giornata al largo di Civitavecchia attorno alla quale si è sviluppata la leggenda di un complotto per svendere l’industria pubblica italiana alla finanza anglosassone. Quali esponenti italiani vi parteciparono? Che effetti ebbe quella riunione? Giuseppe Zaro

Caro Zaro, Posso dirle anzitutto quello che accadde nei giorni seguenti. Vi furo­no indignate prese di posizio­ne della stampa nazionalista. Vi furono preoccupate inter­rogazioni parlamentari di esponenti del Msi. E vi fu un coro di voci allarmate che de­nunciarono la «regia occulta» dell’incontro, le strategie dei «poteri forti», la «svendita dell’industria italiana». L’uso del panfilo della Regina Elisa­betta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse sta­to organizzato da una società chiamata «British Invisibles» provocò una valanga di sorri­si, ammiccamenti e battute ironiche.

Cominciamo dal nome de­gli organizzatori. «Invisibili», nel linguaggio economico-fi­nanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, ri­lanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capi­tale di competenze nel setto­re delle acquisizioni e delle fu­sioni. Fu deciso che quel capi­tale sarebbe stato utile ad al­tri Paesi e che le imprese fi­nanziarie britanniche avreb­bero potuto svolgere un ruo­lo utile al loro Paese. «British Invisibles» nacque da un co­mitato della Banca Centrale del Regno Unito e divenne una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. Oggi si chiama International Fi­nancial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore. Nel 1992 questa organizzazio­ne capì che anche l’Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire. Come luogo dell’in­contro fu scelto il Britannia per tre ragioni. Sarebbe stato nel Mediterraneo in occasio­ne di un viaggio della regina Elisabetta a Malta. Era invalsa da tempo l’abitudine di affit­tarlo per ridurre i costi del suo mantenimento. E, infine, la promozione degli affari bri­tannici nel mondo è sempre stata una delle maggiori occu­pazioni del governo del Re­gno Unito.

Fra gli italiani che salirono a bordo del panfilo vi furono banchieri pubblici e privati, manager dell’Iri e dell’Efim, rappresentanti di Confindu­stria. Vi fu anche Mario Dra­ghi, allora direttore generale del Tesoro nel governo di Giu­liano Amato. Ma Draghi si li­mitò a introdurre i lavori del seminario con una relazione sulle intenzioni del governo italiano e scese a terra prima che la nave salpasse per l’Ar­gentario. La crociera fu breve e pittoresca, con una orche­strina della Royal Navy che suonava canzoni nostalgiche degli anni Trenta e un lancio di paracadutisti da aerei bri­tannici che si staccarono in volo da un incrociatore e sce­sero come stelle filanti intor­no al panfilo di Sua Maestà. Fu anche utile? È difficile fare i conti. Ma non c’è privatizza­zione italiana degli anni se­guenti in cui la finanza an­glo- americana non abbia svolto un ruolo importante.

Estate ‘92: la crociera sul Britannia voluta da sua maestà che privatizzò l’Italia…Il 2 giugno 1992 sul panfilo della regina Elisabetta, Royal Yacht “Britannia”, fu deciso di avviare la privatizzazione d’Italia. Paolo Delgado su Il Dubbio il 22 agosto 2018.

Il 2 giugno 1992 l’ultima estate della Prima Repubblica non era ancora iniziata. Il panfilo della regina Elisabetta, Royal Yacht “Britannia”, era all’ancora nel porto di Civitavecchia, in attesa di imbarcare ospiti importanti per una minicrociera verso l’isola del Giglio. Ci sarebbero stati manicaretti per pranzo, gamberetti e costolette d’agnello preparati da chef d’eccezione. Ci sarebbe stato un po’ di spettacolo, con i parà inglesi che si lanciavano dagli aerei decollati da un incrociatore. Ci sarebbe stata musica d’epoca, rigorosamente anni ‘ 30. Ci sarebbero stati soprattutto discorsi destinati a cambiare la storia d’Italia. Su quel panfilo, in quella giornata di sole e mare, fu deciso di avviare la privatizzazione d’Italia.

Gli anfitrioni della Union Jack erano definitivi, invisibles, invisibili, non perché si trattasse di una losca setta in stile feuilleton ottocentesco ma perché così si chiamano nel Regno Unito quelli che si occupano di transizioni immateriali, dunque soprattutto di finanza: finanzieri e banchieri. Gli ospiti erano l’alto comando dell’economia di Stato italiana: il presidente di Bankitalia Ciampi e l’onnipresente Beniamino Andreatta, i due artefici del “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro all’inizio degli anni ‘ 80, c’erano i vertici di Eni, Iri, Comit, Ina, le aziende di Stato e lepartecipate al gran completo. C’era, a introdurre il consesso, il direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Fu lui a tenere la relazione introduttiva sui costi e i vantaggi delle privatizzazioni. Dicono che dalle sue parole trapelasse un certo scetticismo e forse è vero. Di certo, terminata la prolusione, sbarcò senza proseguire alla volta del Giglio. Ma non c’era scetticismo che tenesse. L’operazione avviata in quella mezza giornata sul mare era in realtà già stata decisa e non solo perché quella era allo-ra, dopo la rivoluzione thatcherian- reaganiana, il dogma economico dal quale si erano lasciati ipnotizzare tutti, la sinistra “di governo” non meno della destra. Anche e soprattutto perché quella gigantesca dismissione era condizione imprescindibile per entrare nella nascente moneta unica. Ce lo chiedeva l’Europa. Chiedeva parecchio: lo Stato controllava treni, aerei e autostrade per intero, idem per acqua, elettricità e gas, l’ 80% del sistema bancario, l’intera telefonia, la Rai, porzioni consistenti della siderurgia e della chimica. I settori di partecipazione erano praterie sconfinate: assicurazioni, meccanica ed elettromeccanica, settore alimentare, impiantistica, fibre, vetro, pubblicità, supermercati, alberghi, agenzie di viaggio. Impiegava il 16% della forza lavoro nel Paese.

Vendere, o svendere, quel patrimonio, secondo i dettati della teoria economica imperante avrebbe raggiunto tre risultati: ridurre il debito pubblico che ammontava allora a 795 mld di euro, rendere più efficienti e competitivi i settori in via di privatizzazione, aumentare l’occupazione. In quell’inverno del 1992, mentre tangentopoli colpiva durissimo e si attendeva un referendum che tutti sapevano avrebbe siglato il Game Over per la prima Repubblica, nei corridoi di Montecitorio non si sentiva parlare che di “privatizzazioni” e “cartolarizzazioni”. Era la panacea, il sospirato miracolo, la bacchetta magica.

Si partì nel luglio 1993, con la vendita, o svendita, della prima tranche del gruppo SME, controllato dall’Iri. L’onore di aprire la strada toccò ai surgelati e ai dolci: Motta, Alemagna, Surgela più varie e molte eventuali. Se li aggiudicò la svizzera Nestlè.

Il breve governo Berlusconi, nel 1994, implicò una frenata che si prolungò fino al 1996: poi, con i governi Prodi e D’Alema, le dismissioni presero la ricorsa. Il gruppo IRI fu smembrato e messo in vendita: il ricavo immediato fu di 30 mld di vecchie lire, lievitati poi sino a 56mila e passa. Una cordata capitanata dagli Agnelli si aggiudicò Telecom. Ciampi, allora ministro del Tesoro, spiegò che serviva a impedire che Fiat vendesse all’americana General Motors. D’Alema, arrivato al governo alla fine del 1998 patrocinò il cedimento di Autostrade a Benetton, introducendo una delle principali specificità delle privatizzazioni all’italiana: la vendita allo stesso soggetto sia del servizio che delle infrastrutture, le autostrade e i caselli, Telecom e i cavi sui quali viaggia il segnale.

La dismissione è proseguita per una ventina d’anni, passando per le banche, quote di Enel ed Eni, il disastro di Alitalia. L’incasso è stato cospicuo: 127 mld di euro, una decina ricavata solo dalla vendita di immobili. Sarebbe un record se non ci fosse l’inarrivabile Regno Unito thatcheriano e post- thatcheriano che è andato persino oltre. Il bilancio però è fallimentare, almeno se si tiene conto degli sbandierati obiettivi iniziali. Il debito pubblico non è stato risanato: si è triplicato. Il rilancio dell’occupazione ha proceduto all’indietro, con un milione di posti di lavoro circa persi. Il miraggio di creare “colossi italiani” è rimasto un miraggio beffardo.

Il principale vantaggio promesso ai consumatori, l’abbassamento dei prezzi conseguente alla competività delle aziende private sul mercato, è stato rapidamente affondato dalla tendenza delle aziende stesse ad accordarsi ricreando di fatto condizioni di monopolio, solo a condizioni più esose. E’ vero che spesso gli utili delle aziende privatizzate sono cresciuti e spesso di parecchio. Però, come segnalava nel 2010 la Corte dei Conti, in una valutazione complessiva del ventennio delle privatizzazioni, non per il miglioramento dei servizi e la loro conseguente maggior appetibilità: solo per l’aumento delle tariffe.

Se sia oggi il caso di tornare a nazionalizzare è oggetto di disfide nelle quali è difficile, per chi non abbia le necessarie competenze tecniche, decidere dove siano le ragioni e dove i torti. Però ammettere che le privatizzazioni italiane sono state un fallimento sarebbe quanto meno onesto. 

Maastricht, Tremonti: "In Ue atto di straordinaria importanza ma in Italia abbattuta industria". Da adnkronos.com il 6 febbraio 2022.

"Poco dopo iniziò Mani Pulite e attraccò Britannia, avviando processo 'elegante' ma simile a quello oligarchi russi".

Se dal "lato europeo" il trattato di Maastricht "è un atto costitutivo di straordinaria importanza" per cui "la mia valutazione è assolutamente positiva", dal "lato italiano" appena "15 giorni dopo la firma inizia Mani Pulite, in seguito attracca il Britannia, avviando un processo più 'elegante' ma simile a quello parallelo avviato in Russia con i signori delle privatizzazioni" con "l'effetto finale di abbattere progressivamente la grande industria italiana" con "un processo che simile non c'è stato né in Germania né in Francia". Lo racconta l'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, che all'Adnkronos commenta i 30 anni dalla firma del trattato, il 7 febbraio 1992, che gettò le basi della Ue.

"Il Trattato di Maastricht va ricordato e analizzato in una logica bilaterale, dal lato europeo e dal lato italiano", spiega. Guardando a quello europeo "viene dopo la caduta del Muro e indirizza il nostro Continente nel nuovo mondo globale che si sta aprendo. Maastricht è del 1992, il Wto viene subito dopo, nel 1994. In questi termini - ribadisce l'ex ministro - una valutazione assolutamente positiva, ben sapendo che è work in progress, tutto è work in progress", insiste Tremonti ricordando come "dopo Maastricht sono venute tante scelte positive ma anche tanti errori. L'ipotesi era che l'Unione basata sul mercato comune fosse modello per un mondo che a sua volta superando le ideologie si unificasse nella logica del mercato. Non è stato propriamente così, non è stata l'Unione ad essere modello e paradigma del mercato, ma è stato il mercato - sostiene Tremonti - ad entrare in Europa trovandola impreparata. Eliminati completamente i dazi, troppe regole imposte a imprese europee, costrette a competere con imprese estere prive di regole. C'è ancora molto da fare e può essere fatto".

Dal lato italiano, racconta specificando di "aver personalmente verificato le parole", sul volo di Stato di ritorno da Maastricht l'allora ministro del Tesoro Guido Carli "dice 'abbiamo aggiunto al vincolo Atlantico un ancora più forte vincolo europeo' e Andreotti dice 'a Roma non sanno quello che abbiamo fatto'. Mani pulite inizia 15 giorni dopo, il Britannia attracca poco dopo, avviando un processo più 'elegante' ma simile a quello parallelo avviato in Russia con gli oligarchi, i signori delle privatizzazioni. L'effetto finale - ricorda nuovamente l'ex ministro Tremonti - è stato quello di abbattere progressivamente la grande industria italiana. Un processo simile non c'è stato né in Germania né in Francia".

Trattato di Maastricht, 30 anni dopo. L’analisi di Tremonti: “Ha abbattuto la grande industria italiana”. Penelope Corrado su Secolo d’Italia domenica 6 Febbraio 2022. 

Se dal “lato europeo” il trattato di Maastricht “è un atto costitutivo di straordinaria importanza” per cui “la mia valutazione è assolutamente positiva”, dal “lato italiano” appena “15 giorni dopo la firma inizia Mani Pulite, in seguito attracca il Britannia, avviando un processo più ‘elegante’ ma simile a quello parallelo avviato in Russia con i signori delle privatizzazioni” con “l’effetto finale di abbattere progressivamente la grande industria italiana” con “un processo che simile non c’è stato né in Germania né in Francia”. Lo racconta l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che all’Adnkronos commenta i 30 anni dalla firma del trattato, il 7 febbraio 1992, che gettò le basi della Ue.

L’ex ministro dell’Economia Tremonti spiega come hanno distrutto l’industria italiana

“Il Trattato di Maastricht va ricordato e analizzato in una logica bilaterale, dal lato europeo e dal lato italiano”, spiega. Guardando a quello europeo “viene dopo la caduta del Muro e indirizza il nostro Continente nel nuovo mondo globale che si sta aprendo. Maastricht è del 1992, il Wto viene subito dopo, nel 1994. In questi termini – ribadisce l’ex ministro – una valutazione assolutamente positiva, ben sapendo che è work in progress, tutto è work in progress”, insiste Tremonti ricordando come “dopo Maastricht sono venute tante scelte positive ma anche tanti errori.  

Tremonti: «L’Italia entrò nell’euro per l’interesse tedesco Uscirne? Sarebbe distruttivo». Alessandro Graziani il 6 gennaio 2019 su ilsole24ore.com.

«La mia prima occasione di incontro con l’euro è stata accademica alla Oxford Union Society, 18 febbraio 1999. Dibattiti provocatori e paradossali, pensi che nel 1938 in un’occasione gli studenti votarono a favore di Hitler contro Churchill, salvo poi morire sui loro “spitfire”. A ogni modo, il mio dibattito era “euro is in our national interest”? Sarei stato il primo oratore italiano mai invitato, ma ad un patto: dimostrare che l'euro conveniva al Regno Unito. L'avversario era Frederick Forsyth, che oggi si direbbe “populista”. L'occasione era unica e perciò avrei parlato anche a favore del demonio. Alla fine votarono se pure per poco a favore della sterlina. Non credo che oggi farebbero diverso, anzi». L’ex Ministro dell’Economia Giulio Tremonti inizia con un aneddoto la sua intervista a IlSole24Ore ed entra nel dibattito lanciato daquesto giornale su vizi e virtù dei 20 anni della moneta unica.

A venti anni dalla nascita, che giudizio dà dell’euro?

Per quanto atipico l'euro è comunque una moneta e, come tutte le monete, non può essere trattato come una “monade” e neppure come un “noumeno”. Che sia Platone o Kant, che sia la tecnica a farsi metafisica, troppi “esperti” oggi considerano l'euro come entità staccata o staccabile dalla realtà ed in specie dalla politica. E questo è per certi versi paradossale per due ragioni. In primo luogo perché l’euro fu concepito dai padri come strumento economico per fare politica: “federate i loro portafogli, federerete i loro cuori”. In secondo luogo perché gli ultimi venti anni, ovvero l’età dell'euro, sono anche gli anni nei quali sono cambiate la struttura e la velocità del mondo: venti anni fa non solo c'erano ancora le monete nazionali, ma c'era anche il telefono fisso, il commercio era ancora internazionale, non c'erano l'Asia o Internet. E già questo ci porta ad una prima considerazione: che effetti hanno sulla moneta la scomparsa della domanda salariale un tempo causa sistemica di inflazione o l'apparizione di circuiti finanziari automatici ed autogestiti che rendono la moneta, un tempo segno sovrano, sempre meno sovrana di sé stessa? 

È il caso di evitare l'errore “tecnico” che consiste nel considerare l'euro solo in termini di quantità monetaria, di velocità, di tassi di interesse o di cambio. Pensando che questo possa governare la realtà o prescindere dalla realtà. Soprattutto perché l'euro è moneta atipica. Per la prima volta nella storia, si ha moneta senza governi e governi senza moneta. All'origine ci furono un grande pensiero e grandi uomini. L'impressione è che la realtà presente sia un po' differente.

L’euro è anche frutto di grandi eventi storici, come la riunificazione tedesca. Che ne pensa?

Le date chiave sono il 9 novembre 1989 e il 15 aprile 1994. È più o meno qui che si colloca il “big-bang” della storia contemporanea: a Berlino con la caduta del muro e a Marrakech con il WTO. Non puoi capire l'una senza capire l'altra. Dal crollo del muro all'unione monetaria passano solo 700 giorni, ma sono i giorni nei quali è cambiata la storia. Forse una eterogenesi dei fini. Non la riduzione della forza tedesca con l'estensione del marco, ma l'effetto opposto. In ogni caso la storia si rimette in cammino. Dappertutto, anche in Italia. Ricordo due episodi per tutti: 15 giorni dopo Maastricht inizia a Milano “Mani Pulite”. Qualche tempo dopo attracca a Civitavecchia il Britannia.

L’ingresso dell’Italia nell’euro avvenne per merito o perchè conveniva ad altri Paesi europei?

È molto probabile che l'Italia abbia fatto il 3% di Maastricht perché si era già deciso di farla entrare nella moneta. Tutti gli Stati hanno fatto operazioni di bilancio per centrare il 3%, anche operazioni puramente contabili. Nel caso italiano la scelta fu tedesca, in terra neutra sul lago Lemano gli industriali tedeschi da un lato non ancora consolidati nella grande Germania e dall'altro temendo la concorrenza dell'industria italiana allora ancora molto forte convinsero la “banca tedesca” a fare entrare l'Italia nella moneta così che la curva dei tassi sul debito italiano crollò. Di incerto restava non l'ingresso, ma l'anno di ingresso. Non essendo un economista mi permetto di rinviare a quanto scritto da Modigliani e da Spaventa alle posizioni espresse da Ciampi, da Savona, da Romiti. È comunque probabile che il cambio lira/euro sia stato influenzato in negativo sull'Italia da tutto quanto sopra: come pizzino applicato sul biglietto di ingresso. Data la dimensione storica del fenomeno e la natura dell'Italia come paese fondatore, il tipico meschino errore.

La globalizzazione? Non è l'Europa che è entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione che è entrata in Europa trovandola incantata e impreparata. 

L’ex premier Prodi ha scritto pochi giorni fa sul Sole24Ore che se l’euro fece salire i prezzi di merci e servizi, la responsabilità è del Governo di centrodestra che, quando a inizio 2002 l’euro entrò nelle tasche degli italiani, non vigilò adeguatamente. Come risponde?

Non possiamo mettere in pericolo la Coesione

Dobbiamo tutti essere d'accordo su un punto: non dobbiamo intaccare la coesione. Lo ha detto Elisa Ferreira, Commissaria Ue per le politiche regionali e urbane in occasione della pubblicazione dell'ottavo...

È polemica ed infantile l'idea dei controlli da fare H24. L'idea sinistra della polizia annonaria. Nella realtà, nella storia dell'Italia non ci sono mai stati o comunque diffusi pezzi monetari ad alto valore ma sempre pezzi cartacei e monetine. Perfino gli assegnini degli anni '70 erano pezzi di carta e come tali accettati. Se mi è consentito l'unica vera idea, e non solo per l'Italia ma per l'Europa, era quella della banconota da un euro ed un'idea non solo di interesse italiano come alcuni ottusi mi obiettarono ma di interesse per l'euro in sé, se l'euro aspirava a diventare una vera moneta globale. Forse non è un caso se esiste la banconota da un dollaro.

Superato il changeover, che giudizio dà dei primi anni dell’euro?

Nei primi anni, a partire dal 2002, tutto è stato relativamente tranquillo e credo ben governato nella relativa normalità, portata da quella che in effetti era una assoluta novità. Ad esempio nel 2003 il caso in cui i “custodi dell'euro” volevano applicare alla Germania non solo la procedura per deficit eccessivo, ma anche le sanzioni. Ricordo di aver fatto notare che il Trattato prevedeva le sanzioni solo nel caso di intenzionale e sfidante deviazione dai criteri di Maastricht e non nel caso di numeri generati da una economia in crisi. Premesso che dare le sanzioni alla Germania, ma anche a nessun altro, non è una cosa molto intelligente, premesso che la Corte di Giustizia avvalorò la proposta italiana (salvo un piccolo errore di procedura commesso perché si era all'alba), premesso che se colpita dalle sanzioni la Germania non avrebbe poi fatto le sue grandi riforme, fu davvero curioso che chi chiedeva le sanzioni in applicazione fanatica del Patto dichiarò qualche tempo dopo che il Patto era stupido.

Trattato di Lisbona, allargamento a Est della Ue, globalizzazione. L’Europa cambia. Con che impatto sull’euro?

La storia faceva il suo mestiere e troppi esperti, governanti e santoni non si accorgevano di quello che stava succedendo. Con il Trattato di Lisbona la piramide istituzionale dell'Europa si è rovesciata, trasferendo verso Bruxelles enormi quote di potere non più controllato in senso propriamente democratico. La globalizzazione? Non è l'Europa che è entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione che è entrata in Europa trovandola incantata e impreparata: l'Europa a disegnare l'astratto mercato perfetto, le nostre imprese costrette a competere con mondi molto meno vincolati e regolati. L'allargamento ad Est? Giusto, ma troppo veloce. Ed ora chi lo chiedeva così veloce condanna Visegrad. Forse avrebbero dovuto leggersi un libro di storia. In ogni caso l'Est chiedeva democrazia e Bruxelles e il Lussemburgo si sono organizzate come la fabbrica della democrazia post-moderna ad esempio occupandosi della “horizontal family”. Infine la crisi. Non si trova la parola crisi nei Trattati se non a proposito delle calamità naturali e degli sbilanci commerciali in un singolo Stato. Il fondo anticrisi proposto dall'Italia nel 2008 fu costituito anni dopo usando un notaio che arrivò di notte all'Eurogruppo incorporandolo come un “hedge fund”.

Con la crisi divampa la polemica contro l’Europa delle regole e i burocrati di Bruxelles. Di chi è la responsabilità?

La sconfinata devoluzione di poteri verso l'alto e quindi verso un sostanziale vuoto democratico, l'orgia legislativa, la eliminazione totale istantanea dei dazi europei, la trasformazione dell'Europa in un corpus politico sui generis, la mala gestio della crisi, ciascuno di questi fatti capace da solo di produrre effetti violentissimi, e tutti insieme un caos, tutto questo per quasi venti anni è stato causato ma non capito dalla classe dirigente europea che adesso ricorda i nobili dopo la rivoluzione francese. Non hanno capito niente, ma ricordano tutto. Ricorda chi chiedeva di tenere ancora un po' i dazi e chi ancora nel '97 parlava della lumachina di mare, dei fagioli europei, dei furetti con il passaporto europeo, etc.? Pochi sanno che in extremis pochi giorni prima del voto sulla Brexit Bruxelles sospese il regolamento “toilet flushing” sugli impianti igienici da standardizzare nelle case europee. E poi uno si chiede perché “questa” Europa non è amata.

Soluzioni possibili?

Il venire meno della solidarietà con le atrocità combinate alla Grecia e con il golpe finanziario in Italia sono episodi che non possono più essere ripetuti e forse l'idea degli eurobond, già emersa con la proposta Delors nel 1994 e più avanti con la Juncker-Tremonti, potrebbe essere la soluzione.

Siamo sicuri che la crisi fosse nei debiti, nei bilanci pubblici o non piuttosto nel settore privato? Perché si è permesso ai Governi di fare “austerity”?

Gli anni della crisi hanno portato alla ribalta la Bce. Con Qe e «whatever it takes» Draghi ha salvato l’euro. Concorda?

Una premessa. Mi risulta che il Parlamento tedesco abbia appena approvato, e che quello francese stia per farlo, una norma che sterilizza l'impatto di una “Hard-Brexit” sui derivati con controparti europee. Che cosa vuol dire? Io credo che pur determinata dalla scelta americana di creare moneta “ex nihilo” la scelta Bce della “quantitative easing” sia stata pur nella sua particolare applicazione una grande e giusta scelta: Ma forse anche per valorizzarla nella sua intelligenza politica è venuto il tempo di alcuni rilievi ed interrogativi: il 2% di inflazione è davvero un target o piuttosto un plafond? E comunque che effetto hanno gli strumenti monetari nel'età della globalizzazione? Nel wording Bce si legge da anni: “sovereign debt crisis”. Siamo sicuri che la crisi fosse nei debiti, nei bilanci pubblici o non piuttosto nel settore privato? Perché si è permesso ai Governi di fare “austerity” salvo il caso di qualche Governo che ha fatto l'opposto? Ha avuto senso speculare contro gli Npl italiani sottraendo risorse alle nostre banche ed invece ignorare il mondo opaco ed enormemente più pericoloso dei derivati?

L’euro è irreversibile? La maggioranza degli italiani e degli europei è a favore della moneta unica. Che ne pensa?

Un conto è uscire da una moneta nazionale per entrare in una moneta sovranazionale. Un conto è uscire da una moneta sovranazionale per entrare in una moneta nazionale. Chi lo fa perde il futuro senza riacquistare il suo passato. Si dimentica che c'è stata e che c'è comunque la globalizzazione e che forze esterne distruggerebbero l'operazione. Tra l'altro per una moneta nazionale servirebbe coesione nazionale, non una parte che la vuole e l'altra no. Chi firmerebbe le nuove banconote e chi le prenderebbe in cambio delle materie prime che noi trasformiamo? Se è pur vero che in questo momento c'è più paura di perdere l'euro che fiducia nell'euro in sé, il popolo italiano nella sua profonda saggezza la dice molto lunga al proposito. Certamente qualcosa in più va fatto. Guardi la fotografia del Trattato di Roma: uomini, un tipo d'uomo che gli inglesi dicono “grave”, uomini che avevano fatto la prigione o l'esilio per le loro idee. Guardi le “family photo” europee attuali. La differenza non sta solo nel fatto che quelle erano foto in bianco e nero e queste sono foto a colori.

MANI PULITE 30 ANNI DOPO. L’arma delle mafie è la corruzione. Per i loro business la criminalità organizzata continua a usare le tangenti. Più esigue ma molto più diffuse di prima. Il vero pericolo è l’incontro tra i loro interessi e imprenditoria. Lirio Abbate su L'Espresso il 10 febbraio 2022.

La corruzione non si arresta. Nuovi processi riempiono sempre di più le aule giudiziarie, con gli imputati e le inchieste a dimostrare ancora una volta che le mazzette sono un’arma utilizzata dalle mafie per questo loro business “silenzioso”. La tangente, a distanza di trent’anni da Mani Pulite, viaggia ancora nei palazzi e negli uffici pubblici provocando contraccolpi negativi alla società che riceve servizi sempre più scadenti, opere pubbliche che non vedono quasi mai la conclusione dei lavori, al contrario della lievitazione dei costi.

L'ipocrisia del Belpaese. Dal caso Craxi ai nodi ancora irrisolti della giustizia. Marcello Lala su Il Riformista il 9 Febbraio 2022. 

Quando Ettore Rosato (presidente di Italia Viva) e Marco Di Maio (vicedirettore di Radio Leopolda) mi hanno chiesto che cosa ne pensassi di fare un podcast su Bettino Craxi e sulla sua storia sono stato non solo felicissimo ed onorato ma ho anche pensato che fosse necessario inventarsi qualcosa di nuovo, qualcosa di mai detto e la chiave era ascoltare le persone che come me hanno avuto la possibilità di vivere e di conoscere il vero Craxi, quello più intimo.

Insieme alla giornalista di Radio Leopolda Chiara Marconi siamo andati alla ricerca degli aspetti più personali e degli aneddoti più curiosi, cercando di evitare di affrontare quelli giudiziari e tristi di una vicenda che merita tutt’altro approfondimento. Non si possono scrivere parole di verità, ed il nodo Craxi non si può sciogliere, se non si parla del Craxi vero, quello che giornali e televisioni non hanno voluto raccontarci negli ultimi anni. Non una visione parziale delle cose, ma una visione intima e personale di uno dei padri del socialismo italiano che come più volte aveva detto «parla e continua a parlare» anche dopo la sua triste morte ad Hammamet avvenuta il 19 gennaio del 2000. Ed allora chi più dei figli, dei suoi più stretti collaboratori politici e non, gli amici (quelli veri) ci poteva raccontare Bettino Craxi cercando di trasmettere alle generazioni future tutto il valore della politica per un uomo che ne aveva fatto il senso della vita.

Affrontiamo temi attualissimi e che insieme alla figura di Craxi restano nodi ancora da sciogliere nel panorama politico italiano, e cioè la giustizia, l’immigrazione, l’importanza dei valori risorgimentali e della sofferenza che ha attraversato il nostro Paese nel dopoguerra, paragonando quel periodo al periodo che stiamo attraversando oggi con l’emergenza Covid. Quanto i valori del socialismo riformista sono attuali nel contesto attuale e quanto del riformismo di Craxi è presente nell’azione politica delle forze liberali e socialiste presenti in Parlamento. Quanto la cultura riformista può incidere ancora per lo sviluppo e la crescita dell’Italia. Tanti si professano socialisti e riformisti iniziando dal premier Mario Draghi, ebbene quanto dell’insegnamento di Craxi ha inciso su questa sua formazione politica e di quelli che a parole dichiarano di esserlo!

Il compito del podcast sarà quello di sciogliere un nodo che solo con la vera informazione si potrà sciogliere per liberare il Paese da una ipocrisia di base che ha origine da quella drammatica stagione che prese il nome di Tangentopoli ma che sin da subito Craxi definì «una falsa rivoluzione politico giudiziaria» e che vide insieme magistratura e politica (una parte della politica) con pezzi del sistema imprenditoriale italiano e cioè i padroni dei grandi giornali e delle tv infierire sul sistema dei partiti (alcuni partiti) per distruggerli e distruggerne la classe dirigente.

Il più ingombrante, il più moderno, il più determinato era Craxi, noto per il suo senso di libertà e di patria (altro che sovranismo) lasciato morire come un delinquente in Tunisia il 19 gennaio del 2000, come se tutto quello che avesse fatto per il nostro Paese non avesse contato nulla. Oggi con lo spettacolo quotidiano che ci mostrano i partiti, non ultimo quello offerto per l’elezione del Presidente della Repubblica, siamo qui a rimpiangere lui e quelli che come lui fecero dell’Italia un grande Paese ovvero la quinta potenza industriale del mondo. Marcello Lala

Feltri: Mani pulite fu una strage degli innocenti. Mi scuso con i lettori per gli eccessi di allora…il 09 febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Mani pulite come la “strage degli innocenti”. E Vittorio Feltri, che in quella stagione si fece interprete del vento dell’antipolitica, oggi si scusa con i suoi lettori per gli eccessi. A 30 anni dalle inchieste che decapitarono il pentapartito, ma lasciarono indenne il Pci, il bilancio di Feltri, in un lungo articolo su Libero, è amaro: tangentopoli aprì le porte alla seconda repubblica, che è stata peggio della prima.

Tutto cominciò con la tangente a Mario Chiesa

Tutto cominciò – scrive – quando il capo del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa venne beccato “mentre incassava una tangente in denaro contante”. “Il povero Chiesa, persona peraltro perbene, era un socialista che obbediva agli ordini di partito, drenava palanche per finanziare il Psi, come all’epoca si usava in politica. Il Pci era finanziato dall’Unione sovietica e i nostri rappresentanti democratici del popolo, per pareggiare i conti, si arrangiavano con le tangenti sganciate da imprenditori, che ovviamente in cambio chiedevano favori. Niente di strano e niente di pulito. Per evitare queste scorrettezze sarebbe bastato che il governo dell’epoca avesse legalizzato il finanziamento ai partiti, cosa che non fece mai per non dare l’impressione al popolo di essere avido di ricchezza. Un grave errore che pagò con la disintegrazione di un sistema politico che, con tutti i suoi difetti, funzionava abbastanza bene”.

La magistratura, Antonio di Pietro in testa, si diede da fare per organizzare “un repulisti tale da ammazzare la democrazia italiana: qualunque partito, ad eccezione del vecchio Pci, che godeva delle simpatie delle toghe, fu annientato”. A dire il vero anche il Msi uscì indenne dalla stagione di Mani pulite, e non perché godeva di simpoatie da parte del partito delle toghe ma perché era sempre stato fuori dal sistema.

Solo Craxi protestò con veemenza per Mani pulite

“L’unico che protestò con veemenza – ricorda Feltri –  fu Craxi, contro il quale anche io mi ero scagliato. E spiego perché. All’epoca dirigevo da un paio di mesi L’Indipendente, un quotidiano elegante e quindi moribondo. Per tentare di resuscitarlo adottai i consigli di un vecchio grande giornalista, Gaetano Afeltra, il quale mi disse: riempi la prima pagina di cronaca viva senza dimenticarti di spargere qua e là un po’ di merda (testuale). La ricetta funzionò. Alla vicenda di Chiesa i grandi quotidiani non diedero peso, sembrava una stupidaggine. Invece io ci inzuppai il biscotto, creando un caso. Poi intervistai Di Pietro, che mi fornì un quintale di materiale. E lo scandalo partì a razzo”.

Feltri: il soprannome di Cinghialone affibbiato a Craxi fu un errore

Feltri aggiunge di vergognarsi, oggi, del soprannome di “cinghialone” affibbiato a Craxi. “Martinazzoli lo denominai Cipresso e Lumino, dato che si chiamava Mino. Insomma, mi divertii un mondo a fare casino. Se ripenso alle mie imprese cartacee ora mi imbarazzo. In realtà Mani Pulite fu come la strage degli innocenti, un sacco di uomini perbene furono fucilati da inchieste condotte col metodo “un tanto al chilo”. In quegli anni covava nelle gente una sorta di spirito di vendetta nei confronti della politica e io me ne feci interprete. Sono pentito? Solo un po'”.

“La mia indole di direttore in cerca di successo – conclude Feltri – era troppo forte per farmi desistere dal desiderio di pascere la gente con gli scandali. Sta di fatto che quella stagione fu devastante, apri le porte alla seconda Repubblica che ha dato frutti peggiori rispetto alla prima”.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 10 febbraio 2022.

Mi fido della mia antica memoria. Sono trascorsi 30 anni da quando scoppiò Mani Pulite. Era il 17 febbraio 1992 quando la magistratura avviò l'inchiesta giudiziaria che diede la stura a una sorta di rivoluzione. Venne pescato il capo del Pio Albergo Trivulzio mentre incassava una tangente in denaro contante, alcuni milioni di lire, mentre lui, Mario Chiesa, preso in castagna, per evitare guai si affrettò a gettare la mazzetta nel water.

Furbata inutile, perché le forze dell'ordine capirono tutto e ripescarono i quattrini. Ciò bastò per aprire indagini che ebbero sviluppi clamorosi. Il povero Chiesa, persona peraltro perbene, era un socialista che obbediva agli ordini di partito, drenava palanche per finanziare il Psi, come all'epoca si usava in politica. 

Il Pci era finanziato dall'Unione sovietica e i nostri rappresentanti democratici del popolo, per pareggiare i conti, si arrangiavano con le tangenti sganciate da imprenditori, che ovviamente in cambio chiedevano favori.

Niente di strano e niente di pulito. Per evitare queste scorrettezze sarebbe bastato che il governo dell'epoca avesse legalizzato il finanziamento ai partiti, cosa che non fece mai per non dare l'impressione al popolo di essere avido di ricchezza. Un grave errore che pagò con la disintegrazione di un sistema politico che, con tutti i suoi difetti, funzionava abbastanza bene.

La magistratura, con Antonio di Pietro in testa, organizzò un repulisti tale da ammazzare la democrazia italiana: qualunque partito, ad eccezione del vecchio Pci, che godeva delle simpatie delle toghe, fu annientato.

L'intera compagine politica fu accusata di furti, cosicché sparirono la Dc, il Psi, i repubblicani e in socialdemocratici nonché i liberali. Un cimitero. Vi risparmio i dettagli della strage avvenuta secondo criteri che a distanza di anni appaiono grossolani. Craxi e Forlani, in particolare, furono massacrati. La Repubblica si inginocchiò alla magistratura, lasciando che l'impianto istituzionale che aveva favorito la rinascita postbellica del nostro Paese andasse a ramengo. Le conseguenze sono note e hanno provocato una crisi nel nostro sistema amministrativo da cui non siamo ancora riusciti a uscire.

La narrazione sommaria di questi fatti dimostra che la cosiddetta Prima Repubblica fu assassinata dalle toghe senza fatica, perché essa si arrese senza neanche tentare di reagire. L'unico che protestò con veemenza fu Craxi, contro il quale anche io mi ero scagliato. E spiego perché. 

All'epoca dirigevo da un paio di mesi L'Indipendente, un quotidiano elegante e quindi moribondo. Per tentare di resuscitarlo adottai i consigli di un vecchio grande giornalista, Gaetano Afeltra, il quale mi disse: riempila prima pagina di cronaca viva senza dimenticarti di spargere qua e là un po' di merda (testuale). La ricetta funzionò.

Alla vicenda di Chiesa i grandi quotidiani non diedero peso, sembrava una stupidaggine. Invece io ci inzuppai il biscotto, creando un caso. Poi intervistai Di Pietro, che mi fornì un quintale di materiale. E lo scandalo partì a razzo.

Cominciarono gli arresti, i suicidi. Le vendite dell'Indipendente si impennarono e mi indussero ad insistere sul caso che divenne nazionale, internazionale addirittura. Scrivevo articoli al fulmicotone in appoggio alla procura di Milano, costringendo i miei colleghi a venirmi appresso, dapprima timidamente, poi usando la grancassa. Il mio giornale andava a ruba e io godevo, non mi importava nulla del pressappochismo delle toghe.

Ero invasato, eccitato. Il soprannome Cinghialone affibbiato a Craxi lo inventai io, e ancora me ne vergogno. Martinazzoli lo denominai Cipresso e Lumino, dato che si chiamava Mino. Insomma, mi divertii un mondo a fare casino. Se ripenso alle mie imprese cartacee ora mi imbarazzo. 

In realtà Mani Pulite fu come la strage degli innocenti, un sacco di uomini perbene furono fucilati da inchieste condotte col metodo "un tanto al chilo". In quegli anni covava nella gente una sorta di spirito di vendetta nei confronti della politica e io me ne feci interprete. Sono pentito? Solo un po'. La mia indole di direttore in cerca di successo era troppo forte per farmi desistere dal desiderio di pascere la gente con gli scandali.

Sta di fatto che quella stagione fu devastante, apri le porte alla seconda Repubblica che ha dato frutti peggiori rispetto alla prima, quella in cui viviamo malamente con una classe politica assai peggiore della precedente. 

La parentesi berlusconiana ci ha illuso di essere tornati alla normalità, ma sappiamo come e perché Silvio innocente sia stato castigato con le stesse armi giudiziarie servite per uccidere la prima Repubblica. Oggi la classe politica è di infimo livello, la colpa è collettiva, anche mia. Mi scuso coi lettori se ho ecceduto nel menare le mani, ma ho qualche attenuante: mi prudevano.

Morto Rocco Stragapede, il poliziotto che collaborò con Di Pietro durante Mani Pulite. Ilaria Minucci l'01/02/2022 su Notizie,it.

Il poliziotto Rocco Stragapede è morto a 71 anni: il militare è stato uno storico collaboratore di Antonio Di Pietro, attivo durante Mani Pulite.

Il poliziotto Rocco Stragapede, uno dei più stretti collaboratori di Antonio Di Pietro durante Mani Pulite, è deceduto all’età di 71 anni: il militare era malato da tempo.

Morto Rocco Stragapede, il poliziotto che collaborò con Di Pietro durante Mani Pulite

Nella giornata di martedì 1° febbraio, il poliziotto Rocco Stragapede è morto a 71 anni: l’uomo era malato da tempo di SLA, a causa della patologia degenerativa diagnosticata, viveva ormai allettato.

Rocco Stragapede è stato uno degli storici e più stretti collaboratori Antonio Di Pietro all’epoca di Mani Pulite, assistendo il magistrato in occasione degli interrogatori che si dipanarono nel corso degli anni e delle indagini volte a smascherare la corruzione del sistema di potere esistente a Milano.

In tempi più recenti, il poliziotto era stato protagonista di uno speciale realizzato da History Channel nel quale raccontava gli eventi che caratterizzarono il 1992 e i turbolenti anni giudiziari di Mani Pulite.

Il legame tra Antonio Di Pietro a Rocco Stragapede, inoltre, si era tramutato in un rapporto di amicizia talmente forte da portare spesso l’ex magistrato a citare il poliziotto durante le interviste rilasciate alla stampa.

Il ricordo del collega e amico Giancarlo Spadoni

La notizia della morte di Rocco Stragapede è stata diffusa dal collega e amico trentennale Giancarlo Spadoni che, proprio come il collega, fece parte della squadra di polizia giudiziaria coordinata dall’ex magistrato Di Pietro durante Mani Pulite.

Con la sua scomparsa, il militare lascia la moglie Giovanna e il figlio Gabriele, che hanno trascorso gli ultimi anni accanto a Stragapede nel tentativo e nella speranza di riuscire ad “alleviare le sue sofferenze”.

In merito alla scomparsa dell’amico, Spadoni ha dichiarato: “Se ne è andato un amico e un combattente. È un altro pezzo del mio mosaico che se ne va”.

L’arrivo alla Procura di Milano e la collaborazione con Di Pietro

Alla fine degli anni 80, Rocco Stragapede entrò a far parte della Procura di Milano nel ruolo di assistente di polizia, iniziando sin da subito ah collaborare con Antonio Di Pietro. Prima di partecipare all’arresto di Mario Chiesa, Stragapede lavorò con l’ex magistrato a numerose inchieste tra le quali figurano anche quella incentrata sulla maxi truffa delle patenti.

Ora un’inchiesta (non giudiziaria) per scrivere la vera storia del deragliamento di Tangentopoli. Le indagini su Tangentopoli volevano dimostrare la contiguità della politica con la corruzione come "sistema", confondendo la condotta per tutelare lo Stato con il suo contrario. Giuseppe Gargani Il Dubbio il 21 gennaio 2022.

Ricorrono trenta anni dall’arresto di un signore di nome Chiesa al prossimo febbraio da parte della Procura della Repubblica di Milano che dette inizio alla lunga fase di indagini giudiziarie che vanno sotto il nome di “Tangentopoli”. Dopo il tempo trascorso è possibile dare un giudizio più obiettivo, in qualche modo storico, fuori dalle passioni e dalle polemiche di partito. È quindi necessario interrogare l’intelligenza giuridica del paese, gli avvocati e i magistrati in una convention che organizzeremo appunto a febbraio per porci alcune domande fondamentali che riteniamo doverose per ricostruire la storia vera degli accadimenti.

Non si può non riconoscere, che, sia le indagini di “Tangentopoli” che quelle che riguardano in particolare la mafia sono state utilizzate per “fare la storia”, per inventare una “storia” addomesticata, una “storia” tutta legata alle indagini giudiziarie non verificate, date come vere e diffuse mediaticamente ad un pubblico emotivo e rancoroso. “Mani Pulite” la storia puntava a condizionarla e a modificarla; e “mafiopoli” la storia ha puntato a ricostruirla ad uso e consumo di tesi politiche e di teoremi improvvisati senza tenere conto delle oggettive responsabilità.

Oggi però constatiamo che le sentenze di assoluzione sono in nettissima prevalenza e smentiscono i teoremi dei pubblici ministeri; e constatiamo altresì, con molto sollievo, che la sentenza della Corte D’Assise di Palermo dell’ottobre scorso ha negato la natura penale della “trattativa tra lo Stato e la mafia” che per molti anni ha avvelenato i rapporti tra le istituzioni e la magistratura, tra la politica e la stessa magistratura. Persiste l’annosa anomalia processuale che, attraverso la narrazione mediatica, rende certe e definitive le indagini e prevalenti rispetto alla verifica del processo: è per queste ragioni che la narrazione in questi lunghi anni delle indagini giudiziarie è stata manipolata e ha disegnato una storia distorta.

Constatiamo con soddisfazione che alcuni giudici hanno fatto giustizia di tante indagini avventate e false anche se è ancora centrale e dominante la figura del pm – accusatore. È dunque necessario e riflettere su quanto è avvenuto in questi trent’anni nei quali, si è destrutturato il sistema politico, e il tessuto democratico dei partiti e si è infangato lo Stato e tanti suoi fedeli rappresentanti.

Le indagini della procura di Milano sin dagli anni 90 sul finanziamento ai partiti, è correlato e collegato sempre e comunque a reati di corruzione che hanno dato valore assoluto alla cosiddetta “corruzione percepita”, e di conseguenza in Italia “tutto è diventato corruzione” dal malaffare all’abuso d’ufficio degli amministratori e questo ha inciso profondamente nel tessuto sociale determinando rancore e avversione ai poteri costituiti e diffidenza nei confronti della pubblica amministrazione.

Deve essere ristabilita la verità storica: questo il nostro fermo proposito. Natalino Irti in uno splendido scritto rileva che dalla sentenze non si “attende un giudizio sull’epoca storica“ ma solo la “verità giudiziale” su fatti sostenuti da prove. Dopo le argomentazioni e le valutazioni fatte, non è possibile, a distanza di trent’anni, ripensare “tangentopoli” come puro evento giudiziario separato dalla risonanza mediatica che l’ha accompagnato e amplificato e dalle conseguenze che ha determinato.

Possiamo oggi sostenere che il sistema democratico nel suo complesso non era corrotto ma vi erano certamente corrotti che non potevano intaccare il tessuto sano e affidabile dei partiti politici. Il fenomeno della corruzione pur presente nel paese, come si è detto, non fu individuato per singoli casi personali e nella forma prescritta dal codice, per la pretesa della magistratura di poter correggere la politica contestando il sistema! E questa contestazione ha finito poi per catturare il consenso popolare che ha costituito il sostegno vero alle iniziative giudiziarie. Vi è stata l’illusione di poter costruire uno Stato etico, moralistico con indiscriminate punizioni “ai cattivi” e in particolare alla “casta politica” e questo ha alimentato il rancore sociale. Questi interrogativi che presuppongono una analisi adeguata.

Siamo in presenza di una crisi della cultura giuridica, che è alla base e al tempo stesso conseguenza della crisi politica e che risale agli anni 70 quando sì era accentuata la crisi del rapporto tra potere politico e potere giudiziario. E si è verificata in quel periodo un’intesa tra limitati settori della magistratura fortemente politicizzati e i partiti della sinistra, del PCI in particolare, che, attraverso l’azione dei magistrati, aveva intravisto la possibilità di sconfiggere i partiti della maggioranza non essendo riuscito a ridimensionarli attraverso il confronto elettorale e, in tal modo, conquistare il potere. È questa la premessa culturale che ha consentito una funzione della magistratura fuori dalle regole istituzionali, ideologizzando il suo ruolo come un ruolo politico, non al di sopra delle parti, ma capace di assumere in sé una sorta di arbitraggio della questione sociale e partecipare, attraverso la giurisdizione, alla tutela appunto delle ragioni delle parti sociali in antagonismo tra loro.

Si sono condannati in tal modo i partiti e in particolare la DC e il PCI e, all’interno di questi, le correnti ritenute ostili in modo da distinguere i buoni dai cattivi. Questo consente di dire ancora oggi ad un politico accorto come Bersani che al PD hanno aderito i “democristiani buoni” i quali invece sono stati guidati solo dal trasformismo e da mere ragioni di potere!

Dobbiamo dunque porci la domanda: come è potuto avvenire tutto ciò, come è stata possibile una deviazione delle indagini così rilevante da rendere martiri alcuni servitori dello Stato e distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così “illogica”?! Le indagini della procura di Milano degli anni ‘ 90 volevano dimostrare la contiguità della politica con la corruzione come “sistema”, e le indagini della procura di Palermo hanno voluto considerare reato “la trattativa”, confondendo la condotta per tutelare lo Stato con il suo contrario.

Sarà necessaria un’indagine politica non giudiziaria che la classe dirigente che ha governato il paese fino agli anni 90 deve pur fare per l’interesse superiore di restituire dignità e veridicità alla storia, agli avvenimenti, al ruolo che le forze politiche hanno avuto in questi anni.

L’inchiesta non deve essere fatta contro la magistratura ma deve coinvolgerla se essa ha consapevolezza della necessità di una rivoluzione culturale, se si rende conto che è necessario ristabilire un equilibrio istituzionale, individuare e precisare il ruolo del giudice e del pubblico ministero nella società moderna.

Sinistra e magistratura: su Craxi hanno perso entrambe. Fabrizio Cicchitto e Biagio Marzo il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Vale la pena di partire dalla fine di tutta la storia, cioè dalla morte di Bettino Craxi avvenuta il 19 gennaio 2000.

Vale la pena di partire dalla fine di tutta la storia, cioè dalla morte di Bettino Craxi avvenuta il 19 gennaio 2000. A proposito di ciò che allora avvenne vale il motto di Bertold Brecht: «Chi non conosce la verità è soltanto uno sciocco, ma chi conoscendola la chiama bugia è un malfattore». Tutti sapevano che il leader socialista, operandosi in uno scalcinato ospedale militare tunisino non aveva scampo. In primo luogo lo sapeva Craxi, ma lo sapevano anche Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica, Massimo D'Alema presidente del Consiglio, Luciano Violante, presidente della Camera, e lo sapeva anche Borrelli, Procuratore Capo a Milano.

Che Craxi non fosse un cittadino qualunque era testimoniato non solo dal fatto che per 4 anni era stato presidente del Consiglio, ma che dopo la sua morte proprio la triade Ciampi, D'Alema, Violante propose i funerali di Stato, respinti dalla sua famiglia così come 22 anni prima li aveva respinti la famiglia di Moro.

Per Craxi gravemente ammalato, non si volle trovare una clausola o un salvacondotto per portarlo in una clinica italiana senza essere incarcerato. Anche su questo terreno è stato sempre fatto di tutto. Per esempio, successivamente, il 31 maggio del 2006 il presidente Napolitano graziò per le sue condizioni psicofisiche, inconciliabili con il regime carcerario, Ovidio Bompressi. A dir la verità, a quel che risulta, a essere favorevoli a una soluzione umanitaria fu in primo luogo Massimo D'Alema, e anche Ciampi e Violante, ma Borrelli si mise di traverso e prevalse: in quella fase era lui ad avere il potere politico reale in Italia. Come affermò in una famosa intervista Gherardo Colombo, «la seconda Repubblica era fondata sul ricatto», Colombo lasciò nel vago chi erano i ricattati, ma non ci vuole molto a capirlo. Ricattabili erano tutti coloro che, pur facendo parte del sistema del finanziamento irregolare, erano stati salvati dalla scelta del pool di Mani Pulite di usare il sistema dei due pesi e delle due misure: i massimi dirigenti del Pci-Pds e quelli della sinistra Dc «potevano non sapere», i dirigenti del Psi, dei partiti laici, del centrodestra della Dc, «non potevano non sapere» e quindi andavano perseguiti.

Recentemente il magistrato Guido Salvini ha spiegato il trucco a cui ricorreva il pool per avere un unico gip, del tutto compiacente, per tutti i processi di Mani Pulite, concentrandoli tutti in un unico fascicolo, operazione assolutamente indebita mentre l'ufficio milanese del gip era composto da ben 20 magistrati che si sarebbero dovuti alternare. In questo modo invece era molto stringente il metodo fondato sulla carcerazione per ottenere la confessione. Poi i casi della vita sono certamente infiniti per cui dopo il 1994 è accaduto che due pubblici ministeri chiave del pool sono finiti nelle liste del Pds venendo eletti per più legislature.

Adesso è annunciato per celebrare il trentennale di Mani Pulite che l'Anm ha convocato un convegno a Milano. Certamente l'Anm ha una ragione per farlo, perché da allora, in un crescendo parossistico, i settori più oltranzisti e rozzi della magistratura hanno conquistato di fatto il potere politico in Italia. Purtroppo però questo convegno si svolge in tempi sbagliati: esso viene fatto quando il Csm e l'Anm, in seguito a tutte le conseguenze del caso Palamara, stanno attraversando la fase più buia della loro esistenza. La magistratura è implosa per un eccesso di potere che non era in grado di gestire, ma che però ha segnato in Italia la devastazione dello Stato di diritto.

Ma i conti non tornano neanche in termini politici. Il disegno di D'Alema, espresso in un famoso libro-intervista, era sostanzialmente quello di eliminare Craxi e di sostituire il Pds a al Psi. Grazie al circolo mediatico giudiziario l'operazione in un primo tempo è riuscita anche per gli errori dei suoi dirigenti il Psi è stato raso al suolo. A distanza di anni, però le conseguenze finali sono le seguenti: l'erede del Pds è il Pd, un partito del 20 per cento, per una parte cospicua guidato dalla sinistra democristiana, accerchiato da un 40 per cento costituito dai due partiti sovranisti e che - eliminato il Psi- allo stato ha come possibile alleato solo un confuso movimento antipartitico, privo di una organica cultura politica che fa coalizione con chiunque pur di evitare le elezioni.

Come si vede, quindi, il percorso che va dalla morte di Craxi ai giorni nostri non ha avuto un esito felice certamente per i vinti ma neanche per i vincitori. Allora, al momento più alto della criminalizzazione di Craxi, il 30 aprile 1993 ci fu una versione moderna di Piazzale Loreto, con il lancio di monetine nel corso di una bella manifestazione fascio-comunista. Craxi non si volle arrendere e si rifugiò esule in Tunisia, come già avevano fatto negli anni Trenta un nucleo di antifascisti italiani che diedero anche vita a un bel giornale. Dopo di che nel 2000 sapendo bene a ciò a cui andava incontro, Craxi si operò nell'ospedale tunisino con una scelta che è sintetizzata nella epigrafe che sta sulla sua tomba: la mia libertà equivale alla mia vita. Fabrizio Cicchitto

Buoni o cattivi. I due schieramenti di Mani Pulite e il falò delle vanità dei giustizialisti. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 17 gennaio 2022. 

Nel trentennale di Tangentopoli la maggioranza degli italiani continua a lodare quella stagione di inchieste fatte senza rispettare i principi base dello Stato di diritto. Solo pochi hanno il coraggio di denunciare le detenzioni ingiuste, i morti in carcere e lo show dei pm del pool di Milano davanti alle telecamere.

Saranno due gli schieramenti nel dibattito sul trentennale di Mani Pulite. Il primo, maggioritario, sarà formato da coloro che ne celebreranno l’epopea al grido di fummo i precursori dell’onestà, sostenuti dalla meglio Italia, finalmente applicammo la legge uguale per tutti contro quelli che si ritenevano più uguali degli altri. Il secondo schieramento, meno folto, sarà composto da coloro che opporranno all’apologetica del primo le detenzioni ingiuste, i morti di carcere, gli arresti in prima pagina e le assoluzioni in trafiletto tra le previsioni del tempo.

Nel primo schieramento non mancherà l’opportuna rappresentanza di seconda fila, modestamente penitenziale, che rivendicherà lo spirito benintenzionato di quell’operazione ma saprà dolersi di certi eccessi, di certe sensibilità assopite, del largheggiare magari necessario ma in ogni caso penoso della soluzione carceraria: un po’ come il cappellano che soffertamente benedice le baionette.

E nel secondo schieramento mancherà l’opportuna denuncia del nocumento capitale arrecato dal manipolo milanese: l’insulto mai prima così grave, lo sfregio mai tanto incensurato, l’attentato mai prima sperimentato con analoga capacità offensiva, allo Stato di diritto. E non si tratta neppure di quello scempio rappresentato dal gruppo sedizioso dei pm meneghini che convocava le telecamere per manifestare indignazione morale avverso il governo che osava approvare norme sgradite.

Si tratta di quando il loro capo, di cui il Corriere della Sera offriva memorabili immagini equestri, si metteva a disposizione della «chiama» presidenziale per prendere in mano il Paese e ripulirlo: «A un appello di questo genere del capo dello Stato», disse allora Francesco Saverio Borrelli, «si potrebbe rispondere con un servizio di complemento». E a guarnire di ulteriore violenza eversiva quello sproposito fu l’obliquo riferimento alla «folla oceanica» sotto ai balconi delle Procure, magari di per sé insufficiente a legittimare quella soluzione ma solo bisognosa, appunto, del piccolo passaggio formale con cui il despota incarica il colonnello di formare la junta.

Ci si duole episodicamente (ormai è quasi gratis, dopo trent’anni) di qualche suicidio di troppo, di qualche lieve ineleganza davanti all’imponderabile e fisiologico gesto del detenuto che infila la testa in un sacchetto di plastica («Si vede che c’è ancora qualcuno che si vergogna»), di qualche tenue scompostezza nei propositi dell’accusa pubblica («Io a quello lo sfascio»): ma è acqua sul marmo quel conato golpista dal pulpito della persecuzione associata, lo stesso da cui in finire di carriera si istigava a resistere, resistere, resistere nella costituzione in contro-governo del potere togato.

IL LIBRO. Raul Gardini, la sua morte ha deviato il corso del processo Enimont e quello della storia. Il Domani il 12 gennaio 2022.  

Il 13 gennaio esce in libreria il romanzo di Gianluca Barbera, L’ultima notte di Raul Gardini, edito da Chiarelettere. 

Ricorre quest’anno il trentennale di Mani pulite e molti conti ancora non tornano, tra cui la morte del famoso manager che guidava Montedison, trovato senza vita il 23 luglio 1993, lo stesso giorno in cui avrebbe dovuto andare in procura a Milano dopo essere finito nel mirino del pool di Mani pulite.

Suicidio o omicidio? Per la magistratura non vi sono dubbi: Gardini si è tolto la vita. Ma molte cose non sono mai state chiarite.

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 12 gennaio 2022.

L' ultima notte di Raul Gardini diventa un romanzo (e una serie tv) di Gianluca Barbera. Fondato su una rigorosa ricerca, il libro (edito da Chiarelettere, pp. 240, euro 16; in uscita il 13 gennaio) aggiunge alcuni personaggi di fantasia, un giornalista d'inchiesta e suo fratello, spione professionista, per mettere in fila i fatti e suggerire al lettore le diverse soluzioni: il suicidio, come da risultanze processuali, ma anche le altre piste, più o meno credibili, saltate fuori sui giornali e anche nei tribunali. 

Qualche cosa (forse) non funzionò nell'indagine: a partire dalla sospetta manomissione della scena del crimine, con le notizie di una pistola troppo lontana dal cadavere e appoggiata sul comodino. 

Barbera ricostruisce il clima da crollo di un impero per via giudiziaria, con lo spettro del carcere per chiunque avesse realmente le mani in pasta nel capitalismo italiano. Il 20 luglio 1993 si uccide Gabriele Cagliari in carcere. Tre giorni dopo, il 23 luglio, tocca a Gardini nel suo palazzo milanese, poco prima di recarsi in procura. Sono i tre giorni neri di Mani Pulite. È in quel momento drammatico che inizia a cambiare il vento dell'opinione pubblica.

Fu dunque per evitare l'arresto, a opera di Antonio Di Pietro, che Raul Gardini si suicidò? Non lo sapremo mai. Il romanzo è bello e serrato. Difficile staccare gli occhi dalle ultime cento pagine. Barbera ci racconta diverse storie italiane, che si intrecciano fino ad arrivare alla morte di Gardini. Assistiamo alla nascita della dinastia Ferruzzi, attraverso lo spirito imprenditoriale di Serafino, il capostipite che indicherà il suo successore nel genero, Raul, soluzione appoggiata dall'intera famiglia. Quello di Serafino era un altro capitalismo: meno attento ai bilanci e disposto a correre rischi altissimi. Serafino, però, aveva un senso della strategia che gli permetteva di trovare sempre una soluzione. Anche Raul ha un carattere simile, ma si trova a vivere in un'altra epoca: certe mosse da poker finanziario non sono più ammesse ed entrare nel salotto della finanza, senza chiedere permesso, può essere uno svantaggio. In più c'è la politica affamata di denaro e dalle pretese crescenti. Infine c'è l'inchiesta Mani Pulite che funge da detonatore.

La madre di tutti gli errori è il tentativo di Gardini di mettere le mani sul salvadanaio dei partiti, l'Eni, per creare Enimont: la famosa maxi-tangente nasce da questa operazione che poteva trascinare a fondo il gruppo. La famiglia scarica Raul e accetta di uscire da Enimont, in cambio di una cifra considerevolmente fuori mercato per eccesso. Gardini non è d'accordo, vede nella vendita delle quote l'inizio della fine, ma è tagliato fuori. Chiediamo a Barbera quale sia il rapporto tra verità e finzione nel romanzo: «Anche nelle scene inventate ho usato sempre dichiarazioni registrate da giornali, tribunali o agenzie. In una delle pagine iniziali assistiamo a una conferenza stampa di Idina, la moglie di Gardini. La conferenza stampa non ci fu. Ma lei disse veramente quelle cose, sono sempre parole sue».

Non teme qualche querela?

«No, in fondo al romanzo ci sono gli esiti giudiziari delle varie inchieste. Non ci sono peggioramenti delle figure reali. Nessuno è accusato di fatti per i quali non sia stato effettivamente condannato. Ho letto migliaia di pagine su Gardini, Sama, Cusani e tutti i personaggi reali. Mi sono attenuto alle loro parole». 

Nel finale, tra depistaggi e colpi di scena, si gioca sulla ambiguità: «Non è compito mio condannare o assolvere. La realtà è complessa, non do giudizi, sarebbe ridicolo. Non mi sono mai posto da un punto di vista moralistico. Credo che le relazioni personali siano ricche di sfumature. Per non dire delle sfumature che possiamo cogliere nella natura complessa del grande capitalismo. Ho preso un pezzo di Storia d'Italia e di una famiglia e l'ho raccontato in modo spero efficace». 

La pensa così la Mompracem, società di Carlo Macchittella e dei Manetti Bros, i registi più in vista del momento grazie al film Diabolik. Il romanzo diventerà una serie tv. Barbera sarà consulente al soggetto e alla sceneggiatura. Perché Gardini è così affascinante?

«È uno di quei grandi personaggi che non si fermano davanti a nulla. Diceva spesso di non essere interessato alle opinioni altrui». Un orgoglio che sconfina nella superbia: «Un segno di individualismo assoluto. La sostanza però c'era. Gardini era considerato in possesso di una grande visione, da Romano Prodi ad esempio. Voleva fare la Storia. In questo era simile a Serafino Ferruzzi. Quando voleva una cosa, non badava al prezzo. Spese cifre enormi anche per armare il Moro di Venezia, la sua passione, la barca a vela con la quale affrontò la Coppa America. Era talmente convinto di sé da credere.Il padre Ivan era un ricco imprenditore agricolo, impegnato nella bonifica dell'area paludosa attorno a Ravenna. Raul studiò presso l'Istituto agrario di Cesena dove conseguì il diploma di perito agrario. Nel 1987 gli sarà conferita la laurea honoris causa in agraria dall'Università di Bologna. Crebbe professionalmente nell'azienda di Serafino Ferruzzi, di cui diventò genero nel 1957 sposandone la figlia Idina (1935-2018). Il 10 dicembre 1979 Serafino Ferruzzi morì in un incidente aereo e i suoi quattro eredi (Idina, Arturo, Franca, Alessandra) affidarono a Gardini le deleghe operative per tutto il Gruppo che finì con lo specializzarsi in prodotti chimici dal basso impatto ecologico. La tentata fusione con Eni segna l'inizio della fine. Sotto il pool di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli. Gardini si uccise il giorno in cui doveva essere interrogato da Di Pietro di poter ripianare qualsiasi debito». Gardini sognava di essere leader mondiale nel settore energetico della agrochimica (benzine verdi).

Marciava nella giusta direzione. Era amato dai "colleghi" imprenditori? Barbera: «Era un parvenu nei salotti "aristocratici" di Cuccia e Agnelli. Gardini veniva dalla provincia e da una famiglia che fondava la sua ricchezza sulla terra. Aveva il diploma di perito agrario, la laurea honoris causa in agraria all'Università di Bologna risale al 1987. Non era simpatico al potere politico e credo non volesse scendere a compromessi. In un certo senso, è stato stritolato da un ingranaggio del quale non voleva tenere conto». Questa fu la sua rovina: «La fusione con Eni lo mise nelle condizioni di doversi obbligatoriamente confrontare con la politica». E Tangentopoli...

«È un missile che sarebbe finito comunque contro Eni e Montedison. Credo che questo Gardini lo sapesse. Essere personalmente coinvolto nell'inchiesta invece ebbe un effetto dirompente. Non poteva accettare l'onta di finire in carcere, di essere visto come un perdente». Di recente, Federico Mosso ha pubblicato Ho ucciso Enrico Mattei (Gog edizioni) in cui tiene banco la morte del fondatore di Eni (ancora e sempre Eni...). Nel prossimo futuro incuriosisce il romanzo di Alessandro Bertante sulle Brigate Rosse, Mordi e fuggi, in uscita a fine mese per Baldini & Castoldi (ne riparleremo). La Storia pare aver dato vita a un filone romanzesco tra verità e finzione, che il cinema, con risultati alterni, aveva già toccato.

Stefano Zurlo per “il Giornale” il 12 gennaio 2022.

Tutto in tre giorni. Fra il 20 e il 23 luglio 1993. Il momento forse più cupo di Mani pulite e uno dei più drammatici nella storia recente del nostro Paese. La mattina del 20 luglio, dunque, Gabriele Cagliari, ex potentissimo presidente dell'Eni, a San Vittore da 134 giorni, chiude la partita con un suicidio meticolosamente preparato: ferma la porta del bagno della sua cella, la 102, con un pezzetto di legno, poi infila la testa in un sacchetto di plastica bloccato con un laccio da scarpe e soffoca con una tecnica disumana ma collaudata.

Il giudice Simone Luerti, che si era occupato di questa tragedia e che interrogai, fu categorico: «Purtroppo in letteratura ci sono casi di questo tipo». Nessun presunto mistero e niente di anomalo, se non una carcerazione preventiva interminabile e intollerabile, la sensazione di essere dentro un meccanismo che ti sta stritolando e da cui non uscirai più.

Lo stesso clima che deve aver vissuto ventotto anni dopo, sia pure da uomo formalmente libero, Angelo Burzi che a Torino la notte di Natale l'ha fatta finita con un colpo di pistola. In quei mesi del terribile Novantatré, che sul calendario sembra riecheggiare gli eccessi dell'originale giacobino, Mani pulite è una macchina da guerra che pare travolgere tutto e tutti. Il 23 luglio Raul Gardini, uno dei più importanti capitani d'industria, ha appuntamento per un interrogatorio con i magistrati del Pool. Il suo destino è segnato e gli spifferi e i verbali in uscita proprio in quelle ore sul Mondo lo rendono ancora più fragoroso. Il Contadino è un imprenditore abituato al comando, non alle mortificazioni e alla discesa nell'ombra della vergogna e dell'immobilità.

Quando ha saputo della fine di Cagliari, ha telefonato al cognato Carlo Sama: «È morto da eroe». Un presagio, anzi un annuncio. Si sveglia nella sua residenza milanese di Palazzo Belgioioso e si spara. Questa volta il sempre risorgente partito del dubbio e del chissà che cosa c'è dietro ha qualche carta in più, ma i protagonisti dell'epoca mi consegnarono versioni concordi. Sergio Cusani, braccio destro di Gardini, fu netto: «Raul non concepiva l'idea di potersi trovare in una situazione del genere e si ammazzò». Antonio Di Pietro scivolò sul registro del rimpianto: «Chissà, se lo avessimo arrestato, forse lo avremmo salvato».

In un libro misurato, Storia di mio padre, Stefano Cagliari ricostruisce quelle ore spaventose, senza misericordia, con la pietà in fuga dalle vie di Milano, tanto che pure il funerale era diventato un problema quasi insormontabile: «Il parroco di San Babila non c'era, il vice si rifiutò e così pure il vicariò di Carlo Maria Martini all'Arcivescovado». La gogna e il giustizialismo erano arrivati fino a mettere a repentaglio le basi della convivenza civile. Chi avrebbe officiato le esequie? «Allora - prosegue Stefano Cagliari- il cardinale, che è in Francia, chiama il cappellano di San Vittore, don Luigi Melesi, e lo prega di celebrare la funzione al posto suo». Ma i colpi di scena non sono ancora finiti, anzi la successione crudele degli avvenimenti raggiunge il suo apice, come in un film: «La chiesa era gremita, la gente si accalcava fuori. Arrivò la notizia del suicidio di Raul Gardini», morto a poche centinaia di metri da San Babila, nel cuore colmo di spine della metropoli.

«Era tutto più grande di noi». I familiari leggono le lettere. Quella all'ormai vedova Bruna è stata scritta a San Vittore il 3 luglio ed è chiusa in una busta con la dicitura agghiacciante: «Da aprirsi al mio ritorno». Prima che il pm Fabio De Pasquale, oggi sotto accusa per altri verbali Eni, si rimangiasse la promessa di chiedere al gip gli arresti domiciliari per la vicenda Eni-Sai. Quell'episodio è forse la goccia che fa traboccare il vaso, ma la decisione è presa prima e spiegata in quella missiva di congedo: «Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima... Siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua esercitazione». 

Una critica feroce, meditata e in qualche modo fatta propria da Gherardo Colombo, storico magistrato del Pool Mani pulite che firma proprio la prefazione del libro di Stefano Cagliari: «Il magistrato si incentra sulle esigenze della giustizia termine che inserisco fra molte virgolette - ma così facendo non si rende conto delle conseguenze che i suoi atti producono su coloro che le investigazioni subiscono». 

Mani Pulite nel fango: la verità sulle toghe, 30 anni dopo Tangentopoli. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 02 gennaio 2022.

Non era necessario leggere le sentenze di Mani Pulite, né gli ordini di arresto che le precedevano, per accorgersi che qualcosa non filava per il verso giusto sul corso di quella presunta giustizia: bastava assistere a come essa era reclamata dal popolo degli onesti, adunato sotto ai balconi delle procure della Repubblica per istigare i giustizieri a non retrocedere, a portare a compimento il repulisti nei palazzi della politica marcia. Non era necessario andar di codice, essere giuristi, per capire che il carcere adibito a confessionale e le inchieste a strumento di moralizzazione della società corrotta denunciavano un vizio radicale di quelle iniziative e del movimento che le accreditava: era sufficiente avere occhi per vedere come la classe dirigente e politica su cui piovevano le monetine dello sdegno fosse la medesima cui prima si chiedevano i favori, le raccomandazioni, le leggi buone a fare i debiti di cui s' è ammalato il Paese. Non era necessario aver studiato nulla per prevedere come sarebbero finiti gli esponenti di quella rivoluzione che avrebbe rivoltato l'Italia come un calzino: uno a capeggiare un partito dei "valori" e a godersi il frutto milionario delle querelea nastro contro chi spulciava nelle sue scatole delle scarpe; un altro al seggio parlamentare, guadagnato per le nobili dichiarazioni a fronte dell'ennesimo suicida: «Si vede che c'è ancora qualcuno che perla vergogna si uccide»; un altro a tener requisitorie televisive, troneggiante sul giornalista in posizione Clean Hands Matter, inginocchiato, a ciucciarsi e a diffondere la verità dell'assoluzione come regalo al delinquente che la fa franca; un altro a coltivare il ricordo del padrino, il magistrato equestre che in una vergognosa rappresentazione pubblica («siete i miei pulcini, i miei aquilotti, i miei cuccioli») assisterà all'avvicendamento di potere nella Procura la cui storia cominciò nel ripescaggio di sette milioni di lire dal cesso di un cronicario e finì nelle veline cospiratorie scambiate sulla tromba delle scale del Consiglio superiore della magistratura. E via così. Tra poco sono trent' anni. Ed è una giustizia malvissuta quella che pretendeva di rimettere in riga l'Italia mascalzona.

Mani Pulite e il valore del principio di imparzialità e terzietà. Lascia perplessi l’accordo, tra l’Ufficio Gip e la Procura, di attribuire a un unico fascicolo e affidare a un solo magistrato tutte le posizioni riconducibili alla vicenda. Alessandro Parrotta su Il Dubbio il 30 dicembre 2021. “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”: il principio menzionato trova il proprio fondamento nell’art. 25 della Costituzione ed è uno degli strumenti di cui l’ordinamento si avvale al fine di perseguire l’ideale dell’Organo Giudicante, terzo e imparziale, e che, concretamente, trova attuazione nelle norme relative alla competenza e alle linee guida dettate dal Consiglio Superiore della Magistratura in ordine ai criteri di attribuzione dei fascicoli, il cosiddetto sistema tabellare.

Tale sistema trova compimento con il R. D. 30 gennaio 1941, n. 12 e ha lo scopo di dettare criteri oggettivi e predeterminati al fine di individuare il Magistrato competente per la specifica controversia, sì da evitare che tali attribuzioni restino governate dalla discrezionalità dei singoli.

L’art. 7 bis del succitato Regio Decreto precisa che le tabelle vengono costituite dai singoli uffici, sulla base del decreto emanato ogni triennio dal ministro della Giustizia, in conformità delle deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura, assunte sulle proposte dei presidenti delle Corti di appello e sentiti i Consigli giudiziari. L’art. 7 ter determina, invece, le regole di assegnazione ai singoli uffici, secondo criteri “oggettivi e predeterminati”.

L’ultima circolare emessa con delibera di plenum in data 23 luglio 2020 – per il triennio 2020/ 2022, eventualmente prorogabile ai sensi dell’art. 7 bis R. D. 30 gennaio 1941, n. 12 – al capo V, art. 157, dispone, altresì, che l’articolazione dei criteri di assegnazione degli affari spetta al Dirigente dell’ufficio, sotto sorveglianza del Presidente di sezione o del Magistrato che dirige ai sensi dell’art. 47 quater, R. D. 12/ 1941, per poi ribadire, al successivo articolo, che tali assegnazioni alle singole sezioni, Collegi e Giudici, debbano avvenire secondo criteri oggettivi e predeterminati.

Il compendio sull’attività di assegnazione degli affari agli Organi Giudicanti posto in premessa è doveroso e funzionale – tanto per chi scrive, quanto per il lettore – al fine di approcciarsi all’interessante intervista rilasciata su queste stesse pagine dal giudice Guido Salvini, Gip presso il Tribunale di Milano.

Il dottor Salvini, in particolare, ripercorre l’assai nota vicenda che aveva interessato l’Ufficio Gip nel caotico periodo di inizio anni ’90, allorquando il Paese attraversava i violenti scandali originati dai fatti riconducibili agli episodi corruttivi che avevano interessato tutto il mondo politico: inchiesta “Mani pulite”.

Il dottor Salvini ricorda come l’allora Ufficio Gip e la Procura si accordarono per far sì che ogni singola vicenda legata a fatti di corruzione nella Pubblica Amministrazione fosse riconducibile al medesimo procedimento, rispondente al numero di registro 8655/1992. A quel fascicolo, pertanto, venivano ricollegate le vicende giudiziarie più disparate, anche senza che vi fosse alcun collegamento soggettivo e/ o oggettivo.

L’obiettivo perseguito era quello di affidare ad un singolo Magistrato, il dottor Italo Ghitti, tutte le posizioni processuali anche solo potenzialmente riconducibili alla più larga vicenda Mani pulite, sì da agevolare, come ovvio, l’attività della Procura. Meno Sezioni e Giudici differenti dell’Ufficio Gip conoscevano la vicenda e meno probabile era il rischio che vi fosse una disparità delle decisioni assunte.

In altre parole, il meccanismo ideato dalla Procura e dal pool, che allora seguì la vicenda, era quella di accentrare tutti gli affari su una singola figura, già nota all’Ufficio di Procura, nonché in un unico fascicolo, estendibile a piacere, al punto che, allora, l’Ufficio Gip del Tribunale di Milano si vide assegnare fascicoli su cui non poteva vantare nemmeno la competenza territoriale. Alla luce dell’allora normativa – non troppo dissimile dall’attuale – non può non evidenziarsi come venne posta in essere una complessa violazione del principio posto in apertura del presente articolo.

Pur comprendendo le ragioni del pool operante alle indagini – le vicende che allora investirono il Paese richiesero uno sforzo immenso della macchina giudiziaria – non si può non rilevare come i criteri dettati dal R. D. 21/ 1942, in attuazione del principio ex art. 25 Cost., vennero completamente e sistematicamente disapplicati dall’Ufficio Gip del Tribunale di Milano, forse per un più alto scopo.

Risulta quasi superfluo, a parere di chi scrive, evidenziare come un accordo tacito tra la Magistratura Inquirente e Giudicante, sia lesivo del principio di imparzialità e terzietà del Giudice, così come lesivo appare l’aggiudicazione di ogni singolo fascicolo non sulla base di criteri predeterminati ed oggettivi, ma per una mera questione di comodo.

Con ciò non si vuol certo dire che il dottor Ghitti allora non svolse un lavoro che, si è di questo certi, avvenne nel massimo rispetto del dettato costituzionale e della Legge; tuttavia, non si può certamente sottacere come meccanismi procedurali posti a tutela del principio di imparzialità e terzietà vennero adattati alla necessità. Proprio su questa necessità è il caso di riflettere se fosse proprio indispensabile o, quantomeno, perfettibile con correttivi quali quelli di individuare una squadra di magistrati da applicare ai noti fatti.

Il “trucco” di Mani pulite tra gelida indifferenza e opposte “concordanze”. Luca Palamara nel suo “il Sistema”, Ilda Boccassini in “La stanza numero 30” e Nino Di Matteo ne “I nemici della giustizia”, descrivono un contesto deprimente della magistratura. Valter Vecellio su Il Dubbio il 17 dicembre 2021. Otto dicembre scorso: Guido Salvini, giudice per le Indagini Preliminari in forza a Milano, scrive per Il Dubbio un circostanziato articolo, con espliciti riferimenti, fatti, nomi e cognomi, e spiega cosa è accaduto nell’ufficio del Gip della sua città nella stagione di “Mani Pulite”. Per riprendere l’efficace sintesi giornalistica: “Il pool escogitò il semplice ma efficace trucco di un ‘registro’ con lo stesso numero per tutti i reati che era così di competenza di un solo Gip: Italo Ghitti”. Sempre Salvini racconta come un fascicolo, in questo modo, con questo “trucco” gli viene sottratto; stessa cosa accade ad altri Gip, il tutto con la fattiva copertura e tolleranza dei Capi dell’ufficio: “Non era il tempo di seguire la strada giusta, ma di adeguarsi al mainstream”. In guerra e in amore tutto è lecito, si dice. Ma appunto: in guerra e in amore; amministrare la giustizia, applicare le leggi, non rientra nelle pratiche belliche, e neppure in quelle amorose, checché ne possa pensare qualcuno. Ad ogni modo: reazioni? Sì, qualche isolata voce, presto silenziata. Per il resto, sostanziale fastidio, gelida indifferenza. Un ulteriore passo indietro. A metà novembre Nino Di Matteo, magistrato attualmente membro del Consiglio Superiore della Magistratura, rilascia un’intervista a La7. Confessa un timore: “che si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura… Con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera e l’avversario diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare… La logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose, è il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”. Questa situazione dove (e chi) l’ha evocata e descritta prima di Di Matteo? Si deve recuperare un libro di grande successo, “Il sistema”, lunga conversazione tra l’ex magistrato Luca Palamara e Alessandro Sallusti: “…Le spiego una cosa fondamentale per capire che cos’è successo in Italia negli ultimi vent’anni”, dice Palamara. “Un procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, frequentandone magari l’abitazione…Ecco se si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo interno. Soprattutto perché fanno parte di un ‘Sistema’ che lì li ha messi e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli”. Nella sostanza le affermazioni di Di Matteo e Palamara si possono sovrapporre, due “opposti” che coincidono. Ma Di Matteo dice anche altro, nel libro “I nemici della giustizia”, scritto con Saverio Lodato. Quando si arriva alle pagine 75 e 76 si può leggere: “…Una cordata sorta attorno a qualche magistrato, di solito un importante procuratore, che ha saputo acquistare nel tempo, e spendere, la sua autorevolezza e il suo prestigio per occupare spazi sempre più ampi di potere dentro e fuori la magistratura…” con lo scopo “di fidelizzare altri colleghi, alti esponenti delle forze dell’ordine, acquisendo un potere tale da riuscire a influenzare scelte e nomine all’interno della magistratura e persino delle forze di polizia. Cordate, non più correnti…”. Ora idealmente si può far scendere idealmente in campo un altro personaggio, l’ex magistrato Ilda Boccassini. Ha scritto “La stanza numero 30. Cronache di una vita”, di cui molto si è parlato e scritto, più che altro per il quarto capitolo: il racconto di una liason con Giovanni Falcone. Capitolo che fa perdere di vista il cuore dei problemi che questo libro pone. Perché in fin dei conti, cos’abbiano combinato sono affari di Boccassini e Falcone; si può al massimo eccepire che questa storia poteva restare nel cono d’ombra dove era relegato, conosciuta da pochi. Ma è la sostanza delle questioni che si è persa di vista. La sostanza è il racconto di anni e anni di storia della magistratura, dei magistrati, del loro operare: il loro letterale trescare per acquisire e difendere postazioni di potere e carriera; le spartizioni, i boicottaggi, i servilismi: dal libro di Boccassini insomma, emerge un quadro desolante e desolato della magistratura, e di uffici giudiziari particolarmente importanti: quelli di Milano, Roma, Palermo, Caltanissetta. Del lato meschino e vanesio di magistrati ed ex magistrati famosi; i metodi di spartizione per l’attribuzione dei vertici apicali della magistratura da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. Insomma: un contesto, una “scena” e tanti retroscena, deprimenti. Significative queste ‘concordanze’ di personaggi così diversi, perfino opposti. Tutto ciò aggravato dal fatto che tutto ciò sembra scivolare come acqua su pietra liscia. Si può infine segnalare un’ulteriore, non meno grave “indifferenza”, che evidentemente (mal)cela una diffusa ostilità: verso i sei referendum per una giustizia più giusta promossi da Partito Radicale e Lega. Hanno superato il primo ostacolo, il vaglio della Corte di Cassazione. Ora la parola spetta alla Corte Costituzionale; non potrà falcidiare l’intero pacchetto; potrà dichiarare che qualche quesito non può essere sottoposto a referendum popolare, ma bocciarli tutti e sei non è cosa. Dunque, se non saranno sciolte le Camere (evento non meno improbabile), a primavera ci si pronuncerà su importanti questioni di giustizia e di come la si vuole amministrare. Che cosa attendono i mezzi di comunicazione, e in particolare quello che dovrebbe essere il servizio pubblico radio-televisivo, ad allestire spazi di informazione, confronto e dibattito tra sostenitori e avversari delle referendarie, non si capisce (o al contrario: lo si comprende bene). ‘Conoscere per deliberare’ è uno dei precetti di Luigi Einaudi: diritto alla conoscenza presupposto senza il quale non è data una vera democrazia. Curioso, ma anche indicativo, che filosofi, giuristi, commentatori, dedichino tempo ed energie nella denuncia di rischi e pericoli più supposti che reali per la democrazia, in Italia, in Europa, nel mondo, a proposito di una Pandemia che sconvolge il pianeta; e non una briciola di attenzione sul fatto che una questione essenziale come la giustizia e il modo in cui si amministra è argomento tabù: è scattato un verboten a cui pochi volenterosi vogliono e sanno sottrarsi, rapidamente, implacabilmente, silenziati: ridotti come il protagonista del celebre dipinto del norvegese Edvard Munch.

Il periodo di Tangentopoli. Italo Ghitti, l’unico gip di Mani Pulite: svelato il trucco del pool per sceglierselo. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 19 Dicembre 2021. Italo Ghitti è stato “il Gip di Mani Pulite”. L’unico. Per capirci: se il Pool ha aperto in quel periodo, per dire, cento indagini, cioè cento fascicoli diversi, per reati tra loro diversi, con indagati diversi, contesti diversi, insomma diversi, il Gip è stato sempre lui tutte e cento le volte. Lo sappiamo da sempre, noi penalisti lo abbiamo denunciato da subito e per decenni, ma nulla, come se niente fosse. Ora una meritevole intervista ad un Gip milanese, il dott. Guido Salvini, almeno ci fa sentire meno soli. Come è potuto accadere? Semplicissimo. I Pubblici Ministeri, gli eroici cavalieri senza macchia e senza paura del leggendario pool di Mani Pulite, inventarono un banale trucco. Tutte le nostre indagini fanno in realtà parte di una unica indagine, dissero (anzi, se lo dissero tra di loro, figuriamoci se qualcuno osò fare domande). Il fenomeno criminale è unico, la Corruzione ed il Finanziamento Illecito della Politica. Dunque tutti i fatti sui quali indaghiamo, dal Pio Albergo Trivulzio alla tangente Enimont, sono capitoli di una unica indagine purificatrice. Dunque un unico numero di procedimento e, per conseguenza, un unico Gip, Italo Ghitti. Un autentico gioco delle tre carte, che nemmeno a Forcella. Se un qualsiasi Procuratore oggi si azzardasse a fare una roba del genere, finirebbe diritto per diritto davanti ad un giudice disciplinare (almeno) a renderne conto. Per capirci, è come se la Procura di Palermo sostenesse che tutte le indagini di Mafia, qualunque siano i fatti, le cosche e i protagonisti, debbano ritenersi facenti parte di un unico fascicolo, e dunque affidate agli stessi inquirenti ed al controllo giurisdizionale di un unico Gip. La stampa nostrana non fece un plissé, e nemmeno ora, a babbo morto. I Santi non si toccano e non si bestemmiano. I famosi “cani da guardia” della verità contro i poteri, girano il muso da un’altra parte, abbassano le orecchie e semmai abbaiano contro i pochi che dovessero azzardarsi a dire qualcosa, quando si tratta del potere giudiziario. Nessuno che provi ad alzare il ditino, e a fare la ineludibile domanda: perché? Già, perché, secondo voi? Sarebbe bastato fare quello che normalmente si ha il dovere di fare, e cioè aprire per ogni nuova indagine un fascicolo nuovo con un nuovo numero, ed ecco lì che il Gip cambia. Dunque, la risposta è semplicissima: la Procura di Milano fece l’impensabile: si scelse il “suo” Gip. Punto. Traetene voi da soli le conseguenze. Io mi limito a ricordare quale sia, o meglio quale dovrebbe essere, il ruolo ed il compito del Giudice delle Indagini Preliminari, per facilitarvi nel vostro giudizio su quello scandalo, oggi denunciato perfino da un coraggioso giudice milanese. Il Gip è colui che è chiamato ad esercitare il “controllo giurisdizionale” sulle indagini e sull’esercizio dell’azione penale. Perché, pensate un po’, nel nostro sistema processuale il Pubblico Ministero è certamente il dominus incontrastato delle indagini; ma appena ritiene di dover adottare misure che vanno ad impattare sui diritti delle persone indagate, non può far altro che “chiedere” al Gip di essere autorizzato a farlo. Può solo “chiedere” di intercettare, di sequestrare, di arrestare. Nei casi di urgenza può farlo di propria iniziativa, ma poi deve immediatamente informarne il Gip, che verificherà la legittimità dell’atto adottato con urgenza, e potrà convalidarlo o invece annullarlo. Il Pm chiede, ma è il Gip che adotta i provvedimenti più importanti nella fase delle indagini. L’analfabetismo diffuso fa dire che “Gratteri ha arrestato”, che “la Procura di Milano” ha disposto intercettazioni, che “la Procura di Palermo” ha sequestrato, ma non è così, perché quei provvedimenti sono del Gip. Ora voi comprendete bene quanto possa contare, per una Procura, avere un Gip, come dire, sulla propria lunghezza d’onda. Un Gip che non si metta a sindacare, ad approfondire, a questionare, e soprattutto a respingere le richieste. La partita della terzietà del Giudice, garante costituzionale dei diritti e del procedimento, si gioca innanzitutto e in modo quasi assorbente nella fase delle indagini. Il pool di Mani Pulite, a suggello della propria onnipotenza, si consentì il lusso di avere un solo Gip. Non voglio mancare di riguardo a nessuno, ma possiamo ragionevolmente dare per scontato che, come minimo, l’orientamento di quel Giudice non fosse sgradito all’Ufficio? Io penso proprio di sì. E più in generale: se si parla solo dei Pm quando si arresta, si intercetta, si sequestra, nonostante sia il Gip che ha arrestato, intercettato, sequestrato, non vi sorge il dubbio che in questo Paese il tema della terzietà del giudice, innanzitutto del giudice delle indagini preliminari, sia la vera, grande, decisiva, clamorosa emergenza della nostra giustizia penale?

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

·        Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Primo processo per Amara a Milano: “Calunniò ex Csm Mancinetti”. Rinviato a giudizio con Calafiore e Centofanti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Novembre 2022.

Lo ha deciso il gup di Milano Lorenza Pasquinelli che ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio dei pm Monia Di Marco e Stefano Civardi, che hanno mandato a giustizio in questo troncone processuale tranche anche il suo ex collaboratore Giuseppe Calafiore e l'imprenditore Fabrizio Centofanti che oggi era presente in aula

Nuovo processo per Piero Amara, l’ex legale esterno dell’ Eni finito al centro negli anni di vari procedimenti giudiziari e i cui verbali sulla ‘Loggia Ungheria‘ hanno anche ‘terremotato‘ la Procura milanese , il primo però a Milano, dove a è giudizio per l’accusa di calunnia nei confronti dell’ex componente del Csm Marco Mancinetti. Lo ha deciso il gup di Milano Lorenza Pasquinelli che ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio dei pm Monia Di Marco e Stefano Civardi, che hanno mandato a giustizio in questo troncone processuale tranche anche il suo ex collaboratore Giuseppe Calafiore e l’imprenditore Fabrizio Centofanti che oggi era presente in aula. La prima udienza si terrà l’8 febbraio 2023 dinnanzi alla IV sezione del Tribunale Penale di Milano .

La vicenda vede al centro, in particolare, una registrazione del maggio 2019 che fu depositata in Procura a Milano da Calafiore e alcune affermazioni con cui Mancinetti sarebbe stato, secondo l’accusa, calunniato. Davanti al gup Lorenza Pasquinelli, le difese avevano presentato una serie di eccezioni preliminari, che sono state tutte respinte dal giudice. A Milano ci sono già diversi fascicoli, coordinati anche dall’aggiunto Maurizio Romanelli, nell’ambito dei quali deve essere accertato se Amara, con quelle sue dichiarazioni sulla “Loggia Ungheria” nell’inchiesta milanese sul cosiddetto “falso complotto Eni” abbia o meno calunniato le persone, tra cui rappresentanti delle istituzioni, che a suo dire avrebbero fatto parte della fantomatica associazione segreta. Tra i venti fascicoli (alcuni iscritti sulla base di denunce, altri d’ufficio) aperti uno vede, ad esempio, come presunta vittima di calunnia, l’ex ministro della Giustizia e avvocato Paola Severino.

Il fascicolo milanese nei confronti di Amara ha origine dalle indagini di Perugia che, dopo aver archiviato Mancinetti dall’accusa di istigazione alla corruzione e trasmessa l’archiviazione al Csm per i profili disciplinari, ha invitato i colleghi milanesi a comprendere come e perché sia stata “costruita” e “offerta” l’accusa di corruzione nei riguardi del giudice Marco Mancinetti. La vicenda nasceva dalle dichiarazioni dell’ex avvocato dell’Eni Piero Amara. Nella registrazione tra Centofanti e l’ex rettore di Tor Vergata si ascoltava l’affermazione “Era pronto a cacciare i soldi”.

Ma secondo il procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone non vi erano evidenze per andare a giudizio, e quindi la posizione di Mancinetti, accusato di induzione alla corruzione, venne archiviata, anche se nelle motivazioni Cantone non risparmiò nessuno: dalla versione improbabile di Mancinetti, le giustificazioni dell’ex rettore di Tor Vergata. Da qui si è arrivati al processo per calunnia nei confronti di Amara. Infatti secondo la Procura di Perugia, che ha inviato le carte a Milano, Amara avrebbe potuto sapere della registrazione per sfruttare quegli elementi a proprio vantaggio. Elementi usati anche per parlare della loggia Ungheria. Ed ora il “faccendiere” siciliano dovrà affrontare un nuovo processo per calunnia. Redazione CdG 1947

De Pasquale si difende: «Sul caso Eni nessuna omissione». I due magistrati, che rischiano il processo a Brescia per rifiuto d’atti d’ufficio, respingono le accuse: «Nessuna omissione». Il giudice rinvia la decisione a gennaio. Simona Musco su Il Dubbio il 3 novembre 2022.

Nessuna «omissione o rifiuto di atti d’ufficio» bensì «pieno esercizio dei nostri doveri». A dirlo sono stati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro (ora in forza alla procura europea), i due magistrati che hanno rappresentato l’accusa nel processo Eni- Nigeria, per i quali la procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio per rifiuto d’atti d’ufficio.

Le due toghe hanno prima reso dichiarazioni spontanee davanti al gup Christian Colombo e poi si sono sottoposti all’interrogatorio, ribadendo che non depositare gli «elementi» segnalati dal collega Paolo Storari era stata una scelta ponderata e comunicata, attraverso una relazione, all’allora procuratore della Repubblica Francesco Greco e all’aggiunto Laura Pedio, che avevano condiviso la loro decisione.

La vicenda è relativa alle prove potenzialmente favorevoli alla difesa non depositate al processo sulla presunta maxi tangente da 1 miliardo e 92 milioni versata ai politici nigeriani per l’ottenimento del blocco petrolifero per il giacimento Opl245. Tangente mai provata – il processo si è chiuso con l’assoluzione di tutti gli imputati, tra i quali l’attuale Ad di Eni, Claudio Descalzi, e l’ex numero uno, Paolo Scaroni – in quanto mancano «prove certe ed affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo contestato», si legge nelle motivazioni della sentenza, che ha fatto saltare sulla sedia gli esperti dell’Ocse. Al contrario, i due pm sarebbero stati in possesso di prove che avrebbero potuto contribuire a provare l’innocenza degli imputati, prove che però non sono arrivate al processo.

Tra queste un video girato da Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, che dimostrerebbe il tentativo del grande accusatore Vincenzo Armanna (ex manager del cane a sei zampe) di screditare i vertici della compagnia, avviando una devastante campagna mediatica. De Pasquale, nel corso del processo, ha ammesso di essere in possesso «già da tempo» di quella prova, spiegando di «non averla né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuta non rilevante». Nessuna volontà di «arrecare qualsiasi vulnus», aveva chiarito, «noi ci siamo attenuti solo a quegli atti che direttamente potevano toccare l’evoluzione delle dichiarazioni di Armanna». Il video provava l’interesse di Armanna a «cambiare i capi della Nigeria» per piazzare, al loro posto, «uomini di suo gradimento ed essere così agevolato negli affari». E per fare ciò aveva intenzione di «gettare discredito sulle persone giudicate di ostacolo», anche adoperandosi per «far arrivare un avviso di garanzia», intenzione confermata dallo stesso durante il processo. Ma c’è di più.

Dopo gli interrogatori di Amara nell’ambito dell’inchiesta sul falso complotto Eni, Storari trasmise a De Pasquale e Spadaro delle chat trovate nel telefono di Armanna, dalle quali sarebbe emerso come quest’ultimo avesse versato 50mila dollari al teste Isaak Eke per fargli rilasciare delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni coimputati. Tuttavia, nel processo sono state poi depositate dalla difesa di Armanna solo le presunte chat «false» che la stessa aveva già prodotto a De Pasquale e Spadaro. Secondo gli atti trasmessi da Storari, Eke non si sarebbe presentato in aula ritenendo il “compenso” di 50mila dollari insufficiente, mandando al suo posto un amico.

Il ruolo di Eke nel processo è centrale: sarebbe lui la fonte di tutte le informazioni di cui era in possesso Armanna relativamente alla presunta corruzione e ai pagamenti indebiti. Che le chat depositate fossero false ora è provato anche da una perizia disposta dal procuratore aggiunto Pedio sul telefono di Armanna, che ha stabilito che i messaggi WhatsApp che l’ex manager ha dichiarato di aver scambiato nel 2013 con Descalzi e Granata non sono mai arrivati ai destinatari da lui indicati, anche perché i numeri ascritti ai due all’epoca non erano nemmeno attivi e, quindi, non esisteva alcun traffico telefonico. La perizia sul telefono – clamorosamente mai sequestrato prima di luglio 2021, nonostante quei messaggi fossero stati anche consegnati strumentalmente da Armanna al Fatto Quotidiano – conferma dunque quanto scoperto da Storari, precedentemente titolare insieme a Pedio dell’inchiesta sul “Falso complotto Eni”: il pm aveva infatti verificato che quei numeri erano “in pancia” a Vodafone, circostanza segnalata ai colleghi De Pasquale e Spadaro, che però avevano minimizzato, sostenendo che in teoria potessero essere “invisibili” in quanto riconducibili ai servizi segreti. Tale elemento era stato segnalato da Storari insieme ad altri, sollevando dunque il dubbio che Armanna potesse essere un calunniatore, così come Amara.

In udienza preliminare, i due magistrati hanno sostenuto di essere rimasti nei margini della «discrezionalità» concessa a chi indaga che non è espressione di rigidi paletti e di non aver depositato quegli elementi per via delle modalità di trasmissione degli stessi da parte di Storari. Al processo ha chiesto di costituirsi parte civile Gianfranco Falcioni ( assistito dagli avvocati Gian Filippo Schiaffino, Pasquale Annichiarico e Federica Cirella), l’imprenditore in affari con Eni ed ex viceconsole onorario in Nigeria imputato nel processo sulla presunta maxi tangente, che si ritiene vittima dell’omissione dei pm. L’udienza è stata rinviata al 18 gennaio 2023, giorno in cui l’accusa ribadirà la richiesta di rinvio a giudizio. In quella data sarà entrata in vigore la riforma Cartabia che affida al gup un effettivo potere di filtro. Le possibilità di un rinvio a giudizio, dunque, si “restringono”: il giudice sarà infatti chiamato a pronunciare sentenza di ‘ non luogo a procedere’ quando ‘ gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna’ dell’imputato. La legale dei due magistrati, Caterina Malavenda, è invece pronta a chiedere il proscioglimento.

Il pm Storari assolto anche in appello. Loggia Ungheria, Cantone chiede l’archiviazione ma… non ha indagato. Paolo Comi su Il Riformista il  4 Novembre 2022

Il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, con i sostituti Gemma Milani e Mario Formisano, lo scorso 5 luglio ha chiesto l’archiviazione del procedimento sulla loggia Ungheria, l’associazione paramassonica la cui esistenza era stata rivelata dall’avvocato Piero Amara, la gola profonda delle Procure italiane. Dell’atto, 167 pagine, sono stati pubblicati in questi mesi ampi stralci, in particolare sul Domani, quotidiano sempre molto bene informato dell’attività della Procura Perugia.

In attesa che il gip si esprima, ad esempio avallando la richiesta di Cantone e quindi mettendo una pietra tombale su un fascicolo che ha terremotato la Procura di Milano (ieri l’assoluzione anche in appello per il pm Paolo Storari accusato di aver dato a Piercamillo Davigo gli atti sulla loggia Ungheria, ndr) ed il Consiglio superiore della magistratura, ecco alcune considerazioni.

La competenza

Amara, interrogato dai pm milanesi, fra cui Storari, a dicembre 2019, aveva riferito che “l’allora procuratore della Repubblica di Perugia De Ficchy era una persona alla quale io potevo arrivare perché faceva parte dell’associazione Ungheria”. L’art. 11 del codice di procedura penale stabilisce che “i procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge“ .

Al momento del fatto, come riferisce lo stesso Amara, Luigi De Ficchy era il procuratore della Repubblica di Perugia e quindi la legge avrebbe voluto che fosse stata la Procura di Firenze ad indagare sulla loggia Ungheria. Non si capisce quindi perché la Procura di Milano abbia mandato i verbali di Amara a Cantone e perché Cantone non li abbia trasmessi a Firenze (visto che nella loggia sono indicati quali appartenenti magistrati in servizio a Roma e magistrati in servizio, al momento del fatto, a Perugia) e non si capisce perché la Procura di Firenze non abbia sollevato conflitto con la Procura di Perugia.

Le (non) indagini

Contrariamente a quanto scritto in modo elogiativo dagli organi d’informazione ‘vicini’ alla Procura di Perugia, dalla richiesta di archiviazione emerge la quasi totale assenza di indagini. Secondo l’avvocato siciliano della loggia avrebbero fatto parte circa 90 persone tra politici, ex ministri, magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine, imprenditori e liberi professionisti ma la Procura di Perugia ha proceduto soltanto nei confronti di pochi nomi. In particolare di coloro che si era autoaccusati di far parte della loggia, Amara, Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro, e degli imprenditori Alessandro Casali, Fabrizio Centofanti oltre a Denis Verdini, questi ultimi tre già compromessi da precedenti indagini.

Tale modo di agire ha comportato l’impossibilità di fare indagini nei confronti dei non iscritti (perquisizioni, tabulati, intercettazioni) e quindi di ottenere risultati di rilievo o anche solo dimostrare la reciproca conoscenza di coloro che venivano indicati come appartenenti alla loggia. Nella richiesta emerge che il solo atto di indagine invasivo effettuato dalla Procura di Perugia è consistito nella perquisizione a Calafiore, colui che avrebbe avuto la disponibilità degli elenchi degli iscritti alla loggia, effettuata dopo che costui si era rifiutato di rispondere all’interrogatorio del 6 maggio 2021. Una perquisizione fuori tempo massimo considerato che della loggia Ungheria Amara ha cominciato a riempire verbali a Milano a dicembre 2019. Ed infatti la perquisizione di Calafiore ebbe esito negativo.

Altro dato che balza agli occhi è che l’indagine è stata delegata, ancora una volta, al GICO della guardia di finanza di Roma (che viene citato ben 19 volte), quello del trojan ‘a singhiozzo’ che ha intercettato i deputati Cosimo Ferri e Luca Lotti e non ha intercettato l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Lo stesso comandante del GICO, del resto, nel processo che si sta svolgendo a Perugia nei confronti degli ex pm Luca Palamara e Stefano Fava, all’udienza del 9 giugno 2022 aveva dovuto confessare che il suo reparto consegnava le informative ad Amara, l’indagato principale di questo procedimento, prima ancora che tali informative fossero depositate alla Procura di Roma. Gli uomini del GICO, poi, avrebbero avvisato Amara in anticipo delle perquisizioni che dovevano essere effettuate. Si comprende quindi perfettamente come le indagini condotte non potevano portare ad altro risultato che non fosse l’archiviazione.

Le indagini

Il nome dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara nella richiesta di archiviazione ricorre per 111 volte. Quasi in ogni pagina quindi. Eppure Amara e Calafiore hanno sempre escluso che Palamara facesse parte della loggia Ungheria. Ciononostante le indagini sono state indirizzate nei confronti dell’ex consigliere del Csm con lo scopo, neppure tanto nascosto, di attribuire un parvenza di credibilità ad Amara.

La credibilità (inesistente) di Amara

I pm di Perugia concludono la richiesta di archiviazione disponendo la trasmissione degli atti “alla Procura della Repubblica presso il tribunale di Milano perché valuti se siano o meno configurabili i delitti di cui agli artt. 368 e 369 c.p.”. L’articolo 369 codice penale incrimina l’autocalunnia. Ciò significa che i pubblici ministeri non credono ad Amara neppure quando accusa se stesso però gli credono quando accusa Palamara.

I (non) diritti delle difese

Amara è stato esaminato in dibattimento al processo di Perugia nei confronti di Palamara e Fava lo scorso 7 ottobre. Nonostante ripetute richieste la Procura di Perugia non ha rilasciato ai difensori copia della richiesta di archiviazione del procedimento sulla loggia Ungheria. I difensori non hanno quindi potuto utilizzare questo atto nel controesaminare Amara nonostante sia in possesso, come detto, di alcuni selezionati giornalisti dal mese di luglio e nonostante vi sia una indagine nei confronti di un cancelliere della Procura di Perugia che lo avrebbe illecitamente divulgato. Paolo Comi

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 4 novembre 2022.

Il pm di Milano Paolo Storari non ha commesso alcun reato consegnando i verbali delle dichiarazioni dell'ex avvocato esterno dell'Eni, Piero Amara, all'allora consigliere del Consiglio superiore della magistratura Piercamillo Davigo. Anche la Corte d'Appello di Brescia ha dunque confermato la sentenza di primo grado con cui, lo scorso marzo, al termine del processo in abbreviato, Storari era stato assolto dall'accusa di rivelazione del segreto.

Il collegio, dopo un'ora e mezza di camera di consiglio, ha rigettato la richiesta del sostituto procuratore generale che aveva chiesto una condanna a 5 mesi e 10 giorni di reclusione, con la non menzione e la sospensione condizionale. Alla sentenza di primo grado aveva fatto opposizione anche il togato del Csm Sebastiano Ardita, ammesso come parte civile. 

Storari era stato accusato di rivelazione del segreto d'ufficio per aver consegnato a Davigo, nei primi mesi del 2020, i verbali in cui Amara aveva descritto l'esistenza di una loggia paramassonica denominata "Ungheria", composta da magistrati, ufficiali delle forze dell'ordine, professionisti. Il pm milanese aveva chiesto di essere processato con il rito abbreviato ed era stato assolto per errore di diritto, in quanto non avrebbe avuto la consapevolezza di violare la legge consegnando a Davigo tali verbali.

Nella ricostruzione ad indurre in 'errore' Storari era stato proprio Davigo affermando che i componenti del Csm sarebbero stati esonerati dal rispetto del segreto. Tesi a cui non avevano creduto alla Procura di Brescia, competente peri reati commessi dai pm milanesi, che avevano deciso di mandarli a giudizio e che, per Storari, avevano poi chiesto una condanna a sei mesi di reclusione. 

L'errore in cui era incorso Storari era «un errore su norma extrapenale», dal momento che lo stesso magistrato «era convinto di rivelare informazioni segreti a soggetto deputato a conoscerle», e per questo «di non commettere alcuna rivelazione illegittima, ma "autorizzata" e/o addirittura dovuta». Un errore ritenuto quindi "scusabile" dai giudici bresciani.

«Piercamillo Davigo non era un mio amico prima, non lo è oggi. Ho una frequentazione con lui solo perché conosco la sua compagna. Mi sono rivolto a lui perché è l'unica persona che conosco che avesse un ruolo istituzionale. Quello che è accaduto e sta accadendo lo trovo lunare», aveva detto in aula Storari. 

La consegna dei verbali fu un gesto che Storari ha sempre definito di «autotutela» nei confronti dell'asserita inerzia nelle indagini da parte dei vertici della Procura milanese. «Con gli elementi di oggi», aveva aggiunto Storari, «credo che non si volesse disturbare il processo Eni-Nigeria, il processo più importante a Milano, fatto dal dipartimento più discusso, una sconfitta significava mettere in dubbio l'organizzazione di Francesco Greco».

Il magistrato voleva arrestare Amara per calunnia ma ciò avrebbe messo in difficoltà i processi milanesi per corruzione internazionale dove quest' ultimo era fra i principali testi dell'accusa.

«Siamo assolutamente soddisfatti di questa assoluzione piena» che conferma «l'esito di un giudizio di totale innocenza che è particolarmente profondo e netto», ha commentato l'avvocato Paolo Della Sala, difensore di Storari, lasciando il Palazzo di Giustizia bresciano. Storari, visibilmente emozionato, ha preferito invece non dire nulla. Per le motivazioni bisognerà attendere 90 giorni.

Quella di oggi è la terza "vittoria" del pm in questa vicenda. A parte gli aspetti penali, vi era stata anche la bocciatura della richiesta cautelare di trasferimento d'urgenza, con contestuale cambio di funzioni, avanzata nei suoi confronti nell'estate dell'anno scorso a Palazzo dei Marescialli dell'allora procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi su richiesta del procuratore di Milano, Greco. Il processo per rivelazione del segreto resta ora in piedi solo per Davigo che ha scelto il rito ordinario.

L'ex pm di Mani pulite ha sempre giustificato il suo operato dicendo che «se c'è un soggetto che fa delle dichiarazioni di estrema gravità, che siano vere o false, o che siano in parte vere e in parte false, è necessario fare le indagini per saperlo». Per la Procura di Brescia, invece, lo scopo di Davigo non sarebbe stato far luce su quanto accadeva a Milano, ma solo trovare una scusa per motivare al Csm la rottura dei rapporti con Ardita, suo collega di corrente, il cui nome sarebbe comparso fra gli appartenenti alla loggia

La sentenza d'Appello. Loggia Ungheria, Storari assolto anche in Appello: non fu reato dare i verbali di Amara a Davigo. Redazione su Il Riformista il 3 Novembre 2022 

Paolo Storari ottiene l’ennesima vittoria nell’aula di tribunale, la seconda sui due giudizi che lo hanno coinvolto fino ad oggi in merito alla nota vicenda degli interrogatori consegnati nell’aprile 2020 all’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, ai tempi membro del Consiglio superiore della magistratura, sull’esistenza della presunta associazione segreta “Loggia Ungheria”.

Della loggia aveva parlato negli interrogatori resi allo stesso Storari e al procuratore aggiunto milanese Laura Pedio l’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara in cinque interrogatori resi tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020.

Dopo l’assoluzione in primo grado del marzo scorso ad opera del gup Federica Brugnara, è arrivata per il pm milanese anche lo stesso verdetto dalla Corte d’Appello di Brescia, nel processo con l’ipotesi di reato di rivelazione di segreto d’ufficio. Il procuratore generale Francesco Prete, che aveva impugnato la sentenza di assoluzione di primo grado, aveva chiesto nella scorsa udienza una condanna a 5 mesi e 10 giorni con la sospensione condizionale e la non menzione.

Per Storari è invece arrivata l’assoluzione piena, come commenta soddisfatto il suo legale, l’avvocato Paolo Della Sala: “Siamo assolutamente soddisfatti, ho difeso con fermezza la sentenza di primo grado, non solo perché coraggiosa, ma anche perché poggiava su un impianto giuridico complesso”. La decisione “conferma – ha aggiunto Della Sala – l’esito di un giudizio di totale innocenza particolarmente profondo e netto”.

La difesa di Storari ha sempre sostenuto che il pm aveva consegnato quei verbali a Davigo per autotutelarsi dalla presunta inerzia dei vertici della procura di Milano sulle indagini, in particolare da parte dell’allora procuratore capo Francesco Greco e della stessa Pedio, rivolgendosi dunque all’ex consigliere del Csm, ora in pensione, perché considerato tra i massimi esperti in materia di circolari del Consiglio superiore della magistratura.

Nei confronti di Storari anche il Csm, l’organo di autogoverno delle toghe, aveva bocciato la richiesta di “cacciata” avanzata in via d’urgenza nell’estate 2021 dall’allora procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi.

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 18 ottobre 2022.

Non esistono prove che la Loggia Ungheria sia mai esistita, e Piero Amara è un uomo «abilissimo nell’arte manipolatoria, estremamente pericoloso quando lo si intenda utilizzare come prova a carico di altri». 

Contemporaneamente, però, l’avvocato di Siracusa non è affatto, come «in questi mesi si è insinuato da più parti, un “invasato o un mitomane”, né uno sprovveduto faccendiere in cerca di notorietà. Amara al contrario ha avuto certamente rapporti ad altissimo livello con soggetti operanti nelle istituzioni di questo paese, e tantissimi ed indiscutibili riscontri esterni sono emersi su tanti episodi da lui riferiti agli inquirenti».

Così sintetizzano i pm di Perugia Raffaele Cantone, Gemma Miliani e Mario Formisano nelle 167 pagine di cui è composta la lunghissima richiesta di archiviazione in merito all’inchiesta sulla fantomatica Loggia Ungheria, l’associazione segreta che secondo Amara avrebbe condizionato per anni nomine dei vertici di enti pubblici ed istituzioni, in particolare della magistratura e del Csm.

Un documento che Domani ha letto ora integralmente, e che rappresenta non solo la sintesi del lavoro ciclopico della procura umbra che ha quasi chiuso (si aspetta la decisione del gip) una vicenda delicatissima che ha terremotato per mesi il mondo della politica, delle istituzioni e della magistratura. Ma anche la descrizione minuziosa del “fenomeno Amara”, che i pm non banalizzano come semplice magliaro o bugiardo matricolato.

Al contrario, ritengono «acclarata» l’esistenza di «un “sistema Amara”», che da «avvocato di provincia, dopo aver intessuto stretti rapporti con i magistrati siciliani, nell’anno 2012 giunge a Roma dove si colloca per anni, in maniera indubbia, al centro di scambi di favori, inerenti anche alle nomine apicali della magistratura ordinaria e amministrativa e al centro di dinamiche di potere che si intersecano con momenti topici della storia del paese». Come evidenziano le chat estrapolate dal cellulare di Denis Verdini, appunti sul computer dello stesso Amara. Oppure i contatti e gli appuntamenti con il lobbista Luigi Bisignani.

I pm, in pratica, spiegano che nonostante una serie di balle sesquipedali sulla loggia e suoi presunti adepti (una ventina di persone sulle 90 tirate in ballo dal faccendiere hanno già depositato querela per diffamazione e calunnia, come l’avvocata Paola Severino, il comandante della Guardia di finanza Giuseppe Zafarana o l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti), su Amara «un giudizio tranchant di attendibilità/inattendibilità non sarebbe possibile, perché in sé non riuscirebbe a cogliere l’estrema poliedricità del soggetto che ci si trova di fronte, e soprattutto della sua narrazione».

Il suo modus operandi complesso, che mette «insieme fatti indiscutibilmente veri e circostanze non riscontrate», ha dunque convinto Cantone e i suoi uomini ha usare il “criterio della frazionabilità”, indicato anche dalla corte di Cassazione come quello migliore per effettuare vagli rigorosi per distinguere i racconti accertati da prove e testimonianze terze da quelli invece che non ne hanno alcuna.

Andiamo dunque con ordine, partendo dai racconti in tutto, o almeno in parte, riscontrati. Innanzitutto, Amara – avvocato originario di Augusta che ha lavorato da giovane nel prestigioso studio di Giovanni Grasso, era davvero «diventato uno degli avvocati di riferimento di una società pubblica, l’Eni: malgrado i tentativi più o meno maldestri da parte della società di prenderne adesso le distanze» scrive Cantone «si era occupato di numerose e delicate vicende che avevano visto coinvolti, a vario titolo, i vertici delle strutture aziendali dell’Eni operanti in Sicilia».

Secondo i magistrati perugini, anche i rapporti con Tinebra e con l’Opco sarebbero confermati. In particolare, esistono riscontri sul fatto che Amara sia riuscito, grazie ai suoi rapporti con la magistratura siciliana, ad ottenere un trattamento di favore in alcuni processi in cui era stato coinvolto già nel 2006. 

Cantone segnala come l’avvocato riuscì ad ottenere «ben due pareri favorevoli del procuratore generale di Messina, un’oggettiva stranezza», aggiungendo poi «un dato che fa riflettere: nonostante il procedimento penale, peraltro generato da una vicenda con possibili connotati di mafiosità, e persino una condanna definitiva patteggiata, vicende che avevano avuto un certo clamore in Sicilia, Amara ha continuato negli anni seguenti a tessere rapporti con la magistratura di ogni dove, con parlamentari della Repubblica e uomini delle istituzioni!».

Tra le persone che Amara conosceva, ricorda Cantone, c’è il giudice Lucia Lotti, oggi pm a Roma. Il faccendiere ha raccontato come lui stesso si fosse adoperato affinché la Lotti fosse nominata a capo della procura di Gela, dove insiste una grande raffineria dell’Eni, e come questo gli avrebbe poi permesso di avere l’ufficio di Gela «totalmente» nella sua «disponibilità». La Lotti è stata così indagata dalla procura di Catania per corruzione, ma i pm hanno chiesto l’archiviazione perché non hanno riscontrato do ut des di sorta. Il gip ha però chiesto nuove indagini, e ad ora non si è ancora espresso. Forse anche in attesa di un contraddittorio e – segnala la magistrata – per acquisire le nuove trascrizioni dei verbali di Amara» 

Al netto delle responsabilità penali che la Lotti nega ovviamente con forza, quale sarebbe secondo Amara la natura del loro rapporto? «Il favore che egli le aveva fatto procurandole un contatto con il consigliere laico del Csm Ugo Bergamo» si legge nelle carte di Perugia che citano le accuse dell’avvocato «gli sarebbe stato ricambiato con la sostanziale “messa a disposizione” del magistrato nella gestione di alcuni procedimenti che erano di suo interesse, quale difensore dell’Eni».

Gli investigatori ricordano poi che Angelo Mangione, difensore storico di Amara, ha detto ai pm milanesi come la Lotti prima della sua nomina a procuratore gli chiese davvero di incontrare Amara, aggiungendo però che «non mi disse per quale motivo voleva incontrarla». Pure Saverio Romano, ex ministro dell’Agricoltura e uomo di fiducia di Verdini che aveva rapporti costanti con Amara, ha ammesso di aver effettivamente incontrato il faccendiere e la Lotti, per discutere dell’aspirazione della predetta ad essere nominata procuratore a Gela. 

Ma come mai i due andarono proprio dal potentissimo Romano? Perché il consigliere Bergamo che aveva dubbi sulla promozione della magistrata era stato eletto in quota Udc, lo stesso schieramento politico del politico.

«A seguito di tale abboccamento Romano avrebbe incontrato Bergamo, al quale avrebbe esternato i dubbi del magistrato» dice Cantone «Bergamo, sentito, non conserva invece alcun ricordo dell’episodio. La Lotti non è mai stata sentita e quindi non si conosce la sua versione». I giudici umbri ammettono che alla fine riscontri sull’incontro «fra la Lotti e Romano, mediato dall’Amara» sono emersi, ma che comunque esso non è certo prova dell’esistenza di una logga coperta, ma tutt’al più «un tentativo di captatio benevolentiae di un avvocato che aveva indiscutibili interessi professionali a Gela». Per la cronaca, la Lotti ha indagato per anni per disastro ambientale colposo, e alla fine del suo incarico ha chiesto 22 rinvii giudizio tra direttori e tecnici della società “Raffineria di Gela” ed Enimed.

Come ha anticipato Antonio Massari sul Fatto quotidiano, nel documento di archiviazione si evidenzia come vere o verosimili appaiono anche i resoconti di Amara in merito a cene e incontri che Amara ha avuto per provare a favorire le carriere e le promozioni di magistrati di peso. In primis quella di Carlo Capristo, poi promosso dal Csm procuratore a Taranto grazie anche (secondo le accuse) all’iperattivismo di un sodale di Amara, il poliziotto Filippo Paradiso. 

«L’episodio comprova in modo inequivocabile – scrivono Cantone, Miliani e Formisano – le capacità istituzionali di Amara, in grado certamente di “entrare” nelle dinamiche delle nomine del Csm sfruttando i suoi rapporti con i consiglieri laici grazie al contatto con politici influenti (Luca Lotti, Saverio Romani e Denis Verdini), o grazie a rapporti con soggetti come Centofanti, in grado di influire su magistrati come Luca Palamara».

Anche in merito alla vicenda di Francesco Salluzzo, che Amara avrebbe incontrato a Roma un paio di mesi prima alla sua nomina di procuratore generale di Torino, secondo Cantone «esistono diversi elementi di riscontro». Basate sulle testimonianze del dirigente del consiglio di stato Antonino Serrao (pure registrato di nascosto da Amara che gli ha teso «una trappola») e di un imprenditore vicino a Salluzzo, Paolo Torresani, che di fatto confermano in gran parte quanto raccontato «dal dichiarante». Ossia l’avvenuto pranzo a casa di Torresani podromo a trovare un modo per avvicinare la consigliera del Csm Paola Balducci e raccomandare Salluzzo.

Se i due hanno tentato di ridimensionare le dichiarazioni dell’avvocato di Augusta in merito all’importanza dell’incontro, Cantone ha un’idea diversa: «Sembra molto più plausibile che il Serrao, compulsato da Torresani, abbia portato al pranzo Amara proprio in ragione delle sue note entrature all’interno del Csm: il che dimostrerebbe che non solo in Sicilia, in Puglia e a Roma, ma anche a Torino nel 2016 potevano essere giunte notizie circa le capacità di Amara...per aumentare le chance di vittoria» in relazione alle domande che i magistrati facevano al Csm. 

Secondo Cantone il presunto “soldato” della loggia Ungheria racconta pezzi di verità significative e verificate anche nelle vicende cha hanno travolto Palamara (a processo proprio a Perugia); nell’aiuto dato al figlio dell’ex consigliere del Csm Marco Mancinetti per accedere alla facoltà di medicina di Tirana (pende su Amara un processo per calunnia, perché a volte il legale aggiunge a storie vere episodi corruttivi non dimostrabili); nei presunti rapporti con Luca Lotti, anche in merito a un incontro con l’allora sottosegretario «richiesto da uno dei vertici della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, in relazione a un fascicolo da lui trattato che avrebbe coinvolto l’allora premier Matteo Renzi». 

In merito alle dichiarazioni su Giuseppe Conte, Cantone evidenzia un altro aspetto tipico del modus operandi di Amara. Come svelato da Domani, l’avvocato disse che il professionista prima di diventare premier aveva ottenuto consulenze da 400 mila euro tramite Centofanti dalla società Acqua Marcia, aggiungendo che la nomina del leader dei Cinque Stelle insieme a quella di Guido Alpa fosse legata a un favore da fare a Michele Vietti, presunto capo della Loggia, e che le nomine erano necessaria ad ottenere l’ammissione al concordato preventivo del gruppo.

I pm di Perugia spiegano che Centofanti non ha confermato la ricostruzione dell’amico (lo avesse fatto, aggiungiamo noi, avrebbe rischiato anche lui un’indagine per corruzione). «Appare ipotesi verosimile – conclude Cantone – che l’Amara certamente a conoscenza dell’incarico, abbia riferito all’autorità giudiziaria un fatto vero, attribuendosi un ruolo che invece non pare esservi stato. Il riferimento al professor Conte? Un modo per accreditare ulteriormente la rilevanza del suo narrato». 

Ma la richiesta di archiviazione contiene anche la descrizione di menzogne vere e proprie inventate da Amara e accuse che non hanno la minima evidenza.

Seppure la procura considera «spontanee» le prime dichiarazioni sulla Loggia Ungheria («in quel momento era indagato per una vicenda marginale rispetto all’indagine su Eni, aveva definito le sue pendenze giudiziarie a Roma e Messina con patteggiamenti non elevatissimi, che interesse aveva quindi ad aprire un fronte nuovo?», si domanda Cantone senza poter poter dare una risposta), i pm chiariscono che nessun riscontro all’associazione è stato trovato. 

La lista con i nomi, che il sodale di Amara Giuseppe Calafiore avrebbe fotocopiato e poi dato a un agente segreto di Dubai, non è mai stata consegnata agli inquirenti. Avrebbe comunque avuto poco valore investigativo: senza firma e non su carta intestata, chiunque avrebbe potuta comporla.

Amara ha nel corso delle dichiarazioni ha via via ridimensionato la natura e la funzione della loggia, mentre le poche testimonianze che hanno detto che erano a conoscenza di Ungheria o di una simil-loggia segreta (il giudice Dauno Trebastoni, l’ex pm Maurizio Musco e l’imprenditore Fabrizio Centofanti) non hanno alcun «valore ponderale: sono tutte legate da rapporti molto stretti con Amara, e due su tre hanno ricevuto informazioni sa una persona defunta». Cioè Giovanni Tinebra, ex capo del Dap e procuratore generale a Catania che secondo Amara fu fondatore e animatore di Ungheria.

Insomma, dell’esistenza dell’associazione non c’è traccia. Cantone, tuttavia, fa un passaggio non banale in cui spiega che la fuga di notizie sulle dichiarazioni dell’avvocato («accadimenti SUBITI da questo ufficio», ci tiene a sottolineare il capo della procura) avrebbe compromesso in nuce la possibilità di indagare a dovere su reati associativi già in se difficilissimi da provare. Divulgazione di segreti istruttori che hanno convinto alcuni indagati ad avvalersi della facoltà di non rispondere o di non presentarsi affatto negli uffici di Cantone

«Una scelta – si legge nella richiesta di archiviazione – che può essere ricondotta al clima creatosi intorno a questa indagine» dopo la fuga di notizie, per cui sono a processo il pm milanese Paolo Storari (assolto in primo grado, qualche giorno fa il procuratore generale di Brescia ha chiesto in appello una condanna a cinque mesi) e l’ex consigliere del Csm Pier Camillo Davigo, che ha avuto i verbali da Storari e poi ne ha parlato in via informale con vertici della magistratura. La ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto, è invece indagata come colei che avrebbe consegnato gli interrogatori ad alcuni giornali.

Cantone segnala pure come Amara, in un memoriale scritto il 5 ottobre 2021 dal carcere di Terni dove stava scontando la sua pena per diverse condanna definitive per corruzione (oggi è in regime di semilibertà) «lamenta la condizione in cui si trova: essere accusato da vari soggetti di calunnia proprio perché le prove dei fatti da lui affermati non possono essere più acquisite». Amara scrive, letteralmente, di trovarsi «nella paradossale situazione di dover occuparsi delle accuse di una serie di soggetti che hanno potuto eludere l’effetto sorpresa a causa non del dichiarante, ma del magistrato indagante». Cioè Storari.

Secondo Cantone, le «considerazioni di Amara appaiono sul punto avere un loro fondamento. Non certo la consegna dei verbali a Davigo, ma la successiva pubblicazione di essi ha infatti creato una situazione oggettivamente paradossale per cui i chiamati in causa hanno potuto denunciare per calunnia il chiamante in correità prima persino che potessero compiersi le indagini e i necessari approfondimenti». 

Per la cronaca, c’è un altro passaggio del documento dei pm di Perugia che, se fosse vero, sarebbe fonte d’imbarazzo per la procura di Milano. Quello in cui si sintetizza un’altra parte del memoriale dell’ex avvocato dell’Eni: «Il dichiarante afferma che tra dicembre 2019 e febbraio 2020 aveva rappresentato al pm Storari che, in uno al suo amico e sodale Calafiore, avrebbe proceduto a cercare riscontri (!!) su quanto aveva già verbalizzato ed aveva preavvertito il medesimo pm che avrebbe registrato di nascosto colloqui con soggetti in grado di confermare i fatti». Insomma, si sarebbe proposto come sorta di “agente provocatore”, per ottenere prove di quanto già raccontato alla procura di Milano.

Sia come sia, le discrasie e le contraddizioni nella narrazione di Amara intorno alla presunta Loggia sono tali che secondo i pm quest’ultima rischia di non essere mai esistita come tale. Non solo. Alcune accuse dell’avvocato sarebbero del tutto false. In primis, quelle contro l’allora consigliere del Csm Sebastiano Ardita, che sarebbe stato un affiliato e che l’ex avvocato esterno dell’Eni avrebbe conosciuto a una cena nella sede dell’Opco (un centro studi siciliano creato da Tinebra). 

Per Cantone «Amara non è in grado nemmeno di dire quali attività gli altri “fratelli stessero svolgendo in quel momento: bisognerebbe ritenere contro ogni logica che la cena di presentazione sarebbe stata “muta”...non sapeva nemmeno che uno di essi (l’Ardita) era andato via da Catania da oltre 6 anni!».

Come mai Amara coinvolga Ardita (nemico giurato di Davigo) resti un mistero. Anche in merito alle accuse contro il generale Zafarana, definito dal faccendiere come un affiliato che aveva chiesto a lui in via indiretta una raccomandazione per far assumere una persona nel suo studio, il giudizio della procura di Perugia è caustico: «Non può qui non essere rilevata l’assoluta illogicità di una richiesta di un generale cha avrebbe fatto veicolare, per il tramite di un terzo estraneo, ad un soggetto che fra l’altro avrebbe dovuto essere stato un suo “fratello” di una potente ed occulta loggia massonica. 

Resta non comprensibile la ragione per cui Amara riferisce fatti non veritieri: è un’ipotesi che ha la sua plausibilità quella di un rapporto non idilliaco tra Amara e la Gdf, avendo quest’ultima condotto tutte le indagini del passato che hanno poi portato all’arresto e alla condanna dell’avvocato siciliano». Che adesso dovrà dare conto delle sue parole in molteplici processi per calunnia.

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 19 ottobre 2022.

Incrociando alcuni verbali inediti contenuti nelle carte di Perugia che sentenziano l’inesistenza della Loggia Ungheria con alcune sentenze recenti che non hanno avuto grande eco sulla stampa nazionale, è possibile raccontare dettagli importanti di quello che Raffaele Cantone, capo della procura umbra, definisce il «sistema Amara». Una rete che negli anni è riuscita «certamente» a entrare in contatto con «il mondo politico e i vertici istituzionali», con l’obiettivo primario di gestire le nomine dei giudici e le promozioni decise dal Csm. 

Uno dei principali interlocutori politici di Amara – si legge nella richiesta di archiviazione di Cantone – è stato Denis Verdini, per anni braccio destro di Silvio Berlusconi, condannato con sentenza definitiva per bancarotta e, qualche giorno fa a Messina, ad altri due anni per concorso in corruzione. Per una vicenda che ha al centro, ancora una volta, le accuse dell’ex avvocato esterno dell’Eni («ho dato 300mila euro a Verdini in contanti per agevolare la nomina del giudice Giuseppe Mineo al Consiglio di stato», ha detto nel 2018) che evidentemente i giudici in primo grado hanno considerato in parte vere e riscontrate. 

Verdini viene interrogato dai pm umbri un anno fa. Cantone e i suoi uomini vogliono chiedergli se conosce la Loggia Ungheria, e soprattutto quali sono i suoi rapporti con il pregiudicato di Augusta. L’ex parlamentare risponde a tutto campo, permettendo «con un’apprezzabile scelta di trasparenza» anche agli investigatori di scaricare tutte le chat con Amara. Da cui esce uno spaccato notevole di un pezzo del potere italiano, e della rete gigantesca del legale siciliano.

«Escludo di aver fatto parte dell’associazione denominata “Ungheria”», comincia Verdini. «La voce della mia appartenenza alla massoneria venne messa in giro durante la campagna elettorale del Mugello del senatore Antonio Di Pietro. Fu addirittura il presidente Cossiga, forse per scherzo, a fare una dichiarazione in tal senso. Io tuttavia per cultura sono lontano da qualsiasi loggia massonica». 

Cantone segnala pure come Verdini, già deputato forzista e di Ala e oggi “suocero” di Matteo Salvini, riferisce che fu l’ex ministro «Saverio Romano, nell’ambito delle trattative per le nomine dei vertici delle grandi società di stato, tra le quali l’Eni, a presentargli “un professionista che aveva peso nel mondo Eni”, ovvero Amara». 

Poi Verdini si schermisce dalle accuse principali: «Io richieste sul Consiglio di giustizia amministrativa siciliana non ne ho mai ricevute. Amara millanta di aver avuto influenze su tante vicende, ma lui riferisce alcuni fatti senza sapere bene come io operavo: io (al tempo di Renzi premier, ndr) non frequentavo palazzo Chigi, io frequentavo il Nazareno (la sede del Pd)».

Quando i pm Cantone, Mario Formisano e Gemma Miliani gli chiedono se Ala ha preso denaro in contanti come dice Amara ai colleghi di Messina per perorare la causa del giudice Mineo al Consiglio di stato, risponde: «Probabilmente Amara mi ha fatto donazioni di importo modesto. Lui mi presentò diversi politici e imprenditori, come Adolfo Messina, Ezio Bigotti, Giannusso... questi ultimi facevano offerte di denaro per sostenere il movimento, ma io le ho sempre rifiutate». 

Nelle chat con Amara, segnalano i pm di Cantone, i contatti tra i due erano numerosi e niente affatto sporadici. Verdini chiede per esempio all’avvocato «curricula per la nomina di un componente del Consiglio di stato», chiosano i magistrati di Perugia.

«Amara fa riferimento a un intimo amico di Del Sette. Nello stesso giorno viene fatto anche il nome di Antonio Serrao, che sarebbe voluto da Del Sette, a sua volta intimo amico di Luca Lotti, circostanza ribadita più volte con plurimi messaggi (per la cronaca, anche il piddino ha querelato Amara per calunnia, ndr). Sempre per le nomine dei componenti del Consiglio di stato, Amara scrive di avergli girato i curricula di Mineo e tale Fiaccavento, di Massimo Dell’Utri e Luciano Ciccarello».

I messaggi analizzati sono decine, e contengono richieste di sponsorizzazione di un emendamento di Sergio Romano, mentre con alcuni messaggi del 24 e 31 ottobre 2016 il faccendiere chiede a Verdini di organizzare un incontro tra Lotti e Massimo Mantovani e Antonio Vella, al tempo tra i massimi dirigenti dell’Eni. «Vero, posso dire di aver ricevuto da Amara tante richieste e sollecitazioni, a cui io non davo risposta», si giustifica Verdini.

Ma quando Cantone chiede come mai il legale siciliano ha voluto attribuirgli un ruolo così rilevante in Ungheria, il politico racconta episodi e incontri inediti che svelano un rapporto tra i due affatto banale. Va ricordato il tempo e il contesto: Verdini è uno degli uomini vicinissimi a Berlusconi e Renzi, uno dei politici più potenti d’Italia. 

«Amara era amareggiato per le dichiarazioni che aveva reso a Messina: io a quel punto decisi di incontralo nell’ufficio di Ignazio Abrignani (ex deputato di Ala, ndr). Eravamo solo io e lui. Gli dissi che aveva dichiarato il falso, affermando di avermi dato dei soldi. Lui mi aggredì, e mi disse che mi aveva dato somme mensilmente, affermò di avermi consegnato 40mila euro per sette mesi, pari quindi a 280mila euro. Io negai decisamente e affermai che doveva curarsi. Gli chiesi se avesse un registratore: mi parvero dichiarazioni farneticanti, forse finalizzate a fornirsi una prova».

L’ex parlamentare però spiega che, nonostante tutto, accettò di vedere Amara e il suo avvocato una seconda volta. «Mi disse che poteva ritrattare le sue dichiarazioni (su Mineo e i 300mila, ndr), ma io in cambio avrei dovuto dichiarare che lui era intervenuto per la nomina di Claudio Descalzi (ad dell’Eni, ndr) e che aveva fatto da tramite tra me e Claudio Granata (braccio destro del manager, ndr). Io rifiutai di rendere tali false dichiarazioni».

Secondo Verdini, spiega Cantone, «Amara sarebbe stato del tutto estraneo alla scelta di Descalzi, avendogli soltanto esternato il gradimento di una parte dell’Eni». Sia come sia, è per questo motivo, conclude Verdini, che l’ex sodale lo mette nel mirino e lo indica calunniosamente come uno dei vertici della loggia segreta.

Ma l’ex forzista ha o meno avuto da Amara la raccomandazione per promuovere Mineo al Consiglio di stato, visto che il nome effettivamente spuntò in una short list della presidenza del Consiglio prima di essere cassato?

«La nomina del dottor Mineo non venne chiesta da Amara, ma da Giuseppe Drago (ex governatore della Sicilia e deputato di Forza Italia, ndr). Evidenzio che avendo un rapporto con il governo, mi fu chiesto da Lotti se avessi dei nomi da mandargli. In prima battuta gli dissi di no, in seguito inviai il curriculum di Drago». Per i giudici di Messina invece Amara non mente. E Verdini, almeno in primo grado, ha dovuto incassare l’ennesima condanna.

L’altra verità su Eni e Finmeccanica. Federico Tassinari il 25 Ottobre 2022 su L'Identità. 

Ciclicamente alcuni media, in particolare il Fatto Quotidiano, noto paladino della Giustizia e dei giudici, ritorna su vecchi casi per i quali la magistratura si è espressa con sentenze definitive di assoluzione per gli imputati. Questa volta lo fa per sottolineare quanto l’ Ocse ( l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) abbia criticato l’ Italia, sottoposta al periodico esame che l’organismo internazionale applica a turno ai vari paesi. Sul rapporto sulla corruzione il Fatto scrive ” dopo i numerosi incontri che gli esaminatori tedeschi e statunitensi hanno avuto in aprile in Italia, l’ Ocse ha sottolineato, plaudendo al dipartimento costituito dall’allora Procuratore Francesco Greco e guidato dall’aggiunto Fabio Di Pasquale, che esiste preoccupazione perché i processi in Italia sui casi di corruzione all’estero hanno prodotto un numero elevato di assoluzioni. Quasi tutte le condanne per corruzione all’estero sono garantite dal patteggiamento, una forma di risoluzione non processuale”. Il documento Ocse fa riferimento ai processi Eni-Algeria, Eni-Nigeria, Finmeccanica-India, sottolineando che “in ciascuna di queste tre vicende, invece di considerare contemporaneamente la totalità delle prove fattuali, si considera ciascun elemento di prova solo singolarmente. Per ciascuna voce viene adottata un’interpretazione alternativa, a discarico”. Ora noi non siamo esperti di diritto, sappiamo però che sono passati anni nei quali i vertici delle nostre maggiori aziende, Eni e Finmeccanica, oggi Leonardo, sono stati sotto la spada di Damocle di ipotetiche condanne, mai avvenute perchè dobbiamo ricordare che Claudio Descalzi (nella foto) attuale ad di Eni, Paolo Scaroni ex ad di Eni il 19 luglio di quest’anno sono stati assolti definitivamente dall’accusa di corruzione sulla questione Eni-Nigeria, che la Procura di Milano nella stessa data ha rinunciato all’appello, la decisione arriva dopo l’assoluzione di primo grado del 17 marzo 2021. Tutti assolti perché il fatto non sussiste, confermata l’assoluzione dei 15 imputati, fra i quali oltre a Descalzi e Scaroni, figurava l’ex ministro dell’energia nigeriano Dan Etete, oltre a 4 ex manager di Shell, ex dirigenti di Eni e alcuni intermediari. In tutti gli anni che hanno tenuto sulla graticola i manager sopra citati, le nostre aziende, che hanno nel mondo concorrenti agguerriti, hanno subito danni immensi in termini di immagine ed economici con l’alternarsi delle quotazioni di Borsa, difficoltà sulle gare internazionali dove spesso primeggiamo grazie alle capacità di un management che si è sempre distinto per capacità e lungimiranza, prima con Scaroni e poi con Descalzi in continuazione di una linea vincente. Basta ricordare i nuovi giacimenti scoperti in giro per il mondo sbaragliando una concorrenza sempre particolarmente agguerrita, oltremodo sostenuta da processi basati su pochi fatti e molto fumo, come le sentenze di assoluzione dimostrano. Per Finmeccanica (oggi Leonardo ) riportata a galla dall’ Ocse parliamo del 22 maggio 2019 quando la Cassazione ha confermato il proscioglimento dall’accusa internazionale di false fatture per gli ex ad di Finmeccanica e Augusta Westland, Giuseppe Orsi e Bruno Spagnolini, in relazione alla presunte tangenti per la fornitura di elicotteri all’India, respinto il ricorso del PG di Milano contro la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Milano dell’ 8 gennaio 2018. Nel nostro Paese parliamo da anni di una riforma della Giustizia seria che determini tempi dei processi da paese civile, di Giudici che nella loro gran parte sono imparziali e fedeli ai principi di giuramento, mentre altri, come le vicende delle nomine del caso Palamara ci insegnano, sono dediti più alla loro carriera che non a far valere le leggi del diritto. Riteniamo che l’ Ocse farebbe bene ad occuparsi di questo invece di gridare allo scandalo perchè ci sono state delle assoluzioni per prove valutate singolarmente e non nel loro complesso, come il Fatto Quotidiano dovrebbe ripensare alle decine di articoli, prime pagine con strilli e titoli scandalistici nei quali si ipotizzavano tangenti da centinaia di milioni intascate per acquisire contratti di esplorazione estrazione. Qualcuno sostiene che concorrenti e giornalisti ” investigativi ” speravano che il management sottoposto al fuoco incrociato avrebbe abbandonato il posto di comando lasciando campo libero agli avversari. Così non è stato e non comprendiamo il motivo di andare a rimestare vecchie questioni. A pensare male però…

I quesiti di domenica 12 giugno. Referendum, cinque Sì per scalfire il potere che da 30 anni soffoca l’Italia. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Giugno 2022. 

Mentre alcuni pubblici ministeri, o ex procuratori di prestigio come Giancarlo Caselli e Armando Spataro si affannano nella campagna per il no o per l’astensione sui cinque referendum di giustizia, altri famosi accusatori vedono a Brescia offuscata la loro “cultura della giurisdizione”, cioè la capacità di essere anche un po’ giudici. Sembra una nemesi anticipata della storia, quella che colpisce il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, responsabile del pool affari internazionali, e il pm Sergio Spadaro, oggi alla nuova Procura europea antifrodi. Perché oggi sono accusati dalla Procura di Brescia, che ne ha chiesto il rinvio a giudizio per “rifiuto d’atto d’ufficio”, proprio del comportamento opposto a quello rivendicato dalla casta dei togati per escludere la necessità di separare le carriere, o almeno le funzioni, tra chi nel processo fa l’accusatore e chi poi dovrà decidere, cioè il giudice.

Si parte dal processo Eni-Nigeria, quello su cui la Procura di Milano, quando il capo era Francesco Greco, aveva fatto un grande investimento anche sulla propria reputazione. Era stato costituito un apposito pool di affari internazionali, presieduto dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che si era impegnato, con il collega Sergio Spadaro, soprattutto nelle inchieste che riguardavano una serie di relazioni internazionali dell’Eni e il sospetto di gravi e lucrosi atti di corruzione. E in particolare quello con cui l’Ente petrolifero aveva cercato di ottenere le concessioni sul giacimento Opl-245, oggetto del processo terminato il 17 marzo 2021 con la clamorosa assoluzione di tutti gli imputati, a partire dall’ ad Claudio De Scalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni.

In attesa del processo d’appello –voluto da Fabio De Pasquale, ma che sarà sostituito in aula dalla pg Celestina Gravina, su decisione del vertice della procura generale- va constatato che è proprio sulla base del comportamento dei due pm nel dibattimento che la procura di Brescia ne ha chiesto il rinvio a giudizio. Perché i due magistrati avrebbero tenuto nascoste al tribunale le prove a discarico degli imputati. Avrebbero cioè violato la legge che impone all’accusa la capacità di farsi un po’ giudice, e se scopre qualche fatto che potrebbe giovare alla difesa, deve metterlo a disposizione del tribunale. È quella che i detrattori in toga del quesito referendario sulla separazione delle funzioni chiamano la “cultura della giurisdizione”, accusando i sostenitori del SI di volere un pm-sceriffo. Ma se tu pm hai a disposizione la registrazione video di un testimone dell’accusa, il quale, due giorni prima di presentarsi in procura ad accusare di corruzione i vertici Eni, preannunciava di avere intenzione di farli coprire da “una valanga di merda”, e la tieni nascosta, come deve essere qualificato il tuo comportamento? Lo stesso dicasi, sostiene la Procura di Brescia, per una serie di chat da cui emergerebbe l’intento calunnioso di quel testimone.

Nonostante questa vicenda sia sotto gli occhi di tutti, indipendentemente da come finirà l’aspetto strettamente giudiziario, una cosa è palese. Che se anche consenti, come capita oggi, al pm di fare passaggi di carriera e quindi di alternarsi con il giudice, un accusatore non sarà mai meno sceriffo. Dire il contrario è una colossale ipocrisia. Il codice di rito accusatorio, adottato (se pur timidamente) dall’Italia nel 1989, non prevede imbrogli né ambiguità. Le due parti, accusa e difesa, sono parti e il giudice, che sta sopra di loro, non deve avere nulla a che fare con nessuna delle due. Occorrerà arrivare all’abolizione del concetto stesso di magistratura, dunque, e a due carriere paritarie di accusa e difesa, ben distinte e distanti dal Giudice, termine che andrebbe sempre scritto con la maiuscola, per rispetto e deferenza.

Il motivo principale per cui il Partito dei pubblici ministeri, che esiste e sta resistendo con molta forza a qualche barlume di cambiamento, non vuole staccarsi dai giudici è il timore della perdita del potere di condizionamento. Troppe volte abbiamo dovuto assistere alla pedissequa ricopiatura, da parte di qualche gip, degli argomenti delle richieste del pm. Soprattutto quando si tratta di decidere sulla custodia cautelare in carcere. È inutile girarci intorno, la “colleganza” conta. Poi sarà anche vero, come ha detto di recente in un convegno l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, che lui è andato al bar del Palazzo di giustizia più spesso con avvocati che con giudici. Magari alcuni legali gli erano più simpatici, ma diverso è far parte della stessa cucciolata, essersi nutriti alla stessa mammella e al mattino recarsi negli stessi uffici. Indossare una toga che, finché le carriere non saranno separate, sarà sempre diversa da quella dell’avvocato, che deve portarsela dallo studio, perché nel Palazzo non c’è un ufficio né un attaccapanni per lui.

Un referendum infilato nell’altro, dalla separazione delle funzioni alla custodia cautelare. Il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, calpestato in almeno mille casi all’anno da pubblici ministeri e giudici insieme. Perché uno chiede, ma l’altro è quello che concede, e se sbagliano, sbagliano in due, e se si accaniscono lo fanno in coppia. E se quel sospetto sul futuro, in cui una persona, ancora innocente secondo la Costituzione, potrebbe reiterare (cioè ripetere) un reato che forse, in un caso su due, non ha neanche commesso, può portare a un carcere ingiusto, aboliamo il principio. E votiamo per dire NO al carcere preventivo basato su quel sospetto. Ma la vera regina del sospetto è il Grande Algoritmo chiamato “legge Severino”, un meccanismo automatico di espulsione da luoghi elettivi o di governo su cui precedentemente avevano deciso i cittadini elettori.

Qui siamo addirittura persino all’esproprio dell’autonomia del giudice, svincolato dal diritto-dovere di decidere se il condannato debba essere anche colpito dall’interdizione dai pubblici uffici e, nel caso, per quanto tempo. Una norma che presenta anche gravi profili di incostituzionalità (nonostante la Consulta si sia pronunciata diversamente) nella parte in cui sospende l’amministratore locale dopo una condanna in primo o secondo grado, quindi non definitiva. Questo punto, messo in discussione anche da sindaci e assessori del Pd (che timidamente ha presentato un proprio blando disegno di legge in Parlamento) è particolarmente cruento e anti-democratico perché rovescia gli assetti di governo, entrando a gamba tesa nelle sorti politiche di una città, di una provincia, di una regione.

Dove spesso poi si candida addirittura un magistrato. Ma non si può dire, perché se c’è un soggetto che non si può mai criticare né giudicare è proprio quello che indossa la toga “giusta”. Però, se passasse (insieme a quello sulle firme per l’accesso al Csm) anche il quesito referendario per consentire anche agli avvocati e ai docenti universitari di dare il proprio giudizio sull’attività e sulla carriera dei magistrati, forse si potrebbe incrinare almeno un pochino questo blocco di potere che soffoca la democrazia italiana da un trentennio. Coraggio, andiamo ai seggi e votiamo cinque Sì.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Prove “nascoste”, chat finte e complotti: così è naufragato Eni-Nigeria. Storia del processo sulla più grande tangente mai pagata (e mai provata). Il ruolo dei pm di Milano. Il Dubbio il 20 ottobre 2022

«Il fatto non sussiste». Si è concluso così, lo scorso anno, il processo a carico dei 15 imputati accusati di corruzione internazionale relativamente ai diritti di esplorazione del giacimento Opl245, tra i quali l’attuale Ad di Eni, Claudio Descalzi, e l’ex numero uno, Paolo Scaroni. L’indagine puntava a dimostrare il pagamento di una maxi- tangente da 1 miliardo e 92 milioni ai politici nigeriani per l’ottenimento del blocco petrolifero.

Per il collegio presieduto dal giudice Marco Tremolada, però, mancano «prove certe ed affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo contestato». Al contrario, l’accusa rappresentata da Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro sarebbe stata in possesso di prove che avrebbero potuto contribuire a provare l’innocenza degli imputati, prove tenute però nascoste. Tra queste un video girato in maniera clandestina dall’avvocato Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza della fantomatica – e smentita – “loggia Ungheria”, che testimoniava un fatto clamoroso: la volontà di Vincenzo Armanna (ex manager del cane a sei zampe) di ricattare i vertici Eni e avviare una devastante campagna mediatica. Proprio per tale motivo, si sarebbe adoperato per «fargli arrivare un avviso di garanzia». E due giorni dopo, come da copione, Armanna si presentò in procura per accusare i vertici della società.

Il contenuto del video, per i giudici di primo grado, era di per sé «dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare» la società petrolifera «preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda”» sui suoi dirigenti. De Pasquale, nel corso del processo, ha ammesso di essere in possesso «già da tempo» di quella prova, spiegando di «non averla né portato a conoscenza delle difese né sottoposto all’attenzione del Tribunale perché ritenuta non rilevante». E proprio per tale motivo i due magistrati finiscono sotto indagine per rifiuto di atti d’ufficio. Ma c’è di più.

Dopo gli interrogatori di Amara nell’ambito dell’inchiesta sul falso complotto Eni, il pm milanese Paolo Storari trasmise a De Pasquale e Spadaro delle chat trovate nel telefono di Armanna, dalle quali sarebbe emerso come quest’ultimo avesse versato 50mila dollari al teste Isaak Eke per fargli rilasciare delle dichiarazioni accusatorie nei confronti di alcuni coimputati. Tuttavia, nel processo sono state poi depositate dalla difesa di Armanna solo le presunte chat «false» che la stessa aveva già prodotto a De Pasquale e Spadaro. Secondo gli atti trasmessi da Storari, Eke non si sarebbe presentato in aula ritenendo il “compenso” di 50mila dollari insufficiente, mandando al suo posto un amico.

Il ruolo di Eke nel processo è centrale: sarebbe lui la fonte di tutte le informazioni di cui era in possesso Armanna relativamente alla presunta corruzione e ai pagamenti indebiti. Che le chat depositate fossero false ora è provato anche da una perizia disposta dal procuratore aggiunto Laura Pedio sul telefono di Armanna – clamorosamente mai sequestrato prima di luglio 2021, nonostante quei messaggi fossero stati anche consegnati strumentalmente da Armanna al Fatto Quotidiano -, che ha stabilito che i messaggi WhatsApp che l’ex manager ha dichiarato di aver scambiato nel 2013 con Descalzi e Granata non sono mai arrivati ai destinatari da lui indicati, anche perché i numeri ascritti ai due all’epoca non erano nemmeno attivi e, quindi, non esisteva alcun traffico telefonico.

A chiudere la vicenda la decisione della pg Celestina Gravina di non impugnare le assoluzioni: le vicende sarebbero state «buttate lì come una insinuazione», ha affermato Gravina, il tutto senza riuscire ad individuare le presunte tangenti versate e riparando «sul fatto che questa operazione non doveva farsi». ( si. mu.)

Quei davighiani dell’Ocse contro i giudici italiani: «Troppe assoluzioni». L’Organizzazione bacchetta l'Italia per il caso Eni. Ma le sue conclusioni si basano sull’appello dell’accusa, cassato come infondato dalla procura generale. Simona Musco su Il Dubbio il 20 ottobre 2022

L’Organizzazione per la cooperazione internazionale e lo sviluppo economico (Ocse) entra a gamba tesa sull’indipendenza dei magistrati italiani. E lo fa in due modi diversi: con un report nel quale bacchetta l’Italia per il basso numero di condanne nei processi per corruzione internazionale e una inusuale lettera scritta dal presidente del Gruppo di lavoro, Drago Kos, a sostegno di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, l’accusa nel caso Eni-Nigeria, oggi a processo per rifiuto d’atti d’ufficio.

Due documenti che partono da un assunto: i giudici italiani – e quelli milanesi in particolare – non hanno lavorato bene nel valutare i grandi casi di corruzione, avendo avuto l’ardire di assolvere gli imputati. Perché basta formulare l’accusa, secondo quanto emerge da tale documento, a certificare l’esistenza di un accordo corruttivo. Poco importa se il processo dimostra il contrario.

Le critiche dell’Ocse riguardano soprattutto il procedimento contro Eni per la presunta tangente da oltre un miliardo nell’affare Opl245, fascicolo in mano a De Pasquale e Spadaro e naufragato oltre un anno fa con una sentenza che ha, di fatto, demolito il lavoro dei due magistrati. Quella tangente, secondo i giudici del Tribunale di Milano, non è infatti mai stata provata. Ma c’è di più: molte delle prove portate a processo sono risultate “manipolate”, mentre altre, ritenute estremamente utili alla difesa, sono state tenute nel cassetto, tanto da costare a De Pasquale e Spadaro una richiesta di rinvio a giudizio a Brescia.

Dove adesso arriva la mano dell’Ocse, con la lettera – a titolo personale – del numero uno del Gruppo di lavoro, depositata da De Pasquale in vista dell’udienza preliminare del 2 novembre. Kos esprime contrarietà nei confronti della pg Celestina Gravina, che ritirò l’appello contro Eni riducendo a «chiacchiere e opinioni generiche» l’intero processo. «Non c’è prova di nessun fatto rilevante», aveva affermato la pg, secondo cui motivi d’appello presentati da De Pasquale erano «incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». Parole, quelle di Gravina, «improprie e contrarie alla Convenzione Ocse», secondo Kos, che invece indica De Pasquale e Spadaro come «esempi luminosi per altri pm in tutto il mondo».

Le critiche del rapporto Ocse

Ma quali sarebbero le colpe dei giudici italiani? Intanto aver assolto troppa gente: gli ultimi sette processi si sono chiusi con cinque assoluzioni, una sesta parziale e una condanna. Troppo poco, dunque, partendo evidentemente da un presupposto: la tesi dell’accusa è sempre corretta. Ciò, probabilmente, senza aver analizzato l’enorme mole di atti che porta con sé ogni processo, compreso Eni-Nigeria, che ha richiesto tre anni di udienze per giungere al termine. Nonostante, dunque, l’Italia abbia «rafforzato la sua legislazione» e mostrato «un livello significativo di applicazione della corruzione all’estero con un ritmo in aumento dal 2011», a sbagliare sono i giudici, colpevoli di non aver considerato «contemporaneamente la totalità delle prove fattuali», valutando «ciascun elemento di prova solo singolarmente». Parole che ricalcano in maniera quasi pedissequa le considerazioni fatte mesi fa da De Pasquale nel proprio appello contro le assoluzioni.

È infatti proprio il magistrato che, a pagina 7 della sua impugnazione, parla di una valutazione «atomistica e parcellizzata degli elementi di prova acquisiti». E nella stessa pagina cita proprio la posizione del gruppo di lavoro dell’Ocse, che da tempo collabora con il magistrato. C’è poi un altro “difetto”, secondo l’Ocse: pretendere «uno standard di prova molto pesante». Standard che, verrebbe da dire, consente di superare la soglia dell’oltre ogni ragionevole dubbio ed evitare clamorosi errori giudiziari. De Pasquale, invece, a pagina 10 dell’appello “confonde” fatti penalmente rilevanti con questioni etiche: «Il Tribunale non esprime un giudizio preciso sulla responsabilità di Eni e Shell (e i loro dirigenti) nell’ipotizzata attività di pressione – si legge – e neppure valuta se un simile comportamento corrisponda agli standard di etica degli affari richiesti dalla comunità internazionale».Il fronte in difesa di De Pasquale.

A novembre dello scorso anno era stato un gruppo di 15 magistrati e giuristi di dodici nazioni a sollecitare l’Ocse ad accendere un faro su De Pasquale. «La procura di Milano – scrivevano le toghe – è ora sotto attacco per aver perseguito casi di corruzione internazionale». La critica era diretta ai magistrati di Brescia, che avevano “osato” indagare i due magistrati del caso Eni per rifiuto d’atti d’ufficio. Una lettera dal tenore completamente diverso rispetto a quella di 27 colleghi milanesi, che il 3 marzo 2020 “puntavano il dito” contro il trattamento di favore riservato al dipartimento di De Pasquale, che poteva contare su un «carico di lavoro significativamente inferiore» rispetto a colleghi che pure si occupavano di reati gravi. Una sorta di “privilegio” contestato all’allora procuratore Francesco Greco, che si vide bocciare il progetto organizzativo della procura da parte del Csm. E dopo il suo pensionamento, fu lo stesso De Pasquale ad essere “bocciato” dal reggente Riccardo Targetti, che espresse parere non positivo sul magistrato per la riconferma a capo del pool affari esteri. Valutazione che, casualmente, è stata espressa proprio nella giornata in cui gli ispettori dell’Ocse si trovavano in missione in tribunale a Milano, lo scorso 6 aprile.

Le critiche della difesa

«La posizione assunta dal signor Kos, peraltro sembrerebbe a titolo “personale” e che di fatto sintetizza la tesi espressa dal dottor De Pasquale sia in primo grado sia nei motivi d’appello, mi ha sorpreso per vari motivi – spiega al Dubbio Enrico De Castiglione, legale di Paolo Scaroni, ex numero uno di Eni -. In primo luogo per esprimere un parere autonomo e fondato sul processo Eni Nigeria il signor Kos avrebbe dovuto leggere e studiare tutte le carte e le prove di un processo (che ha comportato anni d’istruttoria dibattimentale) nonché tutti gli argomenti sviluppati dalle difese. Cosa che ritengo difficile possa essere avvenuta», premette il legale. Che poi rileva come a «demolire l’impianto accusatorio non siano stati solo il procuratore generale e prima ancora il Tribunale di Milano», ma anche la Corte d’Appello, nel parallelo processo riguardante alcuni coimputati. Decisioni coerenti con quelle assunte dall’Alta Corte di Giustizia Inglese e l’Alta Corte Federale Nigeriana.

Dunque, «il grave errore in cui mi sembrano essere caduti il signor Kos e il suo gruppo di lavoro – conclude – sta nell’equiparare l’ipotesi accusatoria – che deve essere verificata e validata nel corso di un processo che in Italia, come nel resto del mondo democratico, soggiace a ben precise regole – con la verità dei fatti».

L’Ocse contro i giudici che assolsero i vertici Eni: interrogazione di Costa. Le reazioni della politica al rapporto che “sgrida” i giudici del caso Eni. «Ingerenza inammissibile». Valentina Stella su Il Dubbio il 21 ottobre 2022.

Come raccontato sul Dubbio da Simona Musco, l’Organizzazione per la cooperazione internazionale e lo sviluppo economico (Ocse) “è entrata a gamba tesa sull’indipendenza dei magistrati italiani”. E lo ha fatto “in due modi diversi: con un report nel quale bacchetta l’Italia per il basso numero di condanne nei processi per corruzione internazionale e una inusuale lettera scritta dal presidente del Gruppo di lavoro, Drago Kos, a sostegno di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, l’accusa nel caso Eni-Nigeria, oggi a processo per rifiuto d’atti d’ufficio”.

Nonostante la gravità delle affermazioni contenute nel report, non ci sono state reazioni immediate né dal mondo della politica né da quello della magistratura. Solo su sollecitazione del Foglio, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, ha minimizzato la questione sostenendo che «per noi non si pone un problema di lesione dell’indipendenza dei giudici». Di parere opposto Andrea Reale, esponente dell’Anm con i 101: «Premetto che non ho avuto ancora tempo di leggere il rapporto dell’Ocse e la lettera del presidente Kos. Ma se quello che ho letto sui giornali corrisponde al contenuto del report, ritengo che quelle dichiarazioni siano assolutamente inopportune perché rischiano di delegittimare la giurisdizione italiana, sia per quanto riguarda l’operato dei giudici sia per quanto concerne quello dei pubblici ministeri». Reale fa riferimento al fatto che la Procuratrice generale di Milano ha ritenuto di non dover appellare la sentenza di assoluzione di primo grado del processo per la presunta maxi-tangente Eni: «Essendo quello della Procura generale l’organo deputato all’impugnazione, qualora la sua decisione fosse quella di non fare ricorso nei gradi successivi di giudizio, essa andrebbe rispettata perché è una prerogativa prevista nel nostro sistema giuridico. Certo, contro il nostro sistema si possono esprimere delle critiche, anche da parte di organismi internazionali non governativi, ma esse non dovrebbero mai riguardare procedimenti specifici».

Sul versante politico, l’onorevole Enrico Costa, vicesegretario e responsabile giustizia di Azione, ha annunciato che presenterà «una interrogazione al nuovo Guardasigilli non appena sarà insediato per evidenziare le singolari prese di posizione provenienti dall’Ocse, decisamente lesive dell’autonomia e indipendenza dei magistrati italiani. Non sta né in cielo né in terra che un organismo internazionale si permetta di contestare il numero di assoluzioni per il reato di corruzione internazionale, attribuendo la responsabilità al nostro ordinamento perché richiede una “prova solida” del fatto di reato (vorrebbero forse una prova flebile) ed ai giudici nella valutazione degli elementi di prova». Il parlamentare poi stigmatizza la mancata reazione del “sindacato dello toghe”: è ancora più grave da parte dell’Ocse «l’intromissione su procedimenti penali specifici con giudizi che solo l’Anm (forse abituata a difendere solo chi accusa e chi condanna) non ritiene lesivi dell’autonomia e indipendenza della magistratura». Dello stesso parere il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin: «Si tratta di una ingerenza inammissibile dell’Ocse nel nostro ordinamento giudiziario interno. L’efficienza della magistratura non si misura certamente nel numero di condanne emesse in merito ad una specifica tipologia di reato».

Quindi per Zanettin tale anatema dell’organizzazione internazionale nei confronti dell’Italia «va respinto con forza al mittente. Noi siamo ben contenti di vivere in un sistema basato sull’oltre ogni ragionevole dubbio. Non si condanna se la prova non è solida. Un Paese come il nostro, di grande tradizione giuridica garantista, è inaccettabile che venga messo sotto accusa in questo modo». A proposito di accusa, il senatore conclude: «La critica da parte dell’Ocse è rivolta chiaramente alla magistratura giudicante. Invece dovrebbero chiedersi perché siano state mandate avanti delle imputazioni da parte della magistratura requirente che ha istruito un processo poi rivelatosi inconsistente, tanto che la stessa Procura generale ha rinunciato all’appello». «Non c’è prova di nessun fatto rilevante», aveva affermato la pg, secondo cui i motivi d’appello presentati da De Pasquale erano «incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». Per l’onorevole Andrea Delmastro Delle Vedove, responsabile giustizia di Fratelli d’Italia, «il tema è complesso. Per fortuna l’Ocse ha espresso delle considerazioni del tutto ininfluenti per il nostro sistema giudiziario». Il professor Giorgio Spangher, ex membro laico del Csm, ci dice: «Ormai da troppo tempo l’Europa, attraverso i suoi vari organismi, ci sta dicendo come dobbiamo amministrare la giustizia: dalla legge spazza-corrotti all’ultima riforma per diminuire l’arretrato, e ora ci accusano di assolvere troppo. Sono allibito, siamo sempre più un Paese a sovranità limitata. Quella dell’Ocse è una pesante ingerenza nell’autonomia e indipendenza della magistratura, che è un potere dello Stato. Noi abbiamo un grande sistema di legalità, a partire dalla nostra Costituzione. E quando si assolve, lo si fa spesso dopo il controllo di tre gradi di giudizio. Noi non siamo come gli Stati Uniti dove si patteggia per non rischiare il peggio».

Spangher in conclusione si pone due domande, forse anche un po’ retoricamente: «Esistono troppe assoluzioni o c’è una assoluzione che a qualcuno non è piaciuta? E chi tira le fila di questi discorsi, chi è la manina che ha spinto l’Ocse a fare quelle dichiarazioni?». Al momento nessun commento da parte di Pd e Movimento Cinque Stelle.

I giudici di Milano all’Ocse: «In Italia esiste il giusto processo». L’Organizzazione aveva criticato la giustizia italiana per l’alto numero di assoluzioni nei processi per corruzione internazionale, in primis Eni-Nigeria. I presidenti di Tribunale e Corte d’Appello: «Accettiamo le critiche, non le delegittimazioni». Simona Musco su Il Dubbio l’11 novembre 2022

È la «cultura della ricerca della prova», bellezza. Il presidente facente funzione del Tribunale di Milano Fabio Roia e il presidente della Corte d’Appello Giuseppe Ondei rispediscono al mittente le accuse formulate dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che aveva criticato i giudici italiani – e in particolare quelli meneghini – per l’eccessivo tasso di assoluzioni nei processi per corruzione internazionale.

Un’accusa tacciata sia dalla magistratura sia dalla politica come una indebita invasione di campo, una mossa partita come difesa d’ufficio dei magistrati che hanno rappresentato l’accusa nel processo Eni-Nigeria e che è finita col minare la cultura dell’indipendenza della stessa magistratura. Per Roia e Ondei – che hanno inoltrato la missiva anche al ministro della Giustizia Carlo Nordio e al Csm -, se si può accettare «ogni critica alle sentenze pronunciate», tali critiche non possono debordare «in un ulteriore grado di giudizio surrettiziamente introdotto che delegittimi le decisioni adottate secondo le regole del giusto processo italiano».

Nel suo rapporto, l’Ocse aveva criticato l’Italia innanzitutto per aver assolto troppa gente: gli ultimi sette processi per corruzione internazionale si sono chiusi con cinque assoluzioni, una sesta parziale e una condanna. E in particolare, il gruppo di lavoro aveva portato ad esempio il procedimento Eni-Nigeria, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati e una scia di critiche ai magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che ora rischiano il processo a Brescia per la gestione delle prove di quel procedimento. Per l’Ocse, invece, sarebbero proprio loro due a dover essere presi come esempio. Una conclusione alla quale l’organizzazione è giunta senza valutare l’enorme mole di atti del processo, che ha richiesto 45 udienze istruttorie e 13 udienze dedicate alla discussione e le cui prove erano contenute in 40 faldoni. L’errore dei giudici, secondo l’Ocse, sarebbe quello di non aver considerato «contemporaneamente la totalità delle prove fattuali», valutando «ciascun elemento di prova solo singolarmente».

Parole che ricalcano in maniera quasi pedissequa le considerazioni fatte mesi fa da De Pasquale nel proprio appello contro le assoluzioni, appello al quale la procura generale ha poi rinunciato, non senza qualche polemica nei confronti dei pm che hanno rappresentato l’accusa in primo grado. L’Ocse ha anche criticato lo «standard di prova molto pesante nei casi di corruzione all’estero» richiesto dalla giustizia italiana. Parole, spiegano i vertici degli uffici giudiziari milanesi, che «stupiscono» perché così si ritiene che «nella migliore delle ipotesi» i giudici non siano «adeguatamente capaci nella valutazione del materiale probatorio» e «troppo esigenti sul piano della richiesta di una consistenza probatoria». Roia e Ondei hanno dunque difeso «l’impegno e la professionalità dei giudici chiamati a celebrare processi di grande impatto mediatico, di rilevanza internazionale ma che necessariamente devono seguire delle precise regole di giudizio e di civiltà giuridica non derogabili neppure per questioni, peraltro condivisibili, che riguardano il contrasto alla corruzione nazionale e internazionale», si legge ancora nella lettera.

I due magistrati hanno difeso il metodo di valutazione della prova, ricordando «come l’ordinamento costituzionale e penalistico prevedano primariamente una lettura del singolo indizio per accertarne la matrice ontologica e per depurarlo dalla categoria metagiuridica del sospetto e quindi una valutazione in punto di consistenza, precisione, unidirezionalità e ciò nell’ambito del principio del libero convincimento del giudice, controllato attraverso la logicità e coerenza della motivazione e validato attraverso tre gradi di giudizio esperibili da tutte le parti processuali». E in ogni caso, hanno ricordato, per valutare gli indizi ci sono «tre gradi di giudizio esperibili da tutte le parti processuali». Ma quello che l’Ocse non ha calcolato è anche il principio della responsabilità penale «al di là di ogni ragionevole dubbio» e che «gli indicatori di pesatura probatoria» non possono «variare a seconda della difficoltà del reato da accertare», pur «comprendendo la problematicità di provare un patto corruttivo fra due o più soggetti cointeressati maturato in territorio estero».

Roia e Ondei hanno anche ricordato che è compito dell’organo inquirente l’onere della raccolta delle prove per arrivare ad una condanna, elemento che nel caso Eni-Nigeria rappresenta proprio uno dei nodi problematici. «La motivazione della sentenza, che ha ricostruito 20 anni di vicende per la cessione della licenza petrolifera, è stata di circa 500 pagine», hanno dunque concluso i due magistrati, evidenziando lo sforzo «doverosamente enorme» nella trattazione della vicenda.

I colleghi all’Ocse erano corsi in aiuto del pm sconfessato. Eni, altolà dei giudici di Milano agli ‘amichetti’ di De Pasquale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Novembre 2022

A bocca asciutta il pm milanese Fabio De Pasquale, e insieme a lui i suoi colleghi dell’Ocse, e anche il governo nigeriano. Tutti in un sol colpo. Perché il “caso Eni” si è chiuso, forse in via definitiva, con la sentenza della Corte d’appello presieduta da Enrico Manzi, che ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal dottor De Pasquale contro la sentenza che un anno fa aveva assolto i vertici Eni dall’accusa di corruzione “perché il fatto non sussiste”. Lo stesso provvedimento ha stabilito che il governo della Nigeria non ha diritto ad alcun risarcimento in sede civile. Per quel che riguarda il gruppo anticorruzione dell’Ocse, apertamente schierato con il pm De Pasquale fin da un anno fa, quando l’aggiunto della procura di Milano era finito indagato dai magistrati di Brescia per alcune scorrettezze processuali, una bella bacchettata è arrivata dai vertici massimi del tribunale di Milano, il facente funzioni Fabio Roia e il Presidente della corte d’appello Giuseppe Ondei.

Se due Corti di giustizia inglesi e una nigeriana, oltre a sette magistrati italiani, sia giudici che inquirenti, hanno già bocciato l’ipotesi di corruzione internazionale del “caso Eni”, vogliamo insistere ancora? Gli unici ancora fermi lì a crederci sono il pm Fabio De Pasquale e i suoi colleghi del gruppo anticorruzione dell’Ocse che da un anno suonano in consonanza lo stesso violino e la stessa nota: Eni, sia quando era amministratore delegato Paolo Scaroni che con il suo successore Claudio Descalzi, avrebbe corrotto membri del governo nigeriano per ottenere la gestione del giacimento di petrolio Opl 245. E bisogna ammetterlo, anche se l’ipotesi è da brividi, che forse in altri tempi, quando era veramente difficile anche per i giudici più sicuri di sé, mettersi contro la potenza di fuoco della Procura di Milano, le cose avrebbero potuto andare diversamente. Per il giudice Marco Tremolada, prima di tutto, cioè colui che ha presieduto il collegio del primo grado del processo Eni. Per lui, che i due pm d’aula De Pasquale e Spadaro consideravano “appiattito” sulla difesa dell’ente petrolifero, era pronta una polpetta avvelenata.

Il giudice sarebbe stato “avvicinabile” dai difensori degli imputati. Lo ha raccontato il suo collega Paolo Storari (colui che portò la carte sulla Loggia Ungheria a Piercamillo Davigo) nella sua deposizione in procura a Brescia, ricordando di una riunione con il capo dell’ufficio milanese Francesco Greco, la sua vice Laura Pedio e i due pm del “caso Eni”, in cui lo stesso De Pasquale avrebbe detto che voleva far astenere il presidente Tremolada. La polpetta aveva preso la strada di Brescia dove era finita al posto giusto, in pattumiera. Sarebbe stato così, nei decenni del dominio incontrastato dei procuratori dalle mani pulite?

Il secondo passaggio, dopo l’assoluzione di tutti gli imputati perché il fatto corruttivo proprio non esisteva, porta alla Procura generale, dove gli entusiasmi accusatori di Fabio De Pasquale hanno subito un secondo inciampo. Perché Francesca Nanni, prima donna al vertice della Procura generale, alla richiesta del pm, che ovviamente era ricorso in appello contro la sentenza di assoluzione, di essere ancora lui a rappresentare l’accusa nel nuovo processo, aveva opposto un altro nome, quello di un’altra donna, la dottoressa Celestina Gravina, una magistrata molto esperta, che nulla aveva da invidiare al collega. Anzi. La pg si era messa subito a studiare le carte. Ed era rimasta, immaginiamo, esterrefatta. Tanto da arrivare alla conclusione che tutta quanta la costruzione dell’accusa fosse inconsistente, e anche tacciando il pm De Pasquale di atteggiamento “neocolonialista”.

Così, nella prima udienza del processo d’appello, che è iniziato nello scorso luglio, la pg ha annunciato di rinunciare all’impugnazione, ed è stato un fatto clamoroso. Clamoroso ma evidentemente indispensabile, viste le dichiarazioni della stessa dottoressa Gravina. “Questo processo deve finire –aveva detto nell’aula attonita- perché non ha fondamento”. “Non avrebbe mai dovuto cominciare”, aveva poi aggiunto. Questi imputati, aveva concluso, “che per sette anni sono stati sotto procedimento, hanno il diritto di veder cessare questa situazione che è contra legem rispetto all’economia processuale e alle regole del giusto processo”. Ma le vie della storia di trent’anni di mani pulite e arroganti sono infinite. Ed ecco arrivare in soccorso i colleghi di De Pasquale all’Ocse, stimolati dal gruppo dei quindici (di cui lui stesso fa parte) che un anno fa avevano già protestato per il procedimento aperto a Brescia.

In una relazione di 118 pagine il gruppo di lavoro sulla corruzione ha preso di mira questa volta, citando espressamente anche il processo Eni, direttamente i giudici italiani perché assolvono troppo. Gli argomenti echeggiano stranamente gli stessi usati dal pm De Pasquale nel suo ricorso in appello al processo Eni. Nel silenzio dell’Anm, si sono però fatti sentire con la voce grossa i vertici del palazzo di giustizia di Milano. E hanno dato una bella lezioncina di diritto, spiegando che cosa significhi assolvere “oltre ogni ragionevole dubbio”. Hanno inviato il documento anche al ministro Nordio e al Csm. Speriamo sia utile, non tanto al guardasigilli, che è sufficientemente ferrato sul tema, ma soprattutto al Csm.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Caso Amara, procuratrice aggiunta di Milano Pedio archiviata a Brescia. Il giudice: “Da lei nessuna inerzia nelle indagini”. Andrea Siravo su La Stampa il 5 settembre 2022.

Dopo l’allora procuratore Francesco Greco, anche la procuratrice aggiunta di Milano Laura Pedio incassa l’archiviazione dall’accusa di omissione di atti d’ufficio. Era stata indagata da Brescia da un lato per una presunta «inerzia» investigativa nel caso dei verbali sull’esistenza della fantomatica Loggia Ungheria, di cui aveva parlato l’avvocato Piero Amara, interrogato tra dicembre 2019 e gennaio 2020. Dall’altro la gestione dell'ex manager della compagnia petrolifera italiana Vincenzo Armanna. In particolare erano state ipotizzate un mancato aggiornamento della sua iscrizione per calunnia e una "omessa valutazione" di una richiesta di misura cautelare proposta in 'bozza' dal pm Storari nei confronti di colui che è stato indicato come 'grande accusatore' nel processo milanese Eni Nigeria. L’inchiesta del procuratore di Brescia Francesco Prete e del pm Donato Greco, nata in seguito alle denunce del pm Paolo Storari, il collega co-assegnatario del fascicolo sul cosiddetto 'falso complotto' Eni, si era chiusa con la richiesta di archiviazione. Istanza accolta nei giorni scorsi dal gip Francesca Grassani che ha scagionato dall’accusa Pedio. Per il giudice le divulgazioni dell’ex legale esterno di Eni sull’associazione segreta non erano tali da configurare una situazione di «urgenza», tale da «giustificare il compimento dell’atto doveroso», ossia l’iscrizione nel registro degli indagati. Inoltre, basandosi su una e-mail inviata da Storari il 24 aprile 2020 ha ritenuto che la «sollecitazione per una rapida iscrizione è stata raccolta» dall’aggiunta Pedio dal momento che è avvenuta il 12 maggio 2020, ovvero «poco più di quindici giorni dopo». Riguardo ad Armanna, il gip bresciano è arrivata ad analoghe conclusioni in quanto le dichiarazioni da cui sarebbe emersa la calunnia risalgono al 2019, mentre la «minuta» della richiesta di arresto proposta da Storari è del marzo 2021. «Come sempre dichiarato e documentato dalla dottoressa Pedio, è stata esclusa qualsivoglia omissione da parte del magistrato ed è stata ritenuta del tutto insussistente qualsiasi ipotesi di reato», hanno commentato in una nota gli avvocati Luca Jacopo Lauri e Alessandro Viglione.

Storari assolto in primo grado? Tutto da rifare. Passò le carte a Davigo, per lui nuovo processo. La procura di Brescia accelera i tempi: il collega ha infranto il segreto d'ufficio. Luca Fazzo il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.

Tempi stretti, perché il bubbone scoppiato all'inizio di quest'anno all'interno della Procura della Repubblica di Milano non può essere lasciato aperto troppo a lungo senza che torti e ragioni siano chiariti. Così la Corte d'appello di Brescia ha fissato con procedura di urgenza il processo d'appello a uno dei protagonisti del caso che ha squassato l'ex tempio di Mani Pulite: il pubblico ministero Paolo Storari, che dopo essere entrato in rotta di collisione con i vertici dell'ufficio - il capo Francesco Greco e il suo vice Fabio De Pasquale - sulla gestione dei verbali del pentito Piero Amara sulla «loggia Ungheria» decise di consegnarne per vie brevi una copia informale a Piercamillo Davigo, allora membro del Consiglio superiore della magistratura.

In primo grado Storari, dopo avere chiesto di essere giudicato con rito abbreviato, è stato assolto per mancanza dell'elemento psicologico del reato: in sostanza, era convinto di agire all'interno delle norme, essendo Davigo - come componente del Csm - abilitato anche a ricevere atti coperti da segreto. Ma la Procura della Repubblica di Brescia ha fatto ricorso contro l'assoluzione del collega. E la Corte d'appello, benché gravata da numerosi processi, ha stabilito una corsia preferenziale: il processo a Storari è stato fissato per il prossimo 4 ottobre, poche settimane dopo la fine della pausa feriale dell’attività.

Inizialmente era sembrato che la Procura bresciana - che nel corso del primo processo aveva chiesto la condanna di Storari a sei mesi di carcere per rivelazione di segreto d'ufficio - non intendesse impugnare l'assoluzione del pm milanese. Invece, dopo avere letto e riletto le complesse motivazioni della assoluzione firmata dal giudice Federico Brugnara, il pm bresciano Donato Greco (solo con la sua firma, e non con quella del suo capo Francesco Prete) ha deciso di ricorrere. Storari è colpevole, dice il ricorso, lui stesso ha ammesso di avere consegnato i verbali a Davigo e la sua ignoranza delle norme non può essere invocata come scusante: specie trattandosi di un magistrato. Da parte sua il difensore di Storari, Paolo Della Sala, ha depositato una memoria difendendo la sentenza di assoluzione e segnalando che semmai la motivazione poteva essere ancora più ampia, «il fatto non sussiste».

Resta il fatto che Storari torna sotto tiro, e la sua sorte torna ad incrociarsi con quella di Davigo, che invece ha scelto la strada del processo ordinario, con udienze pubbliche che hanno già riservato squarci illuminanti sulla vita interna del Csm: come la testimonianza di David Ermini, che del Csm è vicepresidente, e che ha ammesso di avere ricevuto i verbali a sua volta da Davigo ma di averli distrutti senza leggerli, salvo precipitarsi a raccontare tutto al presidente della Repubblica.

Nel frattempo altri tasselli si sono aggiunti al quadro già sufficientemente complesso. La Procura bresciana ha chiesto il processo anche a carico di Fabio De Pasquale, il procuratore aggiunto che Storari ha sempre indicato come il principale responsabile dell'insabbiamento dei verbali di Amara sulla loggia Ungheria. Che nel frattempo sono approdati a Perugia, dove la Procura ha chiesto l'archiviazione di tutta la faccenda: non perché ci sia la certezza che la loggia non esisteva, ma perché le dichiarazioni di Amara non hanno trovato conferme.

Caso Amara, il pm Storari citato in giudizio a Brescia. Il presidente della Corte d’appello di Brescia, prima Sezione penale, ha citato il pm di Milano Paolo Storari in qualità di «imputato» per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio nel caso Amara. Il Dubbio il 21 agosto 2022.

Il presidente della Corte d’appello di Brescia, prima Sezione penale, ha citato il pm di Milano Paolo Storari in qualità di «imputato» per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio nel caso Amara. Storari, difeso dall’avvocato Paolo Della Casa, era stato assolto in primo grado perché il fatto «non costituisce reato» dall’accusa mossagli per aver consegnato i verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

Storari aveva scelto di rivolgersi all’ex pm di Mani Pulite per «autotutelarsi», alla luce della presunta inerzia dei vertici della procura di Milano ad indagare sulla cosiddetta “loggia Ungheria”, svelata da Amara in quei verbali. La cui consegna, aveva chiarito il magistrato, era avvenuta dopo le rassicurazioni di Davigo sul fatto che il segreto d’ufficio non fosse opponibile ai membri del Csm.

Successivamente, l’1 aprile scorso, la Procura di Brescia si era appellata «nel ritenere legittima la procedura di rivelazione del segreto d’ufficio commessa in favore di Davigo». La notifica della citazione di Storari è arrivata alle parti lo scorso 16 agosto. Parte civile, il magistrato del Csm Sebastiano Ardita, assistito dall’avvocato Fabio Repici. L’udienza si svolgerà il 4 ottobre alle 11:30.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 4 agosto 2022.

Non era e non può restare di competenza della Procura di Milano, ma doveva e ora deve essere trasferita alla Procura di Brescia, l'inchiesta che da 5 anni Milano va conducendo sui depistaggi attribuiti a dirigenti Eni e finalizzati (tramite i controversi Piero Amara e Vincenzo Armanna) a inquinare il processo per tangenti Eni-Nigeria. 

Lo ha deciso la Procura Generale della Corte di Cassazione, che ha accolto l'istanza di Amara e dell'ex numero due di Eni Antonio Vella, giovatisi di un «baco» da sempre irrisolto nello schema dei pm.

Le indagini avviate nel 2017 erano infatti state concluse il 2 dicembre 2021 dal procuratore aggiunto Laura Pedio (con i subentrati pm Stefano Civardi e Monia Di Marco) con la prospettiva di una (tuttora attesa) richiesta di archiviare l'ad Eni Claudio Descalzi, e invece di processare 17 indagati tra cui appunto Vella, Amara, Armanna e l'ex capo affari legali Eni Massimo Mantovani: tutti per aver formato una associazione a delinquere finalizzata a molteplici reati tra i quali danneggiare i processi istruiti dal pm Fabio De Pasquale cercando di crearne «cloni» attraverso false denunce di «complotti anti-Descalzi» indirizzate a pm complici di Amara a Trani e Siracusa; 

diffamare e far estromettere i consiglieri indipendenti Eni Luigi Zingales e Karina Litvack; tacciare il primo avvocato di Armanna, Luca Santa Maria, di infedele patrocinio in combutta con De Pasquale.

E qui la Procura di Milano ha sempre ondeggiato: da un lato veicolando in pubblico l'idea di un complotto Eni mirato anche contro De Pasquale (così ad esempio il 24 marzo 2021 un comunicato dell'allora procuratore Francesco Greco dopo l'assoluzione Eni-Nigeria); ma dall'altro lato non traendone allora la conseguenza procedurale di inviare il procedimento a Brescia, Procura competente su fatti dei quali siano parti offese pm milanesi. 

Quando un anno fa l'avvocato Santamaria (in attesa da anni dell'esito della propria querela ad Armanna) chiede alla Procura Generale milanese di togliere il fascicolo alla Procura della Repubblica, per scongiurare l'avocazione l'11 giugno 2021 la pm Pedio stralcia e manda al giudice solo questa micro-richiesta di processare Amara, Armanna e Mantovani per calunnia di Santa Maria, nell'imputazione prima scrivendo e poi invece togliendo l'indicazione esplicita anche del pm De Pasquale quale parte offesa.

Qualifica che peró il giudice De Marchi ravvisa comunque palese nell'imputazione, sicchè il 14 aprile 2022 la trasferisce per competenza a Brescia, che peraltro già il 25 maggio ne chiede l'archiviazione, a cui Santa Maria si opporrà il prossimo 3 novembre. 

Ed è sull'effetto attrattivo di questa connessione che hanno ora fatto leva con successo i difensori Vinicio Nardo e Salvino Mondello, rimarcando al pg di Cassazione Vincenzo Senatore che, per i pm milanesi, Amara e Vella si sarebbero associati a delinquere per compiere, tra tanti reati-fine, anche proprio quella calunnia di Santamaria già giudicata di competenza bresciana in funzione della parte offesa De Pasquale.

Ora i pm milanesi del neoprocuratore Marcello Viola resterebbero competenti solo sulle richieste di archiviazione di quegli indagati (compreso Descalzi) che da dicembre 2021 si erano infine orientati a ritenere estranei al depistaggio Eni e anzi calunniati da Amara e Armanna: scenario già da molto prima propugnato dall'altro pm Paolo Storari ai vertici della Procura in forza di prove invece ignorate a lungo dai colleghi, alcuni dei quali perciò indagati a Brescia per omissione d'atti d'ufficio. 

(ANSA il 19 luglio 2022) - I motivi d'appello presentati dalla Procura di Milano per chiedere di ribaltare l'assoluzione decisa dal tribunale nei confronti di tutti gli imputati al processo sul caso Eni/Shell-Nigeria "sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità". 

Lo ha spiegato davanti alla Corte d'appello milanese il pg Celestina Gravina nel motivare, basandosi sulla giurisprudenza, la sua scelta di rinunciare all'impugnazione proposta dall'aggiunto Fabio De Pasquale. 

Sulla sua scelta ha pesato anche la sentenza assolutoria passata in giudicato di Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, ritenuti dal pm i mediatori della presunta tangente da lui ipotizzata. "Il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto - ha proseguito il pg -.Come se non ci fosse un'associazione passata in giudicato. E questa è una violazione delle regole di giudizio".

(ANSA il 19 luglio 2022) - La seconda Corte d'Appello di Milano, presieduta da Enrico Manzi, ha preso atto della rinuncia dei motivi di appello da parta del pg Celestina Gravina che ha chiesto anche "la declaratoria di passaggio in giudicato" della sentenza di assoluzione di primo grado di tutti i 15 imputati al processo sul caso Eni/Shell Nigeria. 

Il procedimento va avanti solo per le questioni civili. Il pg, nel chiudere il suo intervento, ha affermato che "questo processo deve finire perché non ha fondamento" aggiungendo che gli imputati "che per 7 anni sono stati sotto procedimento hanno il diritto di vedere cessare questa situazione che è contra legem rispetto all'economia processuale e alle regole del giusto processo".

Monica Serra per “la Stampa” il 20 luglio 2022.

Non si è limitata a chiedere l'assoluzione degli imputati nel processo Eni-Nigeria, a partire dall'ad Claudio Descalzi. Con una mossa che almeno a Milano non ha precedenti, la sostituta procuratrice generale Celestina Gravina ha rinunciato ai motivi d'appello, rendendo definitive tutte le assoluzioni di primo grado. 

Le dure parole che ha pronunciato sono suonate in aula come un "atto di accusa" nei confronti del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che non ha mai chiamato per nome. E che - proprio per la gestione delle prove in questo processo al centro del duro scontro che si è consumato nella procura di Milano - è imputato a Brescia per omissione di atti d'ufficio.

Gravina ha definito i motivi d'appello promossi dall'aggiunto «incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità», che non tengono conto dell'«assoluzione definitiva» dei presunti intermediari della maxi tangente al centro del processo: Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, già giudicati perché avevano scelto il rito abbreviato. 

«E questa - per la sostituta pg - è una violazione delle regole di giudizio». Ha parlato di «vicende buttate lì come un'insinuazione», di «esilità e assoluta insignificanza degli elementi» usati dalla procura per sostenere l'accusa di corruzione internazionale, di «colonialismo della morale» da parte del pm per rispondere all'accusa di «colonialismo predatorio» che De Pasquale muoveva a Eni e Shell nel ricorso.

«Questo processo deve finire oggi perché non ha fondamento - ha detto Gravina - Non c'è prova di un accordo corruttivo, né prova del pagamento di utilità corruttive». E, dopo aver «patito sette anni», gli imputati «hanno diritto a vedere cessare immediatamente questa situazione contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo».

La sostituta pg ha censurato la richiesta di confisca di 1, 092 miliardo di dollari avanzata da De Pasquale, pari alla presunta maxi tangente che, nella ricostruzione accusatoria, Eni e Shell avrebbero pagato per aggiudicarsi la concessione da parte del governo nigeriano dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245. Ha aggiunto Gravina che invece Eni e Shell avrebbero fatto «la ricchezza di quel Paese» a partire dagli anni Cinquanta «anche con tributi di sangue».

Per il gruppo è stata così sancita «la fine della immotivata e sconcertante vicenda giudiziaria penale». La requisitoria della sostituta pg - che il difensore di Descalzi, Paola Severino, ha definito «penetrante, argomentata, anche pacata che però ha frantumato completamente l'accusa» - ha messo una pietra tombale sul processo. 

Che andrà avanti solo per il ricorso della parte civile. L'avvocato Lucio Lucia, che rappresenta la Repubblica nigeriana, ha chiesto alla corte di valutare i danni in separata sede e una provvisionale pari alla somma versata per i diritti di esplorazione del giacimento. Decisione attesa il 30 settembre.

La resa dei magistrati: "Processo Eni-Nigeria senza fondamento". Cristina Bassi il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

La Procura generale non fa appello contro l'assoluzione dei vertici. E spara sui pm

Il colpo di scena arriva in apertura di udienza. La Procura generale di Milano rinuncia ai motivi di appello nel caso Eni-Nigeria. Nessun processo di secondo grado dunque, diventano definitive le assoluzioni «perché il fatto non sussiste» dei 15 imputati, tra cui le società Eni e Shell, l'attuale ad della compagnia petrolifera Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni decise dal Tribunale nel marzo dello scorso anno. Il processo va avanti solo per gli aspetti civili, dal momento che anche la Nigeria aveva impugnato le assoluzioni come parte civile e chiesto un risarcimento.

Quello del sostituto procuratore Celestina Gravina è un atto clamoroso e con pochi (se non nulli) precedenti. Non si è limitata infatti a chiedere la conferma delle assoluzioni di primo grado, su cui la Corte si sarebbe poi dovuta esprimere come alla fine di ogni dibattimento. Ha invece cassato l'impugnazione presentata dalla Procura, nella persona del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, della prima sentenza e ha evitato la celebrazione stessa del nuovo processo. Qui la Seconda sezione della Corte d'appello, presieduta dal giudice Enrico Manzi, non ha potuto che prendere atto e non è possibile il ricorso in Cassazione. Gravina ha inoltre chiesto ai giudici «la declaratoria di passaggio in giudicato» del verdetto di assoluzione. Nel motivare la propria decisione il sostituto pg sconfessa radicalmente il lavoro dei «colleghi» del quarto piano che in questo procedimento basato su una presunta corruzione internazionale avevano investito enormi energie e risorse. «Non c'è prova di nessun fatto rilevante in questo processo - è la conclusione della requisitoria di ieri - Gli imputati che hanno patito un processo lungo sette anni hanno diritto di vedere cessare immediatamente questa situazione che in questo momento è contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo, di economia processuale, di durata ragionevole. Il processo non è la sperimentazione della dialettica delle parti». Gravina ha spiegato di ritenere «di dover esercitare la sua funzione di osservanza della legge», quindi di rispettare i dettami della Suprema corte e tener ben presente che esiste una sentenza di assoluzione passata in giudicato sui due presunti intermediari della maxi tangente nigeriana. «Mancano le prove in questo processo e i binari di legalità del processo segnato dalla Cassazione sono corrispondenti al diritto delle persone in questo Paese a non subire processi penali quando non sussistano i presupposti di legge. Questo processo deve finire oggi perché non ha fondamento».

Tutto era nato dall'accusa a Eni di aver pagato una mazzetta da 1,092 miliardi di dollari per aggiudicarsi nel 2011 la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di sfruttamento del giacimento Opl245. Ha argomentato il sostituto pg: i motivi d'appello della Procura «sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». Pesa l'assoluzione, chiesta e ottenuta dalla stessa Gravina e poi passata in giudicato, dei due presunti mediatori (processati in abbreviato) della corruzione ipotizzata. «Ma il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto. E questa è una violazione delle regole di giudizio». Ancora ha parlato di «vicende buttate lì come una insinuazione», di «esilità e assoluta insignificanza degli elementi» portati dalla Procura e di «colonialismo della morale» del «pm». Non c'è, ha sostenuto, «prova dell'accordo per una corruzione, non c'è prova del pagamento di un'utilità corruttiva». C'è da parte del pm (mai citato per nome) un «atteggiamento fondamentalmente neocolonialista, altro che il colonialismo predatorio di cui sono accusate le due compagnie petrolifere che hanno fatto la ricchezza della Nigeria». Così Paola Severino, avvocato di Descalzi: «Una requisitoria penetrante, argomentata, sintetica, pacata che però ha frantumato completamente l'accusa».

Crolla il processo Eni-Nigeria. Il pg: «Dal pm linea neocolonialista, no ai processi senza presupposti». La dura reprimenda del sostituto procuratore generale contro l'aggiunto De Pasquale dopo la rinuncia all'appello: «Una situazione contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo». Simona Musco su Il Dubbio il 20 luglio 2022.

«Non c’è prova di nessun fatto rilevante in questo processo». Sono veri e propri macigni le parole pronunciate questa mattina dal sostituto procuratore generale di Milano Celeste Gravina, che ha rinunciato all’appello nei confronti dei 15 imputati, 13 persone e le società Eni e Shell, accusati di corruzione internazionale nel processo sulla presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari per la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245. Una decisione che arriva dopo l’assoluzione di tutti gli imputati in primo grado pronunciata il 17 marzo 2021 – e ora definitiva -, «perché il fatto non sussiste». Ma la requisitoria di oggi è stata una vera e propria reprimenda nei confronti dell’aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, che dopo l’assoluzione ha presentato appello, nonostante fosse emerso in più occasioni l’assenza di prove e l’inaffidabilità del grande accusatore Vincenzo Armanna, ex vicepresidente di Eni Nigeria. L’intero processo, secondo Gravina, si sarebbe basato solo su «chiacchiere e opinioni generiche», sulla cui base la più grande società italiana è stata tenuta in “ostaggio” e tredici persone sono finite sulla graticola. Ma ogni cittadino, ha ammonito il sostituto procuratore generale, «ha diritto, dopo sette anni e senza che sia stata raggiunta la prova della sua colpevolezza, a veder finire immediatamente il processo».

Fra gli imputati figurano l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi (nella foto), il suo predecessore Paolo Scaroni, l’ex ministro del Petrolio della Nigeria, Dan Etete, oltre a quattro ex manager di Shell, ex dirigenti di Eni e alcuni intermediari. Fra questi anche Roberto Casula, ex capo divisione esplorazioni di Eni, Armanna, Ciro Antonio Pagano, all’epoca dei fatti managing director di Nae, Obi Emeka, avvocato che avrebbe fatto da intermediario nell’operazione, e Luigi Bisignani, anch’egli considerato mediatore. Sulla scelta di Gravina ha inciso anche la sentenza assolutoria in abbreviato – e passata in giudicato – nel processo a carico di Emeka e Gianluca Di Nardo, ritenuti dal pm i mediatori della presunta tangente di cui però non ci sono tracce. Il presidente del collegio della seconda sezione penale della Corte di Appello di Milano, Enrico Manzi, «ha preso atto della rinuncia», mettendo dunque una pietra tombale sulla vicenda. Il processo di secondo grado va dunque avanti solo per i soli fini civili per l’appello proposto dal governo federale della Nigeria, parte civile nel processo, rappresentato in aula dall’avvocato Lucio Lucia.

«Non c’è prova di nessun fatto rilevante in questo processo – ha affermato Gravina -. Gli imputati hanno diritto di vedere cessare immediatamente questa situazione che in questo momento è contra legem rispetto alle indicazioni di regolarità formale del processo, di economia processuale, di durata ragionevole. Il processo non è la sperimentazione della dialettica delle parti» e perciò va messa la parola fine. Anche perché i motivi d’appello presentati da De Pasquale, ha ammonito la pg, «sono incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità». L’aggiunto milanese, ignorando l’esito del processo a carico di Emeka e Di Nardo, «continua a sostenere le sue posizioni come se non ci fosse un’assoluzione passata in giudicato» che stabilisce che i due non sono mai stati collettori «di una tangente destinata» ai pubblici ufficiali nigeriani. «Il pm di questo non se ne accorge» e questa è una violazione delle regole di giudizio». Nell’appello proposto dalla procura mancherebbe «qualsiasi nuovo elemento per sostenere l’accusa» e «per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre ragionevole dubbio», mentre sono presenti profili «incongrui e insufficienti» che restituiscono «diverse ricostruzioni possibili che sono lo specchio dell’assenza di fatti certi posti alla base della accusa e non di un accordo corruttivo che non si indica in alcun modo». Anzi, le vicende sarebbero state «buttate lì come una insinuazione», ha affermato Gravina, arrivando a parlare di «colonialismo della morale» da parte «del pm»: come «le potenze neocoloniali tracciavano i confini senza sapere cosa c’era sotto», De Pasquale avrebbe «imposto» la propria linea, volendo scegliere «al posto di organi democraticamente eletti». Atteggiamento che la procura ha imputato alle due società, che invece «hanno fatto la ricchezza della Nigeria» anche con «tributi di sangue». Il tutto senza riuscire ad individuare le presunte tangenti versate e riparando «sul fatto che questa operazione non doveva farsi». La procura si sarebbe comportata, dunque, come una sorta di «Tribunale amministrativo della Nigeria». Ma in Italia c’è il «diritto delle persone a non subire processi penali quando non vi sono motivi perché si tengano».

Gravina ha parlato anche delle «bugie ripetute» di Armanna, dei «suoi ripensamenti» e delle «sue speranze frustrate di impunità». Falsità sulle quali De Pasquale era già stato messo in guardia dal pm Paolo Storari (finito nella bufera per il caso verbali) e stigmatizzate nelle motivazioni della sentenza di assoluzione dal Tribunale di Milano, che aveva ammonito l’aggiunto soprattutto in merito alla gestione delle prove, per la quale la procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio di De Pasquale e Sergio Spadaro. Tra queste prove, il video mai depositato a processo, girato in maniera clandestina dall’avvocato Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza della fantomatica – e smentita – “loggia Ungheria”, che testimoniava un fatto clamoroso: la volontà di Armanna di ricattare i vertici Eni e avviare una devastante campagna mediatica. Proprio per tale motivo, si sarebbe adoperato per «fargli arrivare un avviso di garanzia». E due giorni dopo, come da copione, Armanna si presentò in procura per accusare i vertici della società. Il contenuto del video, per i giudici di primo grado, era di per sé «dirompente in termini di valutazione dell’attendibilità intrinseca perché rivela che Armanna, licenziato dall’Eni un anno prima, aveva cercato di ricattare» la società petrolifera «preannunciando l’intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare “una valanga di merda”» sui suoi dirigenti. Per Paola Severino, legale di Descalzi, «è stata una requisitoria molto penetrante, che ha frantumato completamente l’accusa. La giustizia può essere magari lenta ad arrivare, ma quando arriva deve essere dichiarata immediatamente».

Eni, in una nota, ha parlato di «immotivata e sconcertante vicenda giudiziaria penale». «La rinuncia determina che le assoluzioni già pronunciate nel marzo 2021 di Eni e dei suoi manager siano diventate definitive, passando in giudicato. Dopo oltre 8 anni tra indagini e procedimenti giudiziari, cause di altissimi costi e di gravi e ingiuste conseguenze reputazionali per la società e il suo management, la Giustizia ha completato il suo corso confermando in via definitiva la piena assoluzione perché il fatto non sussiste», sottolinea Eni. «Eni e le sue persone, finalmente forti del riconoscimento irrevocabile della correttezza e della legalità del proprio operato, potranno continuare a dedicarsi con sempre maggiore efficacia alle sfide epocali che oggi caratterizzano lo scenario internazionale: sicurezza degli approvvigionamenti, accesso all’energia e percorso verso una transizione energetica equa», conclude la società di San Donato Milanese.

Per il sostituto pg "processo non ha fondamento". Processo Eni-Nigeria, il flop dei magistrati di Milano è definitivo: la procura generale rinuncia all’Appello contro Scaroni e Descalzi. Fabio Calcagni su Il Riformista il 19 Luglio 2022. 

Il processo Eni-Nigeria si chiude senza passare in Appello. I giudici di Milano questa mattina hanno preso atto della rinuncia da parte della Procura generale dei motivi d’appello nel processo di secondo grado nei confronti dell’ex e dell’attuale management della società petrolifera, in particolare l’AD Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni.

A comunicarlo in aula all’apertura dell’udienza è stato il sostituto pg di Milano Celestina Gravina, rendendo così definitiva l’assoluzione con formula piena in primo grado nei confronti dei 15 imputati tra dirigenti di Eni, dirigenti di Shell, mediatori italiani e nigeriani, oltre alle due società petrolifere.

Gli indagati erano accusati di corruzione internazionale per una presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari che sarebbe stata versata dalle due società petrolifere per aggiudicarsi la concessione da parte del governo della Nigeria dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245.

Una scelta che conferma il flop colossale del processo portato avanti dai magistrati che a vario titolo hanno portato avanti l’inchiesta, in particolare il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, ora pm alla Procura europea antifrodi, paradossalmente indagati per “rifiuto d’atto d’ufficio”, ovvero per non aver voluto depositare nel 2021 prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo.

Un processo senza prove, quello imbastito dai magistrati milanesi, come sottolinea la stessa sostituto pg Gravina in aula. Proprio la “mancanza di qualsiasi nuovo elemento per sostenere l’accusa” per poter portare avanti un ricorso che non ha la forza “per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre ragionevole dubbio“.

Processo che “deve finire oggi perché non ha fondamento”, ha aggiunto ancora Gravina. Per il rappresentante dell’accusa bisogna rispettare i “binari della legalità” tracciati dalla Cassazione e quindi non bisogna sottoporre le persone ai processi quando “mancano le prove“. Gravina che con parole durissime ha descritto e criticato i motivi di appello presentati dall’aggiunto Fabio De Pasquale: “In questo processo – ha spiegato il sostituto pg- non c’è prova di un accordo corruttivo, né prova del pagamento di utilità corruttive“. Un atteggiamento “neocolonialista“, secondo il pg, lo ha avuto “il pm”, ossia De Pasquale, perché come “le potenze neocoloniali tracciavano i confini senza sapere cosa c’era sotto” ha “imposto” la propria linea, volendo scegliere “al posto di organi democraticamente eletti“. De Pasquale che ha portato solo “chiacchiere e opinioni generiche che toccano i governanti degli ultimi 10 anni in Nigeria” nel processo.

Gravina poi si toglie ancora qualche ‘sassolino dalla scarpa’ nei confronti di De Pasquale: “Il pm continua a sostenere le sue posizioni come se nulla fosse accaduto. Come se non ci fosse un’associazione passata in giudicato. E questa è una violazione delle regole di giudizio”. Gli imputati, che per sette anni sono stati sotto procedimento, hanno invece “il diritto di vedere cessare questa situazione che è contra legem rispetto all’economia processuale e alle regole del giusto processo”.

Eni-Nigeria è diventa così da inchiesta ‘principe’ della Procura di Milano una sorta di Caporetto della giustizia italiana. Basti pensare le ripercussioni per i due titolari dell’inchiesta, De Pasquale e Spadaro, che lo scorso giugno si sono visti chiedere dai colleghi di Brescia il rinvio a giudizio.

I pm bresciani contestano ai due di non aver depositato nel dibattimento sull’ipotizzata (e non provata) corruzione, chat del cellulare dell’ex dirigente Vincenzo Armanna (accusatore Eni) nelle quali si parlava di 50mila dollari che l’ex manager avrebbe chiesto indietro ad Isaak Eke, 007 nigeriano, teste nel dibattimento che avrebbe dovuto confermare le accuse. Armanna consegnò ai giudici solo parte di quei messaggi, mentre il pm di Milano Paolo Storari aveva scovato gli altri nelle sue indagini e le aveva girate ai vertici della Procura, guidata all’epoca da Francesco Greco.

In più, tra le accuse mosse ai pm milanesi anche il non aver introdotto nel processo presunte false chat, ancora una volta scoperte da Storari, che Armanna avrebbe creato per dare conto di suoi colloqui (falsi) con Descalzi e il capo del personale Eni Claudio Granata.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

La pg Gravina rinuncia all'appello. “Processo Eni infondato”, la Procura generale fa a pezzi i pm De Pasquale e Spadaro. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Luglio 2022. 

Chissà come si sentiva il pm Fabio De Pasquale ieri mattina mentre la sua collega della procura generale Celestina Gravina annunciava, nell’aula in cui si sarebbe dovuto celebrare il processo di secondo grado nei confronti della dirigenza Eni per un presunto caso di corruzione in Nigeria, che i giudici avrebbero potuto tornare a casa perché il suo ufficio rinunciava all’appello. E motivava la scelta con toni durissimi, soprattutto nei confronti di chi, mai nominato, si era impegnato per sette anni nell’impresa di far condannare Paolo Scaroni e Claudio Descalzi per corruzione internazionale.

Dopo la richiesta della rappresentante della procura generale della “declaratoria di passaggio in giudicato”, accolta dal Presidente della seconda corte d’appello di Milano Enrico Manzi, la sentenza di primo grado, quella che aveva assolto “perché il fatto non sussiste” i quindici imputati, tredici persone fisiche e le due società Eni e Shell, è diventata definitiva. Parole sferzanti, quelle della dottoressa Gravina. E anche umilianti, perché il pm De Pasquale non si era limitato a ricorrere in appello dopo le assoluzioni del 17 marzo 2021, ma si era anche candidato a sostenere il ruolo dell’accusatore anche nel dibattimento di secondo grado. Ma proprio Celestina Gravina gli era stata preferita per quel ruolo, come esperta, ma forse anche perché più distaccata, dalla procuratrice generale Francesca Nanni. Anche perché quel primo processo e quella sentenza si erano intrecciati con gli sconvolgimenti, quasi storie da intrighi e vecchi merletti, che avevano attraversato la Procura di Milano allora guidata da Francesco Greco. Vicende che sono poi finite a Brescia, dove anche lo stesso De Pasquale è indagato insieme al collega Sergio Spadaro con richieste di rinvio a giudizio per ambedue proprio per fatti che attengono al processo Eni.

Ma indipendentemente dagli aspetti giudiziari, è la stessa immagine personale di De Pasquale che ieri è stata messa in discussione, quando la pg Gravina ha accusato i comportamenti del collega di “colonialismo della morale”, paragonandoli a quelli dei vecchi dominatori che cercavano di imporre con la prepotenza le proprie scelte “al posto di organi democraticamente eletti”. Un vero schiaffo, per un uomo che non ha mai nascosto le proprie preferenze politiche nell’ambito della sinistra. E che, proprio in questo processo – ma De Pasquale indagava su Eni fin da quando il Presidente era Gabriele Cagliari, che poi si suicidò in una cella di San Vittore il 20 luglio del 1993 – aveva accusato le due società di aver voluto colonizzare i nigeriani, con quell’accordo per la concessione dei diritti di esplorazione sul blocco Opl245. Eni e Shell, dice invece Gravina, “hanno fatto la ricchezza della Nigeria”, anche con “tributi di sangue”. Anche la lezione di diritto non è male. Perché i motivi dell’appello presentati da De Pasquale sono esili e insignificanti, tanto che “questo processo deve finire perché non ha fondamento”. E l’articolo 111 della Costituzione, quello sul giusto processo è stato ignorato. Tanto che non si è tenuto in nessun conto il fatto che “per un eventuale ribaltamento del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio” occorrono argomenti forti e motivati. E non “incongrui e insufficienti” a dimostrare che ci sia stata corruzione solo sulla base di insinuazioni buttate lì come fossero prove.

Del resto, in un certo senso, forse lo stesso De Pasquale sapeva benissimo quanto fossero deboli gli indizi che aveva raccolto nel corso degli ultimi sette anni. Tanto che lui stesso il 21 luglio 2020 dichiarava: “Non chiedeteci una probatio diabolica. Chiedeteci una prova che sia congrua rispetto a quello che dicono le convenzioni internazionali, cioè che bisogna utilizzare anche gli indizi, bisogna utilizzare tutto ciò che si conosce, non bisogna cercare banalmente, come se fosse la serie televisiva, la pistola fumante”. Un bel ragionamento – riportato anche nelle motivazioni della sentenza di assoluzione-, ma come lo possiamo collegare al fatto che nel frattempo due presunti intermediari della famosa corruzione internazionale, che avevano scelto il rito abbreviato, sono stati assolti con sentenza definitiva? Questo argomento ha pesato seriamente sulla decisione della pg di ritirare il ricorso in appello di De Pasquale. Anche perché è difficile non considerare neanche una sentenza passata in giudicato come “pistola fumante”. Ma del resto gli stessi giudici che avevano emesso la sentenza di assoluzione dei quindici imputati, nelle motivazioni della loro decisione avevano ricordato agli inquirenti che per condannare occorrono le prove, e che è inutile arrampicarsi sugli specchi se queste non ci sono. E anche che l’onere della prova spetta al pm, non alla difesa.

Sarà utile al riguardo ricordare che se il pm De Pasquale è indagato a Brescia e potrebbe essere rinviato a giudizio insieme al suo collega Sergio Spadaro, è proprio perché i due magistrati sono accusati di aver cercato di rafforzare un’ipotesi accusatoria che faceva acqua da tutte le parti con l’omissione di documenti e testimonianze che avrebbero potuto essere favorevoli alla difesa. Come ad esempio una videoregistrazione in cui l’ex manager di Eni Armanna preannuncia all’avvocato Amara e altre due persone le calunnie che si apprestava a riversare sui vertici Eni. Il video avrebbe dimostrato l’inattendibilità di testimoni ritenuti preziosi dall’accusa. Tanto che lo stesso De Pasquale, nel suo ricorso di 120 pagine contro le assoluzioni, ne aveva dedicate otto a quel video, a conclusione delle quali aveva definito quelle parole come semplici “spacconate”. Aggiungendo anche che comunque la difesa degli imputati ne ara a conoscenza da tempo, cosa che i legali del vertice Eni hanno sempre escluso.

Ma qualcosa di molto più grave era accaduto nel corso di quel processo, anche se non fa parte del fascicolo aperto a Brescia. Ed è il tentativo, maldestro ma pericoloso, di far uscire di scena il Presidente del tribunale Marco Tremolada, che stava giudicando le accuse di corruzione internazionale.

L’episodio risale al 5 febbraio del 2020 quando, finita la parte istruttoria del processo Eni-Nigeria, i pm De Pasquale e Spadaro avevano tentato di far ammettere dal tribunale una deposizione dell’avvocato Amara su “interferenze Eni su magistrati milanesi”. È la famosa polpetta avvelenata da porgere al Presidente Marco Tremolada, che viene definito dal tandem dei calunniatori come “avvicinabile”. Il tribunale aveva mangiato la foglia, anche perché a quel punto il presidente avrebbe dovuto astenersi dal poter continuare il processo, non accogliendo la richiesta. Ma la cosa sorprendente è che immediatamente il procuratore Francesco Greco e la sua aggiunta Laura Pedio avevano trasmesso gli atti a Brescia perché la Procura verificasse se qualche giudice avesse commesso i reati di traffico di influenze e abuso d’ufficio. Inutile dire che se qualcuno ci aveva contato sarà rimasto deluso dopo l’archiviazione dell’episodio. Ma c’era stato comunque un retroscena.

Perché un altro pm di Milano, quel Paolo Storari che diventerà famoso per i verbali di Amara passati a Camillo Davigo, in una deposizione alle Procure di Brescia e di Roma, aveva raccontato di una riunione milanese in cui Fabio De Pasquale avrebbe detto che il giudice Marco Tremolada era troppo appiattito sulle posizioni delle difese di Eni, quindi bisognava trovare il modo di farlo astenere. Quando? Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio del 2020, quindi nei giorni precedenti a quel 5 febbraio in cui la polpetta avvelenata era entrata invano nell’aula del processo Eni. Su cui ieri è calato, si spera definitivamente, il sipario. Non è proprio stata una bella pagina. Che va comunque inscritta nella grande delusione, per chi ci aveva creduto, nei confronti degli uomini della mitica procura di Milano. Dove evidentemente, da Mani Pulite in avanti – ormai ce ne sono le prove – il fine ha sempre giustificato i mezzi usati. E che mezzi! 

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Eni, un'inchiesta scandalosa: così i magistrati hanno bloccato 70 miliardi. Michele Zaccardi su Libero Quotidiano il 21 luglio 2022

È finita con un buco nell'acqua l'inchiesta per corruzione internazionale intentata nei confronti di Eni e dei suoi manager per lo sfruttamento di un giacimento petrolifero in Nigeria. Le indagini, che si sono trascinate per otto anni, non solo hanno macchiato la reputazione del colosso energetico italiano ma hanno anche prodotto dei danni economici ingenti a tutte le parti in causa. Nel complesso le vicende giudiziarie e il governo nigeriano hanno messo a rischio un progetto dal valore di 70 miliardi di euro. Mentre soltanto di spese legali, comprese quelle per una vicenda analoga in Algeria, Eni ha dovuto sborsare 100 milioni di euro. Ma andiamo con ordine. L'affaire Nigeria nasce dall'Opl 245, sigla che sta per Oil Prospecting License, una concessione esplorativa per il più grande giacimento petrolifero del Paese (due campi con riserve stimate pari a 9 miliardi di barili), situato a 150 chilometri al largo del delta del fiume Niger. Dal 1998 al 2011 la licenza è invischiata in contenziosi giudiziari e arbitrati internazionali tra il governo nigeriano, la compagnia britannica Shell e la società locale Malabu.

I RITARDI

Il 30 ottobre 2010 Eni prova, attraverso la sua controllata Nigerian Agip Exploration (Nae), ad acquistare il 100% delle quote dell’Opl 245, ma l’offerta non viene accettata dal governo. Che, però, preoccupato dai mancati introiti causati dai ritardi nella messa in funzione del giacimento, a novembre apre una trattativa con Shell, Malabu ed Eni. Pochi giorni dopo, si verifica un altro stallo: Mohammed Abach, ilfiglio del presidente nigeriano che nel 1998 aveva assegnato la licenza a Malabu, rivendica il 50% delle azioni di quest’ultima. Visto l’andazzo, l’allora direttore generale di Eni, Claudio Descalzi, blocca il negoziato. La soluzione viene superata grazie all’intervento del ministro della giustizia della Nigeria, che mette al riparo la compagnia italiana da eventuali contenziosi tra Shell e Malabu, liquidando la società nigeriana. Alla fine, il 29aprile 2011 viene firmato un accordo tra le parti. Eni e Shell versano 1,3 miliardi di dollari al governo e diventato comproprietari del progetto. Da allora, però, dal giacimento non è stata estratta una goccia di petrolio. Il motivo? Nonostante la richiesta fatta da Eni nel rispetto dei termini di legge, la Nigeria, con la scusa dei procedimenti giudiziari pendenti, non ha mai trasformato la licenza da esplorativa in estrattiva, rendendo impossibile l'avvio della produzione. Per questo, nel settembre del 2019 la compagnia italiana ha fatto ricorso al Centro Internazionale perla risoluzione delle controversie sugli investimenti. Anche perché i 2,5 miliardi di dollari, tra investimenti e costo della licenza, spesi da Eni e Shell rischiano nel frattempo di essere messi a repentaglio: la concessione è infatti scaduta l'11 maggio 2021. In ogni caso, il punto sarà oggetto dell'arbitrato che dovrà stabilire se il comportamento delle autorità nigeriane sia stato illegittimo. Ma i ritardi del governo di Abuja hanno causato una perdita di ricchezza anche per la popolazione locale. Secondo uno studio condotto dal centro di ricerca OpenEconomics, il progetto Opl può generare un incremento del Pil nigeriano di 41 miliardi di dollari spalmati su 25 anni, ovvero 1,64 miliardi di dollari all'anno, e dare lavoro a 200mila persone con un impatto sui redditi pari a 12 miliardi di dollari. Non solo. Aumenterebbero di 15,1 miliardi di dollari anche le entrate fiscali del governo: 4,8 miliardi da tasse dirette e 10,3 da indirette. A questo, poi, vanno aggiunti i 7,1 miliardi di dollari (il 50% dei quali spesi in Nigeria) di investimenti messi sul piatto da Shell ed Eni. 

Eni, un’assoluzione è sufficiente a creare il ragionevole dubbio. Ciò che è accaduto a Milano nel processo di appello Eni ha pochi precedenti, sia per la scelta tecnica adottata dal procuratore generale di addirittura rinunziare all’appello proposto dalla Procura contro la sentenza assolutoria, sia per toni e motivazioni di questa decisione. Gian Domenico Caiazza su Il Dubbio il 23 luglio 2022.

Ciò che è accaduto a Milano nel processo di appello Eni ha pochi precedenti, sia per la scelta tecnica adottata dal procuratore generale di addirittura rinunziare all’appello proposto dalla Procura contro la sentenza assolutoria, sia per toni e motivazioni di questa decisione. Spieghiamo intanto ai non addetti ai lavori.

Nel nostro sistema il pubblico ministero che non condivida la sentenza pronunciata dal giudice di primo grado può impugnarla con atto scritto, al pari del difensore. Ne scaturisce un secondo giudizio avanti la Corte di Appello, nel quale l’accusa sarà però sostenuta dall’ufficio di accusa di grado superiore, cioè la procura generale (salvo la eccezionale richiesta, che va motivata ed accolta, del pm di primo grado di patrocinare personalmente anche in appello). Nella larghissima maggioranza dei casi la procura generale sostiene senza riserve l’appello proposta dalla procura, pur non essendo vincolata a farlo. Può dunque accadere che nella discussione il procuratore generale, in totale autonomia, esprima dissenso, in tutto o in parte, dalla impugnazione dell’accusa, concludendo di conseguenza: sarà poi la Corte di Appello a decidere in un senso o nell’altro. Ma il nostro codice prevede anche una soluzione più estrema: il procuratore generale può addirittura rinunziare ai motivi proposti dal pubblico ministero del primo grado; decisione questa che sottrae alla Corte di Appello la stessa possibilità di pronunciarsi. Comprendete bene dunque il significato estremo di una simile decisione, infatti di natura decisamente eccezionale nella prassi giudiziaria.

La valutazione negativa da parte del titolare dell’ufficio dell’accusa in appello della impugnazione proposta dal pm del primo grado è talmente drastica, da indurlo a revocarne gli effetti, rendendo definitiva la sentenza di primo grado senza che la Corte di appello possa dire o fare alcunché. Ed è proprio questo che è accaduto nel processo Eni. La durezza inedita delle argomentazioni con le quali la procura generale ha motivato una scelta di tale forza danno la esatta misura della gravità di questa scelta. Sono parole che colpiscono per la loro inequivocità, e per la importanza quasi drammatica dei fondamentali principi di diritto che essa ha ritenuto di dover evocare. Esse descrivono un appello frutto di una ostinazione accusatoria priva di ogni seppur minimo supporto probatorio, espressione di una idea proprietaria dell’esercizio dell’azione penale, in spregio della inviolabile regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio e soprattutto in spregio della vita, della dignità, delle sorti di imputati tenuti al laccio di un’accusa fumosa e cervellotica da quasi due lustri. Per non dire dell’ipoteca intollerabile sulla credibilità e sulla operatività di una azienda strategica per l’economia nazionale.

Parole ammirevoli e coraggiose, espressione di un solido radicamento nel quadro costituzionale dei valori del giusto processo, che salutiamo con ammirazione, senza cedere alla tentazione di letture in controluce su equilibri di potere interni agli uffici giudiziari milanesi, tanto plausibili quanto indimostrabili. Ma proprio questa vicenda può essere l’occasione per rilanciare una riflessione pacata e costruttiva sul più generale tema della compatibilità tra i principi del giusto processo ed il permanere del potere di impugnazione delle sentenze assolutorie da parte del pubblico ministero. Non a caso la Commissione Lattanzi aveva rilanciato l’idea di eliminarla, rimettendo mano in sostanza alla riforma Pecorella, ma tenendo conto delle ragioni per le quali la Corte costituzionale ne aveva decretato l’abrogazione. La magistratura italiana insorge, ma la verità è che una sentenza assolutoria, ancorché riformata in appello, sarà sempre di per sé bastevole a radicare il dubbio sulla penale responsabilità dell’imputato. E per il nostro sistema costituzionale e codicistico, l’unica ragione (per fortuna!) che dia senso a successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato condannato sia innocente, non che l’imputato assolto sia colpevole.

Inoltre, questo indiscriminato diritto di impugnazione dell’accusa ha purtroppo favorito il diffuso radicarsi di una idea dell’azione penale come di una scommessa che il pubblico ministero intenda vincere ad ogni costo, come se la partita in gioco nel processo penale, più che la plausibile ricostruzione di una verità del fatto, sia più spesso la credibilità dell’Ufficio di procura. Ora che le urne ci chiamano a ragionare del Paese che vogliamo nel nostro futuro, anche questa sarà una battaglia di civiltà da rilanciare con grande determinazione.

È l’ideologia del processo accusatorio italiano. Processo Eni, così si è rotto il patto tra Pm: rinuncia all’Appello segna uno spartiacque. Alberto Cisterna su Il Riformista il 27 Luglio 2022. 

La vicenda Eni, la rinuncia eclatante e anche plateale della Procura generale all’atto d’appello depositato dai pubblici ministeri di primo grado, costituisce una sorta di spartiacque e non solo per la giustizia meneghina, come dire, notoriamente sempre coesa, militante, compatta nei casi più urticanti e delicati. Si va sbriciolando l’asse che costituiva uno degli architravi su cui trova fondamento e forza il cosiddetto partito dei pubblici ministeri, la convinzione che, messa in acqua l’ipotesi accusatoria, questa sarebbe stata coltivata, sostenuta, sospinta in avanti da Alisei sempre favorevoli e comprensivi.

In fondo era il presupposto stesso di una sorta di ideologia del processo accusatorio italiano. Non importa che l’imputato sia assolto in primo grado, tanto lo si terrà inchiodato per anni sul banco dei reprobi, o presunti tali, con un appello e un ricorso per cassazione se serve, sino alla consunzione del tempo, sino allo sfregio definitivo dell’ingiuria incancellabile. La Procura generale di Milano ha rotto un patto non scritto tra le toghe dell’accusa: quello per cui non si lascia mai un collega “di partito” a braghe calate, in mezzo al guado, con il cerino in mano. Soprattutto quando il processo è mediaticamente denso, giornalisticamente succoso. Non conoscendo gli atti nulla di preciso si può dire, ma se il procuratore generale lombardo non avesse abiurato quell’intesa, se non si fosse sottratto a quella consegna e se avesse coltivato l’ipotesi di condanna fallita in primo grado, quel processo sarebbe andato avanti ancora alcuni anni con il pieno sostegno dei molti rami che costituiscono l’albero della pubblica accusa.

È indimenticabile il servizio realizzato il giorno prima del verdetto milanese da una delle più autorevoli reti televisive del paese e per mano di uno dei più prestigiosi giornalisti italiani, servizio che riassumeva in modo suggestivo le tesi dell’accusa e dava la corruzione come pienamente dimostrata. Un’azione di oggettivo quanto involontario fiancheggiamento, ma che ha messo a nudo – ad assoluzione arrivata – ancor di più fragilità, trasversalità, convergenze che ammorbano l’informazione giudiziaria italiana. Ecco perché la decisione milanese di cestinare l’appello e chiudere la partita non può essere solo ricondotta nell’alveo di una stantia discussione sul potere d’appello del pubblico ministero in caso di assoluzione; discussione che si trascina da un paio di decenni e che è ha già visto l’ennesima legge ad personam naufragare sotto i colpi della Corte costituzionale.

Ma esige uno scarto di visione politica più lungimirante e, se possibile, profetica. Il pubblico ministero, l’obbligatorietà dell’azione penale, la sua autonomia, i suoi connotati giurisdizionali sono un patrimonio che non si può disperdere. La discussione sulla separazione delle carriere risente di una visione ideologica, quindi poco pragmatica e realistica, dei problemi della magistratura italiana. Il primo nodo da sciogliere è quello di separare gli incapaci dai capaci, gli imbecilli dagli equilibrati, i mascalzoni dagli onesti, i neghittosi dai diligenti e non solo dentro le mura dell’accusa, ma in tutti i gangli delle toghe. La legge Cartabia introduce serrate valutazioni di professionalità, criteri partecipati e stringenti di controllo delle capacità dei magistrati.

Non sarà un’ottima legge – a esempio non circoscrive come avrebbe dovuto fare in modo più incisivo la discrezionalità del Csm – ma è una grande, ultima opportunità per il significativo miglioramento della qualità dell’organizzazione giudiziaria e delle sue sentenze. Qualcuno, improvvidamente, con denominazioni colorite a uso mediatico, ha detto che si tratta di dare le pagelle alle toghe. Non è così ovviamente, anche se qualche tentazione moraleggiante e didascalica affiora qui e là.

La vicenda Eni è la dimostrazione migliore di come quel nuovo sistema possa funzionare in futuro, non lasciando cadere nel nulla il gesto della Procura generale milanese. Non è vero che uno vale uno e una tesi vale un’altra e che, alla fine, non si può stabilire chi ha torto o ragione, affondando le mani nella bacinella pilatesca. Ha ragione chi ha il diritto e il dovere di parlare per ultimo, gli altri devono fare i conti con il torto. Alberto Cisterna

Mali e rimedi per la nostra giustizia. Eni e lo schiaffo ai Pm: riformiamo l’accusa. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 24 Luglio 2022. 

Ciò che è accaduto a Milano nel processo di appello Eni ha pochi precedenti, sia per la scelta tecnica adottata dal Procuratore Generale di addirittura rinunziare all’appello proposto dalla Procura contro la sentenza assolutoria, sia per toni e motivazioni di questa decisione. Spieghiamo intanto ai non addetti ai lavori. Nel nostro sistema il Pubblico Ministero che non condivida la sentenza pronunciata dal giudice di primo grado può impugnarla con atto scritto, al pari del difensore. Ne scaturisce un secondo giudizio avanti la Corte di Appello, nel quale l’Accusa sarà però sostenuta dall’ufficio di Accusa di grado superiore, cioè la Procura Generale (salvo la eccezionale richiesta, che va motivata ed accolta, del pm di primo grado di patrocinare personalmente anche in appello).

Nella larghissima maggioranza dei casi la Procura Generale sostiene senza riserve l’appello proposta dalla Procura, pur non essendo vincolata a farlo. Può dunque accadere che nella discussione il Procuratore Generale, in totale autonomia, esprima dissenso, in tutto o in parte, dalla impugnazione dell’Accusa, concludendo di conseguenza: sarà poi la Corte di Appello a decidere in un senso o nell’altro. Ma il nostro codice prevede anche una soluzione più estrema: il Procuratore Generale può addirittura rinunziare ai motivi proposti dal Pubblico Ministero del primo grado; decisione questa che sottrae alla Corte di Appello la stessa possibilità di pronunciarsi. Comprendete bene dunque il significato estremo di una simile decisione, infatti di natura decisamente eccezionale nella prassi giudiziaria. La valutazione negativa da parte del titolare dell’ufficio dell’Accusa in Appello della impugnazione proposta dal pm del primo grado è talmente drastica, da indurlo a revocarne gli effetti, rendendo definitiva la sentenza di primo grado senza che la Corte di Appello possa dire o fare alcunché. Ed è proprio questo che è accaduto nel processo Eni.

La durezza inedita delle argomentazioni con le quali la Procura Generale ha motivato una scelta di tale forza danno la esatta misura della gravità di questa scelta. Sono parole che colpiscono per la loro inequivocità, e per la importanza quasi drammatica dei fondamentali principi di diritto che essa ha ritenuto di dover evocare. Esse descrivono un appello frutto di una ostinazione accusatoria priva di ogni seppur minimo supporto probatorio, espressione di una idea proprietaria dell’esercizio dell’azione penale, in spregio della inviolabile regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio e soprattutto in spregio della vita, della dignità, delle sorti di imputati tenuti al laccio di un’accusa fumosa e cervellotica da quasi due lustri. Per non dire dell’ipoteca intollerabile sulla credibilità e sulla operatività di una azienda strategica per l’economia nazionale. Parole ammirevoli e coraggiose, espressione di un solido radicamento nel quadro costituzionale dei valori del giusto processo, che salutiamo con ammirazione, senza cedere alla tentazione di letture in controluce su equilibri di potere interni agli uffici giudiziari milanesi, tanto plausibili quanto indimostrabili.

Ma proprio questa vicenda può essere l’occasione per rilanciare una riflessione pacata e costruttiva sul più generale tema della compatibilità tra i principi del giusto processo ed il permanere del potere di impugnazione delle sentenze assolutorie da parte del Pubblico Ministero. Non a caso la Commissione Lattanzi aveva rilanciato l’idea di eliminarla, rimettendo mano in sostanza alla riforma Pecorella, ma tenendo conto delle ragioni per le quali la Corte Costituzionale ne aveva decretato l’abrogazione. La magistratura italiana insorge, ma la verità è che una sentenza assolutoria, ancorché riformata in appello, sarà sempre di per sé bastevole a radicare il dubbio sulla penale responsabilità dell’imputato. E per il nostro sistema costituzionale e codicistico, l’unica ragione (per fortuna!) che dia senso a successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato condannato sia innocente, non che l’imputato assolto sia colpevole. Inoltre, questo indiscriminato diritto di impugnazione dell’Accusa ha purtroppo favorito il diffuso radicarsi di una idea dell’azione penale come di una scommessa che il Pubblico Ministero intenda vincere ad ogni costo, come se la partita in gioco nel processo penale, più che la plausibile ricostruzione di una verità del fatto, sia più spesso la credibilità dell’Ufficio di Procura. Ora che le urne ci chiamano a ragionare del Paese che vogliamo nel nostro futuro, anche questa sarà una battaglia di civiltà da rilanciare con grande determinazione.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Toghe, i processi come alibi per non decidere. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022.

Un anno dopo il caso Amara e l’apertura delle inchieste penali sui vari pm, la magistratura non ha fatto chiarezza al proprio interno e nulla è accaduto

Nella primavera-estate 2021, a partire dai contraccolpi in Procura a Milano della sentenza Eni-Nigeria e dei verbali di Amara, e accanto alle inchieste penali sui vari pm, sembravano voler fare fuoco e fiamme la Procura Generale di Cassazione (per i disciplinari), il Ministero della Giustizia (con l’Ispettorato) e la I commissione Csm (sulle incompatibilità ambientali). Dopo un anno il Ministero nulla ha comunicato; il Csm — dopo audizioni un anno fa a Roma, e un scenografico bis in trasferta a Milano — si è inabissato, in silenzio optando per ritenere le pratiche sovrapponibili ai processi a Brescia e dunque attenderne l’esito; e la «pregiudiziale penale» applica pure il pg di Cassazione a congelamento dei disciplinari avviati (l’ultimo l’altro giorno) solo a ricalco delle imputazioni penali.

È vero, ma non è vero. È vero che lo stop in attesa del penale su uno stesso fatto è imposto da norme. Non è invece vero, e anzi sembra interpretazione estensiva delle accuse penali come alibi per non decidere altrove, che le condotte sanguinosamente rinfacciatesi dai pm rientrino nel perimetro dei rispettivi processi. Il che nuoce tre volte. Lascia irrisolti nodi che non ammetterebbero soluzioni differenti da vero o falso, con la sanzione o di chi abbia calunniato i colleghi o di chi abbia invece davvero compiuto scorrettezze. Posticipa le decisioni a quando fra anni saranno esauriti i vari gradi dei giudizi penali, i cui parametri di reato ben possono magari finire esclusi senza che ciò elida la gravità sotto gli altri profili. E soprattutto — proprio mentre il pm radiato Palamara si candida a quel Parlamento che nulla è stato capace di dire sui due suoi onorevoli compagni di Hotel Champagne (Ferri e Lotti) — contraddice quanto la magistratura giustamente rinfaccia alla politica: non fare autonoma chiarezza al proprio interno con la scusa del dover aspettare le sentenze.

L’avvocato aveva mostrato in anteprima ai cronisti i messaggi. Processo Eni, la delusione di Travaglio: aveva creduto alle chat false di Armanna. Paolo Comi su Il Riformista il 21 Luglio 2022. 

Non l’hanno presa per nulla bene dalle parti del Fatto Quotidiano la decisione della Procura generale di Milano di rinunciare questa settimana ai motivi d’appello nel processo di secondo grado sul caso Eni/Shell Nigeria nei confronti, tra gli altri, dell’attuale ad della compagnia petrolifera Claudio Descalzi, del suo predecessore Paolo Scaroni e delle due società.

Una decisione che ha determinato la conferma dell’assoluzione di primo grado per tutti i 15 imputati e che in questo modo è diventata definitiva.

Il nervosismo dei segugi del Fatto è comunque comprensibile dal momento che per anni hanno seguito pancia a terra l’inchiesta del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale che dava credito a due taroccatori come Piero Amara e Vincenzo Armanna.  Quest’ultimo, in particolare, aveva un rapporto molto privilegiato con i giornalisti del Fatto arrivando a mostrargli in anteprima le chat che sosteneva di aver scambiato nel 2013 con Descalzi e con il capo del personale Claudio Granata, a riscontro dell’attività corruttiva del colosso petrolifero.

I contatti fra Armanna, ex manager Eni, e giornalisti del Fatto emergono in maniera evidente da una nota depositata dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza del capoluogo lombardo, a firma del colonnello Francesco Lorusso, ed indirizzata alla pm milanese Laura Pedio, che il Riformista ha potuto visionare. Dopo aver sequestrato il telefonino di Armanna, i finanzieri hanno estrapolato una lunga chat con un giornalista del Fatto che inizia a giugno del 2016 e termine a novembre del 2020. Il giornalista, si legge nei messaggi, sollecita Armanna affinché gli inoltri anche gli screenshot compromettenti delle chat con Descalzi e Granata, dopo averle in precedenza inviate sotto forma di file zip.  Armanna esegue ed invia pure un video delle operazioni.

Il giornalista gli fa presente però che il nome utente non è riconducibile ad una numerazione telefonica e che pertanto non sarebbe una prova “genuina”.  Per avere un riscontro migliore, “dovresti farlo mentre mostri contatto e le apri entrambe”. Armanna esegue. Il giornalista risponde allora di aver verificato “con le mie fonti che tali chat non sono state depositate”. Non specificando quali.  Il primo novembre del 2020 il Fatto pubblicherà il primo articolo di una lunga seria di articoli su questa storia dal titolo: “Armanna mostra le chat”. Come è andata poi a finire è noto: le chat erano false e create ad hoc per rafforzare la tesi accusatoria di Armanna. Aveva ragione, quindi, il pm Paolo Storari quando all’inizio del 2021 aveva ipotizzato ai colleghi anche la falsità di queste chat tra i possibili indizi di calunniosità di Armanna (a suo avviso da arrestare con Amara).

Tutti aspetti che invitava i colleghi a depositare per correttezza nei confronti giudici del processo Eni-Nigeria. Una falsità che Storari deduceva a prescindere da complesse perizie dalla semplice verifica che i numeri di telefono, attribuiti a Descalzi e Granata nei messaggi con Armanna, nemmeno fossero attivi nel 2013. Altro che tarocco. De Pasquale, però, non diede mai retta a Storari e questa settimana su questa pagina ingloriosa della Procura di Milano è calato definitivamente il sipario. Con grande dispiacere del Fatto. Paolo Comi

Lo scambio di messaggi con l'ex manager. Processo Eni, anche Sigfrido Ranucci diede peso alle frottole di Armanna. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Luglio 2022 

Oltre al Fatto Quotidiano, anche la trasmissione Report di Rai Tre, condotta da Sigfrido Ranucci, ha ‘tifato’ in questi anni per la condanna dei vertici dell’Eni, dando quindi credito alle calunnie di Piero Amara e Vincenzo Armanna e sposando i teoremi della Procura di Milano e del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. Ieri abbiamo raccontato come i giornalisti del Fatto, ultimamente sotto tono per come si è concluso il processo per corruzione a Milano, chattassero spessissimo con l’ex manager Armanna alla ricerca dei messaggi ‘compromettenti’ che quest’ultimo si sarebbe scambiato con l’ad del colosso petrolifero Claudio Descalzi. Messaggi che dovevano rappresentare la pistola fumante circa l’attività corruttiva posta in essere dai vertici di Eni per aggiudicarsi i giacimenti in Nigeria.

I messaggi incriminati erano però il frutto di un taroccamento di bassissimo profilo, essendo stati ‘autoprodotti’ dallo stesso Armanna che aveva interesse a vendicarsi contro il management del cane a sei zampe che lo aveva licenziato in tronco per una storia opaca di rimborsi spese illecitamente percepiti. Il pm Paolo Storari aveva subito mangiato la foglia, capendo che qualcosa non tornava, ed infatti voleva arrestare sia Amara che Armanna per calunnia. Inoltre, aveva invitato De Pasquale, il capo del dipartimento contro la corruzione internazionale e primo assegnatario del fascicolo nei confronti dei vertici di Eni, a far presente tale situazione ai giudici del dibattimento, senza ottenere riscontro. La conseguenza dell’inerzia della Procura fu quella di non bloccare le torbide manovre dei due mestatori.

I numeri di telefono da cui sarebbero partiti questi fantomatici messaggi, accertò Storari, non erano neppure attivi. Se il Fatto ha pubblicato le chat tarocche, fidandosi delle spiegazioni date da Armanna ai suoi giornalisti, la vicenda che riguarda Report è ancora più imbarazzante trattandosi di una trasmissione del servizio pubblico e quindi pagata con i soldi dei contribuenti. I messaggi che Armanna si scambiava con i giornalisti della Rai, come per il Fatto, sono contenuti nelle informative del nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza depositate in Procura a Milano a seguito del sequestro del cellulare dell’ex manager e dell’estrapolazione del suo contenuto.

Il 6 aprile del 2019, pochi giorni prima della messa in onda della puntata di Report dedicata a questa vicenda, uno dei giornalisti investigativi di punta della scuderia di Ranucci scrive ad Armanna. Ha delle perplessità sulla “genuinità” dell’intervista ad Amara. Sospetta che Amara e Armanna si siano messi d’accordo per “fregare” Granata. I giornalisti di Report, per fare il servizio, avevano intervistato sia Amara e Armanna. E i due dicevano sostanzialmente le stesse cose, mettendo in cattiva luce la figura di Granata. Armanna, in particolare, racconta di una maxi mazzetta pagata da Granata e fatta arrivare direttamente in Nigeria con un aereo dell’Eni.

Scrive il giornalista: “Buongiorno, ma non è che tu e Amara vi siete messi d’accorso per fregare Granata? Le vostre interviste sono fin troppo uguali”. Armanna nega subito. “Scherzi! Non lo vedo ne sento ne ho contatti da più di un anno …. Quello che ti ho detto di Granata l’ho sempre pensato e detto”. Tanto basta per dissipare i dubbi del giornalista. La puntata, dal titolo “Amara verità” e con le interviste ‘fotocopia’, nonostante le iniziali perplessità, andrà regolarmente in onda e in studio Ranucci arriverà anche a raccontare un’altra delle rivelazioni ‘esclusive’ di Amara: la circostanza che l’Eni si sarebbe mossa per stoppare la puntata della trasmissione con la testimonianza di Armanna su Granata. Secondo il racconto farlocco di Amara, per stoppare la trasmissione Rai si sarebbe addirittura attivato il deputato dem Luca Lotti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e renziano di strettissima osservanza. Ovviamente era un’altra balla. Paolo Comi

Le carte delle indagini passate ad Amara. Nella Guardia di Finanza c’è una talpa: lo dicono le fiamme gialle che indagano pure…Paolo Comi su Il Riformista il 20 Luglio 2022. 

Il Gico della guardia di finanza da circa sei anni sta facendo indagini, al momento senza grande successo, per individuare chi passasse a Piero Amara – l’ex avvocato esterno dell’Eni e gola profonda degli uffici giudiziari di mezza Italia – notizie coperte dal segreto relative ai procedimenti penali di suo interesse. Ad iniziare da quelli aperti nei suoi confronti presso le Procure di Roma e Messina.

Repubblica, quotidiano particolarmente addentro alla materia avendo beneficiato molte volte di fughe di notizie provenienti dalle Procure del Paese, come quella di Perugia a proposito delle indagini che hanno riguardato Luca Palamara (da ultimo pochi giorni fa dove la richiesta di archiviazione per la Loggia Ungheria, circa 200 pagine, ha soffermato l’attenzione dei giornalisti di Largo Fochetti solo sulle poche riguardanti Palamara, ndr), è tornato ieri con grande enfasi sull’argomento.

In un lungo articolo dal titolo “Il carabiniere che sapeva troppi segreti, rubava notizie per darle ad Amara’”, l’attenzione si focalizza su un appuntato della Benemerita, Francesco Loreto Sarcina, già in servizio presso l’Aisi, il servizio segreto ‘interno’.

Sarcina, nativo di Trinitapoli in provincia di Foggia, 59 anni, dietro il compenso di 30 mila euro aveva consegnato su delle chiavette usb il materiale che interessava ad Amara. Sul punto vale la pena ricordare che tale consegna di atti è stata attestata da una sentenza emessa dal Tribunale di Perugia il 12 aprile 2022 nei confronti proprio di Sarcina. Tra questi atti risulta consegnata ad Amara l’informativa del Gico di Roma del 15 settembre 2017 di circa 800 pagine, prima che la stessa venisse depositata alla Procura della Capitale e sulla cui base sono state chieste le misure cautelari nei confronti di Amara e dei suoi sodali Giuseppe Calafiore e Fabrizio Centofanti.

A tal proposito, durante l’udienza del 9 giugno 2022 che si è svolta a Perugia nei confronti dell’ex presidente dell’Anm e dell’ex pm di Roma Stefano Fava, accusati di rivelazione del segreto per screditare l’allora procuratore Giuseppe Pignatone, il maggiore del Gico Fabio Di Bella aveva ammesso che qualche militare suo dipendente – o più di uno o tutti – aveva consegnato ad Amara nel 2017, per il tramite di Sarcina, le informative fatte dallo stesso Gico prima ancora che queste venissero depositate in Procura.

A richiesta dei difensori di Palamara e Fava di riferire l’identità della “talpa” del Gico che aveva consegnato le informative, Di Bella aveva risposto laconicamente “per ora le realtà processuali sono quelle di Sarcina”. Sicché i difensori avevano ribadito “solo Sarcina”, a conferma della risposta data dall’ufficiale. Pur nutrendo, come sempre, la massima fiducia nelle Istituzioni e che quindi si possa individuare, seppur dopo sei anni, colui o coloro che hanno consegnato ad Amara le informative, risulta molto difficile comprendere come su Amara e sulla “talpa” possa continuare ad indagare il Gico e se non fosse, invece, opportuno o doveroso delegare altra polizia giudiziaria come, ad esempio, venne fatto dalla Procura di Roma nel procedimento Consip allorquando è stato estromesso il Noe dei carabinieri. Il Gico sta già facendo accertamenti sulla ormai celebre cena romana non registrata del 9 maggio 2019 tra Pignatone, Palamara e altri magistrati dove, molto probabilmente, si discusse di chi doveva essere il nuovo procuratore della Capitale.

Gli ascolti vennero fatti dal Gico che si trova ora ad “indagare” su se stesso. Per questa ultima circostanza, il mese scorso è stata presentata alla Camera una interrogazione da parte di Edmondo Cirielli (Fd’I) Il deputato meloniano, riflettendo sul fatto che taluni operatori del Gico potrebbero aver “disatteso le direttive impartite per le programmazioni del trojan” ovvero, circostanza ancor più grave, che “il file fosse stato occultato”, ha chiesto alla ministra della Giustizia un approfondimento urgente.

Per Cirielli, in caso contrario, si “delineerebbe una grave situazione che inficerebbe gravemente non solo l’operato degli organi inquirenti e del corpo della guardia di finanza, in funzione di polizia giudiziaria, ma altresì porrebbe ulteriori interrogativi sull’operato e sull’indipendenza del Csm che sulla questione, in sede di audizioni, non avrebbe approfondito le divergenze emerse tra le varie informazioni assunte”.

Non resta che attendere. Paolo Comi

La spy story del carabiniere che sapeva troppi segreti: “Rubava notizie per darle ad Amara”. Giuliano Foschini, Fabio Tonacci su La Repubblica il 19 Luglio 2022.

Chi è Franco Sarcina, lo 007 condannato e arrestato che non ha mai rivelato chi gli forniva le carte. Dopo 6 anni la Finanza indaga ancora su uno dei misteri legati all’avvocato siciliano. Tra spie, passaporti falsi e schede clonate.

Dalla nuvola di mistero che tuttora avvolge l’avvocato plurindagato Piero Amara, una sorta di Keiser Soze di casa nostra, appare Loreto Francesco Sarcina, Franco per gli amici. Il maresciallo che sapeva troppo. Prima ancora che la Guardia di Finanza depositasse alle procure le carte delle inchieste più delicate che hanno riguardato Amara, a Messina così come a Perugia, Sarcina le aveva in tasca.

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 19 luglio 2022.

Dalla nuvola di mistero che tuttora avvolge l'avvocato plurindagato Piero Amara, una sorta di Keiser Soze di casa nostra, appare Loreto Francesco Sarcina, Franco per gli amici. Il maresciallo che sapeva troppo. 

Prima ancora che la Guardia di Finanza depositasse alle procure le carte delle inchieste più delicate che hanno riguardato Amara, a Messina così come a Perugia, Sarcina le aveva in tasca. Le consegnava agli indagati affinché potessero studiare le contestazioni a loro carico, fino, eventualmente, ad eluderle. I passaggi di mano avevano un ché di cinematografico, all'interno di un convento con una suora che faceva da portiera, per esempio.

Sempre, comunque, dietro compenso: 30mila euro, dicono, per ogni informazione utile.

Il maresciallo Sarcina, 59 anni, nato a Trinitapoli nel Foggiano, aveva un incarico di basso livello nell'Aisi, il nostro servizio di intelligence interna. Nascondeva venti telefonini e venti schede sim diverse. 

È stato arrestato e già condannato in primo grado. Il punto è che la sentenza non ha risolto l'enigma: come faceva Sarcina ad avere quei documenti? Chi glieli consegnava? E soprattutto perché? Detenuto in carcere per più di un anno e mezzo, il carabiniere non ha fiatato. La Guardia di Finanza non ha mai smesso di indagare su di lui e su quel un segreto imbarazzante che custodisce ormai da sei anni. 

Gli incontri con Amara

I primi a fare il nome di Sarcina ai pubblici ministeri sono proprio l'avvocato siciliano Amara e il suo socio Giuseppe Calafiore negli interrogatori dell'estate del 2018. Confessano di aver ricevuto, nonostante il segreto istruttorio, «tre informative redatte dalla finanza di Roma e Messina» sui loro affari. 

E che a fornirle era stato «tale Franco, dipendente della Presidenza del Consiglio, il quale ci riferiva notizie interne e ci ha consegnato anche una documentazione cartacea: ci disse che ci avrebbe tolto dai guai, sia per l'indagine di Messina sia per quella di Roma».

Agli atti ci sono i racconti delle consegne di alcune chiavette Usb, avvenuti davanti a una suora in un convento sulla riva del Tevere. «Dopo aver letto quello che ci serviva abbiamo buttato tutto nel fiume». 

Gli investigatori, che hanno scritto quelle informative cruciali per l'inchiesta, si mettono subito al lavoro per capire se si tratta di verità o di millanterie. In realtà lo sanno già, perché i resoconti di Amara e Calafiore non fanno altro che confermare quello che già hanno intuito: c'è una talpa che lavora contro di loro per "bruciare" le indagini.

La talpa

Lo capiscono da due circostanze. La prima: quando si sono presentati per perquisire lo studio di Amara, all'alba come sempre accade, gli è stato aperto immediatamente al primo squillo di citofono. Sembrava quasi che l'avvocato li stesse aspettando. Sensazione confermata dalle carte tutte perfettamente in ordine e tutte perfettamente inutili ai fini dell'indagine, dai computer che non contenevano nemmeno un documento interessante, né un appunto né una lista. Lo studio era stato ripulito, creando una scena asettica.

La seconda circostanza: un'intercettazione ambientale in cui si sente Amara parlare al telefono con uno sconosciuto proprio di una delle indagini in corso. «È un'utenza estera» scriverà la Finanza. Intestata a chi? Al carabiniere Sarcina, naturalmente. 

La nuova indagine

Per tutto questo lo 007 viene arrestato. Condannato per un passaporto falsificato, assolto per i documenti classificati della Presidenza del Consiglio che nascondeva a casa (secondo i giudici poteva averli, in ragione del suo incarico all'Aisi). 

Ma l'inchiesta più delicata è, nei fatti, ancora in corso. Sono stati cercati contatti e collegamenti tra Amara e Sarcina: la suora che organizzava i loro incontri, qualche amico in comune, un palazzo nel centro di Roma da cui sembra passare tutto.

Magistrati, spie, Amara chiaramente, e i suoi amici.

Nel processo in corso a Perugia che ipotizza una fuga di notizie a carico dell'ex presidente dell'Anm Luca Palamara e del suo collega pm Stefano Fava, i finanzieri - al contrario di quanto è stato riportato su alcuni giornali - hanno ribadito di aver cercato la talpa ma che le indagini al momento non hanno portato a niente. Può essere una fonte interna alle Fiamme gialle. O magari alla Procura. 

Può essere qualcuno che ha bucato i sistemi informatici, intercettando le comunicazioni interne. Certo è che la violazione del segreto è stata sistematica, ha riguardato più uffici giudiziari e forse non soltanto le inchieste su Amara. Certo è che Sarcina in questa storia è solo il braccio. Bisogna ancora dare un nome alla mente. 

Fabio Amendolara per “La Verità” il 14 luglio 2022.

«Vedi ad affidarsi ad Armanna... Che figura di merda». La Cassandra del Palazzo di giustizia di Milano, il pubblico ministero Paolo Storari, apprende la notizia dell'assoluzione con formula piena dei manager del Cane a sei zampe nel processo Eni-Nigeria, che per la Procura milanese deve essere stato come un potentissimo movimento tellurico, e lo comunica alla collega Laura Pedio. 

Una chat consegnata da Storari ai magistrati di Brescia nel procedimento per omissione di atti d'ufficio a carico dell'ex componente del pool di Mani pulite Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro racconta gli inediti retroscena sulla gestione di Vincenzo Armanna, lo spicciafaccende che per una parte della Procura meneghina era diventato il supertestimone dell'accusa.

Proprio il giorno delle assoluzioni, il 17 marzo 2021, Storari irrompe via chat: «Eni tutti assolti». Pedio è sorpresa: «Davvero?». E Storari spiega: «530 comma 1, il fatto non sussiste (la formula assolutoria per i manager dell'Eni, ndr)». Le parole di Storari sono taglienti: «Ma che vergogna». 

E anche quando Pedio cerca di trovare qualche elemento per salvare le attività dei colleghi, con un «comunque Paolo è una formula un po' strana», Storari è netto: «Laura, per favore... questi adesso grideranno al complotto». E Pedio: «Neanche Armanna che confessa e prende i soldi dalla Nigeria». 

Storari ha un'idea ben precisa di Armanna: «Ma è un delinquente... nessuno può credergli...». Pedio sembra fare l'equilibrista: «Almeno lui lo potevano condannare. Era general contractor». 

Storari va giù durissimo sui colleghi della Procura: «Questi sono dei cani... incapaci... questo fa lavorare la polizia giudiziaria per niente e poi la sfancula». In realtà anche Pedio dovrebbe essersi fatta un'idea di Armanna. 

Solo due mesi prima Storari le aveva inviato (senza peraltro ottenere mai una risposta, come spiegato nell'interrogatorio del 19 maggio 2021 davanti ai magistrati di Brescia) una richiesta d'arresto per calunnia che Pedio da procuratore aggiunto avrebbe dovuto controfirmare. 

L'impostazione dell'accusa era questa: Armanna, Piero Amara, ex avvocato esterno dell'Eni e grande propalatore sulla loggia Ungheria, e Giuseppe Calafiore, che di Amara era il collega di studio, avrebbero accusato Claudio Granata (capo delle risorse umane di Eni) e Claudio Descalzi (amministratore delegato di Eni) «pur sapendoli innocenti». I tre, secondo Storari, «sono stati dichiarati responsabili di aver strumentalizzato l'attività giudiziaria al fine di inquinare i processi milanesi per corruzione internazionale».

E ancora: «Il presente procedimento è stato a sua volta pesantemente inquinato con dichiarazioni calunniose, supportate anche da documentazione falsa e da testimoni strumentalizzati». 

Inoltre, sempre nelle chat, i due si erano scambiati messaggi di questo tenore. Pedio: «Vai a prendere le carte inglesi (quelle sui conti di Armanna, ndr)?». Storari risponde di averlo già fatto e chiede alla collega se si fosse preoccupata. Lei risponde: «Temo che tu possa fuggire». Lui la rassicura: «Ne verremo fuori... io sono molto fiducioso... indagine difficile ma li smascheriamo... vedrai, sarà un successo».

Ma c'è anche un altro documento che prova la profonda frattura che la gestione di Armanna aveva creato all'interno della Procura. Storari a marzo invia all'allora procuratore della Repubblica Francesco Greco una rinuncia all'assegnazione del fascicolo sul complotto Eni, con tanto di motivazioni sulle ragioni per le quali non era possibile credere alle versioni di Armanna. 

La premessa: «Come ho in più occasioni riferito, ritengo necessario informare le difese del processo e il Tribunale di Milano di alcune circostanze che sono emerse». Eccole: «Armanna e Amara hanno in più contesti procedimentali e processuali calunniato Granata e Descalzi, asserendo falsamente che vi sono stati tentativi di comprare il suo silenzio attraverso le promesse di una sua riassunzione in Eni».

Non solo: Armanna avrebbe «pilotato» le dichiarazioni di un testimone nigeriano, Mattew Tonlagha, durante una rogatoria. Avrebbe poi prodotto al Tribunale di Milano chat Whatsapp «contraffatte e dirette a giustificare la mancata comparizione di altri due testimoni (Timi Ayah e Isaac Eke, ndr)». 

E, infine, avrebbe «pilotato» le dichiarazioni di Tonlahga e Brutu Dennis Otuaro in una denuncia presentata ai carabinieri di Roma Torvaianica. «In questa situazione», afferma Storari, «mi sento francamente a disagio». Un disagio dimostrato a più riprese nella chat con Pedio. L'1 novembre 2020, per esempio, scrive alla collega: «Io cambio Procura». Pedio replica: «Sono una massa di dementi. Nota, tutti senza figli...». Storari le dà ragione: «Hanno tempo di pensare a tutte 'ste cazzate... io li mando da Armanna... basta, me ne vado». 

Dalle chat, però, emerge anche uno spaccato che racconta cosa accade dietro le quinte. Pedio, per esempio, a un certo punto chiede una mano al collega: «Ciao Paolo, ho bisogno di un avvocato per un amico di mia figlia che è stato fermato con tasso alcolemico superiore al massimo consentito. Chi mi suggerisci?».

Storari risponde dopo circa un'ora: «To, avvocato To, che ha difeso il figlio di Ilda (probabilmente la Boccassini, ndr)». Tra i due, al netto delle contrapposizioni per il procedimento sulla loggia Ungheria, sembrava esserci una certa confidenza. Al punto che Storari parlando di una collega dice: «La culona poi è insopportabile... voglio il procedimento disciplinare per la culona». E tra una riunione in Procura e richieste su fascicoli a modello 45, prende in giro Pedio: «L'Anm ha preso posizione e abbiamo fatto corteo in toga con gli avvocati fino al consolato turco... in buona compagnia dei curdi che manifestavano lì lo stesso giorno... Pure i turchi. Pochi fascicoli».

Lei: «Sei terribile...». E Storari: «Ma dai cazzo... prima i polacchi, poi i turchi... lavorare mai?». Pedio risponde: «Lavorare stanca». E lui: «Hai ragione, meglio i turchi... stavolta marcia silenziosa sul Bosforo accompagnata dalla lettura delle opere di Pamuk, poi tutti al mare. A spese di Palamara». 

Pedio sta al gioco: «Aggiungerei una settimana in caicco a Bodrum. Mi sembra il minimo». E il 23 gennaio, quando ha già inviato alla collega la richiesta di arresto per Armanna e Amara, Storari scrive alla collega: «Dobbiamo arrestarli. Presto. Continuano a fare danni. Danni a sé stessi. E a noi. Torvaianica (sede dove era stata presentata una delle denuncia di Armanna, ndr) ultima. Ha pagato i testi nigeriani. Cosa vuoi di più?». Ma neppure questo è bastato.

La procura di Milano respinge la richiesta di Amara di trasmettere gli atti a Brescia sul “falso complotto Eni”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Luglio 2022

In precedenza Amara si era giocato con esito positivo la carta dell’incompetenza milanese in un altro procedimento collegato al “falso complotto Eni”. Dopo il rigetto la prossima mossa a disposizione della difesa di Amara , è quella di ricorrere alla procuratore generale della Corte di Cassazione

L’indagine sul cosiddetto “falso complotto Eni” almeno per il momento rimane a Milano. La procura di Milano ha rigettato l’istanza dell’avvocato-faccendiere Piero Amara di trasmissione alla procura di Brescia degli atti dell’inchiesta conclusasi lo scorso dicembre 2021, sul presunto depistaggio che avrebbe messo in atto lo stesso ex legale esterno di Eni, insieme ex manager Vincenzo Armanna, ed altri indagati per condizionare il processo per corruzione internazionale Eni-Shell/Nigeria. Per il procuratore aggiunto Laura Pedio ed i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco non esiste il problema di competenza sollevato da Amara che necessiti l’invio del fascicolo a Brescia. 

Processo come noto si è concluso nel marzo 2021 con l’assoluzione di tutti gli imputati e delle due società. Dopo il rigetto la prossima mossa a disposizione della difesa di Amara , è quella di ricorrere alla procuratore generale della Corte di Cassazione, competente su conflitti di competenza tra diversi distretti di Corte di appello come nel caso di Milano e Brescia.

Amara in precedenza si era giocato con esito positivo la carta dell’incompetenza milanese in un altro procedimento collegato al “falso complotto Eni”. Il filone di indagine sulla ipotizzata calunnia commessa ai danni dell’avvocato Luca Santa Maria era stato trasmesso dal giudice per l’udienza preliminare Carlo Ottone De Marchi alla procura di Brescia , trasmissione resasi necessaria in quanto oltre ad Amara come “parte offesa” della presunta calunnia ci sarebbe anche l’allora titolare del processo Eni-Shell/Nigeria, il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, sul cui operato sono i magistrati di Brescia . Un filone d’indagine su cui i pm bresciani , diretti dal procuratore capo Francesco Prete, hanno chiesto l’archiviazione valutando i fatti in maniera esattamente opposta dai colleghi milanesi che invece chiedevano il processo. 

Da quanto si apprende nel frattempo si avvicina il momento in cui magistrati inquirenti milanesi depositeranno all’ufficio Gip le richieste di archiviazione per l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi ed il capo del personale Claudio Granata le cui posizioni erano state stralciate dall’avviso di chiusura indagini preliminari del “falso complotto”.

Anche a Potenza esistono giudici seri. Salta il patteggiamento di Amara con la Procura. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 Giugno 2022.

Il Gip nella sua ordinanza ha posto in evidenza "la personalità negativa dell' Amara, desumibile, anche dalle modalità della condotta, connotata da estrema e preoccupante spregiudicatezza" che "non consente di esprimere un giudizio di congruità della pena, che nella misura concordata, appare con tutta evidenza inidonea a svolgere la funzione sua propria"

Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Potenza dr.ssa Teresa Reggio ha respinto oggi dopo una camera di consiglio la richiesta di patteggiamento avanzata dal faccendiere-bancarottiere avv. Pietro Amara, precedente concordata con la Procura di Potenza guidata dal procuratore Francesco Curcio. Infatti secondo il Gip l’omesso deposito degli interrogatori dei verbali degli interrogatori resi dall’ Amara “non permette di apprezzarne la portata nè sotto il profilo del contributo apportato allo sviluppo delle indagini, nè sotto il profilo della migliore comprensione dei fatti già oggetto di vaglio degli investigatori“. 

Non è la prima volta che la Procura di Potenza dimentica (o omette ?) di depositare verbali dei propri interrogatori ad Amara, un pò troppo spesso coperti ed infarciti di “omissis” come accaduto in precedenza nel procedimento nei confronti del prof. Enrico Laghi.

Inoltre è emerso che l’ Amara ha subito un’ulteriore “condanna per plurimi fatti di bancarotta pluriaggravata” commessi nel febbraio 2018 e quindi in data successiva ai fatti oggetto del presente procedimento” e quindi anche se non con sentenza definitiva, secondo il Gip Reggio, offre elementi che consentono di ritenere che “il crimine rappresenti per Amara un valido ed alternativo sistema di vita e contribuisce a rafforzare il giudizio negativo posto a fondamento del diniego delle richieste circostanze attenuanti generiche“. 

Il giudice nella sua ordinanza ha posto in evidenza “la personalità negativa dell’ Amara, desumibile, anche dalle modalità della condotta, connotata da estrema e preoccupante spregiudicatezza” che “non consente di esprimere un giudizio di congruità della pena, che nella misura concordata (con la procura di Potenza, n.d.r.), appare con tutta evidenza inidonea a svolgere la funzione sua propria” rigettando la richiesta e disponendo la restituzione degli atti all’ufficio del pubblico ministero.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 21 settembre 2022.

Accusato nel luglio 2019 dall'indagato ex avvocato Eni Piero Amara d'aver cercato con il numero uno Eni Claudio Descalzi di depistare il processo Eni-Nigeria, «le prove nei confronti» del capo della Sicurezza Eni, Alfio Rapisarda, «non hanno trovato riscontro, e questo è sicuramente sufficiente per escluderne ogni responsabilità, ma di per sé non configura a carico di Amara il reato di calunnia», giacché «non vi è prova che i fatti riferiti da Amara siano falsi né che abbia agito con il dolo di calunniarlo»: può finire così, pari e patta?

Sì per l'aggiunto della Procura della Repubblica milanese Laura Pedio con i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco, la cui richiesta il 26 aprile di archiviare Amara era in agenda oggi davanti al gip Magelli. No, invece, per la Procura Generale guidata da Francesca Nanni: che, come di rado accade, l'ha avocata (cioè tolta) ai pm, assegnandola alla pg Celestina Gravina affinché ne rivaluti la fondatezza nel merito (come insisteva il legale di Rapisarda, Paolo Tosoni) e la competenza (Brescia).

Potenza, il gup boccia Amara: «L’ex avvocato non è affidabile». No al patteggiamento a 3 mesi. La difesa insiste: ha fatto scoprire le trame di Capristo. Massimiliano Scagliarini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Settembre 2022.

L’avvocato siciliano Piero Amara avrebbe continuato a delinquere anche dopo il 2018, e - soprattutto - non avrebbe prestato una collaborazione sufficiente a meritare un patteggiamento a tre mesi. Cioè quello concordato con la Procura di Potenza nell’ambito dell’inchiesta che coinvolge anche l’ex procuratore di Taranto, Carlo Capristo. La circostanza è emersa nell’ambito dell’udienza preliminare davanti al gup lucano Annachiara Di Paolo, che deve decidere se rinviare a giudizio l’ex procuratore insieme all’ex commissario Ilva, Enrico Laghi, all’ex poliziotto Filippo Paradiso, all’avvocato Giacomo Ragno e all’ex pm Antonio Savasta.

La proposta di patteggiamento è infatti stata respinta già a giugno, sulla base di due elementi. Intanto per il fatto che Amara risulta condannato per una bancarotta commessa nell’aprile 2018, cioè due mesi dopo l’arresto (anche se relativa a fatti di molti anni prima). E poi, appunto, l’impossibilità di valutarne il contributo alle indagini di Potenza. Il difensore dell’avvocato siciliano, Salvino Mondello, ha però annunciato che riproporrà la richiesta di patteggiamento nella prossima udienza (17 ottobre): con una memoria sostiene, in estrema sintesi, che Amara sia stato determinante per mettere a fuoco le accuse ora mosse a Capristo e agli altri coindagati.

La Procura di Potenza ritiene che l’ex procuratore di Trani e Taranto (che per questa vicenda l’8 giugno 2021 fu sottoposto ad obbligo di dimora) avrebbe «venduto la propria funzione giudiziaria» ad Amara, a Laghi e al consulente Nicola Nicoletti (che ha patteggiato 16 mesi) in cambio «del costante interessamento» per la sua carriera e «per ottenere i vantaggi economici e patrimoniali in favore del suo inseparabile sodale», l’avvocato Ragno. Amara ritiene di aver consentito alla Procura di Potenza di comprendere bene il ruolo di Capristo nello scambio di favori contestato dall’accusa: «Non era certamente Taranto la sede cui originariamente aspirava il dott. Capristo», scrive la difesa di Amara, riferendosi alla candidatura per la Procura generale di Bari in cui fu battuto al filo di lana nella votazione al Csm. Amara si intesta anche il merito di aver «ben evidenziato il ruolo che aveva avuto nella vicenda de qua il prof. Laghi, sia nella fase iniziale del conferimento dell’incarico all’avv. Amara sia in relazione alle nomine pervenute all’avv. Ragno da parte della struttura commissariale» dell’Ilva, oltre che di aver tirato in ballo l’ex pm Savasta («sconosciuto nella fase dell’indagine preliminare»), che ora risponde di rivelazione di segreto d’ufficio in relazione al falso esposto contro i vertici Eni che Amara fece pervenire a Capristo mentre era ancora procuratore di Trani.

Ma è ancora più interessante quello che Amara scrive per accreditare la sua credibilità giudiziaria nei processi in cui ha già patteggiato e nelle inchieste che ancora lo coinvolgono tra Roma, Milano e Perugia. A partire proprio dalla vicenda della loggia segreta Ungheria di cui si parla nei verbali di interrogatorio della Procura di Milano: «All’esito delle indagini - scrive la difesa - non è stato affatto affermato che la vicenda Ungheria sia stata una invenzione dell’avv. Amara, ma semplicemente che “l’esistenza dell’associazione non è stata adeguatamente riscontrata”». E questo mancato riscontro «non può essere addebitato ad imprecisioni dell’avv. Amara, ma soprattutto al comportamento quantomeno anomalo del dottor Paolo Storari», il pm di Milano titolare del fascicolo, accusato (e poi assolto) per aver consegnato quei verbali all’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo.

Nell’indagine di Potenza, Amara risponde di concorso in corruzione in atti giudiziari tra il 2015 e il 23 luglio 2019, con Capristo (nel frattempo andato in pensione) che avrebbe sfruttato i rapporti di Amara e Paradiso per ottenere raccomandazioni al Csm «in occasione della pubblicazione di posti direttivi vacanti». La Procura aveva accordato al legale siciliano una pena di tre mesi in continuazione con la condanna riportata a Messina (un anno e due mesi), a sua volta in continuazione con la condanna di Roma (6 mesi).

La rivelazione nel processo Palamara e Fava. La Guardia di Finanza passava le carte ad Amara: così l’avvocato preparava le contromosse. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Giugno 2022. 

L’avvocato Piero Amara, uno dei capi della loggia Ungheria, ha ricevuto per anni in anteprima le informative della guardia di finanza che lo riguardavano.

La clamorosa circostanza è emersa giovedì scorso nel processo in corso a Perugia a carico di Luca Palamara e Stefano Fava per la presunta rivelazione di segreto in due articoli del 29 maggio 2019, pubblicati dalla Verità e dal Fatto Quotidiano, sulla presentazione di un esposto al Csm nei confronti dell’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone.

Rispondendo alle domande dei difensori degli imputati, il maggiore Fabio Di Bella del Gico della guardia di finanza di Roma, braccio destro del colonnello Gerardo Mastrodomenico, uomo di fiducia di Pignatone, ha ammesso che le informative del Gico, redatte da egli stesso e dai suoi sottoposti, prima ancora che in procura venivano consegnate ad Amara che era l’indagato principale del procedimento le cui indagini gli erano state delegate. Di Bella, comandante della seconda sezione di Gico di Roma, ha dichiarato senza tanti giri di parole che all’avvocato Amara qualcuno o più militari del Gico di Roma hanno consegnato numerose informative “prima che venissero depositate all’autorità giudiziaria”. Il postino sarebbe stato il carabiniere Antonio Loreto Sarcina, in forza ai Servizi, il quale, per tale servizio, avrebbe ricevuto da Amara delle somme di denaro.

E alla domanda su quali fossero le informative consegnate ad Amara, Di Bella ha dovuto ammettere che venne consegnata anche quella conclusiva del Gico del 15 settembre 2017, di oltre 800 pagine, che comprendeva tutti gli elementi a carico raccolti nei confronti dell’avvocato siracusano che quindi ha avuto tempi e modi per predisporre le più adeguate ‘contromisure’. Fra le ‘anteprime’ date ad Amara dal Gico, le perquisizioni che dovevano essere eseguite nei suoi confronti. Gli avvocati di Palamara e Fava, per non farsi mancare nulla, hanno poi acquisito, in un altro procedimento, la contestazione che gli stessi pubblici ministeri di Perugia, Gemma Miliani e Mario Formisano titolari del procedimento per la rivelazione del segreto, avevano formulato a carico di Sarcina dove si poteva leggere che il Gico di Roma aveva fornito ad “Amara e Calafiore”, sempre per il tramite di Sarcina, oltre che l’informativa di oltre 800 pagine del 15 settembre 2017, anche “la notizia dell’imminente esecuzione di perquisizioni personali e domiciliari nei confronti di Amara e Calafiore”.

Gli avvocati dei due imputati, visto che nessuno ci aveva pensato prima, hanno quindi chiesto a Di Bella di riferire i nomi dei militari del Gico che avevano fornito ad Amara e Calafiore, per il tramite del Sarcina, questi atti e queste notizie. Il maggiore Di Bella, sorridendo, ha dichiarato di avere accertato, dal settembre 2017 al 9 giugno 2022, responsabilità soltanto a carico di Sarcina. Resta quindi da capire per quali ragioni, a tutt’oggi, le indagini su Amara continuino ad essere delegate, sia dalla Procura di Roma che dalla Procura di Perugia, al Gico che si occupa dell’avvocato siciliano ininterrottamente dal settembre 2016 senza accorgersi che, nel frattempo, aveva continuato a delinquere tanto da essere arrestato dalla Procura di Potenza per corruzioni in atti giudiziari ed indagato dalla Procura di Milano, che ha emesso avviso di conclusioni delle indagini preliminari, anche per associazione per delinquere finalizzata alla calunnia e al depistaggio “commesso dall’estate del 2015 al dicembre 2019”.

In tale scenario, è indubbio che le indagini fatte dalla Procura di Perugia e dalla Procura di Roma tramite il Gico del maggiore Di Bella consentano ad Amara di dormire sonni tranquilli. Chissà se il Csm si deciderà prima o poi a fare luce su questa vicenda.

(ANSA il 10 Giugno 2022) - La Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio del procuratore aggiunto di Milano e responsabile del pool affari internazionali, Fabio De Pasquale, e del pm Sergio Spadaro (oggi alla nuova Procura europea antifrodi) per 'rifiuto d'atto d'ufficio' per non aver voluto depositare nel 2021 prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria, concluso il 17 marzo 2021 con assoluzioni 'perché il fatto non sussiste'. A darne notizia è oggi il Corriere della Sera.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022. 

La Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio del procuratore aggiunto di Milano e responsabile del pool affari internazionali, Fabio De Pasquale, e del pm Sergio Spadaro (oggi alla nuova Procura europea antifrodi) per «rifiuto d’atto d’ufficio» nel non aver voluto depositare nel 2021 prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria, concluso il 17 marzo 2021 con assoluzioni «perché il fatto non sussiste» (l’Appello il 19 luglio).

I fatti contestati

L’accusa è cioè aver lasciato le parti ignare di talune prove che, trovate dal pm Paolo Storari e segnalate quantomeno dal 15 e 19 febbraio 2021 in mail all’allora procuratore Francesco Greco e all’altra sua vice Laura Pedio, potevano riverberarsi sulla traballante attendibilità dell’accusatore di Eni: il coimputato/dichiarante Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni allora molto valorizzato sia dai due pm titolari del processo Eni-Nigeria, sia (al pari dell’ex legale esterno Eni Piero Amara) da Pedio che all’epoca indagava per depistaggi giudiziari l’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e il capo del personale Claudio Granata.

Le omissioni

L’ufficio bresciano del procuratore Francesco Prete contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato le vere chat del telefono di Armanna dalle quali emergeva un suo rapporto patrimoniale di 50.000 dollari con il teste che doveva confermarne le accuse a Eni, il supposto 007 nigeriano «Victor»: chat che Armanna aveva portato ai giudici ma amputatandole (come segnalato allora da Storari e ora confermato da una perizia) di altri messaggi che invece avrebbero mostrato il nesso tra la disponibilità del teste a deporre e i 50.000 dollari, o come esplicita corruzione giudiziaria o come acquisto di un imprecisato documento in Nigeria.

Taciuti anche i messaggi dai quali Storari aveva fatto emergere che un altro teste, l’uomo d’affari nigeriano Mattew Tonlagha, fosse stato indottrinato sempre da Armanna sulle risposte da dare (contro l’Eni) alla pm Pedio. 

Un terzo filone riguarda gli screenshot delle asserite chat che Armanna (mostrandole nel novembre 2020 in una intervista a un quotidiano, per introdurle di sponda nel circuito giudiziario) sosteneva di aver scambiato nel 2013 con Descalzi e Granata a riprova del loro ruolo di depistatori: qui Brescia contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato le (persino banali) indagini dalle quali Storari aveva compreso che quelle chat erano un clamoroso falso (come ora confermato da una perizia), in quanto i numeri ascritti da Armanna ai due vertici Eni nemmeno erano attivi nel 2013, risultando utenze che non potevano produrre traffico.

Il mancato deposito della videoregistrazione

Infine è imputato ai due pm il mancato deposito (già censurato come «incomprensibile» dalla sentenza Eni-Nigeria) della videoregistrazione, effettuata clandestinamente nell’ufficio dell’imprenditore Ezio Bigotti, di un incontro con Amara nel quale Armanna, due giorni prima, nel 2014, di presentarsi in Procura con le prime accuse ai vertici Eni, preannunciava di volerli fare coprire da «una valanga di merda».

La scelta di far rientrare queste condotte dei pm nel contenitore penale del reato di «rifiuto d’atto d’ufficio» è sdrucciolevole perché apre inediti scenari nei rapporti, interni nelle Procure, tra titolari di un processo e altri pm. Forse per questo la richiesta bresciana di processare i due pm rimarca la differenza del loro comportamento: a inizio 2021 non depositarono queste prove potenzialmente favorevoli alle difese, mentre invece nei mesi precedenti, per argomentare manovre su Armanna ordìte dal mondo Eni, avevano invece proclamato di voler assicurare alle difese una «simmetria» e perciò riversato da altri fascicoli verbali di testi, chiamandoli in aula a deporre (come Salvatore Carollo) o chiedendo al Tribunale di convocarli in extremis (come Amara).

Procura di Brescia: “Processate i pm De Pasquale e Spadaro”: prove a favore delle difese nel processo Eni-Nigeria mai depositate. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Giugno 2022. 

L'accusa è di non aver depositato nel 2021 prove che avrebbero minato la credibilità dei testimoni contro Eni nel processo per corruzione internazionale che si concluso il 17 marzo 2021 con l'assoluzione "perchè il fatto non sussiste" di tutti gli imputati

La Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio del procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, responsabile del pool affari internazionali, e del pm Sergio Spadaro oggi in forza alla nuova Procura europea antifrodi, accusati di “rifiuto d’atto d’ufficio” per non aver voluto depositare nel 2021 delle prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria, conclusosi il 17 marzo 2021 con assoluzioni “perché il fatto non sussiste” per il quale il giudizio di appello si terrà il prossimo 19 luglio. 

L’ufficio della procura bresciana guidato del procuratore capo Francesco Prete contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato le vere chat del telefono di Armanna dalle quali veniva alla luce un suo rapporto patrimoniale di 50.000 dollari con il teste che doveva confermarne le accuse a Eni, il supposto 007 nigeriano «Victor», Una chat che Armanna aveva consegnato ai giudici ma cancellandone altri messaggi, come venne da segnalato da Storari e confermato da una perizia, conversazione che avrebbero evidenziato e confermato il collegamento tra la disponibilità del teste a deporre e i 50.000 dollari, o come esplicita corruzione giudiziaria o come acquisto di un imprecisato documento in Nigeria. 

Occultati anche i messaggi dai quali il pm Storari aveva fatto emergere, che l’uomo d’affari nigeriano Mattew Tonlagha, altro teste , fosse stato istruito sempre da Armanna sulle risposte contro l’Eni da rendere alla pm Laura Pedio. Un terzo filone riguarda gli screenshot delle asserite chat del 2013 con Descalzi e Granata a riprova del loro ruolo di depistatori, che Armanna aveva mostrato in una intervista a un quotidiano nel novembre 2020, per farle entrare indirettamente nel faldone giudiziario. In questo caso la procura di Brescia contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato le indagini dalle quali Storari aveva intuito e dedotto che le chat erano un clamoroso “falso” come è stato in seguito confermato da una perizia, in quanto peraltro i numeri telefonici ascritti da Armanna ai due vertici dell’ Eni non erano neanche attivi nel 2013 , utenze che sono risultate disattive e che non potevano produrre traffico.

I fatti contestati a De Pasquale e Spadaro

L’accusa è di aver lasciato le parti della difesa ignare di alcune prove che scovate dal pm Paolo Storari e segnalate quantomeno dal 15 e 19 febbraio 2021 in mail all’allora procuratore Francesco Greco e all’altra sua vice Laura Pedio, potevano “pesare” sulla traballante sempre meno credibile attendibilità dell’accusatore di Eni, e cioè il coimputato e dichiarante Vincenzo Armanna, ex dirigente Eni allora ritenuto molto attendibile al pari dell’ex legale esterno Eni Piero Amara, sia dai due pm titolari del processo Eni-Nigeria, che da Laura Pedio la quale indagava in quel periodo per depistaggi giudiziari l’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e il capo del personale Claudio Granata. 

Infine i due pm De Pasquale e Spadaro sono accusati del mancato deposito, già criticato e censurato come “incomprensibile” dalla sentenza Eni-Nigeria e della videoregistrazione effettuata clandestinamente di un incontro avvenuto nel 2014 con Amara nel quale Armanna, avvenuto due giorni prima nell’ufficio dell’imprenditore Ezio Bigotti, di presentarsi in Procura con le prime accuse ai vertici Eni, preannunciando di volerli fare coprire da “una valanga di merda”. La scelta di far rientrare queste condotte dei pm nel contenitore penale del reato di “rifiuto d’atto d’ufficio” è scivoloso perché accende dei fari su scenari inediti nei rapporti interni nelle Procure, tra titolari di un processo e altri pm.

Probabilmente è questa la differenza che ha indotto la procura bresciana a richiedere di processare i due pm rimarca la differenza del loro comportamento: a inizio 2021 De Pasquale e Spadaro non depositarono queste prove potenzialmente favorevoli alle difese, mentre invece nei mesi precedenti, per argomentare manovre su Armanna (provenienti da ambienti Eni), invece avevano proclamato di voler assicurare alle difese una “simmetria” e perciò riversato da altri fascicoli verbali di testi, chiamandoli in aula a deporre come il caso di Salvatore Carollo o chiedendo al Tribunale di convocarli in extremis come Piero Amara. Redazione CdG 1947

Prove nascoste sul caso Eni "Ora processate i due pm". Luca Fazzo l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

De Pasquale e Spadaro sono imputati a Brescia: per la procura hanno occultato i verbali di Amara.

Il dipartimento di punta della Procura di Milano è da ieri guidato da un magistrato formalmente imputato di nascondere le prove. È questa la sostanza della svolta - resa nota ieri dal Corriere della sera - dell'inchiesta a carico del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, suo braccio destro all'epoca dei processi Eni. La Procura di Brescia, competente a indagare sui reati commessi dai colleghi milanesi, aveva iscritto De Pasquale e Spadaro per il reato di rifiuto di atti d'ufficio, e in autunno aveva comunicato a entrambi la chiusura delle indagini preliminare. In novembre i due magistrati erano stati sentiti e su loro richiesta era stato concesso un supplemento di indagine, per verificare la fondatezza delle loro tesi difensive. Ma la verifica non ha dato i frutti sperati. E la procura bresciana si è convinta che davvero, nel corso del processo per corruzione internazionale ai vertici Eni, De Pasquale e Spadaro abbiano intenzionalmente tenute nascoste alle difese le prove, già acquisite al fascicolo, che il «superteste» Vincenzo Armanna inquinava l'inchiesta promettendo soldi ai testimoni e fabbricando false chat per incastrare i vertici del colosso di Stato. Un comportamento che la Procura bresciana, guidata da Francesco Prete, inquadra nel furore riversato dalla Procura milanese nel processo Eni, che andava vinto a tutti i costi; lo stesso furore che portò a imboscare i verbali dell'altro pentito, Piero Amara: «De Pasquale disse che andavano chiusi nel cassetto per due anni», ha dichiarato a verbale il pm milanese Paolo Storari, finito anche lui nel frattempo sotto processo.

Dopo decenni di buon vicinato, è la prima volta che la Procura di Brescia interpreta così energicamente il ruolo che la legge gli assegna di vigilanza sui reati eventualmente commessi nel palazzo di giustizia di Milano. Sotto processo sono già Storari e Piercamillo Davigo, ora rischiano di finirci De Pasquale e Spadaro, mentre l'ex capo Francesco Greco è sotto inchiesta per il caso del Monte dei Paschi di Siena. Il problema è che mentre Greco e Davigo sono ormai ex magistrati, De Pasquale è in funzione a tutti gli effetti, ed è a capo di uno dei settori più delicati di tutti, la corruzione internazionale. Con che serenità possa svolgere la sua funzione, vista la gravità delle accuse che gli pendono sulla testa, è facile da immaginare. D'altronde il Consiglio superiore della magistratura, che aveva avviato una procedura di trasferimento per incompatibilità ambientale a carico di De Pasquale, ha congelato tutto per evitare accavallamenti con l'indagine in corso a Brescia. E anche il procedimento disciplinare avviato dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, è rimasto finora privo di effetti concreti.

Così, in attesa che venga vagliata la richiesta di rinvio a giudizio avanzata contro De Pasquale e Spadaro, la Procura di Milano, uno degli uffici giudiziari più delicati del paese, rimane in mezzo al guado dei veleni del caso Eni. Frastornati dal putiferio piombato sul loro ufficio, ottanta pubblici ministeri chiedono solo che si volti pagina e si torni a lavorare serenamente, con il nuovo capo Marcello Viola. Ma la strada a quanto parre sarà ancora lunga.

(ANSA l'8 luglio 2022) - La procura di Perugia ha chiesto di archiviare il procedimento sulla cosiddetta "loggia Ungheria", indagine partita dai verbali dell'ex legale esterno di Eni Piero Amara. La richiesta avanzata al gip è di 167 pagine ed è accompagnata dall'intero fascicolo, contenuto in quasi 15 faldoni di documenti. 

Il procedimento ha riguardato una presunta associazione segreta, denominata "Ungheria", che avrebbe agito in violazione della Legge Anselmi, norma che punisce le associazioni segrete che "svolgono attività diretta ad interferire sull'esercizio delle funzioni di organi costituzionali".

(ANSA l'8 luglio 2022) - Il complesso delle indagini condotte dalla procura di Perugia sulla cosiddetta Loggia Ungheria "ha portato a ritenere integralmente o parzialmente non riscontrate numerose propalazioni dell'avvocato" Piero Amara. 

Che per l'Ufficio guidato da Raffaele Cantone "tecnicamente vanno inquadrate come chiamate in correità dirette o de relato, e quindi come non accertati fatti narrati o in alcuni ha portato a ritenere avvenuti i fatti, ma escluso che in essi Amara avesse potuto svolgere un ruolo, come da lui riferito". Lo si legge in un comunicato della stessa Procura.

«Loggia Ungheria, riscontri insufficienti»: chiesta l’archiviazione. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.  

Un’indagine svelata anzitempo e inquinata da «fughe di notizie» che hanno finito per danneggiarla in maniera irreparabile: anche per questo, dopo un anno e mezzo di scrupolosi accertamenti, la Procura di Perugia ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta sulla cosiddetta Loggia Ungheria, presunto centro di potere occulto dedito a «interferenze su organi costituzionali, a partire dal Consiglio superiore della magistratura, e altri enti e istituzioni pubbliche», denunciato dall’avvocato siciliano Piero Amara ai pubblici ministeri di Milano sul finire del 2019. Una vicenda che ha generato il terremoto dei «verbali segreti» circolati dentro e fuori il Csm, per la quale è sotto processo a Brescia l’ex consigliere Piercamillo Davigo, ma che al momento deve chiudersi perché — spiega il procuratore del capoluogo umbro Raffaele Cantone nel provvedimento e nel comunicato che l’annuncia — «sull’esistenza di un’associazione segreta denominata Ungheria si è concluso di ritenere la circostanza non adeguatamente riscontrata».

Che non significa del tutto falsa, così come non lo sono le lunghe dichiarazioni rese da Amara agli inquirenti perugini che hanno ereditato il fascicolo dai colleghi milanesi per l’asserito coinvolgimento di alcuni magistrati romani. Le indagini hanno infatti evidenziato «le tante aporie e contraddizioni emerse», oltre a numerose smentite del racconto dell’avvocato, ma anche «le non poche conferme con riferimento ad alcuni specifici episodi». In particolare interventi su o per conto di magistrati, contatti con il sottobosco politico-affaristico romano e altro ancora. Di qui la convinzione dei pm: «Le complessive dichiarazioni dell’avvocato non devono considerarsi affette da quella inattendibilità talmente macroscopica da compromettere in radice la credibilità del dichiarante», ma è «necessario un livello di riscontri particolarmente elevato per ritenere accertati i fatti da lui narrati».

Tanto più in virtù dei nomi tirati in ballo come affiliati o affini alla Loggia: dall’ex procuratore generale di Catania Giovanni Tinebra (morto nel 2017) all’ex vice-presidente del Csm Michele Vietti, dall’ex deputato forzista Denis Verdini al magistrato e deputato renziano Cosimo Ferri, il faccendiere Luigi Bisignani e molti altri: politici, imprenditori, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e degli apparati di sicurezza.

Attualmente il cinquantaduenne Piero Amara sta scontando in semilibertà (fuori dal carcere di giorno e dentro di notte) il cumulo di pene per corruzione accumulate con i patteggiamenti ottenuti davanti a diversi tribunali d’Italia. E resta da chiarire per quale motivo, quando aveva chiuso i suoi conti con la giustizia, abbia voluto avventurarsi in questa nuova partita giudiziaria che quasi certamente gli costerà nuovi processi per calunnia e altri reati: la Procura di Perugia infatti, insieme alla richiesta di archiviazione, ha deciso lo stralcio per proseguire le indagini su alcuni episodi, e la trasmissione alla Procura di Milano (dove furono resi i primi interrogatori) per eventuali calunnie o autocalunnie.

Il movente di Amara è tuttora un mistero. E i magistrati umbri sottolineano come «soprattutto nei più recenti interrogatori ha modificato alcune delle affermazioni iniziali, sminuendo in modo inspiegabile il ruolo di quella che aveva indicato come una nuova “Loggia P2” dichiarando anzi che essa era nata con finalità nobili, e che non tutti gli adepti sarebbero stati a conoscenza delle interferenze effettuate dall’associazione su organi pubblici o costituzionali. Ha aggiunto persino che fin dal 2015 egli aveva tentato di creare un’altra organizzazione, di cui ha fornito anche alcuni elementi anche documentali, ma di cui non aveva mai riferito nei primi interrogatori milanesi».

Enigmi che solo Amara potrebbe spiegare, come quello dell’elenco degli affiliati, descritto ma mai consegnato dal socio dell’avvocato che l’avrebbe fotocopiato. Amara ha parlato di almeno 90 nomi ma il procuratore Cantone con i sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano ne hanno iscritti solo 9 nel registro degli indagati, limitandosi alle persone da interrogare in cerca di riscontri, per evitare -— in assenza di altri elementi — un «inutile e ingiustificato “stigma”». Quanto alle «interferenze o tentativi di condizionamento di nomine di vertice della giurisdizione o di enti, istituzioni e società pubbliche che possono ritenersi avvenute», sarebbero dovute a «interessi personali o professionali diretti di Amara o soggetti a lui strettamente legati, piuttosto che conseguenza dell’attività di condizionamento di una Loggia».

Ora spetterà al giudice dell’indagine preliminare, esaminati la richiesta di 167 pagine e i 15 faldoni di atti raccolti dai pm, decidere se mandare il fascicolo in archivio o ordinare nuovi accertamenti.

Processo Davigo: il vicepresidente del Csm Ermini interrogato. Renzi torna all’attacco: “Conferma quello che ho scritto”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Luglio 2022.

Il vice presidente del Csm David Ermini, ha definito i verbali secretati nei quali l' avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del "falso complotto Eni", ha parlato della loggia Ungheria. Verbali di interrogatori "non firmati, inutilizzabili e inservibili", il cui contenuto però era dirompente. Una "presunta loggia massonica coperta", ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici.

Dopo una settimana di silenzio, Matteo Renzi è tornato ad attaccare pesantemente la magistratura. E lo ha fatto attraverso la propria pagina Facebook. “Oggi il vicepresidente del Csm Ermini, interrogato come testimone nell’ambito del processo Davigo, conferma per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro “Il Mostro”. Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha letto Il Mostro o non l’ha capito. Ancora poche settimane e il Csm di David Ermini sarà solo un brutto ricordo”. Parole che si riferiscono, in modo chiaro ed inequivocabile alla presunta “loggia Ungheria” e agli interrogatori dell’avvocato Pietro Amara. 

Renzi nelle pagine del suo libro “Il Mostro”, ha accusato senza mezzi termini Ermini di aver distrutto “materiale ufficiale proveniente dalla Procura di Milano, eliminando il corpo del reato”. Immediata la replica del vicepresidente del Csm, sostenendo che si trattava di una “affermazione temeraria e falsa, essendo il cartaceo mostratomi dal dottor Davigo, come ho più volte pubblicamente precisato e come il senatore Renzi sa benissimo, copia informale, priva di ufficialità, di origine del tutto incerta e in quanto tale senza valore e irricevibile. Il senatore Matteo Renzi ne risponderà davanti all’autorità giudiziaria”. 

Una polemica quella fra Renzi ed Ermini datata metà maggio che torna di stretta attualità oggi, a distanza di quasi due mesi. Un’unica, granitica certezza è che questa sarà la battaglia più importante della carriera politica del leader di Italia Viva. Uno scontro dal quale uscirà o vincitore assoluto o sconfitto, senza prove di appello, destinato all’oblio e ricordato solo come un enfant prodige che non ce l’ha fatta. 

Il vice presidente del Csm David Ermini, ha definito i verbali secretati nei quali l’ avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del “falso complotto Eni”, ha parlato della loggia Ungheria. Verbali di interrogatori “non firmati, inutilizzabili e inservibili”, il cui contenuto però era dirompente. Una “presunta loggia massonica coperta“, ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici. Fatti talmente gravi che, poche ore dopo essere stato informato da Davigo, il 4 maggio 2020 Ermini ha deciso di andare a parlare della vicenda con il Presidente della Repubblica.

Il vice presidente del Csm David Ermini e l’ex consigliere Davigo

“Davigo mi disse che sarebbe stato opportuno che andassi dal Presidente della Repubblica” perché “della presunta loggia facevano parte esponenti delle forze armate e delle forze di polizia – ha spiegato Ermini – specialmente Polizia e Carabinieri. E poi anche magistrati, ex magistrati, un ex vicepresidente del Csm“.  “Io risposi di sì – ha aggiunto Ermini – . Andai dal presidente e gli riferii anche quello che mi aveva detto Davigo“. Mattarella “non fece alcun commento“. Nei giorni successivi, Davigo si era recato da Ermini e gli aveva consegnato una copia non firmata di quei verbali. Documenti che aveva ricevuto in pieno lockdown dal pm Storari della procura di Milano . Il magistrato aveva voluto in questo modo “autotutelarsi” di fronte alle lentezze della Procura di Milano nell`avviare formalmente le indagini sulla vicenda.

“Ritenni quella di Davigo una confidenza”, ha ricordato Ermini, che non appena ricevuti i documenti ha detto di averli strappati e buttati  nel cestino, non sapendo che fossero secretati. “In consiglio noi non possiamo avere atti che non siano formali”, ha spiegato. Non solo. “La cosa doveva rimanere segreta, perché se qualche consigliere fosse rimasto coinvolto non era opportuno”, ha precisato il vicepresidente del Csm sottolineando come l’avvocato Amara avesse indicato i magistrati consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti come “affiliati” alla loggia coperta .

Ermini in tribunale a Brescia ascoltato come testimone

“In cuor mio pensavo che quelle carte” relative agli interrogatori in cui Amara parlava della loggia Ungheria “dovessero arrivare al comitato di presidenza in modo rituale e per le vie ufficiali”, ha aggiunto Ermini, altrimenti il Csm “non avrebbe potuto fare nulla”. “Davigo non mi chiese di veicolare quei verbali al comitato di presidenza del Csm, sennò gli avrei detto che erano irricevibili. Me li ha consegnati perché li leggessi”, ha precisato Ermini.

L`ex pm di Mani Pulite ora in pensione, aveva anche detto di aver consegnato il plico anche al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e a quel punto per Ermini “la vicenda era finita“. “Nelle condizioni in cui abbiamo vissuto in questi anni”, dopo il caso di Luca Palamara e lo scandalo sulle nomine del Csm “una velina non firmata con dichiarazioni dubbie non la posso accettare“, ha chiarito Ermini.

Piercamillo Davigo, Pietro Amara e Paolo Storari

“Io che me ne dovevo fare di questi verbali? – ha aggiunto –  Erano irricevibili, mica potevo diventare il megafono di Amara“. Anche Davigo è intervenuto in aula facendo dichiarazioni spontanee.  “Una delle ragioni per cui non ho formalizzato immediatamente è perché, una volta protocollato, il plico viene visto dalla struttura” del Csm, inclusi i componenti delle commissioni interessate, i giudici segretari e i funzionari.  “Non si trattava di una vicenda isolata e anomala – ha chiarito Davigo –  ma di una situazione in cui il comitato di presidenza aveva ragione di dubitare della tenuta della struttura consiliare“.

“Quando il pm Storari viene da me” per “autotutelarsi” di fronte a quelle che riteneva un`inerzia della Procura di Milano nell`avviare le indagini io ricevo una notizia di reato – ha proseguito Davigo -. Io sono un pubblico ufficiale, ho l`obbligo di denunciare, cosa che feci al pg Giovanni Salvi. La questione era che io dovevo segnalare la vicenda in modo che non potesse comunque recare danno alle indagini. Avrei potuto fare una denuncia alla Procura di Brescia, che avrebbe chiesto gli atti alla Procura di Milano, con il risultato che le indagini non si sarebbero più fatte. La mia finalità principale era che quel processo tornasse sui binari di legalità, perché non c’erano i binari della legalità“.

Ermini ed il Pg della cassazione Salvi (a giorni pensionato)

“Non ricordo se ho detto al vicepresidente del Csm David Ermini che i verbali sono secretati “- ha concluso Davigo che ogni tanto svanisce la memoria come per incanto – “ma sono certo di avergli detto che dopo 5 mesi la Procura di Milano non aveva ancora fatto nulla”. Il processo riprenderà il 13 ottobre.

Luca Palamara, ecco il suo partito: "Cancelleremo l'uso politico della giustizia". Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 09 luglio 2022

L'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara scende in campo e fonda «Oltre il Sistema», una «proposta per l'Italia dove al tema centrale della giustizia verranno affiancati i temi dell'ambiente, del lavoro, della guerra, dell'economia, della scuola, dall'informazione, delle piccole e medie imprese, della sicurezza, della giustizia sociale». Un programma di governo in vista delle prossime elezioni politiche da condividere senza preclusioni partitiche. «Ho deciso di continuare la mia marcia per tit la verità e perla democrazia in questo Paese. E invito tutti coloro che condividono questo messaggio a metterci la faccia insieme a me e scendere in campo per far sì che la giustizia sia un tema dirimente è imprescindibile per le elezioni del 2023», afferma Palamara.

«Mi rivolgo - prosegue - a tutti, destra, sinistra, centro, astenuti, apolitici: voglio creare una piattaforma iniziale su cui innestare con forza un movimento riformatore nuovo». L'appuntamento per gli Stati Generali è per sabato 23 luglio a Roma all'hotel Baglioni. Il simbolo del movimento: la dea bendata della giustizia con l'Italia sullo sfondo ed il tricolore in basso. «Ho provato sulla mia pelle cosa significhi andare contro un "Sistema" che si regge da anni e determina l'inizio e la fine di un leader politico, la fine ad orologeria di governi eletti dal popolo: io credo che oggi dopo che si è squarciato il velo di ipocrisia che attanaglia da decenni la giustizia, sia giunto il momento di dare un taglio secco col passato e di cancellare per sempre il ricorso strumentale all'uso politico della giustizia», ricorda Palamara, secondo cui «la giustizia deve essere declinata in ogni sua forma a partire dalla giustizia sociale, alla giustizia economica, alla giustizia fra popoli, giustizia nei concorsi (sperando che non siano già coi posti assegnati)». Un compito certamente impegnativo, ma è l'unica strada per fare rinascere l'Italia e «riportarla ad essere fra le prime dieci potenze mondiali». 

Nuova indagine su Palamara, l’ex pm: «Usano Amara per salvare i processi contro di me». Il Dubbio il 10 luglio 2022.  

L'ex zar delle nomine indagato per istigazione alla corruzione nel caso dell'ex pm Musco, poi radiato dalla magistratura: è uno degli stralci dell'inchiesta sulla Loggia Ungheria

Nuova inchiesta su Luca Palamara, ex consigliere del Csm, indagato a Perugia per istigazione alla corruzione. L’indagine parte dalle dichiarazioni di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, “pentito” a credibilità alternata che aveva dichiarato l’esistenza di una loggia paramassonica la cui esistenza non è mai stata dimostrata. Ma alcune delle sue dichiarazioni, come chiarito dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone, sono risultate parzialmente riscontrate, da qui lo stralcio di alcune posizioni per ulteriori indagini. Cantone, nella nota con la quale aveva annunciato la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla presunta Loggia Ungheria, aveva stigmatizzato la discovery senza precedenti che ha caratterizzato l’inchiesta, con i verbali finiti su tutti i giornali e la possibilità di vederci chiaro sfumata assieme alla segretezza degli atti. Ma ora le cose sembrano non essere molto diverse: quegli atti, teoricamente segreti, si trovano già sui giornali, a partire dall’indagine su Palamara.

Secondo quando riferito dal Corriere della Sera, Palamara avrebbe aiutato l’ex pm siracusano Maurizio Musco, amico di Amara e all’epoca imputato di abuso d’ufficio, poi condannato e allontanato dalla magistratura. Il dato «inquietante» e nuovo, secondo i pm di Perugia, sarebbe stato l’avvicinamento, da parte di Palamara, del giudice di Cassazione Stefano Mogini, ma senza successo, grazie alla «schiena dritta» del magistrato.

Mogini avrebbe confermato la circostanza, raccontando dell’appuntamento fissato con l’allora consigliere del Csm alla vigilia del processo. Palamara gli disse che il processo meritava particolare attenzione e che uno dei principali imputati, Musco, era affetto da una grave malattia. «Io rimasi un po’ stupito di questo riferimento e genericamente gli dissi che eravamo abituati ad essere particolarmente scrupolosi sempre». Il processo fu poi rinviato e Palamara comunicò a Mogini di averlo saputo dal presidente della Corte di Cassazione. L’ex zar delle nomine, dunque, «monitorava» il processo, secondo i pm perugini.

Per chiedere l’interessamento di Palamara, secondo l’accusa, Amara aveva fatto organizzare al lobbista Fabrizio Centofanti una breve vacanza con mogli e fidanzate nello chalet al Sestriere dell’imprenditore piemontese Ezio Bigotti, a marzo 2015. Ma quando sull’aereo per Torino il magistrato si accorse della presenza di Amara, già noto per alcuni guai giudiziari, protestò con Centofanti che chiese all’avvocato di ritornare subito indietro. Tutto riscontrato, secondo la Procura, dai tabulati telefonici, biglietti aerei e voli.

Amara ha raccontato ai pm perugini che per l’interessamento all’affaire Musco «Palamara fece capire che avrebbe gradito un regalo di un orologio d’oro del valore di 30.000 euro per la sua compagna. E io gli dissi “se tu ti comporti male con Maurizio io ti scanno». Dopo questa frase i pm hanno dovuto aprire il nuovo fascicolo a carico di Palamara, che già tre anni fa, all’inizio dell’indagine sfociata nel processo in corso, fu accusato da un altro magistrato di aver intascato 40.000 euro per una nomina al Csm, ma poi la stessa Procura accertò che non era vero. Ma l’interessamento di Palamara al caso dell’ex magistrato siracusano sarebbe dimostrato anche da una email ricevuta dal segretario generale della Corte nel febbraio 2017 con tutti gli aggiornamenti sul «procedimento Musco». Per la Procura di Perugia Amara «è un soggetto abilissimo nell’arte manipolatoria e di conseguenza estremamente “pericoloso”, soprattutto quando lo si intenda utilizzare come prova a carico di altri»; tuttavia gli «indiscutibili riscontri esterni» emersi, «dimostrano che non è affatto (quantomeno soltanto) un millantatore o

Dopo la pubblicazione della notizia, non si è fatta attendere la reazione di Palamara. «Con riferimento alle notizie apparse oggi sui quotidiani Repubblica e corriere della sera (che non mi hanno assolutamente fatto andare storta la colazione nella magnifica cittadina di Modica dove ieri sera ho avuto il piacere di presentare il mio libro) ho inviato una nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della Cassazione la gravità della condotta degli inquirenti Perugini – ha sottolineato -. Le notizie pubblicate fanno riferimento a fatti e vicende che in alcun modo mi sono state contestate nel corso di un interrogatorio del 14 giugno 2022 proprio sulla vicenda Musco.

Perché durante quell’interrogatorio – nel quale mi vennero contestate le fantasmagoriche accuse dell’avvocato Amara “ti darò 30.000 euro e ti scanno se non lo fai” in relazione alle quali pur non registrando l’interrogatorio in tono amichevole dissi al procuratore Cantone che a quel punto sarebbe stato più divertente contestarmi il tentato omicidio – la pubblica accusa non mi ha dato lettura delle dichiarazioni di Mogini? E perché invece le dichiarazioni di Mogini sono state riportate dai giornali di riferimento peraltro già denunciati a Firenze?».

Quanto al merito e al presunto interessamento alla vicenda Musco, «si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avvocato Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno. Ma la battaglia di verità continua e ancor di più il rinnovato impegno politico su un tema quello della giustizia che non può non trascendere le singole vicende personali riguardando la vita di tutti i cittadini oramai interessati a comprendere e andare oltre le vicende del Sistema».

Petrolo era stato incolpato nel 2013 di aver rivelato notizie coperte dal segreto istruttorio all’avvocato Galati, difensore in quel momento di esponenti di una famiglia di ‘ndrangheta del Vibonese – i Mancuso – nel corso di una conversazione avvenuta tra i due nell’agosto del 2011, alla presenza anche di un poliziotto. Notizie che riguardavano un’indagine della Dda di Roma su una presunta associazione a delinquere dedita al narcotraffico, con conseguenti misure cautelari.

Il provvedimento emesso dalla sezione disciplinare è stato più duro rispetto alle richieste avanzate dal sostituto procuratore generale Luigi Cuomo, il quale aveva invocato la perdita di due mesi d’anzianità, ritenendo provate le incolpazioni rispetto ai fatti illustrati in apertura di seduta dal giudice relatore Carmelo Celentano. A nulla sono valse quindi le argomentazioni difensive esposte dal magistrato Stefano Guaime Guizzi che nel corso della sua discussione aveva spiegato in fatto e in diritto che in realtà il collega Petrolo non avesse commesso alcun illecito disciplinare, relativamente alle accuse che in sede penale si erano concluse con una sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. Sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Napoli, dopo l’annullamento con rinvio dell’assoluzione decisa dalla Cassazione nel 2020.

Il pm Paolo Petrolo dunque lascia la procura di Reggio Calabria, oltrepassando lo Stretto per iniziare una nuova carriera professionale. Scontato, infine, il ricorso in Cassazione, una volta che la sezione disciplinare, presieduta dal vicepresidente David Ermini, depositerà le motivazioni. (a. a.)

 Palamara di nuovo sotto inchiesta: «Intervenne per un pm sotto processo». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 9 luglio 2022.

Dall’indagine sulla presunta Loggia Ungheria, che secondo la Procura di Perugia deve andare in archivio in assenza di adeguati riscontri, emerge una nuova inchiesta a carico di . L’ex magistrato, radiato dal’ordine giudiziario e già sotto processo per corruzione, è indagato per istigazione alla corruzione in un procedimento nato da dichiarazioni dell’avvocato siciliano Piero Amara (lo stesso che ha parlato dell’associazione segreta ora sconfessata dai pubblici ministeri) che gli inquirenti ritengono confermate — almeno in parte — in maniera significativa. Le affermazioni sul coinvolgimento di Palamara in questa vicenda, sostengono nella richiesta di archiviazione, sono tra «quelle più riscontrate e “solide”, dal punto di vista della attendibilità estrinseca e intrinseca, nel complessivo narrato del dichiarante»

«Dato inquietante»

L’ipotesi di accusa riguarda l’interessamento dell’allora componente del Consiglio superiore della magistratura per agevolare l’ex pm siracusano Maurizio Musco, amico di Amara e all’epoca imputato di abuso di ufficio, in seguito condannato e a sua volta spogliato della toga. Al di là del racconto di Amara e delle verifiche sui singoli indizi, il procuratore di Perugia Raffaele Cantone e i sostituti Gemma Miliani e Mario Formisano scrivono che «il dato nuovo più rilevante (e purtroppo molto inquietante) è l’“avvicinamento” da parte di Palamara del giudice di cassazione Stefano Mogini, del quale Amara indica il nome il 3 novembre 2011 (quindi in un degli ultimi interrogatori, ndr), avvicinamento che, grazie alla schiena dritta del magistrato indicato, non portò alcun risultato positivo per Musco».

A confermare l’intrusione di Palamara è stato lo stesso Mogini, già capo di gabinetto dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella, che ha raccontato di un appuntamento fissato con l’allora consigliere del Csm alla vigilia del processo Musco in Cassazione, che per improvvisi impegni lui chiese di rinviare. Ma Palamara si offrì di raggiungerlo in un bar vicino al suo ufficio. Parlarono «del più e del meno», e fu Mogini a dirgli che l’indomani aveva «un procedimento particolarmente delicato che vedeva imputati tre magistrati di Siracusa; Palamara mi disse che conosceva la vicenda e sapeva quanto era ingarbugliata. Mi aggiunse che il procedimento meritava grande attenzione e poi mi disse anche che uno dei magistrati coinvolti, Musco, era affetto da una grave malattia. Io rimasi un po’ stupito di questo riferimento e genericamente gli dissi che eravamo abituati ad essere particolarmente scrupolosi sempre».

Vacanza al Sestriere

Il processo fu rinviato, e in un successivo incontro Palamara disse a Mogini di averlo saputo dal presidente della Corte. Considerazione dei pm: «Palamara quindi ha monitorato l’evoluzione del processo parlando non solo con il relatore, ma interloquendo direttamente e personalmente persino con il presidente della Corte di cassazione!». Per chiedere l’interessamento dell’ex consigliere del Csm, Amara aveva fatto organizzare al lobbista Fabrizio Centofanti (coimputato di Palamara a Perugia) una breve vacanza con mogli e fidanzate nello chalet al Sestriere dell’imprenditore piemontese Ezio Bigotti, a marzo 2015. Ma quando sull’aereo per Torino il magistrato si accorse della presenza di Amara, già noto per alcuni guai giudiziari, protestò con Centofanti che chiese all’avvocato di ritornare subito indietro. Tutto riscontrato, secondo la Procura, dai tabulati telefonici, biglietti aerei e voli.

L’orologio d’oro

Amara ha raccontato anche di due incontri con l’ex magistrato per parlare di Musco, riferendo che «Palamara fece capire che avrebbe gradito un regalo di un orologio d’oro del valore di 30.000 euro per la sua compagna. E io gli dissi “se tu ti comporti male con Maurizio io ti scanno». Dopo questa frase i pm hanno dovuto aprire il nuovo fascicolo a carico di Palamara, che già tre anni fa, all’inizio dell’indagine sfociata nel processo in corso, fu accusato da un altro magistrato di aver intascato 40.000 euro per una nomina al Csm, ma poi la stessa Procura accertò che non era vero. Ora, al di là dell’orologio, l’interessamento di Palamara al processo in Cassazione che stava a cuore ad Amara sarebbe dimostrato anche da una e-mail ricevuta dal segretario generale della Corte nel febbraio 2017 con tutti gli aggiornamenti sul «procedimento Musco». Per la Procura di Perugia Amara «è un soggetto abilissimo nell’arte manipolatoria e di conseguenza estremamente “pericoloso”, soprattutto quando lo si intenda utilizzare come prova a carico di altri»; tuttavia gli «indiscutibili riscontri esterni» emersi, «dimostrano che non è affatto (quantomeno soltanto) un millantatore o peggio ancora un semplice mitomane».

Il caso Amara non finisce più: nuove accuse su Palamara e indagine sulla fuga di notizie. Il Domani il 10 luglio 2022

Indiscrezioni su una nuova indagine nei confronti dell’ex membro del Consiglio superiore della magistratura. Che annuncia una «nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della Cassazione la gravità della condotta degli inquirenti perugini». 

Archiviata a Perugia l’indagine sulla cosiddetta “Loggia Ungheria”, il caso che vede coinvolto l’ex pubblico ministero Luca Palamara e l’ Piero Amara è tutt’altro che finito. Da una parte infatti nella richiesta di archiviazione, secondo quanto ricostruito da Corriere e Repubblica, si fa riferimento a una nuova indagine in cui Palamara risulterebbe indagato per istigazione alla corruzione, mentre dall’altra la notizia di questa nuova indagine ha portato i pubblici ministeri di Perugia ad aprire un nuovo fascicolo sulla fuga di notizie.

Il fascicolo sulla fuga di notizie è stato aperto dalla procura di Perugia dopo la pubblicazione di alcuni contenuti della richiesta di archiviazione, inviata dai pubblici ministeri al giudice per le indagini preliminari, che non erano stati resi pubblici. 

IL CASO MUSCO

L'ipotesi di accusa nei confronti di Palamara riguarderebbe il presunto interessamento dell'allora componente del Consiglio superiore della magistratura per agevolare l’ex magistrato Maurizio Musco, amico di Amara e all'epoca accusato di abuso d'ufficio.

Palamara ha annunciato una «nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della Cassazione la gravità della condotta degli inquirenti perugini».

«Le notizie pubblicate fanno riferimento a fatti e vicende che in alcun modo mi sono state contestate». ha sottolineato oggi Palamara. Nel corso dell’interrogatorio del 14 giugno in cui gli furono contestate le accuse di Amara che Palamara definisce «fantasmagoriche», argomenta l’ex membro del Csm, «dissi al procuratore Cantone che a quel punto sarebbe stato più divertente contestarmi il tentato omicidio».

Secondo Palamara il suo interessamento alla vicenda Musco sarebbe stata già smentita dalla documentazione già a disposizione della Procura di Perugia e le dichiarazioni di Amara, è la ricostruzione dell’ex pm, servirebbero a salvare procedimenti in corso, in questo caso proprio quelli contro l’ex magistrato.

La Procura di Perugia apre un fascicolo per fuga di notizie sulla Loggia Ungheria. In Puglia invece sono più distratti. E la stampa locale ringrazia…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Luglio 2022. 

Quello che è incredibile in realtà è che quando le fughe di notizie accadono in Puglia, la solita "cerchia" di magistrati della corrente sinistrorsa di "Area", fa finta che non sia successo nulla. E quando per questi fatti arrivano esposti al Csm, i cosiddetti controllori del corso della giustizia componenti della Sezione Disciplinare e della 1a commissione archiviano

La procura di Perugia ha aperto un fascicolo sulla fuga di notizie in relazione alla pubblicazione di alcuni contenuti della richiesta di archiviazione sulla Loggia Ungheria, formulata dai pm e trasmessa al Gip. Il fascicolo è stato aperto ieri mattina dopo che il Fatto Quotidiano ha pubblicato alcuni passaggi della richiesta di archiviazione seguiti dalle notizie riportate poi dal Corriere della Sera e da La Repubblica. Stralci che non era contenuti nella nota stampa diffusa dalla procura con cui si dava notizia della richiesta di archiviare l’indagine. “ È un fatto gravissimo e la Procura di Perugia  – ha dichiarato  il procuratore capo Raffaele Cantone all’agenzia Adnkronos – è vittima di questa fuga di notizie“.

Nonostante i verbali degli interrogatori di Amara fossero stati “secretati” sono diventati di dominio pubblico, il procuratore Cantone nei giorni scorsi aveva già avuto modo di affermare : “Vi è stata una sostanziale e totale discovery anticipata della parte più significativa del materiale probatorio costituito dalle dichiarazioni dall’avvocato Piero Amara che stava riferendo della presunta associazione segreta, con la pubblicazione sui media integralmente di gran parte dei verbali di interrogatorio che avrebbero invece dovuto restare segreti”. 

“In particolare già nel novembre 2020 era emersa la certezza che i verbali di interrogatorio di Amara fossero nella disponibilità di soggetti estranei al processo tanto da essere trasmessi integralmente ad un giornalista, e tale propalazione è proseguita anche nei primi mesi del 2021 con l’invio di una parte dei verbali di dichiarazioni ad altro giornalista e ad un consigliere Csm“, il togato Nino Di Matteo, “che ne aveva fatto anche pubblica menzione in un intervento al Plenum dell’organo di autogoverno”. “Nella primavera del 2021 per oltre un mese giornali, trasmissioni televisive si sono occupati della vicenda, pubblicando verbali ed altri documenti e facendo rendere dichiarazioni ed interviste ai soggetti ritenuti interessati all’indagine», si legge ancora nella nota – e (…) quanto avvenuto ha certamente inciso sulle attività investigative in corso, che avrebbero al contrario, in relazione alla tipologia di reato da accertare, richiesto massima riservatezza e segretezza. Basterebbe in questo senso rimarcare come più di un soggetto si è avvalso della legittima facoltà di non rispondere, proprio motivando la sua scelta in relazione al grave strepitus fori verificatosi“.

il vero intento della corrente di Area al CSM: pilotare, controllare, condizionare nomine 

Quello che è incredibile in realtà è che quando le fughe di notizie accadono in Puglia, la solita “cerchia” di magistrati della corrente sinistrorsa di “Area”, fa finta che non sia successo nulla. E quando per questi fatti arrivano esposti al Csm, i cosiddetti controllori del corso della giustizia componenti della Sezione Disciplinare e della 1a commissione archiviano. Guai a disturbare il “manovratore”: cane con cane non si morde. Sopratutto se porta la toga. 

Con una nota l’ex presidente dell’ ANM Luca Palamara, facendo riferimento alle notizie apparse oggi sui quotidiani La Repubblica e Corriere della Sera ha reso noto di aver inviato una nuova denuncia penale a Firenze segnalando alla procura generale della cassazione la gravità della condotta degli inquirenti perugini. “Le notizie pubblicate fanno riferimento a fatti e vicende che in alcun modo mi sono state contestate nel corso di un interrogatorio del 14 giugno 2022 proprio sulla vicenda Musco.

Perché durante quell’interrogatorio – nel quale mi vennero contestate le fantasmagoriche accuse dell’avv.Amara “ ti darò 30.000 euro e ti scanno se non lo fai” in relazione alle quali pur non registrando l’interrogatorio in tono amichevole dissi al Procuratore Cantone che a quel punto sarebbe stato più divertente contestarmi il tentato omicidio – la pubblica accusa non mi ha dato lettura delle dichiarazioni di Mogini? E perché invece le dichiarazioni di Mogini sono state riportate dai giornali di riferimento peraltro già denunciati a Firenze?“ 

“Quanto al merito e al mio asserito interessamento alla vicenda Musco – continua Palamara – si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della Procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avv. Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno“. Redazione CdG 1947

Talpa nella procura di Perugia: torna in azione la “manina”. Cantone apre un fascicolo per trovare il «traditore» che ha passato ai giornali le carte sulla nuova inchiesta a carico di Palamara. Simona Musco su Il Dubbio il 12 luglio 2022.

«La procura di Perugia è parte offesa», ha detto nel fine settimana il procuratore Raffaele Cantone nel commentare l’ennesima e non più sorprendente fuga di notizie su indagini che riguardano l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara. Un’affermazione che basterebbe da sola a certificare un fatto: a indagare sul fuggi fuggi di carte per l’ennesima opera di cecchinaggio ai danni di Palamara non può essere la procura del capoluogo umbro, bensì quella di Firenze, alla quale l’ex zar delle nomine si è subito rivolto per denunciare i fatti. Ovvero la pubblicazione, su Corriere della Sera e Repubblica, dell’indagine a carico dell’ex consigliere del Csm per istigazione alla corruzione, uno stralcio della ben più corposa richiesta di archiviazione avanzata da Cantone per quanto riguarda l’indagine sulla presunta Loggia Ungheria, bollata come una bufala ad uso e consumo dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara. Un “pentito” la cui credibilità risulta ridotta al minimo, ma nonostante questo alcune delle sue dichiarazioni, parzialmente riscontrate, rimangono ancora in ballo per fare da ossatura ad un numero imprecisato di fascicoli che il procuratore di Perugia distribuirà ai colleghi per competenza territoriale. Tra queste, ci sono quelle relative al presunto tentativo di Palamara di salvare l’ex pm siracusano Maurizio Musco, amico di Amara e all’epoca imputato per abuso d’ufficio, poi condannato e allontanato dalla magistratura. Il dato «inquietante» e nuovo, secondo i pm di Perugia, sarebbe stato l’avvicinamento, da parte dell’ex zar delle nomine, del giudice di Cassazione Stefano Mogini, ma senza successo, grazie alla «schiena dritta» del magistrato. Notizie rese note nonostante si trattasse di atti coperti dal segreto, per i quali è vietato qualsiasi tipo di pubblicazione, anche solo del loro contenuto: l’atto è infatti segreto «fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza» e se ritenuto necessario dal pm anche dopo la sua conoscenza o conoscibilità.

«Non abbiamo mai avuto alcun interesse a che il contenuto della richiesta di archiviazione venisse pubblicato dai mezzi d’informazione. Faremo tutto il possibile per accertare da dove sia uscita», ha assicurato Cantone. Ma chi ha passato la velina alla stampa sapeva dove andare a pescare. Così come nel 2019, quando le intercettazioni che fecero scoppiare il Palamaragate finirono sugli stessi due giornali oggi protagonisti del nuovo presunto complottone. Ad agire sarebbe stato un «traditore», ha sbottato Cantone, inviperito per una «vicenda di una gravità assoluta». Grave tanto quanto lo era stata la pubblicazione dei verbali di Amara sulla vicenda Ungheria, bollata dal procuratore di Perugia come «una situazione che probabilmente non ha precedenti per indagini giudiziarie quantomeno di così rilevante impatto», essendoci stata «una sostanziale e totale “discovery” anticipata della parte più significativa del materiale probatorio». Quello “sputtanamento”, di fatto, fece finire al macero l’inchiesta, depotenziando l’attività istruttoria. E in quell’occasione, proprio come sta accadendo ora nel caso della richiesta di archiviazione, fu la stessa procura che stava indagando sulla loggia, quella di Milano, a investigare sulla fuga di notizie, innescata involontariamente dal pm meneghino Paolo Storari, che consegnò i verbali di Amara all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

Ma di chi è la manina che ha fatto finire sui giornali atti ancora segreti? Stando a quanto reso noto da Cantone, la richiesta di archiviazione non era in possesso né della procura di Milano né della procura generale della Cassazione. E nemmeno il Gico della Guardia di Finanza avrebbe avuto disponibilità degli atti al momento dell’ennesima discovery. Il fascicolo a modello 45, senza ipotesi di reato né indagati aperto inizialmente da Cantone, si è intanto trasformato in un’indagine per rivelazione di segreto. Il fascicolo incriminato, nei giorni precedenti al comunicato che annunciava la richiesta di archiviazione, passava di mano in mano nelle varie cancellerie. L’ipotesi più accreditata in procura, al momento, è che sia stato qualche investigatore a fare da tramite con i giornali, su mandato ignoto. Anche perché Cantone esclude categoricamente che a spifferare tutto ai giornalisti possano essere stati i due magistrati che lo affiancano nell’indagine, ovvero Gemma Miliani e Mario Formisani, gli stessi che rappresentano l’accusa nel processo per corruzione a carico di Palamara. Ma la tesi che la spia possa essere un uomo in divisa non convince l’ex presidente dell’Anm.

«Per la mia esperienza, in questi casi i giornalisti hanno rapporti diretti con i magistrati – spiega al Dubbio -, quanto emerso dalle conversazioni captate con il trojan nel 2019 spiega bene come si mettono in movimento le manine. Come mai su 167 pagine si sono mossi solo quelle che mi riguardano?», si chiede l’ex pm, convinto che comunque si tratti di «accuse che si smontano da sole». A scoprirlo sarà forse la procura di Firenze, alla quale si è rivolto annunciando di voler «andare fino in fondo». La stessa procura dalla quale aspetta, però, risposte da circa due anni in merito alle denunce sulla vecchia fuga di notizie. Ma non solo: Palamara ha anche invocato un intervento degli ispettori ministeriali, convinto che la situazione non possa essere ignorata, al punto da essere pronto a proteste eclatanti, come incatenarsi davanti al Palazzo di Giustizia. Quanto al merito e al presunto interessamento alla vicenda Musco, aveva spiegato l’ex consigliere del Csm nei giorni scorsi, «si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avvocato Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno. Ma la battaglia di verità continua e ancor di più il rinnovato impegno politico su un tema quello della giustizia che non può non trascendere le singole vicende personali riguardando la vita di tutti i cittadini oramai interessati a comprendere e andare oltre le vicende del Sistema». Insomma, questa volta la talpa potrebbe aver commesso un passo falso. E le prossime pubblicazioni potrebbero smascherarla.

 Giacomo Amadori per “la Verità” l'11 luglio 2022.  

Come un fantasma, a Perugia, a tre anni di distanza dal Palamara-gate, è ricomparsa la manina che sottrae dalla Procura umbra carte coperte da segreto e le consegna sempre agli stessi giornali per far bombardare l'ex presidente dell'Anm, ma non solo. Nel 2019 su alcuni quotidiani, Corriere della Sera e Repubblica in testa, apparvero succose intercettazioni in quel momento in viaggio da Perugia verso il Csm.

Nessuno scoprì (o volle scoprire) l'autore. Ma con quest' ultima fuga di notizie fotocopia, forse il mariuolo, come ogni criminale seriale, potrebbe aver lasciato un'impronta decisiva sulla scena del crimine. In questo caso ha messo in circuito la richiesta di archiviazione per i fatti collegati alla loggia Ungheria e descritti ai pm dal faccendiere Piero Amara. In quelle 167 pagine erano citate vicende ancora coperte da segreto. 

Comprese alcune dichiarazioni testimoniali non ancora contestate a Luca Palamara e pronte per essere depositate nel processo per corruzione già in corso a Perugia.

Il procuratore Raffaele Cantone ha annunciato una guerra senza quartiere a quello che ha già bollato senza giri di parole come «un traditore», nonché colpevole di «una porcata».

Per la toga si tratta di una «vicenda di gravità inaudita» che può essere paragonata alla divulgazione dei verbali di Amara. La richiesta di archiviazione, come è specificato in un comunicato diffuso ieri, non era stata ancora inviata né alla Procura generale di Milano, né a quella della Cassazione, né alla polizia giudiziaria. Anche il Gico della Guardia di finanza, che aveva chiesto copia del provvedimento, sarebbe rimasto a mani vuote. «Nell'interesse vostro, l'avrete quando l'avranno tutti», sarebbe stato spiegato ai militari. «È un fatto gravissimo», ha rincarato la Procura con le agenzie. «Faremo tutto il possibile per accertare da dove sia uscita».

Come dimostrano altre indagini su rivelazioni di segreto, in questi casi volere è potere.

Sabato mattina, dopo aver letto un articolo sul Fatto quotidiano che conteneva diversi virgolettati della richiesta, Cantone ha immediatamente fatto aprire un fascicolo a modello 45 (senza ipotesi di reato, né indagati) che però a partire da stamattina è diventato un modello 44 per rivelazione di segreto. 

Anche perché ieri sono usciti due articoli fotocopia su Corriere della Sera e Repubblica che riguardavano le nuove accuse di corruzione e istigazione nei confronti di Palamara che hanno fatto immaginare a Cantone che qualcuno sia andato a pescare proprio quel capitoletto nelle 167 pagine della richiesta e lo abbia poi consegnato ai cronisti. Insomma, un sicario con un preciso obiettivo, lo stesso di chi ha colpito nel 2019.

Il procuratore è in attesa delle prossime pubblicazioni sui giornali e di un qualche passo falso della talpa. Gli inquirenti escludono che la richiesta possa essere uscita dall'ufficio gip, ma notano che il corposo documento da quattro o cinque giorni era oggetto di fotocopie negli uffici di cancelleria e di passaggi da una stanza a un'altra. Per questo i pm stanno cercando di capire se, durante queste operazioni, le carte possano essere fuoriuscite in modo clandestino per finire magari in mano a qualche investigatore e poi nei computer dei giornalisti.

Con alcuni stretti collaboratori Cantone ha escluso categoricamente il possibile coinvolgimento nella fuga di notizie dei sostituti procuratori che lo affiancano, Gemma Miliani e Mario Formisano. Il magistrato napoletano è pronto a mettere la mano sul fuoco sulla lealtà dei suoi due dioscuri, di cui sostiene di fidarsi quasi più che di sé stesso. «Se fossero loro la delusione sarebbe enorme, la più grande della mia vita. Un vero atto di tradimento», ha commentato con il tono di chi ritiene di essere di fronte a un'ipotesi dell'irrealtà. E allora?

In questo momento i principali indiziati sembrano essere gli operatori della polizia giudiziaria che hanno rapporti costanti con le cancellerie ed è a quel livello che gli inquirenti stanno cercando la falla.

Ieri Palamara ha presentato a Firenze, competente per i reati dei magistrati di Perugia, una denuncia per la fuga di notizie che lo riguarda. Si tratta delle (ennesime) dichiarazioni che Amara ha rilasciato contro l'ex pm, in questo caso nell'ambito di un procedimento per istigazione alla corruzione. 

L'avvocato siracusano ha riferito che, nel 2015, mentre si trovava a bordo di un aereo con Palamara, avrebbe ricevuto da quest' ultimo, ai tempi in cui era consigliere del Csm, una presunta richiesta di 30.000 euro, per aggiustare un procedimento disciplinare riguardante l'ex pm Antonio Musco. Un'accusa che anche in questo caso Palamara considera senza alcun riscontro e facilmente contestabile, carte alla mano. Le stesse che sta mettendo da parte con gli avvocati.

«Palamara purtroppo ha straragione. Ha fatto benissimo a denunciare», ha commentato con i suoi collaboratori Cantone. Per una volta l'ex presidente dell'Anm e il suo grande accusatore si sono trovati dalla stessa parte del campo. Come ai tempi in cui giocavano nella Nazionale magistrati. Infatti in Procura ritengono che questa fuga di notizie danneggi «in modo rilevantissimo» le inchieste, anche perché «la vicenda Palamara è solo un pezzetto della richiesta di archiviazione». Ma evidentemente qualcuno ha interesse solo a quello.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 14 luglio 2022. 

Continuano a Perugia le verifiche sui presunti accessi illeciti alla banca dati della Procura da parte della presunta talpa. La situazione viene definita dagli inquirenti «molto delicata». Il dipendente, indagato per accesso abusivo e rivelazione di segreto, avrebbe scaricato dal sistema carte dell'inchiesta Ungheria (fascicolo a cui non era applicato), a partire dalla richiesta di archiviazione, e, forse, le avrebbe consegnate ad alcuni giornalisti. Dai primi accertamenti risulta che l'uomo si fosse già impossessato di altro materiale sensibile.

In attesa di sviluppi, vale la pena esaminare con attenzione la richiesta di archiviazione sulla supposta loggia firmata dal procuratore Raffaele Cantone.

In essa emerge adesso come Amara, dopo aver reso sei interrogatori a Milano tra il 2019 e il 2020, per svelare l'esistenza della loggia Ungheria, ne abbia impiegati cinque, nel 2021, per smontare le sue stesse dichiarazioni. 

Scrive la Procura: «Progressivamente, ma chiaramente, Amara ha compiuto una vera e propria inversione ad "U"» e «in modo anche molto abile ha via via sminuito il ruolo della loggia Ungheria e il proprio contributo in essa». Alla fine ha sostenuto, contrariamente a quanto affermato tra il 2019 e il 2020 a Milano, che Ungheria «non era un'associazione massonica segreta ("coperta"); che non era un'associazione a delinquere finalizzata a commettere reati; che non perseguiva finalità illecite, ma principi ideali dello Stato liberale; e che essere associato non significava essere disponibile a commettere reati».

Anzi, a suo dire, sarebbe esistito «un altro centro di potere, parallelo a Ungheria, all'interno del Csm nella consiliatura 2014-2018 che aveva gestito le nomine dei vertici apicali della magistratura ordinaria». Ed egli stesso, a un certo punto, «unitamente ad altri due associati "delusi"» di Ungheria, «aveva mutato le sembianze dell'associazione Aprom, per farla diventare una nuova associazione quale strumento di esercizio di potere e scambio di favori». 

Nella sua nuova versione Amara fa sapere che con Ungheria inizia a perdere i contatti una volta trasferitosi a Roma. A quel tempo, con la loggia, si relaziona a «spot» ed è deluso dal suo modo di operare, dal momento che risponderebbe più «alle esigenze di alcune persone che all'affiliazione ad Ungheria». Ecco così pronti i bagagli.

Amara narra, si legge nella richiesta, del suo intento di «costituire unitamente ad un altro associato "deluso", il dottor Pasquale Dell'Aversana (un importante burocrate, che aveva rivestito un ruolo di vertice nell'Agenzia delle entrate), una nuova associazione a Roma, sfruttando i canali e le relazioni anche di Ungheria, si da poter avere un ruolo più centrale che non riusciva ad avere nella loggia, ed utilizzando una realtà associativa con finalità di studio già esistente e creata da Dell'Aversana, denominata Aprom».

L'Aprom è l'acronimo di Associazione per il progresso del Mezzogiorno. Si tratta di un gruppo di persone molto attive nell'organizzazione di eventi e convegni a cui partecipavano diversi magistrati. Già nella primavera del 2021, in un'intervista pubblicata su Panorama, dopo l'esplosione del caso Ungheria, Amara aveva evidenziato il cambio di strategia e aveva consigliato al cronista di puntare l'attenzione sull'«Aprom di Dell'Aversana, un altissimo funzionario dell'Agenzia delle entrate, associato a Ungheria come non mai». 

Insomma la fase 2 era già iniziata. Negli interrogatori Amara definisce Aprom «una nuova scatola di specchi, in cui pero non doveva esistere, almeno tra i componenti, la segretezza nel senso ognuno deve sapere dell'altro». In essa sarebbe stata invitata «gente che faceva parte di Ungheria», ma avrebbe avuto una finalità «meramente relazionale», «lobbistica», cioè senza «scopi ideali». A riscontro di queste dichiarazioni, Amara ha consegnato una lista di nominativi in allegato a una mail da lui inviata in data 8 luglio 2015 all'avvocato V.M.L.R. denominata «aderenti ad associazione A.pro.m.eu».

Ma anche in questo caso ci troveremmo di fronte al gioco delle tre carte: «L'elenco depositato [] ad una lettura testuale, sembrerebbe trattarsi di un documento riferibile alla associazione Aprom tout court, come del resto si legge nel testo della mail ("lista certi cenacolo culturale") e non anche di neofiti di un gruppo di potere, costituito dai "delusi" di Ungheria» annota la Procura.

Di fronte a questa clamorosa retromarcia i pm ritengono che la questione cruciale sarebbe capire perché Amara riferisca solo il 3 novembre 2021 della «sua delusione rispetto ad Ungheria» e della sua intenzione di «creare un nuovo gruppo». Ma anche perché a Milano abbia tirato fuori la storia della loggia. A questo secondo quesito per gli inquirenti umbri l'avvocato siracusano probabilmente non risponderà mai in modo sincero.

In compenso ha provato a spiegare i motivi per cui non aveva fatto riferimento ad Aprom nelle precedenti dichiarazioni meneghine, di cui sembra essersi pentito: «Premetto che io oggi non parlerei più di Ungheria, in quanto mi rendo conto che alcune circostanze le ritenevo poco credibili. Che ad esempio Canzio (Giovanni, primo presidente emerito della Cassazione, ndr) e Berlusconi (Silvio, ndr) facessero parte di Ungheria mi sembrava inverosimile». 

Poi incolpa del polverone sollevato il pm che per primo lo ha interrogato, vale a dire Paolo Storari: «Mi fu detto di riferire tutto senza timore anche le circostanze poco attendibili e che la Procura avrebbe fatto delle verifiche. Non ho parlato di questa vicenda, quella del cenacolo in Aprom, per timore e perché non avevo delle prove che ho acquisito solo successivamente». A partire dalla mail inviata all'avvocato romano di cui abbiamo già fatto cenno.

Il commento di Cantone è tagliente: «Amara riferisce a dicembre 2019 a Milano di Ungheria, definendola una potentissima associazione, paragonabile alla P2, indica con certezza gli affiliati e a distanza di due anni afferma, invece, che in realtà gia dal 2015 era sostanzialmente uscito dal gruppo perché deluso e che la da lui riferita affiliazione di alcuni degli adepti sembrava (persino a lui) del tutto inverosimile!». Alla fine di Ungheria resta poco o niente. Amara anticipa la nascita della loggia agli anni 1993-95, e la collega «alla "crisi" di valori del Paese, successiva a Tangentopoli» e «in questo senso essa sarebbe la "continuazione" della P2».

Ma alla fine più che «ristabilire un sistema di valori (perduti)», Amara ha affermato che «uno dei problemi concreti che la loggia dovette affrontare fu la "gestione" dei procedimenti nei confronti di Berlusconi, aperti a Palermo e Catania (in relazione al "dopo-stragi")». Inchieste in cui l'ex premier è stato già archiviato. Siamo di fronte all'ennesimo colpo a salve di Amara? In realtà il «dichiarante» in questo caso è stato ritenuto parzialmente credibile. Come spesso capita quando di mezzo c'è il Cav. Ed è prevedibile che non mancheranno le polemiche. 

L'intervento pro Silvio di Ungheria (con tanto di boicottaggio delle dichiarazioni del pentito Luigi Ilardo) sarebbe stato reso possibile dal «profondo legame tra Giovanni Tinebra», ex influente magistrato siciliano defunto, e «Berlusconi (e il suo governo)».

Su tale filone Perugia ha attivato sia la Procura nazionale antimafia che quella di Messina come si evince da questo passaggio: «Delle dichiarazioni rese sul punto e stata immediatamente messa al corrente la Procura nazionale antimafia con nota del 9 settembre 2021 ed esse sono state trasmesse alla Procura di Messina, dopo averle stralciate ed inserite in un fascicolo iscritto a modello 45».

L'Antimafia ha già risposto con l'invio di documentazione, circostanza che ha portato Cantone a scrivere «che alcune circostanze narrate da Amara sono (almeno in parte) riscontrate». Ma la Procura non ha considerato una potenziale notizia di reato solo le dichiarazioni anti Berlusconi, ma pure quelle che riguardano l'ex capo della Procura Luigi de Ficchy.

Amara per confermare i suoi rapporti privilegiati con alcuni magistrati ha fatto togliere dalla naftalina un bigliettino sequestrato dalla Procura di Roma con sopra un elenco di nominativi e indirizzi che sarebbe stato utilizzato per recapitare alcuni doni in vista delle festività pasquali a diversi personaggi, tra cui De Ficchy («una stampa di un certo valore») e l'ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone («un regalo non meglio precisato»).

Un foglietto mai valorizzato in passato né nelle indagini romane, né dallo stesso Amara. Ma se per l'autista del faccendiere siciliano quei regali non erano altro che cassette di ciliegie, a giudizio di Cantone, quella noticina, pur non dimostrando l'esistenza di alcuna loggia, «potrebbe, pero, avere un indiscutibile rilievo come ulteriore prova di un circuito relazionale ad alto livello del dichiarante, che avrebbe intrattenuto rapporti anche con importanti magistrati».

A questo proposito Amara ha anche riferito in un'annotazione redatta in carcere «una vicenda riguardante il figlio» di De Ficchy. Il successore di quest' ultimo, Cantone, non ha fatto sconti: ha disposto «lo stralcio del memoriale» e lo ha «già trasmesso al pm di Firenze» Luca Turco. Il quale è da tempo titolare di un fascicolo su De Ficchy, come rivelato dalla Verità, aperto in seguito a un precedente stralcio della Procura di Milano e relativo alle prime dichiarazioni di Amara sulla loggia. 

Giacomo Amadori per “la Verità” il 15 luglio 2022.

La storia della presunta talpa della Procura di Perugia vede come unico indagato (per il momento) un saggista che nei suoi libri si occupa di cold case rimasti irrisolti. Ma lui, forse, potrebbe aver lasciato qualche traccia. Ieri nella libreria Feltrinelli di corso Vannucci era rimasta solo una copia del libro La scomparsa di Adinolfi, firmato dal già cancelliere della Procura Raffaele Guadagno, sospettato di essere la gola profonda di alcuni quotidiani, e dall'ex giornalista Rai Alvaro Fiorucci.

Al primo sfoglio quello che salta all'occhio è l'autore della prefazione, l'inviato del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, lo stesso cronista che, insieme con due colleghi della Repubblica con cui non di rado opera in pool, domenica ha pubblicato un articolo che conteneva alcune parti della richiesta di archiviazione sulla cosiddetta loggia Ungheria che, a giudizio del procuratore Raffaele Cantone, erano ancora coperte da segreto.

E a scaricare illecitamente i file, non essendo collaboratore dei pm che indagavano, sarebbe stato proprio Guadagno, cinquantottenne originario di Santa Maria di Vico (Caserta), ma da anni trapiantato in Umbria. Attualmente lavora all'ufficio esecuzione della Procura e non ha più nulla a che fare con le indagini. 

È sospettato di essersi intrufolato nel sistema anche in altre occasioni, scaricando ulteriori documenti riservati. Al momento gli inquirenti non sono riusciti a trovare tracce di intrusioni riferibili alla tarda primavera del 2019, quando esplose il Palamara gate e sui giornali finirono decine di intercettazioni e atti di indagine non ostensibili. Una rivelazione del segreto investigativo senza precedenti di cui la Procura di Perugia, all'epoca non ancora guidata da Cantone, non riuscì a trovare i responsabili.

Questa volta, invece, i magistrati potrebbero aver scoperto l'autore in meno di 48 ore.

Le investigazioni dovranno innanzitutto accertare se sia stato proprio il funzionario a fornire le carte ai giornalisti e in caso di risposta affermativa se lo abbia fatto anche in altre occasioni. 

In città le perquisizioni nei confronti di Guadagno rappresentano un piccolo choc essendo l'ex cancelliere molto stimato in Procura e non solo per il suo eclettismo e la sua cultura.

Un uomo intelligente e fisicamente fragile. Da anni è presidente di un'associazione per la lotta all'ictus cerebrale, di cui è stato vittima. E le ultime vicende lo hanno ulteriormente provato. Ma l'inchiesta prosegue. Come è normale che sia. L'avvocato Chiara Lazzari ci spiega di non avere novità sulle indagini e che la sua nomina non è ancora stata depositata. 

Sulla quarta di copertina del suo ultimo lavoro Guadagno è definito «studioso di indagini e di processi» ed è specificato che «ha seguito i maggiori casi di cronaca giudiziaria in Italia e all'estero». Nel 2018 ha pubblicato Il Divo e il giornalista. Giulio Andreotti e l'omicidio di Carmine Pecorelli: frammenti di un processo dimenticato, un procedimento che Guadagno conosce a menadito e la cui conclusione senza colpevoli ritiene un'ingiustizia.

Ma è il «mistero irrisolto» sulla scomparsa del giudice romano Paolo Adinolfi l'opera che ci collega maggiormente alla vicenda della talpa.

Destino vuole che lo scorso settembre alla presentazione in una sala dell'Archivio di Stato abbia presenziato anche Cantone, che nell'occasione auspicò che il libro potesse «contribuire a individuare nuovi elementi utili a riaprire il caso sulla scomparsa del giudice». Sarà anche per il ricordo di quella serata che, non appena è stato aperto il fascicolo, il procuratore ha parlato di un vero e proprio «tradimento». 

Comunque a Perugia non c'è avvocato o magistrato che non spenda parole di stima per Guadagno. Giuliano Mignini, il pm del caso Meredith, si è limitato a dire: «Non so se sia di destra o di sinistra, di certo è una persona molto attenta al tema della legalità».

Sui social Guadagno è molto critico con quasi tutta la classe politica, a partire dalla Lega e dal Movimento 5 stelle.

«Salvini, Conte e Letta un triumvirato che mi "agita"» ha scritto. Non ha risparmiato stilettate neppure alle signore della destra Giorgia Meloni e Marine Le Pen («Io sto con Macron senza se e senza ma»). Mentre esprime grandissima stima per il presidente Sergio Mattarella («Un gigante») e il premier Mario Draghi, che ringrazia per aver salvato l'Italia. 

Ha nostalgia della Prima Repubblica: fa sapere di rimpiangere Bettino Craxi e Claudio Martelli e si è schierato contro il taglio dei parlamentari, da lui considerato «una via reazionaria». Nei suoi post non mancano neppure le citazioni di Ernesto Guevara, «un grande condottiero».

Il rapporto con magistrati e giornalisti è più lineare rispetto a quello con la politica.

Sia gli uni che gli altri affollano le presentazioni dei suoi libri. In un'immagine pubblicata su Fb si trova a fianco dell'ex toga ed ex presidente del Senato Piero Grasso. Il Divo e il giornalista contiene la prefazione dell'ex procuratore generale di Perugia e presidente della Fondazione Umbria anti usura Fausto Cardella, un magistrato a cui Guadagno è molto legato. Per esempio l'indagato ha organizzato con lui nel proprio paese natale un evento sulla strage di Capaci. 

A dicembre, alla presentazione romana del suo secondo libro, sono intervenuti il campione della magistratura non allineata Nino Di Matteo e una giornalista della Rai.

Nella locandina era indicato tra i relatori pure Antonio Massari, inviato del Fatto Quotidiano, che, però, alla fine non prese parte alla serata.

Si limitò a scrivere un articolo sul libro.

Massari è il cronista che per primo ha pubblicato il contenuto della richiesta di archiviazione. Ma, al contrario dei colleghi di Repubblica e del Corriere della Sera, non si è concentrato sul caso Palamara. L'unico collegamento tra Guadagno e l'ex pm radiato dalla magistratura (che ha presentato denuncia a Firenze per la fuga di notizie) lo abbiamo trovato sul profilo Facebook dell'indagato. In un post del primo aprile 2021 riprendeva l'annuncio di un'intervista all'ex presidente dell'Anm, sul best seller Il Sistema, ospitata dal sito Darkside del suo editor, Gianluca Zanella. Sotto il post, un suo amico, G.M., commentava: «Forse non è molto etico che questo indagato debba arricchirsi con le sue malefatte».

E ricordava che l'ex pm era diventato «il vessillo dei media del noto piduista» Berlusconi, «acerrimo nemico della magistratura tutta». E si stupiva anche per «la grande attenzione per i fatti disvelati dai trojan palamareschi» e definiva l'ex pm «solo una gran bella faccia di tonno», rubando una citazione all'ex presidente Francesco Cossiga. 

Guadagno gli rispondeva in modo sibillino: «Caro amico mio, le tue parole, come sempre, sono "piene". Purtroppo ahinoi "dobbiamo stare muti"... e tu sai perché». Il motivo del forzato silenzio non è esplicitato, ma lascia intravedere in filigrana il giudizio del dipendente sotto inchiesta su Palamara. E anche se, tra i suoi numerosi amici giornalisti, c'è chi ipotizza che Guadagno possa essere un «capro espiatorio», restano aperti alcuni quesiti: è stato lui a selezionare per i giornalisti il capitoletto contro l'ex consigliere di Palazzo dei marescialli? Oppure sono stati i cronisti a scegliere quella parte della richiesta? Ma soprattutto Guadagno, sempre che sia lui il «colpevole», ha fatto tutto da solo? La risposta dovrà darla la Procura di Perugia. 

Giacomo Amadori per “la Verità” il 19 luglio 2022.  

La presunta talpa della Procura di Perugia, al secolo il cinquantottenne casertano Raffaele Guadagno, sarebbe l'ideatore di una società oggi in liquidazione, la Nventa id srl di Todi, che a partire dal 2009 avrebbe fornito servizi di intercettazione e altri tipi di consulenza agli inquirenti del capoluogo umbro.

Presentando centinaia di migliaia di euro di fatture che sono state anche al centro di polemiche finite sui giornali e di attenzione da parte del Csm.

Socio di minoranza e amministratore unico della ditta è stato per anni Luigi Guadagno.

Quest' ultimo, classe 1974, è il fratello di quel Raffaele iscritto la settimana scorsa dal procuratore Raffaele Cantone sul registro degli indagati con l'accusa di accesso abusivo alle banche dati della Procura e rivelazione di segreto ad alcuni giornalisti. L'indagine adesso si sta allargando anche alla storia della Nventa. 

Dunque a Perugia avrebbero affidato a parenti e amici del presunto «spione» la gestione della delicatissima attività di intercettazione ambientale e di controllo Gps. Dal 2017 la collaborazione con la Procura del capoluogo umbro si sarebbe interrotta, ma nel frattempo la Nventa, anche dopo l'acquisto di un costoso software da 220.000 euro, avrebbe sopperito a questo problema, iniziando a fare intercettazioni telefoniche per altre 15-16 Procure. Il primo anno l'azienda ha incassato da vendite e prestazioni 249.000 euro di ricavi. Il doppio nel 2010. Da allora il valore della produzione è oscillato tra i 140.000 (dato più basso) e i 250.000 euro, con tre exploit: 450.000 euro (2015), 530.00 (2017), 440.000 (2018).

Poi il crollo del 2019 (53.000) e lo scioglimento. Nella ragione sociale della Nventa si legge che l'attività riguarda «noleggi, manutenzione e assistenza, computer e relativo software e altre apparecchiature elettriche ed elettroniche». 

La ditta è stata costituita il 17 gennaio del 2009 nello studio del notaio di Todi Salvatore Clericò con un capitale sociale di 100.000 euro. Le quote sono così ripartite: il 91% appartiene al ragioniere-commercialista Luigi Menghini, il 4% a testa a Guadagno jr e al compaesano Gianmaria Iaculo (sono entrambi di Santa Maria di Vico) e il resto a due nipoti di Menghini. Quasi subito, il 2 aprile 2009, la società, che non aveva certo ancora avuto il tempo di farsi conoscere, ottiene un incarico sostanziosissimo dalla Procura di Perugia nell'ambito del procedimento per la morte di Meredith Kercher che in quel momento vedeva imputati Rudy Guede, Amanda Knox e Raffaele Sollecito.

La Nventa è incaricata di realizzare «una ricostruzione animata in 4D dell'ambientazione e della scena del delitto». Nel pacchetto entrano anche un «dvd per speech support in formato Pal in ambito giudiziario» e la «progettazione e realizzazione database per supporto requisitoria pm». Il tutto alla modica cifra di 152.320 euro a cui bisogna aggiungerne 34.464 di Iva (per complessivi 182.784 euro). 

La consulenza sarebbe durata sino al novembre 2011 e la fattura porta la data del 2 febbraio 2010, spesa che il direttore amministrativo Stefania Miggiano della Procura liquida con bonifico esattamente un anno dopo, mentre il pagamento diventa esecutivo il 15 marzo 2011. Il decreto di liquidazione indennità è «a favore del dottor Luigi Guadagno, legale rappresentante della ditta Nventa Id». Il conto viene spedito a Sollecito e alla Knox nelle case circondariali di Perugia e Terni dove i due ragazzi erano rinchiusi in attesa di giudizio.

Il filmato della durata di circa mezz' ora venne utilizzato nel processo di primo grado e i magistrati Giuliano Mignini e Manuela Comodi, dopo averlo mostrato ai giudici a porte chiuse, non lo depositarono agli atti affinché non venisse divulgato. Panorama descriveva così l'opera: «Iniziava con alcune immagini tratte da Google maps per poi entrare dentro la villetta dove Amanda, Raffaele, Meredith e Rudy Guede, appaiono in forma stilizzata, come in un cartone animato. [] Nel video la studentessa inglese viene sbattuta contro il muro, aggredita da Amanda che impugna un coltello e da Raffaele che tenta di strapparle il reggiseno. Meredith crolla a terra, i due fidanzatini prendono i telefonini e scappano, mentre Rudy si porta le mani alla testa». I giudici stabiliranno che le cose non sarebbero andate così e per questo assolveranno Amanda e Raffaele, lasciando il conto da pagare allo Stato.

Nel 2012 «un gruppo di privati cittadini» inviò un esposto alla Corte dei conti per quella spesa e i giudici contabili aprirono un'istruttoria. L'allora procuratore regionale Agostino Chiappiniello ricorda con La Verità: «Non ci fu nessuna citazione in giudizio perché è stato ritenuto che far realizzare quel filmino rientrasse nella discrezionalità del magistrato». La Procura generale della Cassazione portò la Comodi davanti alla sezione disciplinare del Csm. 

L'accusa mossa al pm, secondo i giornali dell'epoca, sarebbe stata l'omessa motivazione della spesa nel decreto di pagamento e la conseguente «mancata applicazione dei criteri e tabelle predisposti per la corretta anticipazione della somma da liquidare». Nell'atto di incolpazione gli ermellini rilevavano che con tale condotta il magistrato avrebbe «arrecato un danno ingiusto all'Erario» che aveva anticipato «l'ingente somma». Il sostituto pg di Cassazione, Antonio Gialanella, in udienza, rilevò una «inescusabile negligenza» della pm, sollecitando la sanzione, seppur lieve, dell'ammonimento.

La sezione disciplinare del Csm assolse la Comodi, escludendo sue responsabilità. Il socio di maggioranza della Nventa, Menghini, con La Verità nega di aver speculato sul prezzo: «Noi abbiamo pagato le parcelle di otto ingegneri e alla fine l'utile per la società è stato di 14.000 euro. All'inizio avevamo chiesto 220.000 euro. Poi, dopo alcune trattative, siamo scesi». Quindi continua: «I due magistrati venivano a controllare il lavoro e spesso ci dicevano che non andava bene. "Voi dovete dimostrare la tesi della Procura e non altro" ci spiegavano».

Ricorda anche le trattative con la Comodi: «Le dissi che avevamo risolto tutti i problemi e che avevamo trovato dei giornali disposti a sponsorizzare la realizzazione del filmato. Lei rispose che non eravamo al mercato e che quando si lavora per la Procura si lavora solo per questa. Alla fine pattuimmo 150.000 euro più Iva». 

La società aveva già realizzato un'altra ricostruzione video di un omicidio per la stessa Procura. Mentre le ultime collaborazioni risalgono al 2017: la Nventa ha gestito tre localizzatori Gps di quelli che si collocano sotto le auto e uno di questi era collegato a una microspia. Questi incarichi sono stati affidati dal procuratore aggiunto Giuseppe Petrazzini. Menghini assicura di non essere un prestanome, bensì di essere colui che ha messo i soldi: «Loro non avevano una lira. E adesso sto pagando 450.000 euro di perdite per non fallire». 

Quindi ammette: «L'idea della società non è stata mia. Io sono stato chiamato per fare questo lavoro, perché io, facendo il commercialista, di Procure, di intercettazioni nulla sapevo e poco so ora». L'idea della Nventa sarebbe stata di Raffaele Guadagno: «Ammetto che abbiamo iniziato grazie a delle conoscenze, ma poi abbiamo dimostrato di saper lavorare. Lui non lavorava per sé.

Quando ha parlato con me ha chiesto solo di coinvolgere suo fratello e un amico, Gianmaria Iaculo, che produceva Gps e si occupava di ambientali». Menghini ricorda anche il primo incontro con il procuratore Nicola Miriano, di cui Guadagno era il cancelliere di fiducia: «Mi disse si ricordi bene una cosa: qui si lavora non perché siamo amici di quello e di quell'altro se ciò che fate è valido lavorate, se non lo è la mattina dopo andate a casa». Alla fine hanno resistito dentro al Palazzo per almeno otto anni. Menghini oggi è molto arrabbiato con i fratelli Guadagno. E su Raffaele conclude: «L'errore che ha fatto è aver iniziato a scrivere libri. Gli è partita la testa». 

Giacomo Amadori per “La Verità” il 20 luglio 2022.

Per capire qualcosa in più dell'affaire della presunta talpa della Procura di Perugia, l'ex cancelliere che, secondo gli inquirenti umbri, scaricava file riservati e li distribuiva (anche) ai giornalisti, bisogna fare un salto nell'area industriale di Todi, in provincia di Perugia. 

Nella frazione di Ponterio si trova l'appartamento del cinquantottenne Raffaele Guadagno, impiegato dell'ufficio esecuzioni della Procura. Il condominio, moderno e piuttosto anonimo, da giorni ha le finestre oscurate e la tenda da sole abbassata. È qui che l'11 luglio scorso si è recato il procuratore Raffaele Cantone per seguire personalmente la perquisizione del collaboratore. 

Esattamente di fronte si trova un altro indirizzo importante nella nostra spy story. In una piccola palazzina color mattone ha sede la società Nventa, la ditta di intercettazioni telefoniche ideata da Guadagno e sino al 2017 guidata dal fratello Luigi, amministratore e socio prima al 33 per cento, poi al 50 infine al 6.

Oggi l'azienda è in liquidazione e le quote sono passate quasi interamente al ragioniere Luigi Menghini, settantunenne tuderte, dopo un discusso aumento di capitale. «Ce lo richiese una banca finanziatrice e visto che loro non si sono resi disponibili l'ho fatto da solo. Ma subito dopo Luigi, visto che non era più socio alla pari, si è completamente allontanato». 

Si è passati così alle carte bollate. Guadagno jr ha fatto un arbitrato per ottenere le proprie spettanze (circa 140.000 euro) e Menghini ha risposto a colpi di decreti ingiuntivi per avere indietro parte delle rate dei mutui che sta pagando. Eppure nel 2009 la partenza era stata molto promettente, sebbene la Nventa non avesse esperienza nel settore, non possedesse il nulla osta di sicurezza (nos) e avesse un imputato di favoreggiamento nella compagine sociale. 

Oggi al piano terra della ditta sono rimaste due stanze piene di materiale inutilizzato e ormai obsoleto: gps, computer e microspie. Nessuno opera più. Menghini sta solo cercando di incassare le ultime fatture del lavoro che fu. Tutto era iniziato quasi per caso. Raffaele Guadagno aveva iniziato a frequentare lo studio di Menghini per alcuni problemi con la ditta di maglieria della moglie. I conti non tornavano più e i coniugi non riuscivano più a pagare il mutuo. La signora Valeria si trasferì per motivi professionali in Bulgaria e in quei mesi difficili il ragioniere e il cancelliere divennero amici.

Sino a quando Guadagno lanciò un'idea: realizzare una ditta di intercettazioni partendo dai gps e dalle microspie di ultima generazione trattate da un compaesano di Santa Maria di Vico, Gianmaria Iaculo. 

Menghini insieme con due nipoti, Luigi Guadagno e Iaculo diventarono soci al 33 per cento con un capitale di 12.000 euro. «Raffaele ci ha dato l'input per fare la società e ci ha accompagnato dentro la Procura di Perugia per alcuni incontri, in particolare quello iniziale con il procuratore Nicola Miriano» ricorda Menghini.

Che però evidenzia come i rapporti con quasi tutte le altre Procure che diventarono clienti non fossero gestiti da Raffaele: «Lui non veniva con noi. Ci muovevamo io e suo fratello. E quando andavamo alla ricerca di incarichi non ci rapportavamo direttamente con i magistrati, ma ci facevamo conoscere dalle forze dell'ordine illustrando i nostri prodotti e servizi». 

Nella brochure di presentazione dell'attività, erano elencate le Procure presso le quali erano accreditati. Una lista di 20 uffici: Perugia, Terni, Spoleto, Arezzo, Viterbo, Trani, Lagonegro, Napoli, Benevento, Avellino, Macerata, Forlì, Urbino, L'Aquila, Trieste, Lanciano, Avezzano, Ascoli Piceno, Pescara e Bari. Le fatture sono intestate però a 34 uffici inquirenti. 

Tra questi ci sono anche Roma, Milano, Palermo, Catania, Bologna e Catanzaro oltre a Rossano Calabro per le intercettazioni dentro al supercarcere per terroristi. Potrebbe far sobbalzare sulla sedia qualche pm sapere che oggi l'ispiratore della ditta sia sotto inchiesta per rivelazione di segreto, ma all'epoca in tanti si affidavano a questa neonata società dai prezzi concorrenziali per fare intercettazioni telefoniche e ambientali.

«A Lanciano, Urbino e Rieti abbiamo vinto la gara» ricorda Menghini. Cioè lavoravano quasi in esclusiva. Ma la vera gallina dalle uova d'oro è stata Perugia. In base ai bilanci che ci ha mostrato il ragioniere 262.609 euro sarebbero arrivati (Iva esclusa) nel 2009, 302.522 nel 2010, 346.830 nel 2011. 

In quel periodo la Nventa produce anche una ricostruzione animata in 4D del delitto di Meredith Kercher che costa 152.000 euro e suscita molte polemiche. A conferire l'incarico e a finire per questo sotto procedimento disciplinare è stata la pm Manuela Comodi, che è stata prosciolta sia dal Csm che dalla Corte dei conti.

Anche il fidanzato della Comodi, Umberto Rana, ex presidente della sezione fallimentare del Tribunale, aveva rapporti di lavoro con Menghini a cui affidava incarichi di curatore fallimentare. Rana è imputato a Firenze per corruzione, falso ideologico e abuso d'ufficio e al Csm è incolpato a livello disciplinare per aver mancato ai doveri di correttezza (in un'intercettazione si sarebbe anche preoccupato per la nomina della fidanzata ad aggiunto di Perugia). 

«Non credo alle accuse che gli hanno rivolto. Con me si è sempre comportato in modo regolare» assicura il ragioniere. Che aggiunge: «Ai tempi del video sull'omicidio Kercher un giornalista chiamò la Comodi davanti a me per chiederle se fosse al corrente dei miei precedenti. E lei rispose che conosceva benissimo i propri collaboratori» rammenta con riconoscenza Menghini.

Il quale, in effetti, mentre lavorava con la Procura di Perugia, era sotto processo in Lombardia per il presunto favoreggiamento di alcuni coimputati accusati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata ai danni dell'Erario, al contrabbando e alla falsità ideologica. Menghini è stato anche 21 giorni in prigione, un'esperienza che oggi sdrammatizza con una ricca aneddotica da reduce. Nel 2008, dopo la modifica delle imputazioni era stato condannato a 1 anno e 6 mesi. 

Per i giudici avrebbe fatto sparire e contraffatto alcuni documenti contabili. Contestazione sempre respinta da Menghini, che in vista dell'Appello cambiò difensore e ingaggiò Chiara Lazzari, moglie dell'allora procuratore di Urbino Alessandro Cannevale (già pm a Perugia e dal 2015 a capo degli inquirenti di Spoleto), il magistrato che nel 2018 ha firmato la prefazione del primo libro di Guadagno, Il Divo e il giornalista. 

Fu l'ex cancelliere a presentare all'amico ragioniere la Lazzari, che oggi difende proprio la presunta «talpa». Il secondo grado di Menghini non andò meglio del primo e nel luglio del 2011 arrivò la conferma della condanna. Successivamente il professionista ha usufruito della prescrizione del reato.

Nel 2012 la collaborazione della Nventa con la Procura di Perugia rallenta. Infatti, pochi mesi prima, tra settembre e novembre 2011 si era svolta una gara per l'aggiudicazione del servizio di intercettazioni. Per concorrere la Nventa dovette allearsi con una società lombarda che aveva l'indispensabile nos, di cui la ditta di Todi era sprovvista. Ma alla fine la gara venne assegnata alla società Area Spa. Così nel 2012 da Perugia arrivano solo 60.000 euro, meno di 4.000 tra il 2013 e il 2015. 

Le commesse calano, ma aumentano i clienti: Spoleto, L'Aquila, Benevento, Pesaro, Arezzo, Urbino, Avezzano. Nel 2014 gli incarichi valgono 310.000 euro, poco meno nel 2015. Un anno dopo gli introiti che arrivano dalle Procure salgono a 508.000 euro e Perugia torna a far lavorare la Nventa liquidando 107.000 euro. Nel 2017, l'ultimo anno di attività effettiva, su 583.000 euro di fatture, il 38 per cento (222.800 euro) viene saldato da Urbino, il 24 da Lanciano (143.500), il 14 da Perugia (81.700) e l'11 da Spoleto (67.700). Nel 2018, invece, la ditta ottiene il pagamento di circa 450.000 euro di parcelle arretrate, di cui 132.675 da Perugia e ben 185.000 da Urbino. 

In tutto dalla Procura del capoluogo umbro sarebbero confluiti nelle casse della Nventa circa 1,3 milioni di euro, iva esclusa. A fronte di questi incassi non sarebbero mancati disservizi e problemi tecnici. Menghini ammette: «Il nostro amministratore ha mancato qualche appuntamento. Si comportava più come un dipendente che come un imprenditore. Per quanto riguarda la tecnologia non siamo riusciti ad adeguarci al 5g, ma i nostri prodotti sono stati concorrenziali sino alla fine del 2017». Il ragioniere di Todi è pentito di questa avventura? «Mi sono infilato in questa storia perché mi sembrava di fare un po' lo 007» confida con un sorriso dolceamaro.

(ANSA il 22 luglio 2022) - Ci sarebbe stato un incontro tra uno dei legali di Luca Palamara e il cancelliere della Procura di Perugia Raffaele Guadagno, indagato per rivelazione di segreto d'ufficio e accesso abusivo a sistema informatico dopo la pubblicazione su alcuni giornali della richiesta di archiviazione relativa alla cosiddetta loggia Ungheria. 

Circostanza sulla quale l'ex consigliere del Csm, al centro di diverse indagini e processi nel capoluogo umbro, sono stati sentiti dal procuratore Raffaele Cantone. La notizia e' riportata oggi dal quotidiano la Verità che nei giorni scorsi avevano anticipato dell'incontro. 

Palamara e i suoi legali - viene riportato - hanno confermato di avere incontrato il cancelliere dopo l'estate 2021, anche se sulla data non ci sarebbe certezza. Guadagno - in base a quanto emerso finora - avrebbe riferito ora di alcune vicende interne alla Procura.

Come una richiesta di astensione del sostituto Gemma Miliani all'allora procuratore De Ficchy e di un'altra questione riguardante l'altro magistrato Mario Formisano, entrambi co-titolari dei fascicoli su Palamara e sulla fuga di notizie. L'Ufficio guidato da Cantone sta ora svolgendo accertamenti per stabilire con certezza se l'incontro, che finora non sarebbe emerso da alcuna indagine, ci sia stato e i suoi eventuali contenuti.

Intanto - secondo quanto risulta all'ANSA - l'indagine sulla fuga di notizie sta andando a ritroso. Starebbero infatti emergendo centinaia di accessi abusivi da parte di Guadagno ad alcuni dei più significativi fascicoli della Procura di Perugia. 

Fonti inquirenti parlano di un uno "spaccato inquietante". Le stesse fonti evidenziano i "tempi particolarmente rapidi" dell'indagine sulla fuga di notizie e gli elementi "documentali" acquisiti. I magistrati intendono ora accertare se il cancelliere abbia agito per curiosità professionale o sia legato ad altri.

(ANSA il 22 luglio 2022) - Conferma di essere stato sentito ieri dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone, davanti al quale dice di avere "chiarito tutti i fatti" a sua conoscenza in relazione alla vicenda del cancelliere della Procura di Perugia, Raffaele Guadagno, l'ex magistrato Luca Palamara. 

L'incontro è avvenuto a Roma, alla presenza dei legali dell'ex consigliere del Csm che hanno confermato anche loro lo "svolgimento di un atto istruttorio". Palamara non è voluto entrare nel merito della vicenda ma ha spiegato che l'attività svolta dal suo legale rientra "nell'ambito di indagini difensive".

"Ho sempre agito - ha detto - nella convinzione che le procure competenti faranno uscire il reale accadimento dei fatti ed il tentativo di screditamento della mia persona". "Il nostro assistito ha chiarito ogni aspetto della vicenda" il commento degli avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, difensori di Palamara. 

"I temi affrontati - aggiungono in una nota - sono noti a livello processuale atteso che sulle anomalie del trojan stanno indagando ben due procure (Napoli e Firenze). Sul fronte della fuga di notizie rileviamo come il dott. Palamara sia stato l'unico a denunciare le ripetute violazioni che si sono succedute dal 29 maggio 2019 con denuncia alla Procura di Firenze.

Anche questa volta la sua iniziativa è stata tempestiva avendo depositato già l'11 luglio 2022 ulteriore denuncia alla Procura di Firenze. Confidiamo che sia fatta piena luce su tutta la vicenda nell'interesse in primo luogo della giustizia e del nostro assistito".

Giacomo Amadori per “La Verità” il 22 luglio 2022.  

La Procura di Perugia ha messo il turbo. Il capo degli inquirenti umbri Raffaele Cantone sta mostrando ai suoi predecessori come si indaga su una fuga di notizie. E ieri ha interrogato a Roma Luca Palamara su un nostro scoop. 

Confermato a verbale dall'ex presidente dell'Anm, il quale era accompagnato dai suoi avvocati, Roberto Rampioni e Benedetto Buratti, quest' ultimo testimone diretto della vicenda di cui si è discusso. 

In questi giorni abbiamo raccontato ai nostri lettori la storia della presunta talpa di Perugia, al secolo Raffaele Guadagno, cinquantottenne dipendente dell'ufficio esecuzioni della Procura, sospettato di aver scaricato file coperti da segreto, come la richiesta di archiviazione per i presunti grembiulini della loggia Ungheria, e di averli consegnati ai giornalisti.

Sabato abbiamo anche rivelato che Guadagno avrebbe incontrato l'avvocato Buratti per riferirgli presunti segreti sull'inchiesta che riguardava Palamara. In particolare, che esisterebbero una richiesta di astensione della pm Miliani, respinta dall'ex procuratore Luigi De Ficchy, e una fantomatica trascrizione delle chiacchiere scambiate durante la cena del 9 maggio 2019 da Mamma Angelina, ristorante in cui il procuratore Giuseppe Pignatone ha cenato con Palamara e un lobbista indagato per la loggia. La versione ufficiale è che il trojan quella sera non funzionò. Quella di Guadagno (a detta di Palamara) che invece sarebbe stata occultata. 

Per questi incroci pericolosi tra procedimenti diversi, l'ex pm è stato interrogato per un paio d'ore come indagato di procedimento connesso: «Ho chiarito davanti all'autorità giudiziaria tutti i fatti di mia conoscenza relativi alla vicenda Guadagno già anticipati dalla Verità» ci ha confermato Palamara. 

L'ex pm ha raccontato a Cantone l'origine del colloquio del suo avvocato con Guadagno: l'ex cancelliere è assistito da Chiara Lazzari, la quale insieme con Buratti ha fatto parte del pool di legali del processo Cepu.

L'incontro con il dipendente della Procura sarebbe avvenuto nell'ambito delle indagini difensive legate al trojan. Durante l'interrogatorio di ieri sarebbe stata individuata la data esatta del faccia a faccia presso lo studio Lazzari tra Buratti e Guadagno: 7 gennaio 2022. 

A verbale sono stati ricostruiti anche alcuni precedenti scambi di informazioni tra avvocati che avrebbero portato i difensori di Palamara a interloquire con la Procura tramite istanze, come quella presentata il 17 settembre 2021 per sapere se De Ficchy avesse fatto richiesta di astensione in considerazione dei rapporti con uno dei coimputati di Palamara, il pierre Fabrizio Centofanti. Buratti, mentre il suo assistito verbalizzava, non ha smentito le parole dell'ex magistrato.

Conclude Palamara: «Perché non ho fatto il matto a quattro dopo aver ricevuto certe notizie? Perché di storie strane nella mia vicenda ne ho sentite tantissime. Ma poi c'è bisogno delle prove. Io ho sempre confidato e confido che siano gli uffici competenti ad accertare il reale accadimento dei fatti».

Il cancelliere Guadagno ha contattato i legali dell’ex leader dell’Anm. Rivelazione della talpa di Perugia: “Contro Palamara fu un complotto”. Paolo Comi su Il Riformista il 23 Luglio 2022 

Raffaele Cantone ha deciso di imprimere un’accelerazione alle indagini sulla fuga di notizie avvenuta nei giorni scorsi sulla richiesta di archiviazione, quasi 180 pagine, del procedimento sulla Loggia Ungheria. Dopo aver iscritto a tempo di record il cancelliere Raffaele Guadagno, accusato di aver passato l’atto riservato al Corriere e a Repubblica, e prima ancora al Fatto Quotidiano, il numero uno della Procura del capoluogo umbro si è recato giovedì scorso a Roma per interrogare in gran segreto presso gli uffici del comando provinciale dei carabinieri l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, persona danneggiata dalla fuga di notizie. Guadagno, stando a quanto reso noto da Cantone, si sarebbe introdotto senza averne titolo all’interno del sistema informatico della Procura di Perugia, scaricando alcuni documenti, tra i quali appunto quelli relativi all’archiviazione del fascicolo sulla Loggia Ungheria che conteneva anche una nuova indagine per corruzione nei confronti Palamara.

I destinatari delle informazioni, coperte dal massimo riserbo, erano stati gli stessi quotidiani, i quali per l’occasione hanno pubblicato articoli ‘fotocopia’, che nel maggio del 2019 fecero lo scoop sul Palamaragate, riportando in tempo reale e a indagini in corso le trascrizioni dei colloqui registrati con il trojan inserito nel cellulare di Palamara. “Un fatto gravissimo”, aveva detto immediatamente Cantone, procedendo subito all’individuazione della ‘talpa’, a differenza di quanto accaduto nel 2019. In quell’anno, infatti, la Procura del capoluogo umbro, all’epoca guidata dal procuratore Luigi De Ficchy, prossimo alla pensione per raggiunti limiti di età, non fece nulla per scoprire chi fosse stato il ‘postino’ che consegnò gli atti ai giornali, utilizzati, secondo Palamara, per bloccare la nomina di Marcello Viola alla Procura di Roma e stroncare Magistratura indipendente, la corrente di destra, fino a quel momento maggioranza a Palazzo dei Marescialli. Guadagno, prima della fuga di notizie dell’altra settimana, avrebbe tentato un approccio con i legali di Palamara per fornirgli le prove di un complotto a suo danno.

Si trattava, nello specifico, di informazioni particolarmente importanti, come la richiesta di astensione avanzata dalla pm Gemma Miliani, che insieme a Mario Formisano, sta rappresentando l’accusa nel processo per corruzione a carico di Palamara, e respinta da De Ficchy, e l’esistenza di una trascrizione della famosa cena del maggio del 2019 presso il ristorante Mamma Angelina ai Parioli tra l’ex capo dell’Anm e il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Trascrizione che è stata negata dai pm che hanno sempre respinto quanto affermato in senso contrario dai consulenti della difesa di Palamara che, a tal riguardo, aveva depositato una relazione da cui emergeva che il trojan fosse stato in funzione durante tutta la serata. Se fosse vero che questa trascrizione, sempre negata, è realmente esistita, nei confronti dei pm umbri sarebbe difficile non aprire una indagine. E certamente non potrebbe essere, per ovvi motivi, la stessa Procura di Perugia ad effettuarla. Se, di contro, Guadagno si fosse inventato tutto, allora i pm umbri sarebbero persone “offese” in quanto oggetto di una gravissima calunnia. Ed anche in questo caso non potrebbe essere Perugia ma Firenze, secondo le regole sulla competenza, a svolgere gli accertamenti.

Come mai, invece, sta procedendo Cantone? E soprattutto, cosa sta facendo la Procura di Firenze dove dal 2020 è pendente una denuncia di Palamara proprio a proposito delle fughe di notizie che hanno contraddistinto l’indagine nei suoi confronti? Cosa è stato fatto in questi anni dal procuratore Luca Turco, attuale facente funzioni dopo il trasferimento di Giuseppe Creazzo, titolare del dossier? La vicenda ha tutti i connotati di una spy story dal finale imprevedibile. L’unico elemento certo, ad oggi, è il canale privilegiato che alcuni giornalisti, sempre gli stessi, hanno avuto (ed hanno) con personale giudiziario e delle forze di polizia allo scopo di destabilizzare l’organo di autogoverno delle toghe. Come accaduto nel 2019. Tornando alla testimonianza di Palamara, “il nostro assistito ha chiarito ogni aspetto della vicenda”, è stato il commento ieri dei suoi difensori, gli avvocati Benedetto Mazzocchi Buratti e Roberto Rampioni. “I temi affrontati – hanno aggiunto – sono noti a livello processuale atteso che sulle anomalie del trojan stanno indagando le Procure di Napoli e Firenze”. Paolo Comi

Luca Fazzo per “il Giornale” l'11 luglio 2022.

È l'altra faccia del «Sistema», la fuga di notizie utilizzata come arma impropria per indirizzare il corso e l'impatto delle indagini giudiziarie. Male atavico e inestirpabile contro il quale si trova ieri a fare i conti Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, che vede la notizia - in teoria segreta - di una nuova indagine a suo carico approdata sulle pagine di due quotidiani. I giornalisti hanno fatto il loro mestiere, chi gli ha passato le carte no.

Palamara sembra non avere dubbi: è stata la Procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, la stessa Procura che indaga su di lui mentre invece - è notizia di tre giorni fa - decide di archiviare l'inchiesta sulla loggia Ungheria, ritenendo non riscontrate le dichiarazioni del pentito Piero Amara sulla presunta congrega di magistrati, politici e generali. Mentre invece per indagare Palamara le dichiarazioni di Amara vanno benissimo.

Nel caso specifico, Amara accusa Palamara di essere intervenuto su un giudice di Cassazione a favore del pm siciliano Maurizio Musco, che era sotto processo per corruzione. Il giudice di Cassazione, Stefano Mogini, interrogato da Perugia, dice che in effetti Palamara gli chiese delle informazioni. E Amara dice che per l'interessamento «Palamara gli fece capire che avrebbe gradito un orologio d'oro da trentamila euro per la sua compagna».  Orologio mai arrivato.

Ma a Perugia l'inchiesta va avanti. Il vero problema è che queste carte sono contenute nei quattordici faldoni che la Procura di Perugia ha inviato al giudice preliminare per chiedere l'archiviazione della indagine «Ungheria». Non le hanno gli avvocati, non le ha la polizia giudiziaria, le hanno solo i magistrati. 

Ieri Cantone comunica l'apertura di una indagine sulla fuga di notizie, sostenendo che la Procura di Perugia è la vera vittima della violazione del segreto, «faremo tutto il possibile per accertare da dove sia uscita». Ma vittima e colpevole potrebbero, se ha ragione Palamara, coincidere. E con quale credibilità la magistratura del capoluogo umbro potrebbe indagare su se stessa?

Non è un caso isolato, negli ultimi decenni tutte le inchieste sulle fughe di notizie sono state condotte dalle stesse Procura dove le fughe erano avvenute, e infatti nessun colpevole è stato mai individuato. Spesso non si trattava di notizie scivolate dal segreto per caso, leggerezza, simpatia, ma di operazioni decise a tavolino con fini precisi. 

Ieri, dopo lo scoop sui suoi nuovi guai, Palamara va giù pesante: parla di «una giustizia che si serve dei giornali di riferimento per cecchinare il nemico di turno», allo stesso modo in cui «nel maggio 2019 la pubblicazione di intercettazioni non depositate ha consentito a una corrente della magistratura di gestire il potere per quattro anni».

La «manina» che passa le carte ai giornali, sostiene Palamara, non lo fa perché ha a cuore la libertà di informazione ma perché sa che la campagna mediatica è funzionale alla battaglia giudiziaria. Le dichiarazioni di Amara vengono usate «per salvare i processi a mio carico», dice l'ex magistrato, come a Milano vennero usate per cercare di affossare un giudice scomodo e salvare i processi Eni. «Oggi si ripete la stessa storia», dice Palamara.

Il problema è che nessuno sa quante altre storie siano contenute, pronte ad esplodere, nei faldoni di Perugia che dovevano essere segreti ma evidentemente non lo sono più. Cosa aspetta il ministro Cartabia, chiede alla fine Palamara, a mandare i suoi ispettori nella Procura umbra?

Alessandro Da Rold per “La Verità” il 21 luglio 2022

Era l'11 settembre del 2014 quando il Corriere della Sera dava in prima pagina, a caratteri cubitali nel taglio del quotidiano, la notizia che l'amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi si trovava sotto inchiesta per una tangente da più di un miliardo di euro legata all'acquisizione della licenza petrolifera Opl 245 in Nigeria. 

A distanza di quasi otto anni, il quotidiano di via Solferino ha dedicato uno spazio di gran lunga minore alla notizia dell'assoluzione definitiva del manager del Cane a sei zampe. Eppure, martedì la Procura generale di Milano ha preso una posizione molto netta sul processo che avrebbe dovuto dimostrare la corruzione di una delle aziende più importanti di questo Paese. 

Il procuratore generale Celestina Gravina ha deciso di rinunciare al ricorso e ha ribadito come, nel procedimento, non ci fosse «prova dell'accordo per una corruzione» o «pagamento di un'utilità corruttiva». E ha insistito sul fatto che il processo non andava neppure celebrato. Men che meno l'appello, anche perché non esistono nuovi elementi «per sostenere l'accusa». 

Quindi un eventuale ricorso non avrebbe avuto alcuna forza «per un eventuale ribaltamento del principio dell'oltre ragionevole dubbio». 

Per il Corriere, però, questa presa di posizione si vede che non è bastata per dimostrare l'inutilità di un nuovo appello dopo l'assoluzione di tutti gli imputati in primo grado «perché il fatto non sussiste».

Così nel pezzo di cronaca di ieri, il quotidiano di via Solferino ha comunque voluto ribadire come «di certo la scelta della pg è intanto un peccato. Un'occasione persa persino per gli imputati, perché finisce per indebolire la considerazione dell'assoluzione di primo grado, che invece da un vaglio e da una riconferma in Appello sarebbe uscita rafforzata, magari anche nelle aspre critiche ai due pm indagati intanto per non aver depositato prove favorevoli alle difese».

In via Solferino, alle prese con il nuovo capo della Procura Marcello Viola, forse non si sono resi conti che le tesi di Celestina Gravina non sono esattamente un caso isolato. Non tanto in Italia, quanto nel mondo intero. È lunga la lista dei Paesi che si sono espressi su quella che veniva considerata come la tangente del secolo. Negli Stati Uniti la Sec (Securities and exchange commission) già due anni fa aveva chiuso le sue indagini senza portare avanti altri procedimenti contro Eni e Shell.

Negli ultimi mesi la corte inglese, il giudice Sara Cockerill, si è pronunciata a favore di Jp Morgan Chase nella causa da 1,7 miliardi di dollari promossa dal governo nigeriano rispetto al presunto ruolo della banca d'affari nelle trattative di acquisizione della licenza petrolifera nel 2011. L'alta corte di giustizia del Regno Unito ha ribadito la sua decisione lo scorso 7 luglio, impedendo al governo federale nigeriano di appellarsi alla sentenza. Proprio come sostenuto dal procuratore generale Gravina, anche l'alta corte ha affermato che non vi era «alcuna prospettiva reale» di ribaltare la sentenza.

E ha stabilito una volta per tutte che non c'erano prove che la Nigeria fosse stata truffata nell'accordo tra Eni, Shell e Malabu. C'è poi da ricordare che su Opl 245 non è mai iniziato alcun processo in Olanda, dove la compagnia petrolifera Shell non è mai finita sotto accusa. Gli olandesi, infatti, hanno sempre preso tempo in questi anni, stando ben attenti a mettere sotto accusa un'azienda strategica come Shell. Persino l'alta corte federale di Abuja in Nigeria si è più volte espressa contro le ipotesi di corruzione nella vicenda. 

Nel 2018 aveva già stabilito che l'ex ministro di giustizia Adoke Bello non poteva essere ritenuto personalmente responsabile per quanto riguardava i pagamenti a Malabu perché stava semplicemente eseguendo le legittime direttive e approvazioni del presidente Goodluck Jonathan. L'ultima decisione di Abuja è di poche settimane fa. I giudici nigeriani hanno ribadito di non riuscire «a vedere alcun fatto a sostegno della tesi che i soldi siano il risultato di attività illegali».

In sostanza, la corte nigeriana ha escluso che vi siano evidenze di provenienza illecita dei fondi. La repubblica nigeriana aveva presentato ricorso per ottenere in via di urgenza il sequestro delle somme depositate presso conti correnti in banche svizzere, anche questo sulla base dell'attività della Procura di Milano, dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. In questi anni l'unica sentenza di condanna è stata quella nel processo abbreviato a carico di Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, i presunti intermediari della mazzetta. Anche questa è stata ribaltata in appello. Non è rimasto più nulla dal punto di vista giudiziario.

Lo strano caso della talpa a Perugia che colpisce solo Luca Palamara. L’ultima fuga di notizie sulle indagini che riguardano l’ex consigliere del Csm è legata a filo doppio con quella, più clamorosa, del 2019. Palamara conferma a Cantone l'incontro con Guadagno. Il dipendente della procura è solo un capro espiatorio? Simona Musco su Il Dubbio il 22 luglio 2022.

C’è qualcosa che non torna nella vicenda della talpa di Perugia che ha inviato alla stampa le notizie sulla nuova indagine a carico di Luca Palamara. Una storia torbida, che si incastra nella più ampia telenovela iniziata il 29 maggio 2019, quando su Corriere e Repubblica vennero pubblicati i contenuti delle intercettazioni della cena all’Hotel Champagne sul cosiddetto “mercato delle toghe”, che causò una slavina di scandali sul Csm, portando alle dimissioni di diversi consiglieri e alla modifica degli equilibri di potere all’interno di Palazzo dei Marescialli.

Oggi come allora, ad indagare sulle attività dell’ex presidente dell’Anm è la procura del capoluogo umbro, all’epoca guidata dal procuratore Luigi De Ficchy. Che però non mosse un dito per scoprire da chi fossero partite le veline ai giornali, servite, secondo Palamara, a bloccare la nomina di Marcello Viola alla procura di Roma e ridurre il potere delle correnti della magistratura fino a quel momento più potenti. Ora, invece, Raffaele Cantone non ha perso un secondo di tempo: due giorni dopo la pubblicazione di stralci della richiesta di archiviazione dell’inchiesta sulla Loggia Ungheria, l’ex presidente dell’Anac ha iscritto sul registro degli indagati un dipendente amministrativo, Raffaele Guadagno, scrittore di libri gialli nel tempo libero e autore, secondo la procura, della clamorosa fuga di notizie che ha avuto come protagonista Palamara.

Guadagno, stando a quanto reso noto dalla procura, avrebbe fatto accesso abusivamente al sistema informatico della procura, scaricando alcuni documenti, tra i quali quelli relativi alla nuova indagine sull’ex toga. E a ricevere le informazioni scottanti, ancora una volta coperte da segreto, sono stati gli stessi due quotidiani, che hanno pubblicato due articoli praticamente identici sul caso. «Un fatto gravissimo», ha tuonato Cantone, palesemente infastidito dalla falla interna alla sua procura. Ma quella del maggio 2019 rimane la fuga di notizie più clamorosa: una vera e propria violazione del segreto istruttorio rimasta impunita, nonostante da due anni la procura di Firenze – alla quale Palamara si è rivolto per scoprire di chi fosse la “manina” – stia indagando sulla vicenda. L’ex pm romano non si è arreso e il nuovo fuggi fuggi di carte gli ha fornito l’occasione per rivolgersi ancora alla procura ora retta dall’aggiunto Luca Turco, sperando, questa volta, di avere risposte. Risposte che pretende anche dal ministero della Giustizia, al quale ha chiesto l’invio degli ispettori per chiarire cosa si agiti negli uffici giudiziari del capoluogo umbro. Anche perché l’idea che a gestire questo traffico di informazioni – finalizzato finora a colpire sempre la stessa persona – sia stato un dipendente amministrativo convince poco l’ex consigliere del Csm. Persuaso sempre di più che dietro ci siano ben altri mandanti, da individuare nel mondo della magistratura.

Guadagno sembra, anzi, la vittima sacrificale ideale in questa vicenda: i suoi contatti con i giornalisti non sono un mistero e creano le condizioni perfette per rendere il sospetto sempre più fondato. Il quotidiano La Verità, nei giorni scorsi, ha reso noti molti particolari della vicenda, in seguito alla quale il dipendente della procura di Perugia ha accusato un malore che lo ha costretto al ricovero in ospedale. Un vero e proprio “sputtanamento” fatto di dettagli scabrosi sulle sue attività all’interno degli uffici giudiziari, compreso il presunto tentativo di fornire a Palamara prove di un complotto a suo danno. Si tratta, nello specifico, di tre informazioni, che Guadagno avrebbe offerto ad un intermediario, ovvero uno dei suoi avvocati. Si tratta di segreti importantissimi: la richiesta di astensione avanzata dalla pm Gemma Miliani – che rappresenta l’accusa nel processo per corruzione a carico di Palamara – e respinta da De Ficchy, le informazioni fornite dall’altro pm, Mario Formisani, all’ex procuratore di Perugia, andato in pensione a fine maggio 2019, e, soprattutto, l’esistenza di una trascrizione della famosa cena tra Palamara e Giuseppe Pignatone, registrazione misteriosamente scomparsa e la cui sussistenza è stata sempre negata dagli inquirenti. Palamara era però già informato di quei fatti, informazioni raccolte nell’ambito dell’attività difensiva legata all’utilizzo del trojan inoculato nel suo cellulare svolta dai suoi legali. Trojan sul quale l’ex consigliere del Csm non ha mai nascosto i suoi dubbi: serviva, a suo dire, per provocare un terremoto.

Qual è, dunque, il ruolo di Guadagno in questa vicenda? Che ruolo gioca nella guerra tra procure ormai senza quartiere? Proprio alla luce di queste consapevolezze, infatti, l’ex pm è convinto che il dipendente della procura di Perugia possa essere il capro espiatorio ideale per non scoprire mai la verità sulla fuga di notizie. Anche perché sono troppe le tracce lasciate in questa occasione: è possibile che qualcuno abbia usato le credenziali del dipendente per scaricare gli atti e girarle ai giornali incastrando un “semplice” amministrativo? E perché colpire solo Palamara e ignorare tutto il resto degli atti? Interpellato dal Dubbio, l’ex presidente dell’Anm si limita a ribadire di voler approfondire il tutto nelle sedi giudiziarie: «Chiarirò ogni cosa quando e se verrà chiamato», dice laconico. E proprio ieri è stato sentito da Cantone, al quale ha confermato la circostanza dell’incontro con Guadagno, avvenuto lo scorso 7 gennaio.  Forse il bubbone della procura di Perugia sta per esplodere.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 21 luglio 2022. 

L'immagine del paese che siamo non viene soltanto dal Parlamento di ieri, di cui il giornale offre dettagliati racconti, ma anche dal palazzo di giustizia di Milano, dove l'altro ieri la procuratrice generale ha rinunciato all'appello per la maxitangente Eni in Nigeria, roba da un miliardo di dollari. 

E infatti è una tangente che non esiste: i vertici dell'Eni, in particolare l'ex e l'attuale amministratore delegato, Paolo Scaroni e Claudio Descalzi, sono stati assolti l'anno scorso perché - formula tecnica - il fatto non sussiste. 

Intanto i due pm titolari dell'accusa, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, sono indagati a Brescia per aver omesso prove in favore degli imputati, e vedremo come va.

Stiamo parlando dell'Eni, politicamente l'azienda più importante del paese, di un'azienda strategica per gli interessi italiani nel mondo. Nel rifiutare l'Appello, la procuratrice ha detto che «il processo deve finire qui perché non ha fondamento», anzi «avrebbe dovuto essere fermato all'inizio», ma perlomeno adesso «dopo otto anni di altissimi costi e di gravi e ingiuste conseguenze reputazionali», e deve finire qui perché è figlio «della fantasia sfrenata dei pm», di «vicende buttate lì come una insinuazione» e perché l'appello è fondato su motivi «fuori dal binario di legalità».

Chi pensa che il nostro unico problema sia la politica, pensi anche a un ufficio giudiziario che per otto anni tiene al palo la più importante e strategica azienda del paese sulla base di fantasie sfrenate, e in nome di un'indipendenza che è diventata frivolo abuso di potere delle cui conseguenze non si è mai chiamati a rispondere.

Magistratura, Alessandro Sallusti: "Qui serve il lanciafiamme". Libero Quotidiano l'11 luglio 2022.

Qualcuno si ricorderà il caso della loggia Ungheria, una presunta associazione segreta svelata da un losco figuro specialista in avvelenamento di pozzi e verità a cui la magistratura per suo tornaconto a tratti ha dato grande credibilità, tale avvocato Pietro Amara, che entra ed esce dal carcere con la facilità con cui noi andiamo a cena la sera. Ecco, il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, ha letto le carte del dossier che per due anni era stato imboscato dalla procura di Milano - lo stesso per intenderci che ha messo nei guai Piercamillo Davigo per averlo divulgato - ed è giunto a una conclusione pazzesca. Di tutti i nomi e gli episodi citati da Amara, che riguardano magistrati, imprenditori e politici di chiara fama compreso l'ex premier Giuseppe Conte, l'unico che a suo avviso è fondato e ha rilevanza penale è quello che riguarda contatti inopportuni che Luca Palamara avrebbe avuto con altri colleghi.

Io ho un grande rispetto del dottor Cantone, ma se pensa che noi siamo tutti degli stupidi boccaloni si sbaglia di grosso. Lui può fare quello che crede, anche la figura del fesso di turno, ma c'è un limite a tutto. Amara è un cialtrone millantatore che mischia mezze verità a palesi menzogne su tutto ma non su Palamara, cioè non sul magistrato che con le sue rivelazioni ha messo alla berlina il magico mondo di Cantone e dei giornali che gli fanno da ufficio stampa.

Tempo fa un magistrato mi disse che nella ricostruzione degli ultimi quindici anni di vita della magistratura fatta da Palamara in due libri ci sono almeno una trentina di ipotesi di reato che riguardano il vertice di quella categoria ma che ovviamente nessuno, tantomeno Cantone, avrebbe mai e poi mai aperto neppure un fascicolo, come noto cane non mangia cane. La morale è che Cantone- integerrimo e libero magistrato - non indaga sui presunti reati raccontati con dovizia di particolari da Palamara, ma indaga Palamara per una ipotesi di reato sostenuta dal più grande mascalzone ballista già al servizio di procure che lo hanno usato per imbastire processi finiti in farsa. Io non sono l'avvocato di Palamara, ma se tra Palamara e Amara la nuova magistratura sceglie Amara e facendolo salva tutti i colleghi amici e complici, altro che riforma della giustizia. Qui non serve una legge, serve il lanciafiamme.

I legali di Palamara: «Procura di Perugia coinvolta nella fuga di notizie, intervenga il ministro Cartabia». Gli avvocati dell'ex presidente dell'Anm: «È indubbio che la stampa debba fare il proprio mestiere e pubblicare tutte le notizie di cui viene a conoscenza. Sorge pertanto spontanea una domanda: perché sempre gli stessi giornalisti e le stesse testate?» Il Dubbio il 12 luglio 2022.

«Prendiamo atto della attività che sta compiendo la Procura di Perugia in merito alla fuga di notizie (parziali e facilmente contestabili) che ha colpito, come in passato, il dottor Palamara. Tuttavia ribadiamo di aver presentato denuncia alla Procura della Repubblica di Firenze non che al capo dell’ispettorato del ministero della giustizia e del procuratore generale della cassazione affinché si faccia piena luce su quanto accaduto ritenendo competente la procura di Firenze anche in ragione del fatto che da quasi due anni svolge indagini sugli stessi giornalisti che oggi come nel maggio del 2019 hanno divulgato, interpretandole, notizie segrete». Lo scrivono in una nota i legali di Luca Palamara. 

«In quella occasione la pubblicazione servì a far dimettere i consiglieri di Unicost e Magistratura indipendente consentendo alla corrente di Area di gestire il mercato delle nomine nella attuale consiliatura. Oggi la pubblicazione serve a mettere le stampelle alla traballante indagine sulla loggia Hungaria che ha fatto figli e figliastri. È indubbio che la stampa debba fare il proprio mestiere e pubblicare tutte le notizie (complete e non interpretate) di cui viene a conoscenza. Sorge pertanto spontanea una domanda: perché sempre gli stessi giornalisti e le stesse testate? È stato il cancelliere o chi per lui spontaneamente a consegnare queste carte ai giornalisti o qualcuno gli ha chiesto di farlo? Come mai aveva il loro numero o gli ha fatto recapitare una pennetta?», chiedono i legali dell’ex presidente dell’Anm.

«La Procura di Perugia è sicuramente coinvolta e, pertanto, tutte le attività debbono essere compiute ex art. 11 c.p.p. a Firenze. Il nostro assistito tiene a precisare che andrà fino in fondo alla questione per capire le ragioni di questa fuga di notizie a suo danno e se vi siano complici ovvero mandanti, sicuro di dimostrare in ogni sede la calunnia di quanto stanno scrivendo», conclude la nota.

La Procura di Perugia nel caso. Fuga di notizia su Palamara, Cantone a caccia della talpa di Corriere e Repubblica. Paolo Comi su Il Riformista il 12 Luglio 2022 

Ormai è evidente: la Procura di Perugia è un ‘colabrodo’. Negli uffici giudiziari del capoluogo umbro, gli atti di indagine coperti dal segreto rimangono tali per non più di ventiquattro ore. L’ultimo caso ha riguardato la richiesta di archiviazione, depositata l’altra settimana, del procedimento sulla Loggia Ungheria ed il contestuale stralcio, con conseguente iscrizione nel registro degli indagati, di alcuni soggetti tirati in ballo da Piero Amara. Fra i malcapitati vi sarebbe anche l’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, già da tempo sotto il tiro della Procura del capoluogo umbro. Palamara, secondo le nuove accuse, avrebbe avvicinato un giudice della Cassazione a cui era stato assegnato un procedimento nei confronti di un amico di Amara, l’allora pm di Siracusa Maurizio Musco.

Per tenere sotto controllo lo stato di tale procedimento, Palamara avrebbe interessato, oltre al giudice, anche il presidente della Cassazione. Amara, da parte sua, avrebbe organizzato per Palamara una vacanza in uno chalet di un suo conoscente al Sestriere, mentre l’ex zar delle nomine gli avrebbe chiesto un orologio d’oro del valore di 30mila euro per la moglie. Il nuovo capo di imputazione, basato su dichiarazioni testimoniali non ancora contestate a Palamara, invece di rimanere segreto è finito quasi integralmente sul Corriere e su Repubblica con due articoli fotocopia pubblicati domenica scorsa. Il procuratore Raffaele Cantone, dopo aver letto i due quotidiani, ha fatto sapere di essere molto indignato, essendo la “vicenda di una gravità inaudita”. In pochi, infatti, avevano la disponibilità del fascicolo: Cantone, i suoi due sostituti coassegnatari, i pm Gemma Miliani e Mario Formisano, e il gip del tribunale di Perugia.

La polizia giudiziaria, ad iniziare dal Gico della guardia di finanza che ha curato le indagini, pur avendo chiesto gli atti, ufficialmente non aveva ricevuto mezzo foglio.

Subito è partita allora la solita girandola di procedimenti per capire di chi sia la ‘manina’ che ha passato gli atti al Corriere e a Repubblica. Visto che coloro che hanno maneggiato questo fascicolo, i magistrati con i rispettivi collaboratori, si contano sulle dita delle mani, il ‘talpone’ dovrebbe avere vita breve e non rimanere sconosciuto come nel caso della prima, clamorosa, fuga sul Palamaragate, avvenuta a maggio del 2019. Anche all’epoca Corriere e Repubblica, in compagnia del Messaggero, pubblicarono ad indagini in corso stralci dei colloqui registrati con il trojan inserito nel cellulare di Palamara. I responsabili non furono mai individuati.

Ma come dimenticare, poi, l’inchiesta sull’esame farsa del calciatore Luis Suàrez per ottenere la cittadinanza italiana? A causa della fuga di notizie, Cantone aveva deciso per lo stop a tempo indeterminato dell’ indagine coordinata dai pubblici ministeri Paolo Abritti e Giampaolo Mocetti, sempre con l’ausilio dell’immancabile guardia di finanza. Si trattò di una decisione più unica che rara per il panorama giudiziario italiano che, secondo il capo della Procura di Perugia, era necessaria proprio a causa delle ripetute violazioni del segreto istruttorio. Cantone anche all’epoca si disse “indignato per quanto successo finora”. Un dato è certo: se l’ex capo dell’Anac non riesce ad arginare queste imbarazzanti fughe di notizie che compromettono in maniera irreparabile le indagini del suo ufficio, sarebbe necessaria allora una riflessione da parte del Csm e del Ministero della giustizia, che ha anche gli strumenti, l’Ispettorato, per verificare la gestione dei vari procedimenti penali nel capoluogo umbro.

La Procura di Perugia, è bene ricordarlo, è un ufficio di piccole dimensioni. Oltre a Cantone ed al suo vice, vi lavorano poco più di dieci sostituti. Alla Procura di Napoli, ufficio da dove proviene Cantone, i magistrati sono 140 ed fatte le dovute proporzioni non si assiste a questo stillicidio di notizie segrete pubblicate sui giornali.

Palamara, comunque, ha presentato una nuova denuncia per quanto accaduto l’altro giorno alla Procura di Firenze, competente sui colleghi perugini. Considerando i precedenti, tutto lascia presagire però che anche questa denuncia per la fuga di notizie finirà in un nulla di fatto. Per scongiurare il bis, l’ex capo dell’Anm ha fatto sapere tramite i propri legali di essere pronto ad incatenarsi sotto il palazzo di giustizia. Paolo Comi

Media e fughe di notizie. Fuga di notizie dalla Procura di Perugia: Cantone non può indagare su se stesso. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Luglio 2022 

Se scappano delle carte segrete dall’ufficio di un Procuratore, quel Procuratore ne è responsabile, in quanto custode naturale della riservatezza dell’inchiesta. Raffaele Cantone, capo dell’ufficio di Perugia, che si è rivelato il colabrodo da cui sono “scappati” 15 faldoni zeppi di atti secretati sulla “Loggia Ungheria” e in particolare 167 pagine di richieste al Gip, non può quindi indagare che su se stesso. Ha quindi ragione l’ex magistrato Luca Palamara, il primo danneggiato dalla fuga di notizie, a rivolgersi alla Procura di Firenze, competente per ciò che riguarda le toghe di Perugia, e anche al procuratore generale presso la cassazione, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati.

Manca all’appello solo il ministro Cartabia, che ha il potere di inviare gli ispettori a mettere il naso in queste gravi violazioni. Potere rafforzato dal giorno in cui il Parlamento e il governo italiano, alla fine dell’anno scorso, hanno recepito in modo definitivo la direttiva dell’Unione Europea sui rapporti tra le Procure e i media.

A coloro che quel giorno brindavano una vocina aveva sussurrato: e le carte passate sottobanco ai cronisti di riferimento? Eccoci qua. Era stato facile profeta chi, leggendo il libro Il sistema, in cui lo stesso Palamara spiegava che a un pm basta avere il “suo” cronista per orientare qualunque inchiesta, aveva denunciato che difficilmente il metodo sarebbe cambiato. E bisognerà vedere se la ministra guardasigilli, che qualcuno in questi giorni sta cercando di mettere in difficoltà per un’inchiesta genovese, avrà la forza di mostrare che quel provvedimento del novembre 2021 non aveva solo la testa per decidere, ma anche le gambe per camminare.

Ma soprattutto occorre avere la consapevolezza del fatto che certi scoop, certe complicità, non si fondano solo su reciproche vanità, quella del pm di vedere il proprio nome sulla stampa e quella del cronista di farsi bello con i suoi capi. Queste sono piccolezze. C’è, c’è stato, e temiamo ci sarà, a volte, una vera volontà politica, studiata scientificamente, di orientare indagini e inchieste. Non si tirino fuori i cronisti giudiziari, attuali o ex. Alcuni hanno brindato per certe informazioni di garanzia, hanno partecipato al banchetto delle carte che “scappavano” dagli uffici, ben sapendo che cosa si stava bevendo, che cosa si stava mangiando. Non è vero che, anche qualora non ci sia stata la complicità iniziale, il cronista non fa nulla di più che il proprio dovere pubblicando ogni carta che gli capiti in mano. Lo hanno dimostrato gli stessi cronisti del Fatto e di Repubblica proprio con i verbali dell’avvocato Amara, quando le carte erano arrivate nelle loro redazioni filtrate dalla segretaria romana di Piercamillo Davigo. In quei giorni pareva che i fascicoli scottassero nelle loro mani, come mai? Ma allora la selezione c’è, vero colleghi?

Veniamo dunque al fattaccio ultimo arrivato. Il combinato-disposto Procura di Perugia-Corriere della sera-Repubblica ha un unico danneggiato, Luca Palamara. E un rafforzamento delle accuse contro di lui. Certo, il procuratore Cantone, che potrebbe essere assolto sul piano delle responsabilità soggettive, ma condannato su quella oggettiva, la stessa del direttore responsabile di una testata giornalistica, dice che il suo ufficio è la vera vittima. Dice anche che i suoi due sostituti che hanno condotto con lui le indagini sulla “Loggia Ungheria” per cui propone l’archiviazione, cioè Gemma Miliani e Mario Formisano, sono sicuramente innocenti. Pare però anche che né la polizia giudiziaria né gli avvocati siano entrati in possesso di questi 15 faldoni. Quindi, dottor Cantone, il fascicolo che lei ha aperto per la violazione del segreto investigativo, dove pensa che andrà a parare? O sta pensando di indagare davvero su se stesso?

Il fatto è molto grave prima di tutto sul piano formale. Perché sembra uno sberleffo al Parlamento e al Governo che hanno impegnato l’Italia, se pur con anni di ritardo, a diventare un Paese che rispetti i cittadini e la presunzione di innocenza. Ma anche sul piano sostanziale, nei confronti del cittadino Luca Palamara. Con un’accusa che, a parti rovesciate, ricorda quella che si rovesciò nel processo Eni, quando i due pm volevano introdurre nel dibattimento dichiarazioni calunniose che indicavano il Presidente del tribunale come persona “avvicinabile” da parte degli avvocati della difesa. L’ex pm che ha denunciato il “Sistema” è indicato dal solito avvocato Amara come uno che “avvicinava” giudici della cassazione per chiedere informazioni su un processo che riguardava un suo collega. La cosa strana è che questo personaggio ormai screditato da inchieste e sentenze, diventi improvvisamente credibile, se serve. E le sue parole vengano passate a testate e cronisti “di riferimento”, come dice lo stesso Palamara.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il processo Palamara a Perugia e quelle strane fughe di notizie affidate ai giornali. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 14 Luglio 2022. 

La Corte d’appello di Perugia aveva già rigettato nella scorsa udienza l’istanza di ricusazione presentata dai difensori di Luca Palamara, gli avvocati Benedetto Marzocchi Buratti e Roberto Rampioni, nei confronti dei giudici del tribunale del capoluogo umbro che lo stanno giudicando per corruzione. L’udienza per la trattazione dell’istanza si era svolta il 9 maggio scorso e i giudici si erano riservati di decidere. La difesa di Palamara aveva avanzato la richiesta di ricusazione sostenendo che “il tema sulla terzietà del giudice” è stato “creato” dall’Anm “che ha chiesto di costituirsi parte civile in un processo dove due membri del collegio sono iscritti alla medesima associazione“. 

Durante l’udienza precedente la Corte non ha ammesso l’introduzione nel procedimento di una memoria presentata dalla Anm; la quale nell’ambito del procedimento per corruzione, intendeva costituirsi parte civile nei confronti di Palamara, nella quale memoria venne chiesto al collegio di rigettare la dichiarazione di ricusazione.

Luca Palamara in quell’ occasione ha dichiarato “Da uomo libero e da cittadino di questo Paese democratico ribadisco che non mi faccio e non mi farò mai intimidire da alcuno e, tantomeno, dalla attuale dirigenza dell’Anm molto lontana dai fasti gloriosi che l’hanno caratterizzata” E’ “grave e irrituale il tentativo di condizionamento nei confronti dei giudici della Corte d’appello di Perugia chiamati a decidere sulla ricusazione depositando fuori termine una memoria che rischiava di poter diventare una traccia per l’eventuale decisione”.

 La Procura generale di Perugia, guidata da Sergio Sottani, aveva chiesto invece il rigetto della domanda affermando che “non sussistono ragioni per ritenere un interesse dei giudici nel processo, in quanto le condotte addebitate all’imputato, in relazione alle quali l’Anm ha inteso presentare la propria domanda di costituzione di parte civile, sulla base della prospettazione accusatoria, si pongono in assoluto contrasto con i principi che governano l’agire del magistrato e che danneggiano il prestigio e l’indipendenza della magistratura“. 

Palamara ha reso dichiarazioni spontanee nel corso dell’ udienza. Questa la versione integrale: L’ipotesi che una “manina” abbia fatto finire nuovamente sui giornali Luca Palamara sia quella di un semplice funzionario non è credibile per l’ex presidente dell’Anm, che depositerà il suo esposto in procura a Firenze, competente sui magistrati perugini, procura dove Palamara due anni fa si era già presentato, quando guarda caso…. gli stessi giornali oggi in possesso delle notizie sulla nuova indagine che lo riguarda pubblicarono le intercettazioni sullo scandalo dell’Hotel Champagne di Roma.

Tutto questo secondo Palamara fa dunque pensare ad un disegno unico, finalizzato a colpire l’ex consigliere del Csm, depositario, forse, di troppi segreti scottanti sulle toghe italiane, ma sopratutto prendere il controllo delle nomine nel Csm. Vicende in buona parte diventate di dominio pubblico nei due libri, scritti insieme ad Alessandro Sallusti (oggi direttore del quotidiano LIBERO) ma in parte ancora “coperti” ma tanto “pesanti” da poter destabilizzare l’equilibrio già fortemente instabile del sistema di potere della giustizia italiana. Una manina “interna” alla procura di Perugia che ha sempre gli stessi interlocutori, con un modus operandi che ricorda la spedizione delle carte riservata effettuata dalla segretaria al CSM di Piercamillo Davigo (attualmente sotto processo a Brescia), e tutto questo non può essere più un caso. Palamara nel corso delle sue dichiarazioni spontanee ha evidenziato e fortemente contestato che tra le notizie di reato contenute nella richiesta di archiviazione sulla famigerata Loggia Ungheria “ci sono fatti che non mi sono stati contestati”.

Ma la coincidenza … vuole che che solo ciò che lo riguarda, tra gli stralci effettuati dalla procura di Perugia, è finito in mano ai soliti giornalisti di “fiducia”. Un’ennesima circostanza che fa pensare più ad uno strategia studiata a tavolino, che ad una pura coincidenza. Infatti non sarebbe la prima volta, perchè oltre alla fuga di notizie riservate sull’inchiesta a carico di Luca Palamara, anche le recenti vicende interne alla magistratura che hanno registrato la diffusione illecita dei verbali di Piero Amara, ex consulente legale esterno dell’ Eni, che ha svelato l’esistenza inventata, poi smentita dai fatti, di una nuova loggia segreta massonica sulla scia della P2.

Palamara show in aula: «Disegno unico dietro le fughe di notizie». Prima dell'inizio dell'udienza a Perugia, lungo conciliabolo tra l'ex consigliere del Csm, il procuratore capo Raffaele Cantone e il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo. Simona Musco su Il Dubbio il 15 luglio 2022.

Un lungo conciliabolo tra il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, l’aggiunto romano Paolo Ielo e Luca Palamara. È questo il siparietto che ha preceduto l’udienza di ieri nel processo a carico dell’ex consigliere del Csm, imputato davanti al tribunale del capoluogo umbro in due diversi processi, uno per corruzione, l’altro per rivelazione di segreto d’ufficio. Udienze dove a tenere banco, più che le accuse mosse a Palamara, sono state le fughe di notizie che hanno caratterizzato la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla Loggia Ungheria. Fughe mirate, dal momento che a finire sui giornali, proprio come due anni fa, è stato solo il materiale relativo all’ex pm romano. Ed è stato questo, ieri, l’argomento di conversazione tra i tre magistrati.

La procura di Perugia, da un lato, è sicura di aver individuato la propria talpa: un dipendente amministrativo che avrebbe scaricato abusivamente la richiesta di archiviazione, che oggi si trova in mano a diversi giornalisti ma non allo stesso Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni e uomo chiave di quell’inchiesta. E se fino ad oggi nulla si è mosso in merito alla fuga di notizie che ha reso possibile la pubblicazione delle intercettazioni del Palamaragate, questa volta sembra respirarsi un’aria diversa.

Le indagini condotte da Perugia e da Firenze, procura alla quale l’ex presidente dell’Anm si è rivolto per scoprire quale manina consegni sistematicamente gli atti che lo riguardano a Corriere e Repubblica, questa volta potrebbero infatti portare a tracciare una linea tra quanto successo il 29 maggio 2019 – giorno della cena all’Hotel Champagne – e l’ultima discovery. L’idea della procura di Perugia sembra coincidere con quella di Palamara: dietro quel funzionario impiccione potrebbe esserci qualcuno. E le fughe di notizie, dunque, potrebbero non essere una casualità. «Questa fuga di notizie conferma che si è giocata un’altra partita, oltre a quella dell’indagine penale – commenta a fine udienza l’ex zar delle nomine -. È chiaro che se di mezzo ci sono sempre le stesse persone, le stesse situazioni, e se a finire ai giornali sono solo le pagine che mi riguardano vuol dire che qualcuno voleva qualcosa. E per capire come sono andate le cose faremo tutto il possibile, con tutte le forze».

L’idea è che qualcuno abbia utilizzato le vicende dell’Hotel Champagne per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, magari non con lo scopo di arrivare ad un processo, ma per far vedere come “funzionava” il Csm. Una sorta di golpe giudiziario, insomma, per mandare via quelli che erano stati legittimamente eletti e sovvertire il gioco di forze fino a quel momento in atto. Palamara ha espresso il suo punto di vista con chiarezza ieri in aula, quando il magistrato spogliato della sua toga ha preso la parola per fare dichiarazioni spontanee. «Se deve essere un processo deve esserlo nelle aule di giustizia – ha dichiarato -. Sono anni che leggo quello che mi riguarda sui giornali», comprese le intercettazioni fatte il 29 maggio del 2019, servite per «consentire ad un gruppo della magistratura di prendere il posto e governare per quattro anni il Csm. A quello servì la vicenda dell’Hotel Champagne».

L’ex pm è tornato sul trojan a intermittenza, spento alle 16.02 del 9 maggio, dopo aver annunciato ad Adele Attisani – coimputata nel processo per corruzione che avrebbe incontrato a cena l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il suo aggiunto Michele Prestipino per festeggiare il pensionamento del primo. «Se gli altri fanno errori nella foga di dovermi legare le mani poi non ci si deve lamentare che la gente voglia capire quello che c’è dietro», quindi commentato. Palamara ha parlato di «scandalo» e «veline» passate ai giornalisti con scopi diversi dalla necessità di informare. Ma il racconto che ne è venuto fuori, ha sottolineato, «è una buffonata», «una presa in giro fatta a migliaia di magistrati in Italia», motivo per cui ha deciso di raccontare tutto nei suoi libri. Compreso lo scopo dietro il trojan all’Hotel Champagne: «La mia iscrizione nel registro degli indagati è stata fatta per far saltare la nomina di Viola alla Procura di Roma», ha dichiarato.

Palamara ha anche parlato della sua frequentazione con l’imprenditore Fabrizio Centofanti, che ha patteggiato una condanna a un anno e sei mesi e che secondo la procura avrebbe pagato cene e viaggi all’ex pm per l’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri. «Il problema delle frequentazioni riguarda non solo il sottoscritto, ma anche Pignatone, gli esponenti del Pd, il mondo della finanza», ha dichiarato. Dopo una cena nel 2016 con il lobbista a Villa Paganini, ristorante nei pressi di corso Trieste a Roma, offerta dallo stesso Pignatone, «il mio procuratore capo mi disse che non poteva più frequentarlo e mi aveva messo in guardia, “evita”, mi disse. La nostra frequentazione, invece, è andata avanti perchè per me era un amico di famiglia: continuai a frequentarlo anche nel 2017». E fino a maggio di quell’anno, data dell’iscrizione del lobbista al registro degli indagati, «io frequento un incensurato, carte alla mano».

I due processi riprenderanno ora dopo l’estate: quello per corruzione tornerà in aula il 19 settembre, quando dovrebbe essere definita la costituzione delle parti civili, quello per violazione di segreto d’ufficio, nel quale è imputato insieme all’ex pm di Roma Stefano Rocco Fava (quest’ultimo accusato anche di accesso abusivo al sistema informatico e abuso di ufficio) il 26 settembre. In aula, ieri, anche la richiesta, poi rigettata dal Tribunale, dei legali di Palamara di depositare, nell’ambito del processo per corruzione, le due denunce per fuga di notizie presentate alla procura di Firenze, una nel novembre 2020, l’altra l’ 11 luglio scorso. Ad opporsi il procuratore Cantone insieme ai sostituti Mario Formisano e Gemma Miliani. 

Dietro la talpa uno schema: chi vuole colpire Luca Palamara? La procura di Perugia è convinta che a passare le notizie ai giornali sia un dipendente amministrativo: i destinatari delle missive sono gli stessi del 2020. Simona Musco su Il Dubbio il 14 luglio 2022.

La procura di Perugia è convinta di aver trovato la sua talpa: a inviare ai giornali la richiesta di archiviazione per l’indagine sulla Loggia Ungheria sarebbe stato un dipendente amministrativo dell’ufficio, che secondo le indagini avrebbe effettuato numerosi accessi abusivi sul fascicolo informatico. In meno di 48 ore, dunque, il responsabile sarebbe venuto a galla: gli uomini della polizia postale e i carabinieri hanno infatti scoperto che fra gli atti scaricati illegittimamente ci sarebbe anche la richiesta di archiviazione, motivo per cui la procura ipotizza ora a carico del dipendente il reato di accesso abusivo a sistemi informatici pubblici e quello di rivelazione di segreto d’ufficio.

«Faremo tutto il possibile», aveva promesso il procuratore Raffaele Cantone e così sembra essere stato. Ma l’idea che la manina che ha fatto finire nuovamente sui giornali Luca Palamara sia quella di un semplice funzionario non convince del tutto l’ex presidente dell’Anm. Che anzi oggi depositerà il suo esposto in procura a Firenze, competente sui magistrati perugini, dove Palamara si era presentato già due anni fa, quando gli stessi giornali oggi in possesso delle notizie sulla nuova indagine che lo riguarda pubblicarono le intercettazioni sullo scandalo dell’Hotel Champagne. Tutto fa dunque pensare ad un disegno unico, finalizzato a colpire l’ex consigliere del Csm, depositario, forse, di troppi segreti scottanti sulle toghe italiane. Segreti in parte spiattellati nei suoi due libri, in parte ancora taciuti e forse tanto grandi da poter destabilizzare l’equilibrio già fragile del potere giudiziario.

L’idea è che il silenzio che finora ha avvolto la fuga di notizie del 2020 non possa più essere perpetuato. In primo luogo perché il postino interno alla procura di Perugia ha sempre gli stessi interlocutori – e ciò non può essere più un caso -, in secondo luogo perché tra le notizie di reato contenute nella richiesta di archiviazione sulla Loggia Ungheria, fa notare Palamara, «ci sono fatti che non mi sono stati contestati». E solo ciò che lo riguarda, tra gli stralci effettuati dalla procura di Perugia, è stato dato in pasto alla stampa. Tutto farebbe dunque pensare ad uno schema. E non si tratterebbe della prima volta: oltre alla fuga di notizie sul Palamaragate, infatti, la storia recente della magistratura ha registrato anche la diffusione illecita dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni che ha svelato l’esistenza poi smentita – della nuova P2.

Verbali che sono serviti ad un duplice scopo: da un lato destabilizzare nuovamente il Csm, dall’altro mettere in pubblica piazza i nomi altisonanti di presunti affiliati, di fatto inquinando le indagini e adombrando sospetti su uomini dello Stato. Ora, secondo l’ipotesi di Palamara, Amara avrebbe un nuovo “compito”: tenere in piedi i processi – a suo dire traballanti – in corso a Perugia contro di lui. Dove oggi sono attese due diverse udienze: quella sulla rivelazione di segreto d’ufficio che vede l’ex pm imputato assieme a Stefano Rocco Fava, oggi giudice civile a Latina, e quella del processo che lo vede imputato per corruzione.

In aula Palamara e i suoi legali decideranno come comportarsi: una delle possibilità in ballo è che si chieda la remissione del processo per via di una situazione ambientale ormai incompatibile con il sereno svolgimento del processo. Anche perché, come evidenziato dallo stesso Cantone, «la procura di Perugia è parte lesa» nella nuova fuga di notizie. Una situazione che, a parere di Palamara, rischia di condizionare tutto quanto.

La nuova contestazione – relativa al presunto tentativo di salvare l’ex pm siracusano Maurizio Musco – non preoccupa infatti più di tanto l’ex zar delle nomine: «Si tratta di fatti già smentiti da una pur facile lettura della documentazione già a disposizione della procura di Perugia nell’ambito del procedimento 6652/ 18 rispetto alle quali le dichiarazioni dell’avvocato Amara in questa circostanza ricalcano esattamente quello che già avvenne con il giudice Tremolada: in quel caso dovevano servire a salvare il processo Eni oggi per salvare in qualche modo i processi intentati a mio danno aveva dichiarato -. Ma la battaglia di verità continua e ancor di più il rinnovato impegno politico su un tema quello della giustizia che non può non trascendere le singole vicende personali riguardando la vita di tutti i cittadini oramai interessati a comprendere e andare oltre le vicende del Sistema».

Loggia Ungheria, Palamara: «Ci saranno altri colpi di scena». Il Dubbio il 9 luglio 2022.  

Secondo l'ex membro del Consiglio superiore della magistratura ed ex capo dell'Anm «si stanno aprendo molti procedimenti per calunnia»

«Per poter commentare compiutamente le determinazioni della Procura di Perugia bisognerebbe leggere gli atti». È un Luca Palamara che come al solito non le manda a dire quello che commenta la richiesta di archiviazione della procura di Perugia sulla cosiddetta Loggia Ungheria, dopo i recenti sviluppi.

«Contrariamente a quanto emerge dalla lettura di alcuni quotidiani di parte, i cittadini hanno il diritto di essere correttamente informati e al momento posso solo apprezzare il carattere tecnico del comunicato stampa, rilevando come Amara sia stato definito inattendibile – ha detto Palamara – Mi auguro che si prosegua nell’accertamento dei motivi che hanno spinto Amara a rendere tali dichiarazioni».

Secondo l’ex pm questo è «necessario per un dovere di verità e per capire perché, ad esempio, in una mail del 24 aprile 2020 indirizzata dal Procuratore aggiunto Laura Pedio a Storari si parla di un atteggiamento collaborativo rilevante nei contenuti da parte di Piero Amara: il Csm o l’Anm sono interessati a capire cosa accadde o forse è materia di una commissione di inchiesta?».

L’ex membro del Consiglio superiore della magistratura ed ex capo dell’Anm spiega poi che «l’esistenza di una associazione non ha, solo per questo, rilevanza penale, quello che pare essere stato escluso dalle indagini è la sussistenza del reato previsto dalla legge Anselmi, mentre appare chiaro che non tutta l’inchiesta sia stata destinata all’archiviazione».

Non solo. «Sarebbe poi interessante comprendere se il filone fiorentino dell’inchiesta sia giunto al termine, anche se dal comunicato si evince un coordinamento, anche prossimo, con la Procura di Milano che però sicuramente era coinvolta nella vicenda in questione – continua Palamara – È bene ricordare che a Firenze è stata inoltrata la posizione dell’ex procuratore di Perugia Luigi De Ficchy: certamente le fughe di notizie hanno danneggiato l’indagine ma ciò anche nel senso che quelle persone che, direttamente od indirettamente, sono state chiamate in causa rimarranno comunque con lo stigma senza che le loro posizioni, per scelta della Procura di Perugia, siano sottoposte al vaglio del Gip».

Infine, dà una propria previsione dei fatti. «Per il resto, come ho scritto nel libro “Lobby e logge”, ciò che chiaramente non è mai esistito è che questa Loggia abbia inciso sul meccanismo degli incarichi direttivi e tanto meno sulla nomina del Procuratore di Milano nel 2016 – ragiona Palamara – In quel caso la nomina di Francesco Greco fu il frutto di un accordo tra le correnti e la politica». Di una cosa l’ex pm appare certo. «Il capitolo Ungheria non è affatto finito – conclude . Si stanno aprendo molti procedimenti per calunnia e sicuramente ci saranno altri colpi di scena». 

Richiesta l'archiviazione. Inchiesta su Loggia Ungheria insabbiata, se tramano i magistrati non è reato: Cantone chiede archiviazione. Paolo Comi su Il Riformista il 9 Luglio 2022. 

Il “condizionamento” dell’organo di autogoverno delle toghe per far nominare “vertici della magistratura” del Paese che fossero di gradimento c’è stato. E c’è stato anche il “condizionamento” per far nominare i “vertici di enti, istituzioni e società pubbliche”. Però, per Raffaele Cantone, si è trattato di risultati “ascrivibili ad interessi personali o professionali diretti di Amara o di soggetti a lui strettamente legati”, piuttosto che la conseguenza dell’attività di una loggia segreta. Il procuratore di Perugia, ex capo dell’Anac voluto da Matteo Renzi quando il Rottamatore viveva una luna di miele con i magistrati al punto da volere Nicola Gratteri ministro della Giustizia, ha messo dunque una pietra tombale sulla loggia Ungheria, chiedendo ieri al gip di archiviare il fascicolo.

L’esistenza di questa associazione para massonica finalizzata a pilotare le nomine dei magistrati, e quindi ad aggiustare i processi, era stata rivelata dall’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara durante una serie di interrogatori davanti ai pm di Milano verso la fine del 2019. Quello che accadde poi è noto. Il pm Paolo Storari, titolare del fascicolo, vedendo che le indagini non andavano avanti, si era rivolto a Piercamillo Davigo. Quest’ultimo, ricevuti i verbali delle dichiarazioni di Amara, aveva informato a fine primavera del 2020 mezzo Csm, ad iniziare dal vice presidente David Ermini, finendo così indagato per rivelazione del segreto. Il fascicolo sarà trasmesso da Milano a Perugia a gennaio del 2021. Ma già ad ottobre dell’anno precedente, a seguito di un interrogatorio congiunto di Amara, i magistrati avevano stabilito che la competenza fosse di Perugia, essendo coinvolte diverse toghe della Capitale.

Vengono allora iscritti per la violazione della legge Anselmi sulle associazioni segrete tre persone, fra cui Amara. Nessuno dei 90 adepti tirati in ballo dall’avvocato siciliano riceve invece un avviso di garanzia. Il motivo lo spiega lo stesso Cantone, parlando di “elementi labili per l’iscrizione, non una garanzia ma un inutile ed ingiustificato stigma”. Nella primavera del 2021 la fuga di notizie con i verbali che finiscono sui giornali per settimane compromette le indagini che avrebbero avuto bisogno di “massima riservatezza e segretezza”. “Più di un soggetto si è avvalso della legittima facoltà di non rispondere, motivando la scelta con il grave strepitus fori”, ricorda Cantone.

“Il complesso delle investigazioni ha portato a ritenere integralmente o parzialmente non riscontrate numerose propalazioni di Amara. Si tratta di chiamate in correità dirette o de relato”, continua Cantone, sottolineando comunque che non c’è una “inattendibilità talmente macroscopica da compromettere in radice la credibilità del dichiarante”.

Fatta questa premessa, per il procuratore di Perugia “l’esistenza dell’associazione non è adeguatamente riscontrata”, non essendo emersi elementi “neanche indiretti che potessero attestarne l’esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e di un suo socio (Giuseppe Calafiore, ndr)”. Quest’ultimo, puntualizza Cantone, successivamente si avvarrà della facoltà di non rispondere. Le modalità del reclutamento sembrano essere chiare, in quanto i “soggetti legati con Amara erano stati contattati in passato da uno dei vertici della presunta organizzazione, poi defunto (il procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, ndr)”. Non tutti coloro a cui Tinebra aveva chiesto di aderire avevano poi ritenuto di farlo. Per ognuno degli episodi narrati verranno fatti accertamenti alla ricerca di eventuali risconti per attendibilità di Amara e sintomatici dell’esistenza della loggia segreta. Ed ecco, quindi, il passaggio chiave: “Gli episodi raccontati di Amara, parziale riscontro, non sono indicativi dell’esistenza di un’associazione segreta: interferenze o tentativi di condizionamento di nomine di vertice della magistratura, tentativi compiuti o incompiuti di interferire su nomine di vertici di enti, istituzioni e società pubbliche, che pure possono ritenersi avvenute, sono risultati ascrivibili ad interessi personali o professionali diretti di Amara o di soggetti a lui strettamente legati, piuttosto che conseguenza dell’attività di condizionamento di una loggia”.

Amara, peraltro, negli ultimi interrogatori, avrebbe modificato alcune delle sue affermazioni iniziali, “sminuendo in modo inspiegabile il ruolo di quella che aveva indicato come una nuova loggia P2, dichiarando che era nata con finalità nobili e che non tutti gli adepti sarebbero stati a conoscenza delle interferenze effettuate dall’associazione su organi pubblici o costituzionali”. Cantone ricorda anche che nel 2015 Amara aveva tentato di creare una organizzazione parallela e gli aveva fornito alcuni elementi documentati, non prodotti negli interrogatori a Milano. In conseguenza di tutto ciò, il procuratore di Perugia, in attesa delle decisioni del gip, ha effettuato stralci per poter effettuare indagini anche ad altre Procure. Alla Procura di Milano verrà trasmessa l’archiviazione per valutare le numerose denunce per calunnia presentate dagli ex adepti che erano stati tirati in ballo da Amara. A tal proposito è stata già fissata una riunione di coordinamento investigativo tra Perugia e Milano. E tale archiviazione, infine, sarà trasmessa al procuratore generale della Corte di cassazione per l’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati coinvolti.

Al momento, però, nulla verrà inviato al Csm. Fine della storia. Paolo Comi

Inchiesta Loggia Ungheria, la procura di Perugia chiede l'archiviazione. Guliano Foschini,  Fabio Tonacci su La Repubblica l'8 Luglio 2022.

L'indagine partita dalle rivelazioni dell'avvocato Piero Amara sull'esistenza di una presunta associazione segreta in grado di pilotare le nomine della magistratura: "Non ci sono elementi"

La Loggia Ungheria era un'invenzione dell'avvocato Piero Amara. Ne è convinta la procura di Perugia che ha chiesto l'archiviazione per l'ipotesi di associazione segreta. "Si è concluso - spiega il procuratore di Perugia, Raffaele Cantone - nel senso di ritenere la circostanza non adeguatamente riscontrata. Sull'esistenza dell'associazione non sono, infatti, emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l'esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato, socio di Amara, che però si è limitato a dichiarare il dato dell'esistenza dell'associazione senza fornire alcun elemento concreto di cui sua conoscenza diretta e si è poi avvalso da ultimo della facoltà di non rispondere, impedendo quindi di operare alcun accertamento mirato".

Alcuni soggetti legati da stretti rapporti con Amara hanno riferito ai pm di essere stati contattati in passato da uno dei vertici della presunta organizzazione, oggi defunto, che aveva loro chiesto di aderire alla Loggia ma loro non avevano ritenuto di farlo. "Si tratta di affermazioni che non consentono in alcun modo di essere considerate un riscontro all’esistenza di un’associazione - spiega la procura di Perugia - che oltre a dover essere segreta deve avere una serie di caratteristiche di cui questi soggetti nulla sono stato in grado di riferire".

Archiviata anche l'ipotesi di un'associazione per delinquere perché, scrive ancora Cantone, "si ritiene che non sia stata comunque provata l'esistenza di un nucleo organizzativo che potesse far configurare" il reato. Tutto quello che resta delle dichiarazioni di Amara è qualche singolo reato trasmesso per competenza a diverse procure. Oltre a possibili profili disciplinari per alcuni magistrati. "Con la Procura di Milano, con cui nel corso dei mesi si è mantenuto un costante e proficuo coordinamento investigativo, si è già fissata una prossima riunione di coordinamento sulle ulteriori indagini connesse da svolgere", conclude Cantone.

Cantone chiede di archiviare l’inchiesta sulla loggia Ungheria. EMILIANO FITTIPALDI E GIULIA MERLO su Il Domani l'08 luglio 2022

Sull'esistenza dell'associazione non sono, infatti, emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l'esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato». Tradotto: sono mancati adeguati riscontri probatori dell’esistenza della loggia.

Alcune dichiarazioni di Amara sono state stralciate e mandate ad altre procure per ulteriori indagini. Milano indagherà per calunnia ai danni di Severino, Vietti e altri ufficiali e magistrati.

Altre procure indagheranno sulle dichiarazioni in merito ai rapporti con Verdini e Blue Power. Cantone ha anche disposto che il provvedimento venga inviato anche al procuratore generale della Cassazione, per competenza in caso di procedimenti disciplinari a carico di magistrati. 

EMILIANO FITTIPALDI E GIULIA MERLO

Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

La loggia Ungheria non esiste ma c’è del vero nelle parole di Amara. GIULIA MERLO su Il Domani l'08 luglio 2022

Cari lettori,

in questo caldo estivo che precede la chiusura dei tribunali, torna ad infiammare il dibattito la loggia Ungheria.

Oggi la procura di Perugia ha fatto istanza di archiviazione del procedimento per associazione segreta, ritenendo che le dichiarazioni dell’ex legale esterno di Eni, Pietro Amara, non siano riscontrabili.

Tuttavia, a due anni da quando la vicenda è diventata pubblica, il caso non è chiuso qui: Perugia ha stralciato per ulteriori indagini alcune dichiarazioni di Amara, su cui si continuerà a lavorare.

La newsletter di oggi è tutta dedicata a questo, con le novità di oggi provenienti da Perugia e anche una ricostruzione cronologica dei fatti per aiutare a rimettere insieme i pezzi di un puzzle molto complicato. Sarà utile tenerla a mente, anche per seguire gli ulteriori sviluppi che sicuramente ci saranno la settimana prossima. L’istanza di archiviazione infatti è molto corposa e il Csm potrebbe chiedere di acquisirla per verificare se contenga notizie riscontrate che possano avere rilevanza disciplinare nei confronti di alcuni magistrati.

ERMINI PARLA AL PROCESSO A DAVIGO

Il vicepresidente del Csm è stato ascoltato come testimone nel processo per rivelazione di segreto d’ufficio a carico dell’ex membro del Csm, Piercamillo Davigo, e ha raccontato la sua versione dei fatti in merito alla consegna dei verbali e al fatto di averli distrutti.

Ermini ha confermato di aver informato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ma non ha divulgato il contenuto della conversazione. Ha anche spiegato di aver distrutto i verbali perchè riteneva che la loro acquisizione da fonte incerta e in via informale non potesse dare adito a nessun procedimento formale. Inoltre, era stato informato da Davigo che il pg di Cassazione, Giovanni Salvi, era stato informato dei fatti e si sarebbe attivato presso la procura di Milano.

La prossima udienza si svolgerà il 13 di ottobre e verranno sentiti altri membri del Csm e la ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto.

La loggia Ungheria? Bufala Cantone vuole chiudere. Luca Fazzo il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

La Procura di Perugia chiede l'archiviazione: "Riscontri insufficienti sulle parole di Amara"

È colpa della fuga di notizie, con i verbali del «pentito» Piero Amara spediti a casa ai giornalisti e arrivati alla fine nelle mani di Piercamillo Davigo, allora membro del Consiglio superiore della magistratura, se non sapremo mai se la loggia Ungheria esisteva o non esisteva, se fosse una innocua rete di affari o una insidia per le istituzioni. La Procura di Perugia, che da un anno e mezzo indagava sulla fantomatica loggia, ieri si arrende, e chiede l'archiviazione dell'inchiesta. I nove indagati per associazione segreta - tra cui lo stesso Amara, ma anche l'ex parlamentare Denis Verdini e il faccendiere Luigi Bisignani - vanno verso il proscioglimento. Per il procuratore di Perugia non vuol dire che Ungheria non esistesse, e che Amara si fosse inventato tutto: anzi, si parla di «non poche conferme al suo narrato», e di «alcuni soggetti, tra l'altro pure legati da stretti rapporti con il medesimo Amara, che hanno riferito di essere stati contattati in passato da uno dei vertici della presunta organizzazione, oggi defunto, che aveva chiesto loro di aderire, ma non avevano ritenuto di farlo». Ma nei quattordici faldoni dell'inchiesta, dice alla fine Cantone, non è approdato niente che consentisse di chiudere il cerchio, e nemmeno spunti utili per andare ancora avanti a scavare: anche perché dalla primavera del 2021 i verbali di Amara diventano uno dopo l'altro di pubblico dominio: e «quanto avvenuto - scrive Cantone - ha certamente inciso sulle attività investigative in corso che avrebbero al contrario, in relazione alla tipologia di reato da accertare, richiesto riservatezza e segretezza». Alla fine, l'esistenza della loggia secondo Cantone è «non adeguatamente riscontrata».

Politici, magistrati, ufficiali delle forze dell'ordine, imprenditori. Nell'elenco della loggia, così come raccontata da Amara, c'erano almeno novanta nomi: è la lista che Amara dice di avere visto in mano all'avvocato Giuseppe Calafiore. Ma quella lista alla Procura di Perugia, scrive Cantone, non è mai arrivata: «pur richiesta a quest'ultimo più volte, non è mai stata consegnata». Il fascicolo arriva da Perugia a Milano con tre indagati (tra cui Amara e Calafiore), la Procura di Perugia iscrive altri sei nomi: scelti, spiega Cantone, solo tra quelli «la cui audizione veniva ritenuta indispensabile in quanto avevano comunque intrattenuto rapporti con Amara». Per tutti gli altri citati dal «pentito», «l'iscrizione avrebbe rappresentato non una garanzia per l'indagato ma un inutile e ingiustificato stigma».

Sulla reale natura e pericolosità di «Ungheria», ieri si apprende che lo stesso Amara avrebbe fatto negli ultimi interrogatori una delle sue solite giravolte, «sminuendo in modo inspiegabile il ruolo di quella che aveva indicato come una nuova loggia P2, dichiarando anzi che essa era nata con finalità nobili». «Ha aggiunto persino che fin dal 2015 egli aveva tentato di creare un'altra organizzazione di cui ha fornito anche alcuni elementi documentali»: e questa fantomatica Ungheria-bis è l'ultima, misteriosa comparsa del gigantesco intrigo che ha lacerato in questi due anni la magistratura italiana.

Sarà ora il giudice per le indagini preliminari di Perugia a decidere se accogliere la richiesta di Cantone mandando tutto in soffitta, o ordinare nuove indagini. Di spunti interessanti ce ne sarebbero; la stessa Procura umbra dice che «alcuni episodi raccontati da Amara hanno ricevuto anche se parziale riscontro», e non sono cose da poco: «interferenze, tentativi di condizionamento di nomine di vertici della giurisdizione, di enti, istituzioni e società pubbliche che pure possono ritenersi avvenuti». Tutti affari che però «non sono risultati affatto indicativi dell'esistenza di una associazione segreta», ma dei traffici di Amara e dei suoi accoliti.

Non tutto è chiuso, anche se la richiesta di Cantone dovesse venire accolta: inchieste su singoli fatti vengono smistate ad altre Procure, il fascicolo principale torna a Milano perché proceda a carico di Amara per calunnia ed autocalunnia. E le 167 pagine vengono trasmesse anche alla Cassazione perché valuti gli illeciti disciplinari che una serie di magistrati che vi compaiono avrebbero commesso. Ungheria o non Ungheria. 

"Nessun riscontro". Chiesta l'archiviazione per il caso Amara. Marco Leardi l'8 Luglio 2022 su Il Giornale.

La procura di Perugia, guidata da Raffaele Cantone, ha chiesto l'archiviazione sul caso della cosiddetta Loggia Ungheria, sollevato dalle rivelazioni dell'avvocato Amara. "Emerse contraddizioni"

"Propalazioni non riscontrate" in parte o integralmente. Così, la procura di Perugia ha chiesto al gip l'archiviazione per il procedimento sulla cosiddetta Loggia Ungheria, un presunto gruppo segreto formato da politici, magistrati e personaggi pubblici. Il caso, nello specifico, era partito dai verbali dell'ex legale esterno di Eni, Piero Amara, il quale si era detto sicuro dell'attività della suddetta associazione. Secondo i magistrati guidati dal procuratore Raffale Cantone, tuttavia, non è risultata "adeguatamente riscontrata" l'esistenza della presunta loggia.

Stando a quanto denunciato da Amara, la Loggia Ungheria avrebbe agito in violazione della Legge Anselmi, norma che punisce le associazioni segrete impegnate a interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali. Nella richiesta di archiviazione si fa specifica menzione per ognuno degli episodi narrati da Amara, degli accertamenti fatti e degli eventuali riscontri. Anche e soprattutto in funzione di verificare sia l'attendibilità dell'avvocato sia se gli episodi raccontati potessero essere essi stessi "elementi sintomatici" dell'esistenza dell'associazione Ungheria. Ebbene, alla luce di quelle verifiche non sarebbero stati ravvisati elementi concreti per proseguire il caso giudiziario.

Alla valutazione di attendibilità di Amara, si legge nel comunicato della Procura di Perugia, è stato in particolare dedicato un intero paragrafo nel quale sono state esaminate "le tante aporie" e le "contraddizioni emerse". "Sull'esistenza dell'associazione non sono emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l’esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato, socio di Amara, che però si è limitato a dichiarare il dato dell’esistenza dell’associazione senza fornire alcun elemento concreto di cui sua conoscenza diretta e si è poi avvalso da ultimo della facoltà di non rispondere, impedendo quindi di operare alcun accertamento mirato", ha inoltre spiegato il procuratore capo di Perugia.

Nella nota della procura viene anche ricostruita la vicenda dei verbali resi dall'avvocato, che in passato aveva patteggiato una condanna per corruzione in atti giudiziari, agli inquirenti milanesi. "In particolare già nel novembre 2020 era emersa la certezza che i verbali di interrogatorio di Amara fossero nella disponibilità di soggetti estranei al processo, tanto da essere trasmessi integralmente a un giornalista, e tale propalazione è proseguita anche nei primi mesi del 2021 con l’invio di una parte dei verbali di dichiarazioni ad altro giornalista e ad un consigliere Csm che ne aveva fatto anche pubblica menzione in un intervento al Plenum dell’organo di autogoverno", si legge. Il caso dei verbali aveva scosso la procura di Milano e portato a processo il pm Paolo Storari (assolto in abbreviato) e l'ex di Mani Pulite Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione del segreto. 

L'associazione eversiva sarebbe un bluff. La Loggia Ungheria non esiste, per Cantone è una invenzione di Amara: la procura chiede l’archiviazione. Fabio Calcagni su Il Riformista l'8 Luglio 2022

La Loggia Ungheria era una invenzione di Piero Amara, l’ex avvocato esterno di Eni? È la tesi della Procura di Perugia, che ha chiesto l’archiviazione del procedimento aperto dopo le rivelazioni fatte da Amara nei suoi verbali.

A chiedere l’archiviazione è stato il procuratore capo di Perugia Raffaele Cantone, in un maxi documento di 167 pagine accompagnato dall’intero fascicolo, contenuto in quasi 15 faldoni di documenti.

Nessuna associazione segreta dunque, secondo la Procura umbra, avrebbe agito tra le altre cose per manovrare le nomine in magistratura e violato così la legge Anselmi che punisce le associazioni segrete che “svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali“.

Per Cantone la circostanza “non è adeguatamente riscontrata. Sull’esistenza dell’associazione non sono, infatti, emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l’esistenza al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato, socio di Amara, che però si è limitato a dichiarare il dato dell’esistenza dell’associazione senza fornire alcun elemento concreto di cui sua conoscenza diretta e si è poi avvalso da ultimo della facoltà di non rispondere, impedendo quindi di operare alcun accertamento mirato”, ha spiegato il procuratore capo di Perugia.

Il complesso delle indagini condotte dalla procura di Perugia sulla cosiddetta Loggia Ungheria “ha portato a ritenere integralmente o parzialmente non riscontrate numerose propalazioni dell’avvocato” Piero Amara, di fatto descritto come una sorta di archiviazione come una sorta di millantatore seriale. Che per l’ufficio guidato  Cantone “tecnicamente vanno inquadrate come chiamate in correità dirette o de relato, e quindi come non accertati fatti narrati o in alcuni ha portato a ritenere avvenuti i fatti, ma escluso che in essi Amara avesse potuto svolgere un ruolo, come da lui riferito“.

Archiviata anche l’ipotesi di un’associazione delinquere perché, scrive ancora Cantone nel chiedere l’archiviazione del procedimento, “si ritiene che non sia stata comunque provata l’esistenza di un nucleo organizzativo che potesse far configurare” il reato.

Delle dichiarazioni di Amara sulla loggia Ungheria restano alcune indagini connesse da svolgere, singoli reati trasmessi per competenza ad altre procure, oltre a possibili profili disciplinari per alcuni magistrati.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

“La Loggia Ungheria non esiste”. La procura di Perugia chiede l’archiviazione. Il Dubbio l'8 luglio 2022.

Per il procuratore Cantone l'associazione segreta è un'invenzione di Piero Amara, ex legale dell'Eni

«In quanto alla esistenza di un’associazione segreta denominata Ungheria si è concluso nel senso di ritenere la circostanza non adeguatamente riscontrata». Così la Procura di Perugia in una nota in cui annuncia di aver chiesto l’archiviazione del procedimento sulla Loggia Ungheria.

Il procedimento per il quale la Procura della Repubblica di Perugia ha chiesto al Gip l’archiviazione, ricorda il procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, riguardava l’ipotizzata esistenza di una associazione segreta che avrebbe agito in violazione della legge Anselmi. Legge che punisce quelle associazioni che operano per interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali. Figura centrale dell’inchiesta, l’avvocato Pietro Amara, le cui dichiarazioni, ricorda il procuratore Cantone, sono state verificate puntualmente dagli inquirenti.

«Il complesso delle investigazioni – sostiene il procuratore di Perugia – ha portato a ritenere integralmente o parzialmente non riscontrate numerose propalazioni dell’avvocato che tecnicamente vanno inquadrate come chiamate in correità dirette o de relato, e quindi come non accertati fatti narrati o in alcuni ha portato a ritenere avvenuti i fatti, ma escluso che in essi Amara avesse potuto svolgere un ruolo come da lui riferito».

«Alla valutazione di attendibilità dell’avvocato è stato dedicato un intero paragrafo in cui si sono esaminate le tante aporie e contraddizioni emerse, ma anche le non poche conferme al suo narrato con riferimento ad alcuni specifici episodi e si è concluso nel senso che le complessive dichiarazioni dell’avvocato non dovessero considerarsi affette da quella “inattendibilità talmente macroscopica da compromettere in radice la credibilità del dichiarante” e si è ritenuto di conseguenza necessario un livello di riscontri particolarmente elevato per ritenere accertati i fatti da lui dichiarati».

«Interferenze o tentativi di condizionamento di vertice delle giurisdizione ordinaria o amministrativa, tentativi compiuti o incompiuti di interferire su nomine di vertici di enti, istituzioni e società pubbliche che pure possono ritenersi avvenuto, sono risultati ascrivibili a interessi personali o professionali diretti dell’Amara o di soggetti a lui strettamente legati, piuttosto che conseguenza dell’attività di condizionamento di una loggia», spiega ancora Cantone. Nel provvedimento di archiviazione, spiega ancora il procuratore, «si dà atto come su alcune vicende specifiche rappresentate da Amara, sono stati effettuati stralci per poter effettuare indagini da parte dell’Ufficio di altri uffici. Per l’eventuale ipotesi di calunnia e autocalunnia, gli atti verranno trasmessi alla Procura di Milano per competenza».

Sull’esistenza della loggia Ungheria «non sono emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l’esistenza – si legge nella nota della Procura di Perugia – al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato, socio di Amara, che però si è limitato a dichiarare il dato dell’esistenza dell’associazione senza fornire alcun elemento concreto di cui sua conoscenza diretta e si è poi avvalso da ultimo della facoltà di non rispondere, impedendo quindi di operare alcun accertamento mirato». «Alcuni soggetti, fra l’altro pure legati da stretti rapporti con Amara hanno riferito di essere stati contattati in passato da uno dei vertici della presunta organizzazione, oggi defunto, che aveva loro chiesto di aderire ma non avevano ritenuto di farlo. Si tratta di affermazioni che non consentono in alcun modo di essere considerato un riscontro all’esistenza di un’associazione che oltre a dover essere segreta deve avere una serie di caratteristiche di cui questi soggetti nulla sono stato in grado di riferire», sottolinea la Procura.

“La Loggia Ungheria non esiste”. La procura di Perugia chiede l’archiviazione. Il Dubbio l'8 luglio 2022.

Per il procuratore Cantone l'associazione segreta è un'invenzione di Piero Amara, ex legale dell'Eni

«In quanto alla esistenza di un’associazione segreta denominata Ungheria si è concluso nel senso di ritenere la circostanza non adeguatamente riscontrata». Così la Procura di Perugia in una nota in cui annuncia di aver chiesto l’archiviazione del procedimento sulla Loggia Ungheria.

Il procedimento per il quale la Procura della Repubblica di Perugia ha chiesto al Gip l’archiviazione, ricorda il procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, riguardava l’ipotizzata esistenza di una associazione segreta che avrebbe agito in violazione della legge Anselmi. Legge che punisce quelle associazioni che operano per interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali. Figura centrale dell’inchiesta, l’avvocato Pietro Amara, le cui dichiarazioni, ricorda il procuratore Cantone, sono state verificate puntualmente dagli inquirenti.

«Il complesso delle investigazioni – sostiene il procuratore di Perugia – ha portato a ritenere integralmente o parzialmente non riscontrate numerose propalazioni dell’avvocato che tecnicamente vanno inquadrate come chiamate in correità dirette o de relato, e quindi come non accertati fatti narrati o in alcuni ha portato a ritenere avvenuti i fatti, ma escluso che in essi Amara avesse potuto svolgere un ruolo come da lui riferito».

«Alla valutazione di attendibilità dell’avvocato è stato dedicato un intero paragrafo in cui si sono esaminate le tante aporie e contraddizioni emerse, ma anche le non poche conferme al suo narrato con riferimento ad alcuni specifici episodi e si è concluso nel senso che le complessive dichiarazioni dell’avvocato non dovessero considerarsi affette da quella “inattendibilità talmente macroscopica da compromettere in radice la credibilità del dichiarante” e si è ritenuto di conseguenza necessario un livello di riscontri particolarmente elevato per ritenere accertati i fatti da lui dichiarati».

«Interferenze o tentativi di condizionamento di vertice delle giurisdizione ordinaria o amministrativa, tentativi compiuti o incompiuti di interferire su nomine di vertici di enti, istituzioni e società pubbliche che pure possono ritenersi avvenuto, sono risultati ascrivibili a interessi personali o professionali diretti dell’Amara o di soggetti a lui strettamente legati, piuttosto che conseguenza dell’attività di condizionamento di una loggia», spiega ancora Cantone. Nel provvedimento di archiviazione, spiega ancora il procuratore, «si dà atto come su alcune vicende specifiche rappresentate da Amara, sono stati effettuati stralci per poter effettuare indagini da parte dell’Ufficio di altri uffici. Per l’eventuale ipotesi di calunnia e autocalunnia, gli atti verranno trasmessi alla Procura di Milano per competenza».

Sull’esistenza della loggia Ungheria «non sono emersi elementi neanche indiretti che potessero attestarne l’esistenza – si legge nella nota della Procura di Perugia – al di fuori delle dichiarazioni di Amara e delle dichiarazioni di un altro indagato, socio di Amara, che però si è limitato a dichiarare il dato dell’esistenza dell’associazione senza fornire alcun elemento concreto di cui sua conoscenza diretta e si è poi avvalso da ultimo della facoltà di non rispondere, impedendo quindi di operare alcun accertamento mirato». «Alcuni soggetti, fra l’altro pure legati da stretti rapporti con Amara hanno riferito di essere stati contattati in passato da uno dei vertici della presunta organizzazione, oggi defunto, che aveva loro chiesto di aderire ma non avevano ritenuto di farlo. Si tratta di affermazioni che non consentono in alcun modo di essere considerato un riscontro all’esistenza di un’associazione che oltre a dover essere segreta deve avere una serie di caratteristiche di cui questi soggetti nulla sono stato in grado di riferire», sottolinea la Procura.

Ermini su Amara: "Parlai con Mattarella e lui restò in silenzio". Luca Fazzo l'8 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il numero 2 del Csm s'incarta al processo Davigo sui verbali. E sostiene: "Li buttai"

Due scene surreali, una dopo l'altra, vengono evocate ieri nell'aula del processo a Piercamillo Davigo, l'ex pm di Mani Pulite incriminato per avere ricevuto e poi divulgato i verbali supersegreti del caso Eni. A riferire entrambe le scene è David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, chiamato a testimoniare in aula. Scena 1. Davigo che va a trovare Ermini due volte, la prima gli racconta il contenuto dei verbali, la seconda glieli consegna in copia, Ermini inorridisce e appena Davigo esce li strappa e li butta. Seconda scena: Ermini che va a raccontare tutto al presidente della Repubblica, e Sergio Mattarella non dice né ah né bah. Muto. Nessun commento. Anche se in quei verbali ci sono le dichiarazioni «pentito» Piero Amara sulla terribile loggia Ungheria che infesterebbe politica, forze armate e lo stesso Csm.

Sarà tutto vero, eh. Anche se, nella ricostruzione che fa Ermini, non tutto fila. I verbali «erano irricevibili», dice, «e li distrussi perché mi volevo liberare di una cosa che non sapevo se era piena di calunnie. La mia riflessione fu che se queste cose fossero uscite dalla mia stanza, avrei fatto un danno incalcolabile». Allora perché accetta di riceverli da Davigo, perché non dice al Dottor Sottile «sei matto, riprenditi questa roba?». Mistero. Perché non gli chiede dove li ha presi? Altro mistero. Però, su suggerimento dello stesso Davigo, Ermini corre al Quirinale: «Davigo era molto deciso sul fatto che io dovessi avvisare il Presidente della Repubblica, perché in questa presunta loggia erano indicati degli appartenenti alle forze di polizia, finanza e carabinieri, alcuni in servizio altri non più». E lì arriva il clou, con la scena muta di Sergio Mattarella.

Più passa il tempo e più il caso dei verbali di Amara diventa un pasticcio politico-istituzionale. Ermini, che come vicepresidente è di fatto il rappresentante di Mattarella nel Csm, diventa il terminale dello scontro furibondo interno alla Procura di Milano proprio sulla gestione dei verbali sulla Loggia. Ieri appare quasi frastornato, incapace di dare un senso logico alle sue mosse di quei giorni. E infatti nel giro di pochi minuti su di lui si abbatte il commento di Matteo Renzi, che lo volle al Csm ma poi se ne è amaramente pentito: «Oggi Ermini conferma per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro Il Mostro. Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha letto Il Mostro o non l'ha capito». Poche settimane fa, presentando il libro, Renzi aveva detto: «Il vicepresidente del Csm che riceve una prova del reato e la distrugge! Ci sono cose che insegnano al primo anno di serie tv: non si distrugge la prova».

Per Davigo, comunque, la testimonianza di Ermini è un colpo basso: perché il vicepresidente del Csm, per spiegare il proprio operato, dice che il comportamento del Dottor Sottile era del tutto irrituale, «procedure informali da noi al Consiglio non si possono fare, tutto quello che arriva dev'essere formalizzato, non esiste nulla di informale». Illegittimo Davigo quando riceve informalmente i verbali dal pm milanese Paolo Storari, illegittimo quando li rifila a Ermini a tu per tu. Davigo ieri se ne rende conto subito, chiede la parola, spiega a lungo al giudice che mandarli al Csm per vie ufficiali proprio non si poteva, neanche al ristrettissimo comitato di presidenza (Mattarella, Ermini e i vertici della Cassazione) perché «il Comitato di presidenza non si fidava della struttura amministrativa del consiglio e che il plico venisse visto solo dai consiglieri». Un bel ritratto di un Csm colabrodo, dove carte segrete finiscono in mano a chiunque. Peccato che poi a mandarle ai giornali sia stata proprio la segretaria di Davigo.

(ANSA il 7 Luglio 2022) - "Parlai al presidente della Repubblica. Riferii tutto quello che mi disse Davigo e lui non fece commenti". Lo ha detto in aula a Brescia David Ermini, vicepresidente del Csm sentito come teste al processo nei confronti di Pier Camillo Davigo, ex componente del Csm imputato per il caso dei verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

Ermini ha raccontato di essere andato al Quirinale, per una visita già programmata, nella quale parlò anche del caso Milano e delle dichiarazioni rese ai pm da Amara.

(ANSA il 7 Luglio 2022) - "Secondo me fu una confidenza che il consigliere Davigo volle farmi. Mi consegnò quei verbali, li presi per fargli una cortesia ma li cestinai perché erano irricevibili". Lo ha spiegato in aula a Brescia il vicepresidente del Csm David Ermini sentito come teste al processo in cui Pier Camillo Davigo è imputato per il caso Amara.

Ermini ha spiegato che dopo un primo incontro il 4 maggio 2020 in cui Davigo gli chiese "di avvisare il presidente Mattarella, e io concordai", ci fu un secondo colloquio qualche giorno dopo in cui Davigo gli consegnò una cartelletta con dentro copia dei verbali stampati sulla presunta loggia Ungheria, "tutti fogli non firmati, solo alcuni con intestazione Procura della Repubblica", ritenuti "atti informali e inutilizzabili", che quindi non potevano far ingresso al Csm. Ermini ha sostenuto che questo secondo incontro fu in sostanza confidenziale.

(Adnkronos il 7 Luglio 2022) - "Oggi il vicepresidente CSM Ermini,  interrogato come testimone nell`ambito del processo Davigo, conferma  per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro `Il Mostro`. 

Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha  letto `Il Mostro` o non l`ha capito. Ancora poche settimane e il CSM di David Ermini sarà solo un brutto ricordo". Così Matteo Renzi su Fb. 

Benedetta Dalla Rovere per LaPresse il 7 Luglio 2022. 

Verbali di interrogatori "non firmati, inutilizzabili e inservibili", il cui contenuto però era dirompente. Così il vice presidente del Csm, David Ermini, ha definito i verbali secretati in cui l`avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del “falso complotto” Eni, ha parlato della loggia Ungheria. 

Una "presunta loggia massonica coperta", ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici. Fatti talmente gravi che, poche ore dopo essere stato informato da Davigo, il 4 maggio 2020 Ermini ha deciso di andare a parlare della vicenda con il Presidente della Repubblica.

"Davigo mi disse che sarebbe stato opportuno che andassi dal Presidente della Repubblica" perché "della presunta loggia facevano parte esponenti delle forze armate e delle forze di polizia - ha chiarito Ermini - specialmente polizia e carabinieri. E poi anche magistrati, ex magistrati, un ex vicepresidente del Csm".  

"Io risposi di sì - ha aggiunto - . Andai dal presidente e gli riferii anche quello che mi aveva detto Davigo". E Mattarella "non fece alcun commento". Nei giorni successivi, Davigo si era recato da Ermini e gli aveva consegnato una copia non firmata di quei verbali. Documenti che aveva ricevuto in pieno lockdown dal pm Storari. Il magistrato milanese aveva voluto in questo modo "autotutelarsi" di fronte alle lentezze della Procura di Milano nell`avviare formalmente le indagini sulla vicenda.

"Ritenni quella di Davigo una confidenza", ha ricordato Amara, che non appena ricevuti i documenti ha detto di averli strappati e buttati  nel cestino, non sapendo che fossero secretati. "In consiglio noi non possiamo avere atti che non siano formali", ha spiegato. Non solo. "La cosa doveva rimanere segreta, perché se qualche consigliere fosse rimasto coinvolto non era opportuno", ha precisato il vicepresidente del Csm sottolineando come l`avvocato Amara avesse indicato come affiliati alla loggia coperta i consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti.

"In cuor mio pensavo che quelle carte" relative agli interrogatori in cui l`avvocato Piero Amara parlava della loggia Ungheria "dovessero arrivare al comitato di presidenza in modo rituale e per le vie ufficiali", ha aggiunto Ermini, altrimenti il Csm "non avrebbe potuto fare nulla". "Davigo non mi chiese di veicolare quei verbali al comitato di presidenza del Csm, sennò gli avrei detto che erano irricevibili. Me li ha consegnati perché li leggessi", ha precisato Ermini. 

L`ex pm di Mani Pulite aveva anche detto di aver consegnato il plico anche al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e a quel punto per Ermini "la vicenda era finita". "Nelle condizioni in cui abbiamo vissuto in questi anni", dopo il caso di Luca Palamara e lo scandalo sulle nomine del Csm "una velina non firmata con dichiarazioni dubbie non la posso accettare", ha chiarito Ermini. 

"Io che me ne dovevo fare di questi verbali? - ha aggiunto -  Erano irricevibili, mica potevo diventare il megafono di Amara". Anche Davigo è intervenuto in aula facendo dichiarazioni spontanee.  "Una delle ragioni per cui non ho formalizzato immediatamente è perché, una volta protocollato, il plico viene visto dalla struttura" del Csm, inclusi i componenti delle commissioni interessate, i giudici segretari e i funzionari.  "Non si trattava di una vicenda isolata e anomala - ha chiarito Davigo -  ma di una situazione in cui il comitato di presidenza aveva ragione di dubitare della tenuta della struttura consiliare".

"Quando il pm Storari viene da me" per "autotutelarsi" di fronte a quelle che riteneva un`inerzia della Procura di Milano nell`avviare le indagini "io ricevo una notizia di reato - ha proseguito -. Io sono un pubblico ufficiale, ho l`obbligo di denunciare, cosa che feci al pg Giovanni Salvi. La questione era che io dovevo segnalare la vicenda in modo che non potesse comunque recare danno alle indagini. Avrei potuto fare una denuncia alla Procura di Brescia, che avrebbe chiesto gli atti alla Procura di Milano, con il risultato che le indagini non si sarebbero più fatte. La mia finalità principale era che quel processo tornasse sui binari di legalità, perché non c'erano i binari della legalità". 

"Non ricordo se ho detto al vicepresidente del Csm David Ermini che i verbali sono secretati - ha concluso Davigo - ma sono certo di avergli detto che dopo 5 mesi la Procura di Milano non aveva ancora fatto nulla". Il processo riprenderà il 13 ottobre.

Processo a Davigo, è il giorno di Ermini: «Mi lasciò i verbali e io li cestinai…» Il vicepresidente del Csm al processo contro l’ex pm: «Non mi chiese di formalizzare nulla. Mi disse: un massone è per sempre». Simona Musco su Il Dubbio l'8 luglio 2022.  

«Piercamillo Davigo non mi chiese di acquisire quei verbali. Lui me li lasciò, per non essere scortese li presi, ma li cestinai, perché noi al Consiglio non possiamo avere atti che non arrivino in modi formali. Avendomi detto che se ne sarebbe occupato il procuratore generale della Cassazione io ritenni la sua una confidenza. Le parole “Comitato di presidenza” non furono mai pronunciate». A dirlo, davanti al Tribunale di Brescia, è il vicepresidente del Csm David Ermini, chiamato a testimoniare nel processo a carico di Davigo, accusato di rivelazione di segreto d’ufficio per aver diffuso i verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

Verbali che gli furono consegnati ad aprile del 2020 dal pm Paolo Storari per «autotutelarsi», temendo che il ritardo nelle iscrizioni dei primi indagati potesse, un giorno, essere imputato a lui. Secondo quanto confermato da Storari in aula nel corso della scorsa udienza, Davigo si sarebbe proposto di fare da tramite col Comitato di presidenza, per far arrivare la questione ai vertici del Csm. Ma ciò, stando al racconto di Ermini, non avvenne. Davigo, infatti, si sarebbe preoccupato principalmente di chiedere al vicepresidente del Csm di avvisare il Presidente della Repubblica, durante un incontro avvenuto nel giorno in cui il Consiglio riprese la sua attività dopo il lockdown, il 4 maggio 2020.

«Venne nella mia stanza e mi chiese di seguirlo in cortile lasciando i telefonini, perché mi doveva dire una cosa molto seria», ha raccontato Ermini. «Era molto deciso sul fatto che io dovessi – ed io concordai – avvisare il presidente della Repubblica, perché in questa presunta loggia erano indicati appartenenti alle forze di polizia. E poi mi raccontò anche che c’erano due consiglieri in carica», ovvero Sebastiano Ardita (ex amico di Davigo e parte civile nel processo) e Marco Mancinetti. Ermini si recò al Quirinale poco dopo, riferendo tutto ciò che Davigo gli aveva raccontato a riguardo della loggia. «Il Presidente non fece alcun commento, ne prese atto», ha spiegato il numero due del Csm. Che riparlò della questione con Davigo nei giorni successivi. «Si presentò da me senza appuntamento con una cartellina e mi disse che mi aveva fatto stampare queste dichiarazioni. Erano tutti fogli non firmati, alcuni con l’intestazione “Procura della Repubblica”, altri senza. Via via che lui scorreva vedevo alcuni nomi e su qualcuno ebbi qualche dubbio. Ascoltai, ma dentro di me ero perplesso sul fatto che mi fossero mostrati degli atti informali, inutilizzabili di fatto». Dopo aver ricevuto i verbali, Ermini li avrebbe strappati e gettati nel contenitore della carta. «Non li ho letti e non sapevo che fossero atti secretati», ha affermato, replicando al presidente del collegio Roberto Spanò secondo cui, in caso contrario, si sarebbe trattato di soppressione del corpo del reato.

«Che ne facevo? – ha replicato – Io mica potevo diventare il megafono di Amara. Il Csm andava difeso da qualsiasi cosa». Per quanto riguarda la presunta inerzia della procura di Milano, Davigo disse che ne avrebbe discusso con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi: «Concordammo che era l’unico che poteva fare qualcosa in tema di giurisdizione. Io mai avrei potuto chiamare Greco (Francesco, ex procuratore di Milano, ndr) per dirgli “vai avanti”: sarebbe stato fuori da ogni regola. E non avrebbe potuto farlo nemmeno il Colle». Davigo, stando al racconto di Ermini, non calcò particolarmente la mano sui nomi di Ardita e Mancinetti. Ma la cosa doveva rimanere segreta: il rischio era, infatti, che i due togati venissero a conoscenza di quei verbali. Proprio per tale motivo, dal punto di vista di Ermini, si trattò di «una confidenza», in assenza di richieste ufficiali. «Non mi chiese di formalizzare», ha spiegato. E se anche avesse fatto tale richiesta, «avrei dovuto dirgli che non avrei potuto, perché erano atti non ufficiali», per giunta «in word» e «senza firma». Ma «Davigo è uno dei magistrati più esperti d’Italia, immaginavo e immagino che conoscesse il rito. Lui lo sapeva benissimo che noi non potevamo fare niente». Anche perché, ha confermato Ermini, non esiste una prassi che autorizzi il singolo consigliere ad acquisire atti senza una procedura formale. «Io ho l’obbligo di difendere il Consiglio – ha aggiunto Ermini -, le istituzioni e anche il Presidente della Repubblica, e in quella situazione aveva in mano una velina non firmata, con dichiarazioni dubbie». Sulla presunta affiliazione di Ardita, Ermini espresse subito dei dubbi: «Dissi che mi sembrava strano. Vedendo il nome di Tinebra (Giovanni, ex pg di Catania, ndr) dissi che forse era roba di quando era giovane – ha spiegato -. E lui mi disse: “guarda che i massoni vanno in sonno ma rimangono sempre massoni”». Una frase «pesantissima – ha commentato Roberto Spanò -. Vuol dire che Davigo riteneva che fosse verosimile».

L’ex pm di Mani Pulite non chiese ad Ermini di mantenere segreta la vicenda: fu lui stesso a decidere di farlo, nella convinzione che solo in tre ne fossero a conoscenza. Ma a svelare tutto al plenum ci pensò il togato Nino Di Matteo, che quei verbali li ricevette per posta – secondo la procura di Roma per mano dell’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto -, ipotizzando un complotto ai danni di Ardita. Ermini convocò così una riunione, durante la quale scoprì che erano in molti, in realtà, a sapere di quei verbali: ad informarli era stato proprio Davigo, che aveva invitato i colleghi a prendere le distanze da Ardita. Che «si sentiva molto colpito da questa cosa: la riteneva un’offesa». Davigo, nel corso dell’udienza, ha voluto prendere la parola per replicare alle dichiarazioni di Ermini. «La cosa più facile per me sarebbe stata fare una nota di servizio e consegnarla, ma quando viene protocollata, viene vista» dall’intera struttura amministrativa del Csm, «che questa presidenza ha ritenuto non molto affidabile», ha spiegato, riferendosi alla fuga di notizie sull’indagine condotta dalla Procura di Perugia sull’ex membro del Csm Luca Palamara.

Processo Davigo: il vicepresidente del Csm Ermini interrogato. Renzi torna all’attacco: “Conferma quello che ho scritto”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 luglio 2022.  

Il vice presidente del Csm David Ermini, ha definito i verbali secretati nei quali l' avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del "falso complotto Eni", ha parlato della loggia Ungheria. Verbali di interrogatori "non firmati, inutilizzabili e inservibili", il cui contenuto però era dirompente. Una "presunta loggia massonica coperta", ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici.

Dopo una settimana di silenzio, Matteo Renzi è tornato ad attaccare pesantemente la magistratura. E lo ha fatto attraverso la propria pagina Facebook. “Oggi il vicepresidente del Csm Ermini, interrogato come testimone nell’ambito del processo Davigo, conferma per filo e per segno ciò che io ho scritto nel libro “Il Mostro”. Dunque Ermini che minacciava invano querele (poi non fatte) o non ha letto Il Mostro o non l’ha capito. Ancora poche settimane e il Csm di David Ermini sarà solo un brutto ricordo”. Parole che si riferiscono, in modo chiaro ed inequivocabile alla presunta “loggia Ungheria” e agli interrogatori dell’avvocato Pietro Amara. 

Renzi nelle pagine del suo libro “Il Mostro”, ha accusato senza mezzi termini Ermini di aver distrutto “materiale ufficiale proveniente dalla Procura di Milano, eliminando il corpo del reato”. Immediata la replica del vicepresidente del Csm, sostenendo che si trattava di una “affermazione temeraria e falsa, essendo il cartaceo mostratomi dal dottor Davigo, come ho più volte pubblicamente precisato e come il senatore Renzi sa benissimo, copia informale, priva di ufficialità, di origine del tutto incerta e in quanto tale senza valore e irricevibile. Il senatore Matteo Renzi ne risponderà davanti all’autorità giudiziaria”. 

Una polemica quella fra Renzi ed Ermini datata metà maggio che torna di stretta attualità oggi, a distanza di quasi due mesi . Un’unica, granitica certezza è che questa sarà la battaglia più importante della carriera politica del leader di Italia Viva. Uno scontro dal quale uscirà o vincitore assoluto o sconfitto, senza prove di appello, destinato all’oblio e ricordato solo come un enfant prodige che non ce l’ha fatta. 

Il vice presidente del Csm David Ermini, ha definito i verbali secretati nei quali l’ avvocato Piero Amara, interrogato a Milano per il caso del “falso complotto Eni”, ha parlato della loggia Ungheria. Verbali di interrogatori “non firmati, inutilizzabili e inservibili”, il cui contenuto però era dirompente. Una “presunta loggia massonica coperta“, ha spiegato Ermini, che avrebbe alti magistrati, avvocati, vertici delle forze armate e di polizia, imprenditori e politici. Fatti talmente gravi che, poche ore dopo essere stato informato da Davigo, il 4 maggio 2020 Ermini ha deciso di andare a parlare della vicenda con il Presidente della Repubblica.

Il vice presidente del Csm David Ermini e l’ex consigliere Davigo

“Davigo mi disse che sarebbe stato opportuno che andassi dal Presidente della Repubblica” perché “della presunta loggia facevano parte esponenti delle forze armate e delle forze di polizia – ha spiegato Ermini – specialmente Polizia e Carabinieri. E poi anche magistrati, ex magistrati, un ex vicepresidente del Csm“.  “Io risposi di sì – ha aggiunto Ermini – . Andai dal presidente e gli riferii anche quello che mi aveva detto Davigo“. Mattarella “non fece alcun commento“. Nei giorni successivi, Davigo si era recato da Ermini e gli aveva consegnato una copia non firmata di quei verbali. Documenti che aveva ricevuto in pieno lockdown dal pm Storari della procura di Milano . Il magistrato aveva voluto in questo modo “autotutelarsi” di fronte alle lentezze della Procura di Milano nell`avviare formalmente le indagini sulla vicenda.

“Ritenni quella di Davigo una confidenza”, ha ricordato Ermini, che non appena ricevuti i documenti ha detto di averli strappati e buttati  nel cestino, non sapendo che fossero secretati. “In consiglio noi non possiamo avere atti che non siano formali”, ha spiegato. Non solo. “La cosa doveva rimanere segreta, perché se qualche consigliere fosse rimasto coinvolto non era opportuno”, ha precisato il vicepresidente del Csm sottolineando come l’avvocato Amara avesse indicato i magistrati consiglieri del Csm Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti come “affiliati” alla loggia coperta .

Ermini in tribunale a Brescia ascoltato come testimone

“In cuor mio pensavo che quelle carte” relative agli interrogatori in cui Amara parlava della loggia Ungheria “dovessero arrivare al comitato di presidenza in modo rituale e per le vie ufficiali”, ha aggiunto Ermini, altrimenti il Csm “non avrebbe potuto fare nulla”. “Davigo non mi chiese di veicolare quei verbali al comitato di presidenza del Csm, sennò gli avrei detto che erano irricevibili. Me li ha consegnati perché li leggessi”, ha precisato Ermini.

L`ex pm di Mani Pulite ora in pensione, aveva anche detto di aver consegnato il plico anche al procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e a quel punto per Ermini “la vicenda era finita“. “Nelle condizioni in cui abbiamo vissuto in questi anni”, dopo il caso di Luca Palamara e lo scandalo sulle nomine del Csm “una velina non firmata con dichiarazioni dubbie non la posso accettare“, ha chiarito Ermini.

Piercamillo Davigo, Pietro Amara e Paolo Storari

“Io che me ne dovevo fare di questi verbali? – ha aggiunto –  Erano irricevibili, mica potevo diventare il megafono di Amara“. Anche Davigo è intervenuto in aula facendo dichiarazioni spontanee.  “Una delle ragioni per cui non ho formalizzato immediatamente è perché, una volta protocollato, il plico viene visto dalla struttura” del Csm, inclusi i componenti delle commissioni interessate, i giudici segretari e i funzionari.  “Non si trattava di una vicenda isolata e anomala – ha chiarito Davigo –  ma di una situazione in cui il comitato di presidenza aveva ragione di dubitare della tenuta della struttura consiliare“.

“Quando il pm Storari viene da me” per “autotutelarsi” di fronte a quelle che riteneva un`inerzia della Procura di Milano nell`avviare le indagini io ricevo una notizia di reato – ha proseguito Davigo -. Io sono un pubblico ufficiale, ho l`obbligo di denunciare, cosa che feci al pg Giovanni Salvi. La questione era che io dovevo segnalare la vicenda in modo che non potesse comunque recare danno alle indagini. Avrei potuto fare una denuncia alla Procura di Brescia, che avrebbe chiesto gli atti alla Procura di Milano, con il risultato che le indagini non si sarebbero più fatte. La mia finalità principale era che quel processo tornasse sui binari di legalità, perché non c’erano i binari della legalità“.

Ermini ed il Pg della cassazione Salvi (a giorni pensionato)

“Non ricordo se ho detto al vicepresidente del Csm David Ermini che i verbali sono secretati “- ha concluso Davigo che ogni tanto svanisce la memoria come per incanto – “ma sono certo di avergli detto che dopo 5 mesi la Procura di Milano non aveva ancora fatto nulla”. Il processo riprenderà il 13 ottobre.

Loggia Ungheria, Storari testimonia nel processo all'ex pm di Mani Pulite: "Davigo? Non è un mio amico".  Luca De Vito su La Repubblica il 24 maggio 2022.  

Le parole del pm Storari davanti al tribunale di Brescia: "Quello che è accaduto e sta accadendo lo trovo lunare, davanti a me un muro di gomma". Il 7 luglio chiamato a testimoniare il vice presidente del Csm David Ermini.

"Piercamillo Davigo non era un mio amico prima, non lo è oggi. Ho una frequentazione con lui solo perché conosco la sua compagna. Mi sono rivolto a lui perché è l'unica persona che conosco che avesse un ruolo istituzionale. Quello che è accaduto e sta accadendo lo trovo lunare". Così il pm Paolo Storari ha parlato davanti ai giudici di Brescia come testimone al processo che vede l'ex pm di Mani Pulite Piercamillo

I retroscena. Loggia Ungheria, Storari: “Sono stato minacciato dai capi perché volevo indagare”. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Maggio 2022. 

“Quello che è accaduto e sta accadendo, lo trovo lunare: mi hanno anche minacciato di farmi un procedimento disciplinare”. A dirlo il pm milanese Paolo Storari ai giudici bresciani. Il magistrato è stato interrogato ieri come testimone assistito connesso nel processo contro Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione del segreto di ufficio. Storari, che per il medesimo reato era stato assolto nelle scorse settimane in abbreviato, ha ricostruito quanto accaduto alla Procura di Milano dopo gli interrogatori di Piero Amara che avevano svelato l’esistenza della loggia Ungheria.

Rispondendo alle domande del presidente del collegio Roberto Spanò, il magistrato ha confermato quanto dichiarato al procuratore di Brescia Francesco Prete a maggio dello scorso anno, quando, per la prima volta, aveva messo in luce l’ostruzionismo dei propri capi nel cercare riscontri alle testimonianza di Amara. L’interrogatorio di Storari era stato pubblicato in esclusiva dal Riformista. Noto alle cronache per essere anche fra i principali accusatori di Luca Palamara nel processo di Perugia e per aver patteggiato, record assoluto, ben cinquanta reati senza subire alcun sequestro, Amara aveva descritto il funzionamento della loggia Ungheria, composta da magistrati, imprenditori, professionisti, alti ufficiali delle Forze di polizia. Lo scopo del sodalizio paramassonico sarebbe stato quello di pilotare le nomine dei capi degli uffici giudiziari al Consiglio superiore della magistratura e aggiustare i processi.

Ad interrogare Amara erano stati Laura Pedio, vice del procuratore Francesco Greco, e Storari. I verbali delle dichiarazioni di Amara erano poi rimasti sulla scrivania dei pm per mesi, senza che ci fosse alcun sviluppo investigativo. Storari, stufo di questa inerzia, aveva allora deciso di informare Davigo, all’epoca consigliere del Csm. Storari ha precisato che a fare da tramite era stata la compagna di Davigo, la pm antimafia Alessandra Dolci. “Io metto i verbali word sulla chiavetta e li porto a casa sua”, ha dichiarato Storari. “Fammi leggere e ci rivediamo”, gli aveva risposto Davigo. “I fatti che riferisce questo qui sono gravissimi, ci penso io ad avvertire il Csm”, aveva poi detto Davigo dopo aver letto gli atti.

Ricevuti da Storari i verbali di Amara, Davigo aveva così informato il vice presidente del Csm David Ermini, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, alcuni consiglieri del Csm, il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s).

Storari, sempre rispondendo alle domande dei colleghi bresciani, ha voluto puntualizzare che, terminata la verbalizzazione di Amara, era intenzionato ad effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati dei soggetti che avrebbero fatto parte dalla loggia e all’acquisizione dei loro tabulati telefonici. Ma nulla di ciò avvenne. Il motivo era perché i suoi capi volevano “salvaguardare” Amara da possibili indagini in quanto utile come teste nel processo Eni-Nigeria in corso all’epoca a Milano. Un processo che la Procura di Milano non poteva perdere e sul quale aveva investito ingenti risorse. L’esito, invece, era stato di assoluzione per tutti gli imputati.

A tal proposito Storari ha raccontato di un colloquio con l’aggiunto Fabio De Pasquale, titolare del fascicolo Eni-Nigeria il quale gli aveva detto: “Secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni”. “Da queste sue affermazioni – ricorda il pm milanese – ho capito che non si scherzava”. “Ho una interlocuzione con il dottor Greco e gli dico se credesse alle dichiarazioni dell’avvocato siciliano”, continua Storari, ricevendo dal procuratore di Milano questa risposta: “Io credo ad Amara, ma in questo momento non voglio fare niente perchè non voglio inimicarmi il generale Zafarana (Giuseppe, comandante generale della guardia di finanza e, secondo Amara, appartenente alla loggia Ungheria, ndr) in quanto devo sistemare il colonnello Giordano (Vito, ndr) al nucleo valutario”. “Sono rimasto basito”, la replica ieri del pm milanese che si è più volte interrotto per la tensione accumulata. Paolo Comi

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 25 maggio 2022. 

«Non me li chiese il consigliere Csm Piercamillo Davigo: sono io che nell'aprile 2020, per far avvisare il Csm tramite lui e tutelarmi dal muro di gomma dei miei capi, diedi a Davigo su una chiavetta i verbali di Piero Amara su "loggia Ungheria", le trascrizioni e, non ricordo, ma se c'erano anche gli audio registrati dal suo collaboratore Calafiore»; e «dalla bocca di Davigo non uscì mai il nome di Sebastiano Ardita», consigliere Csm ora parte civile contro Davigo da cui si ritiene dossierato, «che a me all'epoca era sconosciuto». 

In quattro ore di deposizione al Tribunale di Brescia del pm Paolo Storari, sono le sole due circostanze rilevanti per il processo a Davigo per rivelazione di segreto, stralcio di quello in cui Storari in abbreviato è stato assolto mesi fa e attende ora l'appello.

Il grosso dell'udienza, dominata dall'interventismo del presidente Roberto Spanò, diventa l'ottavo interrogatorio (ma il primo in pubblico) in cui si assume «la responsabilità» di addebitare agli ex capi della Procura di avergli opposto appunto un «muro di gomma»; di non aver voluto indagare in fretta nei verbali di Amara il vero dal calunnioso; di averli utilizzati «a geometria variabile» per «non disturbare il processo Eni-Nigeria» del vice del procuratore Greco, De Pasquale. 

Riecco così, nel racconto del pm, la collega Pedio che lascia senza risposta le proposte di indagini di Storari, De Pasquale che a fine 2019 gli dice di tenere i verbali di Amara due anni in un cassetto, Greco che gli teorizza di non volere attriti con il comandante della Guardia di Finanza da cui attende la promozione di un ufficiale che gli sta a cuore: tutto, però, nello stesso tempo in cui i capi della Procura usano subito (e solo) due righe di un de-relato di seconda mano di Amara per cercare obliquamente di far fuori dal processo Eni-Nigeria il giudice Tremolada tacciato di sudditanza agli avvocati Eni (e il presidente Spanò annuisce, «mi fossi trovato in quella situazione, certo sarei stato costretto ad astenermi...»).

E quando Storari per tre volte (la prima sull'amicizia in frantumi con Pedio) si blocca sin quasi a sembrare sul punto di piangere («è pesante per me ricordare quello che ho passato»), trova la comprensione del presidente del Tribunale («si chiama "risonanza emotiva", fermiamoci pure un momento...»), rigido invece nel non ammettere decine di domande (ritenute non pertinenti) dell'avvocato Repici parte civile per Ardita.

Spanò si interessa se Storari avesse amici in Procura, «sì, a Luisa Baima sono legato, Alberto Nobili è un vecchio saggio, ma non mi confidai con loro o altri». Solo con Davigo, «perché era il solo che conoscessi con un ruolo istituzionale». Davigo poi parlò dei verbali a molti al Csm e pure all'onorevole Morra, chiede Spanò, «crede fosse in buona fede?». «Assolutamente sì. Seppero queste cose il pg di Cassazione, il vicepresidente Csm...: e nessuno, nè direttamente nè indirettamente, venne mai a dirmi "Paolo hai sbagliato"».

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 25 maggio 2022.   

Le indagini sulla loggia Ungheria non si sono fatte per due motivi: il procuratore di Milano Francesco Greco doveva raccomandare il colonnello della Guardia di Finanza Vito Giordano, suo stretto collaboratore, e Piero Amara, avvocato esterno dell'Eni originario di Augusta, non poteva essere accusato di calunnia. 

Lo ha dichiarato ieri davanti al tribunale di Brescia il pm milanese Paolo Storari, interrogato come testimone assistito connesso, nel processo contro Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione del segreto di ufficio. Per il medesimo reato Storari nelle scorse settimane era stato assolto in abbreviato.

Il magistrato, rispondendo alle domande del pm Francesco Milanesi e del presidente del collegio Roberto Spanò, ha ricostruito quanto accadde alla Procura di Milano fra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020, una volta terminati gli interrogatori dell'avvocato siciliano il cui nome compare in tutti i più importanti processi in corso in Italia in questi mesi. 

Amara, in particolare, in quell'occasione aveva rivelato l'esistenza di una loggia para-massonica super segreta denominata per l'appunto Ungheria e composta da magistrati, imprenditori, professionisti, alti ufficiali delle forze dell'ordine, a iniziare dai comandanti generali dell'Arma dei carabinieri e della Guardia di Finanza, rispettivamente i generali Tullio Del Sette e Giuseppe Zafarana, il cui scopo sarebbe stato quello di condizionare le nomine dei capi degli uffici giudiziari al Consiglio superiore della magistratura e aggiustare i processi per gli adepti.

L'avvocato Amara era stato sentito nell'ambito delle indagini per corruzione nei confronti dei vertici del colosso petrolifero del cane a sei zampe e aveva fatto una quarantina di nomi, raccontando il funzionamento della loggia. 

La deposizione esplosiva era stata raccolta da Laura Pedio, vice del procuratore di Milano Francesco Greco, e dallo stesso Storari. Quest' ultimo, terminata la verbalizzazione, decise di rivolgersi al suo capo per fare il punto. 

«Io credo ad Amara, ma in questo momento non voglio fare niente perché non voglio inimicarmi Zaffarana in quanto devo sistemare il colonnello Giordano al Nucleo valutario», era stata la risposta di Greco, ora nominato assessore alla Legalità del Comune di Roma dal sindaco Roberto Gualtieri (Pd). Una risposta che lasciò «basito» Storari.

Più o meno nello stesso periodo ci fu un altro colloquio sul punto con l'aggiunto Fabio De Pasquale, titolare del fascicolo Eni-Nigeria, il quale invece gli aveva detto: «Secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni». «Da queste due affermazioni ho capito che non si scherzava», ha proseguito Storari davanti ai colleghi bresciani.

Le dichiarazioni di Amara, continua Storari, «se fossero state sconfessate, avrebbero messo a rischio la credibilità del teste e potenzialmente minato l'impianto accusatorio del processo Eni-Nigeria: se tutto il procedimento è basato sulle calunnie, vuoi dirlo alle difese? A Brescia, dov' è in piedi un processo per calunnia? Vuoi dirlo ai giudici d'appello davanti ai quali si stava celebrando un processo in abbreviato? 

Nulla di tutto questo è stato fatto», ha quindi ricordato Storari. «Il processo Eni Nigeria ha aggiunto- era il più importante che c'era in quel momento. Il terzo dipartimento era il fiore all'occhiello della Procura e faceva i processi di serie A. Perdere in questo processo significava mettere in discussione tutto l'assetto organizzativo della Procura».

Visto che non si volevano fare indagini, Storari decise che bisognava informare dell'accaduto Davigo, all'epoca consigliere del Csm. Il magistrato ha precisato che il tramite fu la fidanzata di Davigo, la pm antimafia Alessandra Dolci. «Io metto i verbali word sulla chiavetta e li porta a casa sua», racconta Storari.

«Fammi leggere e ci rivediamo», rispose Davigo, aggiungendo poi che «i fatti che riferisce questo qui sono gravissimi». Ricevuti da Storari i verbali di Amara, Davigo avvisò David Ermini, vice presidente del Csm, Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, alcuni consiglieri del Csm, Nicola Morra, presidente ex grillino della Commissione parlamentare antimafia. Un comportamento che gli ha determinato l'accusa di rivelazione del segreto. 

Eni, ora Storari tira in ballo la compagna pm di Davigo. Luca Fazzo il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il caso dei verbali passati all'ex membro del Csm tramite la procuratrice Dolci: lo scambio nell'abitazione dei due.

Era una delle poche figure di spicco della Procura di Milano rimasta fuori dalle secche del «caso Amara», la gestione scomposta dei verbali del grande calunniatore del caso Eni, prima insabbiati in un cassetto, poi passati sottobanco dal pm Paolo Storari a Piercamillo Davigo, allora membro del Consiglio superiore della magistratura. Alessandra Dolci, procuratore aggiunto e capo del pool antimafia, dagli scontri che hanno avvelenato la Procura milanese era rimasta saggiamente a distanza. Ma ieri Storari viene interrogato a Brescia nel processo a carico di Davigo, accusato di rivelazione di segreto d'ufficio per avere divulgato a sua volta i verbali di Amara. E Storari chiama in causa la Dolci, che all'epoca dei fatti era il suo superiore diretto nel pool antimafia.

Di fronte all'inerzia dei vertici della Procura, ovvero del procuratore Francesco Greco, Storari dice di avere pensato di rivolgersi a Davigo in quanto membro del Csm. E di averlo fatto però proprio attraverso la Dolci: «Io corro il rischio di essere coinvolto in questa inerzia, l'unica persona che conoscevo, non è un mio amico, è Davigo. Sono amico di Alessandra Dolci che è la sua compagna, l'unica persona che mi è venuta in mente e avesse un ruolo istituzionale è Davigo». Ed è a casa della coppia Dolci-Davigo che avviene il passaggio della pendrive con i verbali (in brutta copia) di Amara. «Gli consegno la chiavetta e mi dice fammi leggere i verbali e ci rivediamo. Dopo due giorni, ritorno a casa sua, siamo in pieno lockdown, mi dice i fatti che narra sono gravissimi"». Il problema è che, secondo la Procura di Brescia, con quella consegna si commette un reato. E facendo il nome della Dolci Storari costringe a chiedersi se la dottoressa sapesse quanto accadeva tra il suo compagno e il suo sostituto. Ed è facile immaginarsi l'imbarazzo della Dolci, visto che l'obiettivo dei due era Greco: di cui in quel momento era uno dei bracci destri, a capo di uno dei dipartimenti più delicati.

Storari per avere passato i verbali segreti è stato assolto, ma la Procura ha fatto ricorso, e quindi non è ancora ufficialmente salvo. In aula è apparso commosso, provato da una situazione «lunare», ma deciso a rivendicare la sua buona fede. Sulle circostanze che lo avevano spinto a contattare - attraverso la Dolci - Davigo, il pm è tornato a puntare il dito contro la gestione da parte di Greco del processo Eni. I verbali di Amara andavano tenuti nel cassetto, ha detto, per non compromettere l'esito del processo per corruzione ai manager del colosso di Stato, che proprio sulle frottole di Amara era in parte basato. Per avere sollecitato l'apertura formale di un fascicolo, Storari dice di essere stato addirittura minacciato di procedimento disciplinare. E torna a chiamare in causa il titolare del processo Eni, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale il quale gli avrebbe detto «secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni». «Da queste sue affermazioni - chiosa Storari - ho capito che non si scherzava». Aggiunge, rispondendo alle domande del giudice Roberto Spanò: «Non è stato fatto niente da dicembre 2019 fino a gennaio 2021. Perché non si voleva disturbare il processo Eni-Nigeria», istruito dal dipartimento affari internazionali, guidato da De Pasquale, il «fiore all'occhiello» della Procura e che «faceva processi di serie A». «Era - spiega ancora Storari - il processo più importante a Milano, fatto dal dipartimento più discusso, una sconfitta significava mettere in dubbio l'organizzazione di Greco». La sconfitta, come è noto, è arrivata, con l'assoluzione di tutti gli imputati con formula piena: e la dissoluzione di quella che era stata la Procura di Mani Pulite si spiega proprio con la foga accusatoria riversata in quel processo.

(Intanto il nuovo procuratore, Marcello Viola, aspetta di sapere se De Pasquale e Storari, per i quali è stato chiesto il trasferimento d'ufficio, resteranno a Milano. Ma il Csm sembra avere per il momento altre priorità)

Parla il pm Storari: «Davigo non nominò mai Ardita con me». Entra nel vivo il processo a Brescia che vede imputato l’ex pm Mani Pulite per aver diffuso i verbali Amara. Simona Musco su Il Dubbio il 25 maggio 2022.

«Davigo non dimostrò alcun particolare interesse» nei confronti di Ardita, «entrambe le volte che ci siamo visti non ha mai fatto il suo nome». È uno dei passaggi più importanti della deposizione del pm di Milano Paolo Storari al processo di Brescia che vede Piercamillo Davigo imputato per aver diffuso i verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla loggia Ungheria.

Un lungo esame quello di Storari, che si commuove più volte descrivendo il clima – a suo dire ostile – che ha caratterizzato gli ultimi due anni in procura a Milano, dove per lungo tempo i vertici dell’ufficio non avrebbero voluto approfondire le dichiarazioni sulla loggia. «Ricordare quello che ho passato è pesante», dice, parlando di un vero e proprio «muro di gomma» che avrebbe spinto Storari – assolto in abbreviato (ma la procura ha fatto appello) dalla stessa accusa di Davigo – a rivolgersi a Davigo, per «autotutelarsi», temendo che il ritardo nelle iscrizioni dei primi indagati potesse, un giorno, essere imputato a lui, coassegnatario, assieme all’aggiunta Laura Pedio, del fascicolo originale, quello sul “falso complotto Eni”.

Il magistrato ripercorre tutte le tappe che hanno portato alla diffusione dei verbali, che secondo la tesi dell’accusa sarebbero serviti anche a screditare la figura di Sebastiano Ardita, consigliere del Csm (inserito da Amara tra gli affiliati alla loggia) ed ex amico di Davigo, con il quale ha fondato la corrente Autonomia&Indipendenza. Verbali pesanti, al punto che Storari conta di fare in fretta le indagini per trovare riscontri o, al limite, iscrivere Amara sul registro degli indagati per calunnia. Così, a dicembre 2019, prepara due deleghe, che invia a Pedio via mail, ma senza ottenere risposta. «Nessuno mi ha detto che non andava fatto – spiega -, ma nessuno ha firmato la delega. Ed io da solo non potevo fare nulla. La cosa non mi sconcertava, però ho iniziato a stupirmi».

Il 27 dicembre 2019, Storari incontra il procuratore Francesco Greco, al quale chiede un parere sulla credibilità di Amara. E la risposta lo lascia basito. «Greco mi disse: “Paolo, io ci credo, ma in questo momento non voglio fare niente, perché tra le persone chiamate da Amara nella loggia Ungheria c’è il generale Zafarana (Giuseppe, ndr), comandante generale della Guardia di Finanza, e non me lo voglio inimicare, perché voglio sistemare il colonnello Giordano (Vito, ndr) al nucleo di polizia valutaria”», nomina che poi effettivamente avviene. Come se non bastasse, «parlando con De Pasquale (Fabio, procuratore aggiunto e titolare del processo Eni-Nigeria, ndr), e colloquiando sulla necessità di fare indagini mi dice: secondo me queste dichiarazioni devono rimanere nel cassetto due anni».

Interlocuzioni di cui Storari non ha traccia via mail, ma da quel momento, data la stranezza degli eventi, decide prendere appunti su tutto ciò che accade attorno alla vicenda Amara. Le perplessità aumentano quando l’ex avvocato dichiara che «nel processo Eni-Nigeria i difensori di Eni, Nerio Diodà e Paola Severino (ex ministro della Giustizia, ndr), hanno avvicinato Marco Tremolada (presidente del collegio giudicante, ndr) ricevendo in qualche modo rassicurazione che il processo sarebbe andato bene», informazione che avrebbe ottenuto da un altro avvocato. «Queste due righe – spiega Storari – vengono portate da Greco e Pedio a Brescia, per cui un ex ministro della Giustizia e un presidente del collegio vengono immessi nel circuito giudiziario sulla base di nulla. Ed è l’unica parte delle dichiarazioni di Amara che non è stata tenuta nel cassetto».

La valutazione sulla credibilità di Amara, dunque, è «a geometria variabile»: su Ungheria non si muove nulla, ma diventa credibile se le dichiarazioni tornano utili al processo Eni-Nigeria (conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati).«Ho iniziato a farmi parecchie domande. Quindi ho pensato che dovessi informare il Csm – spiega Storari -. Scrissi al procuratore Greco, ma era tutto un “aspettiamo”. Non dissi che l’avrei fatto io, perché entrare in contrapposizione con il procuratore significava essere tirato fuori dal procedimento. E questo non lo potevo consentire, perché significava girare la testa dall’altra parte di fronte ad una situazione ingiusta». E così decide di rivolgersi a Davigo, «che non era mio amico», che chiama a inizio aprile spiegando sommariamente la situazione. «Mi disse che a lui il segreto non era opponibile. Così il giorno dopo misi i verbali word su una chiavetta e andai a casa sua – racconta -. Lui mi disse: lasciami leggere e ci rivediamo. Di lì a due giorni tornai da lui: mi disse che i fatti che Amara racconta sono gravissimi e che ci avrebbe pensato lui ad avvertire il comitato di presidenza del Csm. E mi consigliò, per tutelarmi, di cominciare a mettere tutto per iscritto».

Ma come si concilia, chiede il giudice Roberto Spanò, la modalità irrituale con l’esigenza di autotutelarsi? «Ora conosco la procedura, all’epoca no. La cosa che mi è sembrata più naturale» era consegnarli a Davigo in qualità di componente del Consiglio e «persona specchiatissima. Ho saltato un passaggio – aggiunge Storari -, ma non con una finalità divulgativa» e per questo «trovo lunare quello che sta succedendo». Davigo, spiega, «mi era parso assolutamente in buona fede. E anche oggi, col senno di poi, lo ritengo in buona fede». A fine aprile Storari prepara una scheda per l’iscrizione dei primi otto indagati e la invia a Pedio, che va a lamentarsi con Greco per non essere stata consultata. Così «sono stato minacciato di procedimento disciplinare» da parte degli allora vertici dell’ufficio, spiega il pm. Dopo qualche giorno Davigo comunica a Storari di aver parlato con il procuratore generale Giovanni Salvi e il vicepresidente del Csm David Ermini. «Dal mio punto di vista, a quel punto, ero a posto».

E il 12 maggio, in maniera «estemporanea», Greco decide di sua iniziativa di iscrivere Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore e il loro socio Sandro Ferraro sul registro degli indagati. «Sono rimasto stupito – dice il pm milanese -, favorevolmente, perché si iniziava a far qualcosa. Non capivo. Oggi capisco: Salvi chiamò Greco e gli chiese cosa stesse facendo». Tutto rimane però fermo fino a settembre, quando si decide che la competenza dell’indagine spetta a Perugia, dove il fascicolo viene però inviato fisicamente solo quattro mesi dopo, a gennaio 2021. «In quel fascicolo non troverete nulla da dicembre 2019 a gennaio 2021. Allora la mia domanda è: perché è successo? – si chiede Storari – È una cosa normale? La risposta è no. Qual è la spiegazione? Non si voleva disturbare il processo Eni-Nigeria».

Ma che interesse c’era? «Era il processo più importante in quel momento a Milano, De Pasquale era il responsabile di questo dipartimento che non tutti vedevano di buon occhio e una sconfitta a dibattimento voleva dire sconfessare la scelta organizzativa di Greco. Il Terzo dipartimento faceva i processi di serie A e questo dava fastidio ai colleghi, che erano ammazzati di fascicoli. E si arrabbiavano, giustamente». Proprio per questo la solidarietà manifestata dai colleghi a Storari rappresentava non solo un gesto di vicinanza, ma anche «un attacco al centro organizzativo».

Inchiesta Eni-Congo, De Pasquale: «Storari fece scadere le indagini su Descalzi». Poi la rettifica. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2022.  

Da una banale causa di diffamazione spunta prima l’interrogatorio in cui il procuratore aggiunto mise a verbale a Brescia la doglianza, e poi la precisazione in cui ha fatto invece marcia indietro.

Aver lasciato scadere il termine delle indagini e averle così messe a rischio: poche accuse come queste, oltretutto con l’allusione che ciò avesse oggettivamente beneficiato un indagato «eccellente» come il numero 1 di Eni Claudio Descalzi nel fascicolo sul suo possibile conflitto di interessi con la moglie nel procedimento Eni-Congo, sarebbero sanguinose per un pm. Ma ora, dall’indiretto oblò di una banale causa di diffamazione, intentata dal pm milanese Paolo Storari al quotidiano che il 18 gennaio 2022 lo aveva appunto tacciato di «non aver chiesto la proroga delle indagini di cui erano scaduti i termini» e così di aver messo «a rischio questa parte dell’inchiesta», affiorano due fatti inediti. Il primo è che in realtà l’origine della notizia errata non è stata un eventuale abbaglio dei giornalisti, ma una esplicita affermazione proprio dell’allora capo di Storari nel pool affari internazionali, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che la aveva messa a verbale in un interrogatorio alla Procura di Brescia l’1 dicembre 2021. Il secondo è però che De Pasquale, due mesi dopo aver accusato Storari davanti ai pm di Brescia, il 10 febbraio 2022 ha innestato la retromarcia, precipitandosi a rettificare il proprio verbale e spiegare di essersi sbagliato.

La prima versione

Storari a inizio 2022 querela il giornale perché in realtà, al momento in cui l’8 aprile 2021 aveva restituito a De Pasquale tutti i fascicoli (e quindi anche quello su Eni-Congo) una volta esplosa la vicenda dei verbali dell’avvocato esterno Eni Piero Amara informalmente consegnati in formato Word proprio da Storari all’allora membro del Csm Piercamillo Davigo, il termine non era affatto scaduto e per le indagini su Descalzi in Eni-Congo c’era tempo ancora due mesi e mezzo sino al 21 giugno 2021. A fine 2021 De Pasquale riceve dalla Procura di Brescia un «avviso di conclusione delle indagini» nel quale gli si addebita di non aver depositato ai giudici e alle difese del processo Eni-Nigeria alcuni atti segnalati da Storari al vertice della Procura come potenzialmente indici dell’inattendibilità dell’imputato-teste d’accusa Vincenzo Armanna, ed è in questo contesto che la prima versione di De Pasquale l’1 dicembre 2021 su Storari in Eni-Congo è: «Io ho messo in mano a Storari l’indagine sul Congo in cui c’era la questione dei possibili illeciti a carico della moglie di Descalzi. Notizia di reato che stranamente… che purtroppo lui ha dimenticato di… si è dimenticato di chiedere la proroga… Lui che chiedeva la proroga su tutto, non ho capito perché… al momento in cui ha restituito il fascicolo per questa notizia di reato non c’è proroga, è monca dal punto di vista delle indagini».

La seconda versione

Il 18 gennaio 2022 esce l’articolo. Il 10 febbraio 2022 ecco però arrivare a Brescia una precisazione di De Pasquale che rettifica e cristallizza una seconda versione: «Nessuna proroga risulta essere stata chiesta dopo il 19 dicembre 2020 e i termini dell’indagine sono definitivamente scaduti ma, dopo aver consultato in modo più approfondito il fascicolo, devo precisare che risulta restituito da Storari a me l’8 aprile 2021 e i termini delle indagini sarebbero scaduti il successivo 21 giugno 2021, cosicché sarebbe stato ancora possibile chiedere la proroga». La retromarcia è a 360 gradi, anche De Pasquale mantiene la doglianza che Storari «non fece alcuna espressa menzione circa la prossima scadenza del termine delle indagini» in un fascicolo «composto da ben 11 faldoni e 2 scatoloni di documenti». Con il cerino in mano, intanto, rischia ora di restare il giornalista, destinatario allo stato di un «avviso di conclusione delle indagini» per ipotesi di diffamazione anche se, nei giorni successivi all’articolo, aveva pubblicato di sua iniziativa una rettifica «a seguito di verifiche che si sono rese possibili solo qualche giorno fa», con annesse «scuse ai lettori e all’interessato». 

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 17 maggio 2022.

Il faccendiere Piero Amara, la gola profonda amata da numerose Procure italiane, è pronto a patteggiare reati anche a Potenza con il consenso dei pm. In questo caso si tratta di corruzione, rivelazione di segreto, calunnia, falso ideologico e materiale.

Cinque contestazioni che vanno ad assommarsi ad altri 42 reati già patteggiati che l'avvocato ha totalizzato in anni di onorata carriera. 

Ma in tutto, per ora, ha concordato una pena complessiva di soli 4 anni e 8 mesi. Più o meno un mese per ciascun reato. A novembre l'avvocato Salvino Mondello ha chiesto di definire il procedimento lucano con l'ennesima istanza di patteggiamento a 3 mesi da applicarsi in continuazione con la sentenza di condanna precedentemente riportata a Messina.

La Procura ha dato il consenso. «La nostra richiesta non è ancora stata accolta.

Stiamo aspettando la fissazione dell'udienza che, probabilmente, si terrà nel mese di giugno» ci spiega l'avvocato Mondello. Amara sta attendendo la decisione in stato semilibertà, che gli è stata concessa dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia. 

Per il noto avvocato siracusano, che ha denunciato l'esistenza della fantomatica loggia Ungheria mettendo a soqquadro gli uffici giudiziari di mezza Italia, nel 2009 ha pattuito a Catania 11 mesi di reclusione per rivelazione di segreti di ufficio e accesso abusivo a sistema informatico.

Nel 2019 dal Tribunale di Roma ha incassato 2 anni, 6 mesi e 10 giorni di prigione per 20 contestazioni (una di corruzione in atti giudiziari e le altre per frode fiscale). A Messina, nel 2020, ha patteggiato 1 anno e 2 mesi (in continuazione con Roma) per altri 19 episodi delittuosi (corruzione in atti giudiziari, associazione per delinquere, falso ideologico, minaccia a pubblico ufficiale, induzione indebita a dare utilità e altro).

Infine la Corte di Assise di Roma il 16 novembre 2020 gli ha inflitto un mese di reclusione per favoreggiamento. Arriva ora la richiesta per i fatti contestati nella conclusione delle indagini del 22 ottobre 2021 a Potenza. Nella richiesta di rinvio a giudizio la posizione di Amara è stata stralciata proprio per la richiesta di patteggiamento. L'avvocato siracusano nell'inchiesta lucana ha tre capi d'accusa. In uno di questi gli sono contestati, in concorso con l'ex procuratore di Trani Carlo Maria Capristo e l'ex poliziotto Filippo Paradiso, il falso

ideologico, il falso materiale e la calunnia.

Secondo l'accusa, Amara sarebbe stato «istigatore e beneficiario» di due decreti di iscrizione sul registro degli esposti anonimi della Procura di Trani «ideologicamente falsi» su un finto complotto ai danni dell'Eni, grazie ai quali si sarebbe accreditato come soggetto in grado di condizionare i procedimenti.

La calunnia, invece, riguarda le accuse contenute negli esposti, dove «veniva prospettata la fantasiosa esistenza di un preteso progetto criminoso che mirava a destabilizzare i vertici» dell'azienda del Cane a sei zampe. 

Infatti Amara, «nella piena consapevolezza, non solo dell'innocenza degli accusati, ma dell'assoluta fantasiosità delle notizie di reato contenute nei due esposti», avrebbe accusato «Roberto De Santis e Gabriele Volpi, funzionari dello Stato nigeriano, Pietro Varone, esponenti di vertice di Saipem e di Telecom, che si avvaleva anche della società siracusana Oikothen Scarl, della nota imprenditrice Emma Marcegaglia e del noto professionista Paola Severino (già ministro della Giustizia) di un traffico di rifiuti. In un ulteriore capo d'imputazione, per rivelazione e utilizzazione dei segreti d'ufficio, la Procura contesta ad Amara di aver ottenuto notizie riservate dal pm Antonio Savasta, che era delegato a trattare le indagini sugli esposti. 

In particolare il legale sotto inchiesta avrebbe saputo in anticipo quando gli investigatori della Guardia di finanza si sarebbero presentati negli uffici dell'Eni per acquisire documentazione. 

Ma nel capo d'imputazione principale Amara, secondo la Procura di Potenza, è indicato come «soggetto attivo della corruzione in atti giudiziari». Infatti l'ex procuratore Capristo, stando alle accuse, gli avrebbe «venduto la propria funzione giudiziaria» in cambio del «costante interessamento per gli sviluppi della sua carriera». 

Nei confronti di Amara sono pendenti ulteriori procedimenti sempre per calunnia anche a Milano. La Procura meneghina lo accusa di averla commessa ai danni dell'avvocato Luca Santa Maria e dei dirigenti Eni Claudio Granata e Claudio Descalzi, «pur sapendoli innocenti».

A ciò si deve aggiungere la recente richiesta di rinvio a giudizio sempre della Procura di Milano per la calunnia ai danni del giudice Marco Mancinetti nell'ambito delle dichiarazioni sulla cosiddetta Loggia Ungheria. 

Nel procedimento lucano, oltre ai verbali già raccontati dalla Verità, sono state depositate altre dichiarazioni rese da Amara il 29 giugno, il 7 luglio e il 18 ottobre 2021. l 7 luglio l'avvocato riprende anche a Potenza il discorso sulla transazione tra la Blue power di Francesco Nettis, ex socio della famiglia D'Alema nel settore vitivinicolo, e l'Eni di cui aveva già parlato a Milano il 24 novembre 2019. Secondo il faccendiere D'Alema nel 2017 avrebbe consigliato all'Eni di assecondare Nettis e di concedergli il 20-30 per cento di quanto chiedeva («intorno ai 130 milioni di euro») «nell'interesse nazionale».

E a chi premeva questa soluzione? Secondo Amara, il suo referente Antonio Vella, all'epoca numero due dell'azienda, successivamente licenziato e accusato dalla Procura di far parte di un'associazione a delinquere finalizzata alla calunnia e al depistaggio, gli avrebbe detto che «la cosa interessava "a quello"», cioè a Descalzi. 

A Potenza Amara cambia un po' le carte in tavola e fa sapere che «comunque non è contro D'Alema questo discorso» visto che l'ex premier, «alla fine opera come privato in questa operazione». Il faccendiere sostiene di andare in brodo di giuggiole quando parla di Baffino: «È una persona che io stimo in modo straordinario». 

Anche in questo verbale racconta che cosa gli avrebbe detto l'ex premier nel presunto incontro romano per gestire la transazione: «A me non me ne frega nulla di questa operazione, nel modo più assoluto, però se chiama l'Eni io metto pace e così via, alla fine della fiera secondo me convinco l'imprenditore a chiudere anche a settanta milioni, però lei deve intervenire su Vella».

La versione di Amara è che l'ex numero due, oggi indagato per associazione per delinquere, sarebbe stato l'unico ostacolo all'accordo, invece, a suo dire, caldeggiato da Descalzi. Il verbale è costruito per far passare come baluardo di legalità l'uomo grazie al quale Amara faceva affari con l'Eni, cioè Vella: «Mi dice: "Io al più posso non chiudere la transazione e discutiamo, ma prima mi deve arrivare l'input di Descalzi». 

La prova di quello che dice sarebbero le registrazioni fatte di nascosto durante alcune conversazioni con Alessandro Casali, pierre e «intermediario» con D'Alema. Amara, il 7 luglio, di fronte al procuratore Francesco Curcio, sostiene di essere pronto a consegnargli quei file, una primizia che non aveva mai dato a nessuno. Peccato che una di queste registrazioni, la più significativa, fosse già stata depositata presso la Procura di Milano e da lì fosse illegalmente fuoriuscita per giungere nell'ufficio di Pier Camillo Davigo al Csm e terminare in un fascicolo giudiziario romano per rivelazione di segreto.

Brutta «pagella» del procuratore Targetti di Milano. Il pm De Pasquale ora rischia la destituzione. Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 5 aprile 2022.

Parere negativo del numero uno facente funzione sul lavoro del magistrato come procuratore aggiunto a capo del pool affari esteri. Rilevate carenze organizzative e rapporti difficili con i colleghi.

Statisticamente è da prefisso telefonico la percentuale di magistrati non confermati nei propri incarichi direttivi dal Csm, e comunque mai le perplessità sono arrivate dal parere che il dirigente dell’ufficio deve formulare al Csm tramite il locale Consiglio giudiziario. E invece a Milano accade proprio l’inedito: l’attuale dirigente della Procura di Milano, Riccardo Targetti, esprime parere non positivo su Fabio De Pasquale in valutazione per la riconferma dopo i primi 4 anni nel ruolo di procuratore aggiunto a capo del pool affari esteri. E le carte vengono ricevute dal Consiglio giudiziario proprio nella giornata in cui gli ispettori dell’Ocse, in missione in tribunale a Milano in una serie di audizioni riservate di pm e giudici per monitorare in Italia l’adeguatezza o meno dell’anti-corruzione internazionale, convocano a sorpresa proprio Targetti, «torchiandolo» per mezz’ora sulla denuncia arrivata dall’audizione di De Pasquale: e cioè l’accusa che Targetti, con il recente provvedimento che per riequilibrare i carichi ha attribuito una serie di truffe al pool sinora specializzato in tangenti estere, lo abbia depotenziato, zavorrandolo e contraddicendo l’indicazione Ocse di gruppi specializzati. Il tutto a pochi giorni dalla contesa al Csm, per la nomina del nuovo procuratore di Milano, tra il pg fiorentino Marcello Viola, il procuratore bolognese Giuseppe Amato, e il procuratore aggiunto milanese Maurizio Romanelli.

Targetti non sintetizza le sue critiche a De Pasquale nel classico giudizio finale, dal quale argomenta di volersi astenere (lasciandolo al Csm) dopo che De Pasquale di recente «ha messo in dubbio la mia legittimità come procuratore facente funzioni» a seguito del pensionamento di Francesco Greco a novembre 2021 e sino alla propria pensione tra 10 giorni. Lo fa, invece, elencando «circostanze» di cui «è a conoscenza in merito all’attività (o inattività) di De Pasquale», e che prescindono totalmente sia dalle vicende per le quali De Pasquale è indagato a Brescia, sia dalle polemiche intorno ai processi di corruzione internazionale sfociati in assoluzioni. Anzi Targetti gli dà atto che è stato «certamente felice» il suo ruolo di ariete italiano contro le corruzioni internazionali, per «l’esperienza maturata, la competenza mostrata in tanti procedimenti, i rapporti intessuti in tanti Paesi». Inizia però a lamentare che, quando subentrò a De Pasquale alla guida del pool reati economici, «la situazione organizzativa appariva talmente in difficoltà che occorsero molti sforzi, tempo, e l’appello accorato ad un personale sfiduciato e demotivato, per venire a capo delle rilevanti criticità». Nel pool affari esteri creato poi apposta da Greco per De Pasquale, «le assegnazioni e le definizioni sono state incomparabilmente inferiori agli altri gruppi di lavoro», e le energie così drenate e hanno «ancor più impoverito gli altri pool».

Molto critico è inoltre Targetti sui rapporti di De Pasquale con i colleghi, «spesso difficili, se non aspri»: al punto che «talvolta si sono innescate tensioni talmente intense che taluno ha preannunciato nei suoi confronti il ricorso a vie legali». Targetti stesso dice di avere «avuto spesso difficoltà a mantenere rapporti distesi» di fronte a risposte «improntate al fastidio e alla sottovalutazione dei problemi». In più informa il Csm che De Pasquale, di fronte alla lettera di 22 pm sugli squilibri di lavoro tra i loro pool e il suo, ha reagito dicendo che, se ci fosse stato un procuratore in carica, avrebbe chiesto «provvedimenti formali» nei confronti dei 22 pm. Frase che per Targetti, «a prescindere dalle intenzioni, non ha certo rasserenato il clima dell’ufficio, essendo apparsa a molti come obliquamente minacciosa, tanto da innescare vivaci proteste».

Amara arrestato, indagato e processato in tutt’ Italia. Gli crede (e lo usa) solo la Procura di Potenza. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 marzo 2022.  

Soltanto a Potenza la procura ha dato incredibilmente piena credibilità alle dichiarazioni di Amara dopo averlo arrestato in relazione all'inchiesta che ha falcidiato la Procura di Taranto mettendo fine alla carriera del procuratore Carlo Maria Capristo, attualmente sotto processo dinnanzi al Tribunale di Potenza, e su cui pende un altro procedimento che lo vede indagato insieme al prof. Ernesto Laghi.

L’avvocato-faccendiere siciliano Piero Amara dopo otto mesi di detenzione, ha ottenuto la semilibertà, che gli consentirà di trascorrere le giornate fuori dal carcere di Spoleto, lavorando come cuoco nella mensa per i poveri della Caritas. La Procura di Milano non gli dato neanche il tempo a mettere piede fuori dal carcere che ha aperto una nuova inchiesta a suo carico sui contraddittori verbali che aveva firmato davanti ai pm Laura Pedio e Paolo Storari sulla famigerata “loggia Ungheria” . Verbali che hanno causato ad entrambi i magistrati non pochi problemi, venendo accusati di averli divulgati. Nei confronti della Pedio la Procura di Brescia ha appena chiesto l’archiviazione. Nei confronti del pm Storari l’accusa è già finita archiviata.

Adesso però il procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli, e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco vogliono giustamente e dovutamente accertare e ricostruire come alcune fotografie di quei documenti siano uscite finendo nelle mani di Vincenzo Armanna. il quale insieme ad Amara, oltre a essere stati i testimoni del processo contro i vertici dell’Eni (conclusosi con l’assoluzione), sono entrambi collegati anche da un’altro procedimento, quello sul finto complotto Eni, per il quale, sempre a Milano, la Procura ha depositato una richiesta di rinvio giudizio.

Nel nuovo fascicolo d’indagine aperto dalla Procura di Milano è stato accertato che Vincenzo Armanna ha tirato fuori uno di quei fogli durante un interrogatorio svoltosi il 17 febbraio 2020 proprio davanti ai magistrati Pedio e Storari che indagavano sulla fantomatica “loggia Ungheria”. Il pm Storari ha davanti ai colleghi di Brescia ha dichiarato : “Armanna mi sventola in faccia una pagina dell’interrogatorio dell’11 gennaio 2020 di Amara dove si parla di Ungheria. Interrogatorio secretato ovviamente… e me la sventola la fotografia dove ci sono le firme…“

Alla domanda dei magistrati sulla provenienza di quel documento secretato, come al solito arivano come di consueto balle…spacciate per spiegazioni. Prima parla di un ragazzino con la moto… poi fa il nome del dipendente della Polizia di Stato Filippo Paradiso arrestato con Amara a Potenza…. A quel punto il pm Storari avrebbe anche cercato di capirci qualcosa e spiega: “Perquisiamo Paradiso, lo sentiamo… e scopriamo che è una balla” e Storari si fa qualche idea: “Quello che verosimilmente è successo… a fine dicembre 2019 Amara chiede di rileggere gli interrogatori… Io non sono presente a questa rilettura…”. Storari non ricorda se in quel momento c’era anche la collega Pedio. Ma ipotizza che poteva esserci un ufficiale di pg che però sfortunatamente nel frattempo è deceduto.

Circostanze che chiaramente complicano le verifiche. I magistrati della Procura di Milano hanno in mano la versione di Armanna, il quale sostiene di aver ricevuto il documento da un emissario di Amara. A quel punto Amara, che in precedenza ha già negato, viene riconvocato per un nuovo interrogatorio. Nel frattempo però arriva la Procura generale di Perugia che ha contestato il provvedimento con il quale è stata concessa la semilibertà all’avvocato sostenendo che “questi abbia manifestato la volontà di ripudio della condotta in precedenza tenuta, mediante l’attività di collaborazione che sarebbe dimostrata da dichiarazioni, auto ed etero accusatorie, rese presso diverse autorità giudiziarie”. 

Il procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani ha così spiegato le ragioni che hanno spinto il suo ufficio a impugnare quella decisione: “Non è dimostrato che la collaborazione sia stata leale e piena, in quanto questi ha taciuto fatti di particolare gravità” aggiungendo che si sarebbe “in presenza di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta a destabilizzare le istituzioni”. Più di una Procura, infatti, in passato si è fatta portare per mano dall’avvocato. Il nuovo appuntamento con le sue dichiarazioni da collaborante in semilibertà smentito dalla Procura generale perugina è tornato in Procura a Milano.

Soltanto a Potenza la procura ha dato incredibilmente piena credibilità alle dichiarazioni di Amara dopo averlo arrestato in relazione all’inchiesta che ha falcidiato la Procura di Taranto mettendo fine alla carriera del procuratore Carlo Maria Capristo, attualmente sotto processo dinnanzi al Tribunale di Potenza, e su cui pende un altro procedimento che lo vede indagato insieme al prof. Ernesto Laghi. Procedimenti che di udienza in udienza stanno vedendo svanire nel nulla le accuse della Procura di Potenza, smentite dai presunti testimoni, dimostrando l’allegra gestione “mediatica” e l’insussistenza probatoria dei capi d’accusa. 

Il procuratore capo di Potenza Francesco Curcio ha più volte cercato di alzare il livello delle sue inchieste, cercando di coinvolgere il “cerchio magico” di Matteo Renzi collegandolo alle vicende dello stabilimento siderurgico ex-Ilva di Taranto, acquisendo documenti dalle procure di mezz’ Italia, ma i legali del prof. Laghi hanno smontato le accuse facendole diventare un castello di aria di fantasiosi capi d’accusa.

Dietro le quinte delle vicende lucano-pugliesi si nasconde il tentativo della corrente sinistrorsa di Area di vedere accrescere le adesioni dei magistrati, gestendo non poche procure (Bari, Lecce, Taranto e Potenza) al cui vertice guarda caso sono stati nominati tutti magistrati di quella corrente, grazie anche al lavoro sotterraneo (ma anche pubblico) del capo delegazione di Area al Csm, Giuseppe Cascini, il quale ha cercato ripetutamente di sanzionare l’ex magistrato Capristo ora in pensione. E per capire la follia “sinistrorsa” basta ascoltare l’ultima udienza dinnanzi alla sezione disciplinare di piazza dei marescialli, dove persino il sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione ha evidenziato la banalità delle accuse di Cascini a Capristo.

Resta da chiedersi a questo punto come Giuseppe Cascini dopo quanto emerso dalle sue chat con Luca Palamara possa rimanere al Consiglio superiore della magistratura? E i vertici del Csm, ad iniziare dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, come mai non dicono una parola a tal riguardo? A porsi questi interrogativi è stato dalle colonne del Fatto Quotidiano, giornale certamente non ostile nei confronti dei pm, l’ex presidente di sezione della Corte di Cassazione Antonio Esposito. 

L’alto magistrato, da tempo editorialista sul giornale diretto da Marco Travaglio, è noto al grande pubblico per aver condannato nel processo sui diritti Mediaset. Condanna che determinò la cacciata dell’ex premier dal Parlamento e per ciò solo “al di sopra di ogni sospetto”. Inoltre Esposito ha anche querelato Palamara dopo la pubblicazione del libro “Il Sistema” e quindi non può essere considerato certamente come un suo “sodale”. Riprendendo quanto scritto dal Riformista qualche giorno addietro, Esposito aveva raccontato i rapporti intrattenuti fra Palamara e Cascini, uno dei “capi” storici di Magistratura democratica (confluito in Area) . Giuseppe Cascini, componente della sezione disciplinare del Csm, era stato ricusato prima dello scorso Natale da Cosimo Ferri, sotto procedimento per aver partecipato alla cena dell’hotel Champagne a maggio del 2019 quando si discusse della nomina del nuovo procuratore di Roma. 

Ferri, prima di entrare in Parlamento era il leader di Magistratura indipendente, la corrente di destra delle toghe, aveva motivato la ricusazione facendo riferimento a una mail inviata da Cascini il 28 febbraio 2015 alla mailing list dell’Associazione nazionale magistrati e all’allora segretario di Mi. In questa mail si stigmatizzava il comportamento di Ferri che, a giudizio di Cascini, era entrato in quel periodo nella compagine governativa quale sottosegretario per interesse personale. Oltre a questa mail, Ferri aveva poi prodotto una dichiarazione rilasciata da Palamara al gup di Perugia Piercarlo Frabotta relativa a un incontro avuto con Cascini nel corso del quale quest’ultimo gli avrebbe perentoriamente detto: ”Non frequentare Ferri, non te lo dico più!”. Cascini, interrogato dal collegio che doveva decidere sulla sua ricusazione, si era difeso sostenendo che fosse stato Palamara a chiedergli un incontro per parlare dell’elezione del vice presidente del Csm.

Le chat presenti sul telefono di Luca Palamara acquisite dalla Procura di Perugia hanno però smentito la ricostruzione di Cascini, essendo stato lui a chiedergli l’incontro, peraltro avvenuto dopo l’elezione di David Ermini a vice presidente a settembre 2018. “C’è discordanza fra quanto detto da Cascini e le chat”, aveva replicato Ferri, presente all’interrogatorio. “È un fatto grave perché ha detto cose diverse“, aveva poi aggiunto Ferri prima che gli venisse bloccato il microfono. Sulla testimonianza non corrispondente a verità di Cascini, entra quindi in gioco il procuratore generale della Cassazione Salvi, anch’egli storico esponente di Magistratura Democratica (quello che guarda caso ha smarrito il suo telefono…) .

Salvi nel suo ruolo è il titolare dell’azione disciplinare nei confronti di tutti i magistrati italiani. Azione disciplinare esercitata in regime di monopolio in quanto la ministra della Giustizia Marta Cartabia, a cui la Costituzione assegna tale potestà, vi ha rinunciato per evitare “sovrapposizioni” con la Procura generale. In una conferenza stampa nell’aula magna della Cassazione a giugno 2020, indetta per annunciare le iniziative disciplinari conseguenti lo scoppio del “Palamaragate”, Salvi aveva tranquillizzato i presenti rassicurandoli che non stava di certo, testualmente, “ciurlando nel manico”.

Come racconta il collega Paolo Comi sulle colonne del quotidiano Il Riformista, “Proprio a questo fine la Procura generale ha elaborato dei criteri di valutazione del materiale (chat, ndr) che ci è stato sottoposto. Questi criteri sono stati elaborati dal gruppo di lavoro che è composto dai magistrati che mi sono a fianco, cioè il procuratore aggiunto Luigi Salvato che è il responsabile del settore disciplinare e dall’avvocato generale  Piero Gaeta che è responsabile del settore pre-disciplinare, nel settore dove viene fatta una valutazione del materiale informativo che arriva per cui decidere se aprire la fase disciplinare o archiviare la procedura“.

E tutto ciò pur essendo Salvi, Salvato e Gaeta coinvolti nelle chat di Palamara per avergli richiesto, direttamente o indirettamente di essere nominati ad incarichi direttivi. Il sospetto, legittimo, è che Salvi non apra un fascicolo su Cascini perché, a parte la comune appartenenza correntizia sarebbe costretto ad aprilo anche su se stesso. L’anno scorso, per questo aspetto, un gruppo di magistrati appartenenti ad Articolo 101, il gruppo “anti correnti” aveva chiesto ai diretti interessati di chiarire i rapporti con Palamara emersi dalle chat e riportati nel suo libro scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti.

Si tratta di fatti che, ove fossero veri, sostiene Il Riformista (e noi concordiamo con i colleghi) gettano un’ombra inquietante sia sui loro asseriti protagonisti che sulla sorprendente circolare dello stesso Procuratore generale che “assolve per principio chi raccomanda se stesso per incarichi pubblici e chi quella raccomandazione accetta”, ricordavano le toghe. “Appare evidente – proseguiva l’appello dei magistrati non “lottizzati” e schierati politicamente – che la gravità delle accuse rivolte pubblicamente e ora note a tutti e la rilevanza dei ruoli ricoperti nell’assetto costituzionale da Salvi e Cascini impongono loro di smentire in maniera convincente i fatti o dimettersi dalle cariche ricoperte. “Confidiamo che Salvi e Cascini sapranno scegliere una delle due alternative. Lo devono alla Repubblica italiana alla quale hanno prestato, come noi, giuramento di fedeltà”.

Risultato ? Silenzio assoluto. Come se nulla fosse accaduto, tutti attaccati alle proprie poltrone, salvandosi a vicenda. E poi certe persone parlano di “giustizia” e di indipendenza della Magistratura….La realtà è che neanche “mastro” Geppetto, l’inventore di Pinocchio avrebbe saputo e potuto fare di meglio! Redazione CdG 1947

Fabio Amendolara per “La Verità” il 19 marzo 2022.

Dopo otto mesi di detenzione, l'avvocato-faccendiere Piero Amara ha ottenuto la semilibertà, che gli consentirà di trascorrere le giornate fuori dal carcere di Spoleto, lavorando come cuoco nella mensa per i poveri della Caritas. Ma non ha neppure fatto in tempo a mettere piede fuori dall'istituto di pena che la Procura di Milano ha aperto una nuova inchiesta. Ancora una volta al centro ci sono i controversi verbali sulla presunta loggia Ungheria che aveva firmato davanti ai pm Laura Pedio e Paolo Storari.

E che hanno causato non pochi problemi a entrambi, accusati di averli divulgati. Per la prima la Procura di Brescia ha appena chiesto l'archiviazione. Per Storari il caso è già finito in archivio. E ora il procuratore aggiunto di Milano, Maurizio Romanelli, e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco vorrebbero ricostruire come siano uscite alcune fotografie di quei documenti, che sarebbero finite nelle mani di Vincenzo Armanna. Amara e Armanna, oltre a essere stati i testimoni del processo contro i vertici dell'Eni (finito con l'assoluzione), sono legati anche da un'altra vicenda: il finto complotto Eni, per il quale, sempre a Milano, c'è una richiesta di rinvio giudizio.

Nel nuovo fascicolo milanese è stato ricostruito che Armanna il 17 febbraio 2020 ha tirato fuori uno di quei fogli durante un interrogatorio proprio davanti ai magistrati che indagavano su Ungheria: Pedio e Storari. Tanto che Storari ne ha parlato con i colleghi di Brescia: «Armanna mi sventola in faccia una pagina dell'interrogatorio dell'11 gennaio 2020 di Amara dove si parla di Ungheria. Interrogatorio secretato ovviamente... e me la sventola la fotografia dove ci sono le firme...

Richiesto poi di dire chi te l'ha dato e chi non te l'ha dato, inventa balle... parla di un ragazzino con la moto... fa il nome di Filippo Paradiso (il funzionario della polizia di Stato arrestato con Amara a Potenza, ndr)...». Storari avrebbe anche tentato di capirci qualcosa: «Perquisiamo Paradiso, lo sentiamo... e scopriamo che è una balla». Un'idea però Storari se l'è fatta: «Quello che verosimilmente è successo... a fine dicembre 2019 Amara chiede di rileggere gli interrogatori... Io non sono presente a questa rilettura...». Storari non ricorda se c'era Pedio in quel momento. Ma ipotizza che poteva esserci un ufficiale di pg che nel frattempo è deceduto. 

Il che ovviamente complica le cose. I pm milanesi hanno in mano la versione di Armanna, che sostiene di aver ricevuto il documento da un emissario di Amara. E Amara, che ha già negato, verrà riconvocato per un nuovo interrogatorio. Nel frattempo la Procura generale di Perugia ha contestato il provvedimento che ha concesso la semilibertà all'avvocato ritenendo che «questi abbia manifestato la volontà di ripudio della condotta in precedenza tenuta, mediante l'attività di collaborazione che sarebbe dimostrata da dichiarazioni, auto ed etero accusatorie, rese presso diverse autorità giudiziarie».

Il procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, però, ha spiegato le ragioni che hanno spinto il suo ufficio a impugnare quella decisione: «Non è dimostrato che la collaborazione sia stata leale e piena, in quanto questi ha taciuto fatti di particolare gravità». Non solo: si sarebbe «in presenza di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta a destabilizzare le istituzioni». Più di una Procura, infatti, in passato si è fatta portare per mano dall'avvocato. Il nuovo appuntamento con le sue propalazioni da collaborante in semilibertà smentito dalla Procura generale perugina è a Milano.

(ANSA il 18 marzo 2022) - Per la Procura generale di Perugia "non è dimostrato che l'attività collaborativa" dell'avvocato Piero Amara "sia stata leale e piena, in quanto questi ha taciuto fatti criminosi di particolare gravità". Lo sottolinea lo stesso Ufficio. 

"Nel procedimento in esame - scrive la Procura - non sono state consultate alcune delle autorità giudiziarie ove pendono i procedimenti a carico di Amara, per cui non risulta dimostrato il presupposto della collaborazione". Amara è tra l'altro al centro dell'indagine della procura di Perugia sulla presunta loggia Ungheria per la quale non è stato raggiunto da alcun provvedimento restrittivo.

Le valutazioni sulla collaborazione di Amara sono collegate alla decisione della Procura generale di Perugia di impugnare la concessione della semilibertà. 

"In primo luogo, nel procedimento in esame - si legge nella nota diffusa dal procuratore generale Sottani - non sono state consultate alcune delle autorità giudiziarie ove pendono i procedimenti penali a carico del Sig. Amara, per cui non risulta dimostrato il presupposto della collaborazione. Per di più, l'emissione in questi stessi procedimenti di atti contenenti l'avviso della conclusone delle indagini ipotizzano reati di particolare gravità che smentiscono la tesi del tribunale". 

"Inoltre - sostiene ancora la Procura generale -, non è dimostrato che vi sia stata una coerente dichiarazione autoaccusatoria, perché in alcuni casi il Sig. Amara è stato sottoposto ad indagini a seguito di dichiarazioni rilasciate da altri soggetti. 

In definitiva, questa Procura generale ritiene che dalle condotte tenute dal Sig. Amara nei procedimenti penali, nei quali è attualmente sottoposto ad indagini, non emerga la volontà di collaborazione, ma al contrario si sia in presenza di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta ad inserirsi in un contesto criminale di destabilizzazione delle istituzioni e di discredito e di sfiducia nel sistema giudiziario".

Caso Verbali, Amara indagato per la fuga di notizie. E Perugia smentisce la sua attendibilità. L'ex legale esterno di Eni è indagato a Milano. Secondo il pg Sottani non emerge «la volontà di collaborazione», ma al contrario si sarebbe in presenza «di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta ad inserirsi in un contesto criminale di destabilizzazione delle istituzioni e di discredito e di sfiducia nel sistema giudiziario». Simona Musco su Il Dubbio il 18 marzo 2022.

Nuovo colpo di scena a Milano sulla fuga di notizie legata ai verbali di Piero Amara: la procura di Milano ha chiuso una nuova inchiesta, iscrivendo sul registro degli indagati proprio l’ex avvocato esterno dell’Eni, con l’accusa di aver fatto circolare i verbali ancora prima che il pm Paolo Storari li consegnasse all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ora a processo a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. Una notizia, questa, che potrebbe dunque cambiare le sorti del processo a carico dell’ex pm di Mani Pulite, accusato di aver fatto leggere le dichiarazioni di Amara sulla presunta Loggia Ungheria per screditare il consigliere del Csm Sebastiano Ardita. A coordinare le indagini sono il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco. Nel febbraio del 2020, l’ex manager di Eni Vincenzo Armanna, grande accusatore nel processo Eni-Nigeria (conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati), mostrò alcune pagine di quei verbali secretati all’aggiunto Laura Pedio e al pm Storari, circa 90 pagine che, secondo le sue dichiarazioni, gli sarebbero state consegnate proprio da Amara. L’ex avvocato ha sempre respinto le accuse e la prossima settimana verrà sentito dai magistrati milanesi in merito alle accuse. Nel frattempo, però, sono circa 20 i fascicoli aperti a suo carico con l’ipotesi di calunnia in merito alle dichiarazioni sulla presunta loggia, uno per ciascuna delle persone indicate come associate.

Che la credibilità di Amara, specie in relazione alle dichiarazioni sulla presunta loggia, fosse traballante era già stato evidenziato da Storari, che indagando nell’ambito del “Falso complotto Eni” – fascicolo nel quale erano maturate le dichiarazioni su Ungheria – era giunto alla conclusione di trovarsi di fronte ad un «calunniatore». Ma ora è anche la procura generale di Perugia – dove è in corso il processo a carico di Luca Palamara, nel quale l’affaire Amara gioca un ruolo determinante per la tenuta dell’accusa – a mettere in discussione la sua leale collaborazione. Secondo il pg Sergio Sottani, infatti, «non è dimostrato che l’attività collaborativa» dell’ex legale esterno di Eni «sia stata leale e piena, in quanto questi ha taciuto fatti criminosi di particolare gravità». Il parere arriva a seguito della concessione della semilibertà ad Amara per la sua «attività di collaborazione» riconosciuta dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, competente in quanto il legale è detenuto a Terni, decisione impugnata da Sottani. «Nel procedimento in esame – scrive la Procura – non sono state consultate alcune delle autorità giudiziarie ove pendono i procedimenti a carico di Amara, per cui non risulta dimostrato il presupposto della collaborazione». «In primo luogo, nel procedimento in esame – si legge nella nota di Sottani – non sono state consultate alcune delle autorità giudiziarie ove pendono i procedimenti penali a carico del Sig. Amara, per cui non risulta dimostrato il presupposto della collaborazione. Per di più, l’emissione in questi stessi procedimenti di atti contenenti l’avviso della conclusone delle indagini ipotizzano reati di particolare gravità che smentiscono la tesi del tribunale». «Inoltre – sostiene ancora  -, non è dimostrato che vi sia stata una coerente dichiarazione autoaccusatoria, perché in alcuni casi il Sig. Amara è stato sottoposto ad indagini a seguito di dichiarazioni rilasciate da altri soggetti. In definitiva, questa Procura generale ritiene che dalle condotte tenute dal Sig. Amara nei procedimenti penali, nei quali è attualmente sottoposto ad indagini, non emerga la volontà di collaborazione, ma al contrario si sia in presenza di una commissione sistematica di reati gravissimi, con una disinvolta spregiudicatezza volta ad inserirsi in un contesto criminale di destabilizzazione delle istituzioni e di discredito e di sfiducia nel sistema giudiziario».

E a Brescia si sta per chiudere il cerchio anche attorno alla posizione di Pedio, per la quale la procura ha chiesto l’archiviazione per l’accusa di omissione d’atti d’ufficio, così come fatto per l’ex procuratore Francesco Greco. La vicenda verbali, dunque, vedrà sul banco degli imputati solo Davigo, dopo l’assoluzione di Storari perché il fatto non costituisce reato. Ma la nuova inchiesta su Amara potrebbe cambiare le carte in tavola, specie in relazione alla consegna di quei verbali alla stampa. Intanto va avanti l’inchiesta nei confronti dell’aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, indagati per rifiuto d’atti d’ufficio in merito al mancato deposito di prove utili alla difesa nel processo Eni-Nigeria. Gli inquirenti bresciani hanno disposto accertamenti tecnici sul telefono di Armanna all’esito dei quali decideranno sulle posizioni dei due magistrati.

Per la procura di Milano Amara si è inventato tutto: aperti 20 procedimenti per calunnia. I fascicoli riguardano, in modo singolo, tutte le persone menzionate dall'avvocato siciliano quali presunti appartenenti alla Loggia massonica "Ungheria". Intanto la procura di Brescia chiede l'archiviazione per Laura Pedio. Il Dubbio il 18 marzo 2022.

Sono circa venti i fascicoli aperti sui tavoli della procura di Milano con l’ipotesi di calunnia a carico dell’avvocato Piero Amara. Uno, da quanto appreso, per ciascuna delle persone che l’avvocato siciliano avrebbe detto con le sue dichiarazioni di appartenere alla presunta loggia massonica Ungheria. E in questo scenario che i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco, coordinati dall’aggiunto Maurizio Romanelli, insieme alla sezione di polizia giudiziaria della GdF stanno compiendo accertamenti e verifiche per capire se ci siano gli estremi per contestare ad Amara nuove accuse di calunnia per ogni singola posizione al vaglio.

Nel frattempo, sempre al legale, al centro di numerose inchieste che hanno scosso gli uffici giudiziari di diverse città italiane, in primis Milano, i pm Civardi e Di Marco hanno notificato nelle scorse settimane un nuovo avviso di chiusura delle indagini preliminari. Nell’atto, Amara è accusato della rivelazione del segreto del procedimento penale in relazione perchè avrebbe diffuso parte dei verbali resi al pm Paolo Storari e Laura Pedio a verbale sull’esistenza della presunta associazione segreta. Una circolazione parallela e antecedente a quella dell’aprile del 2020 quando il pm Storari consegnò i documenti all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Infine, la procura di Brescia ha chiesto l’archiviazione del procedimento penale nei confronti di Laura Pedio.

“Loggia Ungheria”, Piero Amara accusato di aver fatto circolare i suoi verbali. Nuovo filone investigativo della procura di Milano sulle dichiarazioni dell'ex legale dell'Eni, al quale i magistrati contestano il reato di rivelazione del segreto istruttorio. Il Dubbio il 17 marzo 2022.

La Procura di Milano ha chiuso una nuova inchiesta sui verbali dell’avvocato siciliano Piero Amara nei quali l’ex legale esterno di Eni parlò della presunta Loggia Ungheria capace di condizionare le nomine in magistratura. Ad anticipare la notizia è stato il TgLa7. A coordinare le indagini sul nuovo filone sono il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e i pm Stefano Civardi e Monia Di Marco. L’ipotesi della procura è che quei verbali, coperti da segreto, circolassero in parte già prima della consegna ad aprile 2020 da parte del pubblico ministero Paolo Storari all’allora consigliere sterno del Csm Piercamillo Davigo di una versione in Word delle carte.

Responsabile, per i pm milanesi, sarebbe proprio l’avvocato Amara, che per questo risulta indagato. L’ipotesi è di rivelazione di segreto in un procedimento penale. Nel febbraio del 2020, infatti, l’ex manager di Eni Vincenzo Armanna, grande accusatore nel processo Eni Nigeria, mostrò alcune pagine di quei verbali secretati all’aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari, che lo stavano interrogando. Armanna ha riferito di aver ricevuto quelle carte, in tutto una novantina di pagina, dall’avvocato Amara, che tuttavia ha sempre negato ogni coinvolgimento. La prossima settimana l’avvocato Amara verrà sentito in Procura a Milano e potrà chiarire la sua posizione.

I nodi da sciogliere. Loggia Ungheria, tutte le contraddizioni sulla cupola segreta svelata da Amara. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Marzo 2022. 

Adesso la domanda è: qualcuno avrà il coraggio di aprire quell’inchiesta sulla “Loggia Ungheria”? Non ci sono molte alternative, dopo che il giudice di Brescia ha assolto il pm milanese Paolo Storari, dicendo che aveva ragione lui e non i suoi superiori, il procuratore capo Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio, che quel fascicolo proprio non lo volevano aprire. Né per indagare per calunnia chi aveva nominato la loggia, né per verificare se esistesse quella sorta di cupola, composta di giudici, alti ufficiali e politici che avrebbero governato la magistratura italiana, di cui aveva parlato, in diverse deposizioni tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020, l’avvocato Piero Amara, legale esterno di Eni e coinvolto in diverse indagini, dalla Sicilia fino a Milano.

Ma soprattutto, e questo era un problema, il grande accusatore del processo Eni. Il giovane pm Storari, con la caparbietà tipica dell’allievo di Ilda Boccassini con cui aveva lavorato all’antimafia, riteneva che su quelle dichiarazioni comunque un fascicolo andasse aperto, o per inviare qualche informazione di garanzia alle persone i cui nomi erano stati fatti da Amara, oppure per incriminare l’avvocato esterno di Eni per calunnia. Esclusa comunque l’inerzia che rendeva immobili i due dirigenti dell’ufficio. Da un lato il procuratore Greco, che a suo parere non voleva correre il rischio che fosse in qualche modo intaccata l’attendibilità del testimone d’accusa del processo per corruzione in cui erano imputati i massimi vertici di Eni. Che saranno poi comunque assolti. Ma anche Laura Pedio, che era sua superiore ma anche colei che insieme a lui aveva raccolto quell’importante testimonianza. Anche lei pareva immobile, pietrificata. Da un calcolo di politica giudiziaria di Greco, cui era molto legata, o da una sua diversa valutazione rispetto alla rilevanza del contenuto di quei verbali? In ogni caso, perché tenerli nel cassetto?

Passa qualche mese, siamo all’aprile del 2020, e lo scalpitante Storari si confida con Alessandra Dolci, colei che ha assunto il ruolo di Ilda Boccassini dopo il suo pensionamento al vertice della Dda. Dolci, non è un segreto, è la compagna di Piercamillo Davigo e a lui lo indirizza, in quanto membro del Csm, per un consiglio. Gli incontri, nell’abitazione del ex membro del pool Mani Pulite, sono diversi, secondo il racconto dello stesso Storari ai magistrati di Brescia che lo avevano indagato per rivelazione di atti d’ufficio dopo che, alla fine degli incontri, aveva consegnato a Davigo una pendrive con i famosi verbali. Colui che all’epoca era ancora un membro del Csm, prima del contestato avvio verso la pensione, aveva rassicurato il giovane collega, garantendogli che non avrebbe commesso nessun reato, consegnandogli atti d’indagine segreti, perché è consentito ai componenti del Csm poterli ricevere. Pare che a nessuno dei due sia venuto il dubbio che questi comportamenti informali e disinvolti siano cosa diversa dalla procedura prevista dallo stesso Csm, che prevede di sottoporre il caso con plico riservato al comitato di presidenza. E non brevi manu a un singolo consigliere. Fatto sta che Storari –e la sua, chiamiamola ingenuità, è davvero sorprendente- si comporta come un qualunque studentello davanti al maestro e fa la sua consegna. E che dire del comportamento di colui che fu chiamato “dottor sottile”?

L’assoluzione di Paolo Storari da parte della stessa giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Brescia Federica Brugnara che ha rinviato a giudizio per lo stesso reato Piercamillo Davigo, dopo che lui aveva divulgato i verbali a una serie di personaggi, interni ed esterni al Csm, indica già il percorso mentale che porterà, tra due settimane, alla motivazione della sentenza. Ma sarà un tribunale a giudicare Davigo, il prossimo 20 aprile, e sappiamo che l’ex pm non manca di dialettica e di argomenti persuasivi. Del resto non è casuale il fatto che, mentre il suo “allievo” ha scelto, e con successo, il rito abbreviato, il “maestro” ha voluto un processo pubblico. Ma dovrà difendersi, a questo punto, non solo per aver diffuso, in una sorta di catena di Sant’Antonio che porterà quei verbali, forse tramite una segretaria, fino alle mani dell’unico, il consigliere Csm Nino Di Matteo che, al grido di “il re è nudo” farà esplodere lo scandalo. Il tribunale potrà anche contestargli, sotto forma di aggravante, il fatto di aver indotto Storari a ritenere che la consegna di atti segreti a un solo consigliere e per via informale equivalesse all’osservanza delle procedure previste dalle circolari del Csm. Proprio perché è probabile (lo sapremo con certezza dopo aver letto le motivazioni della sentenza) che Paolo Storari sia stato assolto a causa della sua non conoscenza delle regole interne al Csm e per essersi fidato di un collega di grande storia e competenza.

Ma è palese a questo punto una contraddizione non da poco, perché si apra davvero quel famoso fascicolo d’indagine sulla Loggia Ungheria. Perché, da un lato c’è il pm Storari che voleva iniziare l’indagine, e che ha avuto ragione sui suoi superiori che restavano inerti alle sue sollecitazioni. Ma è altrettanto pacifico che, sempre a Brescia, un giudice ha archiviato la posizione del procuratore Francesco Greco (oggi in pensione), ritenendo che non ci sia mai stata una sua volontà insabbiatrice della vicenda. E quindi che Storari avesse avuto torto. Se anche la posizione dell’aggiunta Laura Pedio, ancora aperta, dovesse concludersi con l’archiviazione, la contraddizione sarebbe clamorosa. Oltre a tutto sul futuro del pm, che, una volta assolto, può occupare a pieno titolo ancora il suo ufficio e continuare a svolgere il suo ruolo, pende ancora una procedura del Csm per trasferimento per incompatibilità ambientale. Anche se era stata già bocciata la proposta del procuratore generale presso la Cassazione Giovanni Salvi di allontanamento in via cautelare. E se la quasi totalità dei sostituti milanesi era insorta in suo favore e contro il procuratore Greco.

Qualcuno dovrà ben scioglierla, la contraddizione. Almeno per due motivi. Il primo è che l’intero Paese ha il diritto di sapere se in Italia, oltre al Sistema così ben descritto da Sallusti e Palamara, c’era anche una cupola segreta che orientava i processi e tutta quanta la politica (giudiziaria, ma non solo) italiana. L’altro motivo, apparentemente più circoscritto ma non meno importante, ha a che fare con il processo Eni. Che intanto non è finito perché, con quella procedura che nel nostro ordinamento consente al pm di ricorrere in giudizio contro gli imputati già assolti in primo grado, ci sarà un appello. Che oltre a tutto si aprirà già avendo alle spalle un bel fardello di polemiche, dopo che la procuratrice generale di Milano Francesca Nanni ha nominato come pg d’aula Celestina Gravina invece del pm del primo grado Fabio De Pasquale, che lo aveva richiesto. E già risuonano le campane del Fatto quotidiano che con sarcasmo nei giorni scorsi titolava con un certo anticipo sui tempi: “Appello Eni-Nigeria: a Milano si accettano scommesse sul finale”.

La rilevanza del processo Eni è dovuta al fatto che ruota ancora intorno ai due testi d’accusa, Amara e Armanna. Il sospetto è che –Storari lo ha detto esplicitamente nelle sue deposizioni a Brescia- non solo i due pm d’aula De Pasquale e Spadaro, oggi indagati per rifiuto di atti d’ufficio, ma anche lo stesso Francesco Greco, avessero impegnato una grossa scommessa sulla fine di quel processo con le condanne. E di conseguenza non gradissero interferenze di nessun genere sulla genuinità delle deposizioni e sull’integrità dei personaggi. Non disturbate il manovratore, insomma. E non si deve mai dimenticare il fatto che, quando si tentò di dare credibilità a vociferazioni del solito Amara sulla possibilità che il presidente del tribunale che stava celebrando il processo, Marco Tremolada, fosse “avvicinabile” dagli avvocati Diodà e Severino che difendevano i vertici Eni, era stato lo stesso Greco a precipitarsi a inviare gli atti a Brescia. In quel caso l’avvocato Amara era stato ritenuto credibile? E sulla cupola segreta che condizionava tutti i processi?

Tiziana Maiolo.Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 24 marzo 2022.  

Stai a vedere che nell'indagine sulla loggia Ungheria, la P2 del terzo millennio, a pagare sarà solo Marcella Contrafatto, l'ex segretaria di Piercamillo Davigo quando era al Consiglio superiore della magistratura? Visti i precedenti, non ci sarebbe da stupirsi granché. 

I magistrati che hanno maneggiato i verbali esplosivi delle dichiarazioni dell'avvocato Piero Amara, che aveva rivelato l'esistenza di questa nuova massoneria, nelle scorse settimane sono stati infatti archiviati o sono in via di archiviazione. Il primo ad essere archiviato era stato il procuratore di Milano Francesco Greco. Subito dopo la stessa sorte era toccata al pm Paolo Storari.

E a breve, la Procura ha già dato parere positivo, sarà il turno di Laura Pedio, la vice di Greco. Resta "sub judice" Davigo, il cui processo per rivelazione del segreto proprio per la diffusione di questi verbali inizierà il mese prossimo, ma pare già destinato a finire in una bolla di sapone per via di una interpretazione di una circolare sui poteri del Csm. 

A rischiare il carcere è, dunque, solo la sua segretaria, che ha ricevuto la richiesta di rinvio a giudizio. La storia della loggia Ungheria inizia alla fine del 2019, quando Storari finisce di interrogare Amara. Quest' ultimo, sentito nell'ambito delle indagini milanesi sull'Eni, aveva svelato i nomi degli appartenenti a tale loggia segreta, composta da magistrati, professionisti, imprenditori, alti esponenti delle forze dell'ordine, e che aveva lo scopo di pilotare i processi e condizionare le nomine dei magistrati e dei vertici dello Stato.

Storari, verosimilmente scosso, aveva voluto fare accertamenti, procedendo con le iscrizioni sul registro degli indagati per violazione della legge Anselmi sulle associazione segrete, al fine di verificare la fondatezza di quanto dichiarato da Amara. I suoi capi, Greco e Pedio, erano stati invece di diverso avviso. Amara aveva fatto circa una quarantina di nomi di appartenenti alla Loggia, fra cui quelli di due consiglieri del Csm, Marco Mancinetti e Sebastiano Ardita.

Vista l'inerzia dei vertici della Procura di Milano ad indagarli, Storari aveva allora deciso qualche mese dopo di consegnare i verbali di Amara a Davigo, all'epoca componente del Csm, affinché fosse a conoscenza di quello che stava accadendo. Davigo, ricevuti i verbali, rivelò il loro contenuto a diversi colleghi ed anche al presidente della Commissione antimafia Nicola Morra (M5s).

I verbali di Amara finirono pure nelle mani di due giornalisti del Fatto e di Repubblica che non vollero però pubblicarli per "non compromettere" l'indagine sulla loggia. Anzi, denunciarono quanto accaduto. La "postina", come si accertò, era stata proprio Marcella Contraffatto, la segretaria di Davigo che, secondo l'accusa, aveva effettuato l'inoltro dei verbali qualche giorno dopo che l'ex pm di Mani pulite era andato in pensione, lasciando le carte nella scrivania dell'ufficio al Csm.

Contraffatto è anche indagata per calunnia visto che, nell'inviare iverbali all'ex pm antimafia Nino Di Matteo, aveva scritto «verbale ben tenuto nascosto dal procuratore Greco», accusandolo quindi di condotte omissive nelle indagini su Ungheria, di fatto inesistenti vista l'archiviazione del procedimento a suo carico.

Il Csm, appreso dell'indagine nei confronti della segretaria di Davigo, l'aveva sospesa dal servizio, avviando le procedure per il suo licenziamento. L'ex segretaria di Davigo, si era poi scoperto, aveva fatto assumere al Csm anche la figlia Ludovica, poi assegnata alla segreteria del giudice Giuseppe Marra, appartenente al gruppo di Autonomia&Indipendenza, la corrente fondata da Davigo. Anche il marito della Contraffatto è un magistrato: Fabio Massimo Gallo, ex presidente di Sezione lavoro della Corte d'Appello di Roma, altro esponente di punta di A&I.

Le indagini sono state condotte dalla pm romana Rosalia Affinito, moglie del colonnello dei carabinieri Maurizio Graziano, finito anch' egli nelle chat di Luca Palamara. Sarà interessante adesso capire che cosa abbia spinto una segretaria del Csm ad inviare in giro per l'Italia i verbali di Amara sulla loggia Ungheria. E se abbia fatto tutto da sola.

Della Loggia Ungheria rimane solo l’ennesima guerra tra magistrati. Il fascicolo è rimasto a mollo per due anni e Amara è stato usato come una clava. Storari lo ha capito e per questo ha rischiato tutto. Simona Musco su Il Dubbio il 9 marzo 2022.

Che fine ha fatto la Loggia Ungheria? A distanza di oltre due anni dalle prime dichiarazioni del controverso “pentito” Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, nulla è dato sapere. Il fascicolo, da qualche mese, è in mano alla procura di Perugia, dove è arrivato da Milano senza che venisse svolto alcun atto di indagine. Una certezza ribadita da Paolo Storari, pm milanese assolto lunedì dall’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio, che ha contestato ogni tentativo dei suoi superiori di affermare che le indagini sulla presunta associazione segreta non sono state insabbiate.

Perché se da un lato i vertici della procura, nel corso degli interrogatori davanti ai pm di Brescia, hanno elencato una serie di atti che rientrerebbero nel fascicolo “Ungheria”, Storari ha smontato pezzo per pezzo ogni affermazione, riconducendo quei singoli approfondimenti ad un altro fascicolo: quello sul falso complotto Eni. È questa, infatti, l’indagine da cui tutto nasce: a partire dal 6 dicembre 2019 e fino all’ 11 gennaio 2020, Amara mette a verbale una serie di nomi di presunti affiliati, tra magistrati, politici e uomini delle forze dell’ordine, tutti capaci di pilotare le nomine ai massimi livelli istituzionali. Ma il fascicolo, rimasto a Milano dal dicembre 2019 al gennaio 2021, non contiene alcuna delega alla Polizia giudiziaria, se non quelle fatte da Storari per identificare i soggetti.

Un’indagine rimasta a «galleggiare» per un anno, nonostante una pesante fuga di notizie. E ciò che viene definito a posteriori atto di indagine, spiega Storari ai pm, sarebbe ben altro: gli incontri con i colleghi di Perugia, dove peraltro «non si è parlato di Ungheria», le intercettazioni e le perquisizioni compiute nell’inchiesta sul “Falso complotto”, i cui decreti erano finalizzati «a totalmente altro», la trasmissione dei verbali a Greco, la rilettura degli stessi da parte di Amara, nonché la loro trascrizione. E senza voler accusare nessuno, dice Storari, «ho avuto l’impressione (…) che si è voluto gabellare per atti istruttori Ungheria robe che non c’entrano niente».

Come ci sia finito sotto processo è ormai noto: Storari, stanco del presunto lassismo della procura, ad aprile 2020 consegna a Davigo (ora sotto processo a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio) dei documenti contenenti le dichiarazioni di Amara sulla presunta loggia, convinto che prima o poi a pagare quel ritardo – ai suoi occhi inspiegabile – sarà proprio lui. Storari, infatti, tenta più di trovare riscontro a quelle dichiarazioni, scontrandosi, però, «contro un muro di gomma».

Insomma, la procura di Milano avrebbe opposto resistenza, sebbene Greco sia stato archiviato dall’accusa di omissione di atti d’ufficio. Rimane ancora in bilico l’aggiunta Laura Pedio, anche lei sotto inchiesta a Brescia, che però, contrariamente a Storari, è rimasta titolare del fascicolo sul falso complotto (nel cui ambito ha chiesto il processo per Amara per calunnia). Le stranezze sono tante: le dichiarazioni di Amara vengono prese in considerazione solo quando tornano utili. «Quando le cose fanno comodo in Eni-Nigeria, buttiamola al processo (…), quando si deve indagare su Ungheria che potrebbe portare al calunnione gravissimo, no», spiega lo scorso 3 febbraio alla giudice Federica Brugnara. Il riferimento è al processo sulla presunta maxi tangente pagata da Eni, processo che ha visto tutti gli imputati assolti. Amara, nelle sue dichiarazioni, disse di aver saputo che le difese del processo erano state in grado di «avvicinare» il presidente del collegio, Marco Tremolada.

Così i vertici della procura, a fine gennaio 2020, decidono di spedire le dichiarazioni di Amara – contenute in «due o tre righe» – a Brescia (che poi archivierà senza iscrivere nessuno), competente per i reati commessi dai o a danno dei magistrati milanesi. Di ciò Storari viene tenuto all’oscuro, tant’è che protesta con Greco e Pedio per iscritto. E Fabio De Pasquale, l’aggiunto che ha rappresentato l’accusa al processo Eni-Nigeria, decide di usarle, nonostante la contrarietà di Storari, al processo, «perché crediamo che Tremolada sia un soggetto che è troppo aderente alle difese», dice il pm ripetendo quanto riferitogli dal collega. Insomma, Amara, per un certo periodo di tempo, risulta credibile.

Una credibilità che è la stessa Pedio a mettere nero su bianco ad aprile 2020, fornendo alla difesa dell’ex legale un certificato di fattiva collaborazione per sostenere la domanda di affidamento ai servizi sociali. Storari, dunque, non si capacita: se è credibile, perché non indagare? Perché non iscrivere nessuno? La risposta, alla fine, se la dà da solo: Amara, dice, non è credibile. E della loggia Ungheria, servita intanto a scatenare l’ennesima guerra interna alla magistratura, non sapremo mai davvero nulla.

Lo schiaffo all'establishment della magistratura. La loggia Ungheria esiste, la conferma con l’assoluzione di Storari. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

Il Pm Storari è stato assolto. Era stato già scagionato dal Csm ora anche dalla Procura di Brescia. È uno schiaffo all’establishment della magistratura, in particolare all’establishment potentissimo della Procura di Milano. Storari era accusato di avere consegnato a Piercamillo Davigo, violando le regole, i verbali dell’interrogatorio nel quale l’avvocato Amara rivelava l’esistenza della Loggia Ungheria che – a suo dire – sarebbe la cupola che governa la magistratura italiana. Davigo ne avrebbe parlato poi con il vicepresidente del Csm, con il capo della commissione antimafia e con il consigliere speciale di Mattarella. Con scarsi risultati. Muro di gomma.

Il tribunale di Brescia ha esaminato la posizione di Storari e lo ha assolto. Dunque gli ha dato ragione. Dunque, seppure indirettamente, ha avallato la sua tesi che era molto semplice: la procura di Milano ostacolava le indagini sulla Loggia Ungheria. Capite bene che è una sentenza clamorosa. Se Storari aveva ragione, allora la Loggia esiste. E il vicepresidente del Csm, e la Presidenza della repubblica e la Commissione antimafia hanno messo tutto a tacere.

È uno scandalo di dimensioni colossali. Esiste la fondata possibilità che la magistratura italiana sia sottoposta al potere di una Loggia, massonica o no, composta da magistrati, avvocati, uomini e donne dell’esercito e della politica, e dunque che la sua indipendenza sia pura favola.

L’ipotesi è che anziché rispondere alla legge risponda alla loggia. Con gigantesche coperture, consapevoli o inconsapevoli, dirette o solo concesse per quieto vivere. Non cambia molto.

La sostanza è che la magistratura italiana è fuorilegge. Che chissà quante indagini sono state aperte non per amor di giustizia ma per amor di Loggia. Che chissà quante sentenze sono infondate. Il sistema denunciato da Palamara? Oltre: siamo molto oltre! Ministra Cartabia: ora o mai più.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” l'8 marzo 2022.

Dalla cacciata disciplinare - via dalla procura di Milano e mai più in alcuna altra procura italiana - il pm milanese Paolo Storari già si era salvato nell'agosto 2021, quando il Csm aveva respinto la richiesta cautelare di trasferimento d'urgenza proposta dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. 

Ma ieri Storari è uscito indenne anche dall'ancora più delicato fronte penale: la giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Brescia, Federica Brugnara, invece di condannarlo a 6 mesi come chiesto dai pm Prete-Greco-Milanesi, lo ha infatti assolto nel processo abbreviato di primo grado.

E ha cioè escluso che nell'aprile 2020 sia stato reato di «rivelazione di segreto d'ufficio» l'aver Storari consegnato a Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani pulite e allora membro del Consiglio superiore della magistratura, i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 ai pm milanesi Laura Pedio e Storari dall'ex avvocato esterno Eni Piero Amara.

Su essi Storari lamentava lo scarso dinamismo del procuratore Francesco Greco (archiviato lo scorso 1 febbraio) e della vice Pedio nell'indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara: attendismo motivato (secondo Storari) dal timore dei vertici della Procura che potesse uscire erosa la credibilità di Amara in altre sue dichiarazioni, invece valorizzate contro Eni (assieme a quelle del coindagato Vincenzo Armanna) da Pedio nella inchiesta sul collegato depistaggio giudiziario Eni, e dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale nel processo sulle tangenti Eni-Nigeria.

Al punto da fondare, nello stesso gennaio-febbraio 2020, pesanti iniziative nei confronti dell'ignaro presidente del processo, Marco Tremolada: come la trasmissione a Brescia di un «de relato» di terza mano di Amara circa la pretesa avvicinabilità del giudice da parte dei legali Eni Paola Severino e Nerio Diodà (poi liquidata come del tutto infondata dai pm di Brescia), e come la richiesta di De Pasquale al Tribunale di fare testimoniare in extremis Amara su «interferenze delle difese Eni su magistrati milanesi in relazione al processo» poi concluso il 17 marzo 2021 con tutte assoluzioni.

L'assoluzione di Storari - che (in attesa delle motivazioni tra 15 giorni) il difensore Paolo Della Sala confida «sia la fine di un calvario» e, rimarca, «piena» e motivata dalla formula «perché il fatto non costituisce reato» - risalta ancor di più a fronte invece del rinvio a giudizio 20 giorni fa del coindagato Davigo: cioè di colui sulla cui interpretazione delle circolari Csm Storari fece affidamento, venendone rassicurato sulla liceità della consegna dei verbali e sulla non opponibilità del segreto investigativo ai consiglieri del Csm.

Dal 20 aprile Davigo sarà imputato per le successive rivelazioni di segreto non al procuratore generale e al presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio (interlocuzioni non contestate dai pm bresciani), ma al vicepresidente Csm David Ermini, che da Davigo ne ricevette anche copia e che ha dichiarato di essersi affrettato poi a distruggerli ritenendoli irricevibili, pur se parlò della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella; a cinque consiglieri Csm; al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore allora M5S Nicola Morra; e a due segretarie di Davigo al Csm, a una delle quali la procura di Roma imputa la spedizione dei verbali anonimi al consigliere Csm Nino Di Matteo nel febbraio 2021, successiva a quelle al Fatto Quotidiano nell'ottobre 2020 e a Repubblica nel 2021.

 Assoluzione piena per il pm milanese. Perché Paolo Storari è stato assolto, fine del calvario per il Pm milanese. Paolo Comi su Il Riformista l'8 Marzo 2022.  

Assolto perché il fatto non costituisce reato. Si è chiuso ieri, dunque, con una assoluzione con formula piena, il processo per rivelazione del segreto d’ufficio nei confronti del pm milanese Paolo Storari. Il gup di Brescia Federica Brugnara non ha ravvisato nessun profilo illecito nella condotta del magistrato. “È stata una battaglia veramente difficile e l’assoluzione è la decisione più corretta”, ha detto l’avvocato Paolo Della Sala, difensore di Storari, al termine dell’udienza. “La buona fede – ha aggiunto il difensore – era stata riconosciuta dalla stessa Procura. Spero che questa decisione ponga fine al calvario a cui Storari è stato sottoposto per aver fatto il proprio dovere dal suo punto di vista”. Il pm, dopo la lettura del dispositivo visibilmente commosso, era stato accusato di aver consegnato a Piercamillo Davigo i verbali delle dichiarazioni di Piero Amara sulla loggia Ungheria.

Ad aprile del 2020, trascorsi alcuni mesi dall’interrogatorio di Amara e vedendo che i propri capi, il procuratore Francesco Greco e la sua vice Laura Pedio, non erano intenzionati ad effettuare alcuna indagine per verificare se i nomi fatti da Amara appartenessero o meno alla P2 del terzo millennio, Storari aveva cercato una sponda in Davigo, allora componente del Csm. Davigo, anch’egli imputato per rivelazione del segreto ed il cui processo con rito ordinario inizierà il prossimo 20 aprile, aveva rassicurato Storari, dicendogli che avrebbe parlato della vicenda con i vertici di Palazzo dei Marescialli. Storari non si capacitava delle gestione di Amara: quando parlava delle mazzette che avrebbero preso i vertici dell’Eni era portato in palmo di mano, quando parlava di Ungheria non succedeva invece nulla. Eppure Pedio aveva scritto di Amara che “l’atteggiamento collaborativo ad oggi tenuto e la rilevanza del contenuto delle sue ampie dichiarazioni consentono fondatamente di ritenere che egli abbia rescisso i legami con l’ambiente criminale nel quale sono maturate le condotte illecite per le quali è indagato e che egli si sia effettivamente ravveduto rispetto a scelte devianti”.

“Quindi cosa capisco io? Ma se tutto questo è vero … possibile che noi non facciamo un atto istruttorio? Quando serve ce lo portiamo avanti … quando non serve, spostiamo, spostiamo, spostiamo….”, la replica di Storari, secondo cui quella di Amara era una “attendibilità a geometria variabile”. “A un certo punto mi sono accorto … di essere stato preso in giro più volte” dal “procuratore della Repubblica e due procuratori aggiunti, con cui lavoravo”, aveva poi aggiunto Storari alla giudice bresciana.

A oltre cinque mesi dalle prime dichiarazioni di Amara sulla Loggia, non c’era infatti traccia di atti investigativi o indagati, “neanche coloro che si autoaccusavano di queste cose”. Amara aveva fatto nomi pesantissimi di appartenenti alla loggia para massonica, accusati a vario titolo di aggiustare i processi e pilotare le nomine dei vertici degli uffici giudiziari. Storari, alla luce delle dichiarazioni di Amara, avrebbe voluto subito procedere, a differenza dei suoi capi, con i tabulati telefonici dell’ex presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, dell’ex vice presidente del Csm Michele Vietti, del numero uno di Autostrade Giancarlo Elia Valori, iscrivendoli per violazione della legge sulle società segrete.

Greco e Pedio si erano difesi dall’accusa di inerzia elencando una serie di attività che rientrerebbero nell’indagine sulla loggia. Ma Storari aveva smentito tutto, indicando data per data come erano andati i fatti. In particolare, il fascicolo, dal dicembre 2019 al gennaio 2021, prima di essere trasmesso per competenza a Roma e Perugia, non conteneva alcuna delega alla polizia giudiziaria, se non quelle da lui fatte per identificare i vari soggetti. In compenso erano indicati come atti di indagine gli incontri con i pm di Perugia, dove peraltro “non si è parlato di Ungheria”, le intercettazioni e le perquisizioni compiute nell’inchiesta sul “Falso complotto Eni”, i cui decreti erano finalizzati “a totalmente altro”, la trasmissione dei verbali a Greco, la rilettura degli stessi da parte di Amara, nonché la loro trascrizione. Senza voler accusare nessuno, aveva concluso Storari, “ho avuto l’impressione (…) che si è voluto gabellare per atti istruttori Ungheria robe che non c’entrano niente”. In attesa delle motivazioni del gup, è anche calato il sipario sulla loggia Ungheria, che andrà a far parte dei tanti misteri della Repubblica. Paolo Comi

Verbali Amara, il gup: «Lo scopo di Storari era solo segnalare al Csm fatti gravi». Ecco perché il pm milanese è stato assolto dal gup del tribunale di Brescia: «Piercamillo Davigo gli disse che poteva rivolgersi a lui». Simona Musco su Il Dubbio il 22 marzo 2022.

«Lo scopo perseguito da Storari nel rivolgersi a Davigo» era quello di «segnalare ciò che costituiva, secondo la sua versione dei fatti, una inerzia investigativa pericolosa posta in essere dal procuratore capo Greco e dalla dottoressa Pedio, in quanto relativa a fatti gravi, di rilievo sia penale che disciplinare, a carico o a danno ( anche) di componenti del Csm, al fine di valutare la necessità di “veicolare” tali informazioni al Csm tramite un interlocutore ritenuto istituzionalmente qualificato a riceverle, il quale si era impegnato a fare da “tramite” con il Comitato di Presidenza».

È quanto scrive il gup di Brescia, Federica Brugnara, nelle motivazioni con le quali ha assolto il sostituto procuratore di Milano Paolo Storari (difeso dall’avvocato Paolo Dalla Sala) dall’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio, per aver consegnato i verbali segreti dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Un’assoluzione che elimina ogni sospetto su eventuali altri scopi perseguiti da Storari nel percorrere una strada ritenuta «irrituale», ma non del tutto illegittima, alla luce delle famose circolari del 1994 e del 1995 più volte tirate in ballo da Davigo.

Il pm milanese non avrebbe avuto dunque l’intenzione – invece contestata a Davigo, per il quale il processo a Brescia inizierà ad aprile – di screditare Sebastiano Ardita, consigliere del Csm tirato in ballo da Amara nei suoi verbali come presunto appartenente alla loggia, ipotesi ritenuta «congetturale. Fu Davigo, infatti, ad informare altri membri del Csm, le sue segretarie e il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra della sua presunta appartenenza ad una loggia, consigliando dunque di «prendere le distanze» da lui.

Secondo la giudice, Storari sarebbe incorso «in errore» su una norma extrapenale, ovvero in relazione ai poteri di inchiesta e di acquisizione delle informazioni coperte dal segreto da parte del Csm, che ha determinato «un errore sul fatto», essendo convinto «di rivelare informazioni segrete a soggetto deputato a conoscerle e pertanto di non commettere alcuna rivelazione illegittima, ma “autorizzata” e/ o addirittura dovuta».

Un errore «scusabile» in primo luogo per il ruolo di Davigo, componente del Csm ed ex presidente dell’Anm nonché giudice di Cassazione, che aveva «rassicurato l’imputato della insussistenza del segreto istruttorio». Cosa che, afferma la giudice, è «in astratto compatibile con quanto affermato nelle circolari, seppur in modo non del tutto chiaro e lineare» e si evince anche dalla decisione presa dal Csm in sede cautelare, che ha escluso, nel valutare la posizione di Storari, «una grave inosservanza delle norme regolamentari», alla luce «delle problematiche interpretative delle Circolari del 1994 e del 1995 e della ‘ interpretazione normativa di non piana soluzione”».

Storari, nel rivolgersi a Davigo, non ha fatto riferimento ad alcun magistrato il cui nome fosse contenuto nei verbali di Amara. E il fatto che poi Davigo abbia allertato diversi consiglieri del Csm «in ordine alla presunta appartenenza dei dottori Ardita (che sarà parte civile al processo, ndr) e Mancinetti alla c. d. Loggia Ungheria», non può valere, «in via retroattiva, quale interpretazione “autentica” delle finalità perseguite da Storari all’atto della consegna dei verbali. Né quest’ultimo può rispondere della condotta eventualmente posta in essere da altro soggetto in un momento successivo, in quanto non prevedibile e non sottoposta al suo dominio».

Qualunque fosse l’obiettivo di Davigo, Storari avrebbe agito nella convinzione di muoversi nell’alveo della legge, col fine di segnalare «una gestione delle indagini non del tutto appropriata» da parte di Greco e Pedio «e di comunicare al Csm il possibile coinvolgimento di magistrati ( anche appartenenti alla medesima istituzione) in fatti gravissimi, per le valutazioni di competenza». L’ex pm di Mani Pulite, dal canto suo, ha assicurato «che avrebbe fatto da suo tramite con il Comitato di presidenza».

Il fatto che poi abbia ritenuto di rivolgersi al procuratore generale della Cassazione per sollecitare le indagini, cosa non richiesta da Storari, «non può ripercuotersi sugli obiettivi, di diverso tipo (…), perseguiti dall’imputato». E anche se il pm milanese ha deciso di non seguire la via del plico riservato da inviare al Comitato di Presidenza del Csm, anche quanto riferito dal vice presidente David Ermini in ordine alla irricevibilità degli atti, «lumeggia certamente l’irritualità della strada seguita, non già l’insussistenza di competenza del Csm in ordine a quanto appreso. D’altronde lo stesso, proprio alla luce della gravità delle notizie, si determinava a riferirne il contenuto al Presidente della Repubblica».

Una versione, quella di Ermini, parzialmente contestata da Davigo, «ma sarà la sede dibattimentale, in relazione al reato per cui si procede separatamente, a colmare le lacune e le contraddizioni emerse, anche sulle finalità perseguite da Davigo nella consegna dei verbali allo stesso ed agli altri consiglieri».

DOPO L’ASSOLUZIONE DI STORARI. La maledizione dei verbali di Amara: tutti i filoni che agitano la procura di Milano. GIULIA MERLO su Il Domani il 07 marzo 2022

Dopo l’assoluzione di Storari, rimane in piedi il processo a Davigo con la stessa imputazione. Anche il Csm ha in corso diverse pratiche: un disciplinare contro Storari e una per incompatibilità ambientale

Il tribunale di Brescia ha assolto il pm milanese Paolo Storari dall’accusa di rivelazione d’ufficio, per aver consegnato all’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, i verbali sull’esistenza della presunta loggia Ungheria. Il magistrato ha scelto il rito abbreviato, la procura aveva chiesto per lui una condanna a sei mesi. La motivazione sarà depositata in 15 giorni.

Sotto processo con la stessa imputazione rimane invece Davigo, che ha scelto il rito ordinario, e la prima udienza si svolgerà il 20 aprile.

La sentenza di assoluzione contro Storari solleva una sorta di conflitto interno anche a Brescia: il 10 gennaio era stata archiviata l’indagine sul procuratore capo di Milano, Francesco Greco, per l’ipotesi di omissione di atti d’ufficio proprio per la mancata iscrizione denunciata da Storari. 

Tuttavia, intorno ai vertici della procura di Milano continuano ad essere in corso una serie di procedimenti, penali ma anche di incompatibilità ambientale presso il Csm.

Sullo sfondo rimane la nomina, attesa entro fine mese, del nuovo procuratore capo, dopo il pensionamento di Francesco Greco nel novembre scorso.

LA VERSIONE DI STORARI E DAVIGO

Il processo che vedeva coindagati Davigo e Storari riguarda la condotta dei due nella gestione dei verbali sulla loggia Ungheria. Questi verbali erano stati resi dal legale esterno di Eni, Piero Amara, nell’ambito del processo Eni/Nigeria.

Storari, secondo quanto da lui stesso spiegato nell’interrogatorio al quale si è sottoposto durante l’udienza preliminare, ha spiegato di aver consegnato – nell’aprile 2020 – i verbali in formato word a Davigo per “autotutelarsi” in seguito a quella che lui riteneva una inerzia della procura di Milano nell’iscrivere la notizia di reato, anche dopo suoi solleciti.

Nelle tre ore di interrogatorio, Storari aveva sostenuto che la consegna dei verbali era lecita, perchè era stato rassicurato da Davigo sul fatto che «il segreto investigativo su di essi non era a lui opponibile in quanto componente del Csm». 

Invece, secondo la procura di Brescia, Storari avrebbe agito «al di fuori di ogni procedura formale», e «in assenza di una ragione d'ufficio che autorizzasse il disvelamento del contenuto di atti coperti dal segreto investigativo e senza investire i competenti organi istituzionali deputati alla vigilanza sull'attività degli uffici giudiziari».

Questa decisione, pur alleggerendo parzialmente la posizione di Davigo, non lo mette automaticamente al riparo da una possibile condanna.

Davigo, infatti, è imputato per aver «violato i doveri» legati alle sue funzioni e «abusato delle sue qualità» di consigliere, divulgando il contenuto dei verbali ad altri componenti del Csm, al consigliere giuridico di Sergio Mattarella per tramite del vicepresidente David Ermini e al presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, “in modo «informale e senza alcuna ragione ufficiale». Non a caso nella sua difesa Storari aveva parlato di affidamento incolpevole nei confronti di Davigo.

In entrambi i processi è costituito parte civile il consigliere del Csm, Sebastiano Ardita, che si ritiene danneggiato dalla divulgazione illecita dei verbali, in cui è presente anche il suo nome.

I verbali, inoltre, dopo il pensionamento di Davigo sono stati trafugati dallo studio e inviati alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica e poi al consigliere Nino Di Matteo, che li ha resi pubblici durante un plenum del Csm.

LA VERSIONE DI GRECO E PEDIO

A Brescia, però, emerge un contrasto forte. Accanto al processo a Davigo e Storari, infatti, si sono svolte due indagini specchio a carico dell’allora procuratore capo, Francesco Greco e della sua aggiunta, Laura Pedio.

Pedio era titolare con Storari del procedimento nel quale sono stati resi i verbali sulla loggia Ungheria ed è con lei e con Greco che Storari ha detto di aver avuto contrasti e mancate risposte sulla necessità di iscrivere la notizia di reato. Proprio per questi contrasti lui avrebbe consegnato a Davigo i verbali.

L’ex procuratore capo di Milano è stato indagato indagato per omissione e rifiuto d’atto d’ufficio in relazione alla mancata apertura di un fascicolo sulla presunta loggia Ungheria, ma il gip di Brescia ha deciso per l’archiviazione.

Secondo il Gip, infatti, Storari avrebbe agito per “frustrazione” perchè non poteva indagare sulla loggia e ha definito “manifestamente infondate” le accuse a carico di Greco.

Per il gip non c’è stato alcun ritardo nelle indagini sulla presunta loggia perché dalle rivelazioni di Amara era emerso un quadro troppo «fluido» per procedere con l’apertura di un fascicolo con una lista di indagati.

Inoltre, aveva sottolineato che non erano ancora chiare “le reali finalità, quantomeno improvvide” della consegna dei verbali da Storari a Davigo. Una valutazione che non è stata condivisa dal gup, che ha assolto Storari.

Ancora non si è chiuso, invece, il procedimento a carico di Laura Pedio, tutt’ora indagata per omissione di atti di ufficio per la vicenda della mancata iscrizione.

L’interrogativo, dunque, è se esista una condotta penalmente rilevante nei fatti che hanno riguardato i verbali di Amara e la Loggia Ungheria. L’assoluzione di Storari. infatti, rende lecito il passaggio di mano dei verbali, giustificato dal magistrato milanese con l’inerzia del suo ufficio. La precedente archiviazione di Greco, invece, sancisce la correttezza nell’agire della procura sull’iscrizione della notizia di reato.

LE RAGIONI DELLO SCONTRO: L’INCHIESTA ENI

All’origine dello scontro interno alla procura, però, c’è la gestione dell’indagine per il processo Eni/Nigeria nel suo filone principale. Anche queste condotte sono al vaglio dei magistrati di Brescia, che hanno aperto una ulteriore indagine nei confronti dei magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio.

Secondo gli inquirenti, che hanno chiesto una proroga delle indagini, i due magistrati avrebbero omesso di mettere a disposizione delle difese e del Tribunale alcune prove sulla falsità delle accuse portate avanti dall’ex manager di Eni, Vincenzo Armanna, testimone chiave dell’accusa nel processo Eni/Nigeria. Inoltre, non sarebbe stato depositato anche un video tra Armanna e Amara in cui si parla di come calunniare i vertici Eni.

Proprio questo filone principale sarebbe collegato anche alle vicende che hanno visto contrapposti Storari e Davigo a Greco e Pedio. Secondo Storari, infatti, la ragione dietro la contrarietà di Pedio e Greco ad aprire tempestivamente un’inchiesta sulla presunta loggia Ungheria sarebbe stata di tutelare il processo principale Eni/Nigeria.

L’ipotesi, sempre negata dai vertici di Milano che hanno ribadito in tutte le sedi la correttezza del loro operato procedurale, sarebbe la seguente: dopo le dichiarazioni di Amara sulla loggia Ungheria le strade erano due. Se non lo si riteneva attendibile, si poteva indagarlo per calunnia, altrimenti si sarebbe dovuto aprire un fascicolo di indagine a carico dei presunti membri della loggia. Per circa sei mesi, però, la procura non ha aperto fascicoli.

Questo, secondo Storari, sarebbe servito a preservare integra l’attendibilità di Amara nel processo principale a Eni, che comunque si è concluso con l’assoluzione in primo grado dei vertici dell’azienda.

Secondo Greco, invece, l’iscrizione nel registro delle notizie di reato è avvenuto appena si è ritenuto che ci fossero sufficienti elementi per farlo, senza che altre inchieste influissero sulla decisione.

IL CSM

Tutt’ora in corso a Milano è anche un procedimento per incompatibilità ambientale, aperto dalla prima commissione dell Csm a carico di Storari e del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. 

Il Csm deve valutare se i magistrati possano rimanere a lavorare in quell’ufficio oppure se la vicenda della gestione del processo Eni possa turbare la serenità della procura e dunque debbano essere trasferiti. La decisione del Csm è attesa a settimane.

Storari, inoltre, è anche sotto procedimento disciplinare al Csm: le contestazioni solo di divulgazione dei verbali e di «comportamento gravemente scorretto» nei confronti di Greco e Pedio da lui accusati di immobilismo «omettendo, però, di comunicare a questi il proprio dissenso per la mancata iscrizione» di Amara, e di formalizzare con una lettera agli organi competenti il suo disappunto «circa le modalità di gestione delle indagini».

Storari si è difeso presentando memorie e non è stata accolta la richiesta del pg di cassazione – che sostiene l’accusa nei procedimenti disciplinari – di trasferimento cautelare da Milano e cambio di funzioni. Tuttavia, il procedimento disciplinare è ancora in corso. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

CASO PM MILANO: PAOLO STORARI ASSOLTO A BRESCIA.

(ANSA il 7 marzo 2022) - Il pm di Milano Paolo Storari è stato assolto a Brescia al termine del processo in abbreviato con al centro il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. Lo ha deciso il gup Federica Brugnara.

Il pm di Milano Paolo Storari è stato assolto a Brescia con la formula il fatto non costituisce reato. Storari era stato accusato di rivelazione del segreto d'ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

"È stata una battaglia veramente difficile e l'assoluzione è la decisione più corretta". Così l'avvocato Paolo Della Sala ha commentato la sentenza con cui il gup di Brescia Federica Brugnara ha mandato assolto il pm di Milano Storari, processato in abbreviato per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. 

"La buona fede era stata riconosciuta dalla stessa procura - ha aggiunto -. Spero che questa decisione ponga fine al calvario a cui Storari è stato sottoposto per aver fatto il proprio dovere dal suo punto di vista". Storari, dopo la lettura del dispositivo era visibilmente commosso.

Quella di oggi è "una decisione che ci ha soddisfatto - ha proseguito il legale - perché ridà equità a un ambito che è stato anche forse un po' strumentalizzato da una certa stampa". Inoltre "gli argomenti tecnici per poter arrivare a questa assoluzione erano solidissimi, noi siamo sempre stati molto fiduciosi". 

Il difensore ha ricordato come anche il Csm, la scorsa estate, aveva rigettato la richiesta di un provvedimento disciplinare di tipo cautelare nei confronti di Storari. A chi ha chiesto se sia la fine di un calvario e se sia stata riconosciuta la buona fede, il legale ha replicato: "Qualcosa di più. Qui c'è stata una assoluzione piena, nemmeno con un richiamo alla contraddittorietà della prova, il che vuol dire che sostanzialmente è priva di dubbi interpretativi"

Luigi Ferrarella per corriere.it il 7 marzo 2022.  

Dalla cacciata disciplinare — via dalla Procura di Milano e mai più in alcuna altra Procura italiana — il pm milanese Paolo Storari si era salvato nell’agosto 2021, quando il Csm aveva respinto la richiesta cautelare di trasferimento d’urgenza proposta dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. 

E ora Storari esce indenne anche dall’ancora più periglioso fronte penale: la giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia, Federica Brugnara, disattendendo la richiesta di condanna a 6 mesi formulata dalla Procura, lo ha infatti assolto nel processo di primo grado con rito abbreviato.

E ha cioè escluso che sia stato reato di «rivelazione di segreto d’ufficio» l’aver Storari consegnato nell’aprile 2020 a Piercamillo Davigo, ex pm del pool Mani pulite e allora membro del Consiglio Superiore della Magistratura, i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi ai pm milanesi Pedio e Storari dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara: verbali sui quali Storari lamentava lo scarso dinamismo del procuratore Francesco Greco e della sua vice Laura Pedio nell’indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara, in un attendismo motivato (secondo Storari) dal timore dei vertici della Procura che potesse uscire erosa la credibilità di Amara in altre sue dichiarazioni, invece valorizzate contro Eni (assieme a quelle del coindagato Vincenzo Armanna) nel processo Eni-Nigeria del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e nella inchiesta del pm Pedio sul collegato depistaggio giudiziario Eni.

«Assoluzione piena»

«La formula dell’assoluzione — commenta il difensore di Storari, Paolo Della Sala — è assoluzione piena e del resto la buona fede di Storari era stata riconosciuta anche dalla stessa Procura di Brescia. 

Spero che questa sentenza ponga fine al calvario al quale è andato incontro per avere fatto quella che, dal suo punto di vista e nella ragionevole prospettiva che aveva all’epoca, era la cosa giusta. È un verdetto che ridà equità a una vicenda che certa stampa ha voluto strumentalizzare in modo inutilmente aggressivo nei suoi confronti». 

Davigo a processo

L’assoluzione di Storari risalta ancor di più visto che Davigo, il quale aveva scelto il rito ordinario, lo scorso 17 febbraio era stato invece rinviato a giudizio per aver poi nel 2020 mostrato o raccontato i verbali di Amara (datigli da Storari) al vicepresidente del Csm David Ermini, che ricevette da Davigo anche copia dei verbali e che ha dichiarato di essersi affrettato poi a distruggerli ritenendoli irricevibili, pur se parlò della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella; ai consiglieri Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna; alle sue due segretarie al Csm Marcella Contraffatto e Giulia Befera; e al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore (allora nel Movimento 5 Stelle) Nicola Morra, in un colloquio privato e fuori (per i pm) da qualunque regola, finalizzato solo a motivare i contrasti insorti con il consigliere Csm Sebastiano Ardita; mentre non hanno mai fatto parte delle contestazioni penali a Davigo le informazioni date al procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, e in misura minore al presidente della Cassazione, Pietro Curzio.

Gli altri pm ancora indagati

Su Storari la giudice Brugnara non ha dunque accolto la tesi giuridica — prospettata dal procuratore bresciano Francesco Prete e dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi — che la consegna nell’aprile 2020 da Storari a Davigo delle copie word dei verbali resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 da Amara non potesse essere scriminata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né dal movente di Storari di lamentare i contrasti con i vertici della Procura sui ritardi (a suo avviso) nell’avviare concrete indagini.

L’assoluzione di Storari, difeso dall’avvocato Paolo Della Sala, chiude il versante penale ma al pm resta ancora da affrontare il procedimento disciplinare ordinario, al momento pendente in Procura Generale di Cassazione, e anche la differente procedura aperta da mesi al Csm per decidere se Storari, come pure De Pasquale, debba o non debba essere trasferito per «incompatibilità ambientale» con la sede giudiziaria milanese. 

Il bilancio attuale dell’intreccio di procedimenti innescato da Amara è che l’assoluzione odierna di Storari arriva dopo il rinvio a giudizio di Davigo e dopo l’archiviazione a Brescia dell’indagine sull’allora procuratore milanese Francesco Greco per l’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio nel trattare il fascicolo sulla loggia Ungheria, trasmesso infine un anno fa per competenza territoriale da Milano alla Procura di Perugia. 

E arriva prima che sempre la Procura di Brescia decida la sorte del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, indagati per «rifiuto d’atti d’ufficio» nell’ipotesi abbiano tenuto il Tribunale milanese del processo Eni-Nigeria all’oscuro di elementi potenzialmente favorevoli alle difese (benché segnalati da Storari ai due pm) sulla figura di Vincenzo Armanna.

Cioè dell’ex dirigente Eni coimputato ma anche accusatore di Eni, valorizzato sia nel processo Eni-Nigeria da De Pasquale, sia nell’inchiesta sui presunti depistaggi giudiziari Eni da Pedio: altra vice di Greco a sua volta pure indagata a Brescia nell’estate 2021 per omissione d’atti d’ufficio nell’ipotesi non avesse indagato tempestivamente su Armanna per calunnia dei vertici Eni in base agli spunti fornitele invano da Storari, ma avviata a prospettiva di archiviazione dall’inversione a 360 gradi operata a dicembre 2021 quando (dopo quasi 4 anni) Pedio ha contestato ad Amara e Armanna quella calunnia che Storari quantomeno da gennaio 2021 ravvisava negli atti.

La versione di Storari

«Intorno ai primi 15 giorni di aprile del 2020 — ha deposto il pm nel rito abbreviato a Brescia — io chiamo il dottor Davigo e gli dico di avere un problema di carattere lavorativo, gli dico che c’era un dichiarante, non credo di avergli fatto il nome, il quale riferiva di una Loggia massonica e coinvolgeva soggetti delle istituzioni, anche del Csm, e gli chiedo anche se posso parlargli di queste vicende». 

Perché Davigo? «Io non avevo rapporti con il dottor Davigo, cioè non sono suo amico, la mia conoscenza con lui deriva dal fatto che sono invece amico con la sua compagna avendo lavorato lungo tempo in Direzione distrettuale antimafia» (dove Alessandra Dolci é procuratore aggiunto).

«Non vado da lui come amico, vado da lui come componente del Consiglio Superiore della Magistratura, già presidente di sezione alla Corte di Cassazione, componente delle Sezioni Unite della Cassazione, Presidente della Associazione nazionale magistrati, Presidente della Commissione che si occupava dell’interpretazione dei regolamenti del Csm, cioè dal mio punto di vista in Italia non esisteva soggetto più qualificato, almeno questa è la mia percezione a quel momento. 

E lui mi dice: “Sì, guarda Paolo, capisco che sono atti segreti di un procedimento penale, ma ai consiglieri del Csm non è opponibile il segreto, soprattutto quando sono indagini eventualmente riguardanti magistrati componenti del Csm. 

Allora io, in quella situazione in cui mi trovavo, di lì a due giorni vado direttamente a casa sua e gli porto i miei file word di lavoro dei verbali, perché tutti gli atti in originale li custodiva la dottoressa Laura Pedio, l’alternativa era star lì un’ora a ricopiarmi i nomi e le circostanze che riguardavano queste persone, per cui prendo una chiavetta e gliela do».

Ma a quale scopo? «Io mi sento tranquillizzato, sgravato di un problema che io avevo obiettivamente, avendo vissuto momenti veramente di totale solitudine, in cui io a un certo punto mi sono accorto di essere stato preso in giro più volte da quelli che per me erano...il procuratore della Repubblica e due procuratori aggiunti con cui lavoravo» (Pedio e Fabio De Pasquale). 

Due pesi e due misure

Storari motiva questa affermazione con il contrasto, a suo avviso, tra il trattamento iper prudente sulle dichiarazioni di Amara su loggia Ungheria e invece le ben diverse velocità e incisività applicate nello stesso periodo dai vertici della Procura ad altre dichiarazioni di Amara, quelle che andavano a supportare le accuse contro Eni del coindagato Vincenzo Armanna nel processo Eni-Nigeria.

Nel caso del fascicolo su loggia Ungheria, nel quale per Storari era urgente fare accertamenti per separare il vero dal calunnioso, «questo fascicolo è rimasto a Milano dal dicembre 2019 al gennaio 2021 e in un anno non c’è una delega alla polizia giudiziaria se non quella che ho fatto io per identificare dei soggetti... un anno a lasciare galleggiare... Uno si trova solo, solo, non può parlare con nessuno e loro ti rimbalzano, ti rimbalzano, quando proponi qualcosa ti traccheggiano duecento volte, hanno il muro di gomma...».

«Loro» sarebbe la «gestione condivisa» del procuratore Greco con i vice Pedio (contitolare del fascicolo con Storari) e De Pasquale (pm del processo Eni-Nigeria), «nulla di male, mangiavano tutti i giorni insieme, si trovavano fuori anche dall’ufficio, io una sera la trasmissione Report su Armanna sono andato a casa della Pedio a guardarla e c’erano Greco e De Pasquale. 

Ripeto, nulla di male, nulla di male, però quello che voglio fare capire é che De Pasquale non era titolare del fascicolo Ungheria ma le cose le sapeva, anche da me, da Laura Pedio, da Greco... 

De Pasquale a un certo punto mi ha detto: “Questo fascicolo secondo me deve stare nel cassetto per due anni”, e formalmente non aveva nessun titolo per fare questa affermazione, però loro tre, scusi l’espressione, sono una cosa sola».

Il «trabocchetto» al giudice Tremolada

Differente, ad avviso di Storari, l’utilizzo di Amara laddove parlasse di Eni: «Quando le cose fanno comodo in Eni-Nigeria, le si usa nel processo; quando non fanno più comodo, zitti e muti». Storari lamenta ad esempio la scelta di Greco e De Pasquale di portare a Brescia brandelli di “de relato” di terza mano di Amara circa la pretesa avvicinabilità del giudice Tremolada, presidente del processo Eni-Nigeria, da parte dei legali Eni Paola Severino e Nerio Diodà (poi liquidata come del tutto infondata dai pm di Brescia): «Io della trasmissione degli atti a Brescia non lo sapevo perché a me non è stato detto nulla, infatti c’è in atti un mio documento che poi dice a Greco e Pedio che io non sono mai stato d’accordo con questa iniziativa, ma questa cosa significa ai miei occhi che un minimo di credibilità la stavano dando ad Amara, che non era (visto come, ndr) un pazzo». 

Il secondo episodio è quando, sempre nel gennaio-febbraio 2020, De Pasquale vuole depositare quelle frasi di Amara su Tremolada proprio nel processo Eni-Nigeria presieduto da Tremolada (che a quel punto rischierebbe di doversi astenere), proposta alla quale Storari si oppone in una riunione con i colleghi: «”Ma scusate, voi praticamente davanti al mondo lo infangate”, e loro mi rispondono: “Tu, Paolo, sei un corporativo, noi vogliamo farlo perché crediamo che Tremolada sia un soggetto che è troppo aderente alle difese”, e io rispondo: “Guardate, dovete passare sul mio corpo, io se succede faccio casino, perché queste cose non si fanno. Volete farle voi? Allora chiamate voi Amara nel vostro procedimento, lo sentite come attività integrativa di indagine e poi fate quello che volete, ma non usate il verbale che ho fatto io per mascariare un collega su nulla». 

L’esito della riunione è allora che non si useranno queste frasi nella richiesta di De Pasquale al Tribunale di ascoltare in extremis su altri temi il teste Amara: «Ma poi da un articolo di giornale mi accorgo che De Pasquale invece aveva usato in udienza queste dichiarazioni, facendo al Tribunale quella richiesta brutta, a trabocchetto, che Amara dovesse venire a riferire, oltre che su una serie di altre circostanze a cui avevamo dato tranquillamente il via libera, anche su interferenze nei confronti dei giudici del processo».

Corto circuito che non esploderà soltanto perché l’ignaro Tribunale non ammetterà per ragioni procedurali l’esame fuori tempo massimo di Amara. L’attrito con i colleghi si acuirà quando tra fine 2020 e inizio 2021 Storari segnalerà invano ai vertici della Procura la necessità di depositare al processo Eni-Nigeria «le scoperte che grazie alle attività investigative avevo fatto io, e cioè che sia Amara che Armanna fossero due calunniatori: ma non lo faccio per distruggere il processo, lo faccio perché erano elementi oggettivi», e del resto «quello che dicevo io è stato confermato, ma a un anno di distanza, dalla conclusione dell’indagine», nella quale Pedio, affiancata dai due nuovi colleghi Civardi e Di Marco, a dicembre 2021 ha tra l’altro contestato per la prima volta ad Amara e Armanna anche la calunnia ai danni dell’amministratore delegato Eni Claudio Descalzi e del capo del personale Claudio Granata. 

Loggia Ungheria, le indagini fatte oppure no

Nel clima della primavera 2020 Storari afferma dunque di essersi confidato con Davigo per tre ragioni sulle dichiarazioni rese da Amara da dicembre 2019 su loggia Ungheria: «Primo, avvertire il Csm del contenuto delle dichiarazioni di Amara su magistrati; secondo, il procuratore della Repubblica e il procuratore aggiunto omettono iscrizioni, il che è un dato disciplinarmente rilevante; terzo, io non voglio partecipare a questo. 

Il mio problema era informare un organo istituzionale di quello che stava avvenendo e io avevo individuato in Piercamillo Davigo l’istituzione che poteva assolvere questo compito. Davigo mi risponde: “Vado io a parlare con il Comitato di Presidenza del Csm”, e in seguito mi dà una sorta di ritorno e mi dice di aver parlato con il vicepresidente Csm Ermini e il pg della Cassazione Salvi», il quale avrá poi con Greco una interlocuzione che cronologicamente si sovrapporrá alla decisione dei vertici della Procura milanese di procedere il 12 maggio 2020 alle prime iscrizioni in base ai verbali di Amara.

In una relazione ufficiale del 6 maggio 2021 Greco e Pedio hanno invece rivendicato un lungo elenco di indagini svolte su Ungheria, elenco valorizzato anche dal giudice bresciano Andrea Gaboardi per archiviare un mese fa l’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio contestata a Greco. Ma Storari, in una memoria in cui contesta punto per punto l’elenco, ribatte che «si è voluto gabellare per atti istruttori sulla loggia Ungheria robe che con Ungheria non c’entrano niente», disposte nell’altro fascicolo e non per Ungheria: «Se fosse veramente come dice la dottoressa Pedio, questi sarebbero stati illeciti disciplinari, ma non è andata così. 

La prova definitiva che queste perquisizioni e intercettazioni non c’entrano nulla con Ungheria ce la fornisce proprio la dottoressa Pedio quando, interrogata il 15 settembre 2021, spiega di non avere firmato una delega alla GdF che le avevo proposto già a gennaio 2020 perché, ha ricordato, “noi il Nucleo GdF lo avevamo escluso dalle indagini”, per cui questo vuol dire che il Nucleo GdF non poteva occuparsi di Ungheria, lo dice Pedio, giusto? Bene, volete sapere a chi erano stati delegati quegli atti istruttori ora inseriti nell’elenco» di indagini che Pedio colloca nel fascicolo Ungheria? «Al Nucleo Gdf. E stanno a dirci che questo riguarda Ungheria?».

«Non volevo dargliela vinta»

Al giudice che gli domanda perché non si sia limitato a farsi da parte se non era d’accordo sulla gestione del fascicolo, Storari risponde: «Sarebbe stato per me semplicissimo andare via, anche la Procura generale di Cassazione nell’interrogatorio disciplinare mi ha domandato “ma chi te l’ha fatto fare?”. 

Ma questa soluzione la trovo francamente un po’ ipocrita, perché io so chi me l’ha fatto fare: io non volevo dargliela vinta, io non sono pagato per scansare i problemi. Credo che sia un compito del pubblico ministero, per come l’ho sempre fatto nella mia vita, non “avere le carte a posto”, non scansare il pericolo e dire “ah qui c’è un problema é allora io mi faccio di lato”. No, io non ho mai fatto questo, cercando con prudenza di fare le cose, ma nella mia vita questo non l’ho mai fatto anche se per me sarebbe stata la cosa più facile al mondo. Se io avessi fatto così, sarei qua oggi? Sarei da un anno esposto mediaticamente?».

La domanda vera su Amara

Alla fine di tutto, e qualunque sia il mix di responsabilità che si vogliono ripartire Storari-Greco-Pedio-De Pasquale, il risultato é che si é sprecata una occasione, e Storari stesso ammette di esserne consapevole: «Chi manda Amara? Fa tutto da solo o c’è un mandante dietro? Che è la vera domanda, a cui però io non ho potuto dare risposta». 

Nelle prossime settimane l’unica che potrà ancora provare in parte a darla é la Procura di Perugia nelle pieghe della prevedibile futura archiviazione di gran parte del fascicolo Ungheria, scaturito dalle dichiarazioni di dicembre 2019-gennaio 2020 di Amara a Milano e trasmesso da Milano a Perugia per competenza a fine dicembre 2021.

La sentenza. Caso Loggia Ungheria, assolto il pm Paolo Storari: sui verbali di Amara “il fatto non costituisce reato”. Redazione su Il Riformista il 7 Marzo 2022. 

Assoluzione. È il verdetto arrivato questa mattina per il pm di Milano Paolo Storari, come deciso dal gup di Brescia Federica Brugnara. Storari, accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali secretati di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria, è stato assolto al termine del processo celebrato con rito abbreviato con la formula “il fatto non costituire reato”. 

Al centro del processo c’erano i verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, che Storari consegnò nell’aprile 2020 al consigliere del Csm Piercamillo Davigo (ora in pensione, per lui il processo inizia il 20 aprile prossimo, ndr) per “autotutelarsi” dalla presunta inerzia dei vertici della procura di Milano guidata ai tempi da Francesco Greco ad indagare sulla cosiddetta loggia Ungheria.

Erano cinque i verbali coperti da segreto che Storari ha consegnato a Davigo, interrogatori resi da Amara tra il 6 dicembre 2019 e il 11 gennaio 2020, in cui l’ex avvocato esterno di Eni svelava proprio al pm milanese l’esistenza della presunta loggia Ungheria facendo nomi noti, tra cui quelli di alcuni magistrati.

Il giudice ha dunque respinto la richiesta della pubblica accusa, rappresentata dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi, che avevano chiesto la condanna a sei mesi di reclusione. Secondo l’accusa Storari aveva agito “al di fuori di ogni procedura formale”, “in assenza di una ragione d’ufficio che autorizzasse il disvelamento del contenuto di atti coperti dal segreto investigativo e senza investire i competenti organi istituzionali deputati alla vigilanza sull’attività degli uffici giudiziari”, si leggeva nell’avviso di conclusioni delle indagini. Le motivazioni saranno rese tra quindici giorni.

Per Paolo Della Sala, avvocato di Storari, visibilmente commosso dopo la lettura del dispositivo, si è trattato di una “battaglia veramente difficile e l’assoluzione è la decisione più corretta”.

“La buona fede era stata riconosciuta dalla stessa procura – ha aggiunto il legale del pm di Milano -. Spero che questa decisione ponga fine al calvario a cui Storari è stato sottoposto per aver fatto il proprio dovere dal suo punto di vista“.

Una decisione, quella odierna, che “ridà equità a un ambito che è stato anche forse un po’ strumentalizzato da una certa stampa”, ha rivendicato Della Sala. Il difensore ha ricordato, riferisce l’Ansa, come anche il Csm la scorsa estate aveva rigettato la richiesta di un provvedimento disciplinare di tipo cautelare nei confronti di Storari. A chi ha chiesto se sia la fine di un calvario e se sia stata riconosciuta la buona fede, il legale ha replicato: “Qualcosa di più. Qui c’è stata una assoluzione piena, nemmeno con un richiamo alla contraddittorietà della prova, il che vuol dire che sostanzialmente è priva di dubbi interpretativi“.

Con l’assoluzione di Storari, l’unico sotto processo per la vicenda della loggia Ungheria resta Piercamillo Davigo.

Il commento del direttore Sansonetti. Scontro Davigo, Ardita e Di Matteo, la guerra in magistratura: “Finiranno per arrestarsi tra loro”. Redazione su Il Riformista il 21 Febbraio 2022.  

Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, commenta in merito allo scontro furioso tra Davigo, Ardita e Di Matteo sulla Loggia Ungheria.

Massimo Bordin, direttore di radio Radicale, una volta fede una battuta divertente: ‘Finiranno per arrestarsi tra di loro’. E si riferiva ai pm che arrestavano tutti. Mica si sbagliava tanto. Avete visto questa rissa furiosa che c’è adesso con Piercamillo Davigo? Davigo da una parte e Sebastiano Ardita dall’altra, Nino Di Matteo dall’altra ancora. David Ermini, il vicepresidente del Csm, soprattutto, è in scontro furioso con Davigo.

Sono uscite le indiscrezioni sull’udienza che c’è stata a Brescia in cui si è deciso il rinvio a giudizio di Davigo per aver diffuso questo materiale segreto, che erano poi le dichiarazioni dell’avvocato Amara che rivelano l’esistenza di quella che si chiamerebbe la ‘Loggia Ungheria’ e che sarebbe al vertice della magistratura italiana. Noi naturalmente non sappiamo se sia vero o no, siamo preoccupati perché se è vero significa che tutta la giustizia in Italia è clandestina e illegale. Ma anche se non è vero è la prova in ogni caso di questo scontro furibondo.

Davigo sostiene che la Loggia c’è e che dentro siano tutti suoi nemici. Attacca Ermini che peraltro era suo amico, andavano in vacanza insieme. Poi ci ha litigato perché Ermini non lo ha difeso dalla decisione del Csm di mandarlo in pensione. Ora Davigo lo accusa di cose gravissime. Dice che lui ha preso il materiale e non l’ha denunciato. Non solo, ma è andato da Sergio Mattarella a parlarne, quindi tira in ballo anche il capo dello Stato.

Si può anche ridere di questi magistrati che sembravano grandi autorità, ma fino a un certo punto. Perché vi rendete conto a chi è ancora in mano la magistratura? Sospetto che Luca Palamara abbia detto solo il 10% di quello che andava detto. Ogni giorno che passa e ogni volta che una notizia diventa ufficiale, capiamo che la magistratura è un luogo esclusivamente di potere, talvolta semplicemente di gioco di potere, che non ha nulla a che fare con la giustizia ma con le nostre vite. Questi hanno in mano le nostre vite e se le giocano a domino.

Traffico di influenze, l’ex avvocato Amara rinviato a giudizio a Roma. Il Dubbio il 24 febbraio 2022.  

L’ex legale esterno di Eni (lo stesso dei verbali sulla presunta "Loggia Ungheria") sarà anche sentito a Milano nell’ambito del “Falso complotto”.

L’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara è stato rinviato a giudizio dal gup di Roma per l’accusa di influenze illecite, assieme all’ex poliziotto Filippo Paradiso. Per i due il processo inizierà il 3 maggio 2023. I fatti risalgono al periodo compreso tra il 2015 e il 2018. Secondo l’accusa, Paradiso, «sfruttando e vantando relazioni con pubblici ufficiali in sevizio presso ambienti istituzionali si faceva indebitamente promettere e consegnare denaro o altre utilità indebite da Piero Amara come prezzo della propria mediazione».

Utilità consistite in somme di denaro per un valore non inferiore a 2mila euro e nella messa a disposizione di carte di credito per viaggi aerei, e di un appartamento a Trastevere, nel cuore della Capitale, per oltre un anno, di cui Amara aveva avuto la disponibilità. Reato aggravato, secondo i pm, per Paradiso nella sua qualità di pubblico ufficiale. Nell’udienza preliminare di ieri mattina, gli avvocati Salvino Mondello e Gianluca Tognozzi, difensori di Amara e Paradiso, avevano chiesto, oltre all’insussistenza del reato così come contestato, anche la trasmissione degli atti per competenza a Potenza ravvisando una connessione con l’inchiesta lì in corso. Il gup ha invece deciso per il rinvio a giudizio nella Capitale.

Amara, nelle prossime settimane, sarà anche interrogato dalla procura di Milano, che sentirà anche il suo collaboratore Giuseppe Calafiore, tra gli indagati nell’inchiesta sul cosiddetto “Falso complotto Eni”, chiusa lo scorso dicembre, dopo circa cinque anni di indagini. In quell’occasione è stata stralciata la posizione dell’ad della compagnia petrolifera Caludio Descalzi e del capo del personale Claudio Granata, ora parti offese per le calunnie contestate allo stesso Amara e all’ex manager del gruppo Vincenzo Armanna, grande accusatore dei vertici della compagnia nel processo sulla presunta tangente nigeriana, conclusosi con con 15 assoluzioni. I pm hanno convocato Calafiore il prossimo 28 febbraio e Amara l’11 marzo. Nell’ambito di questa vicenda è maturata la consegna dei verbali di Amara, al centro dello scontro tra toghe che ha fatto deflagrare la procura meneghina, caso sul quale la procura di Brescia sta ancora indagando e per il quale l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo è finito a processo.

Versioni opposte sui verbali di Amara. Loggia Ungheria, duro scontro tra Davigo ed Ermini: chi dei due mente? Paolo Comi su Il Riformista il 22 Febbraio 2022. 

Nel procedimento incardinato al tribunale di Brescia per la rivelazione del segreto circa la diffusione dei verbali delle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla loggia Ungheria, uno fra Piercamillo Davigo ed il vice presidente del Csm David Ermini non dice la verità. Al momento questa è l’unica certezza in una vicenda che non ha molti precedenti nella storia Repubblica. I fatti sono noti.

Agli inizi del mese di aprile del 2020, il pm milanese Paolo Storari, dopo aver ultimato gli interrogatori di Amara insieme alla vice del procuratore Francesco Greco, Laura Pedio, percepisce che le indagini per verificare l’esistenza o meno della loggia Ungheria stanno battendo il passo. “Non bisognava toccare Amara”, racconterà poi Storari. Essendo in quel momento l’avvocato siciliano uno dei testimoni principali nel processo contro i vertici dell’Eni, accusati di corruzione internazionale, una sua eventuale incriminazione per calunnia, in caso si accertasse che la loggia non fosse mai esistita, avrebbe messo in grande difficoltà la Procura di Milano. Come il soldato Ryan, era allora fondamentale “preservarlo” da qualsiasi inciampo giudiziario.

Storari, già allievo prediletto di Ilda Boccassini, preso atto che il clima per fare indagini a Milano non era dei migliori, decide di consegnare i verbali delle dichiarazioni di Amara a Davigo, all’epoca potente consigliere del Csm. Lo scambio dei verbali avviene a Milano, fatto che radicherà la competenza a Brescia. Davigo, in particolare, avrebbe tranquillizzato Storari dicendogli di non preoccuparsi per la possibile violazione del segreto d’ufficio in considerazione della pendenza delle indagini. Il segreto, secondo Davigo, non valeva per i componenti del Csm. Una volta ricevuti i verbali, invece di informare il Comitato di presidenza, come prevede la circolare in caso di esistenza di contrasti negli uffici giudiziari, Davigo inizia un’opera di loro diffusione a tappeto a Palazzo dei Marescialli. Uno dei primi ad essere edotto del contenuto di questi verbali, con l’incarico di “custodirli”, è il giudice Giuseppe Marra, un suo fedelissimo ed esponente di Autonomia&indipendenza, entrato al Csm a seguito delle dimissioni dei consiglieri che avevano partecipato all’incontro dell’ hotel Champagne.

Poi viene il turno di Ilaria Pepe, altra davighiana – anche lei entrata al Csm come Marra – di Giuseppe Cascini, numero uno della sinistra giudiziaria, di David Ermini, e quindi di Fulvio Gigliotti, laico in quota M5s e relatore della sentenza con cui si decise la cacciata di Luca Palamara dalla magistratura. Davigo parla anche con Stefano Cavanna, laico della Lega, informandolo però solo dell’esistenza di una indagine sulla loggia dove era coinvolto il pm antimafia Sebastiano Ardita, suo ex amico e collega. Del contenuto dei verbali Davigo informerà in seguito il presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s) e, per non farsi mancare nulla, le funzionarie amministrative del Csm Giulia Befera e Marcella Contraffatto. Quest’ultima successivamente accusata di averli spediti alle redazioni del Fatto Quotidiano e di Repubblica. Le testimonianze di Davigo e di Ermini sono quelle maggiormente divergenti.

“Ho riflettuto a lungo se potevo fidarmi perché la provenienza politica era la stessa di Lotti”, racconta Davigo al giudice dell’udienza preliminare la scorsa settimana. “Un giorno mi abbracciò perché in tv avevo detto, come per il presidente Usa, che lui era anche il mio vicepresidente, anche se la sua elezione promana da Mi e Unicost, la sentina di Palamara. Riteneva che in qualche modo lo avessi legittimato E poi aveva preso le distanze da quel gruppo di potere, perché in una intercettazione Lotti diceva ‘Ermini è morto’ facendogli fare un figurone”, prosegue Davigo, riferendosi alle modalità che avevano portato ad ottobre del 2018 all’elezione dell’ex responsabile giustizia del Pd a vice di Sergio Mattarella. Ermini, sempre secondo Davigo, a maggio del 2020 si era fatto fare una sintesi dell’indagine milanese per poter informare il capo dello Stato. In un secondo momento il vice presidente del Csm avrebbe chiesto i verbali a Davigo. Ermini sarebbe rimasto “impressionato dai nomi” degli appartenenti alla loggia contenuti nei verbali e, “dopo averli presi li ha portati in uno stanzino che aveva dietro il suo ufficio”.

A distanza di due mesi da questo scambio, Ermini e Davigo andranno insieme alle terme di Merano. “Non era particolarmente turbato”, ricorda l’ex pm di Mani pulite, affermando anche che Mattarella gli avrebbe detto di ringraziarlo “per quanto fatto”, essendo le notizie avute sulla loggia “sufficienti”. Nulla di tutto ciò si sarebbe verificato per Ermini. Il vice presidente, ricevuti i verbali da Davigo, li aveva “immediatamente distrutti”. E sempre per Ermini, il presidente della Repubblica, ascoltando le notizie su Ungheria, sarebbe rimasto mummificato, “come una statua”, senza proferire verbo alcuno. Ermini, per la cronaca, fu determinante per la decadenza di Davigo il 20 ottobre 2020, giorno del settantesimo compleanno del magistrato, età massima per il trattenimento in servizio.

Fino a dieci giorni prima del voto del Plenum per il pensionamento di Davigo, i rapporti erano ottimi. Oltre ai bagni turchi alle terme di Merano, Ermini e Davigo infatti si frequentavano anche fuori dalla sala del Plenum. Durante una cena, Ermini avrebbe detto: “Oggi Piercamillo ha fatto il suo capolavoro: ha collocato a riposo il segretario generale (del Csm, ndr) e lui rimasto”. Dopo il voto del 20 ottobre “Ermini era molto dispiaciuto”, aggiunge comunque Davigo, prima di andare a ruota libera, svelando particolari inediti: “Io non volevo andare al Csm mi veniva il mal di stomaco alle 11 di mattina per le cose che vedevo”. Per sapere chi ha detto la verità fra Ermini e Davigo sarà necessario attendere il prossimo 20 aprile, giorno in cui si aprirà il dibattimento a Brescia. Paolo Comi

Luca Fazzo per “il Giornale” il 20 febbraio 2022.

Fu la Procura di Milano a permettere a Piero Amara, il grande calunniatore del caso Eni, di evitare il carcere e ottenere l'affidamento ai servizi sociali: per i pm milanesi Amara era sincero. E questa benedizione gli venne concessa perché salvare Amara serviva a ottenere la condanna dei vertici dell’Eni. 

Che questo fosse lo scenario lo si era ipotizzato. A dirlo esplicitamente, e quasi con crudezza, è nei suoi verbali il pm Paolo Storari, che Amara invece voleva incriminarlo insieme al suo complice di manovre Vincenzo Armanna.

Il 21 maggio 2021 Storari viene interrogato dalla Procura di Brescia che lo accusa di avere rivelato i verbali segreti di Amara a Piecamillo Davigo. E spiega così il suo stato d'animo, quando chiedeva invano ai suoi capi di scavare sulla loggia Ungheria di cui gli aveva parlato Amara: «Io non vengo manco considerato, un muro di gomma sui sbatto e ho sbattuto fino all'altro giorno».

A essere inaccettabile per Storari è che intanto i verbali di Amara vengano usati contro il giudice del processo Eni: «Perchè quando si tratta di andare a verificare la bontà o la falsità delle dichiarazioni di Amara su Ungheria si sta fermi immobili e poi invece quando si tratta di utilizzare quelle medesime dichiarazioni provenienti dal medesimo soggetto lo si fa in serenità?».

Per smuovere le acque «prendo la decisione di parlare con un consigliere del Csm, non con un amico, io Davigo lo conosco ma lo conosco diciamo in via per Alessandra Dolci (capo del pool antimafia di Milano, ndr) con cui ho lavorato. Prima gli chiedo telefonicamente "senti qua c'è uno che sta parlando di una loggia che è una cosa grave, Piercamillo (... ) poi sono andato due volte a casa sua. Gli chiedo: ma io Piercamillo di queste cose posso parlare con te? E lui mi dice "sì Paolo io sono un consigliere del Csm a me questo segreto non è opponibile (...) allora vado a casa prendo la chiavetta con sopra i verbali e gli spiego (...) io ho fatto quello che dovevo fare in coscienza». 

Su suggerimento di Davigo, Storari inizia a mettere le sue richieste per iscritto e un po' alla volta le cose si muovono. Ma intanto l'avvocato di Amara scrive alla procura di Milano segnalando che il 5 maggio il torbido ex legale di Eni doveva affrontare davanti al tribunale di sorveglianza di Roma un'udienza decisiva per evitare il carcere, e chiede che la Procura di Milano attesti «la effettività della condotta collaborativa dell'Amara rispetto alle indagini che lo vedono coinvolto», la «utilità e la rilevanza del contributo fornito».

È un contributo, come è noto, farcito di falsità, Storari ha già scritto ai suoi capi che «Amara e Armanna sono due grandissimi calunniatori». Ma il 24 aprile la Procura dà il via libera, «Amara viene messo per iscritto - è un soggetto che ha rescisso ogni legame con ambienti criminali». 

Grazie a quel riconoscimento l'avvocato siciliano ottiene l'affidamento ai servizi sociali. Nel suo interrogatorio, Storari sostiene di avere chiesto ripetutamente conto ai suoi capi della «attendibilità a geometria variabile», per cui sulle rivelazioni di Amara su Ungheria non si indagava ma le si usava nel processo Eni. «Secondo me, allora ce la diciamo proprio tutta? Me ne assumo le mie responsabilità, ok? Dicembre 2019, Amara sta parlando di Ungheria, ho una interlocuzione col dottor De Pasquale che mi dice: "questo fascicolo per due anni dobbiamo tenerlo nel cassetto"».

D'altronde «io sempre avuto non un buon rapporto con il dottor De Pasquale ci litigavo spesso, e a un certo punto mi sono fatto un file sul mio computer in cui mi segnavo le porcherie che faceva». E perché De Pasquale avrebbe avuto interesse a tenerlo due anni nel cassetto? 

«Non bisognava disturbare il processo Eni-Nigeria. Se noi avessimo avuto la prova che Amara e Armanna dicevano delle palle le chiamate in correità di quel processo Eni-Nigeria finivano e questo non poteva essere consentito. Adesso forse può capire la condizione in cui mi sono trovato, una roba del genere a me non è stata detta mai in tutta la vita (...) questa è una vergogna (..) se si fosse scoperto che Armanna e Amara erano due calunniatori questo voleva dire la morte di quel processo che la Procura di Milano non poteva e doveva perdere».

Più che un interrogatorio quello di Storari diventa uno sfogo «non volevo dargliela vinta, mi sono battuto fino alla fine, in pieno Covid andavo in giro come un coglione da solo per l'Italia cercando riscontri e smentite» perché «siamo di fronte a un fascicolo in grado di far cadere il paese, ci sono i massimi vertici delle forze dell'ordine, i componenti del Csm». Morale: «Io sono veramente convinto che questa roba è stata gestita una merda».

Storari svela il metodo Milano. Quelle trame sul processo Eni. Redazione il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'interrogatorio del pm a Brescia: "De Pasquale mi disse di tenere fermo il fascicolo sulla loggia Ungheria...".

Fu la Procura di Milano a permettere a Piero Amara, il grande calunniatore del caso Eni, di evitare il carcere e ottenere l'affidamento ai servizi sociali: per i pm milanesi Amara era sincero. E questa benedizione gli venne concessa perché salvare Amara serviva a ottenere la condanna dei vertici dell'Eni. Che questo fosse lo scenario lo si era ipotizzato. A dirlo esplicitamente, e quasi con crudezza, è nei suoi verbali il pm Paolo Storari, che Amara invece voleva incriminarlo insieme al suo complice di manovre Vincenzo Armanna.

Il 21 maggio 2021 Storari viene interrogato dalla Procura di Brescia che lo accusa di avere rivelato i verbali segreti di Amara a Piecamillo Davigo. E spiega così il suo stato d'animo, quando chiedeva invano ai suoi capi di scavare sulla loggia Ungheria di cui gli aveva parlato Amara: «Io non vengo manco considerato, un muro di gomma sui sbatto e ho sbattuto fino all'altro giorno». A essere inaccettabile per Storari è che intanto i verbali di Amara vengano usati contro il giudice del processo Eni: «Perchè quando si tratta di andare a verificare la bontà o la falsità delle dichiarazioni di Amara su Ungheria si sta fermi immobili e poi invece quando si tratta di utilizzare quelle medesime dichiarazioni provenienti dal medesimo soggetto lo si fa in serenità?».

Per smuovere le acque «prendo la decisione di parlare con un consigliere del Csm, non con un amico, io Davigo lo conosco ma lo conosco diciamo in via per Alessandra Dolci (capo del pool antimafia di Milano, ndr) con cui ho lavorato. Prima gli chiedo telefonicamente senti qua c'è uno che sta parlando di una loggia che è una cosa grave, Piercamillo (... ) poi sono andato due volte a casa sua. Gli chiedo: ma io Piercamillo di queste cose posso parlare con te? E lui mi dice sì Paolo io sono un consigliere del Csm a me questo segreto non è opponibile (...) allora vado a casa prendo la chiavetta con sopra i verbali e gli spiego (...) io ho fatto quello che dovevo fare in coscienza».

Su suggerimento di Davigo, Storari inizia a mettere le sue richieste per iscritto e un po' alla volta le cose si muovono. Ma intanto l'avvocato di Amara scrive alla procura di Milano segnalando che il 5 maggio il torbido ex legale di Eni doveva affrontare davanti al tribunale di sorveglianza di Roma un'udienza decisiva per evitare il carcere, e chiede che la Procura di Milano attesti «la effettività della condotta collaborativa dell'Amara rispetto alle indagini che lo vedono coinvolto», la «utilità e la rilevanza del contributo fornito». È un contributo, come è noto, farcito di falsità, Storari ha già scritto ai suoi capi che «Amara e Armanna sono due grandissimi calunniatori». Ma il 24 aprile la Procura dà il via libera, «Amara - viene messo per iscritto - è un soggetto che ha rescisso ogni legame con ambienti criminali». Grazie a quel riconoscimento l'avvocato siciliano ottiene l'affidamento ai servizi sociali.

Nel suo interrogatorio, Storari sostiene di avere chiesto ripetutamente conto ai suoi capi della «attendibilità a geometria variabile», per cui sulle rivelazioni di Amara su Ungheria non si indagava ma le si usava nel processo Eni. «Secondo me, allora ce la diciamo proprio tutta? Me ne assumo le mie responsabilità, ok? Dicembre 2019, Amara sta parlando di Ungheria, ho una interlocuzione col dottor De Pasquale che mi dice: questo fascicolo per due anni dobbiamo tenerlo nel cassetto». D'altronde «io sempre avuto non un buon rapporto con il dottor De Pasquale ci litigavo spesso, e a un certo punto mi sono fatto un file sul mio computer in cui mi segnavo le porcherie che faceva». E perché De Pasquale avrebbe avuto interesse a tenerlo due anni nel cassetto? «Non bisognava disturbare il processo Eni-Nigeria. Se noi avessimo avuto la prova che Amara e Armanna dicevano delle palle le chiamate in correità di quel processo Eni-Nigeria finivano e questo non poteva essere consentito. Adesso forse può capire la condizione in cui mi sono trovato, una roba del genere a me non è stata detta mai in tutta la vita (...) questa è una vergogna (..) se si fosse scoperto che Armanna e Amara erano due calunniatori questo voleva dire la morte di quel processo che la Procura di Milano non poteva e doveva perdere».

Più che un interrogatorio quello di Storari diventa uno sfogo «non volevo dargliela vinta, mi sono battuto fino alla fine, in pieno Covid andavo in giro come un coglione da solo per l'Italia cercando riscontri e smentite» perchè «siamo di fronte a un fascicolo in grado di far cadere il paese, ci sono i massimi vertici delle forze dell'ordine, i componenti del Csm». Morale: «Io sono veramente convinto che questa roba è stata gestita una merda».

Giacomo Amadori per “La Verità” il 9 febbraio 2022.

Le incontenibili dichiarazioni, che appaiono sempre meno credibili, del faccendiere Piero Amara hanno mandato in tilt il gotha della magistratura italiana. L'avvocato siracusano per un mesetto, tra dicembre 2019 e gennaio 2020, ha riempito con le sue confessioni sulla fantomatica loggia Ungheria sei verbali della Procura di Milano. I suoi resoconti hanno prima creato un cortocircuito tra i magistrati meneghini, tanto che il pm Paolo Storari a causa della presunta «inerzia investigativa» attuata dai suoi superiori, decise di consegnare sottobanco i verbali di Amara all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

Quest' ultimo con quelle carte in mano ha iniziato a rendere partecipi molti colleghi del contenuto di quei verbali riservati e a spingere per un'accelerazione delle indagini. Il telefono senza fili è arrivato, attraverso il vicepresidente del Csm David Ermini su su sino al Quirinale. 

E mentre Davigo diffondeva il verbo di Amara, molte toghe venivano inzaccherate da quelle propalazioni tanto da rendere necessaria una riunione informale del Csm con uno degli «accusati», il consigliere Sebastiano Ardita, sottoposto a una specie di surreale processo basato sul nulla. 

Ma dopo che gli inquirenti milanesi avevano dato credito ad Amara e avevano sottoposto le sue chiacchiere all'attenzione della Procura di Brescia nel tentativo di disarcionare il presidente della Corte che stava giudicando i vertici dell'Eni, quell'arma non convenzionale si è rivoltata contro chi l'aveva maneggiata forse con troppa disinvoltura. E così sono andati a processo per rivelazione di segreto Davigo e Storari, mentre chi aveva cercato di usare Amara contro l'Eni è finito sotto accusa per rifiuto di atti d'ufficio, come il procuratore aggiunto Fabio de Pasquale.

Nel frattempo Amara e altri suoi sodali sono stati iscritti per calunnia. È di queste ore l'avviso di chiusura delle indagini per le accuse rivolte all'ex consigliere del Csm Marco Mancinetti, uno dei colleghi di cui Davigo sembrava particolarmente ansioso di conoscere le magagne. 

 Ma il vero duello da mezzogiorno di fuoco è stato quello tra l'ex procuratore di Milano Francesco Greco, prosciolto dalle accuse di omissione di atti d'ufficio, e un altro pezzo da 90 della magistratura, il compagno di corrente (sono entrambi di Magistratura democratica) Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, una delle toghe che fanno parte del ristrettissimo comitato di presidenza del Csm. Gli occhi, le orecchie e la voce del Quirinale a Palazzo dei marescialli. Salvi ha assicurato ai pm di aver contribuito, sollecitando Greco, alle iscrizioni di Amara & C. nel procedimento milanese per la violazione della legge sulle associazioni segrete.

L'ex procuratore meneghino ha negato tutto. Il Pg ha raccontato quello che fece dopo aver parlato con Davigo: «Chiamai al telefono il procuratore Greco per avere da lui chiarimenti su quello che stava accadendo. 

Greco, sia al telefono sia in un incontro successivo avvenuto presso il mio ufficio il 16 giugno 2020, mi spiegò che in realtà non vi era stata da parte loro alcuna inerzia e che anzi le indagini erano proseguite, sia pure rallentate dal lockdown».

A questo punto i magistrati di Brescia chiedono se la prima telefonata a Greco si collochi temporalmente tra l'incontro con Davigo del 4 maggio e le iscrizioni di Amara & C. del 12 maggio. Salvi risponde che «è verosimile», lasciando intendere di aver favorito quell'atto investigativo. 

Quando gli inquirenti hanno insistito e gli hanno domandato se avesse stimolato le iscrizioni, il Pg ha replicato: «A me interessava in particolare che il procedimento seguisse alacremente il suo corso e ricordo di avere più che altro sollecitato che le indagini venissero condotte con un certo ritmo. Abbiamo parlato delle iscrizioni e Greco mi ha risposto nei termini sopra riportati; io mi sono tranquillizzato nel momento in cui mi ha detto che le indagini comunque non erano ferme».

 La versione di Greco è del tutto diversa e nella sua memoria c'è un capitolo dedicato proprio alla «questione Salvi». Dove si legge: «Sia nella eventuale telefonata [] sia nell'incontro del 16 giugno Salvi non mi ha mai parlato di Davigo e di Storari né tantomeno di contrasti o indagini». 

Al contrario il Pg aveva affermato: «È possibile che abbia fatto riferimento a Davigo come fonte delle mie informazioni, ma non ne sono sicuro».Secondo Greco, il collega era interessato più che a dare un'accelerata all'inchiesta, «ad avere ulteriori documenti su Mancinetti» e per questo aveva affermato «genericamente che circolava voce di una indagine delicata che stavamo conducendo a Milano su diversi magistrati».

Lo stesso Greco si sarebbe impegnato «a mandare quello che avevano» sul consigliere. Alla fine della memoria l'ex procuratore di Milano si sfoga: «Purtroppo, siamo stati vittime di uno sconcertante episodio di inquinamento probatorio che ha sicuramente danneggiato ben due delicatissime indagini».A Brescia, di fronte al collega Prete, vedendo tra le fonti di prova contro di lui proprio le dichiarazioni del Pg, Greco ha rincarato la dose: «Ho letto questa cosa sul capo d'imputazione, ma e totalmente infondata e ripeto se Salvi ha detto il contrario... se ha detto che mi ha chiesto di accelerare l'indagine, di fare le iscrizioni, che Davigo compulsava o Storari si lamentava se ne assumerà la responsabilità».

Il procuratore Prete, durante le indagini, ha convocato come testimoni coloro i quali erano stati informati dell'esistenza dei verbali sulla loggia o, addirittura, li avevano visionati. Il consigliere Giuseppe Cascini ha ricordato come ne fu informato: «La prima volta che me ne parlo, mi chiese quale fosse la mia opinione su Amara, avendolo io indagato quando ero alla Procura di Roma. 

In pratica, voleva la mia opinione sull'attendibilità del dichiarante». Era come se Davigo stesse effettuando delle indagini parallele. Per Cascini le accuse del faccendiere erano più o meno carta straccia, anche se in passato aveva ritenuto che «difficilmente diceva cose non vere o non verificabili»: «Quando poi ho letto i verbali, mi sono stupito perché ho ritrovato dichiarazioni che non rispecchiavano la persona che io ricordavo nelle mie indagini.

Avevo infatti tratto l'impressione che fornisse elementi generici e un po' enfatizzati che non corrispondevano a questa mia valutazione sul personaggio». E Davigo riteneva fondate le accuse di Amara? «Devo dire di aver tratto l'impressione che egli credesse a quelle dichiarazioni». Cascini ha anche ammesso di aver sùbito compreso, vedendo le copie dei verbali, che «si trattava di materiale riservato». 

E ha aggiunto: «Poiché Davigo mi aveva chiesto un'opinione sul da farsi, ricordo di avergli detto che, trattandosi di materiale informale, ricevuto per vie non ufficiali, noi non avremmo potuto farci nulla». Come detto, Davigo era particolarmente interessato alla posizione di possibile affiliato della loggia dell'allora compagno di corrente Ardita. Peccato che, a giudicare dalle parole del consigliere Nino Di Matteo, fosse in conflitto di interessi.

L'ex pm palermitano ha, infatti, riferito a Brescia quanto accaduto appena un mese e mezzo prima della diffusione dei verbali, in occasione dell'elezione del procuratore di Roma Michele Prestipino. Di Matteo e Ardita erano contrari a quella candidatura. Il primo però non era organico alla corrente di Autonomia e indipendenza, il secondo sì. 

Appartenenza che espose Ardita alla furia di Davigo: «Nel corso della riunione, quando io e Ardita confermammo che non avremmo votato per Prestipino, Davigo alzo la voce in maniera molto decisa contro Ardita [] si scaglio violentemente contro [] ebbe una reazione furibonda e con un tono di voce alterato disse chiaramente ad Ardita, ripetendolo più volte, che se avesse votato per Creazzo "sarebbe stato automaticamente fuori dal gruppo"». Secondo Di Matteo gridò anche: «Tu mi nascondi qualcosa».

Un'accusa che, accompagnata ai «toni rabbiosi», ha portato il sostituto procuratore della Trattativa Stato-mafia a sospettare che, già a fine febbraio del 2020, Davigo «potesse essere stato messo a conoscenza di quanto dichiarato dall'avvocato Amara». 

Piercamillo a Brescia ha raccontato di aver avvicinato, con i suoi verbali sotto braccio, anche il vicepresidente del Csm: «lo ho pensato a lungo se potevo fidarmi di Ermini, ma ho concluso di poterlo fare». Il motivo? In un'intercettazione di Palamara & C. era stato indicato come «"morto" per essersi rifiutato di assecondare una qualche richiesta che gli era stata formulata». 

Ecco così che Davigo ha portato all'ex parlamentare Pd una copia degli atti milanesi e l'avvocato toscano li avrebbe schivati, come in una partita di palla avvelenata: «Ero molto in difficoltà e non avevo alcuna voglia di leggere quelle carte perché consegnate in modo irricevibile e totalmente inutilizzabile []. Appena uscito Davigo, presi la cartellina che mi aveva lasciato sul tavolo e, per i motivi sopra indicati [] la cestinai. Voglio sottolineare che io quei verbali non li ho mai voluti leggere e li buttai nel cestino senza aver preso conoscenza del loro contenuto».

Anche al consigliere Giuseppe Marra era stata affidata una copia delle dichiarazioni: «Davigo mi disse: "Ti ho lasciato i verbali sulla scrivania", senza aggiungere altro. Quando tornai in ufficio, trovai una cartellina contenente i verbali di Amara. [] Dopo qualche settimana li ho strappati». 

Pure la collega Ilaria Pepe si era tirata indietro: «Perché non ho voluto leggere i verbali? Mi sentivo coinvolta in qualcosa di più grande di me». Qualcosa di cui al Csm si parlava in modo carbonaro.Come ha specificato Marra e non solo lui: «Preciso che al telefono con Davigo non si poteva parlare di questa vicenda». E anche quando i due andarono a pranzo in un chioschetto a pochi metri dal Csm ebbero «l'accortezza di lasciare i cellulari in ufficio di modo da avere un dialogo piu libero». Pure Cascini ha spiegato di essere stato invitato «a parlarne in cortile e senza telefoni». 

Ermini ha raccontato lo stesso film e cioè che Piercamillo gli aveva chiesto di conferire «riservatamente», «lasciando i telefoni in stanza proprio perché la questione era molto delicata». 

Davigo ha confermato di averlo fatto perché temeva «intercettazioni illegali». Non è chiaro da parte di chi. Greco alla fine della sua memoria ha scritto: «Non ho contezza di denunzie nel rispetto dell'articolo 331 del codice di procedura penale (quello che obbliga il pubblico ufficiale a denunciare le notizie di reato, ndr) da parte di coloro che hanno visto i verbali». Come dire: nessuno ha riferito all'autorità giudiziaria di aver visto Davigo mettere in piazza documenti coperti da segreto. 

Gran parte dei consiglieri si è difesa dall'accusa sostenendo che Storari fosse autorizzato da una vecchia circolare a riferire ai consiglieri del Csm notizie di indagini su magistrati anche in fase istruttoria. 

Ma il procuratore di Brescia Prete ha dovuto spiegare a più d'uno il contenuto della norma come si fa con gli studenti del primo anno di Legge, anche se quelli di fronte a lui erano la crème de la crème della magistratura, e cioè che la circolare prevede che il pm possa comunicare con il Csm solo a iscrizioni avvenute. Il consigliere Stefano Cavanna ha ammesso: «Certamente il fine (di Davigo, ndr) non era istituzionale o comunque collegato alle sue funzioni di consigliere».

Ma l'ex pm del Pool di Mani pulite avrebbe tranquillizzato alcuni colleghi titubanti dicendo di «averne parlato prima con Ermini e poi con Salvi aggiungendo che Ermini aveva riferito la vicenda al Quirinale» 

Cascini, sentendo puzza di bruciato, si è giustificato davanti al procuratore Prete sostenendo che quando Davigo gli aveva parlato delle dichiarazioni di Amara non si sentiva un pubblico ufficiale: «Era chiaro a tutti e due che non ricevevo quelle informazioni nell'esercizio delle mie funzioni. La ritenni infatti una confidenza tra colleghi». 

Deve averla pensata allo stesso anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Infatti a Brescia Ermini ha spiegato: «Mi recai al Quirinale, saltando il consigliere giuridico. Parlai personalmente al Presidente di varie questioni e lo informai anche di quanto Davigo mi aveva raccontato. Il Presidente mi ascolto senza fare commenti». Tutti zitti e buoni per dirla con i Maneskin.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 10 febbraio 2022.

Si danno del tu, si scambiano tonnellate di whatsapp, si indignano quando le cose non vanno per il verso giusto, concordano le interviste, si creano alibi. Uno è Vincenzo Armanna, ex avvocato dell'Eni, già teste d'accusa nel processo ai vertici del gruppo, ora imputato di calunnia e indagato per complotto. 

 L'altro è il giornalista di Report che lo intervista per la trasmissione di Sigfrido Ranucci che il 15 aprile 2019 manda in onda una superinchiesta contro le malefatte dei vertici Eni. L'intervista ad Armanna è il piatto forte della puntata. Allora l'avvocato siciliano non è ancora finito nei guai, e le sue rivelazioni sugli affari oscuri del cane a sei zampe fanno un botto di share.

Ma ora la Procura di Milano ha depositato, nello sterminato materiale dell'indagine sul complotto contro Eni, anche i messaggi che Armanna e il giornalista si scambiano tra il 7 febbraio 2018 e l'8 dicembre 2019. Centinaia di messaggi che raccontano bene il backstage non solo dell'intervista ad Armanna ma dell'intero «sistema Report»: e che vengono alla luce proprio quando la trasmissione di Ranucci è accusata da membri della commissione di vigilanza Rai di metodi non ortodossi. 

Armanna ne emerge non come un intervistato ma come una sorta di consulente del programma. È lui, il mestatore del caso Eni, a indicare al giornalista le domande da porre, a indicargli le piste da seguire, persino a fornire i numeri di telefono. Tutto all'interno di un suo piano ben noto al giornalista: «Credo di averti detto quale fosse il mio interesse», gli scrive Armanna il 23 luglio, «non ti ho preso in giro».

L'analisi delle chat è contenuta nel rapporto che il 14 gennaio 2021 la Guardia di finanza invia ai pm milanesi dopo avere analizzato l'iPhone sequestrato ad Armanna. Nelle chat a ridosso della puntata di Report «si evince chiaramente che il giornalista sospetti un accordo tra Amara e lo stesso Armanna per fregare Granata (Claudio Granata, potente capo del personale Eni, ndr). 

"Buongiorno, ma non è che tu e Amara vi siete messi d'accordo per fregare Granata? Le vostre interviste sono fin troppo uguali". A tale affermazione Armanna risponde negando qualsiasi coinvolgimento con Amara (...) Come è noto, nonostante la perplessità del giornalista, il servizio va in onda il giorno 15.4.2019».

In più di un passaggio, reporter e «gola profonda» appaiono schierati dalla stessa parte: quella che punta alla condanna dei vertici Eni. Il 30 ottobre l'inviato di Report si infuria per una decisione del presidente del tribunale: «Ma scusa hanno bocciato la richiesta di sentire il vero Victor (presunto 007 nigeriano, ndr)? Ma siamo matti?». Gli risponde sullo stesso tono Armanna: «Comunque il presidente è venduto proprio, riusciremmo a farlo sentire lo stesso ma è proprio a favore di Eni il presidente... Pazzesco». 

Armanna tiene al corrente il giornalista di tutte le sue mosse giudiziarie, gli preannuncia le convocazioni in Procura, «sto andando dalla Pedio», gli dà le chiavi di lettura: «Posso dire che Granata è il braccio destro di Descalzi?» «Sì certo, è l'unico di cui si fida». Il top viene raggiunto la notte del 23 luglio. Armanna è stato appena colto in castagna a mentire ai giudici su un dettaglio chiave, la data della sua conoscenza con Amara. 

E chiede aiuto al giornalista per crearsi una spiegazione credibile: «A me basterebbe dire che tu mi facesti domande su quel documento e che ti confermai incontro e che sapevo fosse luglio (...) posso dirlo?». «Valuta tu. È vero che te ne ho parlato e chiesto di quel documento» «Posso dire che me lo girasti»? «Non è il massimo». «Solo se mi costringono a farlo dirò che ne ero a conoscenza perché mi chiedesti spiegazioni». «Ok». «È fondamentale per la mia credibilità».

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” l'11 febbraio 2022.

Prima dell'inizio nel marzo 2021 del processo abbreviato d'Appello ai coimputati del processo Eni-Nigeria Emeka Obi e Gianluca di Nardo (assolti in giugno su richiesta stessa del sostituto pg Celestina Gravina molto critica con i pm del primo grado), il procuratore di Milano, Francesco Greco, prospettò al procuratore generale Francesca Nanni l'inopportunità a suo avviso che a rappresentare l'accusa fosse Gravina, ritenuta non in sintonia con la linea del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale titolare del primo grado concluso con la condanna a 4 anni e 100 milioni di confisca.

Lo ha riferito Nanni al Csm, aggiungendo che mai le fu avanzata formale richiesta di applicazione in Appello di De Pasquale, mentre conserva invece copia di una segnalazione (mostratale da Greco) in cui De Pasquale lamentava la designazione di Gravina benché non facesse parte del gruppo «pubblica amministrazione» previsto da criteri interni.

Nanni dice che confermò Gravina (indicata dalla precedente dirigente Nunzia Gatto) dopo aver verificato corrispondesse alla prassi, se non a precisi criteri, affidare processi in comune ai pg dei due gruppi «affari economici» e «pubblica amministrazione».

Processo Eni, le intercettazioni in onda da Giletti: «Una valanga di m...» A «Non è l’Arena» su La7 un filmato in cui si pianifica la bufera sui vertici Eni. CorriereTv il 13 Febbraio 2022.

Un video risalente al 18 dicembre 2014, registrato nello studio dell’imprenditore Ezio Bigotti, mostrato domenica sera da Massimo Giletti a «Non è l’Arena» su La7. Nel filmato (qui l’articolo apparso sul Corriere a giugno) si sentono l’avvocato Piero Amara e Vincenzo Armanna parlare della bufera in arrivo sui vertici Eni, come se la stessero pianificando: «Arriverà una valanga di m...».

La domanda che si pone Giletti è: «Come mai questi documenti che avrebbero scagionato i vertici Eni sono stati tenuti segreti dai magistrati?»

Caso Eni, Giletti mostra i video nascosti alle difese. Per questa vicenda i pm De Pasquale e Spadaro sono indagati a Brescia. Il Dubbio il 13 febbraio 2022.

Nella puntata di questa sera alle 21.15 di Non è l’Arena, Massimo Giletti mostra i video girati in maniera clandestina da Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni che ha svelato l’esistenza di una fantomatica loggia denominata “Ungheria”, che testimonia un fatto clamoroso: la volontà di Vincenzo Armanna, grande accusatore nel processo per le presunte tangenti nell’affare Opl245, di ricattare i vertici Eni, per gettare su di loro «valanghe di merda» e avviare una devastante campagna mediatica.

Di questa notizia vi avevamo già parlato qui . Per questo motivo, i pm che hanno rappresentato l’accusa al processo, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati, sono indagati con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio. Si tratta del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del sostituto Sergio Spadaro, ora in forza alla procura europea.

R.C. per il "Corriere della Sera" il 14 febbraio 2022.

Un filmato registrato in modo clandestino nel luglio del 2014. Protagonisti l'avvocato Piero Amara e il dirigente Vincenzo Armanna, fra i principali testimoni d'accusa nel processo Eni-Nigeria per corruzione internazionale. Dalla videoregistrazione, effettuata nello studio dell'imprenditore Ezio Bigotti e mandata in onda ieri da Massimo Giletti a «Non è l'Arena» su La7, sembra emergere un piano per ricattare i vertici della società petrolifera preannunciando l'intenzione di rivolgersi ai pm milanesi per far arrivare «una valanga di m... che tu non ne hai idea» ad alcuni dirigenti apicali della compagnia.

Si sentono Armanna e Amara, più volte indagato e condannato e al centro a Milano di aspre diversità di vedute tra il pm sulla sua attendibilità, parlare della bufera in arrivo ai vertici dell'Eni. Questo video, come sostennero durante il processo le difese nel 2020 una volta che lo avevano trovato per caso in un altro procedimento, avrebbe costituito una prova rilevante a discarico degli imputati poi del processo. Ma la Procura di Milano, che ne era in possesso, lo avrebbe celato al Tribunale.

La vicenda era stata rimarcata dai giudici del processo Eni-Nigeria, che nelle motivazioni della sentenza di assoluzione avevano censurato i pm del processo: «Risulta incomprensibile la scelta del pm di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l'uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell'auspicata conseguente attivazione dell'autorità inquirente, ha straordinari elementi in favore degli imputati - scrissero i giudici-. Una simile decisione processuale avrebbe avuto quale effetto la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza».

Secondo il Tribunale, dalla videoregistrazione si capisce che Armanna «aveva interesse a "cambiare i capi della Nigeria" (in Eni) per sostituirli con uomini di suo gradimento ed essere così agevolato negli affari petroliferi che aveva in tandem con Amara». La domanda di Giletti è una sola: «Come mai questi documenti sono stati tenuti segreti dai magistrati?».

Fabio Amendolara per "la Verità" il 14 febbraio 2022.

Le prassi mai codificate del rito ambrosiano, in vigore nella Procura più a sinistra d'Italia, ovvero quella di Milano, procedure che in altre zone d'Italia manderebbero sulle barricate gli avvocati, sono state riassunte per la prima volta in un verbale d'interrogatorio firmato lo scorso 19 maggio dal pm Paolo Storari, indagato per rivelazione del segreto d'ufficio dopo aver maneggiato il fascicolo sulla loggia Ungheria. La storia che Storari prospetta al procuratore di Brescia Francesco Prete parte dalle indagini sul complotto Eni e dalle ritrattazioni di Vincenzo Armanna.

E passa per le verità dell'avvocato Piero Amara, arrivato in Procura a Milano per confermare la ritrattazione di Armanna e finito a svelare l'esistenza della loggia Ungheria. Sono i primi giorni del mese di dicembre del 2019, quando, dopo l'ennesimo verbale riempito da Amara, Storari segnala alla collega, procuratore aggiunto, Laura Pedio, la necessità di affidare alcune deleghe per identificare le persone che l'avvocato siracusano indicava come appartenenti alla loggia. La comunicazione alla collega, però, stando al racconto di Storari, sarebbe caduta nel nulla: «Mai risposto».

«Ma questo», annuncia, «è un cinquantesimo di quanto ho vissuto». Storari parte da un assunto: c'erano delle dichiarazioni da approfondire. E mostra un articolo della Verità sulle chat di Luca Palamara, dalle quali era emerso che l'ex consigliere del Csm Marco Mancinetti avrebbe brigato per ottenere le tracce del test di Medicina per suo figlio. «Noi», spiega Storari, «avevamo dichiarazioni di Amara che diceva esattamente questo». Il pm sembra ragionare tra sé: «Come per dire... guarda che forse qualche riscontro fesso fesso iniziamo ad averlo... dobbiamo fare qualcosa».

Ma anche in questo caso, lamenta la toga, «non ho mai ricevuto risposta [...] io non vengo manco considerato... un muro di gomma...». Non è finita. Arriva febbraio 2020. Storari interroga Giuseppe Calafiore, l'uomo un tempo più vicino ad Amara. «Gli viene fatta una domanda», spiega Storari, «esiste Ungheria? «Sì esiste ungheria», questa è la risposta [...] abbiamo già due soggetti che si autoaccusano e a tre mesi circa dalle dichiarazioni non si iscrive nessuno... non si fa nulla».

Ma Storari comincia a tremare quando Armanna si presenta in Procura con una foto del primo verbale di Amara sulla loggia: «Iniziano le fughe di notizie...», dice. E spiega come avrebbe agito se avesse potuto farlo a modo suo: «Il tempo non gioca a nostro favore...queste robe son da fare in un mese... giorno e notte». E siccome «questi», argomenta Storari riferendosi ai suoi capi, «si sono infrattati il fascicolo per cinque mesi», aggiungendo, «mi perdoni dottor Prete, non c'è un atto istruttorio per un anno e mezzo», comincia a preoccuparsi non poco.

«Questo (riferito ad Amara, ndr) ha cominciato a parlare a dicembre 2019, il fascicolo è andato a Perugia, con quattro sit schifose, a gennaio 2021. Le sembra una cosa ammissibile con quelle dichiarazioni?». A quel punto si è chiesto: «Ma scusate, non è che dopo ci vado di mezzo io alle mancate iscrizioni?». E ha deciso di parlare con Piercamillo Davigo, all'epoca consigliere del Csm. Il procuratore Prete gli spiega che «di fronte a una situazione del genere aveva delle strade possibili da percorrere... la prima: rinuncio alla coassegnazione... la seconda: riferisco al procuratore generale perché eserciti i poteri di vigilanza... la terza... investo il Csm ufficialmente... perché lei sceglie una quarta informale, irrituale... forze illegittima... Perché?».

Storari risponde: «Io a Greco (il capo della Procura di Milano, prosciolto dalle accuse, ndr) l'ho detto e la risposta che ho avuto [...] «ti faccio il procedimento disciplinare»... seconda cosa, non lo dico a Greco perché è la stessa persona che mi ha detto "teniamo questo fermo"». Inoltre, «il procuratore generale in quel momento non c'era». E spiega anche perché non ha scelto di rinunciare al fascicolo: «Non volevo dargliela vinta e lasciarli da soli. Io ho sempre cercato di portare avanti questo fascicolo... In pieno Covid andavo in giro come un coglione, da solo, per l'Italia... cercando riscontri e smentite».

Poi si sfoga: «E l'unica volta, cazzo, in cui mi sono permesso di dire facciamo i tabulati, questi mi volevano aprire un disciplinare... di fronte a un fascicolo di questa portata. Non stiamo parlando di una truffa alle assicurazioni... stiamo parlando di robe devastanti per il Paese... e gliel'ho detto 200 volte... facciamo veloce che ci esplode tra le mani... e così è successo. Ma non per colpa mia. Perché è rimasto un anno e due mesi nel cassetto». 

Quando Prete gli chiede lumi sulla competenza territoriale, Storari scatta: «Ma ha visto chi c'è in questa loggia? Asseritamente chi ne fa parte? Il dottor Luigi De Ficchy. Cosa faceva? Il procuratore di Perugia. Allora... Perugia poteva essere competente? Dottor Prete lo chiedo a lei?». Prete all'improvviso, per un attimo, deve essersi trovato in una situazione scomoda, a ruoli invertiti. E bofonchia: «Ma io...». Storari lo toglie dall'imbarazzo: «Mi perdoni... la mia domanda è retorica ovviamente».

Ma rilancia: «E allora di che cosa stiamo parlando? Roma non è competente perché ci sono due aggiunti... ma nemmeno Perugia perché c'è De Ficchy. Perché se vogliamo proprio fare i precisini sulla competenza li facciamo... neanche Perugia è competente e sa qual è il grande stratagemma trovato per mandarla a Perugia? Grande, fantasioso... si separa De Ficchy, si manda a Firenze... e tutto il resto si manda a Perugia».

Con questo principio avrebbero dovuto spacchettare e inviare fascicoli per mezza Italia con le posizioni di tutte le toghe citate da Amara. «A fine agosto», ricorda Storari, «si decide: va a Perugia, punto. Con quel mastruzzo di De Ficchy [...] da settembre altri quattro mesi questo fascicolo rimane fermo». A gennaio 2021 cominciano le riunioni a Perugia. Ma Storari le vede così: «Scusate... che qui si sta vendendo fumo... sì, facciamo le riunioni... vediamo gente... questo ha iniziato a parlare a dicembre 2019... e siamo di fronte a un fascicolo in grado di far cadere il Paese. Lì dentro ci sono i massimi vertici delle forze dell'ordine, componenti del Csm... prelati... questa roba è stata gestita una merda...».

Storari non le risparmia anche alla Pedio, per un documento inviato al Tribunale di Sorveglianza di Roma: «E poi quella scrive... «ha fornito ampia collaborazione (riferendosi ad Amara, ndr)»... e poi non fa un cazzo... è questo che mi dà fastidio». A Brescia però a un certo punto devono avere avuto l'impressione che qualche indagine, invece, era stata compiuta. 

Ma Storari precisa: «Ho l'impressione, ma posso sbagliarmi, che vi hanno venduto delle attività di un altro procedimento (indicando intercettazioni che riguardavano personaggi citati da Amara, ma provenienti da un altro fascicolo, ndr). Voi dovreste essere in grado di vedere se quello che loro dicono di aver fatto si riferisce o meno a Ungheria, perché se non si riferisce a quello è l'ennesima truffa che vi stan facendo».

Amara, pentito a orologeria: «Credibile solo se faceva comodo nel processo contro Eni». Nelle dichiarazioni di Storari al gup di Brescia il caso delle accuse dell'ex legale di Eni al giudice Tremolada: «Mi dissero: è troppo aderente alle difese». Simona Musco su Il Dubbio il 15 febbraio 2022.

Piero Amara, ex legale esterno di Eni, è un pentito che si usa solo quando fa comodo. Quando, ovvero, potrebbe tornare utile nel processo più grosso degli ultimi anni, quello contro il colosso energetico. E che si tiene fermo, invece, quando c’è da verificare fatti gravissimi, così come quelli da lui descritti svelando l’esistenza della presunta Loggia Ungheria.

Si potrebbe riassumere così quanto sostenuto dal pm milanese Paolo Storari davanti al gup di Brescia, dov’è a processo per rivelazione di segreto d’ufficio assieme all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Parole, le sue, che danno conto del «muro di gomma» in cui si sarebbe imbattuto allorquando avrebbe tentato di approfondire le dichiarazioni di Amara, senza successo.

«Quando le cose fanno comodo in Eni-Nigeria, buttiamola al processo (…), quando si deve indagare su Ungheria che potrebbe portare al calunnione gravissimo, no», spiega lo scorso 3 febbraio alla giudice Federica Brugnara, davanti alla quale descrive in lungo e in largo la frustrazione provata nell’ultimo anno e mezzo. Uno stato d’animo causato dal presunto ostruzionismo dei vertici dell’ufficio, su tutti l’ex procuratore Francesco Greco (la cui posizione è stata archiviata) e l’aggiunta Laura Pedio (indagata per omissione di atti d’ufficio), coassegnataria del fascicolo sul “Falso complotto Eni”, indagine parallela a quella principale sulla presunta corruzione nigeriana, nel quale sono maturate le dichiarazioni di Amara. E proprio il «ritardo» nelle iscrizioni dei primi indagati, più volte richieste da Storari, ha spinto il pm a rivolgersi a Davigo, al quale consegnò i documenti contenenti le dichiarazioni di Amara innescando, involontariamente, l’iter che portò alla fuga di notizie.

Il caso Tremolada

Storari, davanti alla giudice, sottolinea di essersi sentito «solo», «rimbalzato» da un punto all’altro. E per far comprendere il suo punto di vista sulla gestione di Amara fa l’esempio più lampante, ovvero quello relativo alle dichiarazioni su Marco Tremolada, presidente del collegio nel processo Eni-Nigeria, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. Su di lui Amara riferì di aver saputo che le difese del processo erano state in grado di «avvicinarlo».

Così i vertici della procura, a fine gennaio 2020, decidono di spedire le dichiarazioni di Amara – contenute in «due o tre righe» – a Brescia (che poi archivierà senza iscrivere nessuno), competente per i reati commessi dai o a danno dei magistrati milanesi. Di ciò Storari viene tenuto all’oscuro, tant’è che protesta con Greco e Pedio per iscritto. Ma l’episodio, afferma il pm., certifica una cosa: Amara viene preso sul serio dai vertici della procura. Tant’è che Fabio De Pasquale, il procuratore aggiunto che ha rappresentato l’accusa nel caso Eni-Nigeria, propone ai colleghi di usare quelle sue dichiarazioni al processo, soluzione che ancora una volta non trova d’accordo Storari. Che attacca: «Ma scusate, voi praticamente davanti al mondo infangate il magistrato, il presidente del Tribunale (…) e loro mi rispondono: “Tu, Paolo, sei un corporativo, noi vogliamo farlo perché crediamo che Tremolada sia un soggetto che è troppo aderente alle difese”, io rispondo: “Guarda, dovete passare sul mio corpo (…) faccio casini perché queste cose non si fanno”. Ho detto: “Volete farle voi? Sapete cosa c’è? Vi chiamate voi Amara nel vostro verbale (…) ma non usate il verbale che ho fatto io per mascariare un collega su nulla”».

La cosa si chiude rassicurando Storari che quel verbale non verrà utilizzato. Durante il processo, però, De Pasquale chiede di poter sentire Amara come teste, per riferire anche sulle presunte interferenze nei confronti dei giudici del processo. Una cosa «estremamente scorretta nei miei confronti», sostiene il pm, secondo cui «l’obiettivo» sarebbe stato ottenere l’astensione del giudice. La cosa non va in porto, perché la testimonianza di Amara non viene ammessa. Ma la richiesta, secondo Storari, vuol dire ancora una volta consegnare all’ex avvocato esterno di Eni una patente di credibilità, la seconda.

La terza arriva direttamente da Pedio, che fornisce alla difesa dell’ex legale un certificato di fattiva collaborazione per sostenere la domanda di affidamento ai servizi sociali. «L’atteggiamento collaborativo ad oggi tenuto dall’indagato e la rilevanza del contenuto delle sue ampie dichiarazioni – si legge nel documento – consentono fondatamente di ritenere che egli abbia rescisso i legami con l’ambiente criminale nel quale sono maturate le condotte illecite per le quali è indagato e che egli si sia effettivamente ravveduto rispetto a scelte devianti». Amara, dunque, non è un pazzo, sembra dire tutta la procura. Ciononostante, le iscrizioni tardano ad arrivare. E Storari si rivolge a Davigo, presidente della Commissione deputata all’interpretazione dei regolamenti del Csm e, dunque, la persona dal suo punto di vista più qualificata, evidenziando il problema dell’omessa iscrizione, date le sue conseguenze disciplinari, dalle quali vuole smarcarsi.

Anche perché, spiega il magistrato, «a un certo punto mi sono accorto (…) di essere stato preso in giro più volte» dal «procuratore della Repubblica e due procuratori aggiunti, con cui lavoravo». A oltre cinque mesi dalle prime dichiarazioni di Amara sulla Loggia e sei interrogatori, infatti, non c’è traccia di atti investigativi o indagati, «neanche coloro che si autoaccusavano di queste cose». E sebbene sia vero che spesso si attende anche di più per un’iscrizione, «qui si coinvolgevano le istituzioni».

Le indagini

Ma nello scambio di mail tra Storari, Greco e Pedio emerge un fatto, evidenziato dal giudice che ha archiviato la posizione dell’ex procuratore: è proprio quest’ultimo, e non Storari, a proporre l’iscrizione di Amara, Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro. La loro iscrizione, spiega però Storari, era scontata. Serviva, invece, recuperare i tabulati degli altri soggetti coinvolti, per certificare i loro rapporti, cosa mai avvenuta. «L’iscrizione di Amara, Calafiore e Ferraro era ovvia, di questi tre io non volevo fare i tabulati perché sapevo che erano estremamente prudenti con i cellulari – spiega -, usavano sistemi criptati, era assolutamente inutile fare i tabulati di questi qua».

Mentre Storari sostiene che nulla sia stato fatto per verificare le parole di Amara, Greco e Pedio elencano una serie di attività che rientrerebbero nell’indagine sulla presunta Loggia. Ma il pm smentisce tutto, indicando data per data come starebbero i fatti. Il fascicolo, rimasto a Milano dal dicembre 2019 al gennaio 2021, non contiene alcuna delega alla Polizia giudiziaria, se non quelle fatte da Storari per identificare i soggetti.

Insomma, il fascicolo sarebbe rimasto a «galleggiare» per un anno, nonostante la fuga di notizie del 17 febbraio. E ciò che viene definito atto di indagine sarebbe ben altro: gli incontri con i colleghi di Perugia, dove peraltro «non si è parlato di Ungheria», le intercettazioni e le perquisizioni compiute nell’inchiesta sul “Falso complotto”, i cui decreti erano finalizzati «a totalmente altro», la trasmissione dei verbali a Greco, la rilettura degli stessi da parte di Amara, nonché la loro trascrizione. E senza voler accusare nessuno, conclude Storari, «ho avuto l’impressione (…) che si è voluto gabellare per atti istruttori Ungheria robe che non c’entrano niente».

Le prove di Eni-Nigeria

Storari racconta anche del tentativo di avvisare i pm del processo Eni-Nigeria delle presunte falsità raccontate da Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore della società petrolifera. «Cerco di riscontrare le dichiarazioni di Amara e Armanna nel mio procedimento e vengo a scoprire grazie alle attività investigative che ho fatto io che sia Amara che Armanna sono due calunniatori», spiega Amara, che invia una mail a De Pasquale (ora indagato assieme al collega Sergio Spadaro) per avvisarlo, chiedendo di convocare una riunione. Ma «non vengo neanche considerato».

Storari invia ulteriori elementi, dal presunto pagamento di un teste alle chat false, elementi da sottoporre dalla difesa, ma non avviene nulla. «Ma lei consideri come si trova a vivere una persona, cerchi di fare il tuo lavoro, tu cerchi di fare il tuo lavoro perché portare elementi al collega, ma non lo faccio per distruggerlo il processo, ma che sono elementi obiettivi», conclude. Anche perché poi il tutto viene «confermato a un anno di distanza».

Da Mani Pulite all’inchiesta di Brescia, Davigo: «Non cambio idea: ho fiducia nella giustizia italiana».  

L'ex pm di "Tangentopoli" parla del suo presente: «Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia». Il Dubbio il 15 febbraio 2022.

Mani Pulite iniziò il 17 febbraio del 1992. Trent’anni dopo si tirano le somme. Quale è la lezione di Tangentopoli? «Nel tempo ho compreso che le difficoltà che i miei colleghi e io abbiamo incontrato sono state enormi per una ragione semplice: non si può processare un sistema prima che sia caduto». A rispondere all’Adnkronos è Piercamillo Davigo, all’epoca uno dei pm dell’inchiesta del pool guidato da Francesco Saverio Borrelli che nel 1992 sconvolse l’Italia, il suo sistema politico ed economico.

«All’inizio delle indagini sembrava che i guasti fossero limitati ai partiti politici, neppure tutti, e alle imprese che avevano rapporti esclusivi o prevalenti con la pubblica amministrazione. In seguito tuttavia ci siamo resi conto che il malaffare era dilagato ben oltre questi limiti: le falsità contabili erano diffuse. Oggi l’evasione fiscale riguarda, secondo alcune stime, 12 milioni di persone, cioè un quinto della popolazione italiana».

«Il merito cede il passo a clientele, raccomandazioni e servilismo, sia nel settore pubblico, sia in quello privato. Nella cittadinanza non sembra esservi riprovazione e neppure la consapevolezza che tali comportamenti, oltre a essere illegali, sono dannosi».

Lei sta dicendo che non c’è più etica? «Nessun popolo, cioè l’insieme dei cittadini, può vivere se non vi è un’etica condivisa e in Italia non sembra più esserci. Fra i valori predicati e i comportamenti praticati vi è una differenza abissale».  «E anche nel caso in cui si conviene su alcuni principi, come per esempio “non rubare”, scattano poi i distinguo nella sfera pubblica e interviene lo spirito di fazione, così radicato in nel nostro Paese. Si ricorre a un cavilloso richiamo a norme costituzionali anche quando si va in campi diversi da quelli regolamentati dalla Costituzione».

A cosa si riferisce? «Quando a carico di qualcuno emergono indizi di reato, è frequente che costui (e i suoi sostenitori) invochino la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva di condanna (art. 27 della Costituzione), anche al di fuori del processo penale, quando non si discute di diritti dell’imputato, ma di valutazioni di opportunità o di prudenza nella vita sociale». «I cattivi non vincono sempre – sostiene Davigo – La consolazione, per quanto magra, è che neppure loro sono (per ora) riusciti a vincere. Le leggi per farla franca hanno attirato l’attenzione di organismi internazionali e i loro rilievi sono stati un deterrente a continuare su quella strada».

«Numerose leggi sono cadute sotto le pronunzie della Corte costituzionale che ne ha dichiarato l’illegittimità. I tribunali e le corti italiane hanno adottato interpretazioni volte a salvaguardare il sistema legale. Le elezioni hanno messo in evidenza una minore presa dei poteri locali e nazionali sull’elettorato, molto più volatile che in passato, consentendo anche un’alternanza di schieramenti al governo del Paese che è un’esperienza relativamente nuova in Italia».

Rimangono i poteri criminali e le loro collusioni con la politica e l’economia, i più difficili da affrontare. «La magistratura italiana ha fronteggiato varie emergenze come la criminalità organizzata, il terrorismo, la corruzione pervasiva e il degrado ambientale, senza riuscire a eliminarle del tutto. Ma anche senza farsene travolgere.

Dopo la vicenda Palamara che accade? «Il discredito gettato sull’ordine giudiziario dalle intercettazioni operate nei confronti di Luca Palamara, e ancor più la sua linea difensiva di tentare di accreditare l’idea che i suoi comportamenti fossero condivisi e perpetrati da larga parte della magistratura -cosa non vera- richiederà molto tempo per essere superato». «Il bilancio complessivo rischia di assomigliare a uno stallo, in cui nessuno dei vari soggetti e dei loro valori riesce a prevalere sugli altri, e ciò è fonte di scoramento».

Lei stesso sta attraversando una vicenda giudiziaria complessa, non ancora chiarita: quella collegata alle dichiarazioni di Pietro Amara sull’esistenza della loggia massonica segreta “Ungheria” e alla sua iscrizione nel registro degli indagati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. A che punto è? «Attualmente sono in udienza preliminare che dovrebbe concludersi proprio il 17 febbraio con il rinvio a giudizio o con il proscioglimento. Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia e attendo il corso del procedimento» (di Rossella Guadagnini/Adnkronos)

Roma, l’ex pm di Manipulite Francesco Greco consulente alla legalità del sindaco Gualtieri. Redazione Roma su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2022.

L’ex pm del pool Manipulite ed ex capo della Procura di Milano (fino al novembre 2021) Francesco Greco sarà il consulente alla legalità del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. La decisione verrà formalizzata in una conferenza stampa annunciata dal primo cittadino della capitale per le 14 di giovedì 17 febbraio. Greco, 70 anni , napoletano trapiantato da sempre nel capoluogo lombardo, fino a pochi mesi fa alla guida della Procura meneghina, diventò famoso nei primi anni Novanta per le inchieste di Tangentopoli, che sancirono il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Il primo arresto di autorevoli esponenti della politica risale a metà degli anni Ottanta, quando condusse l’inchiesta contro il segretario del Psdi Pietro Longo, accusato di aver intascato una bustarella. Specializzato in reati finanziari, Greco di recente si è battuto affinché i colossi della Rete paghino le tasse. E ora arriva l’impegno romano, fronte molto impegnativo per le infiltrazioni del crimine organizzato dal Sud Italia e per gli illeciti nella pubblica amministrazione.

Prima di Greco in Campidoglio un altro magistrato, Alfonso Sabella, siciliano, noto come «cacciatore di mafiosi» per le sue indagini anti-mafia, aveva lavorato al fianco di un sindaco, in quel caso Ignazio Marino. L’annuncio della collaborazione tra l’ex procuratore di Milano e l’attuale primo cittadino di Roma, che sarà a titolo gratuito, arriva dopo numerosi rumors sulla nomina di un alto magistrato come consulente nella lotta alla legalità. Tra i profili ipotizzati c’erano quello di Piero Grasso, ex capo della Direzione nazionale antimafia, e dell’ex assessore ai Trasporti nella giunta Rutelli, Walter Tocci, immaginato come di supporto alla realizzazione delle infrastrutture su ferro per il Giubileo ed Expo. Indiscrezioni fuorvianti, il vero nome era un altro: quello dell’ex pm in squadra 30 anni fa con Saverio Borrelli, Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo.

Fabio Amendolara per “La Verità” il 16 febbraio 2022.

Le randellate in punto di fatto e di diritto tra gli ex di Mani Pulite sono volate sul ring della Procura di Brescia. Quando Francesco Greco viene convocato dal procuratore di Brescia Francesco Prete come persona indagata (verrà poi prosciolto dal gip) ha ancora la toga sulle spalle. 

È il 27 luglio 2021 e il suo ufficio è appena stato fatto a pezzi dallo scontro innescato dalle dichiarazioni, anche contro di lui, di un suo sostituto, Paolo Storari, che a sua volta è finito in un cortocircuito scatenato dalle propalazioni dell'ex avvocato dell'Eni Piero Amara sull'esistenza della presunta loggia Ungheria. Cinque pubblici ministeri meneghini, per quelle vicende, finiscono sul registro degli indagati della Procura di Brescia.

E l'ex ragazzo dell'ultrasinistra che in quel momento era il penultimo ancora in toga di quel pool di cacciatori di presunti mazzettari degli anni Novanta (in servizio c'è ancora il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo), colpisce duro contro il suo ex collega più anziano che la stampa all'epoca aveva soprannominato il «dottor sottile», perché considerato la mente giuridica del metodo del gruppo guidato da Francesco Saverio Borrelli. 

«Questo signor Davigo (accusato insieme a Storari di rivelazione di segreti d'ufficio per aver fatto circolare i verbali di Amara, ndr) è andato in giro per tutto il Consiglio superiore della magistratura, dal procuratore generale dicendo che io insabbio le indagini, contrariamente a 45 anni di onorata carriera, no?...

È andato in giro... e poi adesso se ne esce fuori che era una procedura di auto tutela? Tu mi devi avvisare... mi devi permettere il contraddittorio prima di sputtanarmi, scusate il termine, davanti a tutta questa gente qui ma stiamo scherzando? E non dimentichiamoci che hanno avuto sette mesi di tempo per costruirsi la loro versione questi ragazzi». 

Greco deve aver preso un colpo quando ha scoperto che Storari si era lamentato con Piercamillo Davigo, in quel momento consigliere del Csm, perché i suoi capi, a suo dire, traccheggiavano con le iscrizioni sul registro degli indagati. Storari, che consegnò a Davigo i verbali di Amara (poi spediti in modo anonimo dalla segretaria ai giornalisti), spiegò di aver parlato con il componente del Csm agendo in «autotutela».

Un ragionamento che Greco sembra proprio non riuscire a ingoiare: «No, ma io vorrei capire una cosa ... il punto è questo... la cosiddetta autotutela, che si fa in un altro modo, sicuramente esclude la consegna di contenuti di verbali». E argomenta la sua visione di quella procedura, senza risparmiare qualche altra stoccata all'ex collega del pool: «Cioè se io mi lamento perché il procuratore non mi ha voluto mettere il visto su una misura cautelare o cose di questo genere, io mi lamento dell'atto ma non è che devo necessariamente produrre la misura cautelare, a meno che non mi venga chiesto.

A maggior ragione nei confronti del Csm che, come voi sapete, non può chiedere, checché ne dica Davigo, atti di un processo se non chiedendo il permesso di poterli avere. Va bene? Allora il punto qual è? Che non è necessario in autotutela consegnare[...]». Greco sembra avere un sospetto. E durante l'interrogatorio mette la classica pulce nell'orecchio ai colleghi bresciani: «Allora, francamente, questa consegna dei verbali, a mio avviso, ha un'altra motivazione. Quale non lo so, ma non è quella che viene propagandata sui giornali».

Subito dopo l'ex procuratore di Milano alza i toni: «Mi hanno tirato in ballo senza che io mi potessi difendere da queste accuse e su questo io non avrò alcuna... sarò molto fermo, perché non e possibile che un magistrato venga messo alla berlina davanti a tutti i Consiglieri del Csm, davanti al presidente della commissione Antimafia, davanti al presidente della Cassazione, davanti al procuratore generale della Cassazione in questo modo, per interessi di parte». 

Il procuratore Prete 20 giorni prima aveva ascoltato l'altra campana, quella di Davigo, convocato pure lui da indagato. E anche in questo verbale sono volate bordate: «Io», afferma Davigo, «Greco lo conosco da una vita... qualcuno mi ha anche detto: "Ma non potevi telefonare a Greco?''. Non mi ricordo chi... ho detto: "Ma scusate... ma è il festival dell'amicizia o stiamo parlando di istituzioni?"... per come lo conosco io Greco non è un delinquente... forse un po' superficiale perché se no non si sarebbe cacciato in questo pasticcio».

Fatto sta che Davigo sembra essersi convinto che le iscrizioni sul registro degli indagati furono formalizzate dopo aver informato il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. «Allora... io sono convinto che il procuratore generale ha fatto quello che io ho auspicato che lui facesse, cioè che lo abbia chiamato... lui ha detto di avere avuto un incontro con Greco... sta di fatto che poi l'iscrizione avviene dopo il colloquio tra il procuratore generale della Cassazione e il procuratore della Repubblica. Che poi abbiano fatto le indagini non credo... cioè qualcosa han fatto che ha dimostrato... da quel che leggo sui giornali».

Ma Greco non è della stessa idea. E rimanda la palla nel campo avversario: «L'hanno distrutta questa indagine. Andate a chiedere a Cantone (Raffaele Cantone, procuratore di Perugia, dove il fascicolo è stato trasmesso per competenza, dopo aver stralciato la posizione dell'ex capo della Procura Luigi De Ficchy, ndr) cosa ne pensa da questo punto di vista. L'hanno distrutta e hanno permesso che circolasse in tutta Italia il contenuto di verbali piuttosto delicati». 

Anche sulla competenza a Perugia le posizioni sono opposte. Ecco cosa ne pensa Davigo: «Io sono tuttora sconcertato dal fatto che si sia potuto tenere ferma quella roba lì per cinque mesi prima di iscrivere e per altri sei mesi dopo l'iscrizione... prima di mandarla alla Procura di Perugia che tra l'altro, per quanto ne capisco io, non è competente perché... siccome era indicato tra gli affiliati anche l'ex procuratore della Repubblica (De Ficchy, ndr)... io non ho mai visto che si può fare per un reato associativo togli quello e tieni gli altri [...]».

D'altra parte, con questo principio, avrebbero dovuto stralciare le posizioni di tutti i magistrati citati da Amara e inviare il fascicolo alle Procure di mezza Italia. La conclusione alla quale giunge Davigo è questa: «Certamente Milano non se lo poteva tenere (il fascicolo, ndr)... sono indicati magistrati di Milano come affiliati... ma non potevano neanche tenerselo senza iscrivere... questo è il punto». Ipse dixit.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 17 febbraio 2022.

Violento atto d'accusa del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo a Perugia contro il collega Stefano Fava. Il magistrato capitolino è parte civile nel processo contro lo stesso Fava e Luca Palamara, accusati di rivelazione di segreto relativamente a un esposto che riguardava un presunto conflitto di interessi del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. 

Ma la segnalazione, quanto meno negli allegati, chiamava in causa anche Ielo per i rapporti di lavoro del fratello Domenico con Eni. Ieri il magistrato, davanti ai giudici umbri, si è concesso un lungo sfogo: «Sono tre anni che ricevo fango in faccia. Io penso che la cifra di un magistrato debba essere la sobrietà. Un magistrato deve difendersi nei tribunali e non sui giornali. Sono anni che covo e sto zitto». 

Poi ha continuato, descrivendo l'ex collega come un fanatico delle manette: «Io mi fidavo di Fava, cercavo di difenderlo anche da sé stesso. Con lui si andava d'accordo fino a quando c'erano da fare richieste di misure cautelari, fino a quando si andava a testa bassa, ma le buone indagini non sono quelle in cui si manda in carcere qualcuno, sono quelle in cui si prendono i cattivi, ma sono anche quelle in cui si tira fuori dai guai chi non ha fatto niente, un innocente».

Quindi il discorso è passato sul faccendiere Piero Amara, suo vecchio «cliente»: «Io dissi che le dichiarazioni di Amara si potevano utilizzare se riscontrate, altrimenti ora mi ritroverei sulla vicenda Mediolanum a dibattimento contro Berlusconi in base ad accuse non riscontrate». Silvio Berlusconi venne prosciolto e Fava non firmò la richiesta di archiviazione.

«Mio fratello non ha mai avuto rapporti di lavoro con Amara» ha sottolineato Ielo. Anche se nessuno ha mai scritto il contrario. I due legali erano semplicemente consulenti della stessa azienda. L'aggiunto romano ha poi spiegato di avere «sempre pensato che i magistrati si possono dividere, possono discutere ma stanno sempre dalla stessa parte [] E invece ho scoperto poi che c'era qualcuno nell'ufficio contro di me».

Ielo ha accusato Fava di avergli «teso una trappola»: «Disattese la richiesta di fare uno stralcio sulla vicenda Eni-Napag sapendo che su quella vicenda mi sarei astenuto. Lui mi disse che c'era una tale interconnessione da non poterlo fare: questa cosa qui puoi dirla a uno che non fa il mestiere non a uno che fa questo lavoro». 

Ielo ha, infine, offerto una sua rilettura della guerra per la nomina del procuratore di Roma del 2019, dandogli una chiave originale: «L'hotel Champagne non è stato un fatto di correnti. Bisognava nominare un procuratore della Repubblica di Perugia che fosse disponibile a fare indagini nei miei confronti, probabilmente perché io non vado a cene, non faccio incontri».

Questo autoritratto cozza un po' con i suoi stretti rapporti di lavoro con la stampa, con i suoi appuntamenti (magari non cene, ma certamente pranzi) con diversi giornalisti. Categoria che non di rado ne canta le gesta. Inoltre è il punto di riferimento di molti inquirenti, anche di altre città, che lo stimano e amano confrontarsi con lui. È considerato dai suoi capi un fuoriclasse nel contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione, anche se sempre più spesso il suo ufficio, nei procedimenti che sfiorano la politica, contesta il traffico di influenze illecite, una ipotesi fumosa, una corruzione che non ce l'ha fatta. 

E non mancano, nelle sue inchieste, gli alti e i bassi come confermano le accuse a Virginia Raggi e Tiziano Renzi. Il problema di Ielo è che a congetturare suoi fantomatici conflitti d'interesse (ipotesi che il Csm cestinato) non era solo Fava, bensì una banda di faccendieri su cui stava indagando.

Come l'avvocato Vincenzo Armanna, ex manager di Eni e grande accusatore della compagnia petrolifera. Un professionista oggi sotto procedimento per diversi episodi di calunnia. In una chat depositata agli atti del procedimento sul finto complotto ai danni dei vertici dell'Eni, Armanna spiega al giornalista di Report Luca Chianca quale sia il segreto della banda per provare a ridurre al minimo i danni delle inchieste giudiziarie. 

La conversazione risale al 29 maggio 2019 quando sulla Verità e sul Fatto quotidiano erano stati pubblicati due articoli su un esposto del pm Stefano Fava al Csm in cui si faceva riferimento anche al presunto conflitto di interessi del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, a causa dei rapporti professionali del fratello Domenico con l'Eni. Ricordiamo che nella Capitale c'era un'inchiesta che riguardava Amara e gli affari illeciti della Napag, società a lui riconducibile, con alcuni manager infedeli della compagnia petrolifera.

Armanna suggerisce al cronista alcune domande, tra cui queste due: «L'Eni che controlla tutti i conflitti di interessi come fa ad affidare un contratto al fratello di Ielo? Amara come ha fatto a prendere tutti quei contratti senza che nessuno se ne accorgesse?». Chianca ribatte: «Però il fratello di Ielo lavora lì da una vita». 

Ma Armanna spiega il meccanismo che con quelle consulenze la banda farebbe scattare: «In ogni caso lo rende "in conflitto di interessi" e anche se non facesse nulla così riescono ad "escluderlo" dalle indagini... non penso a corruzione penso a strategia per escludere i pm più aggressivi». Una tattica per far astenere i magistrati più «pericolosi». 

Quindi fa un commento sibillino su quanto accaduto nell'inchiesta Napag, di cui Ielo era titolare: «E in ogni caso l'indagine su Amara finisce troppo presto, con un patteggiamento (del faccendiere e del suo coindagato Giuseppe Calafiore, ndr) tagliando fuori Napag, 80 milioni». Ovviamente potrebbe trattarsi di millanterie, tipiche del personaggio. L'avvocato Ielo ha sempre negato di avere rapporti con Amara, nonostante fossero entrambi consulenti dell'Eni.

Il professionista è consulente da circa 20 anni (periodo in cui ha cambiato tre diversi studi) dell'Eni, con cui lavora tuttora e da cui è considerato «un ottimo professionista». Da parte sua Amara, due anni dopo, ha descritto una strategia non molto diversa da quella evocata da Armanna, la stessa che utilizzava per sterilizzare i pm quando doveva difendere gli interessi dei propri clienti: «Cercavo di nominare persone (avvocati, ndr) che erano vicine perché erano testimoni di nozze, matrimoni, che a qualche magistrato». Come aveva fatto lui stesso con il suo difensore Salvino Mondello, ex compare di nozze di Ielo. 

Davigo: «Nessuno si è sognato di dirmi che non potevo farlo». L’ex pm di Mani Pulite racconta la sua versione dei fatti sulla consegna dei verbali di Piero Amara sulla Loggia Ungheria. «Se mi avessero chiesto una relazione l’avrei fatta». Simona Musco su Il Dubbio il 16 febbraio 2022.

«Io non credo di aver sbagliato perché nessuno si è sognato di dirmi: “Guarda che non potevi fare quello che dovevi fare”, ma fosse anche che mi fossi sbagliato sono scriminato dall’adempimento di un dovere perché avevo il dovere di denunciare la notizia di reato al Procuratore generale e avevo il dovere di informare il Consiglio superiore della magistratura».

Nessuno, tra i componenti del Comitato di presidenza del Csm, avrebbe invitato Piercamillo Davigo a formalizzare la vicenda relativa ai verbali di Piero Amara, consegnatigli dal pm milanesi Paolo Storari. Verbali nei quali veniva svelata l’esistenza di una presunta Loggia, denominata “Ungheria” e della quale, a dire di Amara, avrebbero fatto parte anche due componenti del Csm attuale, i togati Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti, poi dimessosi a settembre del 2020.

Quei documenti, ad aprile dello stesso anno, erano stati affidati a Davigo da Storari, che lamentava l’inerzia dei vertici della procura (il procuratore Francesco Greco, la cui posizione è stata archiviata, e l’aggiunta Laura Pedio, che è ancora indagata per omissione d’atti d’ufficio) nel procedere con le iscrizioni. E da lì tutto ha iniziato a precipitare, con la pubblicazione dei verbali sui giornali, le indagini che hanno coinvolto diversi magistrati e una nuova crisi interna a Palazzo dei Marescialli. Il tutto mentre sulla credibilità di Amara non è stata fatta ancora chiarezza.

Davigo aspettava dunque «indicazioni», anche perché fare una relazione di servizio, ha spiegato al gup di Brescia, dov’è indagato assieme a Storari per rivelazione di segreto d’ufficio, avrebbe significato far conoscere a tutti la situazione, comprese le persone indicate da Amara nel verbale. «Però se mi dicevano fai una relazione di servizio, come ho fatto tante volte nella vita (…) l’avrei formalizzata». Fu l’ex pm di Mani Pulite a convincere Storari che la consegna di quel materiale era legittima. Tant’è, ha sostenuto l’ex magistrato, che «non mi capacito (…) come Storari sia qui. Storari si è fidato di un componente del Consiglio superiore della magistratura, ma che cosa deve fare un magistrato di fronte a un comportamento che reputa illegale dei suoi superiori se non parlare con l’Organo di autogoverno?». Davigo, «impressionato dalla mancata iscrizione» disse a Storari «che se non fosse avvenuta» bisognava «necessariamente informare dell’accaduto il comitato di presidenza», col quale si propose, «se lui riteneva» di «fare da tramite».

Così il pm consegnò i verbali e Davigo li portò con sé, il 4 maggio 2020, a Palazzo dei Marescialli, nella convinzione di dover agire in maniera urgente. «Amara dice che il precedente Consiglio era… quello di Palamara e Forciniti per intenderci, era sostanzialmente sotto il controllo di questa loggia», ha spiegato. E a fronte delle «circa mille nomine» fatte dallo stesso «poteva sorgere la necessità (…) di eventuale annullamento in via di autotutela di qualcuna». Il tempo a disposizione era però poco: «La legge impone un termine di un anno e mezzo, che stava per giungere alla fine».

La prima persona con la quale Davigo parlò della situazione fu David Ermini, vicepresidente del Consiglio, che poi «chiamò il Presidente della Repubblica». Ma la consegna dei verbali sarebbe avvenuta solo in un secondo momento e non subito, come sostenuto da Ermini, in quanto «continuava a chiedermi i nomi». Ermini dichiarò di averli buttati nel cestino, senza leggerli. Una cosa «stravagante», in quanto sarebbe stato più appropriato usare il «tritacarta». E secondo Davigo, nel «momento in cui Ermini distrugge la prova del mio reato lo dovete incriminare per favoreggiamento. Non mi consta che sia avvenuto, l’hanno sentito a sommarie informazioni testimoniali. Sarebbe un illecito disciplinare, ma comunque…». Dopo qualche giorno Davigo ne parlò anche con il pg della Cassazione Giovanni Salvi.

«Io mi sono illuso (…) che informando il procuratore generale», che è anche «titolare dell’azione disciplinare insieme al ministro della Giustizia, la situazione si sarebbe sbloccata, cioè le iscrizioni sarebbe finalmente avvenute, cosa che è puntualmente avvenuta, anche se negano di aver parlato di questo e hanno perso i telefoni (Salvi e Greco, ndr) ».

Davigo è convinto dunque di aver agito secondo la legge, dal momento che «il Consiglio è organo di garanzia dell’ordine giudiziario e siccome per poter garantire il funzionamento dell’ordine giudiziario ha bisogno di conoscere, a esso Consiglio e ai suoi singoli componenti non è opponibile il segretario d’ufficio». Ma perché, dunque, dirlo anche al senatore Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare Antimafia? Nessuna notizia di dettaglio, ha specificato Davigo, secondo cui le dichiarazioni di Morra sarebbero in gran parte «frutto di fantasia».

L’ex pm, infatti, informò il senatore quando questi si presentò al Csm chiedendo se fosse possibile una pacificazione con Ardita. «Io gli dissi: “Guarda, senti, abbi pazienza, ci sono delle cose che tu non sai, io non posso in questo momento riprendere i rapporti con Ardita, che tra le altre cose sarebbe tacciato di appartenere a una struttura massonica”». E ciò senza mostrare i verbali, che invece, secondo la versione di Morra, gli sarebbero stati fatti vedere nel sottoscala di Palazzo dei Marescialli. «Se ha visto i verbali dovrebbe dire che cosa c’è scritto sopra», ha affermato, dato che «c’è scritto a caratteri grossi» sia quale fosse la procura sia il nome del dichiarante. «Lui ha detto che non sapeva né qual era la Procura né qual era il dichiarante, come fa ad averli visti?», si è chiesto Davigo.

Giuseppe Salvaggiulo e Monica Serra per “La Stampa” il 20 febbraio 2022.

Lo show di Piercamillo Davigo non ha tradito le attese ma non gli ha impedito il rinvio a giudizio per rivelazione di segreto d'ufficio sui verbali sulla loggia Ungheria, ricevuti dal pm milanese Paolo Storari e veicolati irritualmente nel Csm nella prima metà del 2020 per «screditare il ruolo istituzionale e l'immagine personale e professionale del collega Sebastiano Ardita». 

Vanificando i tentativi della giudice Federica Brugnara di frenarne la facondia («Non capisco la pertinenza, aspetti un attimo, risponda alla mia domanda...»), il 7 febbraio l'imputato Davigo tiene banco per tre ore nel tribunale di Brescia.

In una ricostruzione non priva di lacune e contraddizioni, per difendersi alza il tiro sui vertici del Csm. In primis il vicepresidente David Ermini. «Ho riflettuto a lungo se potevo fidarmi di lui, perché la sua provenienza politica era la stessa di Lotti. Però avevo un buon rapporto. 

Un giorno mi abbracciò perché in tv avevo detto, come per il presidente Usa, che lui era anche il mio vicepresidente, anche se la sua elezione promanava da Magistratura Indipendente e Unicost, la sentina di Palamara. Riteneva che in qualche modo lo avessi legittimato. E poi aveva preso le distanze da quel gruppo di potere, perché in un'intercettazione Lotti diceva "Ermini è morto", facendogli fare un figurone».

Ermini viene informato dei dirompenti verbali milanesi all'inizio di maggio 2020, di ritorno a Roma dopo il lockdown. «Gli dissi per telefono: ti devo parlare di una cosa urgente e importante. Contrariamente a quanto dice lui, non gli consegnai in prima battuta i verbali. Gli feci una sintesi della vicenda dicendo "ci sono nomi da paura, data la delicatezza è indispensabile informare il presidente della Repubblica”. Cosa che Ermini fece immediatamente. Chiamò il presidente, lo raggiunse e tornò».

I nomi

Ermini, sentito dai pm come testimone, fornisce una ricostruzione diversa e dice di aver cestinato i verbali senza leggerli. «Ma non è vero - obietta Davigo - perché me li ha chiesti lui. I verbali vengono in un secondo momento. Siccome era impressionato dai nomi, continuava a chiedermi "Ma c'è anche quello?" e io non me li ricordavo perché sono tanti. A un certo punto ho detto "Senti David, se vuoi te li do questi file stampati così non mi chiedi più i nomi”.

Poteva rispondermi: "Non li voglio". Invece li ha portati in uno stanzino che aveva dietro il suo ufficio e non ne abbiamo più parlato. Due mesi dopo siamo andati in vacanza insieme all'hotel Terme di Merano, quindi non era poi così turbato evidentemente… Comunque se li ha distrutti, essendo la prova del mio reato, dovete incriminarlo per favoreggiamento. Non mi consta che sia avvenuto. Sarebbe un illecito disciplinare (dei pm di Brescia, ndr), ma comunque».

Il racconto di Davigo prosegue. «Non voglio dire cosa mi disse Ermini di ritorno dal Quirinale perché non è opportuno coinvolgere la presidenza della Repubblica in questa vicenda già brutta di suo. Ma se mi viene fatta la domanda diretta, rispondo che Ermini mi disse che il presidente gli aveva detto di ringraziarmi per le notizie fornite e che per il momento quelle notizie gli erano sufficienti, che mi avrebbe fatto sapere se fosse servito altro. 

Del resto mi sembra francamente inverosimile quanto dice Ermini, cioè che il presidente della Repubblica rimane lì come una statua. Se uno gli dice una cosa così, insomma…».

Il pm chiede di «altre interlocuzioni con la presidenza della Repubblica». Risposta: «Sì, ma non sono direttamente attinenti, tranne per una cosa di cui preferisco non parlare perché non voglio coinvolgere persone estranee. Da parte del presidente non ci sono state altre richieste di informazioni; dalla presidenza come istituzione non richieste di chiarimenti, ma notizie che mi sono state date in via informale da persona che non intendo nominare e che comunque è inutile dire perché non hanno rilevanza in questa vicenda».

Davigo riferisce poi dell'interlocuzione con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, due giorni dopo quella con Ermini. «Gli dissi "Guarda, c'è una situazione assolutamente fuori controllo alla Procura di Milano, vedi di fare qualcosa". Ebbi la sensazione che avesse già un'idea, perché non manifestò sorpresa. Mi diede una risposta che mi gelò: "Ma, sai, lì c'è anche gente perbene". Pensai di fare una relazione di servizio, poi non la feci».

La decadenza A ottobre 2020, Ermini e Salvi furono decisivi nel voto per la decadenza di Davigo dal Csm. «Fino a dieci giorni prima del mio compleanno si dava per pacifico che io sarei rimasto, tanto che durante una cena Ermini disse a tutti: "Oggi Piercamillo ha fatto il suo capolavoro: ha collocato a riposo il segretario generale e lui rimane”.

Dopo il voto, Ermini era molto dispiaciuto. Se mi fosse stato ipotizzato che c'era un problema, mi sarei dimesso. Già non ci volevo andare al Csm, mi veniva il mal di stomaco alle 11 di mattina per le cose che vedevo».

In realtà poi Davigo ha fatto (e perso) due ricorsi contro la destituzione. «Ho cambiato idea sulla loro buona fede», spiega al giudice. Il pirotecnico interrogatorio è condito di aneddoti e frecciate velenose. 

Su Cosimo Ferri, «che ho visto crescere perché il padre, il ministro dei 110 all'ora, era mio amico e dormì su una brandina a casa mia, prima di interrompere i rapporti perché mi invitò a una cena con il piduista Elia Valori».

Sull'avvocato generale di Milano Nunzia Gatto, «incapace di ragionamenti complessi». Sulla Procura di Milano «dove ormai accadono cose fuori dal mondo». Su un altro giudice di Brescia, che ha archiviato «perché ha fatto confusione» la posizione dell'ex procuratore di Milano Francesco Greco. 

È solo l'antipasto del processo che comincerà il 20 aprile dopo la sentenza sul coimputato Storari, per cui la Procura ha chiesto una condanna a sei mesi di reclusione. 

(ANSA il 17 febbraio 2022) - Piercamillo Davigo, l'ex consigliere del Csm accusato di rivelazione del segreto d'ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta 'Loggia Ungheria', è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia Federica Brugnara. La decisione arriva nel giorno in cui cade il trentennale dell'inizio dell'inchiesta Mani Pulite di cui Davigo è stato uno dei pm in prima linea.

(ANSA il 17 febbraio 2022) - Il pm di Milano Paolo Storari nel consegnare i verbali di Piero Amara all'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo con lo scopo di essere tutelato lamentando l'inerzia dei vertici del suo ufficio, ha tenuto una "condotta legittima".

Lo ha spiegato l'avvocato Paolo Della Sala, legale di Storari, riassumendo a grandi linee la sua arringa difensiva con cui ha chiesto al gup di Brescia Federica Brugnara di assolvere il pubblico ministero imputato per rivelazione del segreto d'ufficio nel processo in abbreviato. 

Il difensore ha aggiunto che Storari ha agito dopo aver ricevuto da "importanti esponenti del Consiglio Superiore della Magistratura " la conferma della correttezza del suo gesto, per altro "compatibile" con il compendio normativo, ossia con le circolari dello stesso Csm. Gesto che "poi ha trovato il suo avallo nei comportamenti di altre persone" che siedono a Palazzo dei Marescialli e delle quali "nessuna ha sollevato obiezioni formali" al modo in cui è stata chiesta tutela.

(AGI il 17 febbraio 2022) -L'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, che e` stato rinviato a giudizio per rivelazione di segreto di ufficio per il caso della diffusione dei verbali secretati sulla presunta esistenza della `loggia Ungheria`, comparira` il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Brescia per l`inizio del processo con rito ordinario

(ANSA il 17 febbraio 2022) - I pm di Bresca Donato Greco e Francesco Milanese hanno chiesto una condanna a sei mesi, il minimo della pena prevista nei confronti del loro collega milanese Paolo Storari, accusato di rivelazione del segreto d`ufficio in concorso con l`ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria.  La richiesta è stata fatta al gup bresciano Federica Brugnara nel corso del processo in abbreviato. 

Luca Fazzo per “il Giornale” il 17 febbraio 2022.

Se nei giorni a ridosso del trentennale di Tangentopoli tra i tanti amarcord è mancato quello di Piercamillo Davigo c'è anche un motivo semplice: l'anniversario dell'arresto di Mario Chiesa potrebbe coincidere con il rinvio a giudizio di colui che fu il Dottor Sottile del pool milanese, protagonista delle indagini scaturite dall'arresto del presidente della «Baggina». 

Per oggi è infatti fissata a Brescia la conclusione dell'udienza preliminare che dovrà decidere la sorte di Davigo, nei cui confronti la Procura locale ha avanzato la richiesta di rinvio a giudizio per rivelazione di segreto d'ufficio. Per il grande accusatore divenuto accusato potrebbe essere dunque un «compleanno» piuttosto amaro.

Insieme a quella di Davigo il gip dovrà decidere la sorte di Paolo Storari, il pm milanese imputato insieme all'illustre collega per la diffusione, quando erano ancora coperti dal segreto istruttorio, dei verbali in cui l'avvocato Piero Amara parlava della presunta «loggia Ungheria». Storari ha ammesso di avere passato i verbali a Davigo e ha scelto di limitare i danni, anche mediatici, optando per il giudizio abbreviato (a porte chiuse e con sconto di pena).

E a ridosso dell'anniversario, ieri compare in un'aula di tribunale il procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo, che del pool di Mani Pulite fu uno dei componenti più giovani. Ielo viene interrogato a Perugia nel processo contro l'ex pm Stefano Fava e contro Luca Palamara. Anche Fava, come Storari, sostiene di essere stato ostacolato nelle sue indagini sulle rivelazioni di Amara. 

In aula, lo sfogo di Ielo è amaro: «Sono tre anni che prendo fango in faccia, ma un magistrato deve difendersi nei tribunali e non sui giornali. Sono anni che covo e sto zitto». Parlando di Fava, Ielo ha detto: «Io mi fidavo e mi fido dei colleghi. Io mi fidavo di Fava, cercavo di proteggerlo anche da se stesso».

Con Fava «si andava d'accordo fino a quando c'erano richieste di misure cautelari, fino a quando si andava a testa bassa (...) io dissi che le dichiarazioni di Amara si potevano utilizzare solo se riscontrate». «Fava arrivò a scrivermi una mail mentre ero in montagna in cui mi diceva che si doveva denunciare il procuratore Pignatone a Perugia e alla procura generale. Se fossi stato su una seggiovia avrei rischiato di cadere».

Piercamillo Davigo a processo, il terrore della gattabuia: "Tanto ho 70 anni...", quella frase dopo il rinvio a giudizio. Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022

La prima udienza è fissata il 20 aprile a Brescia. Sarà il momento in cui si entrerà nel vivo del dibattimento nei confronti di Piercamillo Davigio, l'ex simbolo di Mani Pulite rinviato a giudizio ieri per «rivelazione del segreto d'ufficio» per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta "Loggia Ungheria". Lo ha deciso ieri il gup Federica Brugnara: ora saranno i giudici a stabilire se Davigo abbia davvero rassicurato il pm milanese Paolo Storari, che chiedeva di essere tutelato rispetto alla inerzia dei suoi capi. 

Gli atti vennero consegnati dal pubblico ministero a Davigo nell'aprile 2020 e poi - così sostiene l'accusa dei pm Donato Greco e Francesco Milanese - «violando i doveri» legati alle sue funzioni e «abusando delle sue qualità» Davigo li avrebbe diffusi ad altri componenti di Palazzo dei Marescialli in modo «informale e senza alcuna ragione ufficiale». Sebastiano Ardita, allora consigliere del Csm, si ritiene danneggiato da quella diffusione e si è costituito parte civile nel procedimento: ora è pronto a chiedere i dani. «Davigo si difenderà in dibattimento essendo certo della propria innocenza» dice l'avvocato di Davigo, Francesco Borasi. 

Per Storari invece, il coimputato che ha scelto il processo con rito abbreviato, è stata chiesta una condanna a 6 mesi, il minimo della pena prevista dal codice. In questo caso la sentenza è prevista per il 7 marzo, con la difesa di Storari che - attraverso l'avvocato paolo Della Sala- ha ribadito la legittimità della condotta compatibile «con il compendio normativo» e «avallata nei comportamenti di altre persone del Consiglio superiore della magistratura». 

Nessuno avrebbe «sollevato obiezioni formali» e nessuno ha invitato a formalizzare la pratica Storari. In attesa del processo, ieri Davigo ha parlato di Tangentopoli a una tavola rotonda a Pisa: «Emerse non perché arrivarono i magistrati ma perché quel sistema politico fondato sulla corruzione non resse dal punto di vista economico» ha detto. «Nel nostro ordinamento non esiste un efficace deterrente alla corruzione. Io stesso sono sotto processo, ma a parte che sono innocente, non ho alcuna preoccupazione, perché ho compiuto 70 anni e quindi resterei a casa».

Caro Davigo, nelle nostre carceri ci sono quasi mille ultrasettantenni. La detenzione domiciliare non è automatica e sono tanti gli anziani reclusi per reati minori. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 febbraio 2022.

«Avendo compiuto 70 anni, non posso neanche andare in carcere e starei comunque a casa mia», ironizza l’ex magistrato Piercamillo Davigo a proposito di una sua eventuale condanna. Augurandoci la sua completa assoluzione, in realtà dipende dai giudici. Non c’è alcun automatismo. Infatti esistono quasi 1000 detenuti (993 nel 2021, secondo dati Dap) che sono reclusi nelle patrie galere nonostante siano ultrasettantenni. Molti di loro, non hanno commesso gravissimi reati.

L’ipotesi di detenzione domiciliare non vale per tutti

Il riferimento di Davigo, è l’articolo 47 ter dell’ordinamento penitenziario, la parte in cui prevede che la pena – se il reato non rientra tra alcune eccezioni – “può” essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando il condannato abbia compiuto i settant’anni d’età. Ma si tratta di una possibilità e non sempre i giudici la concedono. E infatti non mancano casi di persone che varcano la soglia del carcere, nonostante non si siano macchiati di reati feroci. L’ ipotesi di detenzione domiciliare per gli anziani ha una finalità umanitaria dettata dalla circostanza che il superamento di una certa soglia di età comporta delle difficoltà maggiori per chi si trova in carcere. Però non vale per tutti.

Nel 2019 Mattarella concesse la grazia a 3 ultraottantenni

Ci sono gli anziani senza fissa dimora e senza alcuna struttura pronto ad accoglierli, ci sono coloro che i giudici li considerano recidivi, oppure pericolosi socialmente. Ci sono anche casi particolari, come i tre detenuti anziani che nel 2019 hanno ricevuto la grazia dal presidente Mattarella. Pensiamo all’88enne Graziano Vergelli, che era stato condannato a 7 anni e 8 mesi per aver ucciso la moglie malata di Alzheimer. La strangolò con una sciarpa e rimase accanto al cadavere circa un’ora, poi andò a costituirsi dalla polizia dicendo agli agenti “Non ce la faccio più” e spiegando di non reggere a un repentino aggravamento della malattia della moglie. Storia analoga quella di Vitangelo Bini, 89 anni, che doveva scontare una condanna a 6 anni e 6 mesi per l’omicidio della moglie, che era malata di Alzheimer: l’uomo la uccise per non vederla più soffrire. Persone quasi novantenni che sono stati reclusi in carcere. Ma poi c’è il caso come quello della sarda Stefanina Malu, 83 anni, morta dopo una carcerazione per aver custodito droga per conto di qualche banda.

Nel 2020, secondo la garante Gabriella Stramaccioni, c’erano almeno 60  ultrasettantenni

Parliamo di anziani che decidono si superare le ristrettezze economiche attraverso la detenzione di stupefacenti. E questo perché, per via dell’età, è un reato più accessibile, non richiedendo un’elevata prestanza fisica. In Italia, è sempre più facile che un ultrasettantenne finisca in carcere e spesso il giudice di sorveglianza non conceda la detenzione domiciliare. Solo fra il carcere romano di Rebibbia penale e Nuovo Complesso, almeno secondo quanto denunciato nel 2020 dalla garante Gabriella Stramaccioni, ci sono almeno 60 uomini ultrasettantenni. Si tratta di persone sole che non hanno più legami familiari, molte provenienti dalla strada. Vista l’età e la malattia, potrebbero accedere alle misure alternative, il problema è che non ci sono posti. E il carcere, che rimane l’unica accoglienza possibile, si trasforma inevitabilmente un deposito.

Davigo al massimo potrebbe essere affidato al servizio sociale

Ma com’è detto, diventa un contenitore di tutti gli anziani che usati dalle organizzazioni criminali, quelle che approfittano del loro disagio economico – pensione sociale che non basta nemmeno per la sopravvivenza – per nascondere la droga. Senza parlare dei reati ostativi, che non riguardano solo quelli mafiosi, dove gli anziani non hanno la possibilità di fare richiesta per la misura alternativa. Ovviamente Davigo, in caso di condanna, può dormire sogni tranquilli. Anche perché la pena massima sulla rivelazione di segreto d’ufficio è di due anni. Al massimo potrebbe essere affidato al servizio sociale come è accaduto con Berlusconi. Ma l’età non c’entra. Come abbiamo visto, i detenuti ultrasettantenni – anche bisognosi di badanti per via della fragilità fisica – non mancano.

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 21 Febbraio 2022.  

«No comment. Nel processo di Brescia sarò testimone, lì dirò la verità», risponde David Ermini, a proposito dell'interrogatorio di Davigo, imputato per l'illecita divulgazione degli atti sulla loggia Ungheria. Ma la verità del vicepresidente del Csm emerge dal verbale reso durante le indagini. I fatti risalgono al maggio 2020 quando i loro rapporti erano ottimi, tanto che per due volte Davigo invitò Ermini e consorte per un weekend a Merano («Pagato alla romana»). Si interromperanno a ottobre, dopo il voto di Ermini per la decadenza di Davigo dal Csm.

All'inizio le versioni cristallizzate nei verbali coincidono: «Il 4 maggio 2020 Davigo mi chiese un colloquio riservato tanto che mi invitò ad andare giù in cortile, lasciando i telefoni in stanza perché la questione era molto delicata». Anche altri consiglieri riferiscono di cautele anti intercettazioni di Davigo in quel periodo. In cortile Davigo rivelò l'indagine «che però andava a rilento», suggerendo di informare il presidente della Repubblica. Cosa che Ermini fece la sera stessa. 

«Parlai personalmente al presidente di varie questioni e lo informai anche di questa. Mi ascoltò senza fare commenti». Davigo ed Ermini si rividero qualche giorno dopo. Da qui in poi le versioni divergono. Davigo sostiene che gli consegnò i verbali per soddisfarne la curiosità sui nomi citati. Ermini obietta che «i nomi me li fece lui nel primo colloquio, anche perché altrimenti non avrebbe avuto senso riferire genericamente al Quirinale».

Quanto alla consegna, dice ai pm: «Il giorno dopo o qualche giorno dopo la segretaria mi avvisò che era arrivato Davigo per parlarmi. Lo feci entrare, aveva una cartellina arancione con dentro fogli di carta. Mi disse: "Ti ho portato le carte perché vorrei che leggessi le dichiarazioni di Amara". Io ero in difficoltà e non avevo voglia di leggere carte consegnate in modo irricevibile e inutilizzabile».

Ermini racconta il disagio «per il problema di cosa farne e per l'insistenza di Davigo perché le leggessi. Sfogliava i verbali davanti a me e ripeteva quanto detto in cortile». Nome dopo nome, si arrivò a quello di Sebastiano Ardita, membro del Csm con cui Davigo aveva burrascosamente rotto i rapporti. «Mi ribadì che, secondo le dichiarazioni dell'avvocato Amara, apparteneva a questa loggia a cui si era affiliato già ai tempi di Tinebra (magistrato morto nel 2017, ndr), quando era in Sicilia».

Ermini ricorda che alla sua obiezione («Non ci credo»), Davigo replicò: «Guarda che esistono anche i massoni in sonno». Anche altri consiglieri hanno riferito ai pm che Davigo sembrava attribuire un primo vaglio di credibilità alle rivelazioni sulla loggia Ungheria, a dispetto di obiezioni anche specifiche come quella del procuratore generale Giovanni Salvi, che mette a verbale: «Gli risposi che mi sembrava molto improbabile, ben conoscendo le frizioni che si erano determinate tra Tinebra e Ardita».

Al contrario, Davigo era scettico sull'attendibilità delle dichiarazioni di Amara a proposito dell'allora premier, almeno stando a un dettaglio ricostruito da Ermini successivamente alla sua testimonianza ai pm. «Quando sfogliando i verbali arrivò al nome di Conte, io gli dissi "C'è anche lui?". E Davigo rispose: "No, lui l'hanno messo dentro, ma non c'entra niente". Rimasi perplesso». La tesi della Procura è che Davigo violò il segreto istruttorio con sette consiglieri del Csm, due segretarie e il deputato Morra per isolare Ardita, parte civile nel processo perché danneggiato «dalla massiva e infamante divulgazione».

Verbali Amara, chiesta la condanna a sei mesi per il pm Storari. La procura di Brescia ha invocato una condanna a sei mesi di carcere per il pm di Milano Paolo Storari accusato di aver rivelato notizie coperte dal segreto istruttorio. Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

Condannare a sei mesi il pm di Milano Paolo Storari, imputato per rivelazione del segreto d’ufficio per aver consegnato nell’aprile 2020 dei verbali segreti sulla presunta loggia Ungheria all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. E la richiesta pronunciata dai pm di Brescia Donato Greco e Francesco Milanesi nell’udienza con rito abbreviato che si celebra a porte chiuse.

Per i rappresentanti della pubblica accusa il sostituto procuratore milanese, che con la sua condotta potrebbe aver leso l’immagine della magistratura, non avrebbe rispettato il vincolo di riservatezza e «violando i doveri inerenti alle funzioni rivestite rivelava notizie di ufficio che dovevano rimanere segrete, rivelava il contenuto di atti coperti dal segreto istruttorio», consegnando a Davigo, copia in formato word dei verbali di cinque interrogatori (tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020) resi dall’avvocato Piero Amara, persona sottoposta a indagine, nel procedimento su una presunta loggia segreta di cui avrebbero fatto parte magistrati e varie personalità. Ora la parola passa alla difesa.

Il giudice che condannò il Cav attacca i giudici che processano Davigo.  Il Dubbio il 20 febbraio 2022.  

L'affondo di Esposito: «Morale della favola: Davigo va a giudizio e viene crocifisso; Ermini e Cascini, che non hanno subìto alcuna iniziativa, rimangono rispettivamente, il primo vicepresidente e il secondo componente della sezione disciplinare del Csm»

L’ex giudice della Cassazione Antonio Esposito, uno degli editorialisti del “Fatto Quotidiano” di Marco Travaglio, difende a spada tratta l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, rinviato a giudizio giovedì scorso dal gup di Brescia per il reato di rivelazione del segreto istruttorio nell’ambito dell’inchiesta sulla circolazione abusiva dei verbali dell’ex legale dell’Eni, Piero Amara, che aveva riferito alla procura di Milano, fatti riguardanti la presunta “Loggia Ungheria”.

Esposito, il giudice che condannò anni fa Silvio Berlusconi, se la prende con il tribunale di Brescia che non ha capito come sono andati i fatti. Secondo l’ex membro della Suprema Corte di Cassazione, Davigo andava prosciolto da ogni accusa. Che sia da ritenere innocente, il Dubbio lo ha scritto a chiare lettere, in un corsivo a firma di Rocco Vazzana. Vale per Davigo, vale per tutti. Ma Esposito è andato oltre, puntando il dito contro due esponenti del Consiglio Superiore della Magistratura: il vicepresidente David Ermini e il consigliere togato Giuseppe Cascini.

«Un magistrato galantuomo, a cui l’Italia degli onesti deve molto, Piercamillo Davigo, è stato rinviato a giudizio da un Gup di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione ai verbali resi in istruttoria dal faccendiere Amara – che denunziava l’esistenza di una loggia segreta di cui facevano parte anche magistrati componenti del Csm – consegnati a Davigo dal pm milanese Paolo Storari. Contro di lui si è immediatamente scatenata la gogna mediatica da parte di diffamatori seriali, da anni strenuamente impegnati a difendere corrotti, corruttori, bancarottieri, evasori fiscali, ecc., e si è definito infamante il reato ascritto a Davigo» scrive Esposito sul “Fatto” di Travaglio.

«Ora, quale che sia la valutazione di opportunità o meno, non vi è alcun dubbio che Davigo si sia mosso nella convinzione di agire in “adempimento di un dovere” (art. 51 Codice penale) che gli incombeva dall’essere un componente del Csm che riceveva gravi dichiarazioni da un pm che gli segnalava ritardi, ostacoli o condizionamenti nelle indagini da parte del procuratore capo Greco (successivamente archiviato). La prova provata che Davigo ritenesse di agire in adempimento di un dovere, sta nella circostanza che egli immediatamente portò a conoscenza quanto affermato dallo Storari sia del vicepresidente del Csm, David Ermini, (nonché di altri componenti del Csm, tra cui Giuseppe Cascini, membro della disciplinare), sia del Pg della Cassazione Giovanni Salvi (titolare dell’azione disciplinare) il quale, proprio a seguito dell’iniziativa di Davigo, contattò il procuratore Francesco Greco, sì che furono effettuate le formalità per l’iscrizione nel registro degli indagati» spiega Esposito.

E conclude così: «Morale della favola: Davigo va a giudizio e viene crocifisso; Ermini e Cascini, che non hanno subìto alcuna iniziativa, rimangono rispettivamente, il primo vicepresidente e il secondo componente della sezione disciplinare del Csm. Quando decideranno di andarsene a casa?» riferendosi ad Ermini, che disse di non aver mai letto quei verbali e di aver informato subito il Capo dello Stato, e a Cascini, il quale spiegò ai pm di Brescia, che lo interrogarono, che «poiché Davigo mi aveva chiesto un’opinione sul da farsi, ricordo di avergli detto che, trattandosi di materiale informale, ricevuto per vie non ufficiali, noi non avremmo potuto farci nulla». «Dimentica, il Cascini che, quale componente del Csm, è pur sempre un pubblico ufficiale e le confidenze non trovano ingresso». (a. a.)

Piercamillo Davigo e la nemesi del Movimento 5 Stelle. I gemiti di dolore e la mistificazione della realtà di Marco Travaglio. Andrea Amata su Il Tempo il 19 febbraio 2022.

Nei giorni in cui si celebrano i fasti giudiziari del pool di Mani pulite, a 30 anni dal suo esordio investigativo, il gup di Brescia rinvia a giudizio Piercamillo Davigo contestandogli il reato di rivelazione di segreto di ufficio. L'ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura e protagonista dell'inchiesta Tangentopoli, che decapitò all'inizio degli anni '90 un'intera classe politica, dovrà sottoporsi a processo per aver diffuso dei verbali coperti da segreto istruttorio in merito alle dichiarazioni dell'avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della «loggia Ungheria». A Piercamillo Davigo viene attribuita la paternità di un precetto aberrante - «non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti» - che se fosse applicata al suo autore potrebbe rivelarsi una nemesi giuridica, riparatrice di una colpa culturale per aver diffuso negli anni una veemente cultura giustizialista che ha stroncato carriere politiche, facendo coincidere l'avviso di garanzia con il verdetto di colpevolezza. Il populismo giudiziario è stato incarnato dal Movimento 5 Stelle che ha elevato l'ex pm Davigo a simbolo della scorciatoia giustizialista, invocando mezzi sbrigativi con la carcerazione preventiva e anticipando la condanna con sommari processi mediatici allo scopo di maramaldeggiare sull'indagato in spregio al principio costituzionale della presunzione di innocenza. Questa costituisce un valore di civiltà giuridica che non dovrebbe essere intaccato dal cosiddetto fattore M, cioè dal combinato disposto di magistratura e media che si fondono in un processo di reciproca connivenza, enfatizzando l'incriminazione verso i titolari di cariche pubbliche e minimizzando l'eventuale accertamento dell'estraneità ai reati contestati.

Tuttavia, nel mentre si pregiudicano irreversibilmente le carriere politiche sin dall'introduzione dell'iter di indagine. Dalle fasi embrionali del procedimento giudiziale agisce sull'indagato la pressione del patibolo mediatico che precorre la sentenza di condanna che diventa soverchiante anche se l'impianto accusatorio dovesse essere smantellato dall'avvenuta assoluzione. Ieri, in un editoriale dalla elevata tossicità giustizialista, Marco Travaglio vestiva i panni della prefica, emettendo gemiti di dolore per il rinvio a giudizio del suo paladino Davigo e non risparmiandosi nella perorazione del modello giacobino di cui è il massimo rappresentante. La solita mistificazione della realtà che è figlia di una lettura ideologica degli eventi. Il rinvio a giudizio di Davigo non è una congiura ordita da chi vuole disinnescare le guardie e blandire i ladri come evoca la narrazione travagliesca. Semmai è la sconfitta di una demagogia giustizialista andata avanti per 30 anni, che ha inquinato le istituzioni e il dibattito pubblico, creando l'humus sociale per la nascita di un partito dove l'ignoranza e l'incompetenza sono criteri di accesso nella rappresentanza.

L'eredità del giustizialismo è stata raccolta dal Movimento 5 stelle che ha prosperato su quel sentiment, riconducendo ogni interpretazione politica alla matrice moralistica attraverso processi sommari a mezzo stampa e web, dove i tre gradi di giudizio vengono compressi e riassunti nell'avviso di garanzia equiparato alla colpevolezza. In tale primitiva semplificazione si cerca il sensazionalismo incriminante e non la giustizia, e i cittadini non sono concepiti come potenziale coscienza critica ma come tricoteuse in attesa di vedere la prossima testa rotolare. Ora, si salo scettro moralistico è abbagliante, sì, ma allo stesso modo scotta. Tanto. E chi decide di impossessarsene prima o poi si brucia. La realtà è questa qui. Davigo non è un colpevole che sta cercando di farla franca, al contrario è un innocente fino al terzo grado di giudizio nonostante ciò che pensi lo stesso Davigo e i suoi cantori.

Innocente fino a prova contraria. Anche lui…Su questo giornale mai nessuno ha esultato per l'arresto o il semplice sputtanamento di qualcuno. Nemmeno se a finire nel tritacarne mediatico è chi, come l'ex pm di Mani Pulite, incarna un'idea “manettocentrica” della giustizia, distante anni luce dalla nostra. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 18 febbraio 2022.

Chi stamattina ha sfogliato il Dubbio solo per cercare una nota di compiacimento e soddisfazione per la notizia del rinvio a giudizio di Piercamillo Davigo sarà rimasto deluso. Su questo giornale mai nessuno ha esultato per l’arresto o il semplice sputtanamento di qualcuno. Nemmeno se a finire nel tritacarne mediatico è chi, come l’ex pm di Mani Pulite, incarna un’idea “manettocentrica” della giustizia, distante anni luce dalla nostra.

Per noi Davigo, rinviato a giudizio a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione ai verbali nei quali Piero Amara parlava della Loggia Ungheria, resta innocente fino a prova contraria. E ci auguriamo che sia in grado di chiarire la sua posizione a processo. Saranno altri giudici a stabilire – e solo dopo tre gradi di giudizio se le sue condotte furono legittime o no. Perché non importa sapere a quanti consiglieri del Csm e segretarie Davigo ha mostrato i verbali ricevuti dal pm Paolo Storari, né scoprire se è vero o meno che persino il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, fu reso edotto del contenuto di quei documenti secretati in un sottoscala.

Un Tribunale deve solo stabilire se c’è reato o no. Giudicare l’opportunità “politica” di un comportamento non compete alla giustizia. La moralizzazione di un Paese non può passare dalle mani di un potere dello Stato, la pubblica accusa, autoproclamatosi ontologicamente superiore a tutti gli altri poteri concorrenti sulla base di una presunzione. Non basta gettare fango davanti al ventilatore per chiudere un processo. Servono le prove. Solo quelle è tenuto a cercare un pm. Persino quelle a discolpa dell’imputato.

«Non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca», diceva Davigo fino a poco tempo fa. Speriamo abbia cambiato idea nel frattempo. E speriamo abbia cambiato idea pure sull’ «orda inutile degli avvocati», ora che anche lui avrà bisogno di una difesa in un’aula di Tribunale, non per “ingolfare” la giustizia ma per esercitare un diritto costituzionale.

Deciso il giudice che processerà Davigo: nel 1996 prosciolse Di Pietro. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie. Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Sarà il giudice Roberto Spanò il presidente del collegio che dal prossimo 20 aprile giudicherà Piercamillo Davigo, rinviato a giudizio dal gup di Brescia per rivelazione di atti di ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria e sui verbali dell’avvocato Amara consegnati all’ex componente del Csm dal pm di Milano Paolo Storari, che ha invece scelto il rito abbreviato, e che il sette marzo conoscerà il suo destino dopo che l’accusa ha chiesto per lui la condanna a sei mesi.

Roberto Spanò è lo stesso giudice che nel 1996 da gup prosciolse con una sentenza di non luogo a procedere Antonio Di Pietro, che era accusato a Brescia di abuso di ufficio e concussione. Spanò, motivando la sua decisione, parlò di «anemia probatoria» e «azzardato esercizio dell’azione penale» per smontare la ricostruzione dell’accusa. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie.

A 30 anni esatti da Tangentopoli. Hanno rinviato a giudizio Davigo, il più puro dei puri. Redazione su Il Riformista il 17 Febbraio 2022.

L’ex consigliere del Csm accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, su una presunta “Loggia Ungheria”, è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia Federica Brugnara. A 30 anni esatti dall’inizio dell’inchiesta di Mani pulite è ripresa a Brescia l’udienza preliminare nei confronti di Piercamillo Davigo.

Il direttore Piero Sansonetti ha commentato: “Hanno rinviato a giudizio Davigo. Piercamillo Davigo. Avete presente chi è? Torquemada, quello che doveva mandare a giudizio tutti, quello che diceva che quando si fa un’indagine gli indiziati possono o essere condannati o possono farla franca. Senza prendere neanche in considerazione l’ipotesi che potessero esistere innocenti”.

“Davigo ha frustato i politici, ha frustato gli imprenditori. Ha frustato tutti, anche i suoi colleghi. Si è sempre impancato per dire ‘Io sono la legge’, poi quando stava per andare in pensione voleva cambiare la legge perché voleva restare al Consiglio superiore della magistratura, è finito lui stesso non solo indagato ma rinviato a giudizio per aver rivelato un segreto di ufficio e per aver fatto conoscere e aver dato spazio non si sa bene a chi, in che modo e in che forma i verbali Amara che sono i verbali dell’interrogatorio di questo signore che dice cose pesantissime sulla magistratura“.

“Addirittura ipotizza che esiste una loggia che si chiama Loggia Ungheria, che sarebbe una specie di ‘Spectre’ che comanda la magistratura italiana. L’hanno rinviato a giudizio. Un pochino viene da ridere. E poi ripenso a Pietro Nenni, grande socialista, segretario del Psi per molti anni, partigiano combattente che diceva ‘Attenti puri, perché verrà uno più puro di voi e vi epurerà. Ecco qua, ci è caduto proprio Davigo”.

Caso Amara, Piercamillo Davigo rinviato a giudizio. L'ex pm di Mani Pulite a processo nell'anniversario di Tangentopoli. Il Tempo il 17 febbraio 2022

Guai giudiziari in vista per l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, ex pm simbolo di Mani Pulite. A 30 anni dall'inizio di Mani pulite con l'arresto dell'ex presidente del Pio Albergo Trivulzio, il socialista Mario Chiesa, che diede il via alla stagione di Tangentopoli, Davigo è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia, Francesca Brugnara, per rivelazione di segreto d'ufficio. Il processo a carico dell'ex magistrato del pool milanese prenderà il via il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del tribunale di Brescia. Al centro del procedimento ci sono i verbali secretati nei quali l'avvocato Piero Amara parlava della Loggia Ungheria. Materiale che, nell'aprile 2020, il pm milanese Paolo Storari, che insieme all'aggiunto Laura Pedio aveva raccolto quelle dichiarazioni, aveva consegnato a Davigo. Una iniziativa che Storari aveva preso per "tutelarsi" a suo dire dalla presunta "inerzia" dei vertici della procura milanese nell'avviare indagini sulle rivelazioni di Amara.

"Il dottor Davigo, anche per mio tramite, si difenderà fortemente", ha ribadito l'avvocato Francesco Borasi, difensore di Davigo, al termine dell'udienza. Il legale in aula aveva sottolineato le "contraddizioni" che a suo avviso sono emerse dal capo d'imputazione stilato dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi, precisando come "faccia sorridere l'ipotesi di commettere il reato di rivelazione di segreto d'ufficio" confrontandosi su un'inchiesta con il vicepresidente del Csm David Ermini, al quale Davigo aveva mostrato i verbali di Amara, sollecitando un impulso nelle indagini.

L'avvocato ha anche chiarito che "Davigo ha agito secondo la legge" e ha chiesto il proscioglimento per l'ex magistrato che non era in aula perché impegnato in un convegno per i 30 anni di Tangentopoli a Pisa.

Bisognerà attendere fino al prossimo 7 marzo, invece, per una decisione sulla posizione del pm Storari. Il gup, infatti, ha rinviato il processo a suo carico, celebrato con rito abbreviato, per dare spazio ad eventuali repliche. Poi si ritirerà in camera di consiglio per emettere la sentenza.

Era stato proprio Storari ad interrogare l'avvocato Amara insieme all'aggiunto Laura Pedio nell'ambito dell'inchiesta sul 'falso complotto Eni', mentre a Milano era in corso il processo Eni Nigeria. In quelle audizioni, l'avvocato siciliano aveva parlato della loggia coperta, che avrebbe riunito alti magistrati, avvocati e altri personaggi di spicco e sarebbe stata in grado di condizionare nomine e appalti. Convinto della necessità di aprire immediatamente un fascicolo autonomo su Ungheria, ad aprile 2020, a suo dire per "autotutelarsi" dalla presunta inerzia dei vertici della procura, Storari "fuori da ogni procedura formale" ha consegnato i verbali a Davigo, il quale, come si legge nel capo d'imputazione, "lo ha rassicurato di essere autorizzato a ricevere copia degli atti" in quanto "il segreto investigativo su di essi non era a lui apponibile perché membro del Csm".

Tra i componenti della loggia coperta - che secondo Amara sarebbe stata guidata dall'ex procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, ormai deceduto - ci sarebbe stato anche il consigliere del Csm Sebastiano Ardita.

Rappresentato dall'avvocato Fabio Repici, Ardita si è costituito parte civile. Ritenendo di essere stato "danneggiato" da Davigo, che avrebbe portato i verbali a Roma e li avrebbe mostrati al vicepresidente del Csm David Ermini e ad altri magistrati per "screditarlo" agli occhi dei colleghi. Sempre Davigo aveva esortato Ermini a parlare della vicenda al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Copie dei verbali, infine, erano state recapitate a due quotidiani e al consigliere del Csm Nino Di Matteo. Operazione per la quale l'ex segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto è indagata dalla procura di Roma per calunnia. La donna, per i pm romani, infatti, avrebbe inviato le carte alla stampa e a Di Matteo, accompagnandole con alcuni biglietti nei quali veniva indicato l'ex procuratore di Milano, Francesco Greco, come il responsabile dei ritardi nelle indagini lamentati da Storari.

Caso Amara: Davigo mandato a processo il giorno del Trentennale anniversario di Mani pulite. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Febbraio 2022.  

Fissata per il 20 aprile la prima udienza. L'ex consigliere del Csm è accusato di rivelazione di segreti d'ufficio sulla vicenda della presunta "loggia Ungheria" resi a Milano dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara, che vennero consegnati a Piercamillo Davigo dal pm milanese Paolo Storari il quale lamentava lo scarso tempismo del procuratore Francesco Greco e dell'aggiunto Laura Pedio nell’indagare per accertare in fretta e distinguere tra verità e calunnie di Amara

L’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, 71 anni, magistrato in pensione, è stato mandato a processo dal Gup di Brescia, Federica Brugnara, imputato per rivelazione di segreto di ufficio per la vicenda della diffusione dei verbali coperti da segreto istruttorio resi dall’avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della loggia “Ungheria”. Il rinvio a giudizio nei confronti del magistrato in pensione e noto per essere stato il ‘Dottor Sottile‘ del pool milanese ‘Mani Pulite‘ coincide casualmente con il giorno del trentennale dell’arresto di Mario Chiesa a quell’epoca presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano , da cui scaturì l’inchiesta Tangentopoli. 

La giudice per le udienze preliminari dr.ssa Brugnara ha quindi accolto la tesi accusatoria sostenuta dal procuratore di Brescia Francesco Prete e dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi e cioè che la consegna dal pm Storari all’ex consigliere del Csm Davigo nell’aprile 2020 delle copie in formato di testo (word) dei verbali privi di firma, resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 da Amara, non potesse venire giustificata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né tantomeno dal movente del pm Storari di lamentare i contrasti con i vertici della Procura sui ritardi (a suo avviso) nell’avviare concrete indagini.

Tra le successive varie rivelazioni di segreto a suo carico, Davigo verrà processato  non per quelle al procuratore generale Giovanni Salvi e al primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio, che non gli sono mai state contestate dall’accusa, ma bensì per quella al vicepresidente del Csm David Ermini, il quale compone il Comitato di Presidenza del Csm insieme a Salvi e Curzio .  Ermini ricevette da Davigo anche la copia dei verbali, che si affrettò poi a distruggere ritenendoli irricevibili, pur parlando della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che è anche il presidente del Csm. 

Come rivelazioni di segreto sono state contestate le rivelazioni di Davigo ai consiglieri togati del Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, ed ai laici Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna; alle sue due segretarie al Csm Giulia Befera e Marcella Contraffatto , al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore Nicola Morra (in quel momento esponente del Movimento 5 Stelle), in un colloquio privato, secondo i magistrati della procura di Brescia al di fuori da qualsiasi regola, con l’intento di motivare i contrasti insanabili con il consigliere Csm Sebastiano Ardita che si è costituito assistito dall’avvocato Fabio Repici, quale parte civile nel procedimento contro Piercamillo Davigo, lamentando che la disponibilità dei verbali segreti di Amara sia stata strumentalizzata da Davigo per screditare al Csm la figura dell’ex collega di Csm ed ex compagno di corrente Ardita, con il quale aveva anche scritto il libro “Giustizialisti” ma successivamente si erano scontrati insanabilmente. 

“È evidente che qualunque cittadino ha il diritto che il proprio nome non venga fatto oggetto di divulgazione pubblica di notizie relative a una indagine finché quella indagine non trovi discovery e conclusione – ha spiegato nei giorni scorsi al Corriere della Sera l’avv. Repici difensore di Sebastiano Ardita, – Nel caso di specie, senza le condotte illecite compiute dai due imputati Ardita non avrebbe subìto la massiva infamante divulgazione di quelle informazioni riservate. E il fatto che Amara avesse indicato Ardita quale componente della presunta loggia Ungheria sarebbe diventato di pubblica conoscibilità solo al momento in cui i magistrati avessero attestato l’infondatezza di quelle dichiarazioni e avessero proceduto per calunnia a carico di Amara“.

Davigo comparirà il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Brescia per l’inizio del processo con rito ordinario per aver fatto circolare nella primavera 2020 all’interno ed all’esterno del Consiglio Superiore della Magistratura di cui è stato componente sino all’ottobre 2020, i verbali sulla fantomatica presunta associazione segreta “loggia Ungheria” resi a Milano dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara, che vennero consegnati a Piercamillo Davigo dal pm milanese Paolo Storari il quale lamentava lo scarso tempismo del procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio nell’indagare per accertare in fretta e distinguere tra verità e calunnie di Amara. 

“Ho semplicemente ribadito le contraddizioni del capo di imputazione“, ha spiegato l’avvocato Francesco Borasi, difensore di Davigo, sintetizzando ai cronisti il suo intervento durato un’ora e culminato con la sua richiesta di ‘non luogo a procedere‘ per l’ex consigliere del Csm, sostenendo che  “Davigo ha agito secondo la legge“. 

Il pm milanese Paolo Storari durante l’udienza preliminare bresciana a differenza di Davigo ha scelto di non aspettare l’esito di un dibattimento ordinario e di giocarsi invece subito il tutto per tutto in un rito abbreviato dunque con una sentenza penale di primo grado, conoscerà il verdetto nella prossima udienza, rinviata al prossimo 7 marzo, dopo che ieri il suo legale Paolo Della Sala ha replicato con la sua arringa alla richiesta della Procura di condannarlo al minimo della pena, cioè a 6 mesi. Redazione CdG 1947

Piercamillo Davigo rinviato a giudizio per il caso Loggia Ungheria con l’accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2022.  

Caso Amara, l’inchiesta sui verbali fatti circolare nella primavera 2020 e consegnati a Davigo dal pm milanese Paolo Storari. Il processo inizierà il 20 aprile. Il verdetto su Storari aggiornato al 7 marzo. Il rinvio a giudizio di Davigo nel giorno del trentennale di Mani Pulite 

Piercamillo Davigo, 71 anni

«Cento di questi anni» proprio no, visto che già il giorno del trentesimo convenzionale «compleanno» di Mani pulite (arresto di Mario Chiesa il 17 febbraio 1992) finisce «festeggiato» dall’allora pm Piercamillo Davigo con un testacoda inimmaginabile persino nei più sfrenati sogni dei suoi indagati dell’epoca: rinviato a giudizio proprio lui, mandato a processo dalla giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia Federica Brugnara per l’ipotesi di reato di «rivelazione di segreto d’ufficio». Cioè per aver fatto circolare nella primavera 2020 (dentro e fuori al Consiglio Superiore della Magistratura di cui fu membro sino all’ottobre 2020) i verbali sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria» resi a Milano dall’ex avvocato esterno Eni Piero Amara, e consegnati a Davigo dal pm milanese Paolo Storari che lamentava lo scarso dinamismo del procuratore Francesco Greco e della sua vice Laura Pedio nell’indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara. Storari, che a differenza di Davigo durante l’udienza preliminare bresciana ha scelto di non aspettare l’esito di un dibattimento ordinario e di giocarsi invece subito il tutto per tutto in un rito abbreviato dunque con gia sentenza penale di primo grado, avrà il verdetto nella prossima udienza, dopo che ieri il difensore Paolo Della Sala ha replicato in arringa alla richiesta della Procura di condannarlo seppure al minimo della pena, 6 mesi.

La decisione della giudice

La giudice ha dunque accolto la tesi giuridica —prospettata dal procuratore bresciano Francesco Prete e dai pm Donato Greco e Francesco Milanesi — che la consegna nell’aprile 2020 da Storari a Davigo delle copie word dei verbali resi tra dicembre 2019 e gennaio 2020 da Amara non potesse essere scriminata né dal fatto che fosse stato Davigo a rassicurare Storari sulla liceità della consegna e sulla non opponibilità del segreto investigativo a un consigliere Csm; né dal movente di Storari di lamentare i contrasti con i vertici della Procura sui ritardi (a suo avviso) nell’avviare concrete indagini. Tra le successive rivelazioni di segreto imputategli, Davigo va dunque a giudizio non per quelle al procuratore generale e al presidente della Cassazione, Giovanni Salvi e Pietro Curzio, che non gli sono mai state contestate dall’accusa, ma quella al vicepresidente del Csm David Ermini, che al pari di Salvi e Curzio compone il Comitato di Presidenza del Csm: Ermini ricevette da Davigo anche copia dei verbali, che si affrettò poi a distruggere ritenendoli irricevibili, pur se parlò della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Le rivelazioni di segreto

Sempre come rivelazioni di segreto sono poi contestate a Davigo quelle ai consiglieri Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna; alle sue due segretarie al Csm Marcella Contraffatto e Giulia Befera; e al presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, il senatore (allora nel Movimento 5 Stelle) Nicola Morra, in un colloquio privato, fuori (per i pm) da qualunque regola, e solo per motivare i contrasti insorti con il consigliere Csm Sebastiano Ardita. Il quale si è costituito (con l’avvocato Fabio Repici) parte civile nel procedimento contro Davigo, appunto lamentando che la disponibilità dei verbali segreti di Amara sia stata utilizzata da Davigo per screditare al Csm la figura dell’ex collega di Csm ed ex compagno di corrente, con il quale aveva anche scritto un libro («Giustizialisti») ma era poi entrato in urto.

La linea difensiva

Al processo Davigo riproporrà la propria linea difensiva, già esposta negli interrogatori a Brescia: a suo avviso le circolari Csm sono state rispettate dal suo modo di informare i vertici di quanto stava (non) accadendo alla procura di Milano; e comunque, «se io ho commesso il delitto di rivelazione di segreto d’ufficio, allora loro (cioè i vertici del Csm e della Procura generale di Cassazione, ndr) avrebbero dovuto denunciarmi», visto che «l’omessa denuncia di reato da parte di un pubblico ufficiale è reato», e dunque «dovrebbero essere incriminati per omissione d’atti d’ufficio», ma «a nessuno di loro venne in mente di doverlo fare perché nessuno di loro pensò che il mio fosse un reato». E a proposito della distruzione dei verbali raccontata dal vicepresidente Csm Ermini: «Bravo... complimenti... Ermini evidentemente non è precisamente un cuor di leone: se io avessi commesso un reato, quella era la prova del reato, dovevi trasmetterla all’autorità giudiziaria, se no è favoreggiamento personale».

L’archiviazione di Greco

La decisione odierna arriva dopo l’archiviazione dell’indagine sull’allora procuratore milanese Francesco Greco per l’ipotesi di omissione d’atti d’ufficio nel trattare il fascicolo sulla loggia Ungheria (trasmesso un anno fa per competenza territoriale a Perugia; e prima che sempre la Procura di Brescia decida la sorte del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro, indagati per «rifiuto d’atti d’ufficio» nell’ipotesi abbiano tenuto il Tribunale del processo Eni-Nigeria all’oscuro di elementi potenzialmente favorevoli alle difese (benché segnalati da Storari ai due pm) sulla figura di Vincenzo Armanna. Cioè dell’ex dirigente Eni coimputato ma anche accusatore di Eni valorizzato nel processo Eni-Nigeria da De Pasquale, e nell’inchiesta sui presunti depistaggi giudiziari Eni da Pedio, pure indagata per omissione d’atti d’ufficio nell’ipotesi non abbia indagato tempestivamente su Armanna per calunnia dei vertici Eni.

Caso Loggia Ungheria/Amara, l'ex consigliere Csm Davigo rinviato a giudizio nel giorno dell'anniversario di Mani Pulite.  Luca De Vito su La Repubblica il 17 Febbraio 2022.  

La procura di Brescia: "Condannare pm Storari a 6 mesi". Processi paralleli per l'ex consigliere del Csm e per il pm milanese per la vicenda della rivelazione di segreto d'ufficio per i verbali di Amara 

L'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, imputato per rivelazione di segreto di ufficio, è stato rinviato a giudizio dalla gup di Brescia, Federica Brugnara, per la vicenda della diffusione dei verbali di Amara sulla Loggia Ungheria. Una richiesta, quella nei confronti dell ex pm del pool di Mani Pulite, che arriva casualmente in una giornata simbolica, quella del trentennale dell'arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa, da cui scaturì l'inchiesta Tangentopoli. Davigo comparirà in aula il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Brescia per l'inizio del processo con rito ordinario. 

A metà mattina si è anche celebrata l'udienza del processo in abbreviato per il pm milanese Paolo Storari,  accusato dello stesso reato: fu lui a consegnare nell'aprile del 2020 a Davigo quei verbali di Amara. Un gesto che Storari ha sempre definito di "autotutela" nei confronti di una presunta inerzia nelle indagini da parte dei vertici della procura milanese: i pm hanno chiesto per lui una condanna a sei mesi, il minimo della pena prevista. Per Storari la decisione è rinviata al 7 marzo.

L'avvocato Paolo Della Sala, difensore di Storari, ha spiegato che il pm ha agito dopo aver ricevuto da un "importante esponente del Consiglio Superiore della Magistratura" la conferma della correttezza del suo gesto, per altro "compatibile" con il compendio normativo, ossia con le circolari dello stesso Csm. Gesto che "poi ha trovato il suo avallo nei comportamenti di altre persone" che siedono a Palazzo dei Marescialli e delle quali "nessuna ha sollevato obiezioni formali" al modo in cui è stata chiesta tutela.

Davigo a processo per le rivelazioni sul caso Amara nell'anniversario di Tangentopoli. Luca Fazzo il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Un processo con un solo imputato ma con una sfilza di testimoni tale da trasformarlo in un docu-movie sul reale funzionamento della giustizia italiana.

Un processo con un solo imputato ma con una sfilza di testimoni tale da trasformarlo in un docu-movie sul reale funzionamento della giustizia italiana. L'imputato si chiama Piercamillo Davigo, ex Dottor Sottile della Procura di Milano, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati, ex giudice di Cassazione: che ieri, proprio nel trentesimo anniversario dell'indagine Mani Pulite, viene rinviato a giudizio per rivelazione di segreti d'ufficio. E i testimoni sono quelli che Davigo - deciso a «difendersi fortemente» secondo il suo legale Francesco Borasi - si prepara a citare in aula per dimostrare di non avere commesso alcun reato nel ricevere e divulgare i verbali del «pentito» Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria.

E qui la cosa si fa interessante, perché la linea difensiva di Davigo rischia di chiamare in causa una lunga serie di personaggi eccellenti: dai magistrati di Milano, a partire dal suo collega ed ex amico Francesco Greco, fino ai vertici della Cassazione e del Csm che potrebbero spiegare quanto e come sapessero delle rivelazioni di Amara già prima che il pm milanese Paolo Storari, logorato dai timori di insabbiamento, passasse a Davigo i verbali sulla «loggia Ungheria».

«Non staremo qui a girare la minestrina», è la linea della difesa di Davigo: modo un po' bersaniano per dire che l'ex pm intende combattere fino alla fine, costi quel che costi. Nella impostazione dell'accusa il «Dottor Sottile» è colpevole di un doppio ruolo, di una doppia violazione della legge: prima convince Storari a violare il segreto, garantendogli che la consegna è legittima; poi provvede personalmente a divulgare le carte a Roma, o comunque a renderne noto il contenuto. A queste accuse la tesi difensiva di fondo è che essendo all'epoca ancora membro del Csm, Davigo aveva il diritto di ricevere i verbali dell'inchiesta milanese che tiravano in ballo, come presunti membri della loggia, altri appartenenti al Consiglio superiore. E che il metodo assai informale scelto da Davigo e Storari, il passaggio brevi manu della brutta copia dei verbali, si giustificasse proprio con la delicatezza della situazione.

La sostanza, insomma, doveva prevalere sulla forma. Peccato che questo faccia a pugni con l'applicazione rigorosa e letterale del Codice penale di cui Davigo è stato per decenni protagonista, e che ora rischia di ritorcersi contro di lui. Allo stesso modo in cui la famosa battuta «non esistono innocenti ma colpevoli che l'hanno fatto franca» riecheggia ora che ad essere imputato è il suo autore: che ieri, colto a margine di un convegno dalla notizia del rinvio a giudizio, dice proprio così: «Sono sotto processo ma sono innocente».

Davigo sa di non avere, in questo frangente difficile, molti alleati. I suoi ex compagni di corrente lo hanno abbandonato da tempo, con gli amici del pool non si parla più, persino Gherardo Colombo - che all'epoca di Tangentopoli faceva con lui quasi coppia fissa - ieri, braccato dai cronisti al dibattito sul trentennale di Mani Pulite, non sgancia mezza parola di sostegno. Davigo è solo. Anche il pm Storari, imputato insieme a lui, ha separato il suo destino processuale, chiedendo il rito abbreviato un po' per limitare i danni, un po' per non essere trascinato nell'aula del processo mediatico che Davigo vuole mettere in scena. Già nel corso dell'udienza preliminare aveva chiesto che venissero ammesse in aula le telecamere, il giudice aveva detto di no. Ma il 20 aprile, quando inizierà il processo vero e proprio, sarà ben difficile lasciare i media fuori dall'aula.

Davigo non ha molto da perdere. La sua carriera è finita, il reato che gli viene contestato è punito blandamente, da sei mesi a tre anni. E comunque, come tiene lui stesso a sottolineare ieri, in caso di condanna non andrà in carcere: «non ho alcuna preoccupazione perché ho compiuto 70 anni e quindi resterei a casa». Ma a essere evidente è che Davigo non ha intenzione di incassare senza combattere una condanna che segnerebbe comunque la fine ingloriosa di una carriera grondante successi. E se per combattere dovrà trascinare sotto i riflettori il sistema di cui lui stesso ha fatto parte per quarant'anni, amen.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Ricorrenza amara per il 'Dottor Sottile'. Davigo a processo per loggia Ungheria, rinviato a giudizio nel trentennale di Tangentopoli. Fabio Calcagni su Il Riformista il 17 Febbraio 2022 

Una tempistica che rovina le ‘celebrazioni’ del trentennale di Tangentopoli, o meglio dell’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa, da cui scaturì l’inchiesta che fece crollare la Prima Repubblica. Piercamillo Davigo, l’ex consigliere del Csm ed ex membro del pool di Mani Pulite, è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia per rivelazione di segreto di ufficio in relazione alla diffusione dei verbali coperti da segreto istruttorio resi dall’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla presunta esistenza della loggia Ungheria.

A consegnarglieli i verbali era stato, ad aprile 2020, il pubblico ministero milanese Paolo Storari: nelle dichiarazioni rilasciate a lui e al procuratore aggiunto Laura Pedio, Amara faceva riferimento a una presunta associazione massonica, la loggia Ungheria, in grado di condizionare l’operato della magistratura e di altri burocrati della Stato. Storari, al contrario di Davigo, ha scelto il rito abbreviato: il verdetto ci sarà nella prossima udienza fissata il 7 marzo.

Come ormai noto Storari lamentava lo scorso ‘attivismo’ dell’allora procuratore capo di Milano Francesco Greco e della sua vice Pedio nell’indagare sulle dichiarazioni rese da Amara.

La richiesta di mandare a processo il ‘dottor Sottile’ era arrivata in aula dai pm bresciani ed è stata accolta dal giudice Federica Brugnara. Davigo comparirà il prossimo 20 aprile davanti alla prima sezione penale del Tribunale di Brescia per l’inizio del processo con rito ordinario. Al processo sarà presente come parte civile anche il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, assistito dall’avvocato Fabio Repici.

Davigo oggi non era presente in aula perché impegnato in un convegno a Pisa sui trent’anni di Mani Pulite.

L’ex magistrato “si difenderà fortemente”, ha commentato all’Adnkronos Francesco Borasi, difensore di Davigo. “L’avvocato Borasi aveva chiesto la pubblicità dell’udienza preliminare perché tutto si svolga nella massima chiarezza e trasparenza e quando sarà il caso il dottor Davigo si difenderà in dibattimento, essendo certo della propria innocenza“, ha spiegato l’avvocato Marco Agosti, che in udienza ha sostituito l’avvocato Francesco Borasi, legale dell’ex consigliere del Csm.

“Non poteva quasi che finire in questa maniera“, ha aggiunto il legale precisando che in dibattimento Davigo avrà modo di chiarire meglio la sua posizione. “La cosa che lascia perplessi – ha concluso l’avvocato Borsai – è come Davigo abbia potuto compiere il reato di rivelazione di segreto d’ufficio mostrando i verbali secretati dell’avvocato Piero Amara al vicepresidente del Csm David Ermini“.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 18 febbraio 2022.  

Per una sorta di perfido contrappasso, nel trentesimo anniversario dell'arresto di Mario Chiesa e dell'inizio di Tangentopoli, uno dei campioni del pool di Mani pulite, Piercamillo Davigo, è stato mandato alla sbarra. Le sue ultime parole famose con le quali si era assolto durante il suo interrogatorio da indagato a Brescia, erano state queste: «Ritenevo e ritengo che l'unica cosa indiscutibile [] è che al Csm non è opponibile il segreto investigativo. È stato ripetuto da un'infinita di circolari».

Ieri il giudice dell'udienza preliminare Federica Brugnara, accogliendo la richiesta della Procura guidata da Francesco Prete, l'ha rinviato a giudizio con l'accusa di rivelazione del segreto d'ufficio per aver «volantinato» nella primavera del 2020 i verbali del faccendiere Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. 

Quelle carte sensibili gli furono consegnate da chi indagava, ovvero il pm milanese Paolo Storari, preoccupato di restare col cerino in mano, visto che, a suo dire, il procuratore Francesco Greco e l'aggiunto Laura Pedio traccheggiavano con le iscrizioni sul registro degli indagati. E mentre Davigo dovrà presentarsi in Tribunale il 20 aprile per la prima udienza del suo processo, Storari, che ha optato per il rito abbreviato, tornerà davanti al gup il 7 marzo. 

La Procura ha chiesto di condannarlo a sei mesi di reclusione. Davigo, invece, «si difenderà in dibattimento, essendo certo della propria innocenza», hanno precisato i suoi difensori, gli avvocati Francesco Borasi e Marco Agosti. L'ipotesi della Procura bresciana è che Davigo abbia convinto Storari a consegnargli i verbali per poi diffonderli all'interno del Csm. 

Nelle scorse settimane Piercavillo aveva sostanzialmente fatto una chiamata di correo per chi aveva avuto da lui la notizia delle clamorose dichiarazioni di Amara: «L'omessa denuncia di reato da parte di un pubblico ufficiale è reato... a nessuno di loro e venuto in mente di doverlo fare perché nessuno di loro ha pensato che fosse un reato», aveva detto in Procura, schermandosi dietro a tutti quelli con cui aveva parlato.Ovvero il vicepresidente del Csm David Ermini, ma anche altri cinque consiglieri.

Davigo probabilmente era davvero convinto di poter far filtrare quei documenti, tanto che in udienza ha anche affermato che Storari gli aveva fatto «una richiesta preventiva sulla legittimità del suo comportamento». Il pm milanese temeva che quella bomba gli potesse scoppiare tra le mani. 

E in uno dei suoi tre lunghi verbali resi a Brescia aveva raccontato, come anticipato dalla Verità, che, quando aveva provato a chiedere di acquisire i tabulati telefonici, il procuratore Francesco Greco (indagato e poi prosciolto, oltre che, è notizia di ieri, nuovo consigliere alla legalità del sindaco di Roma Roberto Gualtieri) gli aveva risposto che sarebbe partito contro di lui «un procedimento disciplinare».

Tra i colleghi, qualcuno gli avrebbe persino consigliato di lasciare a bagnomaria quell'inchiesta: «Mi ricordo benissimo quello che Fabio De Pasquale (l'aggiunto del processo Eni-Nigeria, terminato con tutte assoluzioni, ndr) mi ha detto... quello me lo ricordo... di tenere nel cassetto due anni questo fascicolo...». Al pm viene in mente persino una data, il 27 dicembre 2019: «"Meglio insabbiare il fascicolo Ungheria" e questo me lo dice De Pasquale». 

Storari, a Brescia, ha ricostruito i presunti escamotage di Greco per procrastinare le indagini: «Allora, lui diceva: "Fai la cosa e predisponi un cronoprogramma.".. e io faccio il cronoprogramma... "Fammi la memoria sulla competenza"... "Mi sono perso la memoria sulla competenza"... "Rimandami la memoria sulla competenza.".. tutto così». E quando Storari ha predisposto delle schede di iscrizione l'aggiunto Pedio avrebbe fatto «la matta» dicendo: «Ma come ti permetti, Paolo è un fatto gravissimo». Cosa che gli avrebbe ribadito pure Greco. E, così, il pubblico ministero sotto inchiesta avrebbe cominciato a sentirsi fuori luogo: «Io ero un corpo estraneo lì dentro... loro se la cantavano, De Pasquale, Pedio e Greco. Loro si facevano le riunioni per i fatti loro...».

 Ma il clima peggiora quando iniziano «a uscire le chat di Palamara sulla Verità», ha spiegato Storari, in cui sembrava che «Greco sostanzialmente si fosse sistemato i suoi alla Procura di Milano», cioè De Pasquale, Pedio e Eugenio Fusco. In una conversazione telefonica, l'ex presidente dell'Anm specifica che «la Pedio è sua», di Greco. Storari si insospettisce e chiede l'acquisizione delle chat e degli atti perugini, ma i colleghi «manco quello» volevano fare, forse perché «andare a sfruculiarci dentro» avrebbe comportato «una situazione brutta, antipatica», ovvero avrebbe significato rischiare di dover «indagare su se stessi».

A questo punto il pm avrebbe chiesto di sentire l'ex stratega delle nomine per verificare se confermasse quanto scritto nei suoi messaggi: «Se Palamara, che vabbé... sarà un pazzo, però dice io questo manco lo conosco... eh insomma... iniziamo a discutere di qualcosa...». Ma i colleghi avrebbero bocciato la sua idea: «Ecco, loro non hanno mai voluto... mai... mai... io due o tre volte l'ho chiesto, poi... la motivazione era... diamo un palcoscenico a uno così... questo mi è stato detto...».

Storari avrebbe replicato: «Vabbé, non è che dobbiamo mettere i cartelli quando sentiamo Palamara... possiamo farlo in maniera...». Ma gli altri, continua il verbale, non hanno «mai voluto», forse perché si trattava di «andare a sfruculiare una vicenda in cui anche loro erano coinvolti...». E qui il magistrato indagato lascia intendere che lo stesso Greco avrebbe ammesso di aver piazzato i suoi pupilli, Pedio in testa: «Perché, e qui dico una cosa che fa parte del notorio e del bagaglio di esperienza e di conoscenza fatto alla Procura di Milano, perché Greco ha un difetto, parla troppo. A me Greco ha detto... ma non solo a me... che lui in effetti si era prodigato... con chiarezza... perché doveva mettere questi tre suoi». 

Con la Pedio, definita «amica da trent' anni» ed ex compagna di università, Storari è impietoso. Sottolinea che, mentre indagava insieme con lei, i pochi atti e le uniche sommarie informazioni sono stati acquisiti su propria iniziativa e quando il procuratore Prete ricorda che la collega lo seguì in Sicilia per un'attività investigativa, Storari è impietoso: «Sì, perché il marito doveva fare una gara di nuoto a Catania».

Il pm ne ha anche per Amara, uno dei presunti grembiulini di Ungheria. Vederlo nella trasmissione Piazzapulita gli ha fatto ribollire il sangue: «In televisione va a dire: "La Pedio... la dottoressa più intelligente che abbia mai conosciuto"». Quindi sbotta: «Ieri sera ho visto quel faccia di merda che continuava: "Storari... Storari... Storari..."».Che adesso, insieme con Davigo, rischia una condanna.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 18 febbraio 2022.

Mi chiama un amico per mettermi a parte del rinvio a giudizio di Piercamillo Davigo. Non mi importa, rispondo. Insiste: sai quanti ne abbiamo oggi? 

Sì, dico, è il 17 febbraio, sono trent' anni esatti dall'arresto di Mario Chiesa, ma non mi importa, da molti anni ritengo Mani pulite un grande abbaglio, l'alibi per tutti noi di considerarci dei poveri sgobboni taglieggiati dalla casta, l'occasione per la magistratura di assumere l'osceno ruolo di moralizzatrice del paese, per i giornalisti di sferruzzare i loro articoli da tricoteuse, una gara invereconda a chi era più onesto, praticamente un paese di 59 milioni e 950 mila onesti messi nel sacco da 50 mila disonesti, per i quali abbiamo invocato e ottenuto il patibolo preventivo.

Eravamo già grillini, prima di Grillo, altroché. Gli dico, vatti a risentire il discorso di Craxi passato meschinamente alla storia come quello del così fan tutti, in cui in realtà diceva che la magistratura doveva indagare i reati, cercare i colpevoli, eventualmente condannarli, ma la politica doveva fare la politica, e riversare tutto sul capro espiatorio socialista significava ripartire dalla menzogna e prepararsi un futuro di menzogne: ecco, il ladro aveva ragione e gli onesti avevano torto.

Ma non mi importa più. Non voglio più rovinare a nessuno la sua storia di Zorro, auguro a Davigo una pronta assoluzione e passo oltre. Ma io, dice l'amico, volevo solo leggerti una frase di Edmund Burke: «Qui finiscono tutti gli ingannevoli sogni e visioni di eguaglianza e di diritti dell'uomo. Nella palude Serbonia di questa vile oligarchia tutti saranno assorbiti, soffocati e perduti per sempre».

Davigo il “furbetto” rimasto senza toga e poltrona e i verbali della “loggia Ungheria”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Febbraio 2022

Il caso aveva sollevato una vera e propria bufera tra le fila della magistratura mentre lui manifesta serenità come ha dichiarato è stato proprio lui, consapevole anche il fatto di aver raggiunto il compimento di 70 anni di età. Un requisito che, in molti casi, scongiura la galera di fronte a un'eventuale condanna. Di fatto una sorte di impunità.

Il destino delle volte è atroce, ma talvolta è tempestivo come nel caso del rinvio a giudizio per l’ex magistrato (ora in pensione) Piercamillo Davigo, arrivato a 30 anni da Mani pulite è arrivato il rinvio a giudizio con l’ipotesi di reato di rivelazione di segreto di ufficio. La decisione è è stata adottata dal Gup di Brescia, Federica Brugnara, e quindi l’ex consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura dovrà essere processato per la vicenda della diffusione dei verbali coperti da segreto istruttorio resi dall’avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della fantomatica “loggia Ungheria“. 

Il caso aveva sollevato una vera e propria bufera tra le fila della magistratura mentre lui manifesta serenità come ha dichiarato è stato proprio lui, consapevole anche il fatto di aver raggiunto il compimento di 70 anni di età. Un requisito che, in molti casi, scongiura la galera di fronte a un’eventuale condanna. Di fatto una sorte di impunità.

Come ricorda il Corriere della Sera, l’ex consigliere del Csm lo ha detto senza giri di parole. Si è espresso in maniera chiarissima e si è mostrato piuttosto spensierato, anche perché ha ribadito la totale convinzione di essere innocente: “Io sono sotto processo penale e non ho la minima preoccupazione. A parte il fatto che sono innocente, ma so che comunque non mi accadrebbe niente perché – avendo compiuto 70 anni – non posso neanche andare in carcere e starei comunque a casa mia“. Davigo lo ha dichiarato in occasione di un intervento all’Università di Pisa, per una tavola rotonda sul convegno Tangentopoli 30 anni dopo.

“La vicenda del rinvio a giudizio del dr. Davigo ha ad oggetto fatti gravi che è giusto che siano valutati davanti a un Tribunale, nella parità tra accusa e difesa. Indipendentemente dalla contestazione all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e della sua eventuale responsabilità, tutta da dimostrare, trovo da ex pubblico ministero davvero inaudito che verbali coperti da segreto investigativo, tra l’altro in un’indagine delicatissima come quella della cd. Loggia Ungheria, siano circolati tra persone che non avevano alcun titolo giuridico ad entrarne in possesso». Così Luigi de Magistris all’ agenzia Adnkronos “Poi -aggiunge l’ex magistrato già sindaco di Napoli – sono anche finiti sui giornali e l’indagine, forse anche tenuta troppo tempo negli armadi, è andata completamente “bruciata”. Redazione CdG 1947

Piercamillo Davigo a processo tira in ballo Sergio Mattarella: "Mi fece ringraziare sulla Loggia Ungheria". Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022

L'accusa è di rivelazione si segreto d'ufficio. E Piercamillo Davigo le tenta tutte e affonda gli artigli su ex amici ed ex colleghi. L'ex magistrato, rinviato a giudizio proprio nel trentennale di Mani Pulite, ha chiamato in causa Sergio Mattarella, l'ex capo Francesco Saverio Borrelli e David Ermini. Di fronte al biasimo di aver fatto pervenire i verbali segreti della Procura di Milano a membri del Consiglio superiore della magistratura, Davigo si difende: "Al Consiglio superiore non è opponibile il segreto investigativo (...) il precedente specifico cui faccio riferimento riguarda il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli che quando venne iscritto nel registro delle notizie di reato Silvio Berlusconi informò per le vie brevi il presidente della Repubblica in quanto presidente del Csm", è stata la replica riportata dal Giornale.

Ma non è tutto, perché venuto a sapere che della Loggia Ungheria facevano parte anche due membri del Csm, Davigo si apprestò a farlo sapere al Quirinale. Il motivo? "Ritenni necessario informare immediatamente il vicepresidente del Csm (David Ermini, ndr) e per suo tramite il Presidente della Repubblica in quanto presidente del Csm. Ermini ha condiviso questa mia valutazione che tacere questa notizia al presidente della Repubblica avrebbe potuto essere interpretato come sospetto nei suoi confronti e quindi intollerabile (...) lui andò direttamente al Quirinale, al ritorno mi disse che il presidente della Repubblica mi ringraziava delle informazioni fornite e che riteneva per il momento sufficienti quelle informazioni". Peccato però che il capo dello Stato abbia sempre negato di aver appreso secondo quelle modalità la notizia.

Dalle accuse non viene risparmiato neppure Ermini che, a detta dell'ex toga, mentirebbe. A suo dire il vicepresidente del Csm non può aver distrutto subito i verbali milanesi, visto che "quei file glieli ho dati dopo". In ogni caso la tesi di Davigo rimane sempre la stessa, ossia "se una loggia massonica decide le nomine di centinaia d magistrati italiani sarà bene un problema del Consiglio o no che deve essere segnalata?". A deciderlo il Tribunale di Brescia, chiamato a fare luce sulla vicenda il 20 aprile.

La difesa spericolata dell'imputato Davigo: tira in ballo Mattarella. "Mi fece ringraziare sulla loggia Ungheria". Luca Fazzo il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Chiama in causa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E per difendersi dalle accuse, evoca persino Francesco Saverio Borrelli, suo capo all'epoca del pool Mani Pulite.

Chiama in causa il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E per difendersi dalle accuse, evoca persino Francesco Saverio Borrelli, suo capo all'epoca del pool Mani Pulite. Per capire meglio la linea difensiva con cui Piercamillo Davigo - dopo il rinvio a giudizio disposto l'altro ieri - si prepara ad affrontare il 20 aprile il processo per rivelazione di segreto d'ufficio, la lettura più interessante è il verbale di interrogatorio reso il 7 luglio davanti alla Procura di Brescia. Ventisei pagine in cui Davigo si difende attaccando a destra e manca: ex amici, ex colleghi. Dando del bugiardo al vicepresidente del Csm David Ermini. E rivendicando di avere agito solo a fin di bene.

LO FECE ANCHE BORRELLI

All'accusa di avere fatto pervenire i verbali segreti della Procura di Milano a membri del Csm, Davigo ribatte: «Al Consiglio superiore non è opponibile il segreto investigativo (...) il precedente specifico cui faccio riferimento riguarda il procuratore della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli che quando venne iscritto nel registro delle notizie di reato Silvio Berlusconi informò per le vie brevi il presidente della Repubblica in quanto presidente del Csm».

IL GRAZIE DI MATTARELLA

Dopo avere letto che della loggia Ungheria facevano parte anche due membri del Csm, Davigo racconta di avere avvisato il Quirinale. «Ritenni necessario informare immediatamente il vicepresidente del Csm (David Ermini, ndr) e per suo tramite il Presidente della Repubblica in quanto presidente del Csm. Ermini ha condiviso questa mia valutazione che tacere questa notizia al presisente della Repubblica avrebbe potuto essere interpretato come sospetto nei suoi confronti e quindi intollerabile (...) lui andò direttamente al Quirinale, al ritorno mi disse che il presidente della Repubblica mi ringraziava delle informazioni fornite e che riteneva per il momento sufficienti quelle informazioni». Mattarella ha sempre negato di avere appreso notizie sull'indagine milanese.

ERMINI MENTE

David Ermini ha dichiarato a verbale di avere distrutto immediatamente i verbali milanesi. «Io solo nei giorni successivi - ribatte Davigo - diedi quei file ad Ermini, forse perchè mi chiese circostanze che io non ricordavo e io gli ho detto: senti non me li posso ricordare tutti questi nomi quindi faccio prima se ti do copia del file. Quindi non può avere distrutto immediatamente un bel niente perché glieli ho dati dopo».

CASCINI E AMARA

Davigo spiega di avere parlato della loggia Ungheria con Giuseppe Cascini, membro del Csm in quota sinistra. «Gliel'ho detto perchè si è occupato a lungo di Amara (...) mi disse: Amara non dice tutto ma è troppo intelligente per farsi prendere a dire cose non vere. Quindi probabilmente tutto quello che ha detto è vero". Il che aumentò la mia ansia per quello che emergeva da quelle dichiarazioni»

CONTRO LA PROCURA DI MILANO

Davigo si giustifica per avere portato i verbali al Csm parlando dell'inerzia dei suoi ex colleghi: «La Procura di Milano non ha fatto niente (...) dà una figura di pubblico ministero che è lontana mille miglia da quella che io ho sempre pensato essere, il pm è al servizio della legge, non deve portare a casa dei risultati, non deve portare a casa delle condanne e comunque non può sottrarre prove al giudice e neanche alla difesa». Secondo Storari, come è noto, i verbali di Amara venivano insabbiati per non compromettere l'esito del processo Eni. «Lui mi ha detto che è stato detto in sua presenza: no, questa roba la teniamo qui due anni e poi si vede". Ma come ti viene?»

IL CSM DOVEVA SAPERE

É il tema chiave dell'autodifesa di Davigo. «Se una loggia massonica decide le nomine di centinaia d magistrati italiani sarà bene un problema del Consiglio o no che deve essere segnalata?»

«NON ERANO VERBALI»

All'accusa di avere passato i verbali a alcuni membri del Csm Davigo replica: «Quelli non erano verbali in senso formale.. nulla aggiungevano e nulla toglievano a ciò che io dicevo a voce, erano una guida alla memoria (...) se tutti ritenevano che questo fosse illecito, sono pubblici ufficiali, nessuno si è sognato di fare una segnalazione a mio carico. Ma di che cosa parliamo?»

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

"Da pm disse che gli innocenti non esistono. Se lo ricordi adesso che è un imputato". Luca Fazzo il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'avvocato: "Se ha rivelato i verbali a politici estranei al Csm è una violazione del segreto d'ufficio. Ma sappiamo che certi procedimenti vengono usati come arma".

Come avvocato e come parlamentare, Gaetano Pecorella ha consacrato una carriera al garantismo. E non cambia registro neanche ora davanti al processo che attende Piercamillo Davigo, con cui - in entrambe le proprie vesti - si è scontrato più volte nel corso degli anni. «Il rispetto della presunzione di innocenza - dice Pecorella - non è un vestito che si possa dismettere a seconda delle occasioni».

Quindi anche Davigo è un presunto innocente?

«Assolutamente sì, anche se è inevitabile ricordargli che secondo lui non esistevano imputati innocenti ma solo magistrati che non avevano saputo fare bene il loro lavoro».

Però qui c'è un dato di fatto inoppugnabile: Davigo riceve i verbali segreti dal pm Storari, e poi li divulga a destra e manca.

«Davigo all'epoca faceva parte del Consiglio superiore della magistratura e dubito che consegnare o mostrare questi verbali a un componente del Csm possa venire considerata una violazione del segreto d'ufficio. È vero che non ha seguito le vie delle regole ufficiali, non li ha messi a disposizione secondo le procedure di legge. Ma comunque fino a quel momento i verbali sono rimasti all'interno di un organo istituzionale che ha tra i suoi doveri disciplinari quello di vigilare su quanto avviene nelle Procure».

Davigo è accusato anche di avere istigato Storari a commettere a sua volta un reato, consegnandogli i verbali.

«Vale in buona parte lo stesso discorso. Il fatto che un pubblico ministero consegni a un componente del Csm la prova che un'indagine in corso subiva dei rallentamenti è assai discutibile che possa costituire una rivelazione di segreto d'ufficio. I verbali vengono consegnati a un magistrato da un altro magistrato che vuole dimostrare la propria estraneità a una data vicenda. Se per Storari era un atto difesa legittima portare il contenuto dei verbali a conoscenza di Davigo, senza farli uscire all'esterno dell'istituzione, la conclusione è ovvia: se non era reato per Storari, non lo era neanche per Davigo».

Sta dicendo che Davigo potrebbe essere assolto?

«Il vero problema per lui è costituito dalla decisione di mostrare i verbali a un politico, a un personaggio esterno alla magistratura e al Csm come il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra. Per quello non vedo giustificazione. Se il contenuto dei verbali è stato rivelato a politici che nulla avevano a che fare con il Csm siamo sicuramente di fronte a una rivelazione di segreto d'ufficio».

Lei ha conosciuto bene Davigo.

«La prima volta ero ancora un giovane avvocato, mancavano anni a Mani Pulite. Mise sotto processo un avvocato svizzero. È una vicenda che ricorderò per tutta la vita perché l'avvocato fu fatto oggetto di un'imputazione del tutto infondata, tanto che venne assolto in primo grado. Fu un'esperienza traumatica per me e soprattutto per il collega che essendo svizzero probabilmente non era abituato a certe forme di giustizia all'italiana».

Era già il Davigo che conosciamo.

«Quel tipo di rigore evidentemente fa parte della sua personalità. Mi auguro che quella frase sugli innocenti che non esistono gli torni in mente adesso che si trova a sua volta accusato da un magistrato».

Come si spiega che un uomo di palese intelligenza si sia andato a infilare in un pasticcio del genere?

«Nel caso specifico mi sembra ipotizzabile che sia stato spinto per motivi di corrente o di tutela dei suoi amici a tenere certi comportamenti, pensando che fossero leciti. Ma aspetterei a giudicare. Quando un magistrato finisce sotto processo, a parte situazioni evidenti di corruzione o di atti di libidine, va sempre valutata con molta prudenza l'accusa che gli viene mossa. Sappiamo benissimo come i procedimenti disciplinari e penali siano anche strumenti per scontri di potere, come vengano usati da una parte contro un'altra».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Robespierre e Beccaria. Augusto Minzolini il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

A volte la Storia è complice di strane coincidenze che sorprendono anche l'animo più cinico. A volte la Storia è complice di strane coincidenze che sorprendono anche l'animo più cinico. Chi avrebbe mai immaginato che il giorno del trentesimo anniversario di Tangentopoli, Piercamillo Davigo, l'ex pm del pool di Milano, sarebbe stato rinviato a giudizio e sottoposto a processo? Pochi. Sicuramente Bettino Craxi e Francesco Cossiga, che davanti ai meccanismi perversi di Tangentopoli profetizzarono che un giorno «i giudici si sarebbero arrestati tra loro».

Di quei meccanismi Davigo è stato il vero teorico, l'artefice di una visione messianica della giustizia, che non ammetteva dubbi e si rapportava con fastidio ad ogni garanzia, secondo una filosofia che affida al magistrato, solo a lui, una missione salvifica della società, anche in contrapposizione alla politica, cioè alla rappresentanza del popolo, considerata una sorta di letamaio secondo lo schema che «non esistono politici innocenti ma colpevoli su cui non sono state trovate le prove». Insomma, la cultura del sospetto, dell'indizio che si trasforma in prova, dell'imputato che è colpevole, appunto, solo perché fa parte della categoria dei politici o giù di lì. Davigo è stato una sorta di Maximilien Robespierre redivivo, che dopo poco più di due secoli dall'originale, ha indossato la toga per dare vita ad una nuova Rivoluzione, falsa o vera poco importa, che però non aveva nulla a che vedere, questo è il punto, con la giustizia, con il diritto e, a ben vedere, neppure con la democrazia.

E la ragione è semplice: quando mischi la giustizia con la rivoluzione, finisci ai tribunali del popolo, ai regimi totalitari. Motivo per cui alla fine l'epilogo del novello Robespierre era scritto, perché anche una democrazia malata, pavida e minata da trent'anni di populismi di ogni colore ha i suoi anticorpi per sopravvivere. E il primo è il giudizio di un'opinione pubblica che per qualche anno, magari anche qualche decennio, può essere incantata dalla retorica di Tangentopoli, complice anche una certa stampa sempre pronta ad inginocchiarsi di fronte ad ogni nuovo regime, ma poi si guarda intorno e si accorge che non è cambiato granché. O peggio, scopre che neppure più dei giudici si può fidare. Così ciò che avvenne al vecchio Robespierre è capitato anche al nuovo: Davigo, più precisamente, il giustizialismo in toga, ha perso il consenso popolare (il sì della Consulta ai referendum sulla giustizia è un'altra coincidenza da non sottovalutare) e rischia di essere crocifisso per un reato, sembra la legge del contrappasso, che non è mai stato perseguito (è il primo giudice che vi incappa) ma che è stato lo strumento usato per imbastire quei processi mediatici, di piazza, che sono stati l'essenza di Tangentopoli.

Il Re è nudo e la nemesi storica si consuma. Solo che nelle democrazie, quelle vere, non esistono né ghigliottine, né plotoni d'esecuzione e neppure si getta la chiave della cella per far confessare un imputato. Ci si ispira per impostare un processo giusto, per garantire i diritti di ogni imputato a Cesare Beccaria, al Dei delitti e delle pene, che fu pubblicato esattamente trent'anni prima che il povero Maximilien salisse sul patibolo. Ecco perché mai come ora bisogna essere «garantisti» innazitutto, e soprattutto, con l'ex magistrato Piercamillo Davigo nel ruolo di imputato. Augusto Minzolini

La stoccata di De Magistris: «Davigo a processo? Fatti gravi, inevitabile». L'ex sindaco di Napoli intanto pensa al suo futuro politico. Sarà il leader di "Manifesta". Ecco di cosa si tratta. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 18 febbraio 2022.

«La vicenda del rinvio a giudizio del dr. Davigo ha ad oggetto fatti gravi che è giusto che siano valutati davanti a un Tribunale, nella parità tra accusa e difesa. Indipendentemente dalla contestazione all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e della sua eventuale responsabilità, tutta da dimostrare, trovo da ex pubblico ministero davvero inaudito che verbali coperti da segreto investigativo, tra l’altro in un’indagine delicatissima come quella della cd. Loggia Ungheria, siano circolati tra persone che non avevano alcun titolo giuridico ad entrarne in possesso». Così all’Adnkronos Luigi de Magistris. «Poi -aggiunge l’ex magistrato già sindaco di Napoli – sono anche finiti sui giornali e l’indagine, forse anche tenuta troppo tempo negli armadi, è andata completamente “bruciata”».

De Magistris e la politica: nasce “Manifesta”

Il già sindaco di Napoli e già candidato alla guida della Regione Calabria, Luigi De Magistris, è pronto all’ennesima battaglia. Questa volta ancora più tosta, e ancora più difficile, visto che si candida a guidare un’ala all’estrema sinistra che definisce «antisistema». L’ex pm ha detto che «sicuramente» si candiderà alle Politiche del 2023 e che «stiamo provando a mettere insieme i non allineati, quelli che non si riconoscono nel modo di praticare la politica nazionale degli ultimi anni». Tradotto: sarà lui il leader di “Manifesta”, la nuova sigla presentata mercoledì alla Camera della quale fanno parte quattro deputate ex Movimento 5 Stelle e alla quale si è unito anche Matteo Mantero, già potere al popolo.

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Le quattro deputate sono Simona Suriano, Doriana Sarli, Yana Ehm e Silvia Benedetti e la nuova componente si è formata sotto le insegne di Rifondazione comunista e, appunto, Potere al popolo. Una formazione dunque in piena opposizione al governo Draghi e agli schemi politici conosciuti finora, e proprio per questo De Magistris sarebbe la persona giusta per guidarla.

A palazzo San Giacomo l’ex magistrato ha governato infatti in piena opposizione sia al centrodestra che al centrosinistra, ispirandosi a quel popolo viola che tanti consensi raccoglie tra gli anti sistema orientati a sinistra della sinistra. Ed è quindi proprio da quel bacino di elettori che la nuova formazione punta a raccogliere consenso in vista delle prossime Politiche.

Ma vista la provenienza delle quattro deputate, Manifesta guarda anche dagli elettori delusi del Movimento 5 Stelle, sotto un nome che richiama apertamente il Manifesto del partito comunista di Karl Marx. Quanti sono gli elettori già grillini che ora non si riconoscono più nel governo Draghi, nell’appoggio al Tap, nella volontà di rompere la regola del doppio mandato? Difficile dirlo, ma certamente non pochi.

Il Movimento è dato ormai stabilmente sotto al quindici per cento, e le invettive contenute nel libro di Enrica Sabatini, compagna di Davide Casaleggio e storica attivista del M5S, contro Luigi Di Maio e pubblicate ieri non aiutano certo ad abbassare la tensione. Tanto che è proprio nei duri e puri che si guarda per portare nomi di peso in Manifesta. E chi se non Alessandro Di Battista può essere la persona giusta per dare una svolta radicale e antisistema in vista della campagna elettorale? Più volte l’ex fedelissimo di Beppe Grillo ha reso pubblico il suo disagio nei confronti di un Movimento che non è più quello degli inizi, ormai da tempo, e che con il sostegno al governo Draghi ha definitivamente perso la sua verginità. Manifesta, ha detto De Magistris, «è un gruppo nato con un’iniziativa molto opportuna, perché manca uno spazio di alternativa alla maggioranza del “tutti insieme” e con una situazione gravissima che c’è nel Paese». Più chiaro di così.

Dal banco del pm alla sbarra dell'imputato. Perché Davigo va a processo, cosa c’è dietro le accuse al dottor Sottile. Paolo Comi su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

Nel pieno delle celebrazioni in pompa magna per il trentennale di Mani pulite, ecco arrivare dal tribunale di Brescia il rinvio a giudizio per Piercamillo Davigo, imputato per rivelazione di segreto di ufficio per la vicenda della diffusione dei verbali delle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara sulla Loggia Ungheria. Lo ha deciso ieri la gup Federica Brugnara. Il dibattimento inizierà il prossimo 20 aprile.

E sempre ieri si è celebrata l’udienza del processo nei confronti del pm milanese Paolo Storari, accusato dello stesso reato, che aveva invece scelto il rito abbreviato. La Procura ha chiesto il minimo delle pena: sei mesi di prigione. La sentenza il prossimo 7 marzo. Finisce così, alla sbarra, la parabola del magistrato simbolo di Tangentopoli che solo l’altro giorno aveva rilasciato l’ennesima intervista fiume al Fatto Quotidiano in cui ripercorreva quel periodo eroico.

La vicenda nasce a marzo del 2020, una volta terminati in Procura a Milano gli interrogatori di Amara, noto alle cronache per essere anche fra i principali accusatori di Luca Palamara nel processo di Perugia.

Amara aveva rivelato ai magistrati, che lo interrogavano sui suoi rapporti con l’Eni, l’esistenza di una loggia massonica super segreta denominata “Ungheria” e composta da magistrati, imprenditori, professionisti, alti ufficiali delle Forze di polizia, il cui scopo sarebbe stato quello di pilotare le nomine dei capi degli uffici giudiziari al Consiglio superiore della magistratura e aggiustare i processi. Ad interrogare Amara erano stati Laura Pedio, vice del procuratore Francesco Greco, e Storari. Visto che verbali, dove Amara aveva fatto i nomi di decine di appartenenti alla loggia, erano rimasti sulla scrivania dei magistrati senza che ci fosse alcun sviluppo investigativo, Storari decise di giocare il jolly, informando dell’accaduto Davigo, all’epoca consigliere del Csm e con il quale era in grande confidenza.

Ricevuti da Storari i verbali di Amara, Davigo cominciò a fare il giro delle sette chiese al Csm, portandoli a conoscenza del vice presidente del Csm David Ermini, del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, di alcuni consiglieri, e addirittura del presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s) in un colloquio sulle scale di Palazzo dei Marescialli per paura di essere intercettati da qualche trojan. Andato in pensione Davigo per raggiunti limiti di età ad ottobre del 2020, i verbali di Amara, che erano conservati fino a quel momento nel suo ufficio al Csm, arrivarono alle redazioni di Repubblica e del Fatto Quotidiano che, però, decisero di non pubblicarli. La postina sarebbe stata la segretaria di Davigo, Marcella Contraffatto. Storari, per giustificare la sua azione irrituale aveva affermato che, terminata la verbalizzazione di Amara, era intenzionato ad effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati dei soggetti che avrebbero fatto parte dalla loggia e all’acquisizione dei loro tabulati telefonici.

Ma i suoi capi, intenzionati a “salvaguardare” Amara da possibili indagini in quanto utile come teste nel processo Eni-Nigeria in corso all’epoca a Milano, avevano stoppato sul nascere le sue voglie investigative. Davigo, invece, si era giustificato dicendo che «se c’è un soggetto che fa delle dichiarazioni di estrema gravità, che siano vere o false, o che siano in parte vere e in parte false, è necessario fare le indagini per saperlo». Tutto finto per la Procura di Brescia: lo scopo di Davigo non sarebbe stato far luce su quanto accadeva in Procura a Milano ma solo trovare una scusa per motivare al Csm la rottura dei rapporti con il pm Sebastiano Ardita il cui nome compariva nell’elenco di Amara. Una rottura drammatica dal momento che i due avevano scritto insieme un libro, edito dalla casa editrice del Fatto Quotidiano, e avevano condividendo le medesime scelte correntizie.

«Senza le condotte illecite compiute da Davigo e Storari, Ardita non avrebbe subìto la massiva infamante divulgazione di quelle informazioni riservate», hanno sostenuto i legali di Ardita che si è costituito parte civile. La consegna dei verbali, e la successiva diffusione sulla stampa, avrebbero determinato “evidenti danni” ad Ardita vista l’infondatezza delle dichiarazioni di Amara. Le indagini su Ungheria, però, non le ha fatte ancora nessuno. Paolo Comi

DiMartedì, Sallusti contro Davigo: "Diffamato? Lei è stato condannato a risarcirmi". Libero Quotidiano il 16 febbraio 2022

Lo scontro tra Alessandro Sallusti e Piercamillo Davigo si accende in diretta da Giovanni Floris a DiMartedì, su La7, nella puntata di ieri sera 15 febbraio. "Luca Palamara racconta come il sistema della giustizia sia a sua volta inquinato da logge, servizi segreti, pentiti. Insomma è inquinato", spiega il direttore di Libero. "Io ho sporto una querela per il primo libro di Sallusti". 

E ancora, contrattacca l'ex pm di Mani pulite: "Lei mi ha diffamato un sacco di volte ed è stato condannato. Poi il presidente della Repubblica ha cambiato la pena detentiva in pecuniaria. Quindi non dica che lei non mi diffama". A quel punto Alessandro Sallusti lo inchioda: "Vorrei aggiungere che la Corte dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano, e quindi lei che rappresenta lo Stato, a risarcirmi per ingiusta detenzione. Le ricordo questo dottor Davigo". 

Lo scontro prosegue. "Luca Palamara documenta come tutti i magistrati coinvolti in scandali sono stati archiviati dal Csm", continua il direttore di Libero. "Perché non inquisite mai i magistrati che si trovano in quelle situazioni? I magistrati che chiedevano piaceri... Questo le sto chiedendo". Ma Davigo non risponde alla domanda. Tergiversa sul Csm.

MAlf. per "il Giornale" l'8 febbraio 2022.  

Ancora una assoluzione per Vittorio Sgarbi contro Piercamillo Davigo che lo aveva querelato per un articolo pubblicato su «Il Giorno». (Quattro in tutto le querele presentate dal magistrato relative ad altrettante versioni on line e cartacee dello stesso articolo). E dunque dopo Bologna, Milano. 

E così, come per il primo match per cui l'articolo scritto da Sgarbi il 10 marzo 2017 sul sito web «Quotidiano.net» non conteneva niente di male, tanto da assolverlo dal reato di diffamazione, perché il fatto non sussiste, così l'ordinanza del Gip del Tribunale di Milano ha disposto l'archiviazione del procedimento.

L'ex magistrato non aveva gradito l'articolo scritto da Sgarbi dal titolo «Davigo e i detenuti dimenticati». L'ex pm si è sentito attaccato, colpito personalmente da quelle righe. Trattasi invece secondo il Gip di diritto di critica politica.

Piercamillo Davigo a processo in tribunale a Brescia. Il Corriere del Giorno il 7 Febbraio 2022.  

Secondo i magistrati di Brescia, Davigo avrebbe violato “i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm”, pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale di impedire l’ulteriore diffusione» dei verbali di Amara”. Si tornerà in aula il prossimo 17 febbraio

di Redazione Politica

Si celebra questa mattina dinnanzi al Tribunale penale a Brescia l’udienza preliminare nei confronti dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. Secondo i magistrati di Brescia, Davigo avrebbe violato “i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm“, pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale di impedire l’ulteriore diffusione» dei verbali di Amara“. Anche perché l’ex pm Davigo non si limitò a ricevere i verbali ma ne “rivelava il contenuto a terzi, consegnandoli senza alcuna ragione ufficiale al consigliere del Csm Giuseppe Marra, con lo scopo di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita“, che in realtà è precedente alla vicenda Amara. 

Dall’inchiesta dalla quale scaturisce il procedimento in scorso, è uscito l’ex capo della Procura milanese Francesco Greco, accusato dal pm della procura di Milano Storari di aver ritardato le iscrizioni sul registro degli indagati, con la contestazione di una presunta omissione d’atti d’ ufficio. Accusa per la quale è stata poi richiesta l’archiviazione dai pm bresciani accolta dal gup Andrea Gaboardi. Il pm Storari oltre al processo penale , rischia un complicato procedimento disciplinare: il Csm entro la metà del mese deciderà se trasferirlo via da Milano. 

Con l’interrogatorio di Piercamillo Davigo, l’ex consigliere del Csm, imputato a Brescia con il pm di Milano Paolo Storari per il caso dei verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria, è ripresa stamane l’udienza preliminare. Il pm di Milano Paolo Storari, imputato a Brescia con l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo per il caso dei verbali dell’avvocato Piero Amara, ha chiesto di essere processato con rito abbreviato. La richiesta è stata presentata stamane al giudice per le indagini preliminari, Federica Brugnara che ha stralciato la posizione del pubblico ministero che risponde di rivelazione del segreto d’ufficio, reato contestato anche a Davigo nei cui confronti proseguirà l’udienza preliminare.

“Questa vicenda è di interesse pubblico e siccome io non ho nulla da nascondere pretendo l’udienza a porte aperte” aveva dichiarato Davigo dall’alto…della sua proverbiale spocchia ai giornalisti. Davigo è assistito dall’avvocato Francesco Orasi. Ma il Gup di Brescia Federica Brugnara con rigore ha respinto la richiesta di celebrare l’udienza preliminare a porte aperte avanzata da Piercamillo Davigo e disposto la lo svolgimento dell’udienza in camera di consiglio quindi a porte chiuse, accogliendo anche la richiesta di costituzione di parte civile presentata dal consigliere del Csm Sebastiano Ardita. La sua presenza nel processo si giustifica col fatto che il nome di Ardita fosse presente nei verbali di Amara e che proprio a causa di questo la notizia è diventata pubblica. 

Davigo ne avrebbe parlato anche ad un’altra consigliera del Csm, Ilaria Pepe, per “suggerirle “di prendere le distanze” da Ardita, invitandola a leggerli”; con il consigliere Giuseppe Cascini, al quale Davigo ha chiesto “un giudizio sull’attendibilità di Amara”, mentre ai consiglieri laici del Csm Fulvio Gigliotti (M5S) e Stefano Cavanna (Lega) avrebbe riferito di una “indagine segreta su una presunta loggia massonica, aggiungendo che “in questa indagine è coinvolto Sebastiano Ardita””. Davigo non contento consegnò quei verbali anche al vicepresidente del Csm David Ermini, il quale correttamente “ritenendo irricevibili quegli atti immediatamente distruggeva la «documentazione”, informando dell’accaduto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che è anche presidente di diritto del Consiglio Superiore della Magistratura , e consegnandoli al magistrato antimafia Nino Di Matteo consigliere del Csm , il quale ne diede pubblica informazione durante un plenum del Csm, citando le informazioni considerate diffamatorie contenute nei confronti di Ardita. 

La mancata riservatezza di Davigo non si limitò a tutto ciò informando anche un componente esterno al Csm, il sen. Nicola Morra (ex M5S) presidente della Commissione nazionale antimafia, per chiarire i motivi dei “contrasti insorti tra lui e Ardita”, e le segretarie di Davigo, Giulia Befera e Marcella Contrafatto quest’ultima secondo gli accertamenti della procura di Roma avrebbe spedito anonimamente quei verbali al consigliere del Csm Nino Di Matteo ed ai giornalisti. Venerdì scorso il pm Paolo Storari ha risposto per quasi tre ore alle domande delle parti, respingendo le accuse e ribadendo la correttezza del proprio operato. Oggi invece sarà a Davigo a dover ripercorrere tutte le tappe di un caso che ha provocato una una frattura tra i magistrati della procura di Milano, ma sopratutto portato alla luce ancora di più i “veleni” interni alla magistratura. 

Nel 2017 Davigo dichiarava in televisione a “Piazza pulita”, il programma condotto su La7 da Corrado Formigli che quando un innocente viene condannato non è colpa dei magistrati: “Il giudice non è presente quando viene commesso il reato, sa le cose che gli raccontano. Se si scopre dopo che un teste ha mentito, non lo può sapere. E’ stato ingannato”. La vera vittima dell’errore giudiziario è quindi il magistrato, fuorviato e ingannato dai testimoni. In seguito sempre Davigo, ospite di Bruno Vespa a “Porta a porta” su RAIUNO per commentare dei 42 milioni di euro pagati dallo Stato italiano per risarcimenti giudiziari nel 2016 (648 milioni dal ’92), aveva allargato il campo della sua visione alle ingiuste detenzioni: come gli errori giudiziari non sono errori, così le ingiuste detenzioni non sono ingiuste (in pratica a suo parere l’unico errore sembra quello di pagare le vittime). 

Secondo Davigo tutti questi risarcimenti a persone incarcerate e poi assolte avvengono perché nel nostro sistema “le prove assunte nelle indagini preliminari di regola non vale nel processo”. C’è questo problema del dibattimento e di dover ripetere le testimonianze rilasciate agli inquirenti davanti a un giudice. Quindi succede che una persona viene arrestata sulla base di prove schiaccianti, come le accuse di tre testi, “dopodiché questi testi magari minacciati dicono che si sono sbagliati. Le loro indicazioni non possono essere più utilizzate. È un innocente messo in carcere – si chiede retoricamente Davigo – o è un colpevole che l’ha fatta franca?”. Ovviamente per lui vale la seconda ipotesi, da cui si capisce che gli unici errori giudiziari sono le assoluzioni. Le ingiuste detenzioni sono quindi quelle in cui una persona ha subìto un provvedimento di custodia cautelare e poi è stato assolto, “il che – dice Davigo – non significa che siano tutti innocenti, anzi”. e quindi, per l’ex-pm “lumbard” prevale una presunzione di colpevolezza che va anche oltre l’assoluzione definitiva. Cosa dirà adesso che sotto processo c’è lui?

Verbali Amara, Piercamillo Davigo si difende: «Ho rispettato solo la legge». “Ungheria gate”, l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo ieri davanti al gup. Il magistrato della procura di Milano, Storari sceglie il rito abbreviato. Simona Musco su Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

«Tutto quello che ha fatto, lo ha fatto nel rispetto della legge». Dopo tre ore davanti al giudice per l’udienza preliminare di Brescia, Federica Brugnera, l’avvocato Francesco Borasi riassume così le dichiarazioni dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, imputato insieme al pm milanese Paolo Storari per rivelazione del segreto di ufficio per aver fatto circolare i verbali di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria. «Il dottor Davigo, in una situazione pericolosissima per le istituzioni – ha spiegato Borasi al Dubbio -, ha rispettato quanto le leggi impongono e certamente non ha violato la normativa».

L’ex pm di Mani Pulite, davanti ai pm di Brescia, si era infatti difeso richiamandosi a due circolari di Palazzo dei Marescialli, «che prevedono che il segreto d’ufficio, segnatamente il segreto investigativo, non è opponibile al Csm». Ieri, dunque, ha negato di aver indebitamente diffuso i verbali sulla presunta Loggia sostenendo che Storari avrebbe agito in modo legittimo, consegnando i verbali ad una persona titolata a riceverli e che aveva l’intento di informare il Comitato di presidenza del Csm. Dal Comitato, però, non sarebbe arrivato alcun invito a formalizzare, né sarebbero stati manifestati dubbi sulla procedura seguita.

Secondo la procura, le due circolari non possono però essere applicate al caso specifico, in quanto non fanno riferimento a consegne informali di atti a singoli consiglieri del Csm, ma riguardano i rapporti tra segreto investigativo e poteri del Csm in tema di acquisibilità di elementi coperti da segreto istruttorio. Una scelta discutibile anche secondo il vicepresidente del Csm David Ermini, che giudicò quegli atti irricevibili, non essendo arrivati al Consiglio seguendo le vie formali. Il pm milanese, difeso dall’avvocato Paolo Dalla Sala, ha chiesto e ottenuto di poter essere giudicato con rito abbreviato, mentre Davigo ha scelto il rito ordinario, perseverando dunque nella scelta di rendere pubblico il processo che lo riguarda. Volontà che aveva manifestato anche in relazione alla fase dell’udienza preliminare, nella convinzione che «la pubblicità è di per sé una garanzia: questa vicenda è di interesse pubblico e siccome io non ho nulla da nascondere pretendo l’udienza a porte aperte». Il gup, lo scorso 3 febbraio, ha deciso però di respingere la richiesta.

La posizione dei due imputati, dunque, viene ora separata, in attesa della decisione del giudice. La prossima udienza è fissata il 17 febbraio. Il processo, intanto, conta già una certezza: la presenza del magistrato Sebastiano Ardita, consigliere del Csm, ammesso come parte civile al processo. Sarà quella, dunque, la sede forse finale dello scontro tra lui e Davigo, precedentemente suo grande amico e cofondatore, assieme a lui, della corrente Autonomia & Indipendenza. Un rapporto che si è interrotto prima della consegna dei verbali di Amara, verbali che secondo l’avvocato Fabio Repici Davigo avrebbe usato per delegittimare il magistrato all’interno del Csm. Secondo il legale, l’ex pm di Mani Pulite avrebbe agito con «dolo» con il fine «di screditare il ruolo istituzionale di consigliere del Csm» di Ardita «e la sua immagine personale e professionale», attraverso «una pervicace operazione mirata di discredito – ha aggiunto -, cercando così perfino di condizionarne il ruolo di consigliere del Csm e addirittura arrivando a condizionare l’intero Csm».

Secondo quanto emerso dagli interrogatori dei vari consiglieri del Csm, auditi a Brescia per chiarire i contorni della vicenda, la posizione di Ardita sarebbe finita anche al centro di una riunione informale convocata dal vicepresidente Ermini a Palazzo dei Marescialli, nel maggio 2021. Davigo, all’epoca, aveva già riferito della presunta affiliazione di Ardita alla Loggia a diversi consiglieri, invitando alcuni di loro a prendere le distanze dal pm catanese. «Arrivo al giorno in cui Di Matteo prese la parola in plenum – raccontò Ermini ai pm di Brescia -. Dopo tale intervento, si ripropose il problema di tutelare il buon nome del Consiglio e per far ciò ritenni di convocare, seppur informalmente, tutti i consiglieri al fine di cercare un confronto sincero su quello che stava emergendo. Nel corso di tale incontro, Ardita prese la parola e con una evidente partecipazione emotiva rifiutò l’idea di aver avuto comportamenti opachi e si lamentò del fatto che qualcuno potesse aver creduto a delle dichiarazioni calunniose addirittura togliendogli il saluto. Era molto alterato di ciò e molti consiglieri gli ribadirono la loro stima e fiducia. Emerse anche che qualcuno aveva già ricevuto da Davigo delle informazioni sulla cosiddetta loggia Ungheria».

LA RIVELAZIONE DEI VERBALI DI AMARA. GIULIA MERLO su Il Domani il 07 febbraio 2022.

Il 17 febbraio si deciderà se ci sarà un rinvio a giudizio per il caso dei famosi “verbali”. Piercamillo Davigo conferma di volere un processo ordinario, mentre il magistrato Paolo Storari ha scelto il rito abbreviato e un processo a porte chiuse

L’ex consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, è stato interrogato durante l’udienza preliminare al tribunale di Brescia e ha raccontato la sua verità sui passaggi di mano dei verbali di interrogatorio dell’ex legale Piero Amara, in cui parlava della presunta loggia Ungheria.

Davigo è indagato insieme al pm milanese Paolo Storari per rivelazione di segreto d’ufficio per aver portato fuori dal tribunale di Milano e poi diffuso i verbali degli interrogatori dell’avvocato Piero Amara, nei quali si dava conto dell’esistenza della presunta loggia e di chi ne faceva parte.

La gup, Federica Brugnara, dovrà decidere sul rinvio a giudizio di entrambi e ha già accolto la richiesta di costituzione di parte civile del consigliere togato del Csm, Sebastiano Ardita, citato nei verbali.

Intanto, però, le posizioni processuali dei due indagati si sono separate. Storari, infatti, ha scelto il rito abbreviato: nel caso in cui venga rinviato a giudizio, il processo si svolgerà a porte chiuse e sarà basato solo sugli atti d’indagine fin qui raccolti, inoltre in caso di condanna beneficerà di uno sconto di pena di un terzo. Anche lui si è sottoposto all’interrogatorio e ha confermato di aver consegnato i verbali a Davigo come forma di «autotutela», visto l’«immobilismo» dei vertici della procura di Milano nel procedere all’iscrizione della notizia di reato.

LA SCELTA DI DAVIGO

Opposta, invece, è la strategia processuale scelta da Davigo. L’ex pm di Mani Pulite, infatti, aveva fatto richiesta che l’udienza preliminare si svolgesse in forma pubblica ma gli è stato negato. Oggi ha sostenuto l’interrogatorio di circa tre ore in cui ha ribadito la sua versione dei fatti: «Tutto quello che ha fatto lo ha fatto per conto della legge», è stato il riassunto del suo legale. Davigo, infatti, sostiene che la consegna dei verbali sia stata legittima perché a un consigliere del Csm non è opponibile il segreto d’ufficio.

Inoltre, non ha fatto richiesta di riti alternativi, dunque in caso di rinvio a giudizio il processo si svolgerà con rito ordinario e in forma pubblica, con giornalisti ammessi in aula.

Evidente la volontà dell’ex magistrato: convinto della correttezza del suo operato, ritiene di voler dare la massima divulgazione al processo, nel caso in cui si svolga.

Tutto, ora, è rinviato all’udienza del 17 febbraio, in cui la gup deciderà sulla richiesta di rinvio a giudizio di Davigo confermata dai pm bresciani e si svolgerà la prima udienza in rito abbreviato per Storari. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

La verità di Palamara su Berlusconi, Morisi e Loggia Ungheria. GIULIA MERLO su Il Domani il 07 febbraio 2022.

Dalle anticipazioni del suo libro in uscita dal titolo “Lobby e Logge”, l’ex magistrato romano Luca Palamara racconta fatti legati all’ex legale Pietro Amara ma anche a casi più recenti di cronaca giudiziaria

Il nuovo libro dell’ex magistrato di Roma, Luca Palamara, al centro dello scandalo sulle nomine pilotate al Csm, punta a provocare lo stesso scalpore del volume precedente, “Il Sistema”.

Scritto di nuovo in forma di intervista con Alessandro Sallusti, il titolo è “Lobby e Logge” e affronta i temi delicati che nell’ultimo anno hanno terremotato la magistratura.

Dalle anticipazioni è possibile ricostruire alcuni dei punti che nei prossimi giorni saranno al centro della polemica. 

LA LOGGIA UNGHERIA

A proposito della presunta Loggia Ungheria, Palamara dice che «Davanti a una vicenda simile i casi sono solo due: o iscrivi Amara per calunnia o iscrivi tutti i nomi da lui fatti per appartenenza alla loggia. Dopo quanto? Il tempo di preliminari accertamenti, diciamo da uno a un massimo di sei mesi, Covid o non Covid. Le faccio un esempio così capiamo meglio come funziona: dalla sera in cui alla questura di Milano è scoppiato il caso Ruby al giorno in cui Ilda Boccassini ha chiesto non un avviso di garanzia ma il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi sono passati solo sei mesi».

Secondo Palamara è tutto molto strano: «istituzioni e giornali alleati nel non fare uscire la notizia di una possibile loggia segreta specializzata in depistaggi. Strano soprattutto se pensiamo alla potenza di fuoco messa in campo dall'asse tra procure e giornalisti su altre inchieste, quelle per esempio del passato su Berlusconi e oggi quelle su Renzi». Mentre sul ruolo di Amara dice che «a volte usa le procure e a volte è usato in un gioco degli specchi nel quale ci si perde. Ma la domanda importante è un'altra. Quando usa per conto di chi lo fa, chi è il suo mandante? E quando è usato chi è il burattinaio che muove i suoi fili?». 

IL CASO MONTANTE

«Sul caso Montante il CSM, dove io stavo all'epoca dei fatti, non ha avuto il coraggio e in ogni caso non è stato messo nelle condizioni di potere approfondire i rapporti tra Montante e alcuni magistrati», dice Palamara, che descrive Montante come uno che frequenterebbe politici, ministri, alti prelati, ovviamente magistrati e giornalisti «e in breve diventa il paladino dell'antimafia seducendo anche un osso duro come don Ciotti, nonostante nel 2009 alcuni pentiti lo avessero chiamato in causa per questioni di mafia».

«Nessuno però sa che Montante registra e conserva con precisione maniacale ogni incontro, ogni colloquio, ogni confidenza in un gigantesco archivio che poi userà per ricattare, blandire, ottenere favori per se è per i propri adepti irretiti, consapevoli o meno non importa, in una delle più grandi reti di potere occulto e parallelo a quello ufficiale mai allestite da un uomo solo».

Nel libro si cita anche l’inchiesta di Attilio Bolzoni del 2015, in cui annuncia che «Montante è indagato per mafia dalla Procura di Caltanissetta». Quello è descritto come «un terremoto che travolge i suoi complici: politici, ufficiali dei carabinieri, della Polizia, uomini dei servizi segreti e della Direzione distrettuale antimafia».

IL CASO MORISI

Nel libro si tocca anche il caso recente di Luca Morisi, lo spin doctor di Matteo Salvini indagato per droga e poi archiviato, ma con grande clamore d’indagine sui giornali. Palamara propone il caso come esempioi per spiegare il meccanismo che regge «il sistema».

«I vertici delle tre forze dell’ordine sono in grado di sapere che cosa si sta muovendo nelle procure» e «inevitabilmente finiscono per avere i propri referenti politici» ovvero i ministri nominati dal governo. «Quando una notizia risale la scala gerarchica, a ogni tappa c'è un rischio di fuga di notizie casuale o voluto perché a ogni tappa ci sono in agguato i servizi segreti, le lobby politiche ed economiche, ognuna delle quali ha i propri giornalisti di riferimento». Secondo Palamara, quindi, qualcuno che conosceva i fatti si sarebbe accorto del ruolo di Morisi e del fatto che «colpire lui significava indebolire Salvini». 

L’AVVISO DI GARANZIA A BERLUSCONI

Curioso è lo scambio tra Sallusti, che nel 1994 lavorava al Corriere della Sera, per la pubblicazione della fotocopia dell’avviso di garanzia a Silvio Berlusconi. Palamara dice a Sallusti di sapere che lui era stato «avvertito in modo discreto che di lì a poco avrebbero perquisito casa sua in cerca della fotocopia e di alcuni nastri di registrazione, da cui sarebbe stato possibile, ammesso di averne la volontà, risalire al procuratore o al carabiniere infedele. Avvertimento che le permise di disfarsi di quel materiale, che uscì di casa nella borsetta di sua moglie e finì poi bruciato nel cesso del di lei parrucchiere». Sallusti risponde «Non confermo e non smentisco», «so per certo che di quell'avviso di garanzia fu informato anche l'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro».

Questo, per Palamara, è la dimostrazione dell’esistenza del sistema di cui lui parla. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Palamara, atto secondo: «Così il Csm provò a usarmi per silurare Greco». Le nuove rivelazioni dell'ex capo dell'Anm nel sequel del libro il “Sistema”, dal titolo “Lobby & Logge”. Simona Musco su Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

«Sono convinto che il Csm avrebbe voluto cacciare, o quantomeno punire, Francesco Greco per la malagestione del caso Ungheria, o magari anche per altro, prima del suo pensionamento. Ho avuto la sensazione che abbiano provato a usarmi per raggiungere l’obiettivo». Una delle ultime bombe di Luca Palamara sul “Sistema” giustizia arriva a pagina 37 del suo nuovo libro, dal titolo “Lobby & Logge – Le cupole occulte che controllano “il Sistema” e divorano l’Italia” (Rizzoli), scritto a quattro mani con il giornalista Alessandro Sallusti, da oggi in libreria.

Bomba che racconta l’ennesimo retroscena dell’intricata e oscura vicenda dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, “pentito” utilizzato dalle procure di mezza Italia, considerato credibile a momenti alterni, che ha provocato un terremoto all’interno della procura di Milano, spaccando – per l’ennesima volta – il Csm. Il procuratore Greco, da novembre scorso in pensione, è uscito pulito dalla vicenda relativa alla gestione del caso della presunta “Loggia Ungheria” con un’archiviazione rimediata in virtù della «infondatezza», secondo il gup di Brescia, delle accuse mosse dal pm Paolo Storari, colui che raccolse le dichiarazioni di Amara lamentando l’inerzia dei vertici del Palazzo di Giustizia. Presunta inerzia che lo spinse a consegnare quei verbali all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo.

L’opinione di Palamara, però, è diversa. E forse lo era anche quella del Csm, stando al suo racconto, al punto da ipotizzare una “trappola” nella quale qualcuno avrebbe voluto coinvolgerlo. Il fatto, inedito, riguarda la sua convocazione proprio a Palazzo dei Marescialli, che ad ottobre del 2020 aveva decretato la sua espulsione dall’ordine giudiziario per i fatti dell’Hotel Champagne e il mercato delle nomine. «Siamo nel marzo del 2021, il libro Il Sistema è in giro da due mesi e sta minando l’ipocrita equilibrio di chi prova a salvarsi dal caso Palamara. Per di più, come abbiamo visto, sotto la cenere cova la brace della loggia Ungheria sfuggita dalle mani al procuratore di Milano Francesco Greco. Con mia grande sorpresa mi convoca, dall’oggi al domani, la prima commissione del Csm, quella che si occupa delle incompatibilità dei magistrati – racconta -. Mi presento, la presidente è Elisabetta Chinaglia (della corrente Area, la stessa di Greco, ndr), entrata al Csm grazie alle dimissioni di consiglieri coinvolti nel mio caso. Pronti via, la prima domanda che mi fa è contro Francesco Greco. Resto incredulo, la guardo negli occhi e vorrei dirle: ma lei signora, mi prende per un cretino?».

La sensazione di Palamara è chiara: qualcuno vuole usarlo. Anzi, ne è convinto. E chiarificatrice, per lui, è la domanda che gli viene posta, che nulla ha a che fare con la vicenda Ungheria e arriva a tempo quasi scaduto rispetto alla carriera di Greco, ma anche a notevole distanza dai fatti dell’Hotel Champagne, per i quali i procedimenti disciplinari sono ormai avviati da un pezzo. La domanda di Chinaglia è precisa: «Mi chiede: quando lei era al Csm Francesco Greco le ha mai dato indicazione, o lei si è mai accordato con Francesco Greco, per la nomina dei procuratori aggiunti di Milano?». Palamara è consapevole che per affossare Greco basterebbe una sillaba, che distruggerebbe anzitempo la sua carriera, ormai agli sgoccioli. «Un mio sì e Greco sarebbe morto all’istante. Penso: è della stessa corrente di Greco, è arrivata dove è arrivata all’interno della spartizione tra le correnti – lo so, c’ero e l’ho fatto – con cui si nominano i procuratori e i loro vice, e viene a fare a me questa domanda. Mi sembrava di essere su Scherzi a parte. Controllo lo sdegno e la rabbia e rispondo “ovviamente no”. Delusione generale, ma ancora oggi mi chiedo: chi in quel momento voleva fare fuori Greco – ovviamente Chinaglia stava solo eseguendo degli ordini – a pochi mesi dalla pensione? Anche perché dalle domande successive era palese che qualcuno voleva mettere in difficoltà Greco per il suo rapporto con Laura Pedio, la pm che aveva interrogato Amara sulla loggia Ungheria insieme a Storari, ma che a differenza di Storari non dava di matto per accelerare l’inchiesta».

L’obiettivo, dunque, non è solo Greco, ma forse anche Pedio. La cui posizione a Brescia è ancora aperta e che, nonostante questo, continua ad avere in mano il fascicolo sul “Falso complotto Eni”. Della nomina di Pedio, avvenuta nel 2017, Palamara ammette di averne parlato con Greco, al quale la magistrata era vicina: «Per me era fisiologico farlo, faceva parte del mio ruolo di regista del Sistema». L’interrogatorio di Palamara finisce nel buco nero del segreto, che Chinaglia raccomanda vivamente all’ex pm di mantenere. Un’ipocrisia che l’ex zar delle nomine non manca di evidenziare, ricordando come tutto, a tempo debito, sia uscito fuori dalle stanze di Palazzo dei Marescialli, compresa l’audizione del procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, sulle intercettazioni mancanti nel caso Palamara, in particolare quella riguardante il suo incontro con l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Insomma, un clima surreale, quasi si tentasse di nascondere la polvere, per l’ennesima volta, sotto il tappeto, in una situazione che gli appare ridicola anche per un altro fatto: la vera domanda, afferma, avrebbe dovuto riguardare proprio la nomina di Greco.

«Invece di chiedermi dei vice di Greco avrebbe dovuto chiedermi: scusi, ma lei nel 2016 ha per caso trattato o partecipato a trattative per la nomina del procuratore Greco? E io avrei risposto: certo che sì, con lui direttamente, con molti di voi che oggi sedete qui a fare i miei giudici». E snocciola anche altri nomi: di quella nomina, afferma, parlò anche «con l’attuale presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, allora membro laico del Csm in quota Forza Italia, e poi con l’attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando, all’epoca dei fatti ministro della Giustizia e mio referente informale per le politiche giudiziarie nel Pd. E ultimo, non in ordine di importanza, anche con l’attuale presidente del tribunale vaticano Giuseppe Pignatone, allora procuratore di Roma». Una nomina in continuità con l’uscente Bruti Liberati e contro chi, invece, «cercava un papa straniero per provare a intaccare quella fortezza autonoma che era la procura di Milano». Alla fine vinse Greco, candidato di sinistra, al termine di «un lavoro certosino», frutto di incontri a tutti i livelli, con il placet anche dei laici del centrodestra, che «convogliarono su Greco, evidentemente ritenuto il minore dei mali».

Il caso verbali

La procura di Milano, all’epoca di questa audizione, è già lacerata dalla vicenda Amara. Una vicenda che, secondo Palamara, non sarebbe stata gestita in maniera chiara. Da un lato, a distanza di due anni, sulla presunta Loggia nulla è ancora stato chiarito a livello giudiziario, dall’altro la stampa ha silenziato la vicenda sino ad aprile scorso, quando il quotidiano Domani ha rotto il silenzio tirando in ballo le consulenze dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Solo allora iniziarono a parlarne anche Repubblica e Fatto Quotidiano, che quei verbali li avevano ricevuti mesi prima, spediti in forma anonima – secondo la procura di Roma – dall’ex segretaria di Davigo. Plichi che però i giornalisti consegnarono subito in procura, temendo una polpetta avvelenata. Una scelta incomprensibile per Palamara, secondo cui per verificare molte delle notizie contenute in quegli atti segreti sarebbero bastati pochi attimi. «Mi domando: ma se in quelle carte ci fossero stati nomi altisonanti della politica italiana, attuali leader, i giornali avrebbero fatto la stessa melina? E soprattutto: la procura di Milano prima e il Csm poi si sarebbero comportati allo stesso modo, cioè avrebbero tenuto tutto fermo tutto per due anni? Oppure i leader politici sarebbero stati iscritti nel registro degli indagati un secondo dopo?».

La risposta, sembra dire tra le righe Palamara, è no. Le strade possibili erano due: iscrivere Amara per calunnia o indagare su tutti coloro indicati come appartenenti alla loggia, in un lasso di tempo che va da uno a un massimo di sei mesi. «Le faccio un esempio, così capiamo meglio come funziona: dalla sera in cui alla questura di Milano è scoppiato il caso Ruby al giorno in cui Ilda Boccassini ha chiesto non un avviso di garanzia bensì il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi sono passati solo sei mesi. E invece noi oggi dopo due anni non sappiamo nulla, o peggio ci si è mossi con avvisi di garanzia per appartenenza a una loggia segreta solo nei confronti di alcune delle persone citate da Amara, i soliti Verdini e Bisignani, come se esistessero cittadini di serie A e altri di serie C. Ma gli italiani hanno diritto di saperne di più. Conte c’entra, sì o no? E la Severino, e Lotti? Se la risposta è “no” ci vuole un pezzo di carta che lo dica».

La vicenda, intanto, ha fatto cadere il prestigio e la credibilità di quelli che Palamara definisce «due mostri sacri del Sistema: la procura di Milano da una parte, Davigo e il suo mondo dall’altra. Più che un crollo è un terremoto, anche per i giornali che lì avevano i loro terminali. Conosco per esperienza diretta le triangolazioni tra magistrati e giornali. Dover mettere in discussione la rettitudine di Davigo per “il Fatto Quotidiano”, giornale su cui Davigo scrive, è un colpo al cuore. E lo stesso vale per il “Corriere della Sera” nei confronti di Greco». E forse è anche per questo che i giornali, in questa vicenda, si sono mossi in maniera strana, dopo aver pubblicato per anni qualunque cosa in barba a qualsiasi segreto istruttorio: «Ricorda la regola del tre raccontata nel Sistema? – spiega Palamara – Per gestire il potere ci vogliono tre elementi: una procura, un uomo della polizia giudiziaria o dei servizi segreti e un giornalista. E questa che stiamo raccontando è una storia in cui l’informazione ha agito o non agito a orologeria».

Il ragionevole dubbio. Appello Eni, la procura generale sbarra la strada al pm De Pasquale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Febbraio 2022. 

Non ci sarà il pubblico ministero Fabio De Pasquale sullo scranno dell’accusa al processo d’appello che si terrà nel prossimo autunno nei confronti dei dirigenti Eni, assolti in primo grado il 17 marzo 2021. La procuratrice generale di Milano Francesca Nanni ha deciso diversamente, affidando il ruolo dell’accusa a Celestina Gravina, magistrato di esperienza non seconda a quella di De Pasquale e che, almeno quanto lui, conosce la materia. Un doppio schiaffo morale per il pm che vanta nel suo curriculum la soddisfazione di esser stato l’unico ad aver portato alla condanna definitiva di Silvio Berlusconi fino alla sua espulsione dal Senato.

Il primo schiaffo deriva dal fatto che De Pasquale nel processo Eni-Nigeria aveva messo l’anima, la sua parte più pura e anche quella più discutibile, che lo vede oggi indagato a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio, e anche oggetto di attenzione da parte della prima commissione del Csm che lo ha ascoltato a lungo nella giornata di lunedì, prima di decidere una sua eventuale incompatibilità con la sua permanenza in procura. Situazione non facile, per un pm che a Milano ha costruito tutta la sua carriera e la sua reputazione di uomo di sinistra inflessibile e senza paura di nessuno. Neanche del “dominus” Di Pietro, ai tempi di Mani Pulite, tanto da mettersi con lui in competizione per la gestione di un certo indagato e non aver timore di prenderlo a urlate nel corridoio.

Ma la ferita che oggi brucia di più è dovuta al fatto che De Pasquale teneva così tanto a questo processo da non aver avuto la forza di mettersi da parte dopo la sconfitta processuale subita nel primo grado. Tanto da non limitarsi a fare il ricorso in appello, cosa che in un paese da Stato di diritto non dovrebbe neanche essere consentita al pubblico ministero, se gli imputati sono stati assolti. Se il “ragionevole dubbio” avesse un senso. Ma il pm De Pasquale ha voluto strafare, chiedendo alla procura generale di essere proprio lui, personalmente, a rappresentare di nuovo l’accusa, anche nel secondo grado. La legge non lo vieta, purtroppo, e la contraddizione con il principio del “ragionevole dubbio”, che sta alla base della decisione del giudice, è palese. Come evitare, soprattutto nei processi di grande impatto mediatico, che l’opinione pubblica non veda da parte degli uffici dell’accusa una sorta di accanimento, se lo stesso pm, cioè la stessa persona in carne e ossa che è uscita sconfitta dal processo di primo grado, dà la sensazione di cercare di “rifarsi” nel secondo?

Una vittima di questo meccanismo è stato per esempio il povero Angelo Burzi, l’ex consigliere e assessore di Forza Italia in Regione Piemonte, morto suicida nello scorso dicembre, il cui testamento politico aveva rappresentato un atto d’accusa sull’amministrazione della giustizia. Burzi era finito, insieme a tanti, nella tenaglia dei processi chiamati “Rimborsopoli”. Era stato assolto in primo grado da un tribunale la cui presidente Silvia Begano Bersey, in seguito deceduta, era stata da lui apprezzata nelle sue lettere d’addio come “magistrato simbolo della terzietà del giudice”. Era poi accaduto l’imprevisto, l’imprevedibile. Il procuratore Giancarlo Avenati Bassi, che aveva sostenuto l’accusa nel primo processo, aveva chiesto e ottenuto di sedere sullo stesso scranno una seconda volta, fino a che aveva potuto portare a casa la soddisfazione del vedere condannati gli imputati.

E i dubbi ragionevoli? Pareva non averne avuti neppure il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo, il quale, piccato per la grande evidenza data dai giornali sul suicidio di Burzi e dalla diffusione delle sue lettere, aveva inondato le redazioni con un comunicato di due pagine che parevano una requisitoria. In cui aveva ignorato persino il fatto che una sua ex prestigiosa collega, stimata da tutti e compianta da numerosi messaggi su la Stampa quando era deceduta, aveva scritto parole molto precise e inoppugnabili sulla non colpevolezza degli ex assessori e consiglieri regionali piemontesi.

Possiamo dire, in senso lato, che Claudio De Scalzi, Paolo Scaroni e gli altri imputati dell’Eni che, se pur assolti “oltre ogni ragionevole dubbio” il 17 marzo 2021, torneranno di nuovo alla sbarra il prossimo autunno, sono stati più “fortunati” di Angelo Burzi. Perché la procuratrice generale di Milano Francesca Manni ha spezzato il meccanismo della coazione a ripetere che avrebbe potuto portare di nuovo Fabio De Pasquale sulla poltrona dell’accusatore nell’appello Eni-Nigeria. Lui aveva motivato la richiesta con l’esperienza e la conoscenza delle carte. Forse sottovalutando tutto quel che quel processo, con accuse e contro-accuse tra toghe, ha pesato per Milano e la sua procura. Tanto da aver comportato l’apertura di inchieste giudiziarie da parte della procura della repubblica di Brescia, competente nelle cause che riguardano i magistrati milanesi.

De Pasquale dovrà, insieme all’ex collega Fabio Storaro, dare tante le spiegazioni. Si dovrà accertare se i due pm d’aula del processo Eni hanno tenuto nascoste prove importanti a discarico degli imputati, e se hanno “protetto” le testimonianze di due personaggi discutibili come Pietro Amara e Vincenzo Armanna anche quando erano palesi le loro intenzioni calunniatorie. Che continuano a emergere, anche in questi giorni. Certo non migliorerà il suo umore sapere che quel ruolo di pg nel processo d’appello Eni sarà assunto dalla collega Celestina Gravina. Proprio lei che, nell’aprile dell’anno scorso, a ridosso della sentenza che aveva assolto Scaroni e De Scalzi, aveva svolto il ruolo dell’accusa nell’appello di un filone dello stesso processo, quello nei confronti di Gianluca Di Nardo e Emeka Obi, considerati intermediari della tangente Eni, che erano stati giudicati a parte perché avevano scelto il rito abbreviato. Il primo grado erano stati condannati. Ma nel secondo grado la procuratrice Gravina aveva completamente rovesciato l’ipotesi dell’accusa.

Intanto partendo all’attacco della Procura della repubblica per “l’enorme dispiego e spreco di risorse” che l’ufficio allora retto da Francesco Greco aveva dedicato alla vicenda Eni. E poi per la testimonianza di Vincenzo Armanna, quello che per i pm De Pasquale e Storari era un collaboratore preziosissimo. E che la pg invece considerava “un avvelenatore di pozzi bugiardo”, uno “che mescola verità e bugie”, “totalmente inaffidabile”. Poi, dopo aver spiegato a pm a giudici gli errori commessi anche nella qualificazione dei reati, la stoccata finale. “Sono stati assunti superficialmente dei fatti privi di prova fondati sul chiacchiericcio, sulla maldicenza, su elementi che mai sono stati valorizzati in alcun processo penale”.

Era stata inseguita “un’impostazione ideologica”, era stata la conclusione. Una bella lezione. L’assoluzione dei due imputati era stata richiesta e ottenuta. Queste sono le premesse di quel che sarà il processo d’autunno. Che forse si sarebbe potuto evitare, evitando anche l’ulteriore dispendio di denaro. Comunque andrà quel dibattimento, aver spezzato quella tentazione da parte del pm che perde il processo ad andare a rifarsi in appello, è stato un bel gesto da parte della procuratrice generale di Milano. Grazie, dottoressa Francesca Nanni. Chissà che non abbia aperto una strada che eviti, un domani, altre tragedie come quella di Angelo Burzi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Si erano tanto amati...La famiglia Travaglio si sfascia: finisce in “rissa” tra Davigo e Ardita. Paolo Comi su Il Riformista il 4 Febbraio 2022. 

È finito nel peggiore dei modi, a “carte bollate”, il legame fra Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita. Dopo aver condiviso per anni tutte le scelte dell’ex idolo di Mani pulite, Ardita ha deciso ieri di costituirsi parte civile nel processo che vede Davigo, insieme al pm milanese Paolo Storari, imputato a Brescia con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio per i verbali delle dichiarazioni di Piero Amara sulla loggia Ungheria.

I due magistrati erano stati nel 2015 tra i fondatori di Autonomia&indipendenza, la corrente nata dalla scissione da Magistratura indipendente, il gruppo di destra all’epoca guidato da Cosimo Ferri, ora deputato di Italia viva. Proprio la leadership di Ferri era stata fra i motivi della separazione. Il rapporto fra loro si consolidò nel 2017 allorquando scrissero insieme il libro Giustizialisti, così la politica lega le mani alla magistratura, edito da Paperfirst, la casa editrice del Fatto Quotidiano. L’anno successivo, poi, si candidarono al Consiglio superiore della magistratura, venendo eletti entrambi. Per Davigo si trattò di un plebiscito, dal momento che circa 2500 toghe indicarono il suo nome sulla scheda.

Tutto sembrava andare per il meglio fino allo scoppio del Palamaragate e delle indagini della Procura di Perugia. Interrogato dal procuratore Raffaele Cantone il 19 ottobre del 2020, il giorno stesso giorno in cui al Csm si stava discutendo della sua permanenza a Palazzo dei Marescialli anche dopo il compimento dei settanta anni, età massima per il trattenimento in servizio dei magistrati, Davigo esternò infatti grande imbarazzo nei confronti Ardita, raccontando particolari inediti del loro rapporto. Davigo disse che Ardita, volendo fare proselitismo a Roma, dove A&i era debole, in vista delle elezioni dell’Anm, aveva organizzato a marzo del 2019 un pranzo con l’ex pm Stefano Rocco Fava e un altro pm. Durante il pranzo si parlò di questione associative e “non posso escludere che si parlò delle problematiche dell’ufficio di Roma”. “Escludo categoricamente che il dottor Fava mi disse che voleva presentare un esposto contro Pignatone e Ielo. Ovviamente se mi avesse detto che intendeva presentare un esposto contro Ielo, me ne sarei ricordato, visto che conosco quest’ultimo da anni”, precisò Davigo.

“Ha parlato con Ardita dell’esposto presentato da Fava contro Pignatone?”, aggiunse Cantone. “Ho parlato con Ardita dell’esposto contro Ielo e non contro Pignatone una volta uscite le intercettazioni”, rispose Davigo per poi aggiungere: “Siccome lo avevo visto agitato dopo la pubblicazione delle intercettazioni, gli chiesi di indicarmi se aveva avuto un ruolo nel gestire tale esposto. Lui mi disse che il suo ruolo era stato istituzionale”. “Perché Ardita era preoccupato?”, chiese allora Cantone “Io non posso spiegare interamente la vicenda, in quanto coperta da segreto d’ufficio”, rispose secco Davigo. E ancora Cantone: “Il dottor Ardita esternò le ragioni delle sue preoccupazioni?” Davigo: “Questa è la parte coperta da segreto d’ufficio su cui non posso rispondere”. Per poi sparare il colpo: “Si tratta della ragione per cui non parlo più con il consigliere Ardita dal marzo del 2020. Non mi spiegavo le ragioni delle sue preoccupazioni in quanto ho sempre pensato ‘male non fare, paura non avere’”.

A cosa si riferiva Davigo? Quale segreto non poteva essere rivelato e ha costretto l’ex pm di Mani pulite a togliere il saluto ad Ardita? Per avere la risposta bisognerà aspettare qualche mese, quando diventeranno di dominio pubblico i verbali di Amara che aveva rivelato ai magistrati milanesi l’esistenza della loggia Ungheria. Verbali consegnati da Storari, che aveva interrogato Amara, a Davigo proprio a marzo del 2020. E chi avrebbe fatto parte di questa loggia paramassoniaca? Ardita. Davigo iniziò a far girare al Csm questi verbali. Il contenuto venne portato a conoscenza del vice presidente del Csm David Ermini, di diversi togati, del procuratore generale Giovanni Salvi. Un comportamento che ha fatto andare su tutte le furie Ardita.

“È evidente che qualunque cittadino ha il diritto che il proprio nome non venga fatto oggetto di divulgazione pubblica di notizie relative a una indagine finché quella indagine non trovi discovery e conclusione – ha detto il legale di Ardita -. Nel caso di specie, senza le condotte illecite compiute dai due imputati Ardita non avrebbe subìto la massiva infamante divulgazione di quelle informazioni riservate. E il fatto che Amara avesse indicato Ardita quale componente della presunta loggia Ungheria sarebbe diventato di pubblica conoscibilità solo al momento in cui i magistrati avessero attestato l’infondatezza di quelle dichiarazioni e avessero proceduto per calunnia a carico di Amara”. Paolo Comi

Caso Amara, Di Matteo e i verbali su Davigo: "Aggredì verbalmente Ardita e..." Da Affari Italiani il 5 febbraio 2022.

Le verità dell'ex pm di Palermo sulla vicenda della procura di Roma nei verbali pubblicati da Il Fatto Quotidiano

Verbali di Amara, Di Matteo: "Davigo disse ad Ardita che o votava Prestipino o stava con Ferri & co"

Novità sui verbali di Amara, con la posizione di Nino Di Matteo che emerge nelle sue deposizioni, riportate in maniera dettagliata da il Fatto Quotidiano. In particolare quelle che riguardano Piercamillo Davigo, ex consigliere del Csm ed ex pm, indagato a Brescia per rivelazione di segreto in merito alla vicenda dei verbali di Amara consegnati dal pm di Milano, Paolo Storari.

Il Fatto riporta il racconto di Di Matteo, che riprendiamo qui in modo parziale, sul processo di scelta prima del voto per la procura di Roma. “Davigo iniziò chiedendoci che posizione intendevamo assumere in vista della votazione del 4 marzo e, quando sia io che Ardita (...) manifestammo un orientamento in favore di un candidato diverso da Prestipino, la riunione assunse toni particolarmente accesi”. Di Matteo la definisce “una vera e propria aggressione verbale” nei confronti di Ardita. “Alzò la voce in maniera molto decisa contro Ardita, orientato semmai a votare Creazzo. Non criticò il mio orientamento, avendo io una posizione di indipendente all’interno del gruppo (...). Ebbe una reazione furibonda e con un tono di voce alterato disse chiaramente ad Ardita, ripetendolo più volte, che se avesse votato per Creazzo ‘sarebbe stato automaticamente fuori dal gruppo’ (...). Gli disse: ‘Se non voti per Prestipino vuol dire che stai con quelli dell’hotel Champagne’. 

Prosegue Di Matteo, come riportato da il Fatto: “Contestai a Davigo la sua pretesa di condizionare opinioni e voti degli altri appartenenti al gruppo”. Sempre il Fatto ricorda come "il giorno della votazione Pepe e Marra si schierarono con Davigo votando Prestipino. Io e Ardita facemmo una scelta diversa”. E il Fatto conclude: "Di Matteo ritiene importante questo episodio: pensa che forse Davigo conoscesse il contenuto dei verbali di Amara già a febbraio e quindi prima di qualsiasi inerzia nelle iscrizioni dei vertici della procura".

Amara accusato di calunnia per il “falso complotto Eni”. E Genchi difende Armanna. Piero Amara e Vincenzo Armanna, difeso da Gioacchino Genchi, sono accusati di aver calunniato l'avvocato Luca Santa Maria, ex legale di uno degli imputati. Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

È stata aggiornata al 4 aprile l’udienza preliminare, davanti al gup di Milano Carlo Ottone De Marchi, a carico di Piero Amara, Vincenzo Armanna, rispettivamente ex legale esterno ed ex manager di Eni, e altre persone accusate di calunnia nei confronti dell’allora avvocato dello stesso Armanna, il legale Luca Santa Maria, in una tranche dell’inchiesta sul cosiddetto «falso complotto Eni». Ieri la parte offesa della presunta calunnia, l’avvocato Santa Maria, ha chiesto la citazione come responsabile civile di Eni e il gup l’ha disposta. La società nella prossima udienza potrà chiedere l’esclusione dal procedimento.

Nel frattempo, il nuovo legale di Armanna, Gioacchino Genchi, ex consulente di tanti pm ed esperto nell’analisi delle intercettazioni, ha sollevato una questione preliminare relativa al telefono sequestrato ad Armanna, già oggetto di una consulenza tecnica dei pm. E da cui erano emerse chat finite anche al centro dello scontro tra il pm Paolo Storari, un tempo titolare con l’aggiunto Pedio del fascicolo ‘falso complottò, e l’aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, ora alla Procura europea, che hanno coordinato le indagini che hanno portato al processo Eni-Shell/Nigeria, finito con 15 assoluzioni.

La Procura ha chiesto il processo per Amara, Armanna, per l’ex direttore degli affari legali della compagnia petrolifera Massimo Mantovani e altre tre persone, che rispondono anche a vario titolo di intralcio alla giustizia, induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e false informazioni a pm.

Secondo l’accusa, sarebbe stata depositata «nelle mani del Procuratore della Repubblica di Milano una e-mail dal contenuto calunnioso» con la quale Amara e Armanna avrebbero incolpato, «consapevoli della sua innocenza», l’avvocato Santa Maria «di infedele patrocinio nei confronti di Armanna» di cui era il difensore. Il 10 dicembre scorso, poi, l’aggiunto Pedio e i pm Civardi e Di Marco hanno anche chiuso il filone principale (tra gli indagati sempre Amara e Armanna) delle indagini sul cosiddetto “falso complotto Eni”.

Il poliziotto dei misteri e l'avvocato dei misteri: Armanna nomina Genchi suo nuovo difensore. Luca Fazzo il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex consulente di De Magistris ha ricevuto l'incarico di rappresentare l'imputato ora alla sbarra: dopodomani l'udienza davanti al giudice.

Adesso, anche se un po' in ritardo, arriva il momento del redde rationem: quello in cui la stagione di veleni che ha attraversato la magistratura italiana esce dai corridoi delle Procure e dalle trame di corrente per uscire alla luce del sole, in processi pubblici. Sperando che almeno qualche pezzo di verità venga a galla. Qualche anticipazione si era avuta l'altro ieri, con l'udienza preliminare a Brescia a carico dell'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Piercamillo Davigo e del pm Paolo Storari, imputati entrambi di rivelazione di segreto d'ufficio per avere divulgato i verbali del «pentito» Piero Amara sulla loggia Ungheria. Ma il piatto forte arriva dopodomani, quando davanti al giudice milanese Ottone De Marchi inizierà un'altra udienza preliminare: quella a carico proprio dell'avvocato Amara e del suo collega Vincenzo Armanna. Sono i due protagonisti del complotto che ha intorbidito il processo Eni, e i cui veleni si sono poi estesi a macchia d'olio nella Procura di Milano. Per anni la Procura ha trattato con i guanti i due avvocati siciliani, poi si è rassegnata a chiedere il loro rinvio a giudizio per calunnia. Amara è in carcere, Armanna è a piede libero e difficilmente si presenterà in udienza. Dalla linea difensiva dei due, già protagonisti di doppi e tripli giochi, dipende in parte la possibilità di capirci qualcosa.

A ridosso dell'udienza contro la strana coppia arriva una novità tutta da interpretare. Vincenzo Armanna ha fatto pervenire al giudice la nomina di un nuovo difensore, e non è un avvocato qualunque. Si chiama Gioacchino Genchi, faceva il funzionario di polizia e divenne famoso come consulente del pm Luigi De Magistris nelle gigantesche inchieste Poseidone e Why Not, e della procura di Palermo sulle stragi. In quella veste, Genchi ha attraversato molti misteri d'Italia. Anche perché il software da lui utilizzato gli permetteva di mettere in collegamento protagonisti e comprimari di indagini diversissime, disegnando reti quasi sterminate di complicità. Il Garante per la privacy calcolò che Genchi aveva accumulato l'incredibile totale di 351 incarichi dalle Procure, e lo accusò di avere conservato illecitamente i dati in una sorta di data base parallelo, multandolo per 192mila euro: multa annullata dal tribunale di Palermo con una sentenza confermata pochi giorni fa dalla Cassazione. Ma di Genchi è rimasta la descrizione che ne fece Ilda Boccassini testimoniando al processo Stato-Mafia: «Non mi piaceva, diffidavo di lui. Era una persona pericolosa per le istituzioni, aveva conservato un archivio con i tabulati raccolti, vedeva complotti e depistaggi ovunque».

Adesso il poliziotto dei misteri difende l'avvocato dei misteri. Cosa ne salterà fuori?

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Caso Eni, duello fra le Procure di Milano e Brescia sul telefono di Vincenzo Armanna. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 3 febbraio 2022.  

Milano lo consegna dopo che Brescia minaccia sequestri. L’udienza su Storari e Davigo 

Le Procure della Repubblica di Brescia e Milano a un passo dal replicare lo scontro Salerno-Catanzaro, quando nel 2008 l’una sequestrò all’altra atti di cui le era stata rifiutata la consegna: e alla fine di un teso carteggio attorno al cellulare dell’ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, la situazione si sblocca dopo che Brescia ventila l’alternativa di venirselo a prendere non con le buone, dopo che il reggente della Procura milanese Riccardo Targetti esercita «moral suasion» sui colleghi, e dopo che il procuratore generale Francesca Nanni lascia intendere di essere pronta a esercitare i propri poteri in caso di contrasti tra uffici. Milano consegna allora il cellulare a Brescia, che lo chiedeva peraltro nell’interesse del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale, indagato nell’ipotesi che non avesse voluto depositare al processo Eni-Nigeria alcune chat del telefono di Armanna dalle quali il pm Paolo Storari traeva indici di calunniosità di Armanna ai danni di Eni.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 4 febbraio 2022.

Le Procure della Repubblica di Brescia e Milano a un passo dal replicare lo scontro Salerno-Catanzaro, quando nel 2008 l'una sequestrò all'altra atti di cui le era stata rifiutata la consegna: e alla fine di un teso carteggio attorno al cellulare dell'ex dirigente Eni Vincenzo Armanna, la situazione si sblocca dopo che Brescia ventila l'alternativa di venirselo a prendere non con le buone, dopo che il reggente della Procura milanese Riccardo Targetti esercita «moral suasion» sui colleghi, e dopo che il procuratore generale Francesca Nanni lascia intendere di essere pronta a esercitare i propri poteri in caso di contrasti tra uffici.

Milano consegna allora il cellulare a Brescia, che lo chiedeva peraltro nell'interesse del procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale, indagato nell'ipotesi che non avesse voluto depositare al processo Eni-Nigeria alcune chat del telefono di Armanna dalle quali il pm Paolo Storari traeva indici di calunniosità di Armanna ai danni di Eni. 

A Brescia De Pasquale si era difeso sia contestando il significato annesso da Storari a quelle chat, sia affermando che comunque non sarebbe stato tecnicamente possibile estrarre dal cellulare e depositare in tribunale solo quelle chat. Perciò il procuratore bresciano Francesco Prete aveva deciso una perizia sul telefono, chiedendone a Milano una copia integrale.

Ma Milano non la consegna: perché trova generica la richiesta, adduce la privacy dell'indagato nei recenti orientamenti di Cassazione sui sequestri di telefoni, e valorizza che la gip milanese Anna Magelli già abbia rigettato analoga richiesta di Eni. Ma Brescia obietta di non poter essere assimilata a un privato come Eni, e torna a chiedere collaborazione, lasciando trasparire altrimenti il sequestro.

Targetti, che guida i pm di Milano dopo la pensione di Greco, li esorta a evitare uno scontro così violento e l'onta di un sequestro, oltretutto per una richiesta nell'interesse della difesa di De Pasquale. 

La pg Nanni a sua volta fa presente i propri poteri di coordinamento e chiede di essere aggiornata per valutare se esercitarli. A questo punto il telefono viene consegnato a Brescia dalla firma dei pm Stefano Civardi e Monia Di Marco, non anche del procuratore aggiunto Laura Pedio.

Che a Milano è titolare dell'indagine contenente il telefono di Armanna chiesto da Brescia, e nel contempo a Brescia è indagata (per ipotesi di tardiva indagine su Armanna per calunnia) in un fascicolo in cui peserà l'esito della perizia sul telefono. 

A Brescia ieri è intanto iniziata l'udienza preliminare nella quale la gup Federica Brugnara deve decidere se rinviare a giudizio per rivelazione di segreto Storari e l'ex consigliere Csm Piercamillo Davigo, al quale Storari nell'aprile 2020 consegnò i verbali resi da un sodale di Armanna, l'avvocato Piero Amara, sull'asserita associazione segreta «loggia Ungheria».

Respinta l'istanza di Davigo di svolgere l'udienza in pubblico anziché in camera di consiglio, la giudice ha invece accolto la costituzione di parte civile del consigliere Csm Sebastiano Ardita: motivata, spiega il legale Fabio Repici, dal fatto che le condotte di Storari (consegna) e Davigo (divulgazione a molti consiglieri Csm e all'onorevole Morra) sarebbero state le premesse di «una operazione mirata di discredito ai danni di Ardita, cercando perfino di condizionarne il ruolo e l'intero Csm». Davigo ha chiesto di essere interrogato lunedì, Storari si è fatto interrogare ieri ripetendo le ragioni per le quali si indusse a consegnargli i verbali di Amara: la decisione della giudice potrebbe arrivare il 17 febbraio.

Loggia Ungheria, il legale di Ardita: «Davigo agì per screditarlo». Oggi l’udienza preliminare del processo contro l’ex consigliere del Csm e il pm Storari. Il magistrato catanese ammesso come parte civile. Simona Musco su Il Dubbio il 4 febbraio 2022.

Una resa dei conti interna al Csm. E l’occasione per chiarire cosa sia avvenuto nel Palazzo di Giustizia di Milano, diventato nel giro dell’ultimo anno teatro di uno scontro senza esclusioni di colpi, che ha visto schierarsi l’uno contro l’altro colleghi della stessa procura e perfino il procuratore. Può essere interpretato così il processo aperto ieri a Brescia, dove si è tenuta la prima udienza preliminare sulla diffusione dei verbali dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, “pentito” le cui dichiarazioni un giudice dello stesso tribunale ha già definito «fluide e generiche», non nascondendo dubbi sulla sua credibilità. A comparire davanti al gup Federica Brugnara sono stati l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo (difeso dall’avvocato Francesco Borasi) e il pm milanese Paolo Storari (assistito da Paolo Dalla Sala), accusati di rivelazione di segreto d’ufficio per aver diffuso i verbali di Amara sull’esistenza della presunta loggia Ungheria. Un processo delicatissimo, che rappresenta anche il confronto (forse) finale tra due ex amici – Davigo e il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, fondatore assieme a lui della corrente “Autonomia e Indipendenza” -, data la decisione del gup di ammettere il magistrato catanese come parte civile.

L’accusa

L’udienza preliminare arriva dopo l’archiviazione della posizione dell’ex procuratore Francesco Greco, accusato da Storari di aver ritardato le iscrizioni sul registro degli indagati, accusa infondata, secondo il gup Andrea Gaboardi. Proprio per tale inerzia, Storari, che stava sentendo Amara nell’ambito dell’indagine sul “falso complotto Eni”, decise di consegnare, ad aprile 2020, quegli atti segreti, senza firma e senza timbro, all’allora consigliere del Csm, convinto di un voluto lassismo da parte di Greco e dell’aggiunta Laura Pedio nel procedere con le prime iscrizioni sul registro degli indagati. Secondo i magistrati di Brescia, Davigo avrebbe violato «i doveri inerenti alle proprie funzioni» abusando «della sua qualità di componente del Csm», pur avendo «l’obbligo giuridico ed istituzionale» di impedire «l’ulteriore diffusione» dei verbali di Amara. Anche perché l’ex pm di Mani Pulite non si limitò a ricevere i verbali ma ne «rivelava il contenuto a terzi», consegnandoli senza alcuna «ragione ufficiale» al consigliere del Csm Giuseppe Marra, con lo scopo «di motivare la rottura dei propri rapporti personali con il consigliere Sebastiano Ardita», che in realtà è precedente alla vicenda Amara.

Ma non solo: l’ex pm ne avrebbe parlato anche ad un’altra consigliera del Csm, Ilaria Pepe, per «suggerirle “di prendere le distanze”» da Ardita, invitandola a leggerli; con il consigliere Giuseppe Cascini, al quale Davigo ha chiesto «un giudizio sull’attendibilità» di Amara, mentre ai consiglieri Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna avrebbe riferito di una «indagine segreta su una presunta loggia massonica, aggiungendo che “in questa indagine è coinvolto Sebastiano Ardita”». Ma non solo: quei verbali furono consegnati anche al vicepresidente David Ermini, che «ritenendo irricevibili quegli atti» immediatamente «distruggeva» la «documentazione», pur riferendo il fatto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ad essere informati furono anche un componente esterno al Csm, Nicola Morra, presidente della Commissione nazionale antimafia, per chiarire i motivi dei «contrasti insorti tra lui» e Ardita, e le due segretarie di Davigo, Marcella Contrafatto – che secondo la procura di Roma avrebbe spedito anonimamente quei verbali al consigliere del Csm Nino Di Matteo e alla stampa – e Giulia Befera.

La scelta di Ardita

Il consigliere del Csm, assistito dall’avvocato Fabio Repici, ha dunque scelto di prendere parte al processo, per via degli «evidenti danni» derivati da quella fuga di notizie. «Risulta in atti – si legge nell’atto di costituzione di parte civile – che entrambi gli imputati fossero consapevoli che le dichiarazioni di Amara, tanto più quelle sul dottor Ardita, potessero essere false e, anzi, calunniose». Secondo quanto dichiarato dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, nonché da Cascini e Marra, alla procura di Brescia, Davigo avrebbe raccolto «altri elementi che deponevano per la falsità delle dichiarazioni» su Ardita. «È evidente che qualunque cittadino ha il diritto che il proprio nome non venga fatto oggetto di divulgazione pubblica di notizie relative a una indagine finché quella indagine non trovi discovery e conclusione – ha aggiunto Repici -. Nel caso di specie, senza le condotte illecite compiute dai due imputati il dottor Ardita non avrebbe subìto la massiva infamante divulgazione di quelle informazioni riservate». Secondo il legale, dunque, Davigo avrebbe agito con «dolo» con il fine «di screditare il ruolo istituzionale di consigliere del Csm» di Ardita «e la sua immagine personale e professionale», attraverso «una pervicace operazione mirata di discredito – ha aggiunto -, cercando così perfino di condizionarne il ruolo di consigliere del Csm e addirittura arrivando a condizionare l’intero Csm». E sul punto ha citato quanto riferito da Ilaria Pepe, «che ha affermato di essere rimasta “condizionata” dalle informazioni illecite rivelate dal dottor Davigo sul dottor Ardita e che in conseguenza di ciò troncò i rapporti» con lui. Dunque, «è circostanza incontrovertibilmente accertata la commissione di quelle condotte da parte degli imputati (che al riguardo sono rei confessi)», ha aggiunto Repici, che ha chiesto «l’affermazione della responsabilità penale degli imputati» e il risarcimento di tutti i danni subiti.

Interrogato Storari

Ieri, in aula, è stato il giorno di Storari, che è stato sentito per diverse ore dal gup. «Sono lieto come cittadino dell’archiviazione di Francesco Greco ma questo non interferisce in modo inevitabile con la posizione del mio assistito», ha affermato Dalla Sala al termine dell’udienza, senza però aggiungere nulla sulle dichiarazioni del pm, data la scelta del gup di respingere la richiesta di Davigo di svolgere il processo a porte aperte. L’ex pm si era richiamato alla Corte di Strasburgo, secondo cui «la pubblicità è di per sé una garanzia: questa vicenda è di interesse pubblico e siccome io non ho nulla da nascondere pretendo l’udienza a porte aperte». Ma il giudice ha respinto la richiesta, proseguendo in camera di consiglio. La prossima udienza è prevista il 7 febbraio, giorno in cui sarà proprio Davigo a raccontare la sua verità.

Le dichiarazioni di Amara «fluide e generiche»: ecco perché Greco è stato archiviato. Nel decreto d'archiviazione sul caso Greco, il gup di Brescia palesa forti dubbi sulle affermazioni di Piero Amara in merito all'esistenza della presunta Loggia Ungheria. Simona Musco su Il Dubbio il 2 febbraio 2022.

Le dichiarazioni di Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni e “autore” delle dichiarazioni sull’esistenza di una presunta loggia segreta denominata “Ungheria”, sarebbero fluide e generiche e praticamente prive di riscontri concreti. È quanto emerge dal decreto di firmato dal gup di Brescia Andrea Gaboardi, che ha disposto l’archiviazione dell’ex procuratore di Milano, Francesco Greco, indagato per aver ritardato le iscrizioni sul registro degli indagati dei presunti appartenenti alla loggia. Accusa che era stata mossa dal pm Paolo Storari – indagato assieme all’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo per rivelazione di segreto d’ufficio -, che lamentava l’inerzia dei vertici della procura di fronte alle gravi affermazioni dell’ex legale, ritenuto dal giudice, di fatto, poco credibile.

Nelle 27 pagine del decreto sono molti gli aspetti che emergono e che aggiungono un tassello ad una vicenda contorta, che ha provocato un vero e proprio terremoto nella procura meneghina. Il giudice, nello spiegare per quale motivo ritenga «infondata» la notizia di reato, ricostruisce gli scambi tra il pm e i suoi colleghi, ovvero l’aggiunta Laura Pedio, all’epoca co-titolare del fascicolo sul “Falso complotto Eni” ( anche lei indagata), e il procuratore Greco. Scambi che evidenzierebbero un clima disteso e tranquillo e nessun lassismo in merito all’iscrizione dei primi indagati, tra i quali lo stesso Amara, smentendo dunque, secondo il gup, l’ipotesi che si volesse tutelare uno degli accusatori di Eni mentre era in corso il processo (conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati) sulla presunta maxi tangente pagata in Nigeria.

Gaboardi non nasconde i dubbi su Amara, evidenziando il «contenuto assai “fluido’ e generico» delle sue dichiarazioni, limitandosi «perlopiù ad elencare ( con asserti il più delle volte confusi e de relato) le occasioni e le vicende in cui si sarebbe dispiegato il potere di influenza dell’evocata associazione». Il tutto «senza fornire elementi circostanziali di particolare pregnanza e ( soprattutto) immediatamente verificabili, i quali fossero dotati di specifica valenza indiziante circa l’esistenza stessa dell’associazione».

Ad autoaccusarsi di far parte della loggia anche l’ex socio di Amara, l’avvocato Giuseppe Calafiore, che ascoltato dalla procura il 4 e il 14 febbraio 2020 riferiva di possedere una lista degli affiliati alla loggia e consegnava tre file audio che contenevano dialoghi ritenuti utili alle indagini. Altro presunto affiliato Alessandro Ferraro, stretto collaboratore di Amara, che convocato dalla procura per consegnare l’elenco dei presunti affiliati non si è però mai presentato, lasciando quella lista avvolta dal mistero. Secondo Storari, il ritardo nelle indagini avrebbe impedito di «assumere iniziative istruttorie tempestive e adeguate alla gravità e alla complessità dei fatti riferiti da Amara».

Agli atti della procura di Brescia – che ha chiesto l’archiviazione di Greco – vi sono diversi scambi di email e messaggi whatsapp che dimostrerebbero, però, un clima tutt’altro che negativo. Scambi che partono dal dicembre 2019 e si protraggono oltre l’iscrizione dei primi indagati – Amara, Calafiore e Ferraro -, avvenuta a maggio 2020, molti dei quali, sostiene Storari, non avrebbero «mai ottenuto risposta, neppure oralmente». Motivo per cui, ad aprile del 2020, Storari si rivolse all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo, a cui consegnò i verbali di Amara. Quei verbali, come noto, finirono a diversi giornalisti, che però si rivolsero alla procura, senza pubblicare il contenuto delle dichiarazioni di Amara.

Nei suoi messaggi, Storari evidenziava l’urgenza di avviare l’indagine con l’iscrizione dei primi indagati, lamentando un pericoloso ritardo, date anche le pesanti affermazioni di Amara, secondo cui la loggia sarebbe stata in grado di condizionare nomine ai più alti livelli, dal Csm ai vertici delle Forze di Polizia. Il tutto «sempre tenendo la mente aperta alla possibile calunnia» da parte di Amara. Pedio, che aveva manifestato perplessità sulla competenza territoriale, evidenziando la necessità di «definire il procedimento Eni con priorità assoluta», sottolineò l’esigenza di informare Greco. Da lì una serie di ulteriori scambi, tra i quali quello del 27 aprile, con il quale Storari proponeva una prima lista di soggetti sui quali indagare, tra i quali non compariva, però, lo stesso Amara.

Dopo due rinvii, il primo incontro di coordinamento fu convocato l’ 8 maggio 2020, all’esito del quale sarebbero avvenute le prime iscrizioni sul registro degli indagati, formalizzate il 12 maggio. Da qui il coordinamento con la procura di Perugia, alla quale poi è stato trasmesso il fascicolo per competenza territoriale, a dicembre del 2020. Per il gup, da un lato non ci sarebbe stato un espresso rifiuto da parte di Greco né ostracismo. Sarebbe toccato, anzi, a Storari e Pedio procedere.

A ciò si aggiunge il fatto che per formalizzare l’iscrizione sarebbe servito un preventivo approfondimento, «contrariamente a quanto sostenuto, in via solitaria e con sbrigativa sicurezza, dal consigliere Davigo nel corso del suo interrogatorio in data 7.7.2021», dato che le dichiarazioni «piuttosto anodine» di Amara si sostanziavano «in meri elementi di sospetto, da valutare peraltro con un approccio ispirato alla massima prudenza». All’epoca dei fatti, dunque, «l’obbligo di iscrizione non era ancora sorto in costanza dell’attività di valutazione e riscontro degli elementi di sospetto introdotti da Amara, attività funzionale a verificare l’idoneità degli stessi a fungere da indizi e, in quanto tali, a dar corpo ad una notizia di reato».

Secondo il gup, infatti, non appare «sostenibile né che dalle dichiarazioni rese da Amara nei citati interrogatori (di per sé sole considerate) fossero ricavabili specifici elementi indizianti di condotte partecipative (a vario titolo) ad un’associazione segreta – si legge – né che i suddetti magistrati, prima di iscrivere la notizia di reato in data 12.5.2020, siano stati colpevolmente inerti». E la necessaria attività di preliminare verifica «doveva, peraltro, nel caso di specie essere condotta con estrema prudenza e cautela, considerata la scarsa affidabilità soggettiva del dichiarante, coinvolto in altre gravi vicende penali (a Roma e a Messina) da forme di indebita interferenza su processi in corso ( e poi rivelatosi, sulla base degli accertamenti effettuati proprio da Storari nel prosieguo delle indagini, totalmente inattendibile)». 

Loggia Ungheria, archiviazione per Greco. Storari e De Pasquale rischiano il trasferimento. Ieri la Prima Commissione del Csm in missione a Milano per audire il pm Storari e l’aggiunto De Pasquale: rischiano un trasferimento per incompatibilità ambientale. Simona Musco su Il Dubbio l'1 febbraio 2022.

Il gip di Brescia ha archiviato l’indagine sull’ex procuratore di Milano Francesco Greco, indagato per omissione di atti d’ufficio per il caso dei verbali dell’avvocato Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria. Il giudice Andrea Gaboardi ha depositato ieri mattina il suo provvedimento di 27 pagine, con cui ha accolto la richiesta avanzata dal procuratore Francesco Prete e dal pm Donato Greco, che nei mesi scorsi hanno invece chiesto il rinvio a giudizio dell’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e del pm Paolo Storari, accusati di rivelazione del segreto d’ufficio per aver fatto circolare, nella primavera del 2020, quei verbali. Il decreto di archiviazione verrà prodotto all’udienza preliminare fissata il 3 febbraio davanti al gup Federica Brugnara.

LEGGI ANCHE: Davigo denuncia Greco per l’intervista al Corriere della Sera

L’iscrizione di Greco era stata presentata come un atto dovuto a seguito delle denunce formulate davanti ai pm bresciani da Storari, che aveva lamentato l’inerzia dei vertici della procura nell’apertura del fascicolo sulla presunta associazione segreta. Una scelta, secondo il pm, dettata dalla necessità della procura di tutelare la credibilità di Amara e Vincenzo Armanna, grande accusatore di Eni, ritenuto però dal Tribunale di Milano, che ha assolto tutti gli imputati del processo Eni- Nigeria, un inquinatore di pozzi. Storari, a febbraio 2021 secondo quanto emerso dalle precedenti audizioni davanti al Csm – avrebbe preparato una bozza di richiesta di misura cautelare per calunnia a carico di Amara, Armanna e Giuseppe Calafiore. Richiesta mai controfirmata da Greco e dall’aggiunta Laura Pedio (anche lei indagata) e, pertanto, rimasta in un cassetto. Storari, dunque, consegnò i verbali a Davigo con l’intento di «autotutelarsi», convinto di poter così smuovere le acque al Csm.

Quei verbali, però, furono spediti a due quotidiani, nonché al consigliere del Csm Nino Di Matteo, che denunciò pubblicamente la circostanza, ipotizzando un’operazione di dossieraggio ai danni del consigliere togato Sebastiano Ardita, indicato da Amara tra i membri della loggia, circostanza smentita da Ardita e confutata anche dalle incongruenze delle dichiarazioni dell’ex avvocato.

Il Csm interroga Storari e De Pasquale

Nel frattempo ieri la prima commissione del Csm si è recata a Milano per sentire il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e Storari, nei confronti dei quali è stata aperta dal Csm una procedura per incompatibilità ambientale e funzionale, dopo i contrasti sorti tra i magistrati milanesi per la gestione del procedimento Eni.

Anche De Pasquale, assieme al collega Sergio Spadaro (ora passato alla procura europea), è indagato per la gestione delle prove del caso Eni, con l’ipotesi di rifiuto d’atti d’ufficio. La Prima Commissione ha sentito a lungo i due magistrati, con l’intento di capire cosa abbia generato le frizioni all’interno della Procura e se la serenità del luogo di lavoro possa essere stata compromessa. Motivo per cui ha ascoltato anche l’aggiunta Alessandra Dolci, capo della Dda, il dipartimento di Storari, e il procuratore facente funzione Riccardo Targetti.

L’anno scorso, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi aveva già chiesto il trasferimento cautelare di Storari sulla base di tre presupposti: il mancato rispetto delle procedure, la scorrettezza nei confronti dei vertici dell’ufficio e la mancata astensione nell’indagine sulla fuga di notizie. E a ciò aveva aggiunto «la risonanza mediatica» delle condotte di Storari, esigenza cautelare non prevista dal codice di procedura penale. La Prima Commissione, in quell’occasione, respinse la richiesta, evidenziando come non ci fosse alcuna incompatibilità ambientale, anche sulla scorta della lettera con la quale una sessantina di pm si erano schierati dalla sua parte.

Dal fascicolo Eni alla Loggia Ungheria. Il Csm indaga a Milano due anni dopo gli scandali, sentiti Storari e De Pasquale. Paolo Comi su Il Riformista l'1 Febbraio 2022. 

Il Consiglio superiore della magistratura ha deciso – finalmente – che è giunto il momento di verificare quale sia il clima al Palazzo di giustizia di Milano. A distanza di quasi due anni da quando esplosero i primi scontri fra i pm, il Csm ha inviato ieri a Milano una nutrita delegazione con il compito di procedere alle loro audizioni. Una trasferta “a scoppio ritardato” dal momento che il procuratore Francesco Greco, che ha gestito in prima persona quella fase conflittuale, è andato in pensione da oltre due mesi, ed il facente funzioni Riccardo Targetti farà lo stesso fra poche settimane.

Diversi i fronti che saranno toccati della delegazione composta dai laici Alberto Maria Benedetti (M5s) e Michele Cerabona (FI), e dai togati Paola Maria Braggion, Nino Di Matteo, Elisabetta Chinaglia e Carmelo Celentano. Ad esempio, la posizione del pm Paolo Storari, l’erede di Ilda Boccassini. Il magistrato aveva accusato i colleghi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro di aver frenato le indagini sulle dichiarazioni rilasciate da Piero Amara, l’ex avvocato esterno dell’Eni. Amara aveva descritto con dovizia di particolari l’esistenza di una associazione paramassonica, la loggia Ungheria, che avrebbe avuto lo scopo di pilotare le nomine dei magistrati al Csm e di aggiustare i processi. «Questo fascicolo dobbiamo tenerlo chiuso nel cassetto per due anni», sarebbero state le parole di De Pasquale, capo del dipartimento che si occupa di corruzione internazionale, a Storari.

Amara era stato interrogato molte volte alla fine del mese di dicembre del 2019 da Storari e dalla vice di Greco, Laura Pedio. L’avvocato esterno del colosso petrolifero aveva elencato oltre quaranta nomi fra alti magistrati, generali, professionisti, avvocati, che avrebbero fatto parte di questa loggia super segreta. Storari, riletti i verbali, aveva quindi chiesto ai suoi capi di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e l’acquisizione dei tabulati telefonici. Alle richieste investigative di Storari sarebbe seguito un rifiuto perché, sempre secondo il diretto interessato, all’epoca vi era una precisa linea da parte dei vertici della Procura di Milano che prevedeva di “salvaguardare” Amara da possibili indagini per calunnia, dal momento che costui poteva tornare utile come teste in altri processi.

Tutte le prove raccolte sull’ex manager dell’Eni Vincenzo Armanna, tra cui chat falsificate e molto altro, finite nel fascicolo sul cosiddetto “falso complotto Eni”, inoltre, non vennero prese in considerazione da Greco, De Pasquale, Pedio e Spadaro, e di conseguenza non furono depositate nel processo per corruzione a carico dell’ad Claudio Descalzi, poi assolto con formula piena. Anche in questo caso perché Armanna, “grande accusatore” dei vertici del cane a sei zampe, non poteva correre il rischio di essere “screditato”. De Pasquale e Spadaro a seguito di ciò sono stati iscritti nel registro degli indagati per omissione di atti d’ufficio a Brescia. I due si sono difesi dicendo che non era tecnicamente possibile il deposito di tali chat: la copia forense del cellulare di Armanna non avrebbe permesso stralci delle sue conversazioni senza disvelarne tutto il contenuto in un momento in cui le investigazioni erano in corso.

Il procuratore di Brescia Francesco Prete ed il pm Donato Greco, titolari del fascicolo, preso atto delle loro dichiarazioni, hanno ottenuto dal giudice sei mesi di tempo in più per «per verificare l’attendibilità di Storari» e decidere se De Pasquale e Spadaro dovranno essere processati o meno. In questa vicenda sono stati indagati anche l’ex procuratore Greco, per il quale il gip di Brescia ieri ha disposto l’archiviazione, e anche l’aggiunto Pedio, titolare del fascicolo “falso complotto”, a cui viene contestata, tra l’altro, la gestione di Vincenzo Armanna, grande accusatore dei vertici Eni.

Terminate le audizioni, verosimilmente già questa mattina, la delegazione di Palazzo dei Marescialli farà ritorno a Roma. E solo allora si saprà se qualche pm sarà costretto a lasciare Milano per incompatibilità ambientale o, invece, tutto sarà stato risolto. La nomina del nuovo procuratore di Milano, invece, è attesa a breve. Quando andrà in pensione Targetti, vista l’anzianità di servizio, a succedergli come facente funzioni dovrebbe essere proprio De Pasquale. Un incarico che scatenerebbe polemiche a non finire alla luce delle accuse che gli pendono sulla testa. Paolo Comi

 Craxi aveva ragione: si arrestano fra loro. Luca Fazzo il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Non è solo una coincidenza se in questi stessi, tumultuosi mesi da due versanti della vita giudiziaria del Paese arrivano cronache che sembrano dare corpo, a oltre vent'anni di distanza, alla cupa profezia di Bettino Craxi.

Non è solo una coincidenza se in questi stessi, tumultuosi mesi da due versanti della vita giudiziaria del Paese arrivano cronache che sembrano dare corpo, a oltre vent'anni di distanza, alla cupa profezia di Bettino Craxi: «Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Il film catastrofico che ha per set la Procura di Milano, l'implosione di quello che fu il tempio del pool Mani Pulite, non per caso arriva pochi mesi dopo che su Roma si è abbattuto il «ciclone Palamara», il cui eroe eponimo - trasformatosi in un lampo da accusato a accusatore - ha rivelato a un'incredula opinione pubblica il marcio che regnava nel Consiglio superiore della magistratura. I due psicodrammi sono intimamente legati, ognuno illumina l'altro e aiuta a comprenderlo. E non solo perché vi ricorrono nomi e volti, a partire da quelli dei grandi mestatori, gli avvocati Amara e Armanna: che nonostante le apparenze sono personaggi minori nell'economia generale, maschere da commedia di cui l'Italia pullula, pronte a svolgere due o tre o quattro parti in contemporanea. No, a unire i due film nella stessa trama - e non si capisce bene quale sia il prequel e quale il sequel - sono i meccanismi che hanno reso possibile tutto quanto, la trasformazione della Procura di Milano in una palestra di agonismo giudiziario e del Csm in un covo di traffici e accordi: ovvero il trionfo all'interno della magistratura italiana del correntismo e della autoreferenzialità, il ripudio organizzato e santificato di qualunque forma di controllo democratico sull'esercizio del potere giudiziario. Solo l'autocrazia del sistema in toga - a partire dal suo braccio secolare, l'Associazione nazionale magistrati, talmente potente da ridurre a volte in posizione subalterna il Csm - ha permesso che le posizioni dominanti venissero occupate sistematicamente dagli uomini delle correnti. Solo l'impermeabilità a qualunque refolo di rinnovamento ha consentito che a Milano lo stesso gruppo di magistrati gestisse senza soluzione di continuità per trent'anni la Procura della Repubblica. Il Consiglio superiore ha benedetto questa occupazione un po' per pavidità, e un po' perché funzionale al sistema di valori che nel Csm lottizzato aveva la sua consacrazione. Ora crolla tutto, e c'è poco da gioirne. C'è semmai da restare stupiti di quanto le correnti organizzate dei giudici non si rendano conto che la loro epoca è finita. Chissà se dopo l'esito sorprendente del referendum indetto dall'Anm domenica scorsa, con il 41 per cento che vota a favore del sorteggio del Csm, qualcuno inizierà a farsi delle domande.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

L'irriducibile De Pasquale ossessionato dal processo Eni. Luca Fazzo il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il pm senza freni: dopo il flop in primo grado, voleva sostenere l'accusa bis in Appello. Fermato dalla Pg. Arrivati a questo punto, forse solo uno studioso di dinamiche mentali può capire il percorso che ha portato la Procura di Milano, e in particolare il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, a trasformare le indagini sull'Eni in una questione di vita o di morte; a fare della condanna per corruzione internazionale un obiettivo che rendeva lecito omettere le prove, premere sui giudici, assoldare come testimoni d'accusa personaggi inaffidabili. Ieri, mentre il Consiglio superiore della magistratura si prepara a tirare le fila della sua indagine sui veleni milanesi, emerge un documento significativo. É firmato dal procuratore generale di Milano, Francesca Nanni, e segna una nuova sconfitta per De Pasquale: ma è un colpo che il procuratore aggiunto si sarebbe risparmiato, se avesse preso atto più serenamente dell'assoluzione dei vertici dell'Eni.

Contro la sentenza che il 17 marzo scorso riconobbe l'innocenza dell'ad di Eni, Claudio Descalzi, e del suo predecessore Paolo Scaroni, De Pasquale aveva proposto, come prevedibile, il ricorso in appello. Ma aveva aggiunto una richiesta: di essere lui a rappresentare anche in appello la pubblica accusa. Solo io, diceva in sostanza De Pasquale, conosco per intero lo sterminato fascicolo, solo io posso dimostrare la colpevolezza di Eni.

Ebbene, il procuratore generale gli risponde che non è affatto così. Le carte di Eni le conosce altrettanto bene un altro magistrato, il sostituto pg Celestina Gravina, che ha gestito il processo d'appello «nei confronti di due imputati per lo stesso fatto, affrontando lo studio del copioso materiale probatorio raccolto». Il problema è che in quel processo la Gravina «ha presentato conclusioni contrastanti con le richieste contenute nell'atto d'appello del dottor De Pasquale»: ovvero ha chiesto e ottenuto l'assoluzione dei due imputati perché «il fatto non sussiste». Quindi nell'aula del processo d'appello a Descalzi e Scaroni, previsto per il prossimo autunno, ci andrà lei, la Gravina. E De Pasquale dovrà rassegnarsi a vederla chiedere la conferma delle assoluzioni che per lui costituiscono - nella migliore delle ipotesi - un colossale errore giudiziario.

Ammesso e non concesso che per quella data De Pasquale sia ancora al suo posto di procuratore aggiunto. Sulla sua testa pesa la proposta della prima commissione del Csm di dichiararlo «incompatibile» con la Procura milanese, come pure il collega che si è scontrato più frontalmente con lui, il pm Paolo Storari. Gli interrogatori dell'altro ieri, in un palazzo di giustizia blindato, hanno convinto il Csm che invece De Pasquale e Storari possono continuare a convivere serenamente nella stessa Procura? Sulla decisione finale del Consiglio superiore peserà, insieme alle colpe dei singoli, l'intero quadro - per alcuni aspetti disarmante - delle lacerazioni cui la Procura milanese è andata incontro nella gestione dei fascicoli sull'Eni e sulla fantomatica «loggia Ungheria» descritta da Piero Amara, ex avvocato di Eni.

Sono i verbali che Storari consegnò a Piercamillo Davigo - finendo per questo anche lui sotto inchiesta - accusando il suo capo Francesco Greco di non permettergli di indagare né su Amara né sulla loggia. Anche Greco era finito per questo sotto indagine, lunedì la sua posizione è stata archiviata: nel provvedimento il gip di Brescia scrive che risultano «smentite o comunque grandemente ridimensionate le propalazioni accusatorie di Storari in ordine a presunti ritardi o inerzie degli organi di vertice della procura di Milano». Nel provvedimento si scopre che oltre che iscrivere nel registro degli indagati Amara e il suo collega Vincenzo Armanna, Storari intendeva indagare per associazione segreta anche alcuni dei personaggi indicati da Amara come appartenenti alla loggia, tra cui l'ex vicepresidente del Csm Michele Vietti e l'allora presidente del Consiglio di Stato Giuseppe Patroni Griffi. Ma per il gip fece bene Greco a andarci piano, trattandosi di «meri elementi di sospetto, da valutare con un approccio ispirato da massima prudenza».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Il Csm fa il processo ai pm. E la Procura diventa un bunker. Luca Fazzo l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Trasferta della I Commissione per interrogare Storari e De Pasquale. Rischiano il trasferimento punitivo.

Neanche quando venne interrogato Berlusconi la Procura di Milano era così blindata. Il momento topico del disastro che ha investito la giustizia ambrosiana, con i pm-indagati Fabio De Pasquale e Paolo Storari interrogati dal Consiglio superiore della magistratura in trasferta al nord, deve avvenire lontano da sguardi indiscreti. Corridoi e scale chiuse, carabinieri a bloccare i varchi. Come se evitando la pubblicità si alleggerisse di un'oncia la gravità di quanto è accaduto.

Sul tavolo c'è da decidere la sorte di De Pasquale, procuratore aggiunto, uno degli uomini più potenti della Procura; e del soldato semplice Paolo Storari, che contro De Pasquale e la sua gestione dei processi all'Eni è partito con furia donchisciottesca. Sono finiti tutti e due nei guai: De Pasquale con l'accusa di avere nascosto prove che scagionavano Eni, Storari per avere passato illegalmente a Piercamillo Davigo le carte che facevano capire come i testimoni usati da De Pasquale fossero dei conclamati ciarlatani. I guai di De Pasquale e Storari viaggiano su tre binari: c'è l'inchiesta penale a Brescia, c'è il procedimento disciplinare. E poi c'è la terza strada, più blanda ma anche più insidiosa, imboccata dal Csm per cercare di disinnescare il caso Milano: la procedura di trasferimento per incompatibilità. Nelle settimane scorse è stata notificata a entrambi l'avvio di una procedura per la rimozione dall'incarico.

È quest'ultima procedura che ieri porta una intera commissione del Consiglio - la prima, presieduta dal pm palermitano Nino Di Matteo - in missione a Milano. I due vengono sentiti a lungo, assistititi da loro legali. Una serie di interrogatori erano già stati fatti prima dell'estate. Ma poi, a quanto si capisce, il Csm si è spaccato. Le correnti di centro e di destra, Unicost e Magistratura Indipendente, erano convinti della necessità di mandare un segnale forte, cacciando De Pasquale dalla carica di procuratore aggiunto; ma Area, ovvero la sinistra, si è opposta risolutamente. D'altronde il baffuto pm per un pezzo di magistratura è l'eroe dei processi a Berlusconi, l'unico che ha ottenuto la condanna del Cav. Farlo fuori non è facile. Ma quanto emerso in queste settimane sulla sua gestione dei processi ai vertici Eni è difficile da insabbiare.

Con la missione di ieri a Milano, il Csm sembra preparare una doppia botta, bilanciando il provvedimento contro De Pasquale con quello contro Storari: di fronte al gigantesco pasticcio, si colpiscono i due più esposti dei fronti in lotta. Certo, per dichiarare Storari incompatibile con la Procura milanese ci sarà da superare l'ostacolo della raccolta di firme con cui quasi all'unanimità i suoi colleghi sono intervenuti in sua difesa. Ma la Procura di Milano è ormai da mesi senza capo, il 15 febbraio il Csm affronterà la delicata nomina del successore di Francesco Greco. Presentare al nuovo capo una Procura epurata dai reprobi potrebbe essere l'unico modo per svelenire il clima e guardare con fiducia al futuro.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

L'anomalia: Milano indagava su se stessa. Luca Fazzo l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.

I veleni di Armanna contro i pm di Eni non vennero trasmessi a Brescia

È possibile che una Procura indaghi su se stessa? Che a scavare su episodi di gravità inaudite siano i colleghi dei magistrati che ne sono rimasti vittime, o che ne sono responsabili? Ovviamente no. Eppure questo è quanto accaduto per anni a Milano, in quel gigantesco contenitore che era diventata l'indagine sul complotto che i vertici dell'Eni avrebbero organizzato per affossare le inchieste sulle tangenti distribuite in Africa. Complotto che ora si scopre non essere mai esistito se non nei piani di Piero Amara e Vincenzo Armanna (nel tondo a destra), avvocati-calunniatori, e dei loro sodali nel sottobosco del colosso del cane a sei zampe.

Almeno due, ed eclatanti, sono i passaggi in cui l'inchiesta della Procura milanese avrebbe dovuto essere interrotta e immediatamente trasmessa a Brescia, alla Procura competente per i reati commessi o subiti dai magistrati milanesi. La prima è quando in una intercettazione un sodale dei due mestatori accusa il pm Fabio De Pasquale (nel tondo a sinistra) di avere ricevuto dei soldi. La seconda è quando compare una strana mail, a firma dello stesso De Pasquale. Sulla prima, la Procura di Milano non fa nulla. Sulla seconda, avvia una serie di accertamenti per verificare se De Pasquale sia effettivamente il titolare della mail da cui è partito il messaggio.

La calunnia a carico di De Pasquale spunta nell'intercettazione che il 27 marzo 2017 la Finanza realizza all'aeroporto di Linate. A parlare sono Massimo Gaboardi, l'improbabile personaggio (tipo: sessantamila euro di debiti in sala corse) arruolato dall'avvocato Amara per le sue trame. Gaboardi incontra Gaetano Drago, un altro dell'entourage di Amara. Parlano delle indagini e degli articoli che stanno iniziando a uscire. «Da due anni De Pasquale - dice Gaboardi - sta usando Armanna per accusare quei due lì», ovvero l'amministratore delegato Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni. E poi: «Bisogna dare i soldi al pm di sotto, che oltretutto si è beccato...». Ribatte Drago: «Anche De Pasquale si è preso i soldi». Gaboardi: «Sicuramente prima». Perché i due chiamano in causa il procuratore aggiunto di Milano? Sanno di essere ascoltati e vogliono far transitare il loro fango nelle trascrizioni? L'intercettazione dovrebbe essere subito mandata a Brescia, perché incrimini i due. Invece non succede niente, e il dialogo rimane sepolto per anni nel gigantesco faldone del procedimento sul presunto complotto.

Ancora più surreale è quanto avviene quando sul cellulare di Vincenzo Armanna, l'altro ex avvocato di Eni oggi imputato per calunnia, spunta lo screenshot di una mail che sembra provenire da De Pasquale, e che denoterebbe una confidenza eccessiva tra magistrato e indagato. È lo stesso telefono che custodisce molti dei segreti di Armanna, compresa la falsa chat con Descalzi. Il pubblico ministero milanese Paolo Storari, che ha fatto sequestrare lo smartphone dell'avvocato, inizia una serie di accertamenti sulla casella di posta fabio.depasquale@gmail.com, da cui pare provenire il messaggio per Armanna. Partono le rogatorie in direzione di Google, per capire se l'intestatario sia effettivamente il pm milanese. Emergono una serie di omonimi, tra cui un pilota residente a Doha, ma che non ha mai avuto contatti con Armanna in vita sua. Il 10 febbraio dell'anno scorso, la Guardia di finanza scrive alla Procura di Milano che l'accertamento «non ha rilevato alcun collegamento tra il citato Fabio De Pasquale e gli eventi relativi al procedimento penale in oggetto né tantomeno ha individuato alcuna evidenza su eventuali contatti intercorsi tra lo stesso e l'indagato Armanna. Pertanto non si può escludere che lo screenshot della mail inviata dall'account fabio.depasqualeatgmail.com non sia riferibile ad una reale comunicazione pervenuta all'indagato quanto piuttosto ad una mera indagine artefatta».

Armanna, insomma, avrebbe realizzato al computer una finta mail, in modo tale che sembrasse inviata dal pm che in quel momento indagava su Eni. È un episodio inquietante, di cui evidentemente De Pasquale è vittima. E tutto doveva venire trasmesso immediatamente a Brescia. Ma il processo Eni, basato anche sulle rivelazioni di Armanna a De Pasquale, sarebbe stato compromesso. Così la finta mail rimase lì, nei cassetti della Procura milanese. E i miasmi di quel veleno contribuirono ad appestare il clima.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

(ANSA il 14 gennaio 2022) - Il pm di Milano Paolo Storari rischia il trasferimento d'ufficio. La Prima Commissione del Csm gli ha aperto la relativa procedura per incompatibilità ambientale e funzionale. Non è la prima iniziativa che viene presa da Palazzo dei marescialli nei confronti dei magistrati che sono stati protagonisti dei contrasti alla procura di Milano: un'altra procedura pende nei confronti del pm Fabio De Pasquale. Entrambi saranno ascoltati dalla Prima Commissione per difendersi dalle contestazioni mosse nei loro confronti, a fine gennaio, durante una trasferta in programma a Milano nell'ultima settimana di gennaio.

(ANSA il 10 gennaio 2022) - E' stata archiviata la posizione dell'ex Procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco, finito indagato a Brescia per omissione di atti d'ufficio per il caso dei verbali dell'avvocato Piero Amara su una presunta loggia Ungheria. Il gip Andrea Gaboardi ha accolto la richiesta di archiviare Greco avanzata lo scorso ottobre dal Procuratore Francesco Prete e dal pm Donato Greco, titolari di una inchiesta più ampia che riguarda da un lato l'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e il pm milanese Paolo Storari e, dall'altro, gli aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale e il pm, ora alla procura europea, Sergio Spadaro.

Guerra permanente in magistratura. Il Csm silura Storari: dopo il danno la beffa per il Pm che voleva indagare sulla loggia Ungheria. Angela Stellasu Il Riformista il 16 Gennaio 2022. 

Non c’è pace alla Procura di Milano: il pubblico ministero del capoluogo lombardo Paolo Storari rischia il trasferimento d’ufficio. Come riferisce l’Ansa, la Prima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura gli ha aperto la relativa procedura per incompatibilità ambientale e funzionale. Non è la prima iniziativa che viene presa da Palazzo dei marescialli nei confronti dei magistrati che sono stati protagonisti dei contrasti alla procura milanese: un’altra procedura pende nei confronti del pm Fabio De Pasquale. Entrambi saranno ascoltati dalla Prima Commissione, per difendersi dalle contestazioni mosse nei loro confronti, a fine gennaio.

A quanto si è appreso – riferisce sempre l’Ansa – la contestazione della Prima Commissione a Storari non coinciderebbe con quella disciplinare, già esaminata qualche mese fa. Stavolta infatti l’attenzione non sarebbe puntata sui verbali consegnati a Davigo ma su come il magistrato ha esercitato il suo ruolo di pm con riferimento ai contrasti all’interno della procura. Durante la trasferta milanese di fine mese la Prima Commissione del Csm ascolterà anche altri magistrati milanesi: l’obiettivo dei consiglieri – che hanno compiuto nei mesi scorsi già diverse audizioni, sentendo per tre volte anche Greco – è capire se le ferite aperte nell’ufficio si sono rimarginate, conclude l’Ansa. Lo scontro alla procura di Milano è nato attorno alla gestione del procedimento Eni. Ed era venuto alla luce con la consegna da parte di Storari dei verbali dell’avvocato Piero Amara all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo per “autotutela”.

Come ormai noto, l’ex legale esterno dell’Eni aveva fatto delle dichiarazioni a Storari in merito ad una presunta loggia, detta Ungheria, della quale avrebbero fatto parte personalità di rilievo. Storari aveva chiesto ai vertici della sua procura di verificare prontamente quelle parole ma, a suo dire, ogni approfondimento era stato ritardato. A quel punto aveva consegnato i verbali a Davigo. Proprio per questa vicenda Storari era stato messo sotto procedimento disciplinare: il Procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi aveva chiesto per lui anche il trasferimento cautelare, ma la scorsa estate la Sezione disciplinare del Csm aveva respinto la richiesta, sostenendo che non ci fosse stato nessun «comportamento gravemente scorretto» da parte del pm nei confronti del Procuratore Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio e nessuna accusa nei loro confronti di «inerzia investigativa».

Semmai – era scritto agli atti – nei colloqui con Davigo, Storari aveva espresso una «preoccupazione […] sulle modalità di gestione del procedimento» relativo ai verbali Amara «in presenza di una chiara divergenza di vedute». L’intera vicenda ha dato origine anche a un procedimento penale a Brescia: i magistrati titolari hanno chiesto il rinvio a giudizio per rivelazione del segreto d’ufficio per Storari e Davigo (l’udienza preliminare si aprirà il prossimo 3 febbraio), ma a seguito delle dichiarazioni rese da Storari c’è un’inchiesta aperta anche nei confronti di De Pasquale, dell’aggiunto Laura Pedio e del pm, ora alla Procura europea, Sergio Spadaro. Mentre nello stesso procedimento è stata archiviata la posizione dell’ex procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco, finito indagato a Brescia per omissione di atti d’ufficio: gli era stato contestato di non aver proceduto tempestivamente con le iscrizioni delle notizie di reato dopo le rivelazioni fatte nel dicembre 2019 da Amara all’aggiunto Pedio e al pm Storari. Angela Stella

Archiviate le accuse all’ex procuratore capo di Milano Francesco Greco. Il Corriere del Giorno il 10 Gennaio 2022.

Le indagini della Procura di Brescia erano state aperte nel luglio scorso nei confronti dell’alto magistrato, che dallo scorso novembre è andato in pensione, a seguito delle dichiarazioni rese dal sostituto Storari nel corso dei precedenti interrogatori resi ai pm Prete e Donato Greco. Nei confronti di Storari è stato chiesto invece, il rinvio a giudizio per rivelazione del segreto d’ufficio in concorso con Davigo. L’udienza preliminare nei loro confronti si svolgerà il prossimo 3 febbraio.

La procura di Brescia ha chiesto ed ottenuto dal gip Andrea Gaboardi del tribunale Penale di Brescia la richiesta di archiviazione del procedimento a carico dell’ex procuratore della Repubblica di Milano Francesco Greco, indagato per delle presunte omissioni di atti d’ufficio in relazione ai verbali dell’avvocato Piero Amara sulla “fantomatica” loggia Ungheria. All’ex procuratore Greco era stato contestato di non aver proceduto tempestivamente con le iscrizioni delle notizie di reato dopo le rivelazioni fatte nel dicembre 2019 da Amara all’aggiunto Laura Pedio e al pm Paolo Storari, allora rispettivamente titolare e coassegnatario del fascicolo sul cosiddetto falso complotto Eni.

La richiesta di archiviare la posizione di Greco era stata avanzata lo scorso ottobre dal Procuratore Francesco Prete e dal pm Donato Greco, rispettivamente titolare e coassegnatario di una inchiesta più ampia che riguarda l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e il pm milanese Paolo Storari , oltre agli aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale ed il pm Sergio Spadaro nel frattempo trasferitosi alla procura europea .

Secondo la procura di Brescia non era quindi possibile uscire dal teorema “parola di uno contro parola dell’altro” riguardo a quanto sostenuto da Storari , cioè di avere verbalmente espresso già tra dicembre 2019 e aprile 2020 le stesse rimostranze alla Pedio e Greco. Ma per i magistrati bresciani era troppo breve il tempo tra la messa per iscritto a metà aprile 2020 e le prime iscrizioni nel registro degli indagati avvenuta il 13 maggio, e successiva alla telefonata a Greco del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, allertato da Davigo, per contestare a Greco una omissione di atti d’ufficio . Sono queste le motivazioni sulla base delle quali la Procura di Brescia aveva chiesto al gip l’archiviazione dell’ipotesi di reato di omissione d’atti d’ufficio per la quale aveva indagato il procuratore Greco. 

Le indagini della Procura di Brescia erano state aperte nel luglio scorso nei confronti dell’alto magistrato, che dallo scorso novembre è andato in pensione, a seguito delle dichiarazioni rese dal sostituto Storari nel corso dei precedenti interrogatori resi ai pm Prete e Donato Greco. Nei confronti di Storari è stato chiesto invece, il rinvio a giudizio per rivelazione del segreto d’ufficio in concorso con Davigo. L’udienza preliminare nei loro confronti si svolgerà il prossimo 3 febbraio.

Inoltre le insistenze del pm Storari affinché si procedesse ad avviare indagini concrete, o per riscontrare o la veridicità delle affermazioni di Amara o le calunniosità dell’ avvocato siciliano, pluri condannato ed attualmente detenuto in carcere, nei confronti delle alte personalità dello Stato da egli indicate come aderenti dell’associazione segreta, risultano messe per iscritto la prima volta soltanto a metà aprile 2020 a seguito del consiglio ricevuto dall’allora consigliere Csm Piercamillo Davigo nel momento in cui Storari gli aveva appunto espresso la propria preoccupazione e consegnato irritualmente e quindi illegalmente i verbali di Piero Amara). Sotto questo aspetto non è ravvisabile, dunque, alcuna tardività. 

Il Gip Gaboardi ha quindi accolto la tesi della Procura di Brescia non spettava al ruolo del procuratore Greco iscrivere o meno le possibili notizie di reato contenute nei verbali dell’ex avvocato Pietro Amara, legale esterno dell’ Eni sulla presunta associazione “segreta” denominata Loggia Ungheria, in quanto quel fascicolo in realtà era già coassegnato tra il procuratore aggiunto Laura Pedio, cioè una dei “vice” di Greco dotata di ampia autonomia dal procuratore ed il pm Paolo Storari.

Il procuratore di Brescia Prete e il sostituto Greco sono coassegnatari anche dell’indagine su altri due magistrati milanesi, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, cioè i pm del processo per corruzione internazionale Eni-Shell-Nigeria conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati, entrambi accusati di rifiuto d’atti d’ufficio per aver omesso di produrre le prove della falsità delle dichiarazioni di Vincenzo Armanna, ex dirigente e grande accusatore della compagnia petrolifera. 

Era indagato per omissione d'atti d'ufficio. Loggia Ungheria, archiviazione per l’ex procuratore di Milano Greco: l’indagine dopo i verbali di Amara. Riccardo Annibali su Il Riformista il 10 Gennaio 2022. 

La posizione di Francesco Greco, ex procuratore della Repubblica di Milano finito indagato a Brescia per omissione di atti d’ufficio per il caso dei verbali dell’avvocato Piero Amara su una presunta Loggia Ungheria, è stata archiviata. Il gip Andrea Gaboardi ha accolto la richiesta di archiviare avanzata lo scorso ottobre dal Procuratore Francesco Prete e dal pm Donato Greco, titolari di una inchiesta più ampia che riguarda da un lato l’ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo e il pm milanese Paolo Storari e, dall’altro, gli aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale e il pm, ora alla procura europea, Sergio Spadaro.

Era contestato all’ex procuratore Greco, di non aver proceduto tempestivamente con le iscrizioni delle notizie di reato dopo le rivelazioni fatte nel dicembre 2019 da Amara all’aggiunto Pedio e al pm Storari, allora rispettivamente titolare e coassegnatario del fascicolo sul cosiddetto falso complotto Eni.

Il filone bresciano delle indagini nei confronti dell’alto magistrato, in pensione dallo scorso novembre, erano state aperte a luglio dopo le dichiarazioni rese nel corso degli interrogatori precedenti resi ai pm Prete e Donato Greco dal sostituto Storari, nei cui confronti, invece, è stato chiesto il rinvio a giudizio per rivelazione del segreto d’ufficio in concorso con Davigo. Per i due l’udienza preliminare si aprirà il prossimo 3 febbraio.

Loggia Ungheria, chiesto il processo per Davigo e Storari: “Rivelazione del segreto d’ufficio sui verbali di Amara”

Secondo la tesi della procura di Brescia, accolta dal gip, non spettava al ruolo del procuratore Greco di iscrivere o meno le possibili notizie di reato contenute nei verbali dell’ex avvocato esterno Eni Pietro Amara sulla asserita associazione segreta denominata Loggia Ungheria, tanto più in quanto quel fascicolo era coassegnato tra un pm, Paolo Storari, e il procuratore aggiunto Laura Pedio, cioè una dei vice di Greco dotata di ampia autonomia dal procuratore.

Inoltre le insistenze di Storari affinché si procedesse finalmente ad avviare indagini concrete, o per riscontrare o la veridicità delle affermazioni di Amara o la calunniosità ai danni delle alte personalità dello Stato indicate come aderenti dell’associazione segreta, risultano messe per iscritto la prima volta soltanto a metà aprile 2020 (dopo il consiglio ricevuto dall’allora consigliere Csm Piercamillo Davigo nel momento in cui Storari gli aveva appunto espresso la propria preoccupazione e consegnato irritualmente i verbali di Amara).

Non era possibile, secondo la procura di Brescia, uscire dallo schema “parola di uno contro parola dell’altro” riguardo al fatto che Storari sostenesse di avere verbalmente espresso a Pedio e Greco le stesse rimostranze già tra dicembre 2019 e aprile 2020. E tra la messa per iscritto a metà aprile 2020 e le prime iscrizioni nel registro degli indagati il 13 maggio (successiva alla telefonata a Greco del procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, allertato da Davigo) era troppo breve il tempo, per i pm bresciani, per contestare una omissione a Greco. Riccardo Annibali

«Archiviazione per Greco», poi il Tribunale di Brescia smentisce tutto. Prima la notizia dell'archiviazione di Francesco Greco, poi la smentita del tribunale di Brescia. La decisione finale dunque non è stata ancora presa. Errico Novi Il Dubbio il'11 gennaio 2022.

È raro che la notizia sull’archiviazione di un’indagine si diffonda e che venga subito dopo smentita. È successo ieri con il fascicolo aperto a carico dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco, che sul proprio caso pare dunque debba ancora attendere la decisione del Tribunale di Brescia, competente per i procedimenti in cui siano coinvolti (o offesi) colleghi milanesi.

Nel corso della mattina era circolata, con i crismi di un’attendibile ufficiosità, la voce che il gip di Brescia avesse accolto la richiesta d’archiviazione presentata già ottobre, nei confronti di Greco, dal pm titolare dell’indagine, Donato Greco (omonimia che non semplifica la materia) e dallo stesso capo della Procura bresciana, Francesco Prete. Poche ore dopo la breve smentita del Tribunale di Brescia: l’ufficio giudicante «precisa» – in merito alle «notizie di stampa» sull’archiviazione – che il gip di Brescia assegnatario del fascicolo, «allo stato, non ha adottato alcun provvedimento sulla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero».

Non è chiaro se si tratti solo di un passaggio formale in arrivo ma non ancora completato o di un’informazione del tutto priva di riscontro nei fatti. Ma appunto colpisce come le incognite si moltiplichino proprio in relazione a indagini che riguardano magistrati. Ed è difficile non interpretare l’episodio come il segnale delle tensioni tuttora innescate, all’interno dell’ordine giudiziario, attorno alle inchieste che riguardano proprio le toghe. Greco, l’ex procuratore milanese, era stato iscritto al registro degli indagati per rifiuto d’atti d’ufficio riguardo agli interrogatori dell’avvocato Piero Amara condotti dal pm Paolo Storari.

Identiche contestazioni restano aperte a carico di una procuratrice aggiunta dell’ufficio diretto da Francesco Greco fino a poche settimane fa, Laura Pedio. Se per gli inquirenti bresciani non spettava al procuratore della Repubblica verificare che si desse seguito a ogni atto d’indagine, tale “esonero” non vale, secondo gli stessi pm, per chi come la dottoressa Pedio coordinava quel filone. I verbali di Amara sono fin qui costati l’indagine, e un’udienza preliminare già in calendario il 3 febbraio, anche allo stesso Storari e a Piercamillo Davigo per rivelazione di segreto: secondo l’accusa, il primo consegnò impropriamente gli atti sulle confessioni di Amara al secondo, che le acquisì al di fuori delle procedure corrette.

Giacomo Amadori per “La Verità" l'11 gennaio 2022.

Cortocircuito ieri al tribunale di Brescia. In mattinata l'Ansa ha annunciato l'archiviazione per l'ex procuratore di Milano, Francesco Greco, sotto inchiesta per omissione d'atti di ufficio. Nel pomeriggio il clamoroso contrordine. Lo stesso tribunale ha fatto sapere che «corre l'obbligo di precisare che il gip assegnatario del fascicolo, allo stato, non ha adottato alcun provvedimento sulla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero».

Anche se in serata l'Ansa ha confermato l'imminenza del proscioglimento, restano ancora formalmente in piedi le contestazioni di inerzia investigativa mosse a Greco dal suo pm Paolo Storari a proposito delle indagini scaturite dalle dichiarazioni del faccendiere Piero Amara che in sei verbali, stilati tra dicembre 2019 e gennaio 2020, aveva svelato i segreti della presunta loggia Ungheria.

Storari, «a suo dire esasperato, dall'inattività protratta dei vertici della Procura milanese per i primi mesi del 2020» ha riferito di aver cercato una qualche soluzione «all'impasse» consegnando all'allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo quei verbali in formato Word e «tre file relativi a intercettazioni ambientali relative a un altro indagato, l'avvocato Giuseppe Calafiore» di cui La Verità ha dato conto in esclusiva nei mesi scorsi.

Per la Procura Davigo avrebbe suggerito a Storari di mettere tutto per iscritto le sue richieste al procuratore Greco e all'aggiunto Laura Pedio «per evitare che l'omessa iscrizione si ritorcesse contro di lui quale contitolare del procedimento». E così che «dal 17 aprile 2020 inizia un sempre più serrato invio di mail rivolte ai procuratori Pedio e Greco avente per oggetto la necessità e l'urgenza di procedere alle iscrizioni e avviare concrete e proficue indagini». Iscrizioni che sarebbero arrivate il 12 maggio. 

Il procuratore di Brescia Francesco Prete non a caso sottolinea questa tempistica. Infatti l'articolo 335 del codice di procedura penale stabilisce che il pubblico ministero iscriva immediatamente la notizia di reato e il nome dell'indagato nel registro. Tuttavia la giurisprudenza disciplinare considera tempestiva l'iscrizione purché sia fatta nei trenta giorni. Per questo, dopo alcuni mesi di investigazioni, la Procura ha chiesto l'archiviazione. Che il Gip non ha ancora accolto. Storari a Brescia ha prodotto alcune mail, la prima delle quali inviata l'11 dicembre alla Pedio, «in cui avrebbe allegato alcune deleghe d'indagine ritenute necessarie». Quindi, ben prima di aprile.

Quei messaggi avrebbero dovuto essere la prova della «presunta inerzia del vertice della Procura milanese che sulle dichiarazioni di Amara avrebbero ritardato ad assumere adeguate iniziative investigative a cominciare dall'iscrizione del reato previsto» dalla legge Anselmi sulle logge segrete. Ma per i pm bresciani la circospezione della Procura meneghina non sarebbe un reato: «Circa il merito delle iscrizioni era doverosa una attenta e prudente riflessione sugli elementi forniti da Amara del quale bisognava valutare la credibilità soggettiva e soprattutto la consistenza o almeno il fumus delle accuse rivolte nei confronti di esponenti di alto profilo delle istituzioni».

In più, tra l'ultimo interrogatorio di Amara e la sua iscrizione c'era stato in mezzo il lockdown con il conseguente rallentamento delle «attività in tutti gli uffici giudiziari del Paese». Inoltre nelle chat depositate da Storari per la Procura non si rinviene «mai un atteggiamento neghittoso, ma al contrario un'adesione alle proposte di Storari accompagnata da inviti a lui rivolti di prospettare soluzioni a determinati problemi quale quello della competenza territoriale».

Per gli inquirenti «la decisione di iscrivere Amara, Calafiore e Alessandro Ferraro decisa l'8 maggio e formalizzata il 12 fu presa proprio su proposta dello stesso procuratore Greco sul presupposto che queste tre persone si fossero autoaccusate di far parte della presunta loggia e quindi la loro iscrizione era da considerarsi inattaccabile». Ma resta un piccolo mistero. Davigo ha dichiarato di aver parlato dei contrasti alla Procura di Milano con il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi e che questi avrebbe sollecitato Greco a trovare una soluzione. 

Ma la Procura di Brescia non è riuscita a dimostrare questo assunto: «Sulla decisione di procedere alle iscrizioni non ha influito il Pg della cassazione Salvi che, dal canto suo, nel ricostruire le conversazioni telefoniche con Greco ricorda, nel verbale del 16 luglio, di avere più che altro assunto informazioni circa le criticità a lui riferite senza un'espressa sollecitazione a effettuare iscrizioni».

Non è finita. Gli inquirenti hanno cercato «un significativo riscontro» di un contatto telefonico e cioè a ridosso della decisione di Greco di fare le iscrizioni. Per questo hanno acquisito i tabulati telefonici delle utenze intestate a Greco e Salvi, «ma l'unico contatto che vi compare in questi giorni è rappresentato da un sms». 

E qui c'è la stranezza più eclatante. Annota Prete: «Non è stato possibile rinvenire sul telefono del procuratore Salvi il contenuto di quel messaggio in quanto lo stesso procuratore ha dichiarato di aver smarrito l'apparecchio che aveva all'epoca» e «anche sul versante del procuratore Greco la ricerca è stata infruttuosa avendo questi a sua volta cambiato telefono dopo maggio 2020. Non vi è conferma quindi che Greco si sia indotto a effettuare le iscrizioni in quanto sollecitato dal procuratore generale della Cassazione».

Dunque la prova che avrebbe potuto dare ragione a Davigo e Storari non si è trovata perché due alti magistrati hanno dichiarato a verbale di aver perso ogni traccia del contenuto dei rispettivi cellulari. Cioè nel luglio e nel settembre 2021 entrambi non avevano più il telefonino che usavano nel maggio del 2020 e non avevano più neanche la copia del contenuto. Nella richiesta di archiviazione viene evidenziato quello che è ritenuto l'«aspetto più importante»: «La prima sollecitazione di cui abbiamo traccia è quella rivolta alla Pedio il 17 aprile 2020, mentre la prima rivolta al dottor Greco è del 27 aprile pochi giorni prima di quell'8 maggio in cui l'iscrizione viene decisa per poi essere formalizzata il 12».

Il 17 aprile Storari scrive alla Pedio: «Come ti avevo anticipato la settimana scorsa inizierei a iscrivere e fare qualche tabulato su alcuni appartenenti a Ungheria. L'ultimo interrogatorio è di gennaio e dobbiamo per forza iscrivere a quasi tre mesi di distanza siamo anche in forte ritardo secondo me. Leggendo le chat Verdini e altro qualche riscontro alle dichiarazioni di Amara iniziamo ad averlo. Fatti i tabulati e qualche riscontro su fonti aperte approfitterei per mettere sotto intercettazione qualcuno [] e ciò in considerazione del fatto che le persone sono costrette a stare a casa e si devono parlare. Tutto ciò ovviamente sempre tenendo la mente aperta a una possibile calunnia». La collega tentenna: «Dovremmo parlare anche con Francesco». E spiega che ci potrebbero essere problemi di competenza territoriale. Ma non solo: «Devo dire che qualche perplessità ce l'ho pure io anche perché dobbiamo definire il procedimento Eni con priorità assoluta. Temo che l'avvio di altra indagine ci possa impegnare eccessivamente e portare a un risultato dubbio». Non è chiaro a quale procedimento Eni faccia riferimento l'aggiunto, ma forse si tratta di quello sul cosiddetto complotto per cui ha incriminato per calunnia lo stesso Amara.

Storari insiste: «Come ti ho detto non credo che possiamo aspettare oltre a iscrivere vista la giurisprudenza sulle tardive iscrizioni e la delicatezza dell'indagine e la qualità dei soggetti coinvolti». Il momento di maggiore tensione arriva il 29 aprile, quando Greco attacca così il suo sostituto: «Se non ho capito male hai disposto iscrizioni e delega investigativa senza concordarla con il magistrato collegato. Francamente lo trovo sconcertante e non lo avevo mai visto prima». 

Storari, dopo essersi giustificato, risponde per le rime: «A me sconcerta altro».Il 7 maggio il pm fa presente di credere alle parole di Amara, sebbene in subordine, da tempo, chieda di «tenere la mente aperta a una possibile calunnia» e, contemporaneamente, lancia una pesante frecciata ai suoi capi sulla gestione del processo Eni Nigeria: «A fronte di queste dichiarazioni (di Amara, ndr) io credo si aprano due strade o iscrivere i soggetti per la legge Anselmi (quella sulle logge segrete, ndr) e iniziare a svolgere attività investigativa o iscrivere Amara per calunnia. Come ho già detto la soluzione che propongo è la prima in quanto, almeno prima face e tenendo ben aperta la mente a possibili diverse valutazioni, non credo che Amara dica il falso.

Si tratta di una valutazione che credo tu condivida anche perché si è proceduto a trasmettere alla Procura di Brescia le dichiarazioni di Amara concernenti il collega Tremolada (Marco, giudice del processo Eni-Nigeria, ndr), pur trattandosi di un de relato di secondo grado nonché ad accennare a tali dichiarazioni non citandole espressamente, e tu conosci la mia posizione sul punto, nell'elenco di domande da sottoporre ad Amara qualora lo stesso fosse stato sentito ai sensi del 507 nel processo Eni Nigeria (quando emerge qualche elemento nuovo, ndr)».

La risposta di Greco, che nel frattempo è stato contattato da Salvi, è conciliante: «Hai ragione e penso sia il caso di sentirci domani mattina alle 11 così oggi ho il tempo di leggere le tue riflessioni. Scusami, ma in questi giorni sono stato in apnea, grazie al Csm che ha rinviato di un mese il termine per l'autorelazione di conferma quadriennale ora sono più libero e rilassato».

L'8 maggio arrivano le iscrizioni. Nella richiesta di archiviazione gli inquirenti non risparmiano a Storari l'accusa di non saper lavorare in squadra: «In vista di un più proficuo sviluppo delle indagini si era proposto al dottor Storari di allargare il team dei pm assegnatari, ma la proposta non aveva trovato accoglienza proprio nel dottor Storari che aveva confermato di trovarsi bene con la Pedio». In realtà, il pm, messo di fronte al fatto compiuto, aveva commentato: «Va benissimo ovviamente, ma vorrei iniziare a fare le cose». Il 18 maggio 2020, nonostante fossero passati quattro mesi dall'ultimo interrogatorio di Amara, concretamente non era ancora stato fatto niente. 

Falso complotto Eni, Amara e Armanna sotto inchiesta per calunnia. Il Dubbio il 3 gennaio 2022. La procura di Milano chiede il processo per Piero Amara e Vincenzo Armanna, accusati di aver calunniato i vertici dell'Eni. Descalzi e Granata parti offese.

È stata fissata per il prossimo 7 febbraio l’udienza preliminare a carico di Piero Amara, Vincenzo Armanna, rispettivamente ex legale esterno ed ex manager di Eni, e altre persone accusate di calunnia nei confronti dell’allora avvocato dello stesso Armanna, il legale Luca Santa Maria, in una tranche dell’inchiesta della Procura di Milano sul cosiddetto «falso complotto Eni». Udienza che si terrà davanti al gup milanese Carlo Ottone De Marchi.

Falso complotto Eni, le accuse contro Amara e Armanna

Nelle scorse settimane la Procura ha chiesto il processo per Amara, Armanna, per l’ex direttore degli affari legali della compagnia petrolifera Massimo Mantovani e altre tre persone, che rispondono anche a vario titolo di intralcio alla giustizia, induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e false informazioni a pm.

Secondo l’accusa, sarebbe stata depositata «nelle mani del Procuratore della Repubblica di Milano una e-mail dal contenuto calunnioso» con la quale Amara e Armanna avrebbero incolpato, «consapevoli della sua innocenza», l’avvocato Santa Maria «di infedele patrocinio nei confronti di Armanna» di cui era il difensore. E l’intento della “operazione” sarebbe stato «far cadere le accuse che Armanna aveva formulato nei confronti dei vertici dell’Eni» nel processo sulla vicenda nigeriana (in cui tutti gli imputati sono stati assolti in primo grado).

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Il 10 dicembre scorso, poi, l’aggiunto Laura Pedio e i pm Civardi e Di Marco hanno anche chiuso il filone principale (tra gli indagati sempre Amara e Armanna) delle indagini sul cosiddetto “falso complotto Eni”, iniziate nel 2017 e con un fascicolo finito pure al centro dello scontro tra pm milanesi, che ha dato origine a una tranche d’inchiesta a Brescia che si intreccia con quella sui “verbali di Amara”. L’ad Eni Claudio Descalzi e Claudio Granata, capo del personale, sono «persone offese» in un’imputazione di calunnia nel “falso complotto”

Nel telefono di Armanna i segreti dei veleni Eni. Luca Fazzo il 31 Dicembre 2021 su Il Giornale. Un telefono che nascondeva al suo interno molte verità sui veleni del caso Eni. Un telefono che nascondeva al suo interno molte verità sui veleni del caso Eni, sulle calunnie e sui depistaggi che hanno accompagnato per anni le indagini milanesi sull'ente energetico di Stato. È il telefono dell'avvocato Vincenzo Armanna, uno dei protagonisti di quelle trame. Ora sull'analisi di quel telefono si gioca anche la sorte dei due pubblici ministeri milanesi finiti sotto inchiesta a Brescia proprio per la loro gestione delle indagini sull'Eni, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il suo sostituto Sergio Spadaro. La Procura di Brescia, che li ha incriminati entrambi per omissione di atti d'ufficio, ha deciso di capire davvero cosa ci fosse nel telefono del calunniatore Amara. Per questo ha chiesto la proroga di sei mesi delle indagini contro De Pasquale e Spadaro. E per questo probabilmente chiederà ai colleghi milanesi di consegnare materialmente lo scottante apparecchio, finora custodito tra i corpi di reato dell'indagine Eni.

A rendere necessario l'approfondimento è stata la mossa con cui in extremis De Pasquale e Spadaro, per i quali era pronta la richiesta di rinvio a giudizio, hanno cercato di dare una spiegazione logica alla scelta per cui sono finiti sotto indagine: non avere reso note alle difese dei vertici Eni le chat trovate nello smartphone di Armanna, e che costituivano un robusto elemento a favore dell'amministratore delegato Claudio Descalzi e del suo staff. De Pasquale nel suo ultimo interrogatorio ha spiegato ai colleghi bresciani che era impossibile estrapolare solo le chat dalla memoria del telefono: si sarebbe dovuto consegnare agli avvocati di Eni l'intera memoria, e questo avrebbe rivelato elementi ancora coperti dal segreto istruttorio.

Ci sarebbe da chiedersi perché i pm milanesi non abbiano ritenuto almeno di fornire ai difensori di Descalzi & C. almeno una trascrizione delle chat che li scagionavano. Ma Brescia ha deciso di verificare comunque, con una consulenza tecnica, se davvero la memoria del telefono non poteva essere frazionata. Solo al termine di questa perizia si deciderà la sorte di De Pasquale e Spadaro. Nel frattempo la storia infinita del caso Eni continua a intorbidare il clima intorno alla Procura di Milano, ormai da un mese e mezzo senza capo dopo l'addio di Francesco Greco: ma il Csm sembra non avere fretta di trovare un successore.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Da giornaledibrescia.it il 30 dicembre 2021. La Procura di Brescia ha chiesto altri 6 mesi per approfondire alcuni aspetti dell'inchiesta sui magistrati milanesi, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, in cui il procuratore aggiunto e il sostituto sono accusati di omissione d'atti d'ufficio, nell'ipotesi che abbiano nascosto prove utili alla difesa nel procedimento per corruzione internazionale Eni-Nigeria (poi finito in primo grado con un'assoluzione). Lo scrive oggi Il Fatto Quotidiano. Secondo quanto scrive il quotidiano «la riapertura dell'inchiesta dopo che agli indagati è già stato notificato l'atto di chiusura delle indagini è un fatto raro e inusuale. Ma questa volta il procuratore di Brescia Francesco Prete e il suo sostituto Donato Greco hanno chiesto altro tempo dopo aver sentito i due Pm milanesi che, ricevuto l'avviso di fine indagini il 9 ottobre, si erano fatti interrogare a inizio dicembre». Ora i magistrati della Procura bresciana scrivono che «in sede di interrogatorio reso dagli indagati è emersa la necessità di compiere ulteriori indagini». De Pasquale e Spadaro, assistiti dall'avvocato Caterina Malavenda, si erano difesi dall'accusa di non aver depositato «in favore delle difese» le chat rinvenute sul cellulare di Vincenzo Armanna (uno degli imputati del processo Eni-Nigeria) anche sostenendo «l'impossibilità tecnica di frammentare la copia forense del telefono» e quindi di depositare «le sole predette conversazioni, senza dover necessariamente disvelare l'intero contenuto del dispositivo». 

Ora «appare pertanto necessario effettuare una consulenza», proseguono i Pm di Brescia, «per verificare tale circostanza, ossia la possibilità tecnica di estrapolare dalla copia forense di un dispositivo solo alcuni dati di interesse».

Nel loro interrogatorio del 1 dicembre, De Pasquale e Spadaro hanno anche sostenuto «una conduzione singolare delle indagini» da parte di Paolo Storari, il Pm milanese titolare insieme al Procuratore aggiunto Laura Pedio dell'inchiesta sul cosiddetto complotto Eni (e anch'egli indagato a Brescia con l'accusa di rivelazione di segreto, per aver fatto uscire i verbali dell'avvocato esterno di Eni, Piero Amara): una conduzione «non centrata sulle ipotesi di reato in contestazione» in quel fascicolo, «ma finalizzata a screditare l'attendibilità delle dichiarazioni rese da Armanna nell'ambito del processo Eni-Nigeria».

Eni-Nigeria, altri sei mesi di tempo per indagare sui pm di Milano. La procura di Brescia chiede la riapertura delle indagini sul caso Eni-Nigeria. L'inchiesta riguarda i pm di Milano, De Pasquale e Spadaro: ecco le novità. Il Dubbio il 31 dicembre 2021. La Procura di Brescia ha chiesto altri 6 mesi per approfondire alcuni aspetti dell’inchiesta sui magistrati milanesi, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, in cui il procuratore aggiunto e il sostituto sono accusati di omissione d’atti d’ufficio, nell’ipotesi che abbiano nascosto prove utili alla difesa nel procedimento per corruzione internazionale Eni-Nigeria (poi finito in primo grado con un’assoluzione). Lo scrive oggi “Il Fatto Quotidiano“.

Secondo quanto scrive il quotidiano «la riapertura dell’inchiesta dopo che agli indagati è già stato notificato l’atto di chiusura delle indagini è un fatto raro e inusuale. Ma questa volta il procuratore di Brescia, Francesco Prete e il suo sostituto Donato Greco, hanno chiesto altro tempo dopo aver sentito i due Pm milanesi che, ricevuto l’avviso di fine indagini il 9 ottobre, si erano fatti interrogare a inizio dicembre». Ora i magistrati della Procura bresciana scrivono che «in sede di interrogatorio reso dagli indagati è emersa la necessità di compiere ulteriori indagini».

De Pasquale e Spadaro, assistiti dall’avvocato Caterina Malavenda, si erano difesi dall’accusa di non aver depositato «in favore delle difese» le chat rinvenute sul cellulare di Vincenzo Armanna (uno degli imputati del processo Eni-Nigeria) anche sostenendo «l’impossibilità tecnica di “frammentare” la copia forense del telefono» e quindi di depositare «le sole predette conversazioni, senza dover necessariamente disvelare l’intero contenuto del dispositivo». Ora «appare pertanto necessario effettuare una consulenza», proseguono i Pm di Brescia, «per verificare tale circostanza, ossia la possibilità tecnica di estrapolare dalla copia forense di un dispositivo solo alcuni dati di interesse».

Nel loro interrogatorio del 1 dicembre, De Pasquale e Spadaro hanno anche sostenuto «una conduzione “singolare” delle indagini» da parte di Paolo Storari, il Pm milanese titolare insieme al Procuratore aggiunto Laura Pedio dell’inchiesta sul cosiddetto complotto Eni (e anch’ egli indagato a Brescia con l’accusa di rivelazione di segreto, per aver fatto uscire i verbali dell’avvocato esterno di Eni, Piero Amara): una conduzione «non centrata sulle ipotesi di reato in contestazione» in quel fascicolo, «ma finalizzata a screditare l’attendibilità delle dichiarazioni rese da Armanna nell’ambito del processo Eni-Nigeria»

·        Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Fine della gogna. Caso Consip, Romeo Gestioni prosciolta: disposta restituzione di 3 milioni versati per decisione del Gip. Redazione su Il Riformista il 4 Novembre 2022

La Romeo Gestioni è stata prosciolta da ogni ipotesi accusatoria nell’ambito del processo Consip in corso a Roma. La società, leader europea nel mercato della gestione e valorizzazione dei patrimoni immobiliari e urbani, riavrà indietro – su decisione del Tribunale di Roma – l’intera somma di circa 3 milioni di euro versata nel 2017 per decisione del Gip.

La sentenza su uno dei filoni dell’inchiesta sul caso Consip emessa venerdì 4 novembre dall’ottava sezione penale del Tribunale di Roma, dopo una camera di consiglio di oltre due ore, ha escluso qualsiasi responsabilità della società Romeo Gestioni che “prende atto con estrema soddisfazione del dispositivo pronunciato dal Collegio Penale del Tribunale di Roma, presieduto dalla dott.ssa Roja, con cui, a chiusura del procedimento Consip, avviato nel 2017, la società è stata completamente prosciolta da ogni ipotesi accusatoria perché, come chiarito dal Collegio espressamente nel detto dispositivo, l’illecito amministrativo contestato è risultato insussistente”.

“Per conseguenza, – prosegue la nota – il Tribunale ha disposto l’immediata restituzione alla società dell’intera somma di circa 3 milioni di euro versata nel 2017 per decisione del Gip del Tribunale di Roma”.

I giudici hanno condannato a 2 anni e sei mesi l’imprenditore Alfredo Romeo, editore de Il Riformista, accusato di corruzione in uno dei filoni dell’inchiesta. Condanna dimezzata rispetto alla richiesta della Procura capitolina che aveva chiesto una condanna a 4 anni e 10 mesi. L’accusa è passata da corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio alla corruzione per l’esercizio della funzione.

Si tratta della tranche del procedimento che coinvolgeva anche l’ex dirigente della centrale unica di acquisti della Pubblica amministrazione, Marco Gasparri (che negli scorsi anni ha patteggiato una condanna a un anno e otto mesi). Quest’ultimo ha accusato l’imprenditore di avere ricevuto da lui, dal 2012 al 2016, complessivamente 100mila euro in cambio di notizie e aiuti relativi ai bandi di gara in Consip. I giudici hanno escluso la responsabilità della società Romeo Gestioni e disposto un provvisionale per Consip di 150 mila euro. Per Romeo stabilita l’incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione per un anno e la confisca di 100mila euro.

”Per quanto l’accusa originaria sia stata fortemente ridimensionata è chiaro che non siamo soddisfatti. Restiamo convinti dell’innocenza del nostro assistito. Ora attendiamo di leggere le motivazioni per impugnare questa sentenza”. Sono le parole dell’avvocato Giandomenico Caiazza, difensore di Romeo, dopo la sentenza del Tribunale di Roma. ”Esprimiamo soddisfazione invece per l’assoluzione della società Romeo Gestioni” conclude Caiazza.

“Abbiamo la certezza che nei gradi successivi sarà affermata senza alcuna riserva l’innocenza del nostro assistito anche in relazione alla residua ipotesi di reato per la quale ha subito la odierna condanna”. E’ quanto afferma l’avvocato Alfredo Sorge, difensore insieme a Caiazza, dell’imprenditore Alfredo Romeo. Difensori che “prendono atto del drastico ridimensionamento delle originarie accuse contestate e della piena assoluzione della società del gruppo Romeo”.

Romeo venne addirittura arrestato il primo marzo del 2017 e dopo oltre tre mesi di carcere a Regina Coeli e due agli arresti domiciliari, il tribunale del Riesame di Roma (dopo che la Cassazione aveva accolto l’istanza presentata dai legali di Romeo) dispose l’annullamento dell’ordinanza (perché non esistevano le esigenze cautelari) e la riabilitazione delle imprese dell’imprenditore napoletano.

Escluse responsabilità della Romeo Gestione, restituiti tre milioni di euro. Processo Consip, condannato a 2 anni e 6 mesi Alfredo Romeo: “Accusa fortemente ridimensionata”. Redazione su Il Riformista il  4 Novembre 2022

Il tribunale di Roma ha condannato a 2 anni e sei mesi l’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, editore de Il Riformista, accusato di corruzione in uno dei filoni dell’inchiesta sul caso Consip. La sentenza di primo grado è stata emessa dall’ottava sezione penale del Tribunale di Roma dopo una camera di consiglio durata oltre due ore.

Condanna dimezzata rispetto alla richiesta della Procura capitolina che aveva chiesto una condanna a 4 anni e 10 mesi. L’accusa è passata da corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio alla corruzione per l’esercizio della funzione.

Si tratta della tranche del procedimento che coinvolgeva anche l’ex dirigente della centrale unica di acquisti della Pubblica amministrazione, Marco Gasparri. Quest’ultimo ha accusato l’imprenditore di avere ricevuto da lui, dal 2012 al 2016, complessivamente 100mila euro in cambio di notizie e aiuti relativi ai bandi di gara in Consip. I giudici hanno escluso la responsabilità della società Romeo Gestioni e disposto un provvisionale per Consip di 150 mila euro. Per Romeo stabilità l’incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione per un anno e la confisca di 100mila euro.

”Per quanto l’accusa originaria sia stata fortemente ridimensionata è chiaro che non siamo soddisfatti. Restiamo convinti dell’innocenza del nostro assistito. Ora attendiamo di leggere le motivazioni per impugnare questa sentenza”. Sono le parole dell’avvocato Giandomenico Caiazza, difensore di Romeo, dopo la sentenza del Tribunale di Roma. ”Esprimiamo soddisfazione invece per l’assoluzione della società Romeo Gestioni” conclude Caiazza.

“La Romeo Gestioni s.p.a. prende atto con estrema soddisfazione del dispositivo pronunciato oggi dal Collegio Penale del Tribunale di Roma, presieduto dalla dott.ssa Roja, con cui, a chiusura del procedimento Consip, avviato nel 2017, la società è stata completamente prosciolta da ogni ipotesi accusatoria perché, come chiarito dal Collegio espressamente nel detto dispositivo, l’illecito amministrativo contestato è risultato insussistente”. E’ quanto riporta una nota della Romeo Gestioni. “Per conseguenza, – prosegue la nota – il Tribunale ha disposto l’immediata restituzione alla società dell’intera somma di circa 3 milioni di euro versata nel 2017 per decisione del Gip del Tribunale di Roma”.

“Abbiamo la certezza che nei gradi successivi sarà affermata senza alcuna riserva l’innocenza del nostro assistito anche in relazione alla residua ipotesi di reato per la quale ha subito la odierna condanna”. E’ quanto afferma l’avvocato Alfredo Sorge, difensore insieme a Caiazza, dell’imprenditore Alfredo Romeo. Difensori che “prendono atto del drastico ridimensionamento delle originarie accuse contestate e della piena assoluzione della società del gruppo Romeo”.

Romeo venne addirittura arrestato il primo marzo del 2017 e dopo oltre tre mesi di carcere a Regina Coeli e due agli arresti domiciliari, il tribunale del Riesame di Roma (dopo che la Cassazione aveva accolto l’istanza presentata dai legali di Romeo) dispose l’annullamento dell’ordinanza (perché non esistevano le esigenze cautelari) e la riabilitazione delle imprese dell’imprenditore napoletano. 

La folle sentenza Consip. Processo Consip, Alfredo Romeo condannato per aver favorito la sua società che però è stata assolta…Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Novembre 2022

Alfredo Romeo è stato condannato in primo grado a due anni e sei mesi per l’affare Consip. La giuria ha creduto alla tesi del Pm secondo la quale Romeo (che è anche l’editore di questo giornale) avrebbe versato dei soldi (non si sa quanti, forse 100 mila euro, forse meno) a un collaboratore della Consip (l’organismo che decide l’assegnazione degli appalti pubblici) per favorire la Romeo Gestioni. Lo avrebbe fatto pur sapendo che questo collaboratore della Consip non aveva nessun potere nel determinare l’assegnazione degli appalti.

L’accusa ha insistito sulla tesi che il versamento comunque c’è stato, anche se non c’era il movente e anche se del versamento non c’è nessuna traccia, neppure nelle giornate intere di intercettazioni ambientali, nelle quali sono stati ascoltati tutti i colloqui tra Romeo e questo collaboratore della Consip che si chiama Gasparri. A carico di Romeo c’è solo la testimonianza dello stesso Gasparri, che però non ha mai saputo dire né quanti soldi ha preso, né in che forma, né quando, né dove, né a quale scopo. Il risultato concreto delle accuse di Gasparri è stato quello che la società di Romeo (la Romeo Gestioni, appunto) ha perduto molti appalti che le spettavano e alcuni di questi appalti sono andati ad una società per la quale successivamente Gasparri è andato a lavorare.

Nel processo, l’accusa non ha portato neppure una prova, neppure un indizio, un riscontro, una coincidenza che potessero confermare le accuse di Gasparri. La difesa invece ha portato molti elementi che scagionano Romeo, compresi gli interrogatori resi davanti ai Pm dai massimi rappresentanti di vertice della Consip, i quali hanno detto di avere ricevuto parecchie pressioni per inquinare le gare ma hanno escluso che queste pressioni fossero giunte dalla Romeo. In realtà anche il tribunale ha ammesso che la società di Romeo era del tutto estranea ad ogni reato. Perché anche la società era imputata, ma è stata pienamente assolta. L’ipotesi, a lume di logica, è che Romeo abbia corrotto un funzionario della Consip non per favorire la sua società (anche perché il funzionario non ne aveva il potere) ma per suo diletto personale. Per divertimento. Per gioco.

Diciamo che abbiamo una sentenza abbastanza originale. Come abbiamo scritto nel titolo si tratta di una condanna per assenza di prove. Non insufficienza: totale assenza. Naturalmente è ragionevole chiedersi: ma perché allora Romeo è stato condannato? E che possibilità ci sono che la sentenza non sia cancellata in appello? Diciamo che le possibilità che la sentenza non sia cancellata in appello sono pochissime, perché una sentenza di questo genere è destinata ad essere smontata dai giudici di secondo grado. E questo probabilmente è chiaro a tutti. Il problema, se capisco bene, è che una assoluzione sarebbe stata troppo clamorosa. Perché avrebbe suonato come una durissima sconfessione della procura di Napoli – che avviò le indagini – della procura di Roma, che le proseguì e fece anche arrestare Romeo sulla base di una accusa (corruzione aggravata) che poi non ha avuto il coraggio di sostenere nel dibattimento, e anche dei nuclei speciali dei carabinieri che hanno partecipato a tutta la vicenda giudiziaria.

Diciamo che, a occhio, a determinare la sentenza non è stato il diritto ma una valutazione politica di opportunità. Questo spiega anche il compromesso deciso dalla giuria. L’accusa aveva chiesto una condanna a quattro anni e dieci mesi, la Corte l’ha praticamente dimezzata.

In serata sono arrivati i comunicati degli avvocati di Romeo e della società. Dicono gli avvocati (Giandomenico Caiazza e Alfredo Sorge): “Prendiamo atto del drastico ridimensionamento delle originarie accuse contestate all’avvocato Romeo e della piena assoluzione della società del gruppo Romeo. Esprimiamo la certezza che nei gradi successivi sarà affermata senza alcuna riserva l’innocenza del nostro assistito anche in relazione alla residua ipotesi di reato per la quale ha subito la odierna condanna”.

La Romeo Gestioni ha rilasciato un comunicato nel quale esprime la sua soddisfazione per l’assoluzione: “Prendiamo atto del dispositivo pronunciato oggi dal Collegio Penale del Tribunale di Roma, presieduto dalla dottoressa Roja, con cui, a chiusura del procedimento Consip, avviato nel 2017, la società è stata completamente prosciolta da ogni ipotesi accusatoria perché, come chiarito dal Collegio espressamente nel detto dispositivo, l’illecito amministrativo contestato è risultato insussistente’. ‘’Per conseguenza – si spiega – il Tribunale ha disposto l’immediata restituzione alla società dell’intera somma di circa 3 milioni di euro versata nel 2017 per decisione del Gip del Tribunale di Roma’’.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

I paradossi. La follia del Consiglio di Stato, multa di 15 milioni per aver denunciato un imbroglio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Maggio 2022. 

Cosa può succedere a un imprenditore che deve partecipare ad alcune gare pubbliche, e che si accorge che i suoi concorrenti hanno fatto cartello per turbare le aste, e che denuncia questo cartello alle autorità competenti per ottenere giustizia e perché sia ripristinata la legalità? Beh, può succedere che la risposta dello Stato si materializzi in modo molto sgradevole: con il suo arresto, con una lunga carcerazione preventiva, dichiarata poi illegittima dalla Cassazione, con tre processi a carico che devono ancora concludersi e dove è molto probabile la assoluzione, ma chissà quando, e perdipiù con una condanna a una multa mastodontica, (più di 15 milioni di euro) decisa dall’antitrust e confermata dal Tar e dal Consiglio di Stato, mentre i processi sono ancora in corso, e che, per le sue dimensioni, può colpire a morte una azienda tra le più forti e attive a Napoli e che dà lavoro a diverse migliaia di persone.

Ho usato la parola “sgradevole”. Forse sarebbe meglio parlare di arbitrio e prepotenza. Due parole che spesso si trovano benissimo accanto all’espressione “sistema giustizia”. L’imprenditore in questione si chiama Alfredo Romeo ed è amico mio. Mi ha fatto vedere tutte le carte, compresa la sentenza del Consiglio di Stato che rischia di abbattere la “Romeo Gestioni” resa pubblica pochi giorni fa. Ora provo a raccontarvi nel modo più semplice possibile questa vicenda che sembra più una commedia tragicomica che una normale vicenda processuale. Succede questo. Anno 2016, mese di aprile. La Romeo partecipa a varie gare Consip, come ha fatto negli anni e nei decenni precedenti (sempre vincendo quasi tutte le gare alle quali partecipava). La Romeo Gestioni opera nel settore del “facility management” (gestione di tutti i servizi per il funzionamento e la manutenzione di uffici pubblici) ed è considera in questo settore la numero uno in Europa. Raramente fa passi più lunghi della gamba, il suo metodo è lavorare in sicurezza. Di solito partecipa solo alle gare per lavori che è sicura di poter assicurare con qualità superiori e prezzo inferiore a tutti i concorrenti. Mentre queste gare sono in preparazione, la Romeo si accorge che sono in corso manovre oscure.

Alcune aziende concorrenti stanno facendo cartello. Come se ne accorge? Semplicemente consultando i documenti ufficiali dai quali risulta che diverse società che si affrontano in alcune di queste gare fanno capo agli stessi gruppi economici, e che in modo evidente, si sono divise il territorio. La Romeo fa la cosa più semplice del mondo. Presenta un esposto alla Consip, all’Anac e all’antitrust. Nel quale spiega i suoi sospetti e indica il modo per accertare la turbativa dell’asta. La Consip risponde indignata sostenendo che tutto è regolare minacciando querele. La Romeo risponde insistendo sulle sue tesi facendo notare che l’evidenza delle manovre di cartello è facilmente riscontrabile nelle carte che sono a disposizione della Consip, e quindi – forse maliziosamente – fa notare alla Consip che non sta svolgendo bene il suo lavoro. Che succede all’esposto? Si perde. Però, giusto un anno dopo questo esposto avvengono delle cose difficili da spiegare. La prima cosa che avviene è l’arresto di Romeo, accusato di avere corrotto un funzionario Consip privo di potere, e lo avrebbe corrotto per aiutarlo a vincere una asta che in realtà la Romeo aveva, sulla base dei suoi titoli, già vinto e dalla quale invece fu clamorosamente esclusa. Regina Coeli. Circa sei mesi. Vita spezzata.

La seconda cosa che avviene è che Romeo viene mandato a processo per turbativa d’asta, cioè è accusato in modo paradossale di aver partecipato a quel cartello che lui aveva denunciato, che la Consip aveva negato, e che era stato messo in piedi, in modo evidente, ai suoi danni. Kafka. Il processo è ancora in corso, e tutto lascia immaginare che non potrà non concludersi con la assoluzione. Speriamo il più presto possibile. Però in Italia succede che se ti processano per turbativa d’asta, anche se non sei stato riconosciuto colpevole, intanto possono punirti. Cioè la sentenza anticipa il processo. E così prima l’Agcm, poi il Tar e recentemente il Consiglio di Stato, condannano Romeo a una multa devastante. Ho dato un’occhiata alla sentenza. In realtà si tratta di tre sentenze, perché il processo al Consiglio di Stato è stato diviso in tre. Tre procedimenti diversi ma tutti e tre esaminati e conclusi dagli stessi giudici e nella stessa camera di Consiglio. Primo processo, contro la Cns, una delle aziende che fece cartello. Chiave di questo processo è la deposizione di un pentito, che racconta tutto quello che è successo e ammette il cartello. Per questa ragione la Cns ottiene una fortissima riduzione della multa. Il pentito consegna ai giudici un bigliettino rosa nel quale ci sono scritte da una parte le aziende che avevano fatto cartello, dall’altra le aziende vittime del cartello. Tra le vittime è indicata l’azienda di Romeo.

Il secondo processo è contro una serie di aziende che sono quelle indicate dal pentito come autrici del cartello. E che vengono condannate a multe di varia entità.

Terzo processo contro Romeo. Nel quale viene scartato il bigliettino rosa che scagiona la Romeo e che è stato la base del processo 1 e del processo 2. Gli stessi giudici che lo hanno considerato un documento essenziale negli altri due processi decidono in questo caso che sia in documento senza valore. Perché è una prova – anzi: la prova – a discarico. E condannano la Romeo sulla base di questo teorema: la denuncia di Romeo è avvenuta quando Romeo si è accorto che il cartello lo aveva tradito e gli aveva sottratto la vittoria in un certo lotto (il numero 10). Per ritorsione Romeo avrebbe denunciato la turbativa.

È una ipotesi ragionevole? Beh, Romeo presentò l’esposto il 13 aprile del 2016 e l’apertura delle buste per il lotto 10 avvenne il 25 aprile. Dunque Romeo avrebbe deciso di vendicarsi per una cosa che non era ancora avvenuta. E soprattutto insistette nella sua denuncia il 30 maggio 2016 allorquando risultava aggiudicatario di tre lotti della maxi gara FM4 per circa 700 milioni di euro di lavoro: credibile? Nella sentenza si cita anche una dichiarazione del pentito (CNS) che inchioderebbe Romeo. Il pentito avrebbe detto – è scritto così in sentenza – che la sua azienda aveva presentato una offerta di comodo nella gara per il lotto 3 per favorire Romeo. C’è qualcosa che non va. Una cosa decisiva: questa dichiarazione del pentito non esiste. Inventata.

La sentenza quindi contiene un evidente falso, comprovato da un documento – acquisito in base alle ordinanze istruttorie dello stesso Collegio giudicante del Consiglio di Stato– da cui risulta che il CNS e la sua mandante in sede di gara Exitone (del Gruppo STI), del tutto certi di vincere 4 lotti, tra cui proprio il lotto 3, trattavano fra loro un risarcimento milionario per la mancata aggiudicazione degli stessi a causa di una contestata non conferma delle offerte da parte del CNS. Ora si passa al nuovo grado di giudizio. Quello definitivo. Speriamo che anche per Romeo ci sia un giudice a Berlino.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Le follie del processo di Napoli. Il processo a rito “immediato” contro Romeo: 5 anni e 8 cambi di Corte, e ora intercettazioni illegali…Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Marzo 2022. 

Martedì a Napoli si svolgerà l’ennesima udienza del processo più pazzo del mondo. Di questo processo so quasi tutto perché riguarda il mio editore. Però mi chiedo: quanti altri processi, dei quali non so niente, si stanno svolgendo in modo simile a questo, cioè in modo folle? Seguitemi per qualche riga. Questo è un processo con rito immediato. Non so quanto tempo ci vorrà ancora perché si concluda, so che, da quando è iniziato, sono passati cinque anni. Immediato? Probabilmente le Procure e i tribunali italiani hanno una idea un po’ vaga del significato della parola immediato. Il processo si svolge con rito immediato per una ragione semplice. Perché l’imputato, e cioè Alfredo Romeo, era stato arrestato. Dunque aveva diritto a un processo in tempi brevi. Tanto che il processo fu diviso in due tronconi: uno – immediato, appunto – contro Romeo; l’altro con rito ordinario contro i suoi 52 presunti complici. Tra pochissimo vi dirò complici in cosa.

Intanto vi faccio notare che una delle ragioni fondamentali per le quali si ricorse all’arresto di Romeo fu una intercettazione nella quale un dipendente di Romeo diceva a un altro dipendente: “tu che sei l’esperto-crimine dell’azienda…”. Crimine? Gridò il Pm. Qui c’è la camorra: arrestatelo. E arrestarono Romeo. Poi si scoprì che in effetti non aveva detto crimine ma cleaning. Che in inglese vuol dire pulizia. Ed effettivamente l’azienda di Romeo si occupava di pulizie. E dunque, probabilmente, non si trattava di una associazione a delinquere ma di un’associazione a pulire. Che però è un tipo di associazione che non si trova in nessuna forma nel codice penale. neanche come concorso esterno… Poi intervenne la Cassazione, stupefatta per i casini combinati, e fece scarcerare Romeo. Però restò il rito immediato. Ormai… dissero. E così oggi si svolgono due processi, molto costosi, per gli stessi ipotetici reati. Di qui solo Romeo e l’architetto Russo (che anche lui fu arrestato perché partecipe di questa associazione a pulire), di là altre 53 persone. Tutte complici, secondo l’accusa, di una serie di atti corruttivi che fruttarono circa 800 euro (sempre secondo l’accusa) ai corrotti. Un po’ meno di 20 euro a corruttore. E ovviamente è meglio non fare un paragone tra questi 800 euro e il costo mastodontico dei due processi.

La difesa aveva chiesto, almeno, di unificarli, in modo da abbattere i costi e magari rendere anche più semplice il dibattimento. Che ora è schizofrenico: di qui il presunto corruttore di là il presunto corrotto. Con la possibilità che uno sia assolto e uno condannato. E quindi che sia affermato il principio giuridico che si può corrompere anche se non si corrompe nessuno. O che si può essere corrotti senza però che nessuno ti abbia corrotto. L’accusa però si è opposta all’unificazione, perché le è sembrata una proposta esageratamente razionale. e i processi non sono mai stati unificati. Se ne fanno due. Però… Però siccome il processo immediato era un processo molto complicato, forse per via della maledettissima assenza di prove e indizi, e che quindi andava per le lunghe, è cambiata per otto volte la Corte. Otto volte? Voi dite che io sto scherzando? No, non sto scherzando: otto volte. Voi conoscete un altro paese al mondo dove possa succedere qualcosa del genere? No, ma che c’entra: vogliamo impedire all’Italia di essere un paese molto speciale?

Martedì comunque prenderà servizio l’ottavo collegio giudicante. Che, ovviamente, dovrà faticosamente informarsi di tutto quello che è successo prima, compresi gli errori di traduzione nelle intercettazioni e gli arresti eseguiti per errore. Ma c’è di più. È successo un grosso guaio. Mentre era ancora il carica il settimo collegio giudicante, e poco prima che fosse nominato l’ottavo, una sentenza emessa a Perugia al processo Palamara ha respinto la richiesta di Palamara di cancellare tutte le sue intercettazioni perché illegali (dal momento che la sede delle intercettazioni non era la procura ma un appartamento in mano ai privati). Perugia ha dato torto a Palamara perché ha dimostrato che le intercettazioni in questione erano tutte state realizzate dopo l’aprile del 2019, e che nell’aprile 2019 la sede degli intercettatori era tornata ad essere la Procura. Ma ha confermato che se invece fossero state realizzate prima dell’aprile del 2019, le intercettazioni sarebbero state tutte da cancellare perché la legge su questo punto è molto chiara.

Già, però le intercettazioni al processo di Napoli del quale stiamo parlando sono tutte precedenti all’aprile 2019. Dunque ora il nuovo collegio giudicante dovrà necessariamente dichiararle inammissibili. E il povero Pm (che è Woodcock e che, per una volta, non ha nessuna colpa in questo pasticcio) dovrà cavarsela cercando indizi e prove senza il supporto delle intercettazioni. Ma la cosa più clamorosa è che, evidentemente, questo problema riguarda centinaia di processi. Non solo a Napoli. Compreso il processo Consip a Roma, nel quale risulta che i Pm hanno formalmente chiesto le intercettazioni alle aziende private. Ci sono le lettere ufficiali. Dio mio che pasticcio. Vi rendete conto di che inguacchio è la Giustizia italiana?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il Pm non capiva l'inglese e scambiò un pulitore per un camorrista...Woodcock e le traduzioni dall’inglese sbagliate: 4 anni buttati via nel processo a Romeo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Febbraio 2022.  

Sono garantista da molti, molti anni. Lo ero già ai tempi della lotta armata. Mi ricordo che quando stavo all’Unità, nel 1980, riuscii di straforo a far pubblicare degli articoli per chiedere la liberazione di Oreste Scalzone, uno dei fondatori di Potere Operaio. Lo dico per chiarire che non è che son diventato garantista quando ho incontrato Alfredo Romeo. Però devo ammettere che conoscere da vicino un po’ di cose su come si svolgono alcuni dei processi, nella fattispecie i processi a Romeo, ha rafforzato molto la mia struttura garantista. Ogni tanto ve ne parlo, perché scopro cose che nemmeno la mia fantasia (mai tenera nei confronti della magistratura) aveva potuto immaginare.

Vi racconto solo due episodi recenti, tutti e due collegati al processo di Napoli (quello per il quale un po’ più di cinquanta persone, tra le quali Romeo, son accusate di atroci reati grazie ai quali, tutte insieme, avrebbero guadagnato quasi mille euro, diciamo 20 a testa…). Il primo episodio riguarda il problema dell’uso della lingua inglese. È successo che nel corso delle indagini che poi servirono anche per motivare l’arresto di Romeo, nel 2016, fu intercettata una telefonata molto allarmante tra due dirigenti della sua azienda. Uno convocava l’altro a Napoli (l’altro stava a Milano) perché, diceva, sei tu “l’esperto del crimine”. Il Pm, quando ha sentito questa frase è saltato sulla sedia e ha capito che ci covava gatta-camorra. Roba grossa. Vi pare normale che una azienda di servizi abbia addirittura un addetto che è dichiaratamente incaricato di commettere i crimini?

Diverso tempo dopo uno dei due dirigenti – il convocatore – fu interrogato e gli furono chieste spiegazioni su quella sua frase folle. Lui cadde dalle nuvole e chiese di ascoltare l’intercettazione. Gliela fecero sentire e scoppiò a ridere. Aveva detto: “esperto del cleaning” – non del crimine – e cleaning in inglese, più o meno, vuol dire pulizie, ed effettivamente che una azienda che si occupa di pulizie abbia almeno un esperto in pulizie non è una cosa molto strana. Giorni fa l’episodio, esilarante, è emerso nel corso del processo. L’avvocato Vignola si è rivolto direttamente al Pm, Henry John Woodcock. Gli ha detto: “Signor Pm, lei ci ha assicurato di aver ascoltato sempre, personalmente, tutte le intercettazioni. Possibile che una persona col suo nome e di madrelingua inglese non capisca l’inglese?”. Si è riso. Woodcock è arrossito un po’. Però, francamente, non è che sia molto divertente un errore madornale di questo genere, se poi uno ci finisce in cella ed è sottoposto ad anni di estenuanti processi.

Il secondo episodio si riferisce sempre al processo di Napoli. Meno clamoroso dal punto di vista dello spettacolo, ma clamoroso e inaudito (e gravissimo) dal punto di vista giuridico. Nel corso del processo a Palamara. a Perugia, si è presa in esame la denuncia dello stesso Palamara il quale sosteneva che tutte le intercettazioni che lo riguardavano erano realizzate da una ditta privata, la Rcs, scaricate sui loro server privati e lì conservate. Circostanza molto grave: la legge lo proibisce. Dice la legge, in modo categorico, che le intercettazioni comunque devono essere realizzate in Procura, conservate in Procura, consultate in procura. Altrimenti sono illegali. Nella sentenza emessa da Perugia però è stata smontata la tesi di Palamara, perché si è dimostrato che le intercettazioni “private” sono durate fino all’aprile del 2019, poi sono state trasferite regolarmente in Procura. E le intercettazioni che riguardano Palamara sono successive all’aprile del 2019.

Benissimo. Ma tutte le intercettazioni che riguardano Romeo sono precedenti. E ci sono addirittura agli atti le lettere con le quali i Pm chiedevano alla Rcs di avere le intercettazioni. Sono tutte illegali e dunque è difficile che possano esser utilizzabili. Si userebbe come materiale fondamentale di un processo del materiale fuorilegge. E questo non può succedere. Il problema è che il processo Romeo si regge in piedi solo ed esclusivamente su quelle intercettazioni. Per il resto è a zero: non c’è nemmeno un vago indizio di reato. Del resto neanche nelle intercettazioni c’è alcun indizio di reato, però almeno ci sono dei contatti, seppure indiretti, tra i presunti colpevoli.

Non si sa bene colpevoli di che, ma l’accusa si aggrappava a quei contati per provare a costruire un suo teorema. Se saltano le intercettazioni salta tutto, non risultano più nemmeno i contatti, crolla il teorema. Quattro anni buttati via. Poi dice che la giustizia è lenta! Lenta, lenta, e spesso fuori da tutte le norme.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L'indagine Consip. Pignatone e la fuga di notizie sull’intercettazione tra Pomicino e Romeo su Woodcock. Paolo Comi su Il Riformista il 18 Gennaio 2022.  

Nell’indagine Consip di competenza della Procura di Roma, le intercettazioni sarebbero state depositate già prima dell’estate del 2018. «Avevamo le fonie intercettate e i brogliacci, materiale che era stato già da mesi depositato a disposizione dei difensori», precisava l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, sentito lo scorso luglio dalla Digos della Questura di Palermo su delega della Procura di Padova. Ma questo non corrisponde al vero, perché le intercettazioni non erano state messe a disposizione dei difensori: depositate dove? Pignatone era stato sentito come persona informata su fatti a seguito della querela presentata da Giuseppe Cascini nei confronti di Luca Palamara.

Nel libro-intervista Il Sistema scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti, Palamara aveva raccontato che «il 5 luglio del 2018 Giuseppe Cascini (esponente di primo piano delle toghe progressiste e all’epoca, prima di essere eletto al Csm, procuratore aggiunto a Roma, ndr) mi vuole incontrare per annunciarmi che su Woodcock il Csm si deve fermare». Il pm napoletano in quel momento è a processo davanti alla Sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli per le modalità con cui ha condotto l’indagine Consip. «Ci incontriamo – prosegue l’ex presidente dell’Anm – al bar Settembrini a Roma e (Cascini) mi parla di una intercettazione tra Legnini e Pomicino». In questa intercettazione, a detta di Cascini, il vicepresidente del Csm «parla molto male del pm napoletano». Woodcock, in possesso di tale intercettazione, sarebbe quindi «intenzionato a renderla pubblica per dimostrare che il Csm ha un pregiudizio nei suoi confronti», avrebbe aggiunto Cascini.

Legnini, infatti era all’epoca il presidente del collegio che doveva emettere la sentenza nei confronti di Woodcock. I funzionari della Digos domandano, allora, a Pignatone di questa intercettazione di Pomicino, il quale, dopo aver parlato con Legnini che avrebbe definito il pm anglonapoletano un “pazzo”, aveva raccontato l’accaduto ad Alfredo Romeo. Pignatone, ricorda, diede l’incarico al pm Mario Palazzi di far eseguire un controllo e quest’ultimo confermò che le intercettazione “erano state depositate”. Pignatone successivamente incontrò Legnini che chiedeva informazioni dicendogli che gli atti erano stati già depositati e comunque erano processualmente irrilevanti. Legnini, per la cronaca, aveva parlato della vicenda con il pg Riccardo Fuzio e con Stefano Erbani, il consigliere giuridico del capo dello Stato Sergio Mattarella. La ricostruzione di Pignatone non collima con la difesa di Romeo che in quel periodo non era in possesso degli atti.

Per ricostruire la genesi di questo fascicolo bisogna tornare alle ore 18 del 21 dicembre del 2016 quando Woodcock consegnò a mano a Pignatone il fascicolo in cui i generali dei carabinieri Tullio Del Sette ed Emanuele Saltalamacchia, oltre all’allora ministro Luca Lotti, erano accusati di aver informato il capo di Consip Luigi Ferrara di una inchiesta sulla società da lui presieduta. Il 22 dicembre il Fatto Quotidiano diede la notizia dell’indagine. Pignatone decise di assegnare a Palazzi il fascicolo. Il pm romano, dopo aver replicato le iscrizioni fatte a Napoli, chiese informazioni ai carabinieri del Noe che avevano condotto le indagini su delega di Woodcock. Nel fascicolo vi erano solo alcuni verbali di sommarie informazioni. L’11 gennaio il Noe depositò l’informativa e le intercettazioni telefoniche, poi riscritta il mese successivo.

Ai primi di marzo del 2017 l’intera informativa, oltre mille pagine senza gli allegati, finirà integralmente sui giornali. Una fuga di notizie dalle proporzioni “mai viste”, commentò Legnini. Pignatone decise quindi di revocare le indagini al Noe a causa delle “ripetute rivelazioni di notizie coperte dal segreto”, delegando i colleghi del reparto operativo di Roma. Sul finire del 2017 Woodcock finirà davanti alla Sezione disciplinare del Csm. Fra le varie contestazioni, quella di aver interrogato un indagato dell’indagine Consip senza l’assistenza di un difensore. Avvicinandosi il verdetto disciplinare, a luglio del 2018, il magistrato chiederà di avere l’ intercettazione fra Pomicino e Romeo che nel frattempo era stata trascritta. Dopo essere stato autorizzato ad averla, non la ritirerà mai. Paolo Comi

·        Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Crac Mps, tutto da rifare. La Procura generale contro le assoluzioni. La Pg di Milano Gualdi accusa giudici e pm: "Mussari sapeva del crac, perizie ignorate". Luca Fazzo il 18 Novembre 2022 su Il Giornale. 

Non è chiusa la pagina della gestione di marca Pd del Monte dei Paschi di Siena, che portò la banca più antica del mondo fino alle soglie del crac. L'assoluzione che la Corte d'appello di Milano aveva pronunciato nel maggio scorso a favore di Giuseppe Mussari, il numero uno di Rocca Salimbeni, e del suo staff viene impugnata dalla Procura generale di Milano con un ricorso di rara durezza nei confronti dei giudici che dichiararono Mussari innocente dei reati commessi durante gli ultimi anni del suo regno senese. Per assolvere Mussari - e di rimbalzo l'intero sistema di potere che gli ruotava attorno - i giudici milanesi avrebbero inanellato strafalcioni giuridici e ignorato prove decisive. Alla Cassazione viene chiesto di annullare l'assoluzione e disporre un nuovo processo. 

A firmare il ricorso è Gemma Gualdi, il procuratore generale che alla battaglia per la verità su Mps ha dedicato buona parte dei suoi impegni recenti. Basti pensare che l'ex capo della Procura Francesco Greco e i suoi consulenti Roberto Tasca e Lara Castelli sono tuttora sotto inchiesta a Brescia per avere tenuta nascosta alla Gualdi una perizia che attestava lo stato sostanziale di fallimento in cui versava Mps. I successori di Mussari, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rischiano anch'essi di essere rinviati a giudizio per le falsità che avrebbero raccontato ai mercati sullo stato di salute dell'istituto. Sullo sfondo, il salvataggio della banca voluto dal governo Renzi e costato miliardi ai contribuenti italiani. 

In maggio insieme a Mussari, il suo direttore generale Antonio Vigni e al resto del gruppo dirigente vennero assolte anche le due grandi banche che sedevano anch'esse sul banco degli imputati, Deutsche Bank e Nomura, accusate di avere piazzato alla agonizzante Mps con le operazioni Santorini e Alexandria dei prodotti finanziari utili solo a ottenere un «illecito vantaggio contabile». In primo grado Mussari era stato condannato a tre anni e mezzo di carcere ed era stata dichiarata la piena responsabilità delle due banche. 

Secondo il ricorso della Gualdi, la sentenza d'appello che ha assolto tutti gli imputati è «errata nelle conclusioni, errata nel merito, emessa in violazione delle norme di legge», figlia di «argomentazioni frammiste, omissioni probatorie, contraddizioni interne». I giudici di appello sono accusati di avere ignorato le consulenze stilare «dai massimi esponenti della materia scientifica» per utilizzare, appiattendosi su di essa, solo la consulenza di parte portata in aula da Deutsche Bank. 

In sostanza, secondo la Procura generale, i bilanci vennero falsificati e vennero raccontate bugie ai mercati finanziari solo per occultare le perdite nei bilanci, che avrebbero costretto la Banca d'Italia a mettere in liquidazione Mps. Così si torna al tema originario del dissesto, i finanziamenti concessi senza controlli e senza garanzie, solo per consolidare il sistema di potere di cui la banca era il braccio finanziario, generando crediti che non avevano alcuna speranza di essere riscossi e minando in modo irreparabile la solidità di Montepaschi. 

Alla figura di Mussari il ricorso dedica le parole più severe: «Mussari si è occupato direttamente dell'acquisizione di Banca Antonveneta», l'operazione che trascinò i conti di Mps verso l'abisso, ed era pienamente consapevole dei contenuti dell'operazione Santorini nonché «dei risvolti che costituivamo la finalità per cui era stata congegnata».

Mps, i pm accelerano: gli ex Viola e Profumo verso il rinvio a giudizio. La procura di Milano cambia passo dopo anni di mano morbida. Con loro altri due indagati. Luca Fazzo il 17 Settembre 2022 su Il Giornale.

Anni di mano morbida, con la Procura di Milano che sosteneva ostinatamente l'innocenza dei nuovi vertici del Monte dei Paschi di Siena dalle accuse piovute loro addosso. Ma nel cataclisma che ha investito gli uffici giudiziari del capoluogo lombardo c'è spazio anche per un new deal meno indulgente verso Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, i due top manager collocati dal governo Renzi nel 2012 al vertice del disastrato istituto di credito. Ieri sera, a borse chiuse, dalla Procura partono le notifiche telematiche che annunciano a Profumo e Viola, e ad altri due esponenti di Rocca Salimbeni, che le indagini a loro carico sono chiuse e che si prepara per loro la richiesta di rinvio a giudizio. Falso in bilancio e false comunicazioni ai mercati, questa l'accusa. Approdati ai vertici di Mps, i due avrebbero continuato fino al 2015 a presentare conti falsificati, occultando ai mercati e all'opinione pubblica lo stato di sostanziale bancarotta in cui versava la più antica banca del mondo. Undici miliardi, l'importo del buco nascosto.

A questa accusa, come dalle altre mosse nei loro confronti anche dagli esposti dei piccoli azionisti, la Procura sotto la gestione di Francesco Greco aveva sempre sostenuto che Profumo e Viola fossero estranei, e aveva ripetutamente chiesto l'archiviazione del fascicolo a loro carico, andando a sbattere contro il diniego del tribunale. Ora i tempi sono cambiati, Greco è in pensione ed è sotto indagine a Brescia proprio per la sua gestione del fascicolo Mps; indagato anche il suo superconsulente Roberto Tasca, che nella perizia giurata avrebbe omesso di citare una relazione della Banca centrale europea che certificava la voragine dei conti di Mps. I pm che anche nel filone principale del processo Mps avevano chiesto l'assoluzione di Profumo (che invece venne condannato) sono stati a loro volta incriminati a Brescia e poi prosciolti. Inevitabilmente, già prima che a Milano arrivasse il nuovo procuratore Marcello Viola, il fascicolo-bis è stato assegnato a pm meno convinti dell'innocenza del grande manager piddino: e sono i nuovi pm Roberto Fontana e Marina Cavalleri, sotto la guida del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, a firmare ieri l'avviso di conclusione indagini. Il comunicato arriva alle 17,40 dagli uffici della Procura milanese. Si spiega che le indagini sono state chiuse a carico di «cinque indagati» di cui quattro persone fisiche e una persona giuridica», ovvero Mps. Insieme a Viola e Profumo, i destinatari dell'avviso sono il presidente attuale dell'istituto, Massimo Tononi, e il direttore finanziario Arturo Betunio (mentre, spiega la Procura, il fascicolo a carico di altri indagati viene stralciato e prosegue le indagini). L'accusa, si spiega, riguarda «i bilanci e le comunicazioni al mercato per gli anni 2014, 2015, 2016». Nell'avviso si legge che Profumo, Viola e Betunio «alteravano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica» della società. A Tononi viene contestato di avere nascosto nel bilancio 2015 perdite per cinque miliardi.

La Procura aveva tempo fino al 30 settembre, ieri decide di anticipare le mosse anche per schivare i sospetti di immobilismo elettorale. La notizia arriva comunque in un momento assai delicato per Mps, alle prese con un contrastato aumento di capitale da due miliardi e mezzo, voluto dal governo e dal nuovo amministratore delegato Luigi Lovaglio. Ma il primo a rimetterci potrebbe essere l'ex ad Profumo, che oggi è alla guida di Leonardo, dove è in attesa di una riconferma che il nuovo guaio giudiziario renderebbe problematica. Mentre restano senza risposta le domande sul trattamento giudiziario di riguardo ottenuto fino a poco tempo fa dai vertici di Mps: che non è del tutto finito, se il processo d'appello a Profumo per il filone principale a due anni dalla sentenza di primo grado non risulta ancora fissato.

Alessandro Da Rold per “La Verità” il 17 settembre 2022.

Dopo 6 anni, la Procura di Milano ha chiuso le indagini per false comunicazioni societarie, falso in prospetto e aggiotaggio, sulla corretta contabilizzazione dei crediti deteriorati (Npl) di Mps nel periodo di gestione che va dal 2014 fino alla semestrale del 2016. Tra i 5 indagati, oltre all'ex presidente Alessandro Profumo e all'ex amministratore delegato Fabrizio Viola (già condannati in un altro filone), figurano anche l'ex presidente Massimo Tononi, attuale presidente di Banco Bpm, l'ex dirigente Arturo Betunio, e l'istituto di credito senese, iscritto per l'illecito amministrativo in base alla legge 231.

Le accuse nei loro confronti sono, a vario titolo, di false comunicazioni sociali e manipolazione del mercato, reati commessi «nell'interesse della stessa banca senese» e «per effetto dell'inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza». Nei prossimi giorni potrebbe arrivare la richiesta di rinvio a giudizio. 

«Sono tranquillo. Ho operato correttamente, nel pieno rispetto del (mutevole) quadro normativo e sempre nell'ambito di un proficuo e condiviso confronto con le autorità di controllo» ha commentato Profumo, attuale amministratore delegato di Leonardo. Sono state stralciate, invece, le posizioni dell'ex presidente del collegio sindacale Paolo Salvadori, dell'ex amministratore Marco Morelli, degli ex presidenti Alessandro Falciai e Stefania Bariatti e dell'ex dirigente Nicola Clarelli.

Proprio ieri La Verità aveva raccontato dei ritardi su questo procedimento più che mai travagliato, iniziato nel 2016 e poi, dopo una richiesta di archiviazione da parte della Procura, riaperto nel 2019 grazie a una perizia richiesta dal gip Guido Salvini. Roberto Fontana, uno dei titolari dell'indagine, è infatti candidato alle elezioni del Consiglio superiore della magistratura di questo fine settimana. L'ultima richiesta di proroga delle indagini era scaduta il 31 maggio scorso.

A luglio Fontana si era candidato impegnandosi per la campagna elettorale. Ora, se eletto, potrebbe insediarsi a Palazzo dei Marescialli e lasciare le sue funzioni di procuratore. Quindi bisognerà nel caso trovare un nuovo pm da affiancare a Giovanna Cavalleri. In ogni caso, nel dispositivo di chiusura delle indagini, si specifica che Profumo, Viola e Betunio, avrebbero alterato la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della banca, «cagionando alla banca e ai soci ai creditori e ai risparmiatori, un danno patrimoniale di rilevante entità». 

E lo avrebbero fatto «con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, con l'intenzione di trarre in inganno i soci e il pubblico ed al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, esponendo, nel bilancio consolidato relativo all'esercizio 2014 e nella relazione finanziaria semestrale al 30 giugno 2015 fatti materiali non corrispondenti al vero» o comunque ancora «oggetto di valutazione, nonché omettendo informazioni e/o fatti materiali la cui comunicazione è imposta dalla legge».

Nello specifico, i tre amministratori avrebbero iscritto nel bilancio consolidato del 2014, considerate anche le conclusioni della verifica della Bce, «rettifiche relative ai crediti deteriorati per un ammontare di 7,8 miliardi di euro, di cui, tuttavia, 4,4 sarebbero stati di competenza degli esercizi precedenti» e inoltre avrebbero omesso «di fornire informazioni in apposita sezione del bilancio - in violazione dei principi contabili internazionali». 

Non solo, sempre Profumo, Viola e Betunio, avrebbero riportato false informazioni nel prospetto informativo del 6 giugno 2014, relativo all'aumento di capitale da 5 miliardi di euro, «con l'intenzione di ingannare []» ed «[] esponevano false informazioni ed occultavano notizie in modo idoneo ad indurre in errore i medesimi destinatari del prospetto».

Tononi e Viola, invece, rispondono del bilancio 2015 dove avrebbero omesso di iscrivere «rettifiche relative a crediti deteriorati per un ammontare di 6.8 miliardi, riportando poi questi valori alterati nella relazione semestrale al 30 giugno 2016, determinando così «una falsa rappresentazione in merito ai valori del bilancio consolidato 2015».

L’INGEGNERE ROMANO: «CON DOMANI NON PARLO, DITE IL FALSO». Su Mps è scontro tra i giudici. Il Mef: ecco gli interessi di Bivona. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 17 giugno 2022

Le carte dell’indagine per aggiotaggio e insider trading che vede coinvolti l’ex ad di banca Monte dei Paschi di Siena Guido Bastianini e il finanziere Giuseppe Bivona sono piene di sorprese. Sui rapporti telefonici tra i due manager, sulle connessioni tra Bivona e il mondo politico e giudiziario, e i sospetti sulla fughe di notizie di alti dirigenti della banca come la presidente Patrizia Grieco.

L’11 febbraio di quest’anno i pm decidono di interrogare Alessandro Rivera, il direttore generale del Tesoro all’interno del ministero dell’Economia per sapere da Rivera, come persona informata sui fatti, chi ha avuto accesso, fuori e dentro il Mef, a informazioni riservate su Mps.

L’inchiesta che vede indagati il finanziere e l’ex ad Bastianini porta anche a una nuova guerra tra pm e gip di Milano.

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 17 giugno 2022.

C’è un’inchiesta segreta alla procura di Milano su un nuovo filone della vicenda che coinvolge il Monte dei Paschi di Siena. Un’indagine su cui stanno lavorando da oltre un anno i magistrati Maurizio Romanelli, Paolo Filippini e Giovanni Polizzi, che hanno indagato l’ex amministratore delegato Guido Bastianini per insider trading e manipolazioni del mercato. 

Insieme a lui, oltre ad alcuni giornalisti della Repubblica e del Messaggero, è stato iscritto nel registro degli indagati anche un soggetto estraneo alla banca ma ben conosciuto a coloro che seguono la storia recente dell’istituto senese.

Si tratta del finanziere Giuseppe Bivona, patron del fondo inglese Bluebell che con le sue denunce ha contribuito ad inguaiare i vecchi manager come Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, già condannati in primo grado per aggiotaggio e false comunicazioni sociali e oggi coinvolti in un altro procedimento per falso in bilancio in merito ai cosiddetti crediti deteriorati. 

L’inchiesta su Bastianini e Bivona procede silenziosa da tempo, ma è ormai alle fasi finali. La procura, dopo aver analizzato una decina di informative dettagliate della Gdf in merito ad alcune fughe di notizie price-sensitive della banca, ha infatti chiesto al giudice per le indagini preliminari Sofia Luigia Fioretta di intercettare i telefoni di Bivona e Bastianini o quantomeno di ottenere i tabulati degli indagati, ma senza successo. «Non ci sono sufficienti indizi di reato», il motivo principale del doppio diniego.

Dopo l’ultimo niet, arrivato il 24 marzo scorso, i pm Filippini e Polizzi si sono arresi, e hanno deciso di chiedere il 28 marzo l’archiviazione dell’indagine perché ci «sono preclusi ulteriori approfondimenti investigativi» dall’ufficio del gip. E perché le prove finora raccolte contro Bivona, Bastianini, i giornalisti Andrea Greco e Rosario Di Mito e l’amico di Bivona Giuseppe Di Stani, un manager di Bank of America, «non sono allo stato idonee per sostenere l’accusa in giudizio». 

Un nuovo scontro, dunque, tra la procura e l’ufficio dei gip di Milano. Che fa seguito a quello, durissimo, tra i pm che avevano chiesto più volte l’archiviazione delle posizioni di Profumo e Viola e il giudice Guido Salvini, che si è sempre opposto alla richiesta ordinando la prosecuzione delle indagini. Salvini, come vedremo più avanti, appare anche nelle carte della nuova inchiesta per insider trading: viene infatti indicato dalla finanza tra i contatti di Bivona. Non è l’unico colpo di scena contenuto nei faldoni.

Le 93 telefonate tra Bivona e Bastianini avvenute prima che quest’ultimo diventasse numero uno di Mps, i rapporti tra il finanziere di Bluebell con pezzi grossi del Movimento 5 stelle, le dichiarazioni a verbale di alti dirigenti del ministero dell’Economia (che oggi controlla il 64 per cento di Mps) come il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera, l’inchiesta rischia di riscrivere almeno in parte la storia recente di Mps. 

Al netto, ovviamente, di eventuali ripercussioni penali. Che però, vista la richiesta di archiviazione, sembrano ad oggi improbabili. Paola Severino, avvocato della banca toscana, a inizio maggio si è comunque opposta alla richiesta dei pm, evidenziando come le prove già raccolte sarebbero molte, e chiedendo che la procura effettui altre indagini interrogando soggetti dello staff di Bastianini, cacciato dal cda lo scorso febbraio e sostituito dal nuovo ad Luigi Lovaglio.

La mossa dei legali di Mps era scontata: è stato infatti Riccardo Quagliana, capo degli uffici legali della banca, a dare il via all’inchiesta per aggiotaggio e insider trading nel luglio 2020, depositando una serie di denunce per «notizie considerate price-sensitive indebitamente diffuse al pubblico tramite giornali o agenzie di informazioni». In tutto gli esposti sono quattro. 

Il primo è legato a un articolo di Repubblica sulle misure di rafforzamento patrimoniale di banca Mps per 700 milioni anche a capo del Mef («notizie diffuse in modo inesatto e fuorviante...che ha portato Mps ha una perdita del 6 per cento», si legge nella denuncia); un secondo prende invece di mira una serie di lanci di agenzia di fine ottobre 2020, in cui si davano informazioni numeriche segrete «sull’accantonamento deliberato dalla banca per rischi legali (470 milioni, ndr), su aumento di capitale (1,5 miliardi, ndr) e alla ipotetica operazione di fusione con Unicredit».

La terza denuncia di Mps alla procura di Milano tira in ballo Bivona in persona, che avrebbe indebitamente acquisito secondo Mps un’informazione privilegiata, cioè «la creazione di una data room da parte della banca, informazione (poi) fornita anche alla stampa e indebitamente divulgata». 

Infine, il quarto esposto di Mps cita un altro articolo di Repubblica in merito ai dettagli del nuovo piano industriale, con notizie sensibili e segrete rilanciate sempre da Bivona attraverso alcune dichiarazioni all’Ansa, con cui il finanziere annunciava la sua ennesima denuncia alla Consob e alla procura di Roma proprio sulla base degli articoli di Repubblica, accusando una gestione «amatoriale» delle informazioni riservate da parte di Mps.

Partendo da queste denunce, il nucleo di polizia economico-finanziario della Gdf di Milano delegato dai magistrati comincia a lavorare su alcuni profili. Innanzitutto su quello di Bivona, che con Bluebell possiede 25 azioni di banca Mps (pari oggi a 17,5 euro), e che contemporaneamente «opera da anni – si legge in un vecchio comunicato della banca – quale consulente di fondi internazionali che hanno convenuto in giudizio banca Mps formulando domande risarcitorie per importi significativi».

In effetti, risulta che il finanziere con natali romani sia consulente del fondo inglese Alken e degli americani di York, che hanno fatto cause a Mps rispettivamente per 450 e 186 milioni di euro.

Bivona è spesso dipinto dalla stampa amica come paladino dei piccoli risparmiatori, mentre secondo Mps la sua battaglia campale contro i manager dell’istituto avrebbe anche «un interesse di natura professionale». Di più: la banca in questi anni lamenta come Bivona e i fondi che lo hanno assunto come advisor non hanno reso «noti i termini e le condizioni del rapporto di consulenza tra lo stesso e i fondi in questione». 

A Domani, che lo ha sentito sul punto qualche tempo fa, Bivona non negò di aver firmato con Alken e con York dei contratti con success-fee (che in caso di vittoria nelle cause gli garantirebbero con ogni probabilità guadagni multimilionari), ma aggiunse che «non ci sono conflitti di interessi: faccio solo il mio lavoro, come lei fa il giornalista».

Il lavoro dei finanzieri è invece quello di indagare su impulso dei magistrati, che decidono di ricostruire i contatti telefonici di Bastianini e Bivona. Obiettivo: capire se siano stati davvero l’ad e Bivona ad aver favorito una illegale fuga di notizia sui giornali. 

I militari incrociano i dati telefonici e segnalano che, seppure tra Bivona e Bastianini «non risultano elementi di connessione diretta, né è nota l’origine della loro conoscenza/frequentazione», tra il 18 marzo 2019 e il 18 maggio 2020 (il giorno in cui Bastianini diventa ad della banca) tra i due ci sarebbero ben «91 contatti telefonici reciproci».

Che non hanno un andamento costante, ma si intensificherebbero nelle settimane in cui il nome di Bastianini viene dato in pole dai giornali come nuovo ad di Mps. Gli stessi contatti si interrompono di botto esattamente il giorno in cui Bastianini assume l’incarico. 

Confrontando un periodo in esame più ampio, che va da marzo 2019 a maggio 2021, i militari avvisano come «il numero dei contatti registrati con Bivona è inferiore solamente a quello registrato con il presidente Grieco e con il capo della direzione compliance» della banca. 

Le indagini raccontano come – in una classifica delle persone più gettonate nella rubrica di Bivona – Bastianini sia addirittura al decimo posto assoluto, indietro solo ai parenti e a Giuseppe Di Stani, amico di Bivona e per anni insieme a lui in Morgan Stanley. Oggi Di Stani è dirigente di Bank of America, advisor finanziario del Mef proprio in relazione al dossier Mps. 

«I contatti reciproci intervengono a ridosso di comunicati stampa Mps sulla situazione finanziaria del gruppo, delle iniziative di Bivona contro Mps e in generale degli sviluppi processuali dei procedimenti penali e civili posti in essere nei confronti degli ex amministratori di Mps (Profumo e Viola, ndr), nei quali lo stesso Bivona è interessato in qualità di consulente delle parti civili e delle parti attrici», si legge ancora nella nota della Finanza. Che, ovviamente, non ha contezza «del tenore delle interlocuzioni avute».

I finanzieri incrociano anche le celle telefoniche di Bivona e Bastianini, per verificare se i due si sono mai incontrati di persona. Identificano tre localizzazioni ravvicinate delle due utenze monitorate, avvenute tra dicembre 2020 e inizio febbraio 2021, che si collocherebbero secondo la Gdf «in un periodo connotato da una incalzante sequenza di eventi inerenti Mps e a diverso titolo coinvolgenti gli stessi Bastianini e Bivona».

Settimane caratterizzate dalle denunce a catena del finanziere contro Mps (comprese per la carenza di contromisure interne per prevenire l’indebita fuoriuscita di informazioni riservate) e dalla storia di un furto misterioso denunciato da Bastianini l’11 dicembre 2020. La sottrazione di un computer contenente dati aziendali riservati di Mps, rubato mentre era dentro uno zaino nella sua macchina aziendale. 

È importante rimarcare qui come le analisi delle celle possono dare solo tracce, ma non certificare senza il minimo dubbio che sia davvero avvenuto un incontro. Così come va ribadito che dall’entourage dei due manager si chiarisce che non ci siano mai state discussioni telefoniche tra Bivona e Bastianini in merito a notizie riservate della banca senese.

Agli atti dell’inchiesta c’è però anche un interrogatorio che verte in parte sui rapporti tra i due indagati. Quello del direttore generale del tesoro Rivera, avvenuto a febbraio di quest’anno. Sentito come persona informata sui fatti dai pm milanesi, il grand commis segnala come «durante le mie interlocuzioni con il presidente di Mps (la Grieco, ndr) ho avuto modo di apprendere lamentele su fughe di notizie, i cui sospetti ricadevano sull’ad dell’epoca, Bastianini. Non so spiegare perché Grieco ipotizzava una sua responsabilità». 

Rivera ricorda pure che la banca fece un audit straordinario per individuare i soggetti responsabili delle contestate fughe di notizie. Le conclusioni del report della Deloitte non portarono però a individuare responsabilità specifiche. L’interrogatorio di Rivera si conclude così: «Ho appreso dal ministro dell'Economia Daniele Franco che i rapporti tra Bastianini e Bivona sono ancora attuali». A febbraio 2022 Bastianini, seppur sostituito, era ancora nel cda della banca.

Torniamo all’inchiesta. I finanzieri scoprono incrociando il traffico telefonico altri dettagli considerati interessanti. Bastianini avrebbe per esempio avuto – fino al giorno in cui è diventato ad di Mps – decine di contatti con Eugenio D’Amico. Non un commercialista qualsiasi, ma il consulente tecnico del fondo Alken di cui Bivona è advisor, e che aveva fatto causa a Mps per 450 milioni di euro. Anche Bivona conta molti contatti con D’Amico. 

Per contestualizzare, va detto che nell’aprile 2019 le consulenze tecniche del commercialista di Alken vengono acquisite in sede penale, e «viene pure rendicontata – segnala ancora il nucleo economico finanziario – nel decreto di rigetto di archiviazione emesso dal gip Guido Salvini».

I militari, in proposito, aggiungono: «Assodata l’impossibilità di risalire al contenuto delle interlocuzioni, la sincronizzazione temporale fa emergere un possibile interessamento di Bastianini per la vicenda giudiziaria di Mps già un anno prima del suo ingresso in società». Può darsi, ovviamente, che Bastianini e D’Amico abbiano anche parlato di tutt'altro. Di altri affari, forse: leggendo le carte si scopre che D'Amico avrebbe girato circa 5mila erro al futuro amministratore delegato di Mps «a titoli di compensi da lavoro autonomo per prestazioni occasionali». 

Tornando a Salvini, come anticipato, il nome del gip compare a sorpresa anche tra i contatti telefonici di Bivona. Per la precisione, spunta nella lista fatta dai finanzieri in merito ai magistrati che «hanno esercitato o esercitano funzioni giurisdizionali» nell’ambito delle vicende Mps «innescate o coltivate proprio da Bivona», e che si sono rivelati poi in qualche connessione con lo stesso finanziere.

Gli investigatori contano cinque tra telefonate e sms con Salvini, «che risultano estemporanee e risalenti al 2019». Con un altro magistrato che si è occupato di Mps, l’allora sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano Felice Isnardi, «i contatti con Bivona sono più numerosi e distribuito fino al 2021». 

Il finanziere e Bastianini sembrano sentire spesso anche esponenti politici. In primis, il sottosegretario Carlo Sibilia, che con Bivona risulta avere 15 i contatti in un anno, «tracciati a ridosso della seduta del cda di Mps incentrata sulla promozione di un’azione legale contro Profumo e Viola». 

La Gdf evidenzia anche un possibile contatto indiretto attraverso Filippo Paradiso, un poliziotto e consigliere di Sibilia arrestato qualche tempo fa in merito a un’inchiesta per corruzione della procura di Potenza.

Nello stesso periodo Bivona ha contatti telefonici anche con Beppe Grillo, i parlamentari grillini Carla Ruocco e Francesco Berti, il consigliere regionale Giacomo Giannarelli, presidente della commissione regionale d’inchiesta su Mps per i Cinque Stelle. Bastianini, voluto ad dai Cinque Stelle, ha avuto invece contatti (radi) con l’M5S Riccardo Fraccaro, Bruno Astorre del Pd, i grillini Stefano Buffagni, Laura Castelli e Dario De Falco, i piddini Luca Lotti e Luciano d’Alfonso. 

Più significativi, per le indagini che ipotizzano i reati di insider trading e aggiotaggio, gli incroci tra le utenze degli indagati con i giornalisti. Sono decine, con i cronisti delle testate e le agenzie più importanti del paese. Pm e finanzieri si concentrano però sulle telefonate tra Bivona e l’autore dei pezzi di Repubblica citati nella denuncia su Mps, cioè Greco, definito «autore di articoli, talvolta in esclusiva, dedicati a Mps». E su quelli tra Bastianini e Dimito del Messaggero, non presente negli esposti ma indagato anche lui dalla procura per alcuni articoli assai informati sulla banca.

Gli investigatori elencano come il 23 luglio 2020 Bivona e il giornalista di Repubblica si sentano per 20 minuti. Il giorno dopo, il giornale esce con lo scoop «La Bce vuole dal Tesoro 700 milioni per Mps». La nota della Gdf ricorda che il titolo «subisce un decremento del 6,06 per cento». 

Tre mesi dopo, il 28 ottobre, altra telefonata di cinque minuti tra i due. È lo stesso giorno in cui Bivona sente per due volte «un’utenza intestata all’agenzia Reuters». Il giorno dopo la Gdf registra come Reuters «riveli in lingua inglese l’entità dell’accantonamento per i rischi legali in 470 milioni di neuro», mentre due giorni dopo un nuovo pezzo di Greco riprende le agenzie e annuncia come «Mps accantona mezzo miliardo». 

Il 13 gennaio 2021, nel giorno in cui esce la vicenda del piano, Bivona chiama Greco per 28 minuti (dunque l’interlocuzione è successiva al pezzo “denunciato” poi dalla banca). «Il 28 gennaio Bivona chiama il giornalista Greco; il 31 gennaio Repubblica pubblica l’articolo “Mps, ecco il piano per ridurre il rischio dei rimborsi miliardari”», concludono gli investigatori.

Le analisi dei militari convincono i pm a iscrivere Greco (che sembra aver fatto solo il proprio lavoro) nel registro degli indagati. Insieme al collega Dimito del Messaggero. Che finisce anche lui nel decreto di autorizzazione all’acquisizione di dati di traffico telefonico e telematico datato 16 marzo 2022 per via dei suoi numerosi contatti con Bastianini. 

Ben 125, dal giorno in cui l’ex manager Carige diventa numero uno dell’istituto. «Dimito, in contatto con Bastianini, è autore di articoli contenenti informazioni riservate di Mps diffusi anche in anteprima esclusiva a ridosso di eventi societari non già di pubblico dominio, contenenti notizie risultate vere», scrivono i pm chiedendo il permesso ai gip di andare a analizzare i tabulati (compreso il traffico dei messaggi Whatsapp, immaginiamo) dei due giornalisti, di Bivona e Bastianini, di Di Stani e di due dozzine di soggetti interni alla banca tra cui il presidente e i tutti i consiglieri (nessuno di questi risulta indagato).

Abbiamo provato a contattare Bastianini e Bivona per chiedergli la natura dei loro rapporti e se hanno spifferato ai cronisti, che fanno il loro dovere, informazioni riservate. Il primo ha preferito non commentare, il secondo ha detto: «Considerato l’uso distorto delle informazioni nella pacifica proposizione al falso di quanto Domani ha già recentemente scritto su di me, è ovvio che non ho alcuna ragione di parlare con voi».

Come abbiamo anticipato, il giudice Fioretta che già aveva detto no alle intercettazioni un anno prima di Bastianini e Bivona, nega pure la semplice acquisizione dei tabulati. «Difetta il requisito dei sufficienti indizi di reato», spiega, perché «non esiste ALLO STATO (in maiuscolo nel testo, ndr) alcun elemento indiziario che consenta di ipotizzare che le informazioni pubblicate sui giornali siano state oggetto di effettive condotte di divulgazione da parte di Bivona e/o Bastianini».

In secondo luogo, la giudice segnala che nel febbraio del 2021 le informazioni divulgate «in modo assolutamente doloso» hanno portato «al rialzo di quasi il 20 per cento in pochissimi giorni: circostanza incompatibile con una volontà di aggressione e di scalata della banca». Infine, l’audit interno della banca di cui ha parlato anche Rivera «si è concluso senza «attribuzione ad alcuno di specifiche responsabilità». 

Argomenti (la scalata e l’audit) che non vengono nemmeno citati dai pm nella loro richiesta di accedere ai dati. Ecco, forse, spiegato la rapidità con cui, subito dopo la decisione del gip, la procura ha chiesto l’archiviazione del procedimento, vista l’impossibilità di fare «ulteriori approfondimenti investigativi». 

Ora vedremo se l’ufficio del gip di Milano l’accoglierà, oppure – come accaduto nel caso di Profumo e Viola, grandi avversari di Bivona – chiederà nuove indagini.

Per la nostra magistratura Mps fu distrutta dagli alieni. Claudio Borghi su Il Tempo l'8 maggio 2022.

Tutti assolti. Il Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo, l'orgoglio di Siena e dell'Italia, non è stata distrutta da nessuno. Sono stati gli alieni, forse sono stati i no vax o forse è stato Putin. Questo è il verdetto della corte di appello di Milano che ha ribaltato il giudizio di primo grado assolvendo tutti i protagonisti del processo Monte dei Paschi e che vedeva affiancati personaggi la cui responsabilità pareva solare ad altri che, probabilmente, in effetti non meritavano la condanna in quanto meri esecutori di spregiudicate manovre finanziarie per occultare l'enorme buco creatosi con numerose spoliazioni culminate con il disastroso acquisto della banca Antonveneta.

Qui sta però il vulnus iniziale di tutta questa storia: il processo è stato fatto alle manovre per nascondere il cadavere mentre non si è mai voluto indagare a fondo l'omicidio. Ma è mai possibile che si possa gestire una banca di tale rilevanza presentandosi dal direttore finanziario, due giorni prima del consiglio di amministrazione che doveva decidere l'acquisto, domandando: "Abbiamo nove miliardi?" (Parole testuali raccontate dal Dott. Pirondini, appunto allibito direttore finanziario, davanti alla Commissione d'inchiesta per la morte di David Rossi).

È mai possibile che Banca d'Italia non fece una piega e approvò (con tanto di pregiata firma dell'allora Governatore Mario Draghi) un acquisto così sconsiderato? È mai possibile che la Fondazione incenerì un capitale rappresentativo di ricchezze accumulate per secoli senza che nessuno ne debba rispondere? Evidentemente in Italia si può. Evidentemente se eri in una banca che era simbolo del potere della sinistra in Toscana si può.  Evidentemente se ti giudicano a Milano si può.

Fatto sta che dal Monte Paschi al culmine della sua ricchezza sono stati cancellati cinquanta miliardi (stima della Commissione d'Inchiesta del Consiglio Regionale Toscana) e nessuno è colpevole.

Provate voi a rubare 50 euro. Mancano nove zeri. E l'ultimo zero è per la fiducia nella giustizia.

Mps, tutti assolti in appello per il caso dei derivati: sentenza ribaltata. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.  

Assolti a Milano tutti gli imputati, sia le persone e sia le banche straniere, nel processo d’Appello sul contestato aggiotaggio in una serie di operazioni finanziarie realizzate da Monte dei Paschi di Siena sui prodotti derivati «Alexandria» e «Santorini» per coprire le perdite provocate dall’acquisto di Antonveneta. La Corte, nel confermare solo le prescrizioni già maturate per i falsi in bilancio, e nel dichiarare la prescrizione su un pezzetto di falso in prospetto (assolvendo sulla restante parte), sull’aggiotaggio ha assolto tutti con formula piena «perché il fatto non sussiste». E, disattendendo le richieste della pg Gemma Gualdi, ha cancellato le condanne che nel 2019 il Tribunale di Milano aveva inflitto (7 anni e 6 mesi) all’ex presidente di Mps Giuseppe Mussari, e all’ex direttore generale di Mps Antonio Vigni (7 anni 3 mesi). Assolti anche Daniele Pirondini, ex direttore finanziario (5 anni e 3 mesi), Gianluca Baldassarri, ex responsabile dell’area Finanza, (4 anni e 8 mesi), e Marco Di Santo, all’epoca dei fatti responsabile Alm (Asset lliabilities management e capital management) all’interno dell’area Tesoreria (2 anni e 6 mesi).

Azzerate le confische

La sentenza vale poi oro per gli istituti di credito tedesco Deutsche Bank e giapponese Nomura, perché azzera la confisca rispettivamente di 66 e 88 milioni di euro che avevano subìto in Tribunale (e che già erano state assai inferiori al miliardo di euro proposto dalla Procura). In Deutsche Bank vengono assolti Ivor Scott Dunbar, managing directo -co-head of Global capital markets della filiale di Londra (che in primo grado era stato condannato a 4 anni e 8 mesi), Michele Faissola, managing director-head of Global rates (4 anni e 8 mesi), Michele Foresti che era managing director-head of Structured trading (4 anni e 8 mesi), Dario Schiraldi come managing director -head of Europe sales (3 anni e 6 mesi), Matteo Angelo Vaghi già managing director -head of Italian Sales (3 anni e 6 mesi), e Marco Veroni, in qualità di direttore - account manager di Db London in relazione al cliente Mps (3 anni e 6 mesi). In Nomura l’assoluzione arride al top manager Sadeq Sayeed (4 anni e 8 mesi in primo grado), e a Raffaele Ricci, all’epoca dei fatti responsabile delle vendite per l’Europa e il Medio Oriente di Nomura (3 anni e 5 mesi). Soddisfatti, ovviamente, i legali degli imputati, mentre la Corte ha anche condannato una ventina di parti civili, quelle che avevano impugnato il primo grado, a pagare le spese processuali del grado.

MONICA SERRA per la Stampa il 7 maggio 2022.

Dopo anni di indagini e oltre cento udienze in primo grado, la Corte d'appello di Milano ha ribaltato la sentenza e assolto con formula piena, «perché il fatto non sussiste», gli ex vertici della banca Monte dei Paschi di Siena, a partire dall'ex presidente Giuseppe Mussari, che il Tribunale aveva condannato a 7 anni e mezzo di carcere. E che anche ieri, senza nascondere l'ovvia soddisfazione, non ha voluto commentare la decisione: «Ho scelto di difendermi solo e soltanto nelle aule di giustizia - ha spiegato - e non vi è ragione di mutare registro proprio oggi». 

La Corte d'Appello, presieduta dal giudice Angela Scalise, ha anche revocato le confische a Deutsche Bank Ag e Deutsche Bank London Branch (per oltre 64 milioni di euro) e Nomura (88 milioni), imputate nel processo in base alla legge sulla responsabilità degli enti. Con Mussari è stato assolto l'ex direttore generale della banca senese Antonio Vigni, condannato in primo grado a 7 anni e 3 mesi. Entrambi erano ritenuti dalla procura i principali artefici di reati come il falso in bilancio e l'aggiotaggio commessi - per l'accusa - con l'obiettivo di coprire l'enorme buco di bilancio che si era creato dopo che l'istituto senese aveva acquisito Banca Antonveneta per 9 miliardi di euro nel 2008. 

Tra i manager assolti c'è anche l'ex capo dell'area finanza Gianluca Baldassarri, che in aula ha ricordato come questa vicenda per lui è «iniziata in maniera drammatica», con l'arresto voluto dalla procura di Siena dove era partita oltre dieci anni fa l'inchiesta, finita poi a Milano per competenza territoriale. «Sono molto contento - ha dichiarato - che alla fine sia caduto l'ultimo pilastro di questa vicenda montata sulle menzogne di personaggi privi di scrupoli». 

Al centro del processo vi erano i derivati Santorini e Alexandria, sottoscritti da Mps con il gruppo tedesco Deutsche Bank e quello giapponese Nomura che, secondo l'ipotesi accusatoria, erano serviti a nascondere la reale situazione finanziaria della banca senese. Per tutti e 16 gli imputati, fra persone fisiche e giuridiche, la sostituta procuratrice generale Gemma Gualdi aveva chiesto la conferma delle condanne, con qualche aggiustamento, dovuto alla prescrizione di alcuni capi d'accusa.

Alla lettura del dispositivo, grandissima soddisfazione è stata espressa in aula dai difensori. «La giustizia funziona, gli anticorpi costituzionali hanno reagito. Verrà il tempo per rileggere, a mente fredda, una pagina poco felice della nostra storia giudiziaria», ha affermato Francesco Centonze che con Carla Iavarone, assiste Vigni. E ancora: «Questo è il disvelamento di come si esercita il terribile potere di accusa in Italia, dove, per fortuna, esiste ancora un giudice, rintanato a Berlino», è il commento dei legali di Mussari, Tullio Padovani, Francesco Marenghi e Fabio Pisillo. «Dopo un immenso dispendio di energie professionali e personali, finalmente abbiamo restituito ai nostri assistiti la serenità», ha commentato Giuseppe Iannaccone, mentre Francesco Isolabella ha parlato di «giudici coraggiosi». «È stato riconosciuto - ha dichiarato Guido Alleva, legale di Nomura - che il comportamento della banca era stato assolutamente regolare e che l'operazione conclusa si è svolta nella piena legalità, come abbiamo sempre sostenuto». Per leggere le motivazioni della decisione bisognerà attendere 90 giorni. Ma con essa non si esaurisce il ruolo dei magistrati milanesi nella ricostruzione dei fatti intorno al crac senese.

C'è un altro filone che a breve arriverà in Appello: sono imputati l'ex presidente della banca, Alessandro Profumo (oggi amministratore delegato di Leonardo), e l'ex ad di Mps Fabrizio Viola, entrambi condannati a sei anni in primo grado sempre per aggiotaggio e falso in bilancio, nonostante le richieste di assoluzione che tanti problemi hanno rimediato alla procura (con un'inchiesta a Brescia che vede indagato l'ex capo Francesco Greco). E un terzo troncone, sulla gestione dei crediti deteriorati, ancora in fase di indagini preliminari.

Mps, in Appello tutti assolti: bye bye Grillo e Travaglio. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Maggio 2022. 

Ribaltone a Milano nel processo nei confronti degli ex top manager di banca Monte dei Paschi di Siena. La Corte d’Appello del capoluogo lombardo ha assolto ieri con formula piena tutti gli imputati. Il procedimento riguardava i derivati ‘Santorini’ ed ‘Alexandria’, sottoscritti da Mps con Deutsche Bank e la giapponese Nomura e che, secondo i pm, sarebbero serviti a nascondere la disastrata situazione finanziaria della banca senese e in particolare le perdite, circa 10 miliardi, causate dall’operazione di acquisto di banca Antonveneta.

In primo grado, nel 2019, il tribunale di Milano, fra gli altri, aveva condannato a 7 anni e mezzo di carcere l’ex presidente Mps, nonché ex numero uno dell’Abi, Giuseppe Mussari, a 7 anni e 3 mesi l’ex direttore generale Antonio Vigni, a 4 anni e 8 mesi l’ex responsabile area finanza Gian Luca Baldassarri. Per loro l’accusa era di manipolazione del mercato, falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo all’autorità di vigilanza. Le presunte irregolarità sarebbero state commesse tra il 2008 ed il 2012.

L’indagine divenne di pubblico dominio a gennaio del 2013 quando il Fatto Quotidiano pubblicò in prima pagina un articolo dal titolo: “Monte dei Paschi, accordo segreto tra Mussari e Nomura per truccare i conti. Trovato in una cassaforte il patto tra l’ex presidente di Mps e la banca giapponese”.

Nell’articolo veniva raccontata con dovizia di particolari l’attività della Procura di Siena per far luce su questo ‘patto’ finalizzato a far sparire dal bilancio della banca un buco di almeno 220 milioni di euro. Il fascicolo era in carico ad Aldo Nicolini e Antonino Nastasi, gli stessi pm che poi indagheranno sulla morte dell’ex responsabile comunicazione della banca di Rocca Salimbeni David Rossi. La vicenda penale venne cavalcata dalla grande stampa e dai vertici del Movimento cinque stelle. Beppe Grillo arrivò anche presentarsi l’anno dopo a Siena all’assemblea straordinaria degli azionisti. “Questa è la mafia del capitalismo, non la Sicilia”, disse Grillo. “Qui siamo nel cuore della peste rossa e del voto di scambio”, aveva poi aggiunto, sottolineando che Mussari fosse una persona che “non era capace nemmeno di fare un bonifico”. Grillo mise nel mirino il Pd con cui era sfumato l’accordo di governo: “Banca Monte dei Paschi è stata distrutta, dentro c’era tutto il Pd. Allora bisogna prendere tutti i vertici del Pd, dal 2005 ad oggi e processarli”.

Il sostituto procuratore generale di Milano, Gemma Gualdi, nella sua requisitoria aveva chiesto di confermare tutte le condanne emesse in primo grado, tenendo però conto dell’intervenuta prescrizione per una serie di capi d’imputazione. Ridotta di 14 mesi rispetto alla condanna di primo grado, ad esempio, la richiesta per Mussari.

Tutti gli imputati hanno sempre respinto ogni addebito, sostenendo che nulla fu occultato delle operazioni e nessun trucco contabile era stato utilizzato. E questo perché i principi e le linee guida contabili su come registrare le operazione erano perfettamente conformi a quanto prescritto dalla Banca d’Italia, in quel periodo governata dall’attuale premier Mario Draghi, che non aveva mai evidenziato criticità di alcun tipo.

“Va assolto da tutte le accuse”, aveva affermato il difensore dell’ex numero uno della banca senese, l’avvocato Tullio Padovani al termine dell’arringa nel corso della quale aveva evidenziato “che Mussari era servito come un facile bersaglio da erigere a responsabile di un evento catastrofico”. Oltre ad assolvere tutti gli imputati, la Corte d’Appello ha anche annullato le varie maxi confische che era state disposte con la sentenza di primo grado. Le parti civili erano circa 1400, rappresentate da oltre 90 legali. Tra queste non figurava la Fondazione Mps che aveva raggiunto un accordo stragiudiziale con Rocca Salimbeni per 150 milioni di euro, ritirando così la costituzione di parte civile. Per le motivazioni della sentenza bisognerà attendere novanta giorni. Paolo Comi

Nessun colpevole per il Montepaschi. È l'ennesimo pasticcio giudiziario. Stefano Zurlo l'8 Maggio 2022 su Il Giornale.

La sentenza d'appello ha ribaltato il giudizio di primo grado: chi ha sbagliato? L'ira delle vittime: "È una vicenda grottesca".

Indagini sbagliate. E processi fatti peggio. Alla fine, ecco in appello, il naufragio del segmento Mps che riguardava gli aggiotaggi sui prodotti finanziari. Tutti condannati in tribunale, a Milano, tutti assolti in appello. Gli avvocati degli imputati ci speravano e ritenevano assai sdrucciolevoli le motivazioni del verdetto di primo grado. Sono stati accontentati, con un azzeramento quasi stupefacente delle pene inflitte in prima battuta, e ora rimbalza la domanda impertinente di sempre: tutto il disastro di Siena è avvenuto per autocombustione?

Gli ex vertici Giuseppe Mussari e Antonio Vigni, che nel 2008-9 avrebbero messo in piedi sofisticate operazioni su prodotti finanziari per nascondere le perdite causate dall'acquisto di Antonveneta, sono stati assolti con formula piena. Forse, il dito andava puntato in un'altra direzione, sui crediti deteriorati in pancia a Mps, oggetto dell'ennesimo filone di indagine, ma intanto le polemiche dilagano.

«È una vicenda grottesca - spiega all'Adnkronos Letizia Giorgianni, presidente dell'Associazione vittime del Salvabanche - Qualcuno si è sbagliato. O il giudice nel corso del primo giudizio, o il giudice dell'appello».

Forse il fascicolo delle performance, appena introdotto fra le furibonde proteste dell'Associazione nazionale magistrati, potrebbe servire per chiarire situazioni così imbarazzanti: come può accadere che sulle stesse carte due collegi arrivino a scrivere verdetti che fanno a pugni l'uno con l'altro?

Attenzione: la coppia Mussari - Vigni ha seguito lo stesso percorso anche nell'ennesimo filone, quello per ostacolo alla vigilanza: condanna in primo grado, assoluzione in appello.

È tranchant Pierluigi Piccini, ex sindaco di Siena: «Il verdetto della corte d'appello non può che suscitare stupore e incredulità, anche se senza le motivazioni è difficile esprimere un giudizio. Ora è tutto chiaro: Antonveneta si è comprata da sola. Quello che mi colpisce - aggiunge Piccini - è che le spese del processo saranno a carico delle parti civili e credo sarà un esborso notevole. La conclusione che sembra delinearsi dopo questa sentenza é che non è successo nulla».

Insomma, siamo all'ennesimo pasticcio italiano, con immancabile e velenosa coda a Brescia dove si scava sull'ipotesi di un'omissione d'atti d'ufficio da parte della magistratura di rito ambrosiano.

«La storia del nostro Paese - è il commento davanti alle telecamere di Omnibus di Lando Maria Sileoni, segretario generale della Fabi - è pieno di buchi neri. E quando ci sono scandali evidenti sembra che siamo un Paese di fantasmi. Non si trova mai un colpevole, gli avvocati sono sempre molto bravi e più bravi rispetto alla controparte. Insomma, si trova sempre una soluzione che in qualche modo mette una pietra tombale su eventi catastrofici».

Parla invece del futuro della banca il segretario del Pd Enrico Letta: «Su Mps si è toccato il fondo l'anno scorso, quando si è immaginato che la fine di tutto fosse una svendita. Quella vicenda è definitivamente superata. Ora c'è una prospettiva positiva».

Basta con i pm arbitri del bene e del male. Sentenza Mps nella storia, le assoluzioni fanno implodere il rito ambrosiano. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Maggio 2022. 

Ci sono almeno due buone ragioni per cui la sentenza della seconda corte d’appello di Milano che ha cancellato le condanne agli ex dirigenti del Monte Paschi di Siena entrerà nella storia. La prima è che, con le assoluzioni dell’ex Presidente Giuseppe Mussari e dell’ex direttore generale Antonio Vigni, implode per l’ennesima volta il mito del rito ambrosiano sulla giustizia, dopo la catastrofe del processo Eni e la guerriglia permanente che ne è derivata. L’altro motivo, ancora più di fondo, è il disvelamento di quanto sia velleitario l’eccesso di giurisdizione che ammorba la democrazia italiana ormai da un trentennio.

La demolizione, mattoncino dopo mattoncino, dei grandi scandali giudiziari italiani, quelli politici come quelli dell’area economica, finanziaria o bancaria, mostra quanto inadeguato e spesso nocivo fosse lo strumento giudiziario per regolare i conflitti. Il Palazzo di giustizia di Milano, quello delle fiaccolate con “Di Pietro facci sognare” e del mito salvifico di una giustizia che avrebbe aggiustato tutto, ne è l’emblema. Con le sue macerie. Nessuno vuol dare assoluzioni morali o politiche e men che meno finanziarie a quei vertici di Mps (e ai loro referenti di partito) con i loro marchingegni costruiti con i derivati per rimediare al disastro economico conseguente all’acquisizione di Antonveneta.

Ma la storia politica del Paese si è costruita anche sul fatto che solo un Pubblico Ministero sia in grado di affrontare ogni problema della società. E di giudicare i comportamenti degli individui. Questo è il vulnus di fondo, insieme a tanta approssimazione e spesso scarsa capacità professionale nelle indagini, che porta poi a sentenze che appaiono come “scandalose”. Inchieste, e a volte anche processi di primo grado, pasticciati e influenzati dalle vigorose “campagne di stampa” e propaganda politica (un po’ di tutte le parti) hanno convinto la gran parte del Paese del fatto che il Sole ruotasse intorno alla Terra. La Terra dei Pubblici ministeri, con una furia accusatoria che non ha eguali nel mondo occidentale.

Pare essere arrivato il momento di una vera rivoluzione copernicana. Sono ormai tanti gli elementi storici che lo dimostrano. È stato quasi liberatorio il grido del professor Tullio Padovani, difensore di Giuseppe Mussari, subito dopo la sentenza, quando ha detto “Questo è il disvelamento di come si esercita il terribile potere di accusa in Italia”, segnalando forse l’inizio della fine di un’intera stagione di processi economici a Milano. Quella stagione aperta, dopo la fase più politica iniziata negli anni novanta con Mani Pulite, dall’ex procuratore Francesco Greco. Oggi indagato a Brescia –paradosso della storia- per una sorta di accanimento assolutorio nei confronti di altri dirigenti, quelli successivi a Mussari e Vigni, del MPS. È la vicenda, che viene dopo quella del “trattamento Eni”, rispetto alla quale vi sono indagini aperte alla procura di Brescia, della “benevolenza MPS”.

Quello che ha portato a uno scontro con la procura generale di Milano, emerso solo dopo il pensionamento di Francesco Greco e prima dell’arrivo di Marcello Viola. Quando il reggente l’ufficio Riccardo Targetti aveva scoperto che alle ripetute richieste di chiarimenti su alcune perizie avanzate dalla pg Gemma Gualdi, la procura aveva fatto orecchio da mercante, non rispondendo neppure alle mail. E proseguendo sulla propria linea innocentista, chiedendo il proscioglimento degli indagati, il presidente Alessandro Profumo e l’ad Fabrizio Viola, in seguito però rinviati a giudizio dal gup Guido Salvini e poi condannati in primo grado. Singolare sorte, quella dell’ex procuratore Francesco Greco, sospettato dal sostituto Paolo Storari di “inerzia” per la storia della loggia Ungheria, e poi dalla procura generale anche di voler proteggere gli uomini del nuovo corso, voluto allora dal presidente del consiglio Matteo Renzi, della banca più antica d’Italia, quella di Siena.

Ma al contempo poi accusato di un vero accanimento rispetto al processo Eni. Potremmo pensare di essere in presenza di normali dinamiche giudiziarie, ovvie in un Paese come l’Italia in cui ci sono tre gradi di giudizio. Ma non è così. E quel grido del professor Mantovani che qualificava come “terribile” il potere di accusa per come si è realizzato in questi anni, è un atto di denuncia di quel che ha permeato tutta quanta la società, apparsa in gran parte come criminale e in cui ogni comportamento diventava reato. Il tutto sotto l’ombrello del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Usato come un elastico, per accanirsi o per esercitare benevolenza. Quindi in violazione dello spirito della Costituzione. È questa la vera “terribilità” che si sta squagliando come neve al sole dopo sentenze come quella dell’appello di MPS. Che sta già entrando nella storia.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il bluff dello scandalo Monte dei Paschi di Siena ha bruciato 6,5 miliardi di euro pubblici: tutti assolti. Andrea Giacobino su Il Tempo il 07 maggio 2022.

La sentenza di ieri che ha ribaltato le condanne in primo grado inflitte a fine 2019 all'ex presidente del Monte dei Paschi di Siena Giuseppe Mussari e all'ex direttore generale Antonio Vigni fino agli istituti internazionali Deutsche Bank e Nomura, nel processo di secondo grado sul caso derivati, ha lasciato sconcertati gli addetti ai lavori. Ma la decisione suscita anche numerosi interrogativi su quello che è stato rappresentato come uno dei più grandi scandali finanziari italiani che ha scosso le fondamenta della banca più antica del mondo, appunto il Monte, affondata da 23 miliardi di euro di perdite in 10 anni. Senza contare che la sentenza di ieri viene dopo quella di primo grado dello stesso tribunale, che nell'ottobre del 2020 ha condannato Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, all'epoca dei fatti rispettivamente presidente e amministratore delegato di Mps e successori di Mussari e Vigni, per aggiotaggio e false comunicazioni sociali in relazione alla prima semestrale 2015 della banca. Con la decisione di ieri, così, i vecchi manager che hanno creato il buco contabile della banca sono stati assolti mentre quelli che sono loro succeduti per raddrizzare l'istituto saranno costretti ad aspettare l'esito dell'appello. Una cosa è certa: a pagare il conto di questo disastro sono stati tutti gli italiani.

Dopo anni di perdite della banca, infatti, nel 2017 sotto il governo di Matteo Renzi l'allora ministro dell'economia e delle finanze Pietro Carlo Padoan decise di nazionalizzare il Monte rilevandone il 64,2%. L'intervento della mano pubblica, vale a dire l'uso dei denari dei contribuenti, è costato circa 7 miliardi di euro fra aumento di capitale e rimborso delle obbligazioni subordinate. È stato almeno un buon investimento? Nient'affatto. Perché oggi la partecipazione del Mef, sia pur comprensiva del premio di maggioranza, vale al massimo 500 milioni, con ciò significando che la nazionalizzazione ha bruciato 6,5 miliardi usciti dalle tasche degli italiani. E non vale nemmeno consolarsi nell'attesa che quella partecipazione possa rivalutarsi grazie alla privatizzazione del Monte. Perché il governo di Mario Draghi, che pure avrebbe dovuto secondo gli impegni originari assicurare all'Unione Europea che la banca sarebbe tornata in mani private entro la fine dello scorso anno, non l'ha fatto, almeno per ora. Anche se proprio Padoan è andato a presiedere quell'Unicredit candidato all'acquisto-salvataggio, poi sfilatosi per volontà del nuovo amministratore delegato Andrea Orcel.

Non va poi dimenticato che il salasso senese per i contribuenti potrebbe presto aumentare. Infatti, come si legge nel bilancio 2020 della banca, «nel caso in cui Mps non dovesse riuscire a trovare un partner con cui aggregarsi lo stato italiano ha garantito pieno sostegno alla sottoscrizione pro-quota dell'aumento di capitale da 2,5 miliardi che la banca si troverebbe a dover realizzare». Se a pagare il conto del disastro Mps, quindi, sono stati tutti gli italiani che dalla sentenza di ieri non trovano oltretutto davanti più nessun colpevole, a scontare il danno d'immagine sono anche le istituzioni pubbliche coinvolte in questo disastro. La Consob anzitutto che autorizzò i prospetti informativi dei ripetuti aumenti di capitale (inutili) del Monte. E la Banca d'Italia che nel 2007 autorizzò Mussari a strapagare l'istituto di credito spagnolo Santander per comprare la banca Antonveneta, zavorrando il Monte del peso che l'ha poi affondato. Due dettagli: l'allora governatore della banca centrale si chiamava Draghi e il banchiere d'affari consulente fra il Santander e Mussari si chiamava Orcel.

Monte Paschi di Siena, tutti assolti. La banca “rossa” resta il regno dei misteri e dell’impunità. Leo Malaspina venerdì 6 Maggio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Tutto da rifare, sul fronte delle truffe contabili al Monte dei Paschi di Siena, in attesa che si faccia chiarezza sulla morte di David Rossi. I giudici della corte d’appello di Milano hanno ribaltato la sentenza di primo grado e assolto gli ex vertici della banca Mps imputati nel processo su presunte irregolarità in operazioni finanziarie che, dal dicembre 2008 al settembre 2012, sarebbero servite a occultare le perdite causate dall’acquisto di Antonveneta, costata circa 10 miliardi di euro nel 2008. Assolto l’ex presidente Giuseppe Mussari (7 anni e 6 mesi in primo grado), così come l’ex dg Antonio Vigni (7 anni e 3 mesi) e l’ex responsabile area finanza Gianluca Baldassarri (4 anni e 8 mesi). Per la corte su diversi capi “le condotte si sono estinte per prescrizione”, per altre accuse “il fatto non sussiste” o “non costituisce reato”.

Assolti anche Daniele Pirondini (ex direttore finanziario di Mps), così come i manager e gli ex manager di Deutsche Bank e di Nomura. Deutsche Bank Ag, Deutsche Bank London Branch e Nomura (imputate per la legge 231) sono state assolte e sono state revocate le confische pari a 64 milioni per i tedeschi e 88 milioni per Nomura. La banca senese uscì dal processo con un patteggiamento nel 2016.

L’oggetto del processo, nato a Siena, sono state le operazioni sui derivati Santorini e Alexandria, sul prestito ibrido Fresh e sulla cartolarizzazione Chianti Classico. Operazioni che secondo l’accusa sarebbero state utilizzate per nascondere perdite per oltre 2 miliardi di euro. La sentenza è stata accolta con abbracci e lacrime di soddisfazione da parte dei difensori, contrariata invece il pg Gemma Gualdi che aveva chiesto la condanna degli imputati.

Dal dispositivo letto dalla corte (presidente Angela Scalise) emerge come la prescrizione sia intervenuta per i fatti fino all’agosto 2011, mentre il fatto “non sussiste” o “non costituisce reato” per quelli successivi al centro del processo che ha portato all’assoluzione degli ex vertici di Mps ma anche di sei funzionari di Deutsche Bank (tra cui Ivor Scott Dunbar, Michele Faissola e Michele Foresti) ed ex manager di Nomura come Sadeq Sayeed, all’epoca ceo di Nomura International Plc London.

Nel mirino c’era anche l’acquisizione di Antonveneta

L’inchiesta milanese era nata dopo la decisione della procura di Siena di inviare alcuni atti di indagine nel capoluogo lombardo per competenza territoriale. Nel mirino dei magistrati Mauro Clerici, Stefano Civardi e Giordano Baggio erano finiti i derivati ‘Alexandria’ e ‘Santorini’ – il primo sottoscritto con la giapponese Nomura, il secondo con Deutsche Bank – , il prestito ibrido Fresh e la cartolarizzazione immobiliare Chianti Classico (già prescritto in primo grado). Operazioni legate all’acquisizione di Antonveneta ma che, secondo l’accusa, portarono a perdite, che sarebbero state occultate dagli imputati con l’intento di “conseguire per sé e per altri un ingiusto profitto”, secondo il capo di imputazione.

Nel processo d’appello il pg Gualdi aveva ha chiesto la condanna a 6 anni e 4 mesi per l’ex presidente della banca senese Mussari, a 6 anni per Vigni ex direttore generale di Mps, e a 4 anni per Gian Luca Baldassarri ex responsabile dell’area Finanza dell’istituto senese. Condanne inferiori rispetto al primo grado vista la prescrizione che si era abbattuta su diversi capi di imputazione. Oggi per gli imputati (banche incluse) che devono rispondere, a vario titolo, di manipolazione del mercato, falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo all’autorità di vigilanza è arrivata l’assoluzione piena.

Camilla Conti Alessandro Da Rold per “la Verità” il 29 marzo 2022.

Il 4 marzo 1472 con 196 voti a favore e solo 14 contrari, il Consiglio della Campana del Comune di Siena approva l'istituzione di un Monte di Pietà o Monte pio, al fine di concedere il prestito alle «povare o miserabili o bisognose persone» con un tasso d'interesse minimo. Viene fondato così il Monte dei Paschi. Sono passati 550 anni, e ora Mps vive il suo ennesimo anno di svolta. 

Con un nuovo ad, Luigi Lovaglio che deve trovare un cavaliere bianco per far scendere lo Stato dal Monte. Impresa ambiziosa, per usare un eufemismo. Perché i fantasmi del passato tornano sempre e pesano ancora sui conti della banca, tecnicamente fallita già nel 2013 come ammise a fine dicembre di quell'anno lo stesso governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. E quei fantasmi risputano dalle inchieste e dai processi ancora aperti che vedono citati ex presidenti e amministratori delegati dal 2007 al 2020. 

Tutte ruotano attorno agli aumenti di capitale e agli escamotage contabili fatti per cercare di tappare la falla aperta dalla sciagurata acquisizione di Antonveneta autorizzata dalla Bankitalia di Mario Draghi e costata quasi 17 miliardi. Ma a minare le fondamenta dell'istituto più antico del mondo - complici i «grovigli armoniosi» tra finanza e politica - non è stato solo il dolo, presunto o accertato. 

È stata anche una gestione pessima della vera bomba a orologeria che prima o poi sarebbe scoppiata, e che l'affaire Antonveneta del 2007 ha solo innescato più velocemente. La bomba sono i crediti deteriorati. E quanto fosse pericolosa, anche per chi ha cercato per anni di continuare a tenere in vita la banca a caro prezzo per i contribuenti, lo si capisce proprio dalle carte delle inchieste più recenti che La Verità ha potuto consultare.

La chiave di tutto è il rapporto della Bce (al tempo già presieduta da Draghi) che il 2 giugno 2017 riportava a Rocca Salimbeni i risultati dell'ispezione fatta dal 17 maggio 2016 al 17 febbraio 2017. Ma anche la sterminata perizia degli esperti Giangaetano Bellavia e Fulvia Ferradini che vengono incaricati dal gip Guido Salvini di verificare la corretta contabilizzazione, tra il 2012 e il 2015, delle rettifiche nei bilanci su miliardi di crediti deteriorati e i relativi accantonamenti.

Dalla maxiperizia, assunta come prova nel processo con incidente probatorio, emerge che nell'arco di quegli anni Mps non aveva contabilizzato tempestivamente nei propri bilanci rettifiche su crediti per complessivi 11,42 miliardi di euro, pari a 7,77 miliardi al netto dell'effetto fiscale, cifra «di importo pressoché analogo» agli 8 miliardi chiesti al mercato con gli «aumenti di capitale avvenuti fra il 2014 ed il 2015». 

La perizia mette anche in dubbio la correttezza dei conti 2016 e 2017, e questo in caso di imputazione potrebbe indurre la Commissione Ue a interpretare come aiuti di stato i 5,4 miliardi che il Tesoro, nel 2017, versò a Mps come ricapitalizzazione precauzionale per evitarne la chiusura. Al netto delle conseguenze, ancora imprevedibili, ciò che sicuramente mostrano le carte è come venivano gestiti ancora nel 2015 i crediti difficili da riscuotere o già in sofferenza di clienti e aziende.

Partiamo dalle 85 pagine del rapporto delle ispezioni della Bce redatto il 2 giugno 2017. Il team ispettivo aveva preso in esame un campione di 1.534 posizioni creditorie in bonis e/o deteriorate presenti nel bilancio del gruppo Mps al 31 dicembre 2015. L'ispezione stima che saranno necessari ulteriori accantonamenti per 7,55 miliardi, rispetto ai 22,7 miliardi esistenti a fine 2015.

Cosa non ha funzionato nella gestione dei rischi da parte del Monte? I rilievi sono impietosi. «Il processo per individuare le esposizioni al rischio di credito che hanno subito una riduzione di valore non funziona correttamente: di conseguenza, la probabilità di default non è stimata correttamente», si legge nel rapporto della Banca centrale. «L'esame della documentazione delle garanzie nella documentazione creditizia campionata ha rivelato un conteggio doppio o multiplo», il cda della banca «non è sufficientemente informato del deterioramento della qualità del rischio di credito», sono evidenziate lacune nei processi di raccolta e aggregazione dei dati, e «carenze nei sistemi informatici della banca».

Non solo. Le verifiche sulle garanzie immobiliari effettuate dagli ispettori hanno evidenziato che mancano i dati catastali di un numero significativo di garanzie immobiliari nei database del gruppo e «si può trovare la stessa garanzia immobiliare con numeri identificativi diversi in diverse società del gruppo o nella stessa società del gruppo riferito a debitori diversi».

Per esempio, al cliente Nuova Orli Sri nel 2007 è stato concesso un prestito ipotecario da Mps capital services ma nel 2012 la controllante Mps ne ha concesso un altro; l'immobile utilizzato come garanzia immobiliare era il medesimo, con un'ipoteca di secondo grado; alla stessa garanzia immobiliare è stato dato un numero identificativo diverso nei sistemi informatici della controllata e della controllante». Falle che hanno comportato una sottostima dei fabbisogni di capitale e mostrato in «bonis» crediti che erano invece già deteriorati o diventati sofferenze.

Da questa verifica ispettiva parte un intero capitolo della relazione di 5.662 pagine dei periti Bellavia e Ferradini consegnata al Tribunale di Milano il 26 aprile 2021. Nella maxiperizia inoltrata al gip, centinaia di pagine sono dedicate all'esame delle singole posizioni creditorie dopo i rilievi della Bce che in alcuni casi hanno rivisto la classificazione dei casi e in altri hanno corretto - aumentandolo - l'importo degli accantonamenti necessari. Tra le posizioni «riviste» da Francoforte c'è di tutto.

Grandi clienti come Sorgenia, Lucchini o Unicoop Tirreno, ma anche pizzerie, agriturismo, produttori vinicoli, aziende dello shipping, società immobiliari e molti altri nomi all'apparenza meno noti come le società riconducibili al defunto ex proprietario del Palermo, Maurizio Zamparini, o come la Credsec spa dell'avvocato Giovanni Lombardi Stronati (riclassificata da inadempienza probabile a sofferenza con quasi 8 milioni di euro di accantonamenti stimati) che nella primavera del 2007 aveva rilevato il Siena Calcio (di cui Mps era sponsor) e in cui nel 2007 aveva investito anche la Intermedia di Giovanni Consorte.

Nel lungo elenco compare anche Alberto Parri, coinvolto nell'inchiesta sul fallimento dell'Ac Siena, la cui posizione è stata riclassificata da Utp a sofferenze anche perché la valutazione della barca («Squadrone 78») diventata di proprietà della banca dopo la revoca del contratto di leasing «è inferiore ai prezzi delle stesse barche sui siti specializzati», si legge negli atti. Alla pagina 3623 c'è anche la Arti grafiche dell'ex presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia (passata da performing a inadempienza probabile). 

E tra le classificazioni a «inadempienza probabile» confermate dalla Bce ma con un accantonamento di 1 milione di euro in più rispetto ai 401.000 euro preventivati dall'istituto, spunta anche Nicoletta Mantovani, vedova di Luciano Pavarotti che, viene spiegato, «si occupa delle esposizioni residue come family office». Sono passati molti anni ma gli effetti di quella gestione disastrosa, e le macerie lasciate, si vedono ancora oggi.

Sia perché la perizia mette anche in dubbio la correttezza dei conti 2016 e 2017, e questo in caso di imputazione potrebbe complicare le trattative con la Commissione Ue nonché l'avvicinamento di un possibile nuovo partner. Sia perché il Montepaschi sta mandando in rosso i conti di Amco, la controllata del Tesoro che si occupa di recuperare crediti deteriorati: ha chiuso l'esercizio 2021 con una perdita di 422 milioni, che ne ha ridotto il patrimonio netto da 2,8 a 2,4 miliardi. A determinare il rosso sono stati 529 milioni di rettifiche sui circa 7,5 miliardi di crediti deteriorati acquistati da Mps alla fine del 2020.

Guerra di toghe su Mps. Quella falsa perizia che salvò Profumo e Viola. Luca Fazzo il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.

La vittima sarebbe la Procura generale di Milano, che commissionò la consulenza.

Carte rimaste ferme per anni nella Procura di Milano. Carte che secondo la Procura generale - superiore gerarchico della Procura, chiamata a vigilare sul suo operato - dimostravano come intorno al lungo dissesto del Monte dei Paschi di Siena si fosse verificato un caso senza precedenti di accanimento assolutorio, con un trattamento inspiegabilmente benevolo da parte degli inquirenti milanesi verso i massimi vertici di Mps, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, nominati dal governo Renzi per mettere ordine e proseguiti invece nell'opera di occultamento dei conti reali. Quando, il 13 novembre, il procuratore Francesco Greco va in pensione al suo posto, in attesa del nuovo capo, va il più anziano dei vice, Riccardo Targetti. È Targetti a trovarsi sul tavolo le carte rimaste ferme per anni. Targetti, si dice, trasecola. E decide di trasmettere tutto a Brescia, alla procura che giudica i reati commessi o subiti dai magistrati milanesi.

Tra le carte Targetti trova la richiesta della Procura generale di incriminare per avere falsificato la perizia Mps Roberto Tasca e Lara Castelli, i due consulenti che avevano firmato la perizia che scagionava Profumo e Castelli. Quella richiesta è rimasta lettera morta, la procura di Greco non ha mai proceduto all'iscrizione di Tasca (docente universitario, già assessore al Bilancio del sindaco Beppe Sala, consulente di fiducia degli inquirenti milanesi) nel registro degli indagati. Ora a incriminare Tasca e la sua collega Castelli ha provveduto la Procura di Brescia per un motivo senza precedenti: la vittima della falsa perizia sarebbe Gemma Gualdi, il sostituto procuratore generale di Milano che quella consulenza aveva commissionato fidandosi di Tasca, e che ne avrebbe ricevuto invece una sfilza di omissioni.

In realtà poco dopo averla ricevuta, la Gualdi si era resa conto che molto nella perizia non quadrava. A partire dalla omissione più vistosa: non si faceva alcun cenno alla relazione della Banca centrale europea che al termine della ispezione del 2 giugno 2017 aveva certificato l'esistenza di un megabuco da 7 miliardi e mezzo per crediti inesigibili privo di accantonamenti e concludendo drammaticamente «il Monte dei Paschi di Siena, la più antica banca de mondo, è esposta a rischi tali da pregiudicarne l'esistenza». Eppure la Procura di Milano chiede l'archiviazione delle indagini su Viola e Profumo. E archivia direttamente lei stessa, come la legge le consente, tutte le indagini a carico di Mps come ente giuridico. Quando la Procura generale si rende conto che tutto è basato su un clamoroso falso, chiede a Greco di revocare quei decreti di archiviazione. Ma anche quella richiesta, come quella di incriminare Tasca, resta lettera morta: fino a quando Greco non va in pensione e Targetti prende il suo posto.

Ora sono tutti indagati a Brescia: Greco, i suoi consulenti, i Pm che lavoravano con lui. Le carte arrivate da Milano si aggiungono a quelle che Brescia aveva già in mano, gli esposti del consulente dei piccoli azionisti Mps Giuseppe Bivona, che fin dal 2020 definiva le affermazioni di Tasca «fantasiose».

Sbrogliare questa matassa si annuncia difficile. Un dato è oggettivo: le due inchieste più importanti della Procura di Milano, quelle su Eni e su Mps, si sono trasformate in una guerra tra toghe. Ma se l'accanimento accusatorio su Eni aveva una sua linearità, per Mps la domanda è opposta: perché si dovevano salvare a tutti i costi Profumo e Viola? Il fatto che la Bce nel 2017, all'epoca della relazione sparita, fosse presieduta dall'attuale capo del governo italiano dà corpo, inevitabilmente, al fantasma della «ragion di Stato».

Luigi Ferrarella per il Corriere della Sera il 12 marzo 2022.

Quando una Procura ritenga di proporre al gip l'archiviazione di una denuncia o di chiedere al Tribunale l'assoluzione degli imputati, i pm titolari, e il loro procuratore, possono - oltre a essere poi magari disattesi dai giudici secondo le ordinarie regole di controllo - essere anche ritenuti responsabili del reato di «abuso d'ufficio»? 

Il tema si pone ora per il procuratore milanese uscente Francesco Greco nel gorgo di inchieste sul Monte dei Paschi di Siena, annoso intreccio animato dalle denunce del consulente di fondi «attivisti» Giuseppe Bivona, e più di recente dalla Procura generale di Milano per l'inattivo silenzio con il quale la Procura della Repubblica avrebbe accolto nel 2021 le critiche della pg Gemma Gualdi alla perizia del consulente Roberto Tasca sui controversi criteri di contabilizzazione nell'era post-Mussari dei derivati «Alexandria» e «Santorini» e poi di 5 miliardi di euro di crediti deteriorati (Npl).

La notifica di una proroga, infatti, avvisa Greco (neoconsulente per la legalità del sindaco di Roma Gualtieri) che almeno da 6 mesi è indagato dal procuratore di Brescia, Francesco Prete, e dalla pm Erika Battaglia, con un consulente e tre pm. Il consulente è Tasca, dal 2016 al 2021 assessore al Bilancio del Comune di Milano nella prima giunta del sindaco Beppe Sala, indiziato di «falso» per una consulenza tecnica alla pg Gualdi (al momento del via libera dato dalla Procura generale alla scelta dei pm di archiviare la persona giuridica Mps), poi contraddetta da quella affidata dal gip Guido Salvini all'altro perito Gian Gaetano Bellavia. Gualdi e Bellavia sono stati ascoltati dai pm di Brescia.

I pm sono invece (come già era noto) i tre iniziali pm di Mps: Giordano Baggio (oggi alla Procura europea antifrode), Stefano Civardi (oggi pm delle inchieste sui depistaggi Eni-Nigeria), e Mauro Clerici, indagati come Greco (ma senza sinora aver ricevuto avvisi) per abuso d'ufficio in due loro richieste respinte dai giudici: il 31 agosto 2016 di prosciogliere in udienza preliminare i vertici 2013-2016 di Mps, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, e il 16 giugno 2020 di assolverli alla fine del processo in Tribunale, dove invece i giudici Tanga-Saba-Crepaldi condannarono i due imputati a 6 anni per aggiotaggio e false comunicazioni. 

L'avvocato Massimo Dinoia - che a Brescia difende Greco perché Francesco Mucciarelli (suo legale nella recente archiviazione dell'ipotesi di omissione d'atti d'ufficio sulla loggia Ungheria) non può farlo essendo nei processi Mps il difensore di Viola e Profumo (oggi n.1 di Leonardo-ex Finmeccanica) - dichiara a La Stampa di non comprendere l'«astratta responsabilità per pensiero altrui», cioè a suo avviso dei tre pm per quanto «pensato quando chiesero archiviazione e assoluzione», benché «il codice proclami l'assoluta indipendenza dei pm dalla gerarchia».

E in una nota alle agenzie la difesa di Greco, lambendo richiami alla giustizia a orologeria evocati in passato da tanti indagati «eccellenti», arriva ad adombrare il «momento delicato in cui il Consiglio superiore della magistratura deve nominare il nuovo procuratore» al posto di Greco, che Dinoia riferisce essere «orgoglioso di aver servito lo Stato per 45 anni» nel «proteggere la legalità economica di questo Paese».

Intanto già da metà 2021 i tre pm denunciati da Bivona - cioè da colui al quale Dinoia accenna quando aggiunge che «Greco non ha mai fatto parte di banche di affari che hanno venduto prodotti di finanza strutturata a Mps, e non ha mai fatto da consulente per fondi di investimento lussemburghesi» - si erano sfilati dal terzo filone Mps sui crediti deteriorati, ereditato da altri due pm, Roberto Fontana e Giovanna Cavalleri. I quali, ripartiti quindi da zero, pochi giorni fa hanno compendiato, in una richiesta di proroga al gip Salvini, tutta una serie di indagini svolte a carico - si è così appreso - di 9 indagati tra i quali Profumo, Viola, l'ex ad Marco Morelli, gli ex presidenti Massimo Tononi, Alessandro Falciai e Stefania Bariatti. Tra esse anche una nuova perizia affidata a Stefania Chiaruttini con un metodo di stime che i nuovi pm hanno commissionato diverso da quelli utilizzati sia da Tasca sia da Bellavia. 

INCHIESTA SUL FINANZIERE DI BLUEBELL. L’ex ad Morelli attacca Bivona: «Mi chiese soldi per non aggredire più Mps». EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 20 maggio 2022

L’ex amministratore delegato di Monte dei Paschi Marco Morelli nel 2018 e nel 2019 attaccò in cda il grande accusatore di Profumo

Il verbale segreto: «Ho incontrato Bivona: una transazione con lui è possibile. potrebbe essere compresa anche una disponibilità di Bluebell a evitare aggressioni nei confronti della banca anche in occasione di altri procedimenti penali».

La smentita di Bivona: «Tutto falso, fu Morelli a cercarmi e non chiesi mai nulla». I conflitti d’interesse e quei rapporti economici con i fondi d’investimento che chiedono danni a Mps per centinaia di milioni

DIRITTO DI REPLICA

Giuseppe Bivona: «Non ha mai aggredito e non ha mai chiesto soldi a nessuno». Il Domani il 23 maggio 2022

Pubblichiamo integralmente la replica di Giuseppe Bivona e la risposta di Emiliano Fittipaldi.

Con riguardo ai due articoli a firma di Emiliano Fittipaldi (“Profumo e l’incubo Mps. Ora rischia un nuovo processo” del 20 maggio 2022 “Morelli «Bivona chiese soldi per non aggredire più MPS» e del 21 maggio 2022, pubblicati sul quotidiano Il Domani anche nell’edizione on-line la prego di rettificare le informazioni non corrette, denigratorie e ingiustamente diffamatorie ivi contenute pubblicando integralmente questa lettera di rettifica.

Articolo del 20 maggio 2022

Non corrisponde al vero, come erroneamente attribuitomi da Fittipaldi nell’articolo del 20 maggio u.s., la circostanza secondo cui l’“assoluzione di Mussari” abbia rappresentato per me “una sorpresa spiacevole” (sarebbe bastato chiedermelo!).

Nel processo penale non si discute di errori ma di reati: nel caso di specie (falso in bilancio) non occorre solo l’accertamento di un errore contabile (ovvero l’errata contabilizzazione come titoli di stato di temerarie speculazioni in derivati, un fatto certo non in discussione) ma anche dell’elemento soggettivo del reato ovvero l’accertamento del dolo specifico (consapevolezza, malafede, utilità conseguite per sé o altri etc.: non conosco una sola prova emersa nel dibattimento da cui risulti che Mussari e Vigni - per i quali non nutro maggiore simpatia che per Profumo e Viola - avessero la consapevolezza dell’errore contabile o avessero attuato artifici e raggiri per nasconderlo.

Al contrario, esiste un “granitico compendio probatorio (non valutativo)” (tribunale di Milano) da cui risulta invece che Profumo e Viola erano pienamente a conoscenza degli errori contabili che andavano commettendo in continuità con i predecessori Mussai/Vigni e che attuarono il “più sofisticato degli inganni (tribunale di Milano) per dissimularne l’esistenza, non residuando dubbi su dolo e malafede. 

Questo è il motivo per cui, come risulta dagli atti processuali, ho sempre definito la condotta di Profumo e Viola un “falso al quadrato” rispetto a Mussari e Vigni. Pertanto, non solo l’assoluzione di Mussari e Vigni contrariamente a quanto attribuitomi da Fittipaldi (che pure ha il mio numero di cellulare) non ha rappresentato per me (e per chiunque conosca gli atti) “una sorpresa”, ma ancora meno sarebbe una “sorpresa” se dopo l’assoluzione di Mussari e Vigni, venisse invece confermata in appello la condanna di Profumo e Viola.

Articolo del 21 maggio 2022

Per quanto riguarda invece il secondo articolo dal titolo gravemente lesivo della mia reputazione (“Morelli «Bivona chiese soldi per non aggredire più MPS»), il sottoscritto non ha mai aggredito nessuno e non ha mai chiesto soldi: il sottoscritto ha denunciato amministratori infedeli intenti a falsificare i bilanci, ha denunciato l’inerzia delle autorità di controllo che tutto sapevano, si è costituito parte civile nel processo penale che ha visto condannare Profumo e Viola a sei anni di carcere bollati come soggetti di “spiccata capacità a delinquere ” e “pericolosità sociale” (Tribunale penale di Milano), ha assistito grandi soci istituzionali e piccoli risparmiatori (nel secondo caso pro-bono) a perseguire il risarcimento del danno per le perdite inflitte dalla banca e dagli amministratori (un conto di 8 miliardi per i soci privati e circa 5,4 miliardi per lo stato) e si è difeso (proponendo domanda riconvenzionale per danno da lite temeraria) da una (questa sì vera e propria) aggressione attuata da Profumo e Viola in nome e per conto di Mps sotto il simulacro di un’azione civile: quando a partire dal 2013 mi accorsi che Profumo e Viola contabilizzavano come titoli di stato cinque miliardi di spregiudicate scommesse in derivati e sollevai la questione, Profumo (promuovente) e Viola (proponente) si ‘difesero’ facendomi causa (civile), sostenendo che le operazioni non erano derivati (sic!) e chiedendomi un risarcimento di 30 milioni di euro per aver leso la reputazione di Mps (sic!).

Definire questo impegno come un’attività intesa a “prendere di mira i managers” (Fittipaldi) - che evidentemente il suo giornale ritiene devano essere apprezzati e difesi per quello che hanno fatto - o come l’attività di “uno speculatore attivista” (Fittipaldi) è già di per sé indicativo di disinformazione e faziosità.

Occorre dunque ripristinare la verità dei fatti. Ma andiamo con ordine. Nel marzo 2014 (e non già nel 2015 come erroneamente scritto nell’articolo, un fatto non secondario nel contesto dei fatti) Mps promosse una causa civile (R.G. n. 14027/2014) davanti al Tribunale (civile) di Roma nei confronti del sottoscritto - convenuto in solido con un’associazione di consumatori all’epoca da me rappresentata (pro-bono) all’assemblea dei soci ed al suo presidente: Mps lamentò un fantomatico (quanto inesistente) danno da lesione della reputazione di trenta milioni di euro per aver il sottoscritto affermato a partire dal 2013 che la Banca contabilizzava cinque miliardi di derivati come Btp (come poi effettivamente accertato), una circostanza all’epoca strenuamente negata dalla banca (sic!).

Il sottoscritto rispose all’azione avviata dalla banca formulando a sua volta al Tribunale (civile) di Roma una domanda risarcitoria nei confronti di Mps (c.d. ‘domanda riconvenzionale’) chiedendo il risarcimento del danno per lite temeraria, perché la banca (rectius: Profumo, Viola) aveva promosso l’azione legale nella piena consapevolezza della sua infondatezza con il fine di intimidirmi e dissuadermi dal sostenere che miliardi di derivati venivano all’epoca contabilizzati come Btp (una circostanza che allora nessuno aveva compreso e tanto meno accertato).

Secondo giurisprudenza consolidata, il danno da lite temerarie deve intendersi, inter alia, commisurato al danno ingiusto che Mps aveva cercato di arrecare (trenta milioni) e fu precisato dal sottoscritto nella misura di 22 milioni di euro.

Nel febbraio 2018, ovvero dopo che la Procura di Milano (aprile 2015) e la Consob (dicembre 2015) avevano oramai accertato che le operazioni eccepite dal sottoscritto erano effettivamente derivati e dopo che i signori Profumo e Viola erano divenuti oggetto di un provvedimento coattivo di rinvio a giudizio (aprile 2017), Mps - di cui nel frattempo Morelli era diventato A.D. (settembre 2016) - di sua iniziativa e senza alcuna sollecitazione da parte mia, sondò separatamente la disponibilità del sottoscritto da una parte e dell’associazione dei consumatori (e del suo presidente) dall’altra per chiudere la causa civile con un accordo transattivo.

Il 3 febbraio 2018 i legali di Mps, comunicarono al mio avvocato l’interesse di Mps a definire la controversia pendente davanti al Tribunale (civile) di Roma, chiedendo di verificare la mia disponibilità ad un accordo transattivo (Allegato 3). Il mio avvocato, dopo avermi sentito, da una parte confermò in linea di principio la disponibilità a definire la causa pendente mediante accordo transattivo - la causa civile ha come unico fine il risarcimento di un danno e dunque se Mps avesse risarcito il danno non c’era ragione di continuare la causa - ma dall’altra pose precise condizioni di metodo incluso “comprendere e definire esattamente il perimetro dell’eventuale accordo” lasciando alla banca “il compito di fare una proposta, sottoponendo la bozza iniziale dell’accordo (senza specificare gli aspetti “commerciali”, ossia le condizioni economiche)” e specificando ulteriormente che il sottoscritto non “intende[va] indicare preventivamente un determinato importo” in quanto riteneva per prima cosa necessario “conoscere i contenuti (al di là degli aspetti ‘commerciali’)” dell’accordo che la banca intendeva proporre.

Quanto comunicato dal mio legale ai legali di Mps, fu poi da me direttamente trasmesso a Morelli il 29 marzo 2018 e poi discusso in un successivo incontro. Resta dunque documentalmente accertato che il sottoscritto non «chiese» mai un ben nulla a Mps/Morelli ma al contrario dimostrò sin da subito la (fondata, vedere di seguito) preoccupazione che il vero obiettivo di Mps non fosse quello di chiudere la controversia pendente davanti al Tribunale (civile) di Roma ma ottenere il mio impegno a desistere dalle azioni penali - ricordo che all’epoca Profumo, Viola e Mps (responsabile civile) non erano stati ancora rinviati a giudizio, fatto avvenuto il successivo 27 aprile 2018 - a fronte di una somma di danaro rappresentata come corrispettivo per chiudere la controversia pendente davanti al Tribunale (civile) di Roma.

Come al solito, gli accadimenti successivi mi hanno dato puntualmente ragione e naturalmente smentiscono la ricostruzione di Fittipaldi che pure era a conoscenza dei fatti che mi appresto ad illustrare. Nello stesso periodo (inizio 2018) la banca aveva avviato una discussione anche con l’associazione dei consumatori (ed il suo presidente) - convenuti in solido con il sottoscritto a rispondere del fantomatico danno di 30 milioni di euro - per raggiungere un accordo transattivo. 

Faccio notare che l’associazione dei consumatori (ed il suo presidente) non avevano proposto domanda riconvenzionale per lite temeraria contro la banca ma si erano limitati a difendersi dalle accuse ovvero a differenza del sottoscritto non avevano fatto valere la pretesa risarcitoria di un danno subito.

Ebbene, il 15 febbraio 2018 Mps, di cui (è bene ricordare) Morelli era A.D., propose all’associazione dei consumatori (e l’associazione dei consumatori accettò) un accordo in cui Mps si impegnò a versare la somma di 1,6 milioni di euro per chiudere la controversia pendente davanti al Tribunale civile di Roma – NB Mps pagò 1,6 milioni di euro per chiudere una controversia in cui era stata la banca a lamentare di aver subito un danno di 30 milioni di euro (sic!) - ponendo come condizione (guarda caso) che l’associazione dei consumatori, inter alia, si impegnasse a “rinunciare ad ogni e qualunque pretesa o diritto fatto valere mediante la costituzione di parte civile e la chiamata del responsabile civile nei confronti di Bmps nel procedimento penale n. 29354/2014 RGNR [NDR – processo Mussari/Vigni] e nel procedimento penale n. 955./2016 RGNR [NDR - processo Profumo/Viola] in corso presso il Tribunale di Milano” (MPS, 15 febbraio 2018)

Appena il caso di ricordare che pochi giorni dopo la firma dell’accordo, all’udienza del 15.03.2018 l’associazione dei consumatori revocò la costituzione di parte civile nel processo penale Mussari/Vigni e non si costituì nel processo penale Profumo/Viola. Amen. 

Pertanto, contrariamente a quanto raccontato nell’articolo (gravemente offensivo e diffamatorio) risulta accertato per tabulas che proprio nell’ambito della vicenda che mi vede coinvolto, fu Morelli (Mps) ad essersi prestato al “do ut des” (Fittipaldi) offrendo una somma di danaro “a cinque o sei zeri” (Fittipaldi) - nel caso di specie 1,6 milioni di euro ovvero a “sei zeri” - chiudendo un accordo che aveva come corrispettivo “smettere di rompere le scatole” (Fittipaldi) a cui il sottoscritto fu del tutto estraneo e che a seguito delle condizioni di “metodo” immediatamente poste dal sottoscritto non fu mai nemmeno discusso.

Per completare il quadro occorre poi anche ricordare che il sottoscritto non appena Morelli divenne A.D. di MPS (settembre 2016) - confidando (ingenuamente) in una discontinuità gestionale a tutt’oggi mai attuata - si mise a completa disposizione della Banca “a titolo assolutamente gratuito” e senza nulla chiedere in cambio, per fornire tutta la propria collaborazione ed aiutare la banca a esercitare le necessarie azioni di rivalsa e regresso a ristoro dei danni per miliardi di euro arrecati dagli examministratori (Profumo, Viola) i quali avevano concluso scellerati accordi transattivi che precludevano (e tutt’oggi precludono) a Mps di rivalersi dei danni subiti (sic!). 

L’offerta cadde nel vuoto e non ce ne chiederemo il perché (è infatti poi risultato da e-mail interne di Mps successivamente acquisite, che Morelli in realtà conosceva molto bene quelle operazioni (illecite) di cui all’epoca dei fatti (2009) era risultato informato).

L’articolo di Fittipaldi, usando l’arte del virgolettato (“Morelli «Bivona chiese soldi per non aggredire più MPS») e sfoggio di retorica (“possibile che il paladino dei risparmiatori abbia davvero proposto il do ut des citato da Morelli? Possibile che un finanziare etico si sia trasformatore in una sorta di disturbatore di assemblea 2.0 chiedendo transazioni economiche a cinque o sei zeri per smettere di rompere le scatole?”, una domanda retorica a cui in base alla narrazione offerta da Fittipaldi al lettore non può che rispondersi ‘si certo! è possibile ed anzi è proprio successo’), risulta gravemente ed ingiustamente offensivo e diffamatorio.

Fittipaldi non si limita a radicare nel lettore la falsa convinzione che il sottoscritto sia uno “speculatore” per giunta tra quelli più “spregiudicati” (come pure vengo da lui ingiustamente definito), ma mi attribuisce un “atteggiamento ricattatorio” (Fittipaldi). Fittipaldi con il suo articolo mi ha ‘dipinto’ come uno ‘spregiudicato ricattatore’, non già un insulto ma un’accusa infamante. 

E davvero poco vale la pubblicazione della mia smentita a fronte di un intero articolo ed un titolo in neretto a caratteri cubitali “Morelli «Bivona chiese soldi per non aggredire più MPS» che non lascia adito a dubbi.

Ma la prova regina della faziosità del giornalista sta nel fatto che pur avendo riportato la mia smentita (derubricabile a mera formula di rito, nell’economia complessiva dell’articolo), Fittipaldi ha volutamente omesso di dare conto nel suo articolo della documentazione che avevo provveduto ad inviargli subito dopo che il 20 maggio mi aveva chiamato per ‘commentare’ quanto poi avrebbe pubblicato.

E difatti il sottoscritto il 20 maggio (H: 15:04 UK Time) aveva trasmesso a Fittipaldi l’accordo transattivo da cui risulta chiaramente chi - Mps e non già il sottoscritto - si fosse prestato a quel “do ut des” (Fittipaldi) mercanteggiando somme di danaro “a cinque o sei zeri” (Fittipaldi) con l’impegno di “smettere di rompere le scatole” (Fittipaldi) ritirandosi dai processi penali. Sempre il 20 maggio (H: 15:01 UK time) avevo provveduto a inviare a Fittipaldi la lettera inviata a Morelli il 17 ottobre 2016 (Allegato 5) da cui risulta chiaramente che il mio “atteggiamento” non era certo “ricattatorio” (come invece il giornalista ha rappresentato) ed ancora il 20 maggio avevo messo in contatto il giornalista con il mio avvocato onde acquisire la fedele ricostruzione delle conversazioni all’epoca intercorse.

Quanto poi al fatto poi che Morelli abbia effettivamente reso le dichiarazioni che Fittipaldi gli attribuisce non costituisce un esimente, avendo Fittipaldi volutamente ignorato tutti i suddetti riscontri documentali che smentivano in radice la narrazione che gli era stata offerta dalla fonte interessata da cui si è abbeverato e che lui si è prestato a raccontare.

Va detto poi che il buon Morelli già in passato ha dimostrato di avere una relazione travagliata con la nozione di trasparenza e verità ed è attualmente indagato, in buona compagnia con Profumo e Viola, per falso in bilancio, manipolazione informativa e falso in prospetto nel filone Mps sui crediti deteriorati (N. 33714/2016). Per tutte le ragioni esposte, Le chiedo di pubblicare integralmente e senza indugio questa mia lettera a rettifica del contenuto diffamatorio degli articoli di Emiliano Fittipaldi.

Mi permetta di aggiungere che conosco e rispetto (pur non condividendola affatto) la linea editoriale del suo giornale quale strenuo paladino di Profumo - resta memorabile l’articolo su Il Domani del 21 aprile 2021 anche per chi come me nemmeno legge il Suo giornale - e comprendo che all’alba di nuovi delicati processi (l’appello per il filone derivati, il nuovo filone dei crediti deteriorati) si ponga l’esigenza di “sistema” di screditare chi (almeno su questo Fittipaldi ha ragione) ha dato “un grosso contributo alla condanna di Profumo”, ma credo che occorrerebbe rimanere nei limiti della decenza (ampiamente travalicati) quantomeno per non sortire l’effetto opposto.

Risponde Emiliano Fittipaldi:

La rettifica dell’ingegner Bivona non smentisce nulla di quanto da me scritto. Per quanto riguarda il primo articolo, incentrato sulle vicende giudiziarie di Alessandro Profumo (che in un messaggio a me inviato Bivona ha definito «ottimo», avrà cambiato idea il giorno dopo), prendo atto che per lui l’assoluzione di Mussari non sia stata «una spiacevole sorpresa».

Per quanto riguarda il secondo articolo, ho solo riportato in forma sintetica sia nel titolo sia nel testo due verbali inediti del 2018 e del 2019 del consiglio di amministrazione di Mps. Che segnalano come l’allora amministratore delegato Marco Morelli abbia evidenziato come durante «un colloquio» tra lui e lo stesso Bivona «l’ingegner Bivona ha ricordato che, in un eventuale accordo transattivo, potrebbe essere compresa anche una disponibilità di Bluebell (società di Bivona, ndr) a evitare aggressioni nei confronti della banca anche in occasione di altri procedimenti penali nel cui contesto Bluebell si è già costituita parte civile». Una ricostruzione che lei ha già smentito al telefono, come da me riportato.

La vicenda dell’accordo tra Codacons e Mps non riguarda Bivona, dunque non entro oggi nel merito. Mai detto che Bivona è uno «spregiudicato ricattatore», frase inventata da Bivona. Ho solo scritto, è Bivona non ha rettificato, che  attraverso Bluebell (che è anche un fondo speculativo) fa da consulente a fondi istituzionali che hanno chiesto a Mps centinaia di milioni di euro di danni.

Evidenzio invece come nella mail tra il suo avvocato e quelli di Mps che lo stesso Bivona mi ha spedito, l’avvocato di Bivona scrive chiaramente che lo stesso «è senz’altro disponibile a definire la causa pendente con la banca mediante accordo transattivo». Che, come è noto, si basa su una dazione di denaro. Come da me già scritto, Bivona sostiene che l’accordo doveva riguardare, nel caso, solo la causa di diffamazione, e non le altre pendenze come invece ipotizzato da Morelli al cda.

Non solo. Alla mail del legale di Mps che propone a Bivona 150mila euro «come contributo alle spese legali» in merito alla controversia sulla causa di diffamazione, il difensore risponde segnalando innanzitutto che «l’ingegnere è senz’altro disponibile a definire la causa pendente mediante accordo transattivo», le cui «condizioni economiche dovranno essere discusse tra Bivona e i vertici di Mps, in primis Morelli» . E aggiungendo poi che, «posto che sono in corso varie iniziative dell’ingegner Bivona nei confronti di Mps, occorre comprendere e definire esattamente il perimetro dell’eventuale accordo».

Dalla mail spedita da Bivona al giornale, sembra dunque che sia stato il suo legale – «sentito Bivona» – a introdurre a Mps ulteriori temi («il perimetro») del possibile accordo transattivo, diversi dalla causa per diffamazione. Nello scambio di mail mandatemi da Bivona, in effetti, la banca sembra voler transare unicamente la controversia sulla diffamazione.

Inchiesta sul Monte Paschi di Siena, la “Stampa”: «Indagato l’ex procuratore Francesco Greco». La rivelazione arriva dalla "Stampa" di Torino che parla di un'indagine avviata dalla procura di Brescia che coinvolgerebbe anche altre persone. Il Dubbio l'11 marzo 2022.

Secondo quanto scrive la “Stampa” di Torino, Francesco Greco, ex procuratore capo di Milano, in pensione da novembre, è indagato per abuso d’ufficio in relazione alla vicenda dell’inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena. 

Il giornale diretto da Massimo Giannini afferma che i pm di Brescia ipotizzano che Greco abbia omesso alcuni accertamenti favorendo di fatto i dirigenti Profumo e Viola. Con lui sarebbero indagati i pm Stefano Civardi, Giordano Baggio e Mauro Clerici, oltre all’ex assessore al Bilancio della giunta del sindaco Giuseppe Sala, per via di una consulenza tecnica sui bilanci di Mps al tempo in cui Alessandro Profumo e Fabrizio Viola erano rispettivamente presidente a ad della banca.

«I nomi di Greco e Tasca emergono in una proroga delle indagini notificata pochi giorni fa – scrive il quotidiano – Secondo quanto ipotizzano il procuratore Francesco Prete e il pm Enrica Battaglia, i magistrati avrebbero omesso di svolgere alcuni alcune attività di indagine favorendo così Profumo e Viola. Ma avrebbero anche omesso di rispondere a tutte le richieste di chiarimento avanzate dalla Procura generale di Milano, che era stata avvisata dell’archiviazione delle indagini». Proprio per questo motivo la Procura generale avrebbe a quel punto chiesto una perizia a Tasca, risultata poi «non conforme» e smentita da una seconda perizia. Gli indagati, tuttavia, si ritengono innocenti fino a sentenza irrevocabile di condanna.

Monica Serra per “La Stampa” l'11 marzo 2022.

È un nuovo terremoto che si abbatte sulla procura di Milano, già messa a dura prova dal caso Piero Amara e loggia Ungheria. Il procuratore in pensione da novembre, Francesco Greco, e i pm Stefano Civardi, Giordano Baggio e Mauro Clerici sono indagati a Brescia per abuso in atti d’ufficio in relazione alla gestione delle indagini sulla banca Monte dei Paschi di Siena. 

Sotto inchiesta è finito anche, per falsa perizia, l’ex assessore al bilancio della giunta del sindaco Giuseppe Sala, Roberto Tasca, per via di una consulenza tecnica, depositata il 2 novembre del 2018 alla procura generale, sui bilanci dell’era di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente presidente e ad della banca senese, tra il 2013 e il 2016. 

I nomi di Greco (che nel frattempo ha incassato l’archiviazione per la loggia Ungheria) e Tasca emergono in una proroga delle indagini notificata pochi giorni fa. Secondo quanto ipotizzano il procuratore Francesco Prete e il pm Erica Battaglia, i magistrati avrebbero omesso di svolgere alcune attività di indagine favorendo così Profumo e Viola. 

Ma avrebbero anche omesso di rispondere a tutte le richieste di chiarimento avanzate dalla procura generale di Milano, che era stata avvisata dell’archiviazione delle indagini su Mps, in quanto persona giuridica. Prevede, infatti, la legge sulla responsabilità degli enti, che l’eventuale archiviazione delle indagini venga decisa dal pm che procede, con decreto motivato, dandone comunicazione alla procura generale. 

Che però, davanti a quel decreto, ha deciso di fare ulteriori accertamenti: una consulenza affidata proprio al professore Tasca e che, stando a quanto emerso, sarebbe stata «non conforme», e poi smentita da quella del collega Gian Gaetano Bellavia.

A sostegno delle ipotesi investigative dei pm bresciani ci sarebbe la richiesta di assoluzione di Profumo e Viola avanzata dalla procura di Milano nel processo sulle operazioni Alexandria e Santorini. Entrambi gli imputati sono stati poi condannati in primo grado a sei anni e a una multa di due milioni e mezzo di euro ciascuno, per aggiotaggio e false comunicazioni sociali. Ora il processo è in appello e la sostituta pg Gemma Gualdi ha già chiesto la conferma delle condanne con qualche aggiustamento in seguito alla prescrizione di alcune accuse. 

Ma a sostegno delle ipotesi accusatorie ci sarebbe anche la richiesta di archiviazione avanzata dagli stessi pm per il terzo filone di indagine sulla banca senese, quello relativo alla contabilizzazione dei crediti deteriorati. Richiesta di archiviazione che era stata poi respinta dal gip Guido Salvini che aveva ordinato la nuova perizia, che ha ribaltato la precedente.

«È una strana incolpazione che rappresenta anche una estemporanea interpretazione della norma costituzionale – sostiene il difensore di Greco, l’avvocato Massimo Dinoia – perché c’è una ipotesi di una asserita astratta responsabilità per pensiero altrui». Cioè per quello che i sostituti di Greco avrebbero «pensato quando hanno avanzato richiesta di assoluzione e di archiviazione». Anche perché, aggiunge il legale, «il codice penale proclama l’assoluta indipendenza dei sostituti nei confronti della gerarchia».

Querelati a Brescia da Giuseppe Bivona, fondatore di Bluebell Partners, i pm Civardi, Clerici e Baggio hanno deciso di rinunciare alle indagini. L’inchiesta, ancora in corso, è ora condotta dai pm Roberto Fontana e Giovanna Cavalleri, che hanno iscritto nel registro degli indagati altri sette nomi e stanno verificando, in concreto, la coincidenza o l’eventuale scostamento tra le valutazioni fatte dalla Bce sulla scorta delle ispezioni effettuate nel 2014 e 2016 e il risultato dell’applicazione dei principi contabili. 

Ma non è stato solo Bivona a denunciare i magistrati milanesi. A dare un forte impulso alle indagini alla fine dello scorso anni, si scopre solo ora, è stata una segnalazione della sostituta pg di Milano, Gemma Gualdi. Che per mesi avrebbe provato a chiedere spiegazioni e informazioni alla procura, senza ricevere alcuna risposta.

L'inchiesta Monte Paschi di Siena. Procura di Milano senza pace, Greco di nuovo indagato: abuso d’ufficio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 12 Marzo 2022. 

Non c’è pace per la Procura di Milano, dopo la notizia che Francesco Greco è indagato di nuovo a Brescia, dopo la vicenda Amara-Loggia Ungheria (in cui è stato archiviato) e l’accusa di “pigrizia” tornata alla ribalta con l’assoluzione da parte del gup di Brescia del suo accusatore Paolo Storari. La nuova imputazione, emersa da una richiesta di proroga indagini della Procura di Brescia, è di abuso d’ufficio, reato di per sé non grave, ma molto serio in questo caso perché adombra il sospetto che con la sua inerzia (ancora) e le ripetute richieste di archiviazione e assoluzione, la Procura presieduta da Greco abbia inteso agevolare gli ex dirigenti del Monte Paschi di Siena, il presidente Alessandro Profumo e l’ad Fabrizio Viola.

La vicenda è particolarmente spinosa perché segnala, oltre alla parte strettamente processuale, uno scontro senza esclusione di colpi ancora una volta con la Procura Generale, ma anche con diversi giudici per le indagini preliminari, in particolare con Guido Salvini. E coinvolge anche, oltre ai tre pm che condussero le indagini, Stefano Civardi, Giordano Baggio e Mauro Clerici, l’ex assessore al bilancio del Comune di Milano, il professor Roberto Tasca, per una perizia ritenuta falsa. Un bel guazzabuglio, e anche un problema, alla vigilia della nomina del successore di Francesco Greco che vede tra i candidati anche il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, che darebbe continuità a una Procura e a quel metodo univoco fin dai tempi di Saverio Borrelli e il pool Mani Pulite che oggi è da più parti messo in discussione. Quello di cui stiamo parlando oggi riguarda il filone milanese della complessa inchiesta su Mps, che vede al centro i conti dell’istituto di credito nei bilanci dal 2012 al 2015 relativamente ai derivati Alexandria e Santorini, che erano stati sottoscritti dal Monte con Deutsche Bank e Nomura.

Derivati sottoscritti per coprire la perdita di due miliardi di euro derivante dall’operazione di acquisti di Antonveneta. Che i derivati non abbiano portato fortuna ai dirigenti di Mps lo dimostra il fatto che il 15 ottobre del 2020 la seconda sezione del tribunale di Milano, presieduta dal giudice Flores Tanga, ha condannato Alessandro Profumo (nel frattempo transitato a Leonardo) e Fabrizio Viola a sei anni di reclusione e a una multa di 2,5 milioni di euro ciascuno, per aggiotaggio e false comunicazioni sociali in relazione alla semestrale del 2015 della banca senese. I due ex dirigenti sono stati condannati anche a cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e due di interdizione dagli uffici pubblici d’impresa. Tre anni e sei mesi per false comunicazioni sociali anche all’ex presidente del collegio sindacale Paolo Salvadori, mentre la stessa banca, sulla base della legge 231 del 2001 sulle responsabilità degli Enti, ha subito una sanzione di 800.000 euro. Fino a qui, a leggere le cronache di quel giorno, la notizia vera non era tanto quella delle condanne –era pur sempre solo un primo grado di giudizio- quanto lo schiaffo morale subito dalla Procura, che aveva chiesto l’assoluzione per tutti gli imputati. Ma il fatto più significativo, quello per cui oggi sono indagati Greco e i tre sostituti, è quel che avvenne prima del processo e che appare alquanto sconcertante. Soprattutto se ci aiuta, nella lettura politica della vicenda, tutto quel che è accaduto in seguito, dal processo Eni con gli scontri tra pm ma anche con la Procura generale, fino al capitolo Amara-Loggia Ungheria.

Che cosa viene infatti contestato all’ex procuratore milanese e ai suoi sostituti? Prima di tutto il fatto di aver omesso una serie di atti d’indagine e di avere di conseguenza favorito Profumo e Viola. È un sospetto molto grave, che non riguarda solo una sorta di pigrizia mentale, una sbadataggine superficiale nell’espletamento del proprio dovere, ma addirittura un comportamento attivo e voluto, finalizzato –sospettano il procuratore capo di Brescia, Francesco Prete e la pm Erica Battaglia- a coprire le tante smagliature e i reati commessi dalla dirigenza di Mps. Ma c’è di più. Perché gli uomini della Procura avrebbero fatto orecchi da mercante rispetto alle ripetute richieste di chiarimento avanzate dalla Procura generale. La quale si era attivata in quanto la legge sulle persone giuridiche, quali le banche, prevede che se la pubblica accusa decide di archiviare un’inchiesta, debba farlo con decreto motivato e poi sia obbligata a darne comunicazione alla procura generale. Che cosa avevano fatto invece in quel caso i pm di Milano? Avevano scritto il decreto e poi, rispetto alle tante richieste di chiarimento della pg Gemma Gualdi, avevano fatto finta di non sentire. È stato allora che la dottoressa aveva richiesto la perizia al professor Tasca.

Ma era anche accaduto in seguito, che altri sospetti siano stati avanzati dal giudice delle indagini preliminari Guido Salvini. Il quale, non convinto della conformità di quella perizia, si sarebbe a sua volta rivolto a un altro tecnico del settore, Gian Gaetano Bellavia. Il quale ha ribaltato completamente la perizia del collega, che è oggi indagato per falso, proprio per quell’ esame ritenuto “non conforme”. E ha anche smentito la procura di Milano, che aveva chiesto l’archiviazione dell’inchiesta.

Gian Gaetano Bellavia, commercialista ed esperto di diritto penale dell’economia, è stato sentito come persona informata sui fatti nei giorni scorsi a Brescia. In seguito alla sua deposizione è stato aperto un nuovo filone di inchiesta sulla corretta contabilizzazione dei crediti deteriorati di Mps e sono state iscritte sul registro degli indagati altre sette persone. Ma questa è ancora la parte strettamente processuale. Il racconto sulla parte politica –si, dobbiamo chiamarla così- non è ancora finito. Perché nel frattempo sono spariti dalla scena milanese (ma non da quella bresciana deve dovranno difendersi nelle indagini per abuso d’ufficio) i primi pm che indagavano su Mps. Francesco Greco, andato in pensione e poi promosso consulente alla legalità dal nuovo sindaco di Roma Roberto Gualtieri.

Ma anche i pm Civardi, Clerici e Baggio, i quali hanno deciso di gettare la spugna dopo esser stati denunciati a Brescia dal grande accusatore di Mps Giuseppe Bivona, fondatore di Bluebell Partners. Ma non finisce qui. Perché anche la stessa sostituta pg Gemma Gualdi, colei che aveva invano e costantemente chiesto ai colleghi milanesi chiarimenti su quel decreto di archiviazione delle indagini sulla banca (cui del resto era seguita anche la proposta di assoluzione degli imputati nel processo), alla fine si era arresa e aveva segnalato il fatto a Brescia, competente per eventuali reati imputabili a magistrati milanesi. Cosa che ha particolarmente irritato il difensore di Francesco Greco, Massimo Dinoia, avvocato molto noto a Milano fin dai tempi di Mani Pulite. Il legale si dice sicuro del fatto che anche questa inchiesta, come già quella sul caso della Loggia Ungheria, finirà con l’archiviazione della posizione del suo assistito. Il che è probabile -dal momento che la responsabilità penale è personale- se l’ex procuratore non ha svolto un ruolo attivo nel comportamento, davvero singolare, dei suoi sostituti.

Ma il legale mette anche il dito nella piaga dei rapporti tra la procura della repubblica e quella generale e lancia una luce di sospetto sul fatto che “qualcuno si sia rivolto alla procura di Brescia” mentre i processi sono ancora in corso. Oltre alle nuove indagini infatti, si sta svolgendo l’appello del primo processo, in cui la pg Gualdi ha già chiesto la conferma delle condanne, con qualche riduzione per sopraggiunte prescrizioni. Ma, escludendo che l’avvocato Dinoia nella sua nota si sia preso la briga di dare attenzione a Giuseppe Bivona (de minimis non curat praetor), pare che parli proprio della dottoressa Gualdi, quando avverte del fatto che essersi rivolti alla procura di Brescia “appare improprio e pericoloso per la giurisdizione e per la doverosa tutela dell’autonomia e indipendenza dei magistrati della Procura di Milano, soprattutto in un momento delicato come questo, in cui il Csm deve nominare il nuovo procuratore”. Benvenuti nell’agone del Palazzo di giustizia di Milano.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Procura di Milano ancora senza pace: Greco indagato per l’affaire Mps. Sandro De Riccardis,  Luca De Vito su La Repubblica l'11 marzo 2022.

L’ex procuratore accusato dai pm di Brescia di abuso d’ufficio. Il suo legale: “Ha servito lo Stato, sarà archiviato” L’ennesimo colpo nel Palazzo diviso da mesi e che aspetta la nomina del nuovo capo da parte del Csm. In un ufficio già dilaniato dalle divisioni tra magistrati, un altro duro colpo per la procura di Milano è arrivato dai colleghi di Brescia che hanno iscritto l'ex procuratore capo Francesco Greco nel registro degli indagati per abuso d'ufficio nell'inchiesta Mps. Senza pace da mesi per le spaccature interne provocate dalla gestione dei fascicoli Eni Nigeria e "loggia Ungheria", che hanno messo uno contro l'altro pezzi dell'ufficio inquirente, al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano si aspetta la nomina del nuovo capo da parte del Consiglio superiore della magistratura: tutti sperano che il plenum del Csm faccia presto a scegliere tra la soluzione interna (il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, ora responsabile dei... 

Mps, indagato l'ex procuratore Francesco Greco per abuso d'ufficio con tre pm e l'ex assessore di Milano Tasca.  

Per la procura di Brescia il procuratore e i tre pm titolari del fascicolo non avrebbe indagato a fondo sulle vicende dei derivati e della contabilizzazione dei crediti deteriorati della banca senese. L'accusa è di abuso d'ufficio.

L'ex procuratore capo di Milano, Francesco Greco, è indagato a Brescia per abuso in atti d'ufficio in relazione alla gestione dei fascicoli sulla banca Monte dei Paschi di Siena, per i quali erano già indagati, sempre a Brescia, i pm di Milano Stefano Civardi, Giordano Baggio e Maurizio Clerici. Oltre ai magistrati sarebbe indagato per falso anche Roberto Tasca, ex assessore al Bilancio della giunta del sindaco di Milano Giuseppe Sala, per una consulenza tecnica sui bilanci del 2018.

L'iscrizione di Greco, anticipata oggi da La Stampa, emerge dalla proroga indagini notificata pochi giorni fa agli indagati. L'ipotesi della procura di Brescia, con il procuratore Francesco Prete e il pm Erica Battaglia, è che non sarebbero stati svolti tutti gli accertamenti necessari nell'ichiesta sui dirigenti della banca, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, rispettivamente ex presidente e ex ad dell'istituto. In più avrebbero omesso di rispondere a tutte le richieste di chiarimento avanzate dalla procura generale di Milano, nel momento in cui era stata informata della decisione di chiedere l'archiviazione del fascicolo. Da qui la richiesta di consulenza a Tasca, considerata dalla procura generale "non conferme" sulla base di una seconda perizia.

I pm di Brescia basano la loro ipotesi accusatoria nei confronti di Greco - attualmente consulente alla legalità del sindaco di Roma Roberto Gualtieri - partendo dalla richiesta di assoluzione di Profumo e Viola nel processo di primo grado da parte dei pm milanesi sulla gestione dei derivati Alexandria e Santorini. Richiesta non accolta dal tribunale che aveva condannato a sei anni e due milioni di multa i due indagati per aggiotaggio e false comunicazioni sociali. Una condanna di cui chiede la conferma la procura generale nel processo di appello ora in corso.

La procura di Milano aveva poi chiesto l'assoluzione anche in un altro filone del procedimento, quello sulla contabilizzazione dei crediti deteriorati, che invece era stata respinta dal gip Guido Salvini. Anche qui una nuova perizia aveva ribaltato la valutazione degli indagati. L'inchiesta ora è portata avanti da altri due pm della procura, i magistrati Roberto Fontana e Giovanna Cavalleri, che hanno iscritto nel fascicolo altri sette indagati.

"Sotto un profilo strettamente personale, il dottor Greco, non avendo mai fatto parte di banche di affari che hanno venduto prodotti di finanza strutturata sia alla Parmalat che a Mps e non avendo mai fatto da consulente per fondi di investimento lussemburghesi, è felice di aver servito lo Stato per 45 anni e di essersi dedicato a proteggere la legalità economica di questo Paese". Lo scrive l'avvocato Massimo Dinoia, legale dell'ex procuratore di Milano Francesco Greco, in una nota. "Come al solito - scrive Dinoia - il procedimento si concluderà con l'ennesima archiviazione sia perché i fatti non sussistono sia perché la tesi della responsabilità del procuratore (per fatto o pensiero altrui) è singolare e giuridicamente infondata". Il difensore nella nota chiarisce anche che è "preoccupante" che, mentre i procedimenti su Mps sono ancora in corso, "qualcuno si sia rivolto alla Procura di Brescia". Ciò "appare improprio e pericoloso per la giurisdizione e per la doverosa tutela dell'autonomia e indipendenza dei magistrati della Procura di Milano, soprattutto in un momento delicato come questo, in cui il Csm deve nominare il nuovo Procuratore".

·        Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

Dal “Corriere della Sera” il 5 dicembre 2022.

False dichiarazioni al pm: è l'ipotesi di reato con cui è indagato a Genova l'ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena Pasquale Aglieco, nell'ambito dell'inchiesta sulla morte di David Rossi, l'uomo comunicazione di Monte dei Paschi precipitato dalla finestra del suo ufficio, a Siena, il 6 marzo 2013. Aglieco era stato sentito dai pm genovesi nei giorni scorsi dopo l'interrogatorio dei tre magistrati toscani della prima indagine su Rossi. Il colonnello aveva parlato davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta, dichiarazioni che, ora, per i pm, entrerebbero in contraddizione con quanto detto dalle toghe ma anche con alcuni documenti prodotti.

Quelle ombre sui pm di Siena che "graziarono" i satanisti. I magistrati hanno lasciato la ragazza nelle grinfie dei suoi persecutori. Italia Viva: "Intervenga subito il Csm". Luca Fazzo il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Non c'è solo Antonio Nastasi, oggi pubblico ministero a Firenze, nella cronologia dei magistrati che si sono occupati negli anni delle denunce presentate da Miriam, la giovane donna sequestrata e stuprata a ripetizione da una banda di satanisti: e che ieri, in una accorata intervista al Giornale, ha accusato i magistrati della Procura di Siena di averla lasciata nelle grinfie dei suoi aguzzini. Dalle carte, spunta il nome del collega che ereditò da Nastasi il fascicolo: si chiama Nicola Marini, tuttora in servizio a Siena. È Marini a chiedere di mandare a giudizio, invece dei persecutori della donna, la stessa Miriam, che Nastasi aveva già incriminato per simulazione di reato. Ed è sempre Marini a chiedere nel 2015 e ottenere invece l'archiviazione del fascicolo che vedeva indagato per sequestro e stupro di gruppo l'uomo che aveva avuto Miriam in affido quando aveva diciassette anni e che l'aveva quasi subito ingravidata.

Solo nei mesi scorsi, con l'approdo del fascicolo per competenza a Milano, si sono finalmente cercati e trovati i riscontri alle dichiarazioni di Miriam. Ma su quanto accaduto in questi anni tra Firenze e Siena insorgono ieri gli esponenti di Italia Viva: parte Matteo Renzi, che definisce il racconto di Miriam «una circostanziata denuncia che fa male al cuore»; la deputata Elena Bonetti attacca, «la giustizia doveva e deve essere il suo rifugio, e invece nelle sue parole è il teatro di una violenza senza fine. Leggete quell'intervista: il grido di aiuto di Miriam non può essere ignorato. Miriam deve essere protetta». Si associa Ivan Scalfarotto, deputato, commissione Giustizia: «Lo Stato protegga, assegnandole la scorta, Miriam, vittima di un circuito di violenze inenarrabile. E il Csm non può restare inerte di fronte a un comportamento così negligente da parte della procura di Siena: come è possibile che il procuratore Antonino Nastasi, di fronte alle prove delle sevizie, non solo non abbia svolto il suo dovere di perseguire i colpevoli ma abbia addirittura indagato la donna per simulazione di reato?».

È vero che alcuni dei riscontri che hanno portato la Procura di Milano a incriminare l'ex padre affidatario, sua moglie e altri complici ancora da identificare, sono stati trovati solo recentemente. Ma altri riscontri alle parole della vittima erano disponibili già all'epoca in cui Miriam venne invece accusata di simulazione di reato. A rendere tutto più complicato c'è che i due pm che si occupano nel 2012 degli stupri denunciati dalla donna non sono due pm qualunque: sia Marini che Nastasi furono, insieme al giovane collega Aldo Natalini, i primi a entrare nella stanza di David Rossi, il portavoce del Monte dei Paschi volato dalla finestra il 6 marzo 2013. Senza aspettare la Scientifica, i tre pm manomisero la scena, svuotarono cestini, spostarono un messaggio di David Rossi. Tutti e tre sono adesso sotto processo a Genova per falso aggravato. Nel frattempo Nastasi è passato a Firenze, dove insieme al procuratore aggiunto Luca Turco conduce l'inchiesta sulla fondazione Open di Matteo Renzi. Marini invece è diventato il capo di fatto della Procura di Siena, visto che il capo è andato via e non è stato sostituito. Il Csm non lo ha nominato, come non nomina il procuratore di Firenze, e neanche il procuratore generale. Di fatto, sia Nastasi che Marini si trovano senza controllo. Anche per questo Scalfarotto chiede che a muoversi sia il Csm. Dove però la domanda sull'esistenza di un procedimento per trasferimento d'ufficio dei due non trova risposta.

Eppure le domande sarebbero tante. Marini non iscrive nemmeno nel registro degli indagati il carabiniere che accede abusivamente alle banche dati per controllare Miriam: e che si giustificò col fatto che la donna appariva «esteticamente stravagante». Quando a frugare nelle banche dati è - decine di volte - un altro carabiniere, che risulterà in stretto contatto col padre affidatario di Miram, Marini gli contesta un reato così lieve che il giudice lo costringe a modificarlo. L'esposto al Csm dell'avvocato di Miriam su questi comportamenti non ha mai avuto risposta.

Lo strano metodo della procura toscana. Dal caso Mps alla ragazza, quante indagini finite nel nulla. Felice Manti il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Esiste un caso Siena? Le ombre che si allungano sulla Procura guidata dal reggente Nicola Marini che da quarant'anni conosce ogni cosa all'ombra della Rocca - alla faccia della compatibilità ambientale - non si contano quasi più. Ma il Csm non ci vede e non ci sente... Eppure il copione che sembra ripetersi è: chi denuncia finisce nel mirino. La vicenda della giovane ragazza sequestrata e stuprata a ripetizione da una banda di satanisti, che accusa la Procura toscana di averla lasciata nelle grinfie dei suoi aguzzini, è solo l'ultimo esempio. È vero che è stato il pm Antonino Nastasi (che oggi a Firenze indaga su Matteo Renzi) a raccogliere la sua deposizione nel marzo del 2012 ma l'atto con cui la Procura la indaga «per aver asserito falsamente di essere vittima di tre aggressioni» nel 2014 è firmato da Marini.

Molti anni fa (era il 1998, se ne occupò persino Vittorio Sgarbi in una puntata di Sgarbi quotidiani) un malcapitato acquirente finì nei guai per aver capito grazie a una rivista che una statua della Madonna con bambino acquistata di recente era in realtà rubata. La restituì prontamente, avvisando le autorità francesi, ma fu la Procura con Marini a vantarsi del ritrovamento in una conferenza stampa e a indagare chi aveva denunciato l'incauto acquisto.

C'è il caso eclatante di David Rossi. Per Marini, Nastasi e Aldo Natalini (oggi in Cassazione) la strana morte del manager Mps il 6 marzo 2013 era un suicidio, ma come sappiamo troppe cose non tornano nella ricostruzione di quella sera, tanto che la commissione parlamentare d'inchiesta ha di fatto contribuito a riaprire il caso. Ma anziché indagare sulle molte altre piste la Procura - che nel frattempo stava lavorando sul crac dell'istituto senese - indagò e mandò a processo la vedova Rossi e un giornalista. Nei giorni scorsi i tre magistrati sono stati interrogati a Genova, dopo che la Procura ligure ha aperto un’inchiesta per falso aggravato a seguito del racconto del colonnello Pasquale Aglieco proprio davanti alla commissione guidata dal deputato azzurro Pierantonio Zanettin. Ma dei tre pm presenti sulla scena, l'ufficiale dei carabinieri Nastasi era l'unico a cui attribuisce azioni precise. Casualmente lo stesso magistrato è stato interrogato a parte, non lo stesso giorno dei due. Perché? Dietro gli apparenti motivi di salute ci potrebbe essere una strategia difensiva: scaricare Marini e Natalini per provare a salvarsi dopo aver condiviso con loro un discusso metodo investigativo. Basterà?

D'altronde, Marini e Natalini avrebbero avuto in comune con Aglieco la circostanza di essere riconosciuti come partecipanti a festini sessuali (lo dice un escort rintracciato dalle Iene che il gip di Genova ritiene credibile). Dietro la storiaccia dei satanisti (archiviata da Siena e oggi finita a Milano) si potrebbe nascondere un'organizzazione dedita al sesso estremo senza scrupoli. Incontri sessuali e festini hard aleggerebbero pure nel caso Rossi. Soltanto coincidenze?

I segni, i messaggi, la caduta: "Cosa sappiamo della morte di David Rossi". L'ex capo della comunicazione di Mps è precipitato dalla finestra del suo ufficio la sera del 6 marzo 2016. il criminologo della commissione d'inchiesta a ilGiornale.it: "Verosimile il suicidio ma possibili, altri scenari". Rosa Scognamiglio il 19 Novembre 2022 su Il Giornale.  

Resta avvolta nel mistero la morte di David Rossi, l’ex capo della comunicazione di Mps precipitato dalla finestra del suo ufficio, a Siena, la sera del 6 marzo 2016. La vicenda, senza dubbio drammatica, orbita attorno a una domanda: omicidio o suicidio?

"Non disponiamo di elementi tali da poter escludere, con massima certezza né l’una né l’altra possibilità. È tanto verosimile l’ipotesi del suicidio quanto ipotizzabile la possibilità di scenari alternativi", dice alla nostra redazione il criminologo Silvio Ciappi, uno degli esperti che fa parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del manager.

Caso David Rossi, incubo prescrizione

Dottor Ciappi, nella maxi perizia dei Ros, Ris e RaCis, si parla di "gesto anticonservativo". Quali sono gli elementi a suffragio dell'ipotesi di suicidio?

"Per commettere un omicidio serve un movente e delle circostanze di luogo. Nel caso di David Rossi non sono state trovate tracce né di un ipotetico killer né altri segni riconducibili alla modalità di una circostanza di morte violenta. Per questo l’ipotesi del ‘gesto autoconservativo’ sembra verosimile. Tuttavia ciò non esclude eventuali scenari delittuosi".

Quali sono invece gli elementi a sostegno di un ipotetico omicidio?

"Stando agli atti relativi alle conclusioni medico legali, ci sono ferite non compatibili con la dinamica della caduta. Si tratta di alcuni ‘segni’ presenti sul volto di David Rossi che, nell’ipotesi di un omicidio, potrebbero essere riconducibili a una eventuale colluttazione tra la vittima e un ipotetico aggressore".

"Non c'è piena compatibilità delle lesioni con il suicidio". Il documento finale su David Rossi

Partiamo dal primo scenario: l'ipotesi di un gesto volontario. David Rossi sarebbe rimasto aggrappato alla finestra prima di lasciarsi cadere nel vuoto. Secondo lei, perché lo avrebbe fatto?

"Nei casi di suicidio c’è quasi sempre un istinto vitale, un ultimo tentativo di tornare alla vita. E credo che, nel caso di Rossi, sia significativo il fatto che sia rimasto con il braccio destro appeso alla grondaia prima di precipitare".

Alle 19.02 Rossi telefona alla moglie, Antonella Tognazzi, per dirle che di lì a breve sarebbe rientrato a casa. Poi, verosimilmente prima delle 20.06 (quando il telefono ha squillato a vuoto per la prima volta), si sarebbe tolto la vita. È possibile si sia ucciso in così poco tempo?

"Un suicidio non si decide su due piedi. Si tratta di un processo ‘premeditato’, talvolta anche lungo. Ci sono dinamiche molto complesse di fondo che, come in questo caso, non possono essere spiegate attraverso la mera interpretazione di una telefonata o con una mail di richiesta d’aiuto".

Si riferisce alla mail "help"?

"Certo, anche a quella. Non sono decisioni che avvengono mediante un canale on-off. Probabilmente c’è stato un andirivieni di pensieri nella mente di Rossi prima di quel giorno".

"David Rossi è stato ucciso". Due perizie ribaltano il caso

Ci sono poi i bigliettini indirizzati alla moglie che chiama, come non è solito fare: "Toni". Come spiega la scelta di un registro inconsueto?

"Non mi sorprende. Anche questo è molto comune nelle dinamiche dei suicidi. Anzi: sta a indicare un cambio totale di prospettiva. Il fatto che abbia usato un tono così affettuoso e intimo, come non faceva di solito, potrebbe essere indicativo del fatto che qualcosa dentro di lui era cambiato".

David Rossi si sarebbe procurato volontariamente delle ferite superficiali sulle braccia nei giorni precedenti alla morte. In generale, l'autolesionismo può essere "l'anticamera" del suicidio?

"Sì, l’autolesionismo può essere uno dei segnali predittivi del suicidio. Ma vale anche il contrario: non per forza lo è. Talvolta la persona che si autoinfligge delle ferite, come nel caso di Rossi dei tagli superficiali, sta cercando di ritrovarsi, di trovare un contatto con la realtà attraverso il dolore procurato da una ferita reale, tangibile".

Passiamo al secondo scenario: l'omicidio. È attendibile l'ipotesi di una colluttazione precedente alla caduta?

"Potrebbe esserlo. Questo spiegherebbe senz’altro la presenza dei segni sul volto che, a quanto risulta agli atti, non sono compatibili con la dinamica della caduta".

"David Rossi si è suicidato": l'esito della superperizia 

Diamo per scontata la circostanza delittuosa. Ci sarebbe stato un killer e un movente. Da un punto di vista criminologico, quale potrebbe essere l’identikit dell’aggressore?

"Per certo un killer organizzato e lucido dal momento che non ha lasciato tracce del suo passaggio nella stanza di Rossi ed è stato in grado ‘mimetizzarsi’, ovvero di passare inosservato".

E l'ipotetico movente?

"Rossi ricopriva un incarico importante. Potrebbe darsi sia finito nel mirino di qualcuno che pensava potesse essere in possesso di qualche informazione rilevante. Ma ripeto, si tratta solo di ipotesi che, fino a oggi, non hanno trovato alcun riscontro oggettivo".

Dove e come bisogna cercare la verità?

"Credo che finora la Commissione abbia fatto un ottimo lavoro. Da criminologo, e quindi esulando dal contesto delle varie indagini, ritengo che bisogna considerare anche altre due ipotesi".

Cioè?

"Quella di una tragica fatalità: ha provato a suicidarsi per ‘mettere alla prova’ i propri limiti e poi è scivolato. Oppure che abbia ricevuto delle pressioni nei giorni precedenti alla tragedia, tali da destabilizzarlo e condurlo a un gesto estremo".

Quindi un’istigazione?

"Visto che non ci sono conclusioni definitive, non è da escludere alcuna ipotesi".

David Rossi, torchiati i pm sulle prove manipolate. Si è concluso a tarda sera l'interrogatorio a Genova di due dei pm che hanno indagato sulla strana morte del manager Mps. L'accusa è pesantissima: falso aggravato per aver manipolato la scena del crimine. Felice Manti il 18 Novembre 2022 su Il Giornale. 

Un primo piano di David Rossi, scomparso nel 2013

 Il dado è tratto. Si è concluso a tarda sera l'interrogatorio a Genova di due dei pm che hanno indagato sulla strana morte del manager Mps David Rossi, Nicola Marini (che a Siena è procuratore capo reggente) e Aldo Natalini (oggi in Cassazione), difesi dai legali Enrico De Martino e Andrea Vernazza. Dentro la caserma della Guardia di Finanza dove si è svolto l'interrogatorio non c'era Antonio Nastasi, assente per motivi di salute. Una circostanza che in molti è parsa una presa di distanze del pm oggi in forza alla Procura di Firenze (indaga sulla Fondazione Open di Matteo Renzi) dagli altri due colleghi. 

L'accusa che pesa su tutti e tre è pesantissima: falso aggravato per aver manipolato la scena del crimine (l'ufficio di Rossi) dalle 21.20 circa e la mezzanotte del 6 marzo 2013, prima dell'arrivo della Scientifica, senza documentarlo nel verbale. Una contaminazione confermata dalle foto pubblicate dalle Iene, dalla deposizione di un agente della Scientifica e soprattutto dalle accuse circostanziate del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco davanti alla commissione parlamentare diretta dall'azzurro Pierantonio Zanettin circa un anno fa, da cui è ripartita l'indagine. Il riserbo su cosa Marini e Natalini abbiano detto ai colleghi Vittorio Ranieri Miniati e Francesco Pinto è massimo. Avranno confermato che Aglieco non era nella stanza, come hanno da sempre sostenuto, e dunque non poteva sapere chi avesse toccato cosa. Non la stessa versione dei testi già sentiti dai pm genovesi. La Procura ha già archiviato una prima indagine a sui pm senesi, non rilevando alcuna obiezione rispetto all'esito delle loro indagini. Oggi però l'ipotesi che Rossi si sia ucciso da solo non convince davvero più nessuno. 

C'era qualcuno con lui quando è caduto? Plausibile, viste le uscite non sorvegliate. È stato aggredito prima di morire? Probabile, viste le ferite sul corpo, sul volto e nel braccio incompatibili con la caduta dalla sede Mps di Rocca Salimbeni, peraltro anomala. Si poteva salvare? Quasi sicuramente sì, visto che è stato in agonia per almeno 20 minuti, come dimostrano i filmati. La famiglia chiede che venga aperta una nuova indagine per omicidio. A indagare su questa ipotesi dovrebbe essere proprio Genova, sostengono i legali dei familiari. Il movente potrebbero essere i festini sessuali, ai quali avrebbero partecipato Marini e Natalini, stando alle dichiarazioni di un escort ritenute attendibili da Genova? A quanto risulta al Giornale la Procura ligure in passato aveva scoperto molte cose sulla vita privata dei magistrati, uno dei quali era stato persino legalmente intercettato. A distanza di quasi dieci anni dai fatti qualcosa potrebbe riemergere dai cassetti. Difficile che si arrivi alla Cassazione, a meno che si indaghi davvero per omicidio. E il falso diventi depistaggio. Il Csm colpevolmente se ne è lavato le mani. Ma fino a quando?

Anticipazione da “Le Iene – Mediaset” il 15 novembre 2022.

Un libro che stava sul tavolo nell’ufficio del manager e che “sparisce” durante il sopralluogo dei pubblici ministeri. Una foto della scientifica allegata alla richiesta di archiviazione che non fa vedere quanto riferito dai pm in atti ufficiali. 

Il ritrovamento dei bigliettini del presunto addio di David alla moglie già sui siti d’informazione alle 21.55 la sera della morte del manager, quasi contemporaneamente al ritrovamento degli stessi da parte degli inquirenti. Questo e altro nel servizio di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sul caso David Rossi, il manager del Monte dei Paschi di Siena precipitato dalla finestra del suo ufficio, il 6 marzo del 2013, nel bel mezzo di una bufera mediatica, finanziaria e giudiziaria.

L’inchiesta, evidenziando elementi mai trasmessi in tv, approfondisce sia la nuova indagine aperta dalla Procura di Genova che vedrebbe indagati per «falso aggravato» i tre pubblici ministeri che per primi arrivarono nell’ufficio del manager sia le possibili incongruenze rilevate nelle immagini dell’ufficio del manager. In particolare, si pone attenzione sul ritrovamento dei presunti bigliettini di addio di David rivolti a sua moglie, strappati e rinvenuti nel cestino, segno, secondo la famiglia, che il manager non avesse intenzione di suicidarsi.

A quasi dieci anni dalla vicenda i magistrati che si occuparono del fascicolo devono ora rispondere alle domande dei colleghi liguri – competenti sulla condotta dei magistrati di Siena – su quanto avvenne quella notte. Si apprende che i PM Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi sono invitati per essere sentiti in merito alle contestazioni sulla mancata verbalizzazione della perquisizione, sull’ispezione informatica e sul sequestro dell’ufficio di David Rossi. 

Le nuove indagini sarebbero nate a seguito delle dichiarazioni dell’ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena, Pasquale Aglieco, che davanti alla Commissione d’inchiesta aveva dichiarato che PM e carabinieri avrebbero agito nell’ufficio di Rossi senza tutte le cautele del caso, spostando oggetti sulla scrivania, toccando il mouse, aprendo e chiudendo la finestra, frugando e svuotando il cestino sulla scrivania, tutto senza indossare i guanti e prima dell’arrivo della polizia scientifica, avvenuto solo a mezzanotte inoltrata.

Più volte la trasmissione si è chiesta se ci fosse potuto essere un eventuale inquinamento della scena del possibile crimine, dopo aver notato molte incongruenze tra il primo video che fu girato dal poliziotto entrato nell’ufficio del manager quella sera e le foto scattate dalla polizia scientifica, arrivata qualche ora dopo per fare i rilievi. Tre queste, la giacca di David sulla sedia, i documenti del Ministero dell’Economia sulla scrivania, le ante della libreria, il monitor del pc e la finestra. 

Oggi se ne aggiunge una nuova: se prima si nota un libro dalla copertina viola sulla scrivania di vetro, nelle immagini della scientifica quel libro è sparito. E, a quanto afferma (durante la sua audizione in Commissione d’inchiesta, ndr.) l’agente della polizia scientifica Federica Romano intervenuta quella notte, quel libro sarebbe stato portato via sotto il braccio da uno dei tre magistrati intervenuti. 

Nella richiesta di archiviazione firmata dai pubblici ministeri Aldo Natalini e Nicola Marini, quando si parla dei biglietti rinvenuti nel cestino, viene indicato proprio il fascicolo fotografico contenente gli scatti della polizia scientifica, dove però i bigliettini non si vedono, tanto che Carolina Orlandi commenta: “Come fanno i magistrati a dire che i bigliettini erano dentro al cestino indicando come prova fotografica il fascicolo della scientifica quando uno di loro li aveva messi dentro a un libro? È possibile che un magistrato dica una cosa per un’altra?”.

Carolina commenta anche il video scoperto dall’Onorevole Luca Migliorino in cui si vedono due persone uscire dalla banca due minuti dopo la caduta di David Rossi da un’uscita di uno stabile, collegato da un tunnel sotterraneo all’edificio dove lavorava il manager, ma che dà su piazza dell’Abbadia, che è bel lontana dall’ingresso principale di Rocca Salimbeni. 

Video che era stato acquisito e poi cancellato dalla penna usb in possesso della polizia. “Quelle due persone che sono state riprese da una telecamera di sorveglianza in un video che fino a oggi ci è stato tenuto nascosto perché è stato cancellato, possono sapere qualcosa in più che può aiutarci rispetto a quanto è successo quella sera? Possono sapere chi l’ha picchiato brutalmente? Noi adesso vogliamo sapere chi ha cancellato quel video e perché.”.   

Nel servizio in onda stasera anche le parole di Carolina Orlandi, figlia della vedova di David Rossi, che, ai microfoni di Monteleone, commenta le ultime novità e dichiara: “…Ci tengo a chiarire una cosa, noi non siamo contro l’Istituzione Giustizia, noi siamo a fianco della Giustizia, ma quella che funziona, quella che non guarda in faccia nessuno per perseguire la verità, che non ha paura di pestare i piedi sbagliati ed è proprio questa giustizia che in noi oggi ha riacceso la speranza.”

Il servizio completo andrà in onda stasera, martedì 15 novembre, in prima serata, su Italia1.

Morte di David Rossi e indagini manipolate: la prova è nei messaggini di addio ritrovati. I fogli strappati furono ricomposti in un libro, tolto dalla scena del delitto. Felice Manti il 16 Novembre 2022 su Il Giornale.

In gergo si chiama pistola fumante, smoking gun. L'inchiesta per falso ideologico aperta dalla Procura di Genova contro i pm che hanno indagato sulla strana morte del manager Mps David Rossi ruota intorno al primo sopralluogo non verbalizzato dei pm nell'ufficio di Rossi, prima dell'arrivo della Scientifica. E nei messaggi che l'uomo avrebbe lasciato prima di lanciarsi dalla finestra del suo ufficio alle 19.45 del sei marzo 2013 e cadere al suolo in modo anomalo, a candela, rimanendo agonizzante per diversi minuti. Sul suo corpo ci sono con una serie di ferite ed ecchimosi sul polso, sull'inguine, allo stomaco e al fegato incompatibili con la caduta.

È davanti ai parlamentari della commissione d'inchiesta che l'ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena Pasquale Aglieco ha raccontato come Nicola Marini (oggi procuratore capo a Siena), Aldo Natalini e Antonino Nastasi avrebbero manipolato le prove. Oggi i tre saranno ascoltati da un loro collega nella caserma del nucleo di Polizia economico-finanziaria di Genova (che in passato aveva archiviato l'indagine) e dovranno rispondere del reato di falso ideologico per la «mancata verbalizzazione della perquisizione, con annessa ispezione informatica e sequestro», reato che si prescriverà a settembre 2025. I tre avrebbero spostato oggetti sulla scrivania, toccato mouse e computer, chiuso una finestra e frugato nel cestino poi rovesciato sulla scrivania (in cui c'erano pure fazzoletti sporchi di sangue, andati stranamente distrutti), senza indossare i guanti e prima dell'arrivo della Scientifica, avvenuto solo a mezzanotte inoltrata. Guardando i video e le foto «non ufficiali» scattate quasi due ore dopo la caduta e quelle «ufficiali» di qualche ora dopo si nota che la giacca di Rossi, piegata sulla spalliera, viene ricomposta sullo schienale. Le ante della libreria sono chiuse, nelle altre foto sono aperte.

Ma c'è una foto che potrebbe rappresentare plasticamente la manipolazione della scena del delitto. È quella dei tre presunti biglietti di addio di Rossi, che a detta degli inquirenti sarebbero stati ritrovato nel cestino ma che nelle foto ufficiali appaiono ricomposti tra le pagine di un libro. Lo dice l'agente della Scientifica Francesca Romano: «I magistrati che erano lì, avevano un libro su cui avevano ricomposto, nell'ispezione che avevano svolto precedentemente, tre lettere probabilmente scritte dal dottor Rossi che avevano rinvenuto all'interno del cestino stesso». Secondo la ricostruzione delle Iene andata in onda ieri sera, il libro che uno dei magistrati aveva sotto braccio è lo stesso che manca sul tavolo di vetro nelle foto della Scientifica. Nessuno ha visto quei bigliettini nel cestino. Ma nella richiesta di archiviazione firmata dai pubblici ministeri Natalini e Marini, quando si parla dei bigliettini, viene indicata una foto della Scientifica in cui non ci sono più. A dirlo al coraggioso ex parlamentare M5s Luca Migliorino, uno dei deputati più preparati che i grillini hanno candidato in posizione ineleggibile nonostante la messe di consensi è la stessa Romano. «Ha visto con i suoi occhi che quei biglietti furono presi dal cestino?», chiede Migliorino. «No». «E perché ha fatto una foto del cestino dall'alto?». Risposta: «Perché c'erano dei fazzolettini macchiati». Eppure i pm scrivono: «Venivano rinvenuti tre fogli manoscritti... alcuni dei quali strappati e gettati nel cestino (vedi fascicolo fotografico), indirizzati alla moglie e dal sicuro contenuto suicidario». La notizia dei messaggini diventerà virale alle 21.55, ripresa per primo dal Fatto quotidiano in contemporanea al sopralluogo dei pm e da anni avvelena i pozzi della narrazione mainstream. Tanto che Siena escluderà altre ipotesi. Ai pm di Genova l'arduo compito di riscrivere la verità su quella notte.

Caso David Rossi, incubo prescrizione. Felice Manti il 15 Novembre 2022 su Il Giornale.  

Domani a Genova sentiti i tre pm di Siena. Ma è giallo sull'allungamento dei tempi

Sul reato di «falso aggravato» a carico dei pm di Siena che hanno indagato sulla strana morte del manager Mps David Rossi incombe l'incubo prescrizione. Domani Nicola Marini (oggi procuratore capo facente funzione a Siena), Aldo Natalini e Antonino Nastasi (il pm che a Firenze indaga su Matteo Renzi) dovranno essere ascoltati nella caserma del nucleo di Polizia economico-finanziaria di Genova sulla «mancata verbalizzazione della perquisizione, con annessa ispezione informatica e sequestro». Che la scena del delitto sia stata modificata lo dicono le immagini raccolte nell'immediatezza dei fatti e quelle «ufficiali» della Scientifica diverse ore dopo. Abiti spostati, pm chiusi, scrivanie messe in ordine. A sentirli ci sarà anche un pm? Per il reato di «falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale» la pena va da tre a dieci anni. «La prescrizione dovrebbe scattare a marzo del 2023 - dice una fonte al Giornale - e dunque, a meno di clamorose novità, la parola fine sulla vicenda si avvicina». In realtà, a rigor di norma, basterebbe che a sentire i tre ci sia un collega della Procura di Genova, ufficio che già ha indagato (archiviando) i tre pm da un'ipotesi di reato iscritta «contro ignoti» a modello 45. «In questo modo la prescrizione si allungherebbe di un quarto, vale a dire due anni e sei mesi. Il che porta la prescrizione a settembre 2025». A quanto risulta al Giornale la Procura di Genova avrebbe disposto l'interrogatorio «dinanzi al pm», e questa dicitura ha già di per sé una funzione interruttiva della prescrizione, diversamente da quello che altri giornali sostengono.

Tutto nasce dalla deposizione davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, che ha accusato gli inquirenti senesi di aver manipolato la scena del crimine. I tre nel verbale del 7 marzo, «omettevano di attestare che nelle ore precedenti, e in particolare dalle 21,30 sino a circa mezzanotte del giorno precedente, avevano già fatto ingresso nella predetta stanza prima che la stessa venisse fotoripresa dal personale della polizia scientifica», dice Genova. Le immagini mandate in onda in questi anni dalle Iene - che domani sera riveleranno nuovi particolari, finora inediti, sulla vicenda - lo dimostrerebbero. «Ma non possono contestare a me un verbale al quale non ho partecipato né ho contribuito a redigere», dice Marini, quasi a prendere le distanze dai suoi due colleghi.

Ma David Rossi si è ucciso o l'hanno buttato dalla finestra? L'idea che si sia ammazzato è rimbalzata sui siti già alle 21.55, avvelenando i pozzi della narrazione mainstream. Chi l'ha fatta uscire? Perché il presunto messaggio suicidario è stato strappato e ricomposto? Il manager Mps è caduto tra le 19.45 e le 20:30 in modo anomalo ed è rimasto agonizzante. Come ha scoperto la commissione presieduta dall'azzurro Pierantonio Zanettin due persone sono state viste uscire da un ingresso secondario della banca sebbene l'istituto abbia sempre sostenuto il contrario. Chi c'era con lui? Da tutte le consulenze in commissione è emerso che Rossi aveva ferite incompatibili con il suidicio. Chi le ha inferte? C'è stata una istigazione? È stato omicidio volontario? Preterintenzionale? E chi dovrebbe occuparsene? Una Procura su cui si allunga l'ombra di aver depistato le indagini? Per la Suprema corte sì, ma la decisione del capoluogo ligure, da poco guidata da Nicola Piacente, rimescola tutto. Sullo sfondo ci sono i festini sessuali ai quali avrebbero partecipato lo stesso Aglieco e almeno due dei pm, come dice un escort ritenuto credibile dai pm di Genova. È questa la pista mai percorsa?

«Sono tanti i punti ancora oscuri. Un'altra commissione? L'ho chiesta ma non dipende da me», dice Zanettin, che già un anno fa aveva inoltrato le accuse di Aglieco al Csm. Palazzo de' Marescialli valuta la compatibilità ambientale, non certo le eventuali responsabilità penali dei tre pm. Basterebbe un'istruttoria anche poco accurata perché Marini venga trasferito. E invece è ancora lì...

David Rossi, tre pm indagati e un suicidio che non convince più nessuno. Salvatore Maria Righi su  L'Indipendente il 16 novembre 2022.

Il pasticciaccio brutto di Rocca Salimbeni, quella sera di marzo di nove anni e mezzo fa. L’atmosfera cupa di quel corpo piombato giù nel vicolo stretto, sui ciottoli del Quattrocento, alle spalle del quartiere generale di una delle più grandi e potenti banche italiane. Nella città fortificata che è diventata coi secoli, non a caso, il simbolo di un forziere che custodisce anche segreti, oltre ai tesori. Lo strano caso di David Rossi, suicida tra mille dubbi e sospetti, è un pozzo sempre più torbido e senza fondo. E tra oggi e domani, in una caserma della Guardia di Finanza a Genova, toccherà lo zenith quando tre magistrati ci entreranno per essere interrogati dai loro colleghi liguri. Aldo Natalini, Nicola Marino e Antonino Nastasi sono stati iscritti nel registro degli indagati degli uffici inquirenti genovesi per “falso ideologico e omissione sul sopralluogo”.

Sono i tre PM che avevano in carico il fascicolo sulla morte del capo della comunicazione MPS, dopo che è volato dalla finestra del suo ufficio in uno dei suicidi più inverosimili mai registrati dalle cronache. Le ipotesi nei loro confronti sono particolarmente gravi: saranno interrogati dai loro colleghi genovesi su quello che è accaduto nell’ufficio di Rossi quella notte del 6 marzo 2013, in particolare sulla mancata verbalizzazione della perquisizione, sull’ispezione informatica e sul sequestro della stanza di Rossi, al terzo piano della sede MPS. Il “falso aggravato” si riferisce a quello che non è stato riportato nel verbale del 7 marzo e che è accaduto nelle ore precedenti, dalle 21.30 della sera prima alla mezzanotte, quando i tre magistrati sono entrati nell’ufficio di Rossi prima che la polizia scientifica effettuasse i rilievi e le fotografie, spostando oggetti e mobili spostati senza darne citazione nel verbale stesso.

Il sospetto, insomma, è che i pm di Siena abbiano manomesso e occultato prove e indizi, alterando la scena dei fatti. L’ipotesi che viene formulata è “falso in atto pubblico fedifacente” e si riferisce alla mancata citazione nel verbale da parte dei pm di tutto quello che è successo nell’ufficio di Rossi dalle 21.30 in poi e nei giorni successivi. Un tipo di reato che permette di aggirare, interrompendola, la prescrizione che altrimenti arriverebbe inesorabile il 7 marzo 2023, dieci anni dopo i fatti secondo quello che prevede la legge.

La morte di David Rossi è uno dei buchi neri delle complicate vicende legate al Monte dei Paschi, in questi giorni ancora sotto ai riflettori per una sanguinosa ricapitalizzazione (l’ennesima) che non pare in grado di salvare l’istituto. Due settimane prima, a Rocca Salimbeni c’era stata la visita della Guardia di Finanza: nel mirino presidente e direttore generale della banca, Giuseppe Mussari e Antonio Vigni, per le vicende legate all’acquisizione di Anton Veneta. Rossi era il capo della comunicazione e le sequenze di quello che due inchieste hanno archiviato come suicidio, indagini svolte dalla magistratura senese, sono ancora oggi piene di incongruenze e domande senza risposta. Solo una delle 12 telecamere presenti è stata in grado di fornire immagini di quella sera, in alcuni fotogrammi si vedono due persone allontanarsi dall’uscita di piazza dell’Abbadia alle 20.01, mentre Rossi era già caduto a terra: MPS ha sempre negato che a quell’ora ci fosse personale in servizio, ma è stata smentita dalle immagini della telecamera numero 8.

Ancora più clamoroso, forse, il particolare dell’orologio da polso di Rossi che è precipitato nel vuoto decine di minuti dopo il corpo, raggiungendolo a terra e fermandosi ad un’ora diversa da quella in cui è stato ricostruito il volo mortale. È stata la commissione parlamentare di inchiesta, presieduta da Pierantonio Zanettin, a dare l’impulso decisivo per la ripresa delle indagini e per riaccendere i riflettori su un caso che pareva destinato, con tutte le sue incongruenze, a prendere polvere su qualche scaffale. Sostituendosi, per una volta, all’opera della magistratura inquirente che in questa vicenda ha mostrato molte zone d’ombra, la commissione ha prodotto una relazione finale di oltre 1000 pagine, col contributo di periti ed esperti. Secondo loro, gli elementi oggettivi presenti sul cadavere di Rossi e sulla scena dei fatti sono compatibili con un suicidio, ma non si spiegano però altre cose che sono state accertate. Ossia, prima di tutto, il fatto che il manager è rimasto circa 22 minuti agonizzante al suolo, durante i quali nessuno ha visto, sentito o è intervenuto: “È morto solo come un cane” ha detto Carolina Orlandi, figlia della vedova Rossi. Restano senza risposta anche le nove ferite ritrovate sul suo corpo, tra viso e ascelle, con analisi e accertamenti di Ros e Racis, e solo parzialmente spiegabili con la dinamica del suicidio.

Un giallo anche la mail che Rossi avrebbe inviato all’ex amministratore delegato di MPS, Fabrizio Viola, per annunciare il suo gesto disperato (“Stasera mi suicido, sul serio. Aiutatemi!!!”). Secondo accertamenti effettuati dalla polizia postale, si tratterebbe di un falso. La mail, datata 4 marzo, sarebbe stata in realtà scritta il 7, il giorno dopo la sua morte. Le ispezioni informatiche di cui devono rispondere i tre PM di Siena riguardano anche questi elementi, sui quali restano molti dubbi. Come quelli che hanno la vedova e sua figlia, per la quale Rossi custodiva “segreti inconfessabili” e per questo sarebbe stato tolto di mezzo. L’avvocato della famiglia ha annunciato, dopo l’enorme lavoro svolto dalla commissione e dopo la notizia degli interrogatori dei tre PM indagati, che chiederà la riapertura del caso per omicidio.

Le accuse più circostanziate e gravi all’operato dei tre magistrati sono arrivate da Pasquale Aglieco, colonnello dei Carabinieri, ex comandante provinciale a Siena, che è stato sentito in audizione dalla Commissione parlamentare. In quella sede, pare, sono stati fatti accertamenti e approfondimenti anche in relazione ai presunti festini a luci rosse che si sarebbero tenuti in passato in ambienti della Siena-bene e ai quali avrebbe partecipato anche uno dei tre PM indagati a Genova. Racconti fatti al comandante dei carabinieri di Monteriggioni, maresciallo Marinucci, da un pittore Francesco Benocci, gay, che è stato trovato impiccato nella sua cella di Massa Marittima il giorno prima di lasciare il carcere per indulto. Evidentemente, il suicidio di David Rossi non è l’unico strano suicidio in questa storia e dalle parti di Siena, in quegli anni. Vicende sicuramente molto opache che contribuiscono a rendere il clima torbido intorno alla morte violenta del manager MPS e ai fatti che l’hanno accompagnata.

Compresi quelli che hanno portato la procura senese, dopo due archiviazioni richieste e ottenute dal gip su ogni altra ipotesi che non fosse quella del suicidio, a chiedere il rinvio a giudizio della vedova Rossi, Antonella Tognazzi, e di Davide Vecchi, giornalista del Fatto Quotidiano, per violazione della privacy, ossia per aver pubblicato la mail (poi giudicata falsa) che Rossi avrebbe mandato all’ex AD Viola. Richiesta respinta con reprimenda dal gip, evidentemente colpito dalla singolarità dell’ipotesi accusatoria che non ha trovato eguali in nessuna riga della giurisprudenza corrente. Nel frattempo, in questi nove anni, la vita è andata avanti anche e prima di tutto per i tre magistrati che in questi giorni saranno dall’altra parte della scrivania, di fronte ai loro colleghi. Marini è diventato procuratore facente funzioni a Siena, Nastasi lavora in quella fiorentina e si è occupato a lungo dell’ex premier Renzi, mentre Natalini è finito al massimario della Corte di Cassazione, uscendo dal circuito della magistratura inquirente. Se, come ha ricordato qualcuno, questi addebiti al loro operato sono stati rilevati già nel 2013, come mai sono passati ben nove anni prima, di vederli rispondere davanti alla legge a cui hanno giurato fedeltà? [di Salvatore Maria Righi]

David Rossi, "indagati i pm del caso": la pesante accusa. Christian Campigli su Libero Quotidiano il 12 novembre 2022

Un'indagine snaturata, portata avanti con troppa superficialità e con la convinzione di trovarsi di fronte a un chiaro, semplice, evidente caso di suicidio. Una commissione di inchiesta parlamentare che non ha mai accettato una tesi apparsa, da subito, lacunosa. Ieri una clamorosa novità, un colpo di scena incredibile, che rimette tutto in discussione. I tre pubblici ministeri di Siena titolari del fascicolo sulla morte di David Rossi sono stati iscritti nel registro degli indagati della Procura di Genova per falso aggravato. L'ipotesi a carico dei magistrati, Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi, riguarda presunte irregolarità nell'inchiesta sulla morte dell'ex capo della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena, avvenuta il 6 marzo del 2013.

Marini, l'unico ancora alla procura di Siena di cui è capo facente funzione, Natalini, e Antonino Nastasi, quest' ultimo oggi pm a Firenze, saranno sentiti a Genova. Si inizierà mercoledì prossimo nella caserma della Guardia di Finanza del capoluogo ligure, dove i magistrati dovranno rispondere alle contestazioni relative alle presunte irregolarità, come la mancata verbalizzazione della perquisizione, con annessa ispezione informatica e sequestro, della stanza usata da Rossi. Tutti rilievi emersi dal lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Rossi istituita durante il governo Draghi e presieduta da Pierantonio Zanettin. La commissione ha trasmesso il risultato del lavoro svolto in meno di un anno.

In particolare la ricostruzione delle ultime ore della vita di Rossi e di quelle immediatamente dopo la morte. Un lavoro che ha portato a scoprire come i pm non abbiano mai- ad esempio- verbalizzato un accesso nell'ufficio avvenuto prima ancora della polizia scientifica. Oltre a un'altra serie di omissioni.

 Secondo la tesi accusatoria, i tre pubblici ministerI avrebbero «manipolato e spostato senza redigere alcun verbale delle operazioni compiute». Negli atti dell'inchiesta si legge che tale accusa è formulata nei confronti degli ex sostituti procuratori per «aver omesso di attestare nel verbale di esecuzione di decreto di perquisizione della stanza già in uso al citato David Rossi, ispezione informatiche e sequestro probatorio formato nell'esercizio delle funzioni» di un primo sopralluogo informale, effettuato prima dell'arrivo della polizia scientifica. Da lì la possibile manipolazione «di oggetti senza redigere alcun verbale delle operazioni compiute e senza dare atto del personale di polizia giudiziaria che insieme a loro avevano proceduto a questo sopralluogo». Accuse pesanti, circostanziate e che rimettono completamente in discussione tutta la tesi secondo la quale Rossi si sarebbe, semplicemente, suicidato. Ieri Marini ha ritenuto di commentare la sua iscrizione nel registro degli indagati sostenendo che «il fatto sul quale mi si chiedono chiarimenti è a mio avviso completamente e integralmente infondato».

In realtà, già durante la relazione finale della commissione di inchiesta, furono numerose le incongruenze evidenziate. Prima tra tutte il video nel quale si vedono due persone uscire da un ingresso secondario della sede di Mps. Immagini che contrastano con tutti gli atti processuali. Gli inquirenti infatti hanno sempre sostenuto non esistessero uscite alternative all'ingresso principale alla banca. Il video, non va dimenticato, era stato cancellato dagli atti, ma è stato individuato proprio dalla commissione. Ieri questo nuovo scossone. Un punto di partenza per continuare a sperare che, dopo quasi dieci anni da quel tragico 6 marzo del 2013, si possa finalmente arrivare a conoscere la verità sulla drammatica morte di David Rossi. 

David Rossi, un tracollo giudiziario. Ma il Csm non fa nulla? Davide Vecchi su Libero Quotidiano il 13 novembre 2022

Aldo Natalini, Salvatore Nastasi e Nicola Marini sono i tre magistrati indagati dalla procura di Genova per aver commesso "falsità ideologica e omissioni sul sopralluogo" nell'ufficio di David Rossi, il manager di Monte dei Paschi di Siena trovato morto la sera del 6 marzo 2013. Sono accusati di aver fatto male il loro lavoro. Anzi, di averlo svolto parecchio male. Considerato che è contestato loro il "falso aggravato". Bene, si dirà, finalmente qualcuno decide di far luce sul caso più controverso dell'ultimo decennio. Male, invece. Malissimo. Perché è l'ennesima conferma delle tragiche condizioni in cui versa la giustizia italiana.

 Per numerosi motivi. Mi limito a indicarne tre. Il primo: i rilievi contestati ora ai tre pm erano già noti sin dal luglio 2013, quindi si poteva intervenire subito. Il secondo: la Procura di Genova che oggi li indaga è la stessa Procura che aveva già aperto nel 2019 un fascicolo sui tre, archiviandolo. Il terzo: il Consiglio Superiore della Magistratura, che sin dal 2015 è stato interpellato per valutare l'operato dei tre, è rimasto inerme. L'aspetto forse più preoccupante è che di tutti questi organismi che avrebbero dovuto (perché è un loro dovere) compiere gli accertamenti, nessuno è arrivato a nulla: il lavoro che ha portato a indagare i tre magistrati è stato svolto da dei politici. Sì, i tanto odiati politici. Il merito è infatti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi presieduta da Pierantonio Zanettin e della quale è stato consulente anche l'attuale ministro della Giustizia, Carlo Nordio.

I commissari- in particolare Luca Migliorino dei Cinque Stelle (che Giuseppe Conte ha pensato bene di non rieleggere) o Walter Rizzetto di Fratelli d'Italia (che ha già chiesto con Zanettin la ricostituzione della commissione), ma anche Claudio Borghi della Lega e Cosimo Ferri di Italia Viva - hanno scoperto in meno di un anno più di quanto abbiano scoperto due Procure (e il Csm) dal 2013 in poi. Un lavoro sintetizzato nella relazione conclusiva che, va ricordato, è stata approvata da tutti tranne che dagli esponenti del Pd (chissà come mai). Logica vorrebbe che il Csm adotti dei provvedimenti immediati per i magistrati coinvolti. Almeno per i tre di Siena indagati da ieri, perché negli ultimi nove anni hanno pure fatto carriera. Nastasi è ora a Firenze, per esempio. Marini oggi è addirittura procuratore capo di Siena

. Non ha dell'incredibile? Si dirà che la presunzione d'innocenza vale per tutti e che i reati sono ormai prescritti ma quale e quanta credibilità ha o potrebbe avere un magistrato che si nasconde dietro la prescrizione? E come può un pm accusato di aver fatto male il proprio mestiere continuare a farlo sostenendo di "attendere fiducioso gli accertamenti" di suoi colleghi? Dovrebbero autosospendersi. Almeno il terzo pm indagato, Aldo Natalini, anni fa ha cambiato mestiere: non è più un magistrato inquirente ed è andato al massimario della Corte di Cassazione. Natalini, del resto, era riuscito nel capolavoro di distruggere reperti fondamentali senza analizzarli e persino a indagare e mandare a processo con un giornalista la vedova di David Rossi, Antonella Tognazzi, con un'accusa ridicola (violazione della privacy dell'ex ad di Mps, Fabrizio Viola) per la pubblicazione sulla stampa delle mail con cui il marito ancora vivo chiedeva aiuto a Viola. Ovviamente è stata pienamente assolta. Era il luglio 2013. Rossi era morto quattro mesi prima. Invece di indagare su cosa era accaduto a David, Natalini ha preferito indagare la vedova. Questa era la Procura della Repubblica di Siena. E questo è come hanno operato (e operano ancora?) alcuni magistrati. 

Caso David Rossi, ora il Csm sospenda i pm indagati. Davide Vecchi su Il Tempo il 12 novembre 2022

Aldo Natalini, Salvatore Nastasi e Nicola Marini sono i tre magistrati indagati dalla procura di Genova per aver commesso "falsità ideologica e omissioni sul sopralluogo" nell'ufficio di David Rossi, il manager di Monte dei Paschi di Siena trovato morto la sera del 6 marzo 2013. Sono accusati di aver fatto male il loro lavoro. Anzi, di averlo svolto parecchio male. Considerato che è contestato loro il "falso aggravato".

Bene, si dirà, finalmente qualcuno decide di far luce sul caso più controverso dell'ultimo decennio. Male, invece. Malissimo. Perché è l'ennesima conferma delle tragiche condizioni in cui versa la giustizia italiana. Per numerosi motivi. Mi limito a indicarne tre. Il primo: i rilievi contestati ora ai tre pm erano già noti sin dal luglio 2013, quindi si poteva intervenire subito. Il secondo: la Procura di Genova che oggi li indaga è la stessa Procura che aveva già aperto nel 2019 un fascicolo sui tre, archiviandolo. Il terzo: il Consiglio Superiore della Magistratura, che sin dal 2015 è stato interpellato per valutare l'operato dei tre, è rimasto inerme. L'aspetto forse più preoccupante è che di tutti questi organismi che avrebbero dovuto (perché è un loro dovere) compiere gli accertamenti, nessuno è arrivato a nulla: il lavoro che ha portato a indagare i tre magistrati è stato svolto da dei politici. Sì, i tanto odiati politici. Il merito è infatti della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi presieduta da Pierantonio Zanettin e della quale è stato consulente anche l'attuale ministro della Giustizia, Carlo Nordio.

I commissari - in particolare Luca Migliorino dei Cinque Stelle (che Giuseppe Conte ha pensato bene di non rieleggere) o Walter Rizzetto di Fratelli d'Italia (che ha già chiesto con Zanettin la ricostituzione della commissione), ma anche Claudio Borghi della Lega e Cosimo Ferri di Italia Viva - hanno scoperto in meno di un anno più di quanto abbiano scoperto due Procure (e il Csm) dal 2013 in poi. Un lavoro sintetizzato nella relazione conclusiva che, va ricordato, è stata approvata da tutti tranne che dagli esponenti del Pd (chissà come mai). Logica vorrebbe che il Csm adotti dei provvedimenti immediati per i magistrati coinvolti. Almeno per i tre di Siena indagati da ieri, perché negli ultimi nove anni hanno pure fatto carriera. Nastasi è ora a Firenze, per esempio. Marini oggi è addirittura procuratore capo di Siena. Non ha dell'incredibile? Si dirà che la presunzione d'innocenza vale per tutti e che i reati sono ormai prescritti ma quale e quanta credibilità ha o potrebbe avere un magistrato che si nasconde dietro la prescrizione? E come può un pm accusato di aver fatto male il proprio mestiere continuare a farlo sostenendo di "attendere fiducioso gli accertamenti" di suoi colleghi? Dovrebbero autosospendersi. Almeno il terzo pm indagato, Aldo Natalini, anni fa ha cambiato mestiere: non è più un magistrato inquirente ed è andato al massimario della Corte di Cassazione. Natalini, del resto, era riuscito nel capolavoro di distruggere reperti fondamentali senza analizzarli e persino a indagare e mandare a processo con un giornalista la vedova di David Rossi, Antonella Tognazzi, con un'accusa ridicola (violazione della privacy dell'ex ad di Mps, Fabrizio Viola) per la pubblicazione sulla stampa delle mail con cui il marito ancora vivo chiedeva aiuto a Viola. Ovviamente è stata pienamente assolta. Era il luglio 2013. Rossi era morto quattro mesi prima. Invece di indagare su cosa era accaduto a David, Natalini ha preferito indagare la vedova. Questa era la Procura della Repubblica di Siena. E questo è come hanno operato (e operano ancora?) alcuni magistrati.

La morte di David Rossi al Monte Paschi di Siena: prove compromesse. Indagati tre magistrati della Procura di Siena. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’11 Novembre 2022

La "falsificazione" delle evidenze investigative sarebbe avvenuta durante il sopralluogo dopo il ritrovamento del cadavere. Renzi: "Si devono vergognare"

I tre pm della procura di Siena, Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi dovranno presentarsi davanti ai colleghi di Genova, per essere interrogati nella veste di indagati, titolari del fascicolo sulla morte di David Rossi, il capo della comunicazione di Mps che il 6 marzo 2013 venne trovato morto, dopo essere precipitato dalla finestra. Gli allora sostituti procuratori rispondono delle accuse di “falso aggravato” dalla Procura di Genova, competente per i reati commessi dagli appartenenti agli uffici giudiziari del distretto di Siena. Le contestazioni mosse dalla procura ligure a quella senese riguardano la mancata verbalizzazione della perquisizione, con annessa ispezione informatica e sequestro, della stanza usata da David Rossi. Titolare del fascicolo è il procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati che già si era occupato di precedenti filoni derivanti dalle denunce della vedova di Rossi sempre riguardanti le indagini  della procura senese e un’ipotesi di festini a luci rosse che vedrebbero coinvolti alcuni dei magistrati.

I tre pm come si legge, nel verbale del 7 marzo, si legge nel capo d’imputazione “omettevano di attestare che nelle ore precedenti, e in particolare dalle 21,30 sino a circa mezzanotte del giorno precedente, avevano già fatto ingresso nella predetta stanza prima che la stessa venisse fotoripresa dal personale della polizia scientifica“. In quell’occasione, secondo l’ipotesi accusatoria della Procura di genova , avrebbero “manipolato e spostato oggetti senza redigere alcun verbale delle operazioni compiute e senza dare atto del personale di polizia giudiziaria che insieme a loro avevano proceduto a questo sopralluogo“. Nella testimonianza alla Commissione dell’allora comandante dei carabinieri di Siena, il colonnello Pasquale Aglieco, era emerso come i pm avessero spostato oggetti senza informare gli ufficiali di polizia giudiziaria e come uno di loro avesse anche risposto a una chiamata effettuata da Daniela Santanchè al telefono della scrivania di Rossi, di cui era amica.

“La procura di Genova apre un’inchiesta sui PM senesi del caso David Rossi. Dopo 10 anni. Ma per un garantista questo non è il punto. Chi ha fatto quelle indagini a Siena si deve solo Vergognare. Nell’edizione aggiornata del mio libro Il Mostro spiego il perché”. Così Matteo Renzi con un tweet si è espresso sulla nuova indagine. Renzi aveva denunciato lo scorso febbraio il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, l’aggiunto Luca Turco e il pubblico ministero Antonino Nastasi. L’inchiesta era stata archiviata con una velocità che sa di incredibile considerati i noti abituali tempi lunghi della giustizia sollevando ulteriori critiche dal leader di Italia Viva.

Nell’inchiesta della Procura di Genova è confluita anche la relazione finale approvata a settembre dalla commissione parlamentare sulla morte di Davide Rossi. Secondo la maxi-perizia dei RIS dei Carabinieri, l’ipotesi “più compatibile” risulta il suicidio. Nel documento si legge: “Sono emerse alcune circostanze che meritano di essere tratteggiate . Conviene muovere dal tema dei cosiddetti festini poiché è da qui che sono scaturiti i maggiori sospetti e punti d’ombra sull’operato dei magistrati che si sono occupati della prima indagine”. Gli interrogatori dei magistrati si svolgeranno mercoledì prossimo nella caserma del nucleo di polizia economico-finanziaria di Genova.

“Quando abbiamo raccolto le dichiarazioni sia delle forze di polizia, intervenute immediatamente dopo la morte di David Rossi, sia del colonnello Aglieco avevamo capito che potevano emergere profili di possibili reati e abbiamo immediatamente trasmesso tutte le carte sia alla Procura di Genova sia al Csm sia alla Procura Generale ciascuno per i profili di propria competenza. Questa intuizione, probabilmente, ha trovato conferma nelle attività della Procura di Genova per la parte relativa al sopralluogo”. commenta all’Adnkronos il senatore Pierantonio Zanettin (Forza Italia), che nella scorsa legislatura aveva presieduto la presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi.

“Questo è un aspetto importante – prosegue Zanettin – ma ci sono anche molti altri aspetti che attendono di essere chiariti: chi e perché ha cancellato il video (in cui si vedono due persone uscire dalla sede di Mps ndr), cosa ci facevano alle ore 20 quei dipendenti a Mps e perché sono usciti da un’uscita secondaria, perché il portiere ha detto che tutte le porte erano chiuse e invece quella era aperta e facilmente fruibile” che continua “Restano tante cose non chiare: vediamo che il lavoro sinergico della Commissione e della magistratura porta a sviluppi di cui attendiamo gli esiti“. Riguardo alla gravità che, al contrario della procura di Genova, il Csm non sembra essersi mosso, l’ on. Zanettin risponde: “Questa domanda andrebbe fatta ad Ermini“ attuale vicepresidente uscente del Csm .

Il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin appena insediatosi il nuovo parlamento, nel giorno dell’avvio della XIX legislatura, ha presentato  un disegno di legge al Senato Istituire una nuova Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi. del disegno di legge d’iniziativa di Zanettin si legge come la richiesta dell’istituzione di una nuova commissione di inchiesta per la morte dell’ex direttore della comunicazione di Mps, avvenuta il 6 marzo 2013, proviene dalla necessità di proseguire il lavoro svolto dalla precedente commissione “che ha prodotto ottimi risultati” ma che è stato interrotto a causa della conclusione anticipata della legislatura. “Appare necessario proseguire nella doverosa ricerca della verità, tanto in relazione al tragico evento costituito dalla morte del dottor David Rossi, quanto in relazione alle vicende a essa connesse e collegate, che pure sono emerse nel corso dei lavori della precedente legislatura. Con il presente disegno di legge, dunque, si propone l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta“. Redazione CdG 1947

Simone Di Meo per “La Verità” l’11 novembre 2022.

La Procura della Repubblica di Genova ha iscritto sul registro degli indagati i tre ex pubblici ministeri della Procura di Siena che effettuarono il sopralluogo nella stanza di David Rossi, l'ex capo della comunicazione di Mps, morto il 6 marzo 2013 dopo un tragico e misterioso volo dalla finestra del suo ufficio.

L'accusa ipotizzata dai pm genovesi nei confronti di Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi è quella di falsità ideologica. 

Per aver omesso - scrivono negli atti d'inchiesta - di attestare «nel verbale di esecuzione di decreto di perquisizione della stanza già in uso al citato David Rossi, ispezione informatica e sequestro probatorio formato nell'esercizio delle loro funzioni» un primo sopralluogo informale, effettuato prima dell'arrivo della polizia scientifica.

Nell'invito a comparire, inviato ai tre colleghi, il procuratore aggiunto di Genova, Vittorio Ranieri Miniati, ricorda infatti come «nelle ore precedenti ed in particolare dalle ore 21,30 sino a circa mezzanotte del giorno precedente» i tre inquirenti «avevano già fatto ingresso nella predetta stanza, prima che la stessa venisse fotoripresa dal personale della polizia scientifica ed ivi avevano manipolato e spostato oggetti senza redigere alcun verbale delle operazioni compiute e senza dare atto del personale di PG (polizia giudiziaria, ndr) che insieme a loro aveva proceduto a detto sopralluogo».

Marini, Nastasi e Natalini dovranno quindi presentarsi in Procura a Genova il 16 novembre prossimo. Quel primo sopralluogo informale è da sempre uno dei cardini della principale accusa mossa ai magistrati senesi dai sostenitori dell'ipotesi dell'omicidio: quella dell'alterazione della scena del crimine. 

A partire dall'aver tirato fuori dal cestino della spazzatura i tre biglietti con cui David Rossi avrebbe detto addio alla sua compagna, Antonella Tognazzi. I messaggi, che secondo una perizia della parte civile potrebbero essere stati scritti sotto costrizione, vennero ricomposti dai pm all'interno di un libro.

Uno dei magistrati avrebbe anche attivato il monitor del computer muovendo il mouse. Tutto non verbalizzato, secondo l'ipotesi di reato adesso contestata. Ma nella relazione tecnica della polizia scientifica di Siena, redatta il 21 marzo 2013 dall'assistente Federica Romano, la questione dei bigliettini era formalizzata e quindi finita agli atti: «Durante il sopralluogo i Pm intervenuti hanno mostrato, per documentarle, tre lettere lasciate probabilmente dal signor Rossi e rinvenute nel cestino della spazzatura dell'ufficio da loro stessi quando hanno effettuata una prima ispezione».

Già nel dicembre scorso, dopo la trasmissione da parte della commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte del manager del Montepaschi di alcuni verbali resi in aula da alcuni testimoni, tra cui il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, che aveva dichiarato di aver assistito personalmente all'inquinamento della scena da parte di tre magistrati, la Procura di Genova aveva aperto un primo fascicolo, a modello 45, ovvero senza iscrizione di indagati o di ipotesi di reato.

A poco meno di un anno di distanza, dopo che due poliziotti sentiti dall'aggiunto avrebbero confermato in parte la versione di Aglieco, che invece secondo i 3 sostituti procuratori non era presente nella stanza, lo scenario si è ribaltato.

Mps, indagati i tre pm del caso David Rossi: altre ombre sul sistema. Dopo dieci anni l'invito a comparire per "falso ideologico". Dubbi sulle manomissioni. Stefano Zurlo il 12 Novembre 2022 su Il Giornale.

Sono passati quasi dieci anni e quella morte è sempre un mistero italiano, ma adesso sul banco degli imputati finisce anche l'inchiesta della procura di Siena. I tre pm dell'epoca - Aldo Natalini, Nicola Marini e Antonino Nastasi - hanno ricevuto un invito a comparire per falso ideologico.

La magistratura genovese vuole chiarire una volta per tutte cosa accadde la sera del 6 marzo 2013, subito il suicidio, se di questo si è trattato, del manager del Monte dei Paschi di Siena, e poi, più tardi, in un secondo accesso.

Nel primo blitz i pm avrebbero fatto irruzione sulla scena del crimine prima che questa venisse filmata dagli agenti della Scientifica. Forse, toccarono e spostarono anche oggetti, in spregio a qualunque regola investigativa, e un comportamento anomalo avrebbe segnato anche la perquisizione successiva, senza mettere nulla a verbale e senza specificare che i pm erano accompagnati dalla polizia giudiziaria.

Era stato il colonnello Pasquale Aglieco a squarciare il velo davanti alla Commissione d'inchiesta parlamentare. Aglieco aveva raccontato che i tre si sarebbero resi protagonisti di una serie di episodi a dir poco stravaganti: sarebbero entrati nello studio, avrebbero toccato il computer e raccolto dal cestino alcuni fazzolettini sporchi di sangue, poi avrebbero chiuso la finestra e Nastasi avrebbe addirittura risposto al telefonino del manager, raggiunto da una chiamata di Daniela Santanchè.

Tutto, secondo Aglieco, senza usare i guanti e dunque compromettendo il set della tragedia. Rossi era precipitato nel vicolo sottostante, ma quell'intervento maldestro ha complicato un giallo che già si prestava a mille suggestioni e interpretazioni. Le inchieste precedenti, non una ma due, si sono chiuse confermando l'ipotesi più semplice: Rossi, nel turbinio del disastro di Mps, si buttó dalla finestra di Rocca Salimbeni e la fece finita. Ma naturalmente proprio quel pasticcio inguardabile spegne la speranza di arrivare a una conclusione certa. E lascia spazio a tesi complottistiche e a trame che mescolano realtà e fiction.

«La procura di Genova - twitta Matteo Renzi - apre un'inchiesta sui pm del caso Rossi. Dopo 10 anni. Ma per un garantista questo non è il punto. Chi ha fatto quelle indagini a Siena si deve solo vergognare». Un pensiero che Renzi spiega nell'edizione aggiornata de il Mostro, il libro che descrive le vicissitudini giudiziarie dell'ex premier e diventa un atto d'accusa contro la magistratura fiorentina, compreso Nastasi che da Siena si era appunto trasferito nel capoluogo toscano e aveva incrociato sulla sua strada il fondatore di Italia viva.

Può sembrare incredibile ma le contaminazioni, spesso per sciatteria condita con arroganza, sono una delle disgrazie del nostro sistema. Errori gravi e ripetuti, commessi da agenti improvvisati o peggio da toghe malate di protagonismo. E i risultati processuali più di una volta portano a galla in modo sconfortante questo deficit.

A Siena saremmo davanti a una serie di atti gratuiti che lasciano allibiti: quel che ha detto Aglieco è stato in parte smentito e per i tre pm non era presente nella stanza di Rossi, ma le deposizioni di altri due agenti hanno fatto emergere alcune irregolarità che ora vengono contestate ai magistrati. Non basta. «Ci aspettiamo - fa sapere l'avvocato Carmelo Miceli, legale della vedova e della figlia di Rossi - la riapertura delle indagini su quanto accaduto la notte del 6 marzo 2013 e in particolare su chi e come ha provocato su Rossi, ancora in vita, quelle lesioni che la Commissione ha certificato come incompatibili con l'ipotesi suicidiaria».

Morte di David Rossi, indagati a Genova tre pm di Siena. Renzi: «Si devono vergognare». Nel mirino della procura ligure finiscono Nicola Marini, l'unico ancora alla procura di Siena di cui è procuratore capo facente funzione, Aldo Natalini, e Antonino Nastasi, quest'ultimo oggi pm a Firenze. Dubbio l’11 novembre 2022.

Tre pm in servizio alla procura di Siena nel 2013 sono indagati dalla procura di Genova, per falso aggravato. Si tratta dei tre magistrati titolari del fascicolo sulla morte di David Rossi, l’ex capo comunicazione di Mps deceduto dopo essere precipitato dalla finestra del suo ufficio a Siena il 6 marzo 2013. È quanto riporta oggi il Messaggero spiegando che i tre magistrati, Nicola Marini, l’unico ancora alla procura di Siena di cui è procuratore capo facente funzione, Aldo Natalini, e Antonino Nastasi, quest’ultimo oggi pm a Firenze, dovranno presentarsi davanti ai colleghi di Genova, per essere interrogati in merito a contestazioni relative alla mancata verbalizzazione della perquisizione, con annessa ispezione informatica e sequestro, della stanza usata da Rossi.

Morte di David Rossi, pm indagati a Genova: parla Zanettin

«Quando abbiamo raccolto le dichiarazioni sia delle forze di polizia, intervenute immediatamente dopo la morte di David Rossi, sia del colonnello Aglieco (ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena ndr) avevamo capito che potevano emergere profili di possibili reati e abbiamo immediatamente trasmesso tutte le carte sia alla Procura di Genova sia al Csm sia alla Procura Generale ciascuno per i profili di propria competenza. Questa intuizione, probabilmente, ha trovato conferma nelle attività della Procura di Genova per la parte relativa al sopralluogo». Lo afferma all’Adnkronos il senatore Pierantonio Zanettin (Fi), nella scorsa legislatura presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi, commentando la notizia, riportata dal “Messaggero” e dalla “Verità”, dell’indagine sui tre pm di Siena, titolari del fascicolo sulla morte dell’ex capo della Comunicazione di Mps, per la mancata verbalizzazione della perquisizione, con annessa ispezione informatica e sequestro, della stanza del manager.

«Questo è un aspetto importante – prosegue – ma ci sono anche molti altri aspetti che attendono di essere chiariti: chi e perché ha cancellato il video (in cui si vedono due persone uscire dalla sede di Mps ndr), cosa ci facevano alle ore 20 quei dipendenti a Mps e perché sono usciti da un’uscita secondaria, perché il portiere ha detto che tutte le porte erano chiuse e invece quella era aperta e facilmente fruibile».  «Restano tante cose non chiare: vediamo che il lavoro sinergico della Commissione e della magistratura porta a sviluppi di cui attendiamo gli esiti», continua Zanettin. Riguardo al fatto che, al contrario della procura di Genova, il Csm non sembra essersi mosso, Zanettin risponde: «Questa domanda andrebbe fatta ad Ermini (vicepresidente del Csm ndr)».

Morte di David Rossi, Renzi entra a gamba tesa

«La procura di Genova apre un’inchiesta sui PM senesi del caso David Rossi. Dopo 10 anni. Ma per un garantista questo NON è il punto. Chi ha fatto quelle indagini a Siena si deve solo VERGOGNARE. Nell’edizione aggiornata de Il Mostro spiego il perché». Lo scrive su Twitter Matteo Renzi.

La nuova inchiesta. Morte David Rossi, indagati tre pm di Siena per aver “compromesso” le prove: sono accusati di falso aggravato. Fabio Calcagni su Il Riformista l’11 Novembre 2022

Un clamoroso colpo di scena arriva a quasi dieci anni dalla morte di David Rossi, capo della comunicazione di Montepaschi di Siena che il 6 marzo 2013 venne trovato morto dopo essere precipitato dalla finestra. Come rivelato oggi da Messaggero e Verità, i tre pubblici ministeri della Procura di Siena che si occuparono inizialmente della vicenda sono accusati di falso aggravato dai colleghi della Procura di Genova, competente territorialmente su Siena, e dovranno presentarsi prossimamente per essere interrogati nella veste di indagati.

Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi, stando all’accusa, avrebbero “manipolato e spostato senza redigere alcun verbale delle operazioni compiute”. In particolare le contestazioni nei loro confronti riguardano l’ipotesi di non aver verbalizzato la perquisizione, con annessa ispezione informatica e sequestro, della stanza usata da Rossi nella sede centrale di Mps in piazza Salimbeni.

I tre pm, si legge, nel verbale del 7 marzo, “omettevano di attestare che nelle ore precedenti, e in particolare dalle 21,30 sino a circa mezzanotte del giorno precedente, avevano già fatto ingresso nella predetta stanza – si legge nel capo d’imputazione – prima che la stessa venisse fotoripresa dal personale della polizia scientifica“. In quell’occasione, secondo l’ipotesi accusatoria, avrebbero “manipolato e spostato oggetti senza redigere alcun verbale delle operazioni compiute e senza dare atto del personale di polizia giudiziaria che insieme a loro avevano proceduto a questo sopralluogo“.

Marini, Natalini e Nastasi saranno sentiti mercoledì prossimo nella caserma del nucleo di polizia economico-finanziaria di Genova. Nel fascicolo d’inchiesta è finita anche la relazione approvata a settembre dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Rossi: secondo la maxi-perizia dei Ris di Parma, l’ipotesi “più compatibile” per la morte dell’ex capo della comunicazione di Mps resta però quella del suicidio.

Proprio l’ex della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Rossi, il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, sottolinea all’AdnKronos che “quando abbiamo raccolto le dichiarazioni sia delle forze di polizia, intervenute immediatamente dopo la morte di David Rossi, sia del colonnello Aglieco (ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena, ndr) avevamo capito che potevano emergere profili di possibili reati e abbiamo immediatamente trasmesso tutte le carte sia alla Procura di Genova sia al Csm sia alla Procura Generale ciascuno per i profili di propria competenza. Questa intuizione, probabilmente, ha trovato conferma nelle attività della Procura di Genova per la parte relativa al sopralluogo“.

“Questo è un aspetto importante – prosegue Zanettin – ma ci sono anche molti altri aspetti che attendono di essere chiariti: chi e perché ha cancellato il video (in cui si vedono due persone uscire dalla sede di Mps ndr), cosa ci facevano alle ore 20 quei dipendenti a Mps e perché sono usciti da un’uscita secondaria, perché il portiere ha detto che tutte le porte erano chiuse e invece quella era aperta e facilmente fruibile“. “Restano tante cose non chiare: vediamo che il lavoro sinergico della Commissione e della magistratura porta a sviluppi di cui attendiamo gli esiti“, continua Zanettin. Riguardo al fatto che, al contrario della procura di Genova, il Csm non sembra essersi mosso, il senatore forzista risponde: “Questa domanda andrebbe fatta ad Ermini (vicepresidente del Csm ndr)”.

Ma le parole più dure sulla vicenda arrivano da Matteo Renzi, che aveva denunciato nei mesi scorsi proprio il pm Nastasi per il metodo con cui aveva svolto la sua indagine sulla Fondazione Open ‘renziana’. “La procura di Genova apre un’inchiesta sui pm senesi del caso David Rossi. Dopo 10 anni. Ma per un garantista questo NON è il punto. Chi ha fatto quelle indagini a Siena si deve solo VERGOGNARE. Nell’edizione aggiornata de Il Mostro spiego il perché“, scrive su Twitter il leader di Italia Viva.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere

Da lanazione.it il 31 ottobre 2022.

"David Rossi poteva essere salvato?". E’ il filo conduttore di ’Inside’ la costola del programma ’Le Iene’ andato in onda ieri alle 20,30 su Italia 1 e dedicato al caso della morte di David Rossi, volato dalla finestra di Rocca Salimbeni il 6 marzo 2013. Molte le questioni affrontate nel corso della trasmissione, a partire dai dubbi che secondo la famiglia del manager Mps, restano ancora aperti. 

Il programma ha ripercorso la vicenda della morte di Rossi, le inchieste della Procura di Siena, quelle della Procura di Genova, competente per i magistrati di Siena, fino alla costituzione della commissione parlamentare d’inchiesta, esperienza di 16 mesi poi terminata con la fine dell’esecutivo Draghi. 

Tra i documenti inediti emersi durante la trasmissione, c’è l’audio originale dell’interrogatorio di 7 ore (i cui contenuti erano già stati resi noti) davanti ai magistrati di Genova da parte dell’escort che aveva rivelato alle Iene, durante una trasmissione del marzo 2019, dei festini hard che si sarebbero svolti tra il 2011 e il 2012 alle porte di Siena. 

L’attenzione del programma si è poi concentrata sui 22 minuti durante i quali Rossi è rimasto agonizzante a terra dopo la caduta. "E’ morto da solo come un cane" ha denunciato in televisione la figlia di Antonella Tognazzi, Carolina Orlandi.

La trasmissione si è soffermata anche sul video scoperto grazie ai lavori della commissione d’inchiesta: quello della telecamera 8 che riprende l’uscita di due dipendenti che alle 20.01 (mentre Rossi è già a terra) da piazza dell’Abbadia , uscita che, invece avrebbe dovuto essere chiusa e allarmata.

Nuovamente sotto le telecamere sono finite anche le sei ferite rinvenute sul volto di Rossi e quella al fegato che, secondo la famiglia e la maxi perizia svolta da Ros e Racis, non sono compatibili con la caduta. La famiglia sostiene che siano frutto di un pestaggio avvenuto prima della caduta di Rossi. In virtùdi questo l’avvocato Carmelo Miceli annuncia in trasmissione: "Chiederemo la riapertura delle indagini, stavolta per omicidio e useremo ogni mezzo previsto dalla legge sia in sede penale che in sede civile".

L’esito delle perizie era emerso grazie alla commissione parlamentare d’inchiesta che il senatore Pierantonio Zanettin vorrebbe proseguisse l’attività tanto da proporre l’istituzione di una nuova con un apposito disegno di legge presentato due settimane fa.

Nuova Commissione sulla morte di David Rossi. La richiesta di Zanettin al Senato. Morte David Rossi, ecco il video cancellato dagli atti. Chi esce dall'ingresso secondario della banca. Il Tempo il 29 ottobre 2022

Le Iene tornano sul caso di David Rossi. Domenica 30 ottobre la trasmissione di Italia 1 manderà in onda a partire dalle 20.30 "Inside”, una serie di sei appuntamenti per altrettanti argomenti raccontati e approfonditi con dettagli ed elementi inediti. Il primo appuntamento dal titolo “Suicidio o omicidio: si riapre il caso David Rossi?” è interamente dedicato al manager del Monte dei Paschi di Siena precipitato dalla finestra del suo ufficio, il 6 marzo del 2013, nel bel mezzo di una bufera mediatica, finanziaria e giudiziaria. 

Morte David Rossi, ecco il video cancellato dagli atti. Chi esce dall'ingresso secondario della banca

Quello avvenuto il 6 marzo del 2013 in una delle più importanti banche italiane è stato davvero semplicemente un suicidio? Oppure si tratta di qualcos’altro? È con questo interrogativo che si apre la puntata che conterrà contenuti esclusivi, nuove testimonianze, indagini e ricostruzioni. L’inchiesta – di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti – cerca di far luce sulla vicenda e ripercorre le tappe di questo apparente cold case: dall’istituzione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta alle novità che ne sono susseguite, finora mai trasmesse in tv, si legge in una nota della trasmissione Mediaset. 

"La Commissione Parlamentare nasce a marzo del 2021 per volere unanime di tutti i partiti che hanno accolto la proposta del primo firmatario, l’onorevole Walter Rizzetto. Il risultato del lavoro svolto, anticipatamente interrotto dalla caduta del Governo Draghi, è stato sorprendente: indagini, sopralluoghi sul posto, super perizie affidate ai corpi speciali dei Carabinieri (il Ris e il Racis, ndr.) e a una selezione di esperti medici legali e decine di audizioni, compresa quella di Antonino Monteleone, che da cinque anni se ne occupa per la trasmissione di Italia1. Ne sono conseguiti diversi colpi di scena, che verranno mandati in onda nel corso della serata", si legge nel comunicato. 

“Le Iene” tornano così a occuparsi di uno dei più grandi misteri italiani, mostrando sia dei documenti che potrebbero riaprire un caso che per la giustizia italiana è chiuso, sia delle testimonianze in grado di riscrivere la versione fino ad oggi più accreditata di cosa accadde la sera del 6 marzo 2013 in Rocca Salimbeni, la sede storica di Banca MPS a Siena. 

Come quella di un poliziotto della centrale operativa della Polizia di Siena che ricostruisce la posizione degli agenti nel momento in cui è stata ricevuta la chiamata della centrale operativa e che smentirebbe quella rilasciata da uno dei personaggi chiave della vicenda, il colonnello Pasquale Aglieco - all’epoca dei fatti comandante provinciale dei carabinieri di Siena - che ha giustificato la sua presenza nel vicolo in cui perse la vita Rossi affermando di aver seguito una volante che velocemente si dirigeva sul posto. 

Dall’intervista all’onorevole Luca Migliorino, membro della Commissione d’Inchiesta, ampio spazio sarà dato alla sua scoperta: un video contenuto in una chiavetta usb in cui si vedono due persone uscire dalla banca due minuti dopo il volo David Rossi dalla finestra del suo ufficio. Si ascolteranno, per la prima volta, alcune delle dichiarazioni che il giovane ex escort (già intervistato da Le Iene nel 2018, ndr.) rese ai magistrati di Genova sull’esistenza e le partecipazioni agli ormai noti festini hard: in totale la sua deposizione durò, all’epoca, sette ore. 

Saranno mostrate le audizioni in cui i tre medici incaricati dal Parlamento sostennero che sul corpo di David Rossi ci sarebbero almeno nove ferite non riconducibili alla caduta e che, se soccorso in tempo, avrebbe potuto essere salvato. Non mancheranno, inoltre, le interviste, realizzate in questi giorni, ad Antonella Tognazzi, moglie di David, a sua figlia Carolina Orlandi, al fratello Ranieri Rossi, alla madre Vittoria e ai legali della famiglia, tutti, da sempre, in cerca di una verità plausibile. Infine, per la prima volta, il racconto dettagliato dell’ultimo giorno di vita di David: chi vide, con chi parlò e cosa fece il manager nelle sue ultime ore. 

Le Iene presentano Inside, domenica prima puntata alle 20.30. Suicidio o omicidio: si riapre il caso David Rossi? Le Iene News il 29 ottobre 2022

Il nuovo programma, ogni domenica alle 20.30: sei serate per sei argomenti su cui c’è ancora tanto da dire e da approfondire. Nella prima puntata, il 30 ottobre, l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti: “Suicidio o omicidio: si riapre il caso David Rossi?”

Quello avvenuto il 6 marzo del 2013 in una delle più importanti banche italiane è stato davvero semplicemente un suicidio? Oppure si tratta di qualcos’altro?

È con questo interrogativo che si apre domenica 30 ottobre in prime-time su Italia1 la prima puntata del nuovo programma “Le Iene presentano: Inside”, sei serate per sei argomenti trattati in precedenza da Le Iene raccontati e approfonditi con ulteriori dettagli ed elementi inediti.

Il primo appuntamento dal titolo “Suicidio o omicidio: si riapre il caso David Rossi?” è interamente dedicato al manager del Monte dei Paschi di Siena precipitato dalla finestra del suo ufficio, il 6 marzo del 2013, nel bel mezzo di una bufera mediatica, finanziaria e giudiziaria.

Con contenuti esclusivi, nuove testimonianze, indagini e ricostruzioni, l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti  cerca di far luce sulla vicenda e ripercorre le tappe di questo apparente cold case: dall’istituzione della Commissione Parlamentare d’Inchiesta alle novità che ne sono susseguite, finora mai trasmesse in tv.

La Commissione Parlamentare nasce a marzo del 2021 per volere unanime di tutti i partiti che hanno accolto la proposta del primo firmatario, l’onorevole Walter Rizzetto. Il risultato del lavoro svolto, anticipatamente interrotto dalla caduta del Governo Draghi, è stato sorprendente: indagini, sopralluoghi sul posto, super perizie affidate ai corpi speciali dei Carabinieri, il Ris e il Racis, e a una selezione di esperti medici legali e decine di audizioni, compresa quella di Antonino Monteleone, che da cinque anni se ne occupa per la trasmissione di Italia1. Ne sono conseguiti diversi colpi di scena, che verranno mandati in onda nel corso della serata.

Le Iene tornano così a occuparsi di uno dei più grandi misteri italiani, mostrando sia dei documenti che potrebbero riaprire un caso che per la giustizia italiana è chiuso, sia delle testimonianze in grado di riscrivere la versione fino ad oggi più accreditata di cosa accadde la sera del 6 marzo 2013 in Rocca Salimbeni, la sede storica di Banca Mps a Siena.

Come quella di un poliziotto della centrale operativa della Polizia di Siena che ricostruisce la posizione degli agenti nel momento in cui è stata ricevuta la chiamata della centrale operativa e che smentirebbe quella rilasciata da uno dei personaggi chiave della vicenda, il colonnello Pasquale Aglieco (all’epoca dei fatti comandante provinciale dei carabinieri di Siena) che ha giustificato la sua presenza nel vicolo in cui perse la vita Rossi affermando di aver seguito una volante che velocemente si dirigeva sul posto.

Dall’intervista all’onorevole Luca Migliorino, membro della Commissione d’Inchiesta, ampio spazio sarà dato alla sua scoperta: un video contenuto in una chiavetta usb in cui si vedono due persone uscire dalla banca due minuti dopo il volo David Rossi dalla finestra del suo ufficio.

Si ascolteranno, per la prima volta, alcune delle dichiarazioni che il giovane ex escort, già intervistato da Le Iene nel 2018, rese ai magistrati di Genova sull’esistenza e le partecipazioni agli ormai noti festini hard: in totale la sua deposizione durò, all’epoca, sette ore.

Saranno mostrate le audizioni in cui i tre medici incaricati dal Parlamento sostennero che sul corpo di David Rossi ci sarebbero almeno nove ferite non riconducibili alla caduta e che, se soccorso in tempo, avrebbe potuto essere salvato.

Non mancheranno, inoltre, le interviste, realizzate in questi giorni, ad Antonella Tognazzi, moglie di David, a sua figlia Carolina Orlandi, al fratello Ranieri Rossi, alla madre Vittoria e ai legali della famiglia, tutti, da sempre, in cerca di una verità plausibile.

Infine, per la prima volta, il racconto dettagliato dell’ultimo giorno di vita di David: chi vide, con chi parlò e cosa fece il manager nelle sue ultime ore.

Morte di David Rossi, la commissione parlamentare approva la relazione finale senza Pd e LeU. Luca Serranò su La Repubblica il 15 Settembre 2022 

Il documento non ottiene i voti dei due partiti che chiedevano nuove osservazioni ed emendamenti. Sulle cause della morte del manager Mps l'ipotesi principale resta il suicidio, ma resta il giallo sull'origine di alcune ferite

Approvato il documento finale, ma senza unanimità. Si chiudono così i lavori della commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi, l'ex capo area comunicazione di banca Mps precipitato la sera del 6 marzo 2013 dalla finestra del suo ufficio. Il documento finale, illustrato dal presidente Pierantonio Zanettin, è stato approvato senza i voti del Pd e di LeU: i parlamentari dei due gruppi avevano chiesto di far arrivare osservazioni ed emendamenti, ma la richiesta non è stata accolta e si è così arrivati alla decisione di non partecipare al voto.

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 16 settembre 2022.

Appena si parla del Monte dei Paschi di Siena, gli eredi del Pci salgono subito sulle barricate. Per non smentirsi, i componenti dem della commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi, l'ex capo della comunicazione della banca toscana, morto la sera del 6 marzo 2013 precipitando dalla finestra del suo ufficio, si sono rifiutati di firmare ieri la relazione finale. Stessa decisione da parte dei colleghi di Leu.

«Mi spiace veramente per l'atteggiamento dei parlamentari del Pd e di Leu, in quanto il testo era molto equilibrato e frutto di un lavoro condiviso durato mesi», afferma Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia e presidente della Commissione. «I colleghi, peraltro, non hanno neppure specificato le parti della relazione su cui non erano d'accordo», aggiunge Zanettin, dichiarandosi comunque «soddisfatto per quanto fatto, anche se i risultati ottenuti sarebbero stati senz' altro più esaustivi se la legislatura non si fosse conclusa anticipatamente e la Commissione avesse potuto proseguire le proprie attività».

La commissione d'inchiesta, avviata lo scorso anno, era stata istituita, su spinta dei familiari del manager, con il chiaro obiettivo di dare una risposta alle reali cause del decesso di Rossi. Troppi gli interrogativi senza risposta anche a causa di indagini fatte male, prove non considerate, testimoni mai ascoltati dai magistrati. «Può presumersi che Rossi- qualora fosse stato tempestivamente soccorso durante i primi momenti di una agonia durata ben 20 minuti - sarebbe potuto rimanere in vita», si legge in uno dei passaggi della relazione.

I periti incaricati hanno confermato che la causa di natura medico-legale della morte di Rossi deve essere individuata nei «politraumatismi e nelle lesioni scheletrico-fratturative e viscerali, diretta conseguenza della precipitazione e dell'impatto al suolo del corpo», ma non tutte le lesioni riscontrate sul suo corpo «sono riconducibili alla precipitazione e all'impatto al suolo». 

La commissione, poi, non è riuscita ad individuare chi cancellò un video, poi riemerso, del luogo dell'impatto. E nessuna giustificazione ha trovato la circostanza relativa ad una coppia di dipendenti che usciva da una porta secondaria di Rocca Salimbeni a tarda sera e perché il portiere aveva invece sempre sostenuto che a quell'ora si poteva uscire solo dal portone principale.

Lo stesso dicasi del portatile aziendale con foto "poco ortodosse" scoperte dai Ris. Era di Rossi? «Mi auguro che il nuovo Parlamento possa istituire una Commissione d'inchiesta per portare avanti il lavoro fin qui compiuto, perché sono emersi dettagli significativi che meritano di essere approfonditi». 

Lo ha dichiarato il deputato di Italia viva Cosimo Maria Ferri, che spiega: «È stato determinante disporre la maxi perizia che ha aperto diverse questioni e che, se esaminate nell'immediatezza, avrebbero potuto aiutare ed essere decisive. Ci sono punti anche per riaprire le indagini. Diverse sono le contraddizioni emerse e si deve continuare a cercare la verità». La relazione, comunque, è stata inviata alle procure di Genova e Siena. Ma dopo tutti questi anni sarà molto difficile che ci possano essere colpi di scena.

David Rossi, la relazione finale. Il manager Mps "aveva ferite prima di precipitare dalla finestra". Gianni Di Capua su Il Tempo il 16 settembre 2022

La questione delle lesioni, ritenute incompatibili con la caduta dalla finestra, rilevate sul corpo di David Rossi viene affrontata nella relazione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte dell'ex manager di Mps dove vengono riportate le conclusioni della maxi perizia. La Commissione ricorda che «il collegio estremamente qualificato ha confermato che la causa di natura medico-legale della morte di David Rossi deve essere individuata nei politraumatismi e nelle lesioni scheletrico-fratturative e viscerali, diretta conseguenza della precipitazione e dell'impatto al suolo del corpo».

I periti medici legali della Commissione hanno rilevato però che «non tutte le lesioni riscontrate sul corpo di David Rossi sono riconducibili alla precipitazione e all'impatto al suolo». La Commissione ritiene dunque che «non possa condividersi il giudizio espresso dal medico-legale Gabbrielli in occasione della prima indagine del 2013, in cui sostiene che la compatibilità delle lesioni refertate con un gesto suicidario possa definirsi "piena"», si osserva nella relazione.

«La Commissione intende rimarcare che non sono emersi elementi di natura medico-legale per poter ricondurre in modo certo l'origine delle lesioni al volto alla fase preparatoria della precipitazione, come invece prospettato dal tenente colonnello Zavattaro, consulente del pm di Siena nella seconda indagine del 2016, secondo il quale tali lesioni possono essere state originate dallo sfregamento del viso di David Rossi contro il nottolino superiore della finestra da dove è precipitato - si osserva nella relazione - A dire il vero, posto che non vi sono neanche elementi per escludere che ciò sia realmente avvenuto, deve rappresentarsi la difficoltà di immaginare che (in mancanza dell'azione violenta di terzi, che spingano da tergo il capo di un'altra persona contro il serramento dell'infisso) un soggetto si possa involontariamente procurare una simile lesione nel mentre scavalca la sbarra di protezione e appena prima di calarsi verso di essa, con cautela, nell'intento di utilizzarla come sostegno cui aggrapparsi con le braccia, dall'esterno».

«Tipologia ed entità di quanto refertato sul volto di Rossi inducono peraltro a dubitare che un soggetto intenzionato a lanciarsi nel vuoto, immediatamente dopo essersi procurato ferite ed ecchimosi al volto tanto significative nel mentre ancora non si è sporto fuori dalla finestra, nonostante il dolore sofferto, ne resti totalmente insensibile, proseguendo incurante nel suo proposito di realizzare un'azione auto-soppressiva», prosegue la Commissione. La Commissione conclude spiegando che quel tipo di ferite deve considerarsi preesistente alla caduta ma «successivo all'incontro avuto da Rossi» con una collega «il pomeriggio del 6 marzo 2013, alle 17.40 circa, la quale dopo averlo incontrato avrebbe senz' altro ricordato l'eventuale presenza di segni e ferite sul suo volto».

 DAGONOTA l'1 settembre 2022.

Quando Twitter diventa un boomerang. Quell’ingenuotto di Enrico Letta ha letto la notizia della morte del manager russo Ravil Maganov (vicepresidente del colosso petrolifero Lukoil) e ha subito messo mano allo smartphone, deciso a sfruttare l’avvenimento per la campagna elettorale: “La fine che fanno in Russia i manager che non si allineano. Com’era quella frase? Meglio mezzo Putin di due Mattarella?”. 

Peccato che in molti, moltissimi, abbiano fatto due più due e abbiano subito collegato la news alla morte di David Rossi, anch’egli manager e anch’egli “caduto” dalla finestra di Rocca Salimbeni, la sede di MPS a Siena, la sera del 6 marzo 2013. 

E così, tantissimi utenti hanno iniziato a commentare il tweet del segretario del PD, con improperi e accuse varie, facendo addirittura finire “David Rossi” tra i trend di Twitter.

Raccogliamo qui, per dovere di cronaca, alcuni dei tweet: “Nel paese di David Rossi giustamente pontifichiamo sulle morti sospette in casa d’altri”; “Dici come David Rossi? Com’era quella frase? Meglio mezzo servo USA di due Siberie?”; “Lo stesso destino che ha fatto un dirigente di MPS”; “Quindi in un giorno si è già indagato, raccolto prove e testi, fatto il processo ed emesso la condanna. Da qui. E per David Rossi ancora non si è capito nulla”.

Dal profilo Facebook di Antonino Monteleone 

Vi ricordate il colonnello Pasquale Aglieco?  È stato il comandante provinciale dei Carabinieri di Siena.

Ha raccontato che quando David Rossi muore, la sera del 6 marzo 2013, lui è una delle primissime persone ad accorrere per una strana casualità.  Era uscito a compare le sigarette, quando fu attirato da una volante della polizia che andava verso Rocca Salimbeni, la sede di Banca Montepaschi. 

Nel loro verbale, però, gli agenti di polizia intervenuti, annotano la presenza di Aglieco come quella di un uomo che sopraggiungeva contestualmente al loro arrivo, ma che aveva già informazioni sull’identità dell’uomo deceduto. 

Noi ci siamo imbattuti nella sua storia perché la sua ex moglie ci rivelò una storia che la tormentava che aveva a che fare con la fine della presenza di Aglieco a Siena.

Mesi dopo il racconto della moglie ottenne un clamoroso riscontro dalle dichiarazioni di un partecipante a quei festini che lo riconobbe in alcune delle foto che gli mostrai in una ormai celebre intervista.

Non avevamo mai fatto il suo nome, né quello della sua ex moglie. Dopo i nostri servizi nessuno,  lo aveva indicato come la personalità di primo piano alla quale facevamo riferimento. 

Nonostante ciò lui decide di rilasciare un’intervista a un quotidiano nella quale mi accusa di inventare storie. Tutti nel 2021 l’hanno conosciuto perché presentandosi in commissione parlamentare ne ha dette talmente tante e talmente grosse da lasciare senza parole. 

Non tanto per le gravissime accuse (anche) nei miei confronti (delle quali sarà chiamato a rispondere) e del programma Le Iene (in verità attacca violentemente anche Quarto Grado grado e l’ottimo Pierangelo Maurizio), ma perché entrando nel merito del suo lavoro, delle sue competenze e del suo comportamento ha fatto proprio una pessima figura.

Dal 2018 il Colonnello Aglieco ha sporto diverse querele. Contro la sua ex moglie. Contro di me e  Marco Occhipinti. Contro il nostro testimone. Addirittura contro il fratello di David Rossi, Ranieri Rossi. 

Bene. Il Gip di Arezzo, Claudio Lara, davanti al quale tutte le querele presentate (a Roma, a Genova, etc.) sono state riunite ha stabilito l’assoluta infondatezza della notizia di reato così come richiesto dal pubblico ministero che ha riconosciuto la validità del nostro lavoro e l’assoluto interesse pubblico a raccontare al pubblico cosa avevamo scoperto lungo la nostra strada. 

Scrive il GIP che in nessuno dei servizi denunciati dal colonnello Aglieco si rinviene un contenuto diffamatorio e che «abbiamo agito nell’esercizio del diritto di cronaca e di critica».

Chiuderei dicendo che il Colonnello Aglieco può dunque infilare senza indugio le sue querele nel posto dove finiscono le querele archiviate: nel cestino. 

Questa notizia, anche se cinque anni fa ci ha intentato anche una causa civile, mi rende molto felice e volevo condividerla con voi. Tra un mese torniamo in onda con tante altre novità. 

Stasera invece, per chi fosse nelle Marche, parleremo di David assieme a Carolina Orlandi al Festival Giornalismo Inchiesta delle Marche - Gianni Rossetti ad Osimo (AN).

DAGONEWS il 19 agosto 2022.

Chiamatelo Fattore DR, dove D e R sono le iniziali di David Rossi. I due deputati che più si sono spesi nella scorsa legislatura per indagare sulla misteriosa morte del manager di MPS, sono stati fatti fuori dai loro partiti.

Si tratta di Luca Migliorino, deputato del Movimento 5 Stelle, vicepresidente della Commissione d’inchiesta ad hoc sulla vicenda, e Carmelo Miceli, onorevole del PD e avvocato della famiglia di David Rossi.

Migliorino è risultato il più votato alle parlamentarie farlocche indette da Conte, ma poi Peppiniello l’ha fatto fuori per far posto al suo “pulcino” Riccardo Ricciardi, nel collegio Toscana 2 (Ricciardi è capolista anche nella circoscrizione Toscana 1). Migliorino è slittato al terzo posto, praticamente ineleggibile: prima di lui l’ex avvocato del popolo ha messo anche la consigliera comunale di Livorno, Stella Sorgente.

E Miceli? Enrico Letta, eletto a Siena, non avrebbe gradito il suo ruolo come avvocato: del resto, ha contribuito a sbugiardare i misteri e le magagne del sistema di potere del “Babbo Monte”. E quindi, ha deciso di mettere prima di lui, anche nel suo collegio (Palermo), il prode Beppe Provenzano, e Teresa Piccione, che alle amministrative di un mese fa ha preso meno voti di Miceli

Estratto dell’articolo di Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 19 agosto 2022.

[…] Carmelo Miceli dsciplinatamente aveva risposto all’invito di Letta e si era candidato alle Comunali di Palermo risultando il primo degli eletti. Ora niente riconoscenza. Al suo posto entreranno Antonio Nicita (solida famiglia andreottiana, cugino della Prestigiacomo) e Annamaria Furlan, ex Cisl, altra “parà”. La colpa di Miceli? Per esempio, sussurrano maliziosamente nel Pd, quella di essere l’avvocato dei familiari di David Rossi e, quindi, di aver messo il naso dove non doveva: fatti dem-senesi (collegio Letta). In Puglia non ci sono donne capolista. L’unica in corsa (Loredana Capone) ha dovuto cedere il posto a Claudio Stefanazzi, che è il capo di gabinetto di Raffaele Emiliano, il presidente della Regione.

Entrambi candidati in posizioni ineleggibili. Morte David Rossi, Pd e 5 Stelle ‘fanno fuori’ Miceli e Migliorino: i 2 deputati che cercano la verità su Mps. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Agosto 2022 

A insinuare il dubbio è il sempre ben informato Dagospia. Dietro due candidature di Partito Democratico e Movimento 5 Stelle c’è il fattore DR? Lettere che stanno per le iniziali di David Rossi, capo della comunicazione di Monte dei Paschi di Siena morto in circostanze misteriose il 6 marzo 2013 e che ad oggi è ufficialmente trattato come suicidio tra i dubbi dei familiari, e non solo.

Guardando infatti alla composizione delle liste dei partiti guidati da Enrico Letta e Giuseppe Conte, si nota come i due deputati che nella scorsa legislatura si sono mossi maggiormente per indagare sulla morte misteriosa del manager Mps sono stati piazzati in posizioni che impediscono di fatto una rielezione. 

Da una parte c’è Luca Migliorino, deputato del Movimento 5 Stelle, vicepresidente della Commissione d’inchiesta ad hoc sulla vicenda, dall’altra il siciliano Carmelo Miceli, onorevole del PD e avvocato della famiglia di David Rossi.

Il primo è stato il più votato nelle Parlamentarie in Toscana, eppure è stato scavalcato non solo dal fedelissimo di Conte Riccardo Ricciardi, piazzato come capolista nei collegi plurinominali Toscana 1 e Toscana 2 della Camera, ma anche da Stella Sorgente, consigliera comunale di Livorno che aveva ottenuto 489 voti nella consultazione online sulla piattaforma SkyVote. Per Migliorino le chance di essere eletto sono pari a zero, in pratica. 

Ancora più ‘delicata’ la questione riguardante Miceli. Il sospetto avanzato da Dagospia è che l’attivismo del deputato siciliano, anche in virtù del suo ruolo di avvocato della famiglia Rossi, non sia piaciuto al Nazareno, col Partito Democratico ‘erede’ di quel Pci e Ds poi da sempre dentro il sistema di potere di Mps. Miceli dunque si è dovuto accontentare del terzo posto nel collegio di Palermo, dietro all’ex ministro Peppe Provenzano e a Teresa Piccione, che alle amministrative di Palermo di un mese fa ha preso meno voti di Miceli, risultato il primo degli eletti.

Lo stesso Miceli ha commentato con amarezza la decisione presa dalla direzione nazionale del partito: “Come capitato a tanti altri colleghi parlamentari e non, ho appreso della mia posizione in lista durante la direzione. Per chi ancora non lo sapesse, è una posizione ‘non eleggibile’. Leggendo i giornali, coloro che si trovano nella mia stessa condizione stanno comunicando la loro volontà di non accettare Io, invece, accetterò la candidatura, anche se ‘di servizio’”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Caso David Rossi, Zanettin: "La commissione non può più indagare, atti ai pm". Il Tempo il 21 luglio 2022.

Brusca battuta di arresto per la Commissione di inchiesta parlamentare sulla morte di David Rossi, l'ex capo della comunicazione di Mps precipitato dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo del 2013, a pochi giorni dai risultati della maxi perizia. "L'Ufficio di presidenza ha deliberato di trasmettere ufficialmente tutta la maxi perizia e il verbale dell'ultima seduta della Commissione durata nove ore alle procure di Genova e Siena". È quanto afferma all'Adnkronos Pierantonio Zanettin, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi a un paio di giorni dalla conferenza stampa sui risultati a cui sono giunti i reparti speciali dell'Arma dei carabinieri e un collegio medico legale ai quali la stessa Commissione si era affidata.

"Riteniamo ci siano spunti investigativi ulteriori che meritano di essere approfonditi e sui quali, come Commissione, non possiamo più  indagare - sottolinea Zanettin facendo riferimento alla fine anticipata della legislatura - Cediamo alla magistratura tutto il materiale, di altissima professionalità, fatto da organi terzi e imparziali. Un materiale che può essere utile alla magistratura, se lo riterrà, anche per la riapertura dell'indagine o di qualche ulteriore fascicolo" ha detto il deputato azzurro.  Nelle novecentotrenta pagine, che verranno quindi inviate ai pm, restano da valutare alcune ipotesi giudicate compatibili con la dinamica della caduta oltre a chiarire i tanti dubbi che la commissione di inchiesta non è ancora riuscita a dirimere. Tra questi quello che riguarda un file video, cancellato da una chiavetta usb e recuperato grazie a Luca Migliorino, parlamentare M5S membro della Commissione parlamentare d'inchiesta. Proprio in questi giorni Migliorino è stato vittima di atti intimidatori verosimilmente legati alla sua attività parlamentare. 

“Non è finita fino a quando non è finita” ha commentato la vedova dell'ex manager su Facebook che annuncia battaglia. "Purtroppo la Commissione avrà una brusca battuta d’arresto ma non sarà per questo che ci fermeremo. Abbiamo continuato a lavorare nonostante lo straordinario lavoro condotto dalla Commissione, raccogliendo e analizzando tutte le loro risultanze e continueremo con le nostre forze a cercare ancora le risposte che mai ci hanno dato" ha scritto sui social Antonella Tognazzi. 

David Rossi, la super-perizia dei Ris: «L’ipotesi più probabile è che si lasciò cadere nel vuoto». Marco Gasperetti  su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.

Le conclusioni del rapporto dei carabinieri presentate alla Commissione d’Inchiesta smontano i dubbi della famiglia. Il comandante Schiavone: «Spinto da terzi? Non compatibile con le riprese del filmato». 

«Era cosciente e si è lasciato cadere nel vuoto». La superperizia del Ris sulla morte di David Rossi, il responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena precipitato il 6 marzo 2013 da una finestra del suo ufficio, sembra dare pochi spazi ad altre interpretazioni. Stamani, dopo le indiscrezioni e le immancabili polemiche, è stato il comandante dei Ris, Sergio Schiavone, a presentarla durante una conferenza stampa a Palazzo San Macuto a Roma. Un migliaio di pagine, volute dalla Commissione parlamentare d’inchiesta, generate dalle indagini dei carabinieri di Ros, Ris, Racis e di medici legali. E adesso l’ipotesi del suicidio («un’azione anti conservativa»), sembra prendere ancora più forza.

«Tra le varie ipotesi di caduta la dinamica la più compatibile è quella in cui David Rossi, cosciente, si tiene aggrappato con le mani alla barra di protezione e si lascia cadere nel vuoto con la parte anteriore verso il palazzo con il moto a candela», ha detto Schiavone. Che poi ha spiegato che «altre ipotesi con la presenza di terzi che lasciano cadere il dottor Rossi riproducono ipotesi di caduta non compatibili con le dinamiche di caduta». La super perizia sembra anche smontare altri indizi a favore della pista dell’omicidio. Come quella dell’orologio di Rossi caduto dalla finestra venti minuti dopo il corpo del dirigente Mps che avrebbe provocato un luccichio ripreso dalle telecamere di sicurezza. «Verosimilmente quel bagliore luminoso è una goccia di pioggia e non l’orologio del dottor Rossi», ha sottolineato ancora il colonnello Schiavone. Che ha poi spiegato nei dettagli come si sono svolti gli accertamenti. «Abbiamo ipotizzato due moti di precipitazione, uno a candela e l’altro con scorrimento sulla sbarra e abbiamo realizzato simulazioni con manichini antropomorfi virtuali». Infine, il comandante dei Ris ha spiegato che «altre ipotesi relative alla presenza di terzi che spingono o lasciano cadere il corpo inanimato di Rossi, producono dinamiche di caduta non compatibili con la precipitazione del corpo riscontrata nel filmato di videosorveglianza».

L’altro giallo, quello della mail con la quale David Rossi manifestava le sue intenzioni di suicidarsi, non avrebbe poi «nulla di strano perché è stata scritta e spedita prima della morte di Rossi», come ha specificato il colonnello Massimo Giannetti, comandante del reparto tecnologie informatiche del Racis. «La mail di help del dottor Rossi in cui manifestava le sue intenzioni di suicidarsi si trovava nel pc di Rossi, in un file di archivio della posta elettronica esportata da Mps e nel pc portatile che è stato successivamente restituito alla famiglia» ha spiegato il colonnello aggiungendo come «di questo pc non abbiamo la copia forense originale che è risultata danneggiata e non è stata più utilizzata». «È stato ripreso in un successivo momento dalla postale di Genova e ne è stata fatta una seconda copia che non è la stessa cosa perché il pc è stato nella disponibilità della famiglia» ha detto ancora Giannetti. «Sul file del dottor Rossi di ufficio la data è corretta antecedente il suicidio, sul file che ha fornito Mps c’è questo problema che si spiega con il fatto che quando si esporta un file di archivio Microsoft cambia la data con quella di esportazione. Il fatto che si ritrova lo sbilanciamento anche nell’altro file» del pc portatile «è sintomatico che su quel pc è avvenuto qualcosa» ha concluso il colonnello. Ma le polemiche e soprattutto i dubbi non sembra esaurirsi.

Pierantonio Zanettin, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta, ha parlato di un altro video inviato alla procura di Genova. «È di una seconda telecamera di video sorveglianza e individua due soggetti che alle 20.01 escono da piazza dell’Abbadia — ha detto Zanettin —. Un video tenuto fino ad ora segreto e già trasmesso alla procura di Genova perché contrasta con tutti gli atti processuali in cui era stato detto che c’era un unico video relativo ai momenti successivi alla caduta di Rossi». «Sul video — ha aggiunto Zanettin, come riportato dall’Ansa —, la procura ha già fatto accertamenti rispetto al fatto se le due persone potessero essere in qualche modo coinvolte», con esclusione di soggetti coinvolti in eventuali reati: «Si trattava di due dipendenti che uscivano da lavoro», ma «resta sorprendente che questo video che era stato acquisito in una chiavetta da 8 giga sia stato cancellato». «Rispetto a questo — ha concluso Zanettin — a mio avviso sulla cancellazione» si potrebbe ipotizzare «il falso per soppressione. Non sappiamo chi l’abbia cancellato».

Caso Rossi, la vedova: "Nuovo video è sconvolgente, non è stato soccorso".  La Repubblica il 19 luglio 2022.  

"La cosa sconvolgente è che è emerso un altro video, di un'altra telecamera, dove si vedono due persone nei minuti in cui David è a terra. Non prestano soccorso e tantomeno denunciano l'accaduto a chi di dovere: si va oltre l'omissione di soccorso, è sconvolgente". A dichiararo è Antonella Tognazzi, vedova dell'ex capo della Comunicazione di Mps David Rossi, commentando quanto emerso dalla conferenza stampa della Commissione di inchiesta sulla maxi perizia.

"I carabinieri hanno fatto il copia incolla delle archiviazioni"

Quanto alle risultanze dei carabinieri "sono il copia e incolla delle archiviazioni. I carabinieri avevano già detto quelle cose" ma non basta "portare avanti l'ipotesi più realistica, andava dimostrato e argomentato il perché vengono escluse le altre ipotesi". "I medici legali hanno confermato che ci sono ferite non compatibili con la caduta, altre non le sanno spiegare", aggiunge precisando: "Non è stato acclarato nulla, di certezza ce ne sta una sola: un nuovo video, fino ad oggi inedito, e parzialmente cancellato, cosa gravissima".

"Faremo riaprire l'inchiesta, mio marito non si sarebbe mai suicidato"

"La Commissione sta facendo il suo lavoro, noi continuiamo le nostre indagini, tutti gli elementi li mettiamo nero su bianco e siamo pronti a chiedere una nuova apertura dell'inchiesta: ciò che sta emergendo di nuovo va attenzionato", sottolinea Tognazzi. L'ipotesi del suicidio? "La mia convinzione è che David non l'avrebbe mai fatto, ma non per questo chiudo la porta a chi non la pensa come me. Però devono dimostrarmi il contrario". La fine del lavoro della Commissione, a causa della possibile conclusione anticipata della legislatura, "sarebbe un peccato - conclude - La Commissione è stata fortemente voluta da Walter Rizzetto, Luca Migliorino ci si è molto impegnato e va reso merito al presidente Zanettin per il modo in cui la sta gestendo".

D'Orso (M5S): "Per consulenza medico-legale poteva essere salvato"

"L'impulso che il MoVimento 5 Stelle ha dato e sta dando ai lavori della commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi, ha fatto segnare un altro punto di svolta". Lo dichiara la capogruppo del M5S nella commissione d'inchiesta, Valentina D'Orso, a margine della conferenza stampa. "I risultati illustrati oggi - aggiunge - del lavoro svolto da Ros, Racis e dagli esperti di medicina legale, evidenziano che le nostre richieste erano pertinenti e puntuali. Dal punto di vista umano quel che di più doloroso emerge dagli accertamenti svolti dal collegio medico-legale è che David Rossi, se fosse stato immediatamente soccorso, si sarebbe salvato. Il fatto poi che sul suo corpo siano presenti ben 9 lesioni di epoca poco precedente alla caduta e assolutamente incompatibili con la precipitazione, apre nuovi scenari che andranno vagliati con attenzione".

"Ringraziando per il lavoro e la cura delle relazioni depositate posso dire che personalmente su questa vicenda non quadrano ancora molte cose. Secondo me serve, ancora, un ulteriore approfondimento". Così Walter Rizzetto, deputato di Fratelli d'Italia e componente della commissione d'inchiesta sulla morte di David Rossi commentando la consegna della relazione dei Ris.

David Rossi, spunta il filmato di un'altra telecamera. La maxiperizia sulla morte: si lasciò cadere. Federica Angeli su La Repubblica il 19 Luglio 2022.  

Quanto alla telefonata di Santanchè, sul cellulare della vittima, il comandante del Ros spiega: "Solo squilli ma nessuna fonia".

Non fu acquisito un solo video di una telecamera di videosorveglianza relativo alla sera in cui morì l'ex capo della Comunicazione di Mps e manager David Rossi, come finora si è sempre ritenuto, ma in realtà ne fu acquisito anche un altro. E' emerso nel corso della conferenza stampa per la presentazione dei risultati della maxi perizia affidata dalla stessa Commissione ai reparti speciali dell'Arma dei carabinieri e a un collegio medico legale. "Il video riguarda l'uscita di Mps da piazza Badia, registrato alle 20.01 della sera in cui è deceduto Rossi, individua due soggetti che escono", ha spiegato il presidente della Commissione Pierantonio Zanettin.

Il video trasmesso alla procura: contrasta con atti processuali

Il video è stato "trasmesso subito alla procura di Genova perché contrasta con tutti gli atti processuali in cui si era stato detto che era stato raccolto un unico video sui momenti antecedenti o successivi alla caduta di Rossi, quello della telecamera 6, in realtà è stato raccolto anche un video della telecamera 8". "Resta sorprendente che questo video, pure acquisito poi sia stato cancellato perché fino a oggi tutti gli atti avevano escluso che fosse stato acquisito", ha continuato.

"La telefonata di Santanché un errore di tabulato"

"Ci sono stati gli squilli del telefono, ma di fatto non c'è stata nessuna fonia". Così Rubino Tomassetti, comandante del reparto indagini tecniche del Ros dei carabinieri, in merito alla telefonata di Daniela Santanchè al numero di cellulare di David Rossi, poco dopo la morte dell'ex capo della comunicazione di banca Mps, David Rossi. Tomassetti, oggi a palazzo San Macuto a Roma, ha illustrato alcuni degli esiti della maxi perizia, composta dalle relazioni dei carabinieri di Ros, Ris, Racis e di medici legali, disposta dalla commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi, che la sera del 6 marzo del 2013 precipitò dalla finestra del suo ufficio a Siena. L'esperto del Ros ha spiegato che riguardo alla chiamata della Santanchè a Rossi si è verificato "un errore di tabulato" e che "all'epoca il sistema cominciava a calcolare la chiamata dal momento in cui si connetteva alla rete: il tentativo coincide anche con gli squilli, di fatto non c'è stata alcuna fonia".

La maxiperizia sulla morte: si lasciò cadere

"Tra le varie ipotesi" sulla morte di David Rossi "la più compatibile" fatta attraverso una simulazione con manichini antropomorfi virtuali "è quella riferibile a un gesto anti-conservativo in cui il dott. Rossi, cosciente, si tiene a penzoloni fuori dalla finestra, aggrappato alla barra di protezione con entrambe le mani e infine si lascia cadere nel vuoto sottostante". E' quanto dice Sergio Schiavone, comandante del ris dei carabinieri, illustrando una parte dei risultati della maxi-perizia affidata ai reparti speciali dell'arma e ad un collegio medico legale dalla commissione d'inchiesta parlamentare sulla morte dell'ex capo comunicazione di monte paschi di siena che, la sera del 6 marzo 2013, precipitò dalla finestra del suo ufficio nel pieno della bufera giudiziaria che aveva investito i vertici della banca senese. Il capo dei ris conclude: "le altre ipotesi relative alla presenza di terzi che spingono o lasciano cadere il corpo inanimato del dott. Rossi producono dinamiche di caduta non compatibili con la precipitazione del corpo riscontrata nel filmato di video-sorveglianza".

930 pagine di studi forensi

Si tratta di una maxi-perizia di 930 pagine, ha spiegato durante la conferenza stampa a palazzo San Macuto il presidente della commissione, Pierantonio Zanettin. Il risultato di tutto questo lavoro - ha sottolineato - è assai imponente ma oggi ne faremo una sintesi perchè sono quasi mille pagine complessivamente, più gli allegati con copie forensi degli apparati tecnico-informatici su supporto digitale per circa un terabyte, quindi è materiale assai imponente. Voglio ringraziare tutti i corpi speciali dei carabinieri, ris, ros e racis per il lavoro imponente svolto e la collaborazione".

La mail prima della caduta

"Per noi non ha nulla di strano la mail di David Rossi Ed è stata scritta e inviata prima della caduta di Rossi e non tre giorni dopo il 6 marzo 2013". Lo ha detto Massimo Giannetti, del reparto Racis dei carabinieri  riguardo la mail inviata all'amministratore delegato di Banca Mps nella quale manifestava l'intenzione di suicidarsi. Il militare ha poi spiegato tecnicamente perchè esistesse una discrepanza tra la data della mail mandata da Rossi e quanto contenuto nei file di Mps.

Il legale della famiglia: "Quanto emerge è gravissimo, le indagini sono state ridicole"

 "Dichiarazioni di decine di soggetti smentite dal contenuto di video cancellato. Foto hard con soggetti non ancora identificati cancellato dal portatile in uso al Rossi - dichiara l'avvocato Carmelo Miceli, legale di Antonella Tognazzi, moglie di David Rossi e della figlia di lei - Queste sono solo alcune delle cose che stanno emergendo in modo gravissimo dalla conferenza stampa. Cosa altro deve accadere affinché chiunque, per primi i pm di Siena, riconoscano che le indagini che sono state fatte fino ad oggi sono state semplicemente ridicole?". Prosegue il penalista: "Davvero queste cose dovevano essere scoperte da una commissione d'inchiesta e non dalla Procura della Repubblica? Procura di Siena ritiene ancora di non dovere riconoscere i propri errori e di non dovere tornare a eseguire nuove indagini?".

Il medico: "Il ritardo nei soccorsi gli ha tolto chances di sopravvivere"

"Sono state tolte chance di sopravvivenza al dottor David Rossi nei venti minuti in cui non è stato soccorso". Lo ha affermato il medico Roberto Testi, direttore del dipartimento di prevenzione della Asl Città di Torino. "Rossi - ha sottolineato il medico - era una persona giovane, in buona salute che non aveva patologie particolari, che ha subito molte lesività, ma non vi è stata una emorragia interna fatale. Conseguentemente a queste lesività possiamo dire che David Rossi muore per un combinato trauma poli distrettuale, ma anche per una bronco-aspirazione ematica massiva. Con una prolungata agonia i polmoni si sono riempiti di sangue".

Caso David Rossi, ecco i quattro misteri ancora irrisolti dopo nove anni di indagini. Fabio Tonacci su La Repubblica il 19 Luglio 2022.  

Le nove ferite "non compatibili con l'impatto", il filmato segreto cancellato da una chiavetta del 2016, l'ipotesi della colluttazione e due persone che escono dalla sede della banca due minuti dopo la caduta. Nonostante la superperizia, la commissione d'inchiesta sulla morte del manager Mps nutre ancora dubbi sul suicidio. 

Come maledetto da un sortilegio, il caso David Rossi non si riesce a chiudere. Ogni approfondimento su quanto accadde la sera del 6 aprile 2013 scioglie alcuni dubbi e ne solleva altri, ogni indagine aggiuntiva tappa qualche falla e, contemporaneamente, ne apre delle altre. Neanche la superperizia voluta dalla Commissione di inchiesta parlamentare sulla morte del capo della comunicazione di Mps, precipitato per 14 metri dalla finestra del suo ufficio a Siena, rischiara del tutto i punti oscuri di una vicenda dolorosa che produce ancora sorprese.

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 20 luglio 2022.

David Rossi, il manager del Monte dei Paschi di Siena precipitato dalla finestra del suo ufficio la sera del 6 marzo 2013, si suicidò. Non hanno tentennamenti, nelle loro conclusioni, i medici legali nominati dalla commissione parlamentare d’inchiesta su quella morte. E neppure i carabinieri del Ris, quelli delle investigazioni scientifiche. 

Tutte le prove scientifiche, che siano i risultati dell’autopsia, che siano le ricostruzioni con manichini virtuali, portano all’unica conclusione che Rossi quella sera scavalcò il davanzale, mettendo i piedi con attenzione sul condizionatore d’aria, e poi tenendosi alla sbarra di protezione si lasciò andare nel vuoto a piedi in giù.

«Una caduta a candela», la definisce il colonnello dei carabinieri Sergio Schiavone. Il certosino lavoro dei tecnici dell’Arma ha smontato tanti presunti misteri tecnici, dalla telefonata che secondo alcuni ci fu e secondo altri non ebbe risposta, a un sms che sembrava essere partito dopo la morte di Rossi, a una mail con richiesta di aiuto che pareva farlocca, o il bagliore di un video che è una semplice goccia di pioggia.

Non tutto è chiaro, però. Il mistero di questa morte è anzi ancora più fitto di prima, perché i medici legali hanno evidenziato almeno 9 lesioni sul corpo di David Rossi che non sono compatibili con la caduta. Ci sono i segni di pugni allo zigomo sinistro, al labbro, al naso, lacerazioni su un avambraccio, sul polso sinistro. Ferite che non trovano spiegazione se non in una violenta aggressione, in ufficio, tra le ore 18 e le 20. È uno scenario davvero nuovo, inquietante, che potrebbe spiegare la scelta disperata di Rossi.

Oltretutto c’è un dettaglio finora inesplicabile, ma che si andrebbe a incastrare alla perfezione nel quadro: nel cestino dell’ufficio la polizia trovò dei fazzolettini sporchi di sangue, peccato che il pm li abbia ritenuti semplici rifiuti e distrutti. E perciò, come ha spiegato il presidente della Commissione, Pierluigi Zanettin, «sono maturate delle ulteriori ipotesi che contengono sviluppi investigativi che invieremo sia alla procura di Genova che a quella di Siena». Zanettin si spinge a ipotizzare una «induzione al suicidio».

La famiglia, che pure non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio, è sconvolta dall’ipotesi della aggressione che precedette la caduta. La vedova, Antonella Tognazzi, ricorda come «c’è una nostra relazione che evidenzia come nella lacerazione al fegato c’è un livido esterno a forma di pugno». La signora comunque non accetta l’idea che si parli solo di suicidio e spera in una contro-audizione dei suoi periti, che potrebbero collegare le ferite con una caduta che simula un suicidio, da parte di ignoti che avrebbero tenuto l’uomo per i polsi prima di gettarlo nel vuoto. 

Si fanno sentire anche mamma e fratello del morto, attraverso il legale Paolo Pirani: «Al di là della modalità della caduta, è emersa una verità: ci sono sicuramente ferite non compatibili con la caduta, non auto-inferte, e successive alle ore 18, come noi abbiamo sempre sostenuto. 

Qualcuno ha procurato quelle ferite a David e quel qualcuno, anche nell’ipotesi del suicidio, resta non identificato». Misteri. Come quello di un video che era stato cancellato (ma recuperato in extremis) dal supporto che i tecnici privati di Mps avevano consegnato alla polizia: solo ora, a nove anni dai fatti, è saltato fuori un video che teoricamente non potrebbe esistere.

Si vedono due impiegati della banca che escono quasi in contemporanea con la caduta di Rossi da una porta secondaria. La procura di Genova li ha già interrogati: non c’entrano niente. Sono la prova vivente però che le porte, a differenza di quanto affermato con iattanza da Mps, non erano affatto tutte chiuse, e che insomma qualcuno poteva anche entrare senza passare sotto il naso del vigilante. 

Il quale ora rischia perché la famiglia gli ha fatto causa per omissione di soccorso, e quindi al Montepaschi per responsabilità oggettiva. Che ci sia stata omissione, è agli atti: la caduta fu registrata dalle telecamere; poi il povero Rossi agonizzò per 20 minuti al suolo. Secondo i medici legali, se fosse stato soccorso per tempo, si sarebbe potuto salvare.

Caso Rossi, la super perizia dei carabinieri: «Si è lasciato cadere». Ma restano senza risposta molte domande. Il Ris presenta le conclusioni del lavoro di indagine sulla morte dell’ex responsabile della comunicazione Mps. Nove ferite non sono compatibili con la caduta, una copia forense del pc con la mail post datata sul suicidio è andata distrutta, ed è saltato fuori un secondo video di quella sera. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 19 Luglio 2022.

«Tra le varie ipotesi sulla morte di David Rossi la più compatibile è quella riferibile a un gesto anti-conservativo in cui il dott. Rossi, cosciente, si tiene a penzoloni fuori dalla finestra, aggrappato alla barra di protezione con entrambe le mani e infine si lascia cadere nel vuoto sottostante». È questa la conclusione della perizia chiesta al Ris dei carabinieri dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte il 6 marzo 2013 dell’ex responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena.

Ma anche dopo la consegna da parte dei carabinieri al presidente della commissione Pierantonio Zanettin della relazioni di oltre 900 pagine, restano tante le domande senza risposte: secondo i medici legali 9 ferite non sono compatibili con la caduta; è saltato fuori un secondo video mai acquisito della procura di Siena con due dipendenti che escono dalla sede del Monte dei Paschi mentre Rossi è a terra agonizzante nel vicolo accanto; e sulla mail “help” nella quale annuncia l’intenzione di suicidarsi e che risultava per la Polizia postale inviata il giorno dopo il decesso, se è vero che i carabinieri sostengano che sia stata inviata prima della morte, resta inesplorato come sia possibile quella data del 7 marzo perché la copia forense del computer è andata distrutta e lo stesso pc è stato in mano alla famiglia di David dopo la morte. Insomma, di certo le indagini fatte a ridosso della morte sono state fatte male e alcune domande resteranno comunque senza risposta: tanto che lo stesso Zanettin, in attesa che si concludano i lavori della commissione, definisce «inesplorata» in ogni l’ipotesi dell’istigazione al suicidio: un’altra pista mai seguita dalla procura di Siena.

“Rossi si è lasciato andare”

Per Sergio Schiavone, comandante del Ris dei carabinieri, che ha illustrato oggi in conferenza stampa la maxi-perizia affidata ai reparti speciali dell'Arma e ad un collegio medico legale «Tossi di lascà cadere» quella sera. Il colonnello Schiavone dice: «Sostanzialmente noi abbiamo ipotizzato due moti di precipitazione, un moto di precipitazione del corpo a candela e un moto di precipitazione con scorrimento sulla sbarra. Queste le ipotesi fatte nei quesiti che ci sono stati posti dalla commissione d'inchiesta». Il comandante del Ris aggiunge: «Abbiamo realizzato quindi delle simulazioni con manichini antropomorfi virtuali utilizzando un software, assistiti dal Dipartimento di ingegneria meccanica aerospaziale dell'Università La Sapienza di Roma con i quali abbiamo simulato le condizioni di caduta.

Le conclusioni sono state riportate non solo in formato discorsivo, da cui il volume consegnato alla Commissione, ma anche attraverso dei video con simulazione dei manichini antropomorfi virtuali dai quali si evince che, tra le varie ipotesi di caduta proposte tra i quesiti della Commissione la dinamica più compatibile è quella riferibile a un gesto anti-conservativo in cui il dott. Rossi, cosciente, sottolineo questo aspetto, si tiene a penzoloni fuori dalla finestra, aggrappato alla barra di protezione con entrambe le mani, e la punta dei piedi e le ginocchia poggiate verso il muro e infine si lascia cadere nel vuoto sottostante rivolgendo la parte anteriore del corpo verso il Palazzo». Schiavone osserva che «la posizione finale del corpo e anche l'effetto prodotto sul corpo quando questo impatta a terra sono veramente molto simili a quello che effettivamente è accaduto, non sono identici perché si tratta di una ricostruzione». Il capo dei Ris conclude: «Le altre ipotesi relative alla presenza di terzi che spingono o lasciano cadere il corpo inanimato del dott. Rossi producono dinamiche di caduta non compatibili con la precipitazione del corpo riscontrata nel filmato di video-sorveglianza».

Le lesioni

«Alcune lesività sul volto, sull'arto superiore destro e sinistro di Rossi non sono da noi fatte risalire al meccanismo di caduta, urto e proiezione del corpo al suolo», dice Vittorio Fineschi, ordinario di medicina legale presso l'Università degli studi di Roma "La Sapienza", durante la conferenza stampa per la presentazione dei risultati della maxi perizia affidata dalla stessa commissione ai reparti speciali dell'Arma dei carabinieri e a un collegio medico legale. Fineschi, insieme a Roberto Testi, direttore del Dipartimento di prevenzione dell'Asl "Città di Torino" e ad Antonina Argo, ordinario di medicina legale presso l'Università degli studi di Palermo, ha firmato la perizia medico legale per la Commissione. «La lesività in sede occipitale è attribuibile all'urto della testa contro il selciato», ha continuato aggiungendo però la presenza di «alcune lesioni di incerta attribuzione sulla parte del braccio superiore e dell'avambraccio destro». Lesioni «non tipicamente attribuibili all'urto di Rossi al suolo. Le lesività non spiegabili con la caduta, soprattutto quelle al volto, sono retrodatabili ma su quanto retrodatabili siano dobbiamo essere grossolani perché non possiamo analizzarle microscopicamente. Non oltre le 12-24 ore rispetto all'evento che ha causato la morte. Rispondendo a una domanda e a chi gli faceva notare che in banca, fino alle 18, Rossi non sia stato notato con le suddette ferite, Fineschi ha osservato: «Che siano autoinferte è abbastanza difficile, semmai di natura accidentale ma possiamo escludere siano autoinferte». Infine sulla ventina di minuti trascorsa tra la caduta e i soccorsi, l'esperto ha risposto: «Sono state tolte chance di sopravvivenza a Rossi nel lungo periodo in cui non è stato soccorso, i venti minuti in cui, sappiamo, non è stato soccorso da nessuno».

Il nuovo video

La sera in cui è deceduto David Rossi c'è un altro video di una seconda telecamera di video sorveglianza «e individua due soggetti che alle 20,01 escono da piazza dell'Abbadia. Un video tenuto fino ad ora segreto e già trasmesso alla procura di Genova perché contrasta con tutti gli atti processuali in cui era stato detto che c'era un unico video relativo ai momenti successivi alla caduta di Rossi», dice Pierantonio Zanettin. «Sul video - ha aggiunto Zanettin - la procura ha già fatto accertamenti rispetto al fatto se le due persone potessero essere in qualche modo coinvolte, con esclusione di soggetti coinvolti in eventuali reati: si trattava di due dipendenti che uscivano da lavoro ma resta sorprendente che questo video che era stato acquisito in una chiavetta da 8 giga sia stato cancellato. Rispetto a questo si potrebbe ipotizzare il falso per soppressione. Non sappiamo chi l'abbia cancellato».

La mail del suicidio

«Per noi la mail di “help” con cui David Rossi manifestava le sue intenzioni di suicidarsi non ha nulla di strano, è stata scritta e spedita prima della morte», dice il colonnello Massimo Giannetti, comandante del reparto tecnologie informatiche del Racis.«La mail di help del dottor Rossi in cui manifestava le sue intenzioni di suicidarsi si trovava nel pc di Rossi, in un file di archivio della posta elettronica esportata da Mps e nel pc portatile che è stato successivamente restituito alla famiglia e di questo pc non abbiamo la copia forense originale che è risultata danneggiata e non è stata più utilizzata. È stato ripreso in un successivo momento dalla postale di Genova e ne è stata fatta una seconda copia che non è la stessa cosa perché il pc è stato nella disponibilità della famiglia. Sul file del dottor Rossi di ufficio la data è corretta antecedente il suicidio, sul file che ha fornito Mps c'è questo problema che si spiega con il fatto che quando si esporta un file di archivio Microsoft cambia la data con quella di esportazione. Il fatto che si ritrova lo sbilanciamento anche nell'altro file del pc portatile è sintomatico che su quel pc è avvenuto qualcosa». Insomma, non si è capito ancora come possa risultare in tutti i file del computer la data del 7 marzo.

Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 17 luglio 2022.

Nessuno rispose alla telefonata dell'onorevole Daniela Santanchè. Nessuno usò il cellulare del defunto. Nessuno compose numeri cifrati. Nessuno spedì mail post mortem. Tutti gli elementi oggettivi sul cadavere e sulla scena del delitto sono compatibili con il suicidio, mentre non ci sono indizi di colluttazioni o della presenza di altre persone. 

Restano però nove ferite non correlate alla caduta, dunque apparentemente inspiegabili, anche per l'improvvida distruzione dei fazzoletti intrisi di sangue, ritrovati nel cestino della spazzatura e mai esaminati. 

L'attesa superperizia ordinata dalla commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi, il manager della comunicazione del Montepaschi di Siena precipitato da una finestra della banca il 6 marzo 2013, è arrivata alla Camera. Quasi un migliaio di pagine redatte dai reparti speciali dei carabinieri (Ros, Ris, Racis) e da un collegio medico-legale, che domani sfileranno davanti alla commissione illustrando le risposte ai 50 quesiti.

In quasi dieci anni, tre inchieste giudiziarie e una dozzina di magistrati tra Siena e Genova hanno concluso per il suicidio. Ma la famiglia di Rossi e agguerrite controinchieste mediatiche hanno evidenziato falle investigative, adombrando ipotesi alternative. Prima un suicidio indotto, poi un omicidio. Moventi: altolocati festini gay o fondi neri dell'affare Mps-Antonveneta, che Rossi avrebbe potuto rivelare rovinando politici, banchieri, magistrati. Ciò avrebbe reso necessaria la sua eliminazione e i depistaggi per gabellarla come suicidio di uno psicopatico. 

«Uno dei più clamorosi scandali della storia repubblicana», scrive Matteo Renzi in un capitolo ad hoc del bestseller «Il Mostro». Bersaglio Antonino Nastasi. Pm a Siena all'epoca e ora a Firenze dove processa lo stesso Renzi, viene accusato di aver risposto, nel primo sopralluogo, a una telefonata arrivata a Rossi dall'amica Santanchè, ignara della tragedia.

Imperizia, superficialità o depistaggio? Semplicemente una fake news, rispondono ora i periti. Alla telefonata della Santanchè delle 21,59 (oltre due ore dopo la morte) nessuno rispose. Lo dimostrano i tabulati delle tre compagnie: due segnano «zero» alla voce «durata della telefonata», uno segna «38 secondi» perché il software rileva anche gli squilli a vuoto, prima che il chiamante riattacchi. 

Smentito il sospetto della presenza di un'auto con i fari accessi all'ingresso del vicolo: le luci nel video sono di auto in transito all'incrocio. 

Un altro mistero risolto riguarda la telefonata dal cellulare di Rossi al numero 4099009, partita dopo la morte. Un numero di conto corrente cifrato? In realtà, si tratta dell'innesco automatico del servizio di ricarica telefonica: la figliastra Carolina Orlandi, che lo chiamava, aveva esaurito il credito.

Quanto alla dinamica della caduta, le analisi incrociate non scalfiscono la tesi del suicidio. Falso che il filo anti piccioni sulla finestra fosse rotto per un'azione violenta: era semplicemente staccato. Implausibile che almeno due persone abbiano spinto Rossi fuori, o lo abbiano tenuto sospeso per le braccia, minacciandolo e poi lasciandolo cadere dopo averlo fatto girare. 

Falso che l'orologio sia stato lanciato dopo qualche minuto: il luccichio nel video è frutto di una goccia di pioggia. Escluso che Rossi sia stato narcotizzato: le fratture alle gambe provano che erano rigide, quindi di un uomo nel pieno delle forze. Certo la precipitazione a candela e con il volto verso il muro è «inusuale» (così la prima perizia della procura di Siena) o «atipica» (così l'ultima della famiglia Rossi). Ma non inspiegabile. E soprattutto: nessun segno di colluttazione, nessuna ferita che faccia chiaramente pensare a calci e pugni. Nemmeno quella al fegato, pur valorizzata nell'ultima denuncia della famiglia, ma spiegabile con lo schiacciamento da caduta. 

Quasi tutte le ferite rilevate nell'autopsia combaciano con la simulazione virtuale della caduta. Restano nove ferite slegate dalla precipitazione. Sei al volto, le altre su ascelle, avambraccio, polso. I periti non possono sciogliere tutti i dubbi: Rossi potrebbe essersi ferito prima di buttarsi, raschiando sul muro o sulla sbarra che sormonta il davanzale. Potrebbe essersi fatto male da solo nelle ore precedenti: in quei giorni non mancano prove di autolesionismo, era stressato e terrorizzato. Ma non è possibile escludere con certezza un'origine diversa, frutto di una compressione per mano esterna. 

È l'unico, sia pure flebile, appiglio per ulteriori approfondimenti e pretese risarcitorie o assicurative. 

Un altro video riapre il caso David Rossi. Felice Manti il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il rapporto: "Altre persone in banca e nel vicolo. Ma il suicidio è possibile".

Dopo nove anni, la verità sulla morte di David Rossi non riesce a emergere. Difficile che il manager Mps si sia lasciato cadere da solo nel vuoto il 6 marzo 2013 «a candela», come dicono le 938 pagine del rapporto di Ris, Ros e Racis. Più facilmente ha deciso volontariamente di liberarsi da qualcuno che lo teneva per un braccio e con cui aveva avuto una colluttazione. Se fosse stato immediatamente soccorso, si sarebbe salvato. Eppure, qualcuno lo vide e non lo aiutò. Qualcuno era in banca, forse nel suo ufficio, ma non è ancora stato identificato. Qualcuno ha lottato con lui quando era vivo. Lo dicono le lesioni al volto, quelle alle braccia e al fegato, le escoriazioni al polso sinistro e la pressione violenta della cassa dell'orologio sul polso, come sostengono le perizie di parte firmate da Franco Gelardi e Francesco Introna, anticipate dal Giornale. Quelle dei carabinieri, che dovevano fare chiarezza, aggiungono confusione a confusione e fanno infuriare i legali: «Chiediamo quale procura spiegherà alla famiglia chi è stato ad aggredire David Rossi prima che volasse dalla finestra? La famiglia ha diritto o no a conoscere i nomi di questi aggressori?», si lascia andare Claudio Miceli, avvocato di Carolina Orlandi e Antonella Tognazzi. Le perizie «portano circostanze nuove e inquietanti», dice Cosimo Ferri di Italia Viva durante la conferenza stampa organizzata ieri dal presidente della commissione d'inchiesta su David Rossi Pierantonio Zanettin, partita solo grazie alle indagini giornalistiche della Iena Antonino Monteleone e capaci di inchiodare la Procura di Siena alle sue oggettive mancanze. Dai tre pm finiti nel tritacarne dopo le dichiarazioni in commissione dell'ex comandante provinciale dei carabinieri che li ha accusati di aver inquinato le prove, ai festini sessuali ai quali almeno due di loro avrebbero partecipato, fino ai pm del crac Mps. Che qualcosa non torni lo confermano i Racis, col video cancellato e misteriosamente ritrovato dopo 9 anni, in cui si vedono due persone - un uomo e una donna - lasciare dalla banca indisturbati da una uscita mai segnalata, sbugiardando dozzine di testi. Erano con Rossi? «Il Racis conferma da un fotogramma, che anche un'altra persona entra in quel vicolo», dice il deputato M5s Luca Migliorino. E di chi sono le immagini porno nel pc del manager Mps di cui non c'era traccia? La Procura di Genova cosa aspetta?

Esclusivo: ecco il video cancellato dagli atti del caso David Rossi. Chi esce dall'ingresso secondario di Mps. Il Tempo il 19 luglio 2022.

Era stato cancellato dagli atti dell'inchiesta sulla morte di David Rossi, il capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena trovato senza vita il 6 marzo 2013 sulla strada sotto al suo ufficio, a Rocca Salimbeni. Ora II Tempo può mostrare in esclusiva il video registrato alle 20.01 del 6 marzo. Nelle immagini si vedono due persone uscire da un ingresso secondario della sede di Mps ed è importante per un motivo: "Contrasta con tutti gli atti processuali, gli inquirenti hanno sempre sostenuto non esistessero uscite alternative all’ingresso principale alla banca”, ha spiegato Pierantonio Zanettin, presidente della Commissione d’inchiesta parlamentare sulla morte di David Rossi. Il video era stato cancellato dagli atti ma è stato individuato proprio dalla Commissione. 

Il filmato era stato trasmesso a fine giugno alla procura di Genova, che aveva accertato che i due soggetti inquadrati sono due dipendenti della banca, estranei alla caduta del manager dalla finestra del suo ufficio di Rocca Salimbeni.

Caso David Rossi, il nuovo video sparisce dagli atti. La perizia del Ris: "Si lasciò cadere nel vuoto". Il Tempo il 19 luglio 2022

Un video registrato alle 20.01 la sera del sei marzo 2013 mostra due persone uscire da un ingresso secondario della sede di Mps. Video che è stato cancellato dagli atti ed è stato individuato dalla Commissione d’inchiesta parlamentare sulla morte di David Rossi.

È un video importante, ha spiegato Pierantonio Zanettin, presidente della commissione, per due motivi. “Contrasta con tutti gli atti processuali, gli inquirenti hanno sempre sostenuto non esistessero uscite alternative all’ingresso principale alla banca”. Ed è inoltre particolare il modo di rinvenimento, avvenuto grazie a Luca Migliorino, vicepresidente della Commissione. Questo video, infatti, era stato cancellato dagli atti. Quindi a carico degli inquirenti senesi potrebbe quanto meno ipotizzarsi il falso per soppressione, ha stigmatizzato Zanettin. Nel video si vedono due persone uscire dalla banca pochi minuti dopo la morte di David Rossi.Le verifiche compiute dalla procura di Genova, cui è stato trasmesso a fine giugno, hanno certificato che i due soggetti sono estranei alla caduta del manager Mps dalla finestra del suo ufficio, ma sono due dipendenti della banca. Sulla chiavetta c’erano ore di registrazioni di due telecamere di videosorveglianza che sono state cancellate. 

In queste ore è in corso la conferenza stampa della presentazione dei risultati della maxi perizia disposta dalla commissione parlamentare di inchiesta sulla morte dell'ex manager ed ex capo comunicazione della banca Mps. Un’audizione dei carabinieri di Ros, Ris e Racis e di medici legali incaricati di rispondere ai 50 quesiti posti dalla commissione. 

"David Rossi si lasciò cadere nel vuoto". È una delle ipotesi avanzata da Sergio Schiavone, comandante del Ris, durante la conferenza stampa. "Tra le varie ipotesi proposte nei quesiti della Commissione - ha spiegato il comandante del Reparto Investigazioni Scientifiche di Roma - la dinamica più compatibile è quella riferibile a un gesto anticonservativo in cui Rossi, cosciente, si tiene a penzoloni dalla finestra, aggrappato alla barra di protezione con entrambe le mani, e si lascia cadere nel vuoto rivolgendo la parte anteriore del corpo verso il palazzo".  Il comandante Schiavone ha poi spiegato il mistero dell'orologio, che qualcuno aveva ipotizzato fosse caduto dalla finestra 20 minuti dopo la sua morte. "Verosimilmente quel bagliore luminoso è una goccia di pioggia e non l'orologio del dottor Rossi"  ha concluso Schiavone. 

"Si lascia cadere con il moto a candela". David Rossi, dal nuovo video ai soccorsi tardivi: la maxi perizia e le accuse della moglie (“sconcertata”). Redazione su Il Riformista il 19 Luglio 2022. 

David Rossi “si lascia cadere nel vuoto con la parte anteriore verso il palazzo con il moto a ‘candela‘. E’ quanto emerge dalla maxi perizia del Reparto Investigazioni Scientifiche dei carabinieri su disposizione della commissione parlamentare d’inchiesta in merito alla morte dell’ex capo comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena avvenuta il 6 marzo 2013.  “Tra le varie ipotesi di caduta la dinamica più compatibile è quella di un gesto auto conservativo in cui” Rossi “cosciente si tiene aggrappato con le mani alla barra di protezione e si lascia cadere nel vuoto” ha spiegato in conferenza stampa a Roma Sergio Schiavone, comandante del Ris, che esclude “altre ipotesi con la presenza di terzi che lasciano cadere il dottor Rossi” perché “riproducono ipotesi di caduta non compatibili con le dinamiche di caduta”.

Ma “la sera in cui è deceduto Rossi c’è un altro video” di una seconda telecamera di video sorveglianza “e individua due soggetti che alle 20.01 escono da piazza dell’Abbadia. Un video tenuto fino ad ora segreto e già trasmesso alla procura di Genova perché contrasta con tutti gli atti processuali in cui era stato detto che c’era un unico video relativo ai momenti successivi alla caduta di Rossi”. A comunicarlo Pierantonio Zanettin, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi. “Sul video – ha aggiunto – la procura ha già fatto accertamenti rispetto al fatto se le due persone potessero essere in qualche modo coinvolte”, con esclusione di soggetti coinvolti in eventuali reati: “Si trattava di due dipendenti che uscivano da lavoro”, ma “resta sorprendente che questo video che era stato acquisito in una chiavetta da 8 giga sia stato cancellato”. “Rispetto a questo – ha concluso – a mio avviso sulla cancellazione” si potrebbe ipotizzare “il falso per soppressione. Non sappiamo chi l’abbia cancellato”.

Stando invece alla relazione del dottor Roberto Testi, direttore del dipartimento di prevenzione della Asl Città di Torino, “sono state tolte chance di sopravvivenza al dottor David Rossi nei venti minuti in cui non è stato soccorso”. Un lasso di tempo che si è rivelato purtroppo decisivo. “Si trattava di una persona giovane, in buona salute che non aveva patologie particolari che ha subito molte lesività ma non vi è stata una emorragia interna fatale” ha aggiunto il medico. “Conseguentemente a queste lesività possiamo dire che David Rossi muore per un combinato trauma poli distrettuale ma anche per una bronco aspirazione ematica massiva. Con una prolungata agonia i polmoni si sono riempiti di sangue” ha concluso il medico.

Smentita l’ipotesi che David Rossi possa essere stato narcotizzato prima di essere precipitato dalla finestra  “grazie agli esami tac che ci dimostrano che le lesività sono tipiche di una persona cosciente che impatta al suolo e che mette a protezione dell’impatto le gambe tese”. Lo hanno detto i medici legali illustrando la super perizia sulla morte del manager. Secondo la relazione, Rossi è stato protagonista di “un’azione tipica di una persona perfettamente cosciente. Gli esami tac ci hanno anche permesso di evidenziare i talloni in piedi in dorso flessione e questo lo abbiamo ricostruito dalle fratture tibiali”.

Tuttavia, hanno riferito sempre i medici, “sul corpo di Rossi ci sono nove lesioni che non sono compatibili con il meccanismo di precipitazione”. Riguardo a queste lesioni “si tratta – hanno spiegato con la loro relazione i medici – di ferite allo zigomo sinistro, alla bozza frontale destra, alla pinna laterale sinistra e all’emi labbro sinistro. A nostro avviso, per il mancato sanguinamento, sono retrodatabili e pur non avendo capacità di analizzarle microscopicamente, possiamo dire che non possono andare oltre le 12, 24 ore precedenti la caduta. Possiamo escludere che siano auto inferte, magari accidentali”.

I medici hanno anche chiarito che le lesioni riscontrate al fegato di Rossi “sono compatibili con la caduta” mentre sulla lesione con ecchimosi al polso sinistro “non possiamo escludere che sia dovuta all’urto del braccio a terra quando il corpo assume la posizione di quiete: riteniamo che sia compatibile con tale dinamica”. “Tuttavia – hanno concluso – non possiamo escludere in termini scientifici che una compressione violenta con un movimento di afferramento e rotazione possa aver dato lo stesso tipo di impronta”.

“Verosimilmente quel bagliore luminoso è una goccia di pioggia e non l’orologio del dottor Rossi” che qualcuno aveva ipotizzato fosse caduto dalla finestra 20 minuti dopo la sua morte ha chiarito Schiavone del Ris illustrando il rapporto di circa un migliaio le pagine frutto del lavoro dei carabinieri di Ros, Ris, Racis e di medici legali: 49 i questi inizialmente posti e poi cresciuti nel corso delle audizioni della commissione.

“Per noi la mail di ‘help‘” con cui David Rossi manifestava le sue intenzioni di suicidarsi “non ha nulla di strano, è stata scritta e spedita prima” della morte ha aggiunto colonello Massimo Giannetti, comandante del reparto tecnologie informatiche del Racis illustrando le risposte date nella super perizia ai quesiti della commissione parlamentare di inchiesta. “La mail di help del dottor Rossi in cui manifestava le sue intenzioni di suicidarsi si trovava nel pc di Rossi, in un file di archivio della posta elettronica esportata da Mps e nel pc portatile che è stato successivamente restituito alla famiglia” ha spiegato il colonnello aggiungendo come “di questo pc non abbiamo la copia forense originale che è risultata danneggiata e non è stata più utilizzata”.

“Sul file del dottor Rossi di ufficio la data è corretta antecedente il suicidio, sul file che ha fornito Mps c’è questo problema che si spiega con il fatto che quando si esporta un file di archivio Microsoft cambia la data con quella di esportazione. Il fatto che si ritrova lo sbilanciamento anche nell’altro file” del pc portatile “è sintomatico che su quel pc è avvenuto qualcosa” ha concluso il colonnello.

Il colonnello Rubino Tomassetti, comandante del reparto indagini tecniche del Ros dei carabinieri ha invece chiarito che “nessuno rispose alla chiamata dell’onorevole Daniela Santanchè arrivata sul telefono di David Rossi la sera della sua morte”. Si tratta di un “errore del tabulato, è una chiamata non risposta”. Il colonnello ha anche chiarito che il numero ‘409909‘ per il quale si ipotizzava l’esistenza di un conto corrente cifrato altro non era che “un servizio attivato all’epoca che faceva un trasferimento di chiamata come sos ricarica”. “Non siamo riusciti a chiarire il contenuto di due unici quesiti – ha concluso il colonnello -: l’assenza della cella copertura di una chiamata che il capo segreteria Giancarlo Filippone fa a David Rossi alle 20.30 e una chiamata voip di Rossi verso un numero straniero della durata di 347 secondi”.

La vedova di David Rossi, Antonella Tognazzi, non ci sta e all’Ansa commenta la super perizia: “Poteva essere salvato ma nessuno ha fatto niente. Si sono trincerati tutti dietro a chissà quale paura. Sono sconcertata da quello che ho ascoltato”.

“L’aver reso pubblico che c’è un secondo video con due dipendenti di Mps che escono da lavoro con Davide agonizzante che non solo non intervengono, quando era impossibile non vederlo, ma nemmeno si presentano in procura, è gravissimo”.  “Le dichiarazioni dei carabinieri sono il copia e incolla dell’archiviazione” ha aggiunto la donna. “I periti hanno dato la loro versione dei fatti che non è verità assoluta”. “Anche i medici legali erano in grossa difficoltà a spiegare le ferite. C’è una nostra perizia che evidenzia come nella lacerazione al fegato c’è un livido esterno a forma di pungo. Il nostro legale farà le sue mosse e chiederà che i nostri periti vengano sentiti in commissione”. ”

“Si mettano d’accordo. Prima si parla della rotazione del corpo, poi ora si sostiene la precipitazione a candela. Vorrei ricordare che in passato sono state scambiati dei licheni per impronte delle scarpe”, ha invece dichiarato Ranieri Rossi, fratello di David.

Mps: inviato Le Iene condannato per servizio su Briamonte.  

(ANSA il 14 Giugno 2022) - Il Tribunale di Torino ha condannato l'inviato de 'Le Iene' Antonino Monteleone per diffamazione aggravata in danno dell'avvocato Michele Briamonte, in relazione all'inchiesta televisiva sulla morte di David Rossi. 

I fatti oggetto del processo riguardano alcune dichiarazioni dell'allora legale dei famigliari di David Rossi, che sarebbero state registrate di nascosto da Monteleone e assemblate "ad arte" - secondo l'accusa - su altre interviste, attraverso le quali si prospettava il coinvolgimento dell'avvocato Briamonte in rapporti opachi tra Monte dei Paschi di Siena e lo Ior. Il Tribunale ha condannato l'inviato de 'Le Iene' anche al risarcimento dei danni, quantificati in via provvisionale in 20mila euro.

"In attesa di leggere le motivazioni, si può affermare che è stato condannato un certo metodo di fare informazione, che si disinteressa della verità dei fatti privilegiando lo scoop ad ogni costo", commenta l'avvocato Nicola Menardo dello Studio Grande Stevens, che assieme alla collega Stefania Nubile ha assistito l'avvocato Michele Briamonte.

Le Iene, Antonino Monteleone condannato: Mps, ecco chi ha diffamato. Libero Quotidiano il 14 giugno 2022.

"Diffamazione aggravata". Il Tribunale di Torino ha condannato Antonino Monteleone, inviato de Le Iene in merito alla causa intentata dall'avvocato Michele Briamonte per l'inchiesta televisiva sulla morte di David Rossi. Briamonte era all'epoca dei fatti il legale dei familiari del capo della comunicazione di Mps, trovato morto in circostanze mai del tutto chiarite il 6 marzo 2013, in strada sotto il suo ufficio di Rocca Salimbeni, a Siena. "Suicidio", recita l'inchiesta. "Omicidio", accusano i familiari. L'indagine si è riaperta, ma nel frattempo a venire condannato è stato Monteleone, che secondo il giudice ha registrato di nascosto l'avvocato Briamonte, "assemblando ad arte" le sue parole suggerendo così il coinvolgimento dello stesso legale in rapporti opachi tra Monte dei Paschi di Siena e lo Ior.

Il Tribunale ha condannato l'inviato delle Iene anche al risarcimento dei danni, quantificati in via provvisionale in 20mila euro. "In attesa di leggere le motivazioni, si può affermare che è stato condannato un certo metodo di fare informazione, che si disinteressa della verità dei fatti privilegiando lo scoop ad ogni costo", è il commento a caldo dell'avvocato Nicola Menardo dello Studio Grande Stevens, che assieme a Stefania Nubile il collega Briamonte. 

Amare, invece, le parole di Monteleone: "Finalmente la Giustizia italiana - il Tribunale di Torino - ha da poco individuato un primo responsabile in questa brutta vicenda. Se vi domandate di chi si tratta, la risposta è semplice: sono io!". "Che dire?! - prosegue l'inviato di Italia 1 sui social - Beati coloro che credono nella Giustizia, perché saranno giustiziati…". 

"Ammazzato...". David Rossi non si è suicidato, l'intercettazione decisiva: la frase chiave al telefono. A.V. su Libero Quotidiano il 28 maggio 2022.

Nuova svolta sul caso della morte di David Rossi. Ieri il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, durante l'audizione durante la commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte del manager Mps, ha detto che venne intercettata nel 2018 una telefonata tra Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia e l'avvocato Guido Contestabile (ora suo difensore nel processo Rinascita Scott, David Rossi all'epoca non era il legale di Pittelli). Nella telefonata, i due parlavano della morte di David Rossi. Nella conversazione intercettata, Pittelli si esprime così: «E se riaprono l'indagine sulla morte di Rossi succederà un casino grosso. Se si sa chi lo ha ammazzato!».

«Ma perché, secondo te è morto per overdose di sostanze stupefacenti?». «Non si è suicidato! Non si è suicidato! Rossi non si è suicidato!». «Rossi è stato ucciso!». E quando Contestabile gli chiede «ma stai scherzando?», Pittelli risponde parlando di Rossi «e se riaprono la... l'indagine sulla morte di Rossi succederà un casino grosso...». «Sistema! pure Calvi all'epoca si suicidò... con le tasche piene di pietre... te lo ricordi?» dice Contestabile. «Eh! Calvi! che epoca quella!». «Sindona che si è auto-suicidato in carcere con un caffè...» aggiunge Contestabile, al che Pittelli gli risponde "bravo!".

Poi, dopo un ultima affermazione di Contestabile - «è notorio che in carcere entri la stricnina!» - i due cambiano argomento. Subito dopo la rivelazione, la commissione è stata secretata. L'intercettazione è emersa durante altre indagini condotte dalla Procura. Successivamente, in data 2 luglio 2018 - spiega Gratteri - «Pittelli intratteneva una conversazione con l'avvocato Mussari, soffermandosi, in tal caso, sulla vicenda Mps». La morte di David Rossi, allora capo della comunicazione di Mps avvenne a Siena il 6 marzo 2013: il corpo venne trovato sulla strada su cui si affacciava il suo ufficio.

Caso David Rossi, la Orlandi: "Viviamo in un sistema malato alla radice". Francesco Boezi il 21 Maggio 2022 su Il Giornale.

"Ormai che le cose non siano andate come i pm hanno sostenuto finora è lampante a tutti". Carolina Orlandi, figlia di David Rossi, torna a dire la sua sulla misteriosa morte dell'ex capo Comunicazione di Mps.

Le risultanze di due nuove perizie hanno spinto i familiari di David Rossi a chiedere, come in realtà avviene da sempre, la riapertura del caso. Carolina Orlandi (che aveva già avuto modo di dire la sua sull'attività degli inquirenti anche con un'altra intervista rilasciata al Giornale.it) parla di un "sottobosco" che "rende quei pochi potenzialmente ricattabili", in un "sistema" che sarebbe "malato". Quanto mostrato da Le Iene, del resto, suggerirebbe conclusioni sconvolgenti rispetto a quanto sentenziatO sino a questo momento sulla morte dell'ex capo Comunicazione dell'Mps.

Alla luce delle perizie, sembra si possa riaprire il caso. Avete chiesto nuove indagini.

"Ormai che le cose non siano andate come i pm hanno sostenuto finora è lampante a tutti. Adesso è il momento che vengano fatte delle indagini serie sul chi ha voluto che David perdesse la vita e soprattutto perché".

Nel caso aveste ragione, le indagini fatte si rivelerebbero fallaci. Come e se lo giustifica.

"Viviamo in un sistema malato alla radice, che vede il potere e l’interesse di pochi decidere sul destino di molti sulla base, spesso, delle opportunità personali. Il sottobosco che esiste in questo Paese, così come a Siena in piccolo, rende quei pochi potenzialmente ricattabili o condizionati dagli interessi personali più di quelli della comunità e della a tutela del bene collettivo".

Quanto e come ha influito il lavoro della commissione d’inchiesta parlamentare?

"L’istituzione della commissione d’inchiesta che, ricordo, è stata votata all’unanimità dal Parlamento, è stato un messaggio forte. Il fatto che sia dovuta intervenire una commissione parlamentare significa che chi avrebbe dovuto fare il proprio lavoro, non l’ha fatto bene. In un sistema Giustizia che funziona, non sarebbe necessario un intervento come questo. La commissione ha lavorato da subito sodo per acquisire audizioni di persone mia sentite in passato, che hanno dovuto sostenere delle domande che finora, incomprensibilmente, non erano mai state fatte. A breve arriveranno i risultati della maxi perizia che la commissione ha fortemente voluto, esami e rilievi mai fatti prima".

Il sistema Giustizia necessita di cambiamenti profondi. Quali e come secondo lei?

"Finché la categoria dei magistrati sarà esente da ogni responsabilità, delle quali invece ogni altro cittadino e professionista deve rispondere, i pubblici ministeri saranno liberi, se vogliono, di poter agire in maniera superficiale o condizionata, senza che questo possa avere delle conseguenze. Mia madre, insieme al giornalista Davide Vecchi, in passato ha subìto un processo per violazione della privacy del tutto infondato (erano state pubblicate le famose mail di David in cui annunciava di voler parlare con i magistrati due giorni prima di morire). Il giudice durante l’assoluzione in sentenza ha aggiunto che quel processo non si sarebbe mai dovuto celebrare perché non ce n’erano proprio gli estremi. Risultato? Tanti soldi, tante preoccupazioni e tante energie del tutto sprecate. Questo apre anche un altro tema: in questo Paese chi non ha soldi per sostenere le spese legali, e finisce nel mirino di una procura, rischia comunque grosso. Se poi l’imputato si rivela innocente, amen. Nessuno paga al posto suo. Se noi oggi siamo arrivate a dei grandi risultati lo dobbiamo anche a uno staff di legali che porta avanti questa battaglia gratuitamente. In caso contrario non avremmo avuto le possibilità per far emergere la verità. E questo è tema importante, di cui si parla troppo poco".

Il caso David Rossi rischia di entrare nella storia dei “misteri italiani” oppure no. Da cosa dipende sul piano concreto?

"La morte di David è già uno dei misteri italiani. E questo perché abbiamo raccontato la sua storia in lungo e in largo, perché era importante fissarla nella memoria collettiva affinché della sua scomparsa non restasse un trafiletto su un giornale che riportava il suo suicidio. Ciò che hanno fatto a David non poteva passare inosservato, per questo è importante rendere prima di tutto viva la sua memoria e soprattutto rendergli giustizia, visto che lui non ha più la possibilità di poterla perseguire. L’epilogo di questo caso non è ancora stato scritto e spero che la storia di David possa diventare una delle grandi ingiustizie italiane, non più un mistero all’italiana condannato a rimanere tale".

Da iene.mediaset.it il 19 maggio 2022.

Da 4 anni ci chiediamo se la morte nel 2013 di David Rossi sia stata un suicidio, come da ricostruzione ufficiale, o un omicidio. Ora se lo chiede anche una commissione parlamentare. Con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti vi mostriamo in esclusiva una perizia su lesioni mai rilevate e una fisico-balistica. Entrambe porterebbero alla stessa ricostruzione: fu picchiato e poi tenuto in sospeso per i polsi da altre persone fuori dalla finestra, prima di essere buttato giù.

Caso David Rossi, le nuove perizie sul manager Mps: "Tenuto per i polsi e lasciato cadere". Pietro De Leo su Il Tempo il 19 maggio 2022.

David Rossi è stato ucciso. Non si è tolto la vita volontariamente come per ben nove anni la Procura di Siena ha sostenuto. I dubbi sulla dinamica della morte del manager di Monte dei Paschi di Siena, avvenuta la notte del 6 marzo 2013, iniziano a trasformarsi certezze. Due perizie di parte, una medico legale compiuta sulle lesioni rinvenute sul corpo di Rossi e realizzata da Francesco Introna (direttore, tra l’altro, di medicina legale del Policlinico di Bari), e una seconda perizia fisico balistica svolta da Franco Gelardi (ordinario di Fisica Sperimentale all’università di Palermo) certificano che quella sera Rossi non solo fu aggredito e picchiato – come già accertato dal comandante dei Ris, Davide Zavattaro – ma fu poi spinto contro la sua volontà fuori dalla finestra del suo ufficio, tenuto sospeso nel vuoto per i polsi e poi lasciato cadere. Insomma:<ET>un omicidio. Null’altro che questo. Il contenuto delle perizie è stato anticipato da Carmelo Miceli, avvocato di Antonella Tognazzi (vedova di David), alla trasmissione Le Iene che ieri in tarda serata su Italia 1 ha dedicato alla scomparsa del manager un nuovo servizio che si aggiunge all’inchiesta che Antonino Monteleone e Marco Occhipinti conducono da ormai quasi cinque anni e ha già fatto emergere importanti contributi investigativi e testimonianze fondamentali che la Procura di Siena si era dimenticata di recepire come quella dell’ex segretaria di Fabrizio Viola, Lorenza Pieraccini. Ieri Le Iene hanno aggiunto un nuovo importante tassello.

UN VERO E PROPRIO PESTAGGIO

Le perizie, ha spiegato Miceli, confermano "che David è stato picchiato violentemente, brutalmente: ha il fegato spaccato con una ginocchiata o un pugno", oltre a ferite da taglio sulle mani che dimostrano abbia "tentato di schifare un coltello o comunque una lama". Ma la parte più importante riguarda le lacerazioni ai polsi "dai quali è stato trattenuto" e le ferite sul sinistro "totalmente sovrapponibili alla cassa dell’orologio che indossava".

Quelle lesioni, inoltre, prosegue Miceli "sono perfettamente compatibili con le lesioni di un uomo che è sporto fuori da più persone, per le braccia dopo essere stato colpito violentemente, poi viene lasciato cadere da quella persona che prima lascia il braccio destro e poi il braccio sinistro provocando queste escorazioni, e in quel modo si ha perfettamente una caduta di una persona che arriva a terra nel modo in cui è arrivato David". 

Di fatto l’unico elemento certo in questi anni è stato il video acquisito dalla telecamera di sorvegliana posta in vicolo de Rossi, traversa di vicolo Monte Pio, dove è stato rinvenuto il cadavere di Rossi. Anche Carolina Orlandi, figlia di Antonella, ha preso visione delle perizie e ha condiviso con Le Iene le conclusioni. «Se si immagina qualcuno che tiene David appeso fuori dalla finestra, quindi con un po’ di distanza rispetto al muro, questo può essere compatibile con come lo vediamo atterrare, con il braccio sinistro alzato e il braccio destro in basso, completamente in verticale», spiega Carolina. 

Ci sono poi tutte le ferite sulla parte frontale del corpo di Rossi che, sempre Zavattaro, aveva definito incompatibili con la caduta. E<ET>anche su queste le due nuove perizie confermano, tramutando in certezze, i dubbi che le riguardano. Le ferite sul volto, sul polso, all’inguine, alla bocca dello stomaco, gli ematomi di cui uno in particolare all’altezza del fegato:<ET>tutte perfettamente giustificabili solo ed esclusivamente con una aggressione e delle percosse. 

"C’è questa foto della mano di David che presenta un taglio, per quel taglio il professor Introna usa una descrizione molto specifica: definisce quella lesione come ferita da difesa attiva, la ferita che si provoca in chi con le mani prova a difendersi da qualcuno che lo aggredisce con un coltello, con un taglierino», aggiunge Miceli. 

Nelle prossime settimane i reparti di investigazioni scientifiche dei carabinieri del Ris e del Racis consegneranno le loro relazioni conclusive su una serie di indagini informatiche e balistiche - nonché sulla dinamica della caduta - che a loro sono state affidate dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi presieduta da Pierantonio Zanettin. Commissione che in meno di un anno di lavori ha compiuto maggiori passi investigativi di quanto in otto anni abbiano fatto le due procure che si sono occupate del caso, quella di Siena prima e quella di Genova poi.

LE TESTIMONIANZE NELLE AUDIZIONI

Le Iene hanno ricostruito e mostrato alcune delle audizioni svolte a San Macuto, in particolare quella dell’ex comandante provinciale dei Carabinieri di Siena, Pasquale Aglieco, durante la quale si è più volte smentito. O quella ancor più imbarazzante del magistrato di turno la sera della morte di Rossi, Nicola Marini, che oltre ad aver negato e smentito se stesso (e il Gip di Siena sulla sua contrarietà a compiere l’autopsia sul corpo di David) si è inventato di sana pianta di aver trovato oltre trenta ricerche con il termine "suicidio" compiete da Rossi sul suo computer: non era vero e lo hanno certificato anche gli uomini della Polizia Postale. 

Superfluo ricordare e aggiungere del procuratore Antonio Nastasi che sempre in audizione ha negato di essere sceso nel vicolo e poi è trasalito quando l’onorevole Luca Migliorino gli ha mostrato l’immagine del vicolo nel quale era ritratto o, per concludere con i magistrati, l’audizione del pm Aldo Natalini che ha distrutto i fazzoletti di carta sporchi di sangue trovati nel cestino dell’ufficio di David e li ha distrutti in pieno agosto, senza analizzarli e ancora con il fascicolo di indagine in corso. Ebbene, davanti alla Commissione parlamentare, Natalini ha eluso la domanda più volte formulata sui motivi per cui ha distrutto quei fazzoletti sostenendo che se avesse risposto avrebbe potuto rischiare una incriminazione. La Commissione - della quale fa parte anche Valter Rizzetto di Fdi, Claudio Borghi della Lega, Cosimo Ferri di Iv e altri parlamentari - ha dunque svolto e sta svolgendo un ruolo importante per arrivare a scrivere la verità sulla morte di Rossi, queste due perizie di parte aggiungano un altro tassello e colmano le carenze investigative dei magistrati di Siena. 

Caso David Rossi, verità grazie a familiari e Commissione non ai pm. Davide Vecchi su Il Tempo il 19 maggio 2022.

David Rossi non si è ucciso, il manager del Monte dei Paschi di Siena è stato ucciso. Questa dovrebbe essere una notizia clamorosa ma per chi ha seguito il caso è soltanto la conferma a un’ipotesi ormai certificata in questi nove anni trascorsi dalla morte di David, avvenuta la sera del 6 marzo 2013 e sin da subito spacciata come suicidio. Ora due nuove perizie di parte ricostruiscono come Rossi sia stato picchiato e fatto cadere dalla finestra (l’articolo a pag 9 di Pietro De Leo riporta gli elementi più rilevanti), a breve arriveranno le risultanze investigative affidate ai Carabinieri dalla Commissione d’inchiesta sulla morte di David Rossi e, infine, ci sono le audizioni svolte a San Macuto negli ultimi dieci mesi oltre agli esiti del lavoro compiuto dai componenti della commissione sulle carte acquisite da numerose Procure e analizzate in maniera (finalmente) approfondita.

Riassumendo: grazie al lavoro di periti e avvocati dei familiari, di una ventina di parlamentari oltre a quello di alcuni (pochi) giornalisti (Le Iene in primis) si sta arrivando a scrivere una verità almeno credibile su quanto accaduto a Rossi. E mi chiedo: chi pagherà per il lavoro compiuto da altri al posto dei magistrati? Perché di questo si tratta. Nient’altro che questo: la vedova di David, Antonella, la mamma Sofia, i fratelli Ranieri e Filippo, la figlia acquisita Carolina hanno per nove anni investito risorse in periti e legali per scoprire ciò che avrebbero dovuto scoprire sin da subito i magistrati di Siena, perché quello era il loro lavoro e per quel lavoro vengono pagati.

Ma non sono bastati i periti e gli avvocati dei familiari a spingere la magistratura a compiere nuove indagini seguendo i tanti spunti forniti (dinamica della caduta, ferite, persone presenti nel vicolo e nella banca, incongruenze nelle ricostruzioni fornite dai - pochi - testimoni sentiti, per citarne alcuni) ma è poi servita l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta (votata a unanimità e fortemente voluta sin da subito in particolare da Luciano Nobili e Valter Rizzetto) ed è servito l’impegno di alcuni onorevoli che - va detto - si sono dedicati e si stanno dedicando con assoluta dedizione a studiare tutti gli atti al fine di comprendere cosa realmente è accaduto quella sera. Sarebbe bastato, molto semplicemente, che i pm avessero fatto il loro lavoro. Invece, ascoltando le audizioni (anche quelle degli stessi pm) si capisce quanto non è stato fatto.

La Polizia scientifica chiamata ore dopo, l’ufficio inquinato con un via vai di soggetti che neanche dovevano entrarci (e scoperti solo anni dopo grazie alla Commissione), reperti spariti, mail e messaggi cancellati. Insomma: le indagini svolte dai pm di Siena sul caso David Rossi dovrebbero essere studiate come esempio su come non si fanno le indagini. Sono una sequela di errori (e orrori) investigativi per nove anni tenuti nascosti. L’aspetto ancora più grave è che quegli stessi pm nei mesi in cui avrebbero dovuto indagare su Rossi in realtà indagavano la vedova, Antonella, per poi portarla a un processo farsa terminato con una assoluzione piena. E quello ad Antonella rimane a oggi l’unico processo in qualche modo connesso alla morte di David. Non ha dell’incredibile?

Quindi io continuo a chiedermi come sia possibile che con tutto quello che è accaduto a Siena (non solo Rossi: anche quello che doveva essere il belzebù della banca, Giuseppe Mussari, è stato recentemente assolto dopo dieci anni di Purgatorio giudiziario) il Csm non abbia mai sentito la necessità di intervenire, la Procura di Genova (competente sull’operato dei pm senesi) non abbia mai individuato alcuna sbavatura nel lavoro compiuto in Toscana e che oggi un pm che viene smentito sulle indagini in commissione parlamentare persino dalla Polizia Postale sia a capo della Procura dove lavora da decenni. Confido che qualche magistrato trovi ora coraggio per farsi carico delle perizie e del lavoro della Commissione non tanto per scrivere la verità su David ma soprattutto per restituire dignità e autorevolezza all’intera sua categoria. Il referendum sulla giustizia che si voterà il prossimo 12 giugno è persino poco.

David Rossi, due nuove perizie potrebbero riaprire il caso: «Ferite e lesioni incompatibili con il suicidio». Corriere della Sera il 19 maggio 2022.

«Alla lista di cose che stridono con la tesi del suicidio, si aggiungono scoperte importanti che lasciano immaginare in che modo David sia stato picchiato e buttato fuori dalla finestra. I periti hanno scoperto lesioni nuove, che trovano spiegazione solo con l’intervento di terze persone». A dirlo, in un post su Facebook, è stata Carolina Orlandi, figlia di Antonella Tognazzi, la vedova di David Rossi, postando la notizia del servizio de Le Iene sull’esito di due nuove perizie, su incarico della famiglia dell’ex capo della Comunicazione di Mps.

La notizia è proprio che due nuove perizie potrebbero far riaprire le indagini sul caso del dirigente di Mps che 9 anni fa è morto dopo essere precipitato dalla finestra del suo ufficio di Rocca Salimbeni. Sono perizie che rivelerebbero ferite sul corpo della vittima sinora mai riscontrate o spiegate: una è firmata dal medico legale Francesco Introna, ordinario dell’Ateneo di Bari; l’altra, fisico-balistica, eseguita dal professor Franco Gelardi, ordinario di Fisica Sperimentale all’Università degli Studi di Palermo. Entrambe su incarico della famiglia dell’ex capo della Comunicazione di Mps.

«Introna — spiega la Orlandi — c i dice che il fegato di David ha tre grandi lacerazioni, visibilissime ad occhio nudo, che corrispondono a un ematoma all’altezza del fegato. Ci dice che l’ematoma misura 10 per 7...di provare a misurarmi il pugno e io in quel momento ho avuto l’immagine proprio di un cazzotto che David ha ricevuto, e che lo ha reso anche in stato di semicoscienza quando, si immagina, possa essere stato appeso fuori dalla finestra». Rossi avrebbe poi «segni visibili anche sullo zigomo e la mano presenta un taglio»: quest’ultima Introna la definisce «ferita da difesa attiva». Sullo «zigomo sinistro c’è un qualcosa che all’evidenza sembra un’ecchimosi non compatibile con una caduta verticale. Un unico colpo sul volto da un unico corpo contundente».

Ci sono «incongruenze» che «indeboliscono, e non di poco, l’ipotesi del suicidio e, di converso, rafforzano l’ipotesi alternativa della precipitazione causata da terzi — sostiene invece il documento del professor Gelardi —, in cui il corpo del Rossi, probabilmente in stato di semi incoscienza, avrebbe potuto essere tenuto in sospensione ad una altezza compatibile con quella determinata dai periti, senza che vi fosse il contatto diretto e intenso della parte superiore delle braccia con il davanzale della finestra». Inoltre la «posizione di caduta, assunta dal corpo nei momenti immediatamente antecedenti l’impatto con il suolo, denota una posizione di partenza assolutamente atipica per un suicidio».

Sul caso si sono accese subito molte reazioni politiche. Per Matteo Renzi (Iv): «Sono state fatte indagini quantomeno stravaganti, nel libro lo racconto: il pm Antonino Nastasi, lo stesso che indaga su Open, entra nella scena criminis senza averne titolo. Va a interrogare la vedova Rossi senza il diritto di farlo, si fa autorizzare solo il giorno dopo. Stava seguendo l’indagine su Mussari, che poi è stato assolto... tutto questo è emerso grazie al lavoro del Parlamento. Ma se per avere giustizia e verità occorre una commissione parlamentare d’inchiesta, che li paghiamo a fare i pm?». Così invece Giorgia Meloni (FdI): «Le nuove perizie sul caso Rossi, aprono uno spiraglio di luce nella ricerca della verità per la famiglia di David. Oggi più che mai — ha scritto la presidente di Fratelli d’Italia —, continueremo a cercare e a chiedere risposte su un caso dai tanti contorni ancora oscuri: lo dobbiamo alla memoria di David e ai suoi cari che continuano a battersi affinché non si spengano i riflettori su questa atroce vicenda. Verità per David Rossi».

Il caso David Rossi, la nuova perizia svela delle lesioni compatibili con il pestaggio: "E' stato violentemente picchiato". La Repubblica il 19 Maggio 2022.  

Parla il legale della famiglia alla trasmissione "Le Iene" : "Abbiamo finalmente elementi scientifici che ci consentono di dire che la storia sulle reali cause della morte di David Rossi vada riscritta".

"Una nuova perizia medico-legale su lesioni sul corpo di David mai rilevate o descritte fino ad ora e una perizia fisico-balistica cioè una dinamica della caduta" di David Rossi, l'ex capo della Comunicazione di Mps morto dopo essere precipitato da una finestra della banca Mps il 6 marzo 2013. Ad annunciarle è stata la trasmissione 'Le Iene', che con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti si è occupata del caso, in un servizio trasmesso stasera in cui è stato intervistato, tra gli altri, l'avvocato Carmelo Miceli, legale della vedova dell'ex manager e della figlia di lei Carolina Orlandi.

"Noi oggi abbiamo finalmente elementi scientifici, dichiarati da professionisti di primissimo piano nazionale, che ci consentono di dire che la storia sulle reali cause della morte di David Rossi vada riscritta", ha detto l'avvocato Miceli. Come riportato nel servizio, nella perizia dei consulenti di parte, emergono delle lesioni, tra cui alcune al fegato, mai emerse prima e ritenute non compatibili con la caduta. Secondo quanto emerge, spiega Miceli, "David è stato picchiato violentemente, brutalmente".

Non solo. Come riferito durante la trasmissione, secondo i consulenti di parte, Rossi fu tenuto per i polsi fuori dalla finestra. "Nella perizia medico legale c'è scritto anche - afferma a "Le Iene" Carolina Orlandi - che David probabilmente è stato trattenuto e sospeso fuori dalla finestra da terze persone e questo giustificherebbe le ferite che David ha nel polso, all'altezza della mano, molte profonde, che corrispondono, guarda caso, all'orologio".

L'avvocato Miceli spiega che le "lesioni sono compatibili con le lesioni di un uomo, che è sporto fuori da più persone per le braccia, dopo essere stato colpito violentemente, poi viene lasciato da quelle persone che prima lasciano il braccio destro e poi il sinistro, e in quel modo si ha una caduta di una persona che arriva a terra nel modo in cui è arrivato David".

"David Rossi è stato ucciso". Due perizie ribaltano il caso. Felice Manti il 19 Maggio 2022  su Il Giornale.

Le conclusioni degli esperti alle "Iene": il manager Mps fu lasciato cadere da una finestra. Le ferite mai viste prima.

«David Rossi è stato ucciso». I sospetti dei familiari del manager Mps morto in circostanze strane la sera del 6 marzo 2013 trovano conferma in due nuove perizie inedite, rese note dalle Iene in onda ieri sera: una medico-legale e una fisico-balistica che, seppur fatte a distanza da due luminari che non si conoscono, portano alla stessa ricostruzione dei fatti e potrebbero riscrivere il caso. David Rossi sarebbe stato aggredito prima di volare da una finestra perché qualcuno che lo teneva per un polso lo ha fatto cadere. Quello del capo della comunicazione di Mps da subito fu considerato dai magistrati un suicidio, maturato nel clima di tensione per le indagini sulla banca. Ma è fallita la caccia ai miliardi spariti in un'alchimia contabile a base di derivati mascherati da titoli di Stato, l'ex presidente Giuseppe Mussari è stato assolto da tutte le accuse mosse dalla Procura di Milano, mentre i salvataggi dell'istituto ci sono costati altre decine di miliardi.

Eppure una serie di indagini come l'acquisizione di tabulati e celle intorno agli uffici Mps non sono mai state fatte, né si è seguita la pista del possibile omicidio legato ai famigerati festini gay della Siena bene, a cui avrebbero partecipato anche alcuni magistrati della Procura, come raccontò ad Antonino Monteleone delle Iene l'ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini. Tutto archiviato, finora.

E invece la mole di prove raccolta dalla commissione parlamentare presieduta dall'ex membro del Csm Pierantonio Zanettin conferma i sospetti di un possibile depistaggio, suffragato dalla testimonianza choc dell'ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena Pasquale Aglieco - che ha ammesso di essersi riconosciuto in uno dei partecipanti ai festini hard raccontati alle Iene da un giovane escort - contro i tre magistrati presenti sulla scena del delitto, Nicola Marini, Antonino Nastasi e Aldo Natalini. «Nastasi si è seduto sulla sedia che era di Rossi poi si è girato e attivato il computer... ha toccato il mouse. Dopo di che è stato svuotato il cestino sulla scrivania», dirà il colonnello in commissione. I fazzolettini sporchi di sangue che erano nel cestino sono stati distrutti per ordine del pm Aldo Natalini, senza essere mai analizzati. Tracce e indizi, trovati e poi persi, cancellati, come racconta l'inviato di Quarto Grado Pierangelo Maurizio nel suo libro Una storia sbagliata. Ma per la procura di Genova non c'è stata nessuna omissione e nessun abuso da parte dei colleghi senesi.

«Abbiamo finalmente degli elementi scientifici dichiarati da professionisti di primissimo piano nazionale che ci consentono di dire che la storia sulle reali cause della morte del dottor David Rossi va riscritta», dice a Monteleone l'avvocato Carmelo Miceli. Ma cosa dicono le perizie? Spiegano la compatibilità di alcune ferite mai analizzate né prese in considerazione in precedenza. David Rossi ha il fegato spaccato in tre punti, «tre grandi lacerazioni visibilissime ad occhio nudo» incompatibili con la caduta. È come se avesse ricevuto un pugno. E c'è un ematoma all'altezza del fegato, misura 10 per 7. Come un cazzotto o una ginocchiata, dice il referto firmato da Francesco Introna, il numero uno dei medici legali in Italia. Il corpo ha ecchimosi sullo zigomo incompatibile con la caduta né con uno sfregamento con la parete. Ha una lesione come ferita da «difesa attiva», come se stesse lottando e una «compressione sul polso dove teneva l'orologio».

Secondo la perizia balistica David probabilmente sarebbe stato trattenuto e sospeso fuori dalla finestra, e questo giustificherebbe proprio questa ferita. Se invece fosse stato attaccato alla sbarra della finestra, nel cadere avrebbe strusciato la parte del braccio. Queste escoriazioni David non le ha. Se n'è accorto il medico legale ma anche il perito che ha ricostruito la dinamica della caduta, Franco Gelardi dell'Università di Palermo. Se si immagina qualcuno che tiene David appeso fuori dalla finestra, quindi con un po' di distanza rispetto al muro, questo può essere compatibile con come lo vediamo atterrare, quindi con il braccio sinistro alzato, il braccio destro in basso, completamente in verticale. Per non avere segni David teoricamente avrebbe dovuto tenersi aggrappato alla sbarra puntando i piedi sul muro, dandosi una piccola spinta per allontanarsi dal muro esterno ma così il corpo nella caduta avrebbe avuto una rotazione. Resterà agonizzante per almeno 20 minuti. Poteva essere salvato?

La morte di David Rossi e l’agonia della magistratura senese. Gianluca Zanella i 30 Aprile 2022 su Il Giornale.

La morte di David Rossi, manager di Mps, entra nel novero dei grandi misteri d'Italia: depistaggi, personaggi ambigui, omissioni. Il giornalista Davide Vecchi raccoglie tutto in un libro inchiesta dove le pagine pesano come macigni.

“La verità sul caso David Rossi. Tutto quello che ancora non sapevamo”. È il titolo dell’ultimo libro di Davide Vecchi, pubblicato da Chiarelettere dopo il precedente “Il caso David Rossi”, dato alle stampe nel 2017. Non una versione aggiornata del vecchio libro, ma un’inchiesta completamente nuova, che se certamente parte da basi già solidamente gettate cinque anni fa, compie un notevole salto in avanti verso proprio quella verità che – a onor del vero – sarà difficile ricostruire completamente. Troppo il tempo passato, troppi i pezzi mancanti. E Davide Vecchi lo sa bene, perché lui quella storia l’ha vissuta in prima persona e sulla sua pelle.

Era a Siena come inviato del Fatto quotidiano quel 6 marzo 2013, quando il capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, il potente David Rossi, vola giù dalla finestra del suo ufficio, sita al terzo piano di Rocca Salimbeni, centro nevralgico e punto d’irradiazione del potere difficilmente circoscrivibile della banca più antica del mondo.

Era lì, Davide Vecchi, quando la macchina delle prime indagini si mise in movimento in modo così sgangherato da determinare l’impossibilità – a distanza di quasi dieci anni – di giungere a una verità conclamata su cosa sia accaduto quella sera piovosa nel centro di Siena.

Oggi Davide Vecchi – che dirige “Il Tempo” e le testate del Gruppo Corriere – continua a essere in prima linea insieme a molti altri colleghi, in veste di consulente (unico giornalista a ricoprire questo ruolo) della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso David Rossi che, iniziati i suoi lavori nel luglio 2021, in pochi mesi ha permesso di fare dei passi in avanti che le inchieste precedenti della procura senese e di quella di Genova (tre inchieste in totale) non hanno fatto nel corso di nove anni. Nasce proprio in seno ai lavori della Commissione questo libro che, a leggerlo, è un pugno nello stomaco. Avvincente come un “legal thriller”, al suo interno non manca proprio nulla: c’è il morto, ci sono i depistaggi, ci sono personaggi che sembrano usciti fuori dai romanzi di James Ellroy, ci sono le persone che si battono per la verità e l’ombra di un doppio fondo inquietante che, forse, potrebbe spiegare per quale motivo David Rossi abbia fatto la fine che ha fatto.

Perché se è vero che i magistrati della prima inchiesta – Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonio Nastasi – si affrettarono ad archiviare tutto come suicidio, altrettanto vero è che sin da subito i dubbi riguardo la ricostruzione degli eventi erano mastodontici. Oggi, a distanza di nove anni, possiamo pacificamente ammettere a noi stessi che no, non si trattò di suicidio.

Se non fosse per il lavoro di giornalisti coraggiosi come Davide Vecchi, quello del manager MPS sarebbe entrato nel novero di quei “misteri d’Italia”, nella cui “hall of fame” troviamo vicende come quella di Roberto Calvi, Michele Sindona, Giorgio Ambrosoli, Mino Pecorelli. L’elenco potrebbe essere lungo, ma per fortuna, in questo caso, la nebbia si è parzialmente diradata. David Rossi è stato ucciso. Da chi e per quale motivo, non è ancora dato saperlo.

David Rossi è morto dopo 22 minuti strazianti di agonia ripresi dalle telecamere di sicurezza di Rocca Salimbeni. Le stesse telecamere che riprendono un uomo mai identificato affacciarsi nel vicolo in cui è disteso Rossi e parlare al telefono cercando di nascondersi; le stesse telecamere che – a diversi minuti dalla caduta – riprendono qualcosa precipitare sul selciato, forse l’orologio del manager; le stesse telecamere che quella sera non furono controllate dal custode del palazzo, che non si accorse di nulla.

Sono tanti i tasselli di questo puzzle, uno più oscuro dell’altro, e Davide Vecchi ce li presenta tutti, incastrandoli con maestria. A partire dalle telefonate (5) arrivate al 118 poco dopo il fattaccio, in cui un uomo insiste per conoscere l’identità della vittima perché “dovremmo riferire a Roma, be’ insomma, c’è tutto un giro”; passando poi per l’allora colonnello dei Carabinieri Pasquale Aglieco, giunto tra i primi sul posto nonostante la competenza dell’intervento spettasse alla polizia e sul cui ruolo bene e tanto sta lavorando la Commissione d’inchiesta; fino ad arrivare alle omissioni, alle prove distrutte, alla manipolazione della scena del crimine, ai processi-farsa e all’epopea giudiziaria vissuta da Nicoletta Tognazzi, moglie di David Rossi accusata (e assolta) di aver tentato di ricattare Mps, lucrando sulla morte del marito. E poi, nel finale del libro, una lunga e accurata disamina della pista mai completamente battura dei festini hard che – se trovasse un qualche tipo di riscontro oggettivo – spiegherebbe tante cose che in questa vicenda appaiono davvero inspiegabili, partendo (e finendo) dall’atteggiamento dei magistrati senesi che, in tempi non sospetti, hanno prefigurato quello sfacelo della magistratura arrivato all’apice nel 2019 con il caso Palamara.

Nel momento esatto in cui David Rossi impattava al suolo come un sacco di patate, in una posizione per nulla compatibile a quella che assumerebbe il corpo di un suicida, ma come piuttosto una persona priva di sensi lasciata cadere dopo essere stata trattenuta nel vuoto da sotto le ascelle, assieme a lui iniziava ad agonizzare la magistratura, che soprattutto con la prima inchiesta senese si è circondata di ombre pesanti, difficili da scacciare e che, leggendo questo libro, si addensano come nubi temporalesche.

Scrive Davide Vecchi: “Sia mai che esistano dei colpevoli in Italia, siamo il paese degli impuniti. Da noi pagano sempre i burattini, mai i burattinai, anche se noti e colti con le mani sporche. C’è sempre qualcuno che concede loro il tempo di lavarsele”. Parole dure e incontestabili, come dure e incontestabili sono le evidenze raccolte in questo libro inchiesta che merita di essere studiato con attenzione affinché la luce sul caso David Rossi non venga spenta lasciando i burattinai e i loro sodali in una confortevole ombra.

(ANSA il 28 aprile 2022) - "Noi volevamo fondere, non volevamo vendere" banca Antonveneta. "Giuseppe Mussari" allora presidente di Mps "era assolutamente d'accordo a fare la fusione. Chi si oppose fu la Fondazione Mps, che non voleva diluirsi". Lo ha detto Ettore Gotti Tedeschi in commissione d'inchiesta parlamentare sulla morte di David Rossi. Gotti Tedeschi era responsabile in Italia di Banco Santander all'epoca della vendita alla banca senese di Antonveneta. "L'operazione, al momento, era una buona operazione perché avrebbe portato Mps ad essere la terza banca d'Italia. L'errore, secondo me, fu quello di non aver accettato la proposta di Santander".

David Rossi, secretata l’audizione del perito balistico. Gotti Tedeschi alla commissione: “Post it con mio numero? Non saprei”. Il presidente del cda di Santander Consumer Bank ed ex presidente dello Ior ai commissari: "Non conoscevo il dottor Rossi e non l’ho mai incontrato e se l'ho incontrato non sapevo che fosse lui". Il Fatto Quotidiano il 28 aprile 2022.

Prosegue il lavoro della commissione d’inchiesta sulla morte di David Rossi, l’ex capo area comunicazione di Mps morto la sera del 6 marzo 2013. È iniziata ed è stata immediatamente secretata, su richiesta del perito balistico Paride Minervini, l’audizione. Minervini all’epoca dei fatti era consulente del tribunale di Siena e, la notte della morte del manager, come emerso nel corso di altre audizioni, fu chiamato da un dipendente di Mps, che conosceva personalmente, per cercare di contattare uno dei magistrati senesi pochissimo tempo dopo il decesso.

A seguire è stato sentito Ettore Gotti Tedeschi, presidente del cda di Santander Consumer Bank ed ex presidente dello Ior. “Perché c’era nell’ufficio di Rossi un post it con il mio numero di telefono? Questo non lo so. Non ne ho la più pallida idea. E mi domando perché non sia stata fatta una perizia calligrafica. Posso pensare che glielo abbia dato Mussari dicendogli ‘Se hai bisogno chiamalo’. Ma potrebbero essere stati anche Viola o Profumo. Non conoscevo il dottor Rossi e non l’ho mai incontrato e se l’ho incontrato non sapevo che fosse lui”, ha proseguito Gotti Tedeschi coi commissari. “Ho avuto certamente frequentazioni con banca Mps. Ma ho scoperto che esisteva David Rossi quando ho letto sui giornali della vicenda. David Rossi non mi ha mai parlato, non l’ho mai cercato in vita mia“.

Il manager ha spiegato che “il rapporto con banca Mps di Siena non me lo ricordo, mai sentito parlare di Mps quando ero presidente dello Ior. Lo stesso su Banca Antonveneta. Come Ior mai sentita, mai percepita nella mia testa, mai avuto rapporti. Io ero allo Ior per portarlo alla massima trasparenza possibile. Questo era il mio compito. Noi volevamo fondere, non volevamo vendere” banca Antonveneta. “Giuseppe Mussari” allora presidente di Mps “era assolutamente d’accordo a fare la fusione. Chi si oppose fu la Fondazione Mps, che non voleva diluirsi. L’operazione, al momento, era una buona operazione perché avrebbe portato Mps ad essere la terza banca d’Italia. L’errore, secondo me, fu quello di non aver accettato la proposta di Santander“.

“Non ne conosco l’esistenza e se così fosse stato li avrei denunciati. Io ero stato chiamato da Papa Benedetto XVI per rimettere in ordine le finanze vaticane e portare lo Ior alla massima trasparenza. Non era mio compito punire o occuparmi della chiusura dei conti. Sarebbe avvenuto conseguentemente all’applicazione delle norme che stavo mettendo in atto” ha detto Gotti Tedeschi a proposito dei presunti quattro conti correnti riferibili a persone vicine a Mps e accesi presso lo Ior. “In caso di conti sospetti – ha detto – la procedura era che il conto sarebbe stato chiuso. La normativa antiriciclaggio che io adottai e che fu approvata dal Santo Padre era che nessuno poteva detenere conti che non fossero appartenenti a istituzioni religiose o enti religiosi. Tutti gli altri conti – ha concluso il banchiere – dovevano essere stati spenti e chiusi. Furono mandate lettere a tutti i detentori dei conti che fossero laici di chiudere il conto e trasferirli entro alcuni mesi”. Della presunta esistenza di conti simili, lo stesso Gotti Tedeschi aveva parlato durante un servizio della trasmissione televisiva le Iene andata in onda nel 2019. “Il servizio delle Iene è un collage di domande non fatte e di risposte non dette” ha chiarito l’ex presidente dello Ior ai commissari. “Si è trattato – ha detto Gotti Tedeschi – di un servizio carpito. Sono entrati con una scusa nel mio ufficio dicendo che stavano scrivendo un libro su Mps e che volevano avere alcuni chiarimenti. E io, per tutelare alcune verità che nei libri spesso scompaiono, accettai. Questo giornalista entrò, mise lo zaino a pochi metri, mi fece delle domande e poi mi portò a dare delle risposte”.

Da lastampa.it il 21 aprile 2022.

Spuntano tre nuovi account email dell'ex Capo della Comunicazione di Mps David Rossi. A quanto apprende l'Adnkronos la scoperta è stata fatta nel corso delle indagini svolte dal Ros dei carabinieri per conto della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte dell'ex manager. 

Dagli accertamenti sarebbero stati individuati 3 nuovi account email, due con suffisso Yahoo ed uno con suffisso Gmail, annotati all'interno delle agende prelevate dall'ufficio di Rossi il 7 marzo 2013. L'Ufficio di presidenza della Commissione parlamentare, presieduto da Pierantonio Zanettin, ha disposto che i Ros procedano con una nuova perizia tecnica per verificare l'attuale stato di attività dei tre account e l'eventuale presenza di comunicazioni fino ad oggi mai visionate.

Intanto questo pomeriggio audizione 'lampo' per il poliziotto Mirko Mottula. L'agente, che era in servizio nella centrale operativa della Questura di Siena la notte del decesso del manager Mps, è stato ascoltato per 25 minuti. Al termine dell'audizione l'ufficio di presidenza della commissione d'inchiesta ha deliberato il calendario delle prossime audizioni: giovedì 28 aprile Ettore Gotti Tedeschi, presidente del cda di Santander consumer bank, e il consulente balistico scientifico Paride Minervini; giovedì 5 maggio i carabinieri Angelo Ciampi, Alessandro Scarfone, Rocco Gaudino e Pietro Careddu, che dovevano essere auditi oggi e che sono stati rinviati; lunedì 9 maggio audizione dell'avvocato Giancarlo Pittelli presso la prefettura di Catanzaro. 

David Rossi, spuntano 3 nuovi account mail del manager Mps. Via alla perizia tecnica dei Ros. Il Tempo il 21 aprile 2022.

Emerge un’importante novità sul caso della morte di David Rossi. Spuntano infatti tre nuovi account email dell'ex Capo della Comunicazione di Mps: la scoperta è stata fatta nel corso delle indagini svolte dal Ros dei carabinieri per conto della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte dell'ex manager. Dagli accertamenti sarebbero stati individuati 3 nuovi account email, due con suffisso Yahoo ed uno con suffisso Gmail, annotati all'interno delle agende prelevate dall'ufficio di Rossi il 7 marzo 2013. L'Ufficio di presidenza della Commissione parlamentare, presieduto da Pierantonio Zanettin, ha disposto che i Ros procedano con una nuova perizia tecnica per verificare l'attuale stato di attività dei tre account e l'eventuale presenza di comunicazioni fino ad oggi mai visionate. 

Zanettin ha parlato della novità all’Adnkronos: “È' un dato nuovo rispetto al quale vogliamo fare tutti gli accertamenti per verificare se ci sono novità. La scoperta è frutto del lavoro della nostra Commissione vedremo se sarà possibile trovare qualcosa di nuovo. Noi ce la mettiamo tutta”.

Le Iene, la perizia-choc su David Rossi: "Legato e pestato, gli hanno spappolato il fegato". Libero Quotidiano il 19 maggio 2022.

Le Iene tornano sulla morte di David Rossi. Il programma di Italia 1 smonta quanto sostenuto per ben nove anni dalla Procura di Siena: il capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena non si è suicidato. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti mostrano in esclusiva una perizia su lesioni mai rilevate e una fisico-balistica. Entrambe porterebbero alla stessa conclusione: fu picchiato e poi tenuto in sospeso per i polsi da altre persone fuori dalla finestra, prima di essere buttato giù. A svelare il contenuto delle perizie è stato Carmelo Miceli, avvocato di Antonella Tognazzi, vedova di David. 

Le perizie, ha spiegato il legale a Le Iene, mostrano "che David è stato picchiato violentemente, brutalmente: ha il fegato spaccato con una ginocchiata o un pugno", oltre a ferite da taglio sulle mani che dimostrano abbia "tentato di schivare un coltello o comunque una lama. Ma la parte più importante riguarda le lacerazioni ai polsi "dai quali è stato trattenuto" e le ferite sul sinistro "totalmente sovrapponibili alla cassa dell'orologio che indossava".

Quelle stesse ferite per la perizia sarebbero compatibili con le lesioni di chi "si è sporto fuori da più persone, per le braccia dopo essere stato colpito violentemente, poi viene lasciato cadere da quella persona che prima lascia il braccio destro e poi il braccio sinistro provocando queste escoriazioni, e in quel modo si ha perfettamente una caduta di una persona che arriva a terra nel modo in cui è arrivato David". Nel frattempo di vitale importanza anche i lavori della commissione parlamentare che da mesi cerca di dare spiegazioni a una vicenda tutt'altro che chiara.

Estratto del libro di Davide Vecchi “La verità sul caso David Rossi” pubblicato da “Libero quotidiano” l'8 aprile 2022.  

La nomina del presidente (della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, ndr) era in calendario per il giorno 31 luglio 2001 e da oltre un anno i vertici romani del partito, in particolare Massimo D'Alema, stavano aspettando di veder realizzato l'acquisto di Bnl da parte di Mps. Era un'operazione in merito alla quale Piccini (all'epoca sindaco uscente di Siena, ndr) aveva già espresso le sue forti perplessità proprio a D'Alema in più incontri cominciati nell'estate precedente. Ricorda l'ex sindaco: «Nell'estate del 2000 ero in ferie sul litorale tirrenico, ricevo una telefonata dalla segretaria di D'Alema: era in Toscana [...] e mi disse che aveva assoluto bisogno di parlarmi». I due si incontrarono giorni dopo «nella sala del ristorante appositamente tenuta deserta per noi, con me in costume e lui in completo blu e camicia» prosegue Piccini.

«Mi parlò, ovviamente, della Bnl [...]. Gli dissi che non mi convinceva e che esistevano anche altre possibilità per la banca, pur sempre in chiave aggregativa. Ma promisi comunque che avrei riflettuto sull'opportunità e sulla fattibilità dell'operazione. Ci salutammo su questo. Ma le pressioni arrivavano anche da Vincenzo Visco, allora ministro del Tesoro. Arrivavano anche da Giuliano Amato per interposta persona. Ricordo che lo stesso direttore generale del Monte, Divo Gronchi, mi disse più volte che Amato avrebbe desiderato che l'operazione Bnl venisse fatta. Le pressioni arrivavano anche da Antonio Fazio».

Nel maggio del 2001, quando ormai Piccini è fuori dal Comune e prossimo ad andare alla guida della fondazione, riceve una telefonata da D'Alema. «Telefonata che definirei pro forma dalla quale emerge il suo assenso per l'imminente nomina in Fondazione» dice Piccini. 

A inizio luglio, poche settimane prima della nomina, Piccini riceve una lettera firmata da Mario Draghi, allora direttore generale del ministero del Tesoro guidato da Vincenzo Visco, nella quale è scritto che la sua elezione in fondazione creerà un conflitto d'interessi. Da quando? Da quell'inizio luglio, perché il ministro Visco ha emanato un provvedimento che stabilisce l'ineleggibilità a presidente di fondazioni bancarie controllate per coloro che abbiano ricoperto ruoli istituzionali nei dodici mesi precedenti.

Piccini non lo sapeva ma per il partito a Roma lui è diventato un eretico. La sua colpa?

Essere contrario all'acquisto di Bnl. «D'Alema con la telefonata del maggio 2001 voleva semplicemente sincerarsi di poter fare eleggere una persona che rispondesse direttamente ai suoi desiderata» ricorda Piccini. [...] Mussari «faceva parte del partito [...], era giovane, ambizioso, accentratore: chi meglio di un fedele alla linea come lui poteva essere visto quale presidente che assecondasse i diktat romani?

Dopo la lettera di Draghi che decretava la mia ineleggibilità, Mussari diventò presidente della Fondazione. Lui sì portato compattamente anche dal partito locale, provinciale e regionale». Il 31 luglio 2001, dunque, Mussari diventa presidente della fondazione. Il provvedimento ad personam confezionato da Visco per stoppare Piccini sarà poi stracciato dalla Consulta, l'operazione Bnl naufragherà l'anno successivo [...] Sta di fatto che in quel luglio 2001 Mussari viene incoronato re di Siena. [...] Città nella quale ha avuto appena due amici veri, Masoni e Piccini, e al primo ha rubato la moglie, al secondo ha sfilato la poltrona. E ora si accingeva a sottrargli anche il più affezionato e fidato dei collaboratori: David Rossi.

Sfumata la poltrona in fondazione, il partito ripaga Piccini con un incarico dorato da vicedirettore generale di Mps Banque, la filiale francese del Monte, con uno stipendio da top manager ma lontano da Siena. Piccini prova a portare a Parigi anche Rossi, ma David è un senese e vuole rimanere a Siena, e soprattutto Mussari gli ha già proposto di seguirlo in fondazione come capo della comunicazione. 

[...] Con il passaggio in Rocca Salimbeni, avvenuto nel 2006, «Mussari non solo conferma Rossi al proprio fianco, ma lo investe di un potere immenso. Rossi controllava la comunicazione e in parte il marketing per la Banca Montepaschi» ricorda Piccini. «Gli dà molte responsabilità e molti soldi da gestire. Gli offre potere e ricchezza. [...] Fu l'ingresso in banca che segnò la sua disgrazia. Lui era diventato la scatola nera dell'azione manageriale mussariana. Ciò che faceva Mussari, Rossi lo sapeva.»

Quando nel 2001 varcano la soglia, la fondazione è potente: ha un valore stimato di 3 miliardi e 330 milioni. E decide i sindaci, i presidenti della Provincia, i segretari di partito. [...] Gestire la fondazione è il vero potere... I magistrati hanno sempre tentato di individuare presunte mazzette sulle acquisizioni, invano. 

Non è mai stata trovata nessuna valigetta con i soldi consegnata a questo o a quel politico, perché a Siena la vera tangente è la gestione della banca. E tutte le inchieste nate attorno all'acquisto di Antonveneta hanno ricostruito solo una piccola parte del ruolo che il centrosinistra ha avuto in città e nella banca dal 2001, dall'avvento di Mussari, messo lì come messia e incoronato re di Mps e poi dagli stessi allontanato con ignominia, accusato di aver distrutto Mps, la terza banca d'Italia, la più antica del mondo.

Solo il fascicolo relativo all'aeroporto di Ampugnano, aperto nel 2010, ha visto i magistrati disporre le intercettazioni sulle utenze di Mussari. 

Nel fascicolo iniziale ce n'erano oltre mille di telefonate ritenute utili, che poi però sono state ritenute inutili e distrutte. Restano solo i brogliacci con i nomi degli interlocutori e si sono «salvate» soltanto meno di dieci telefonate trascritte. Due, in particolare, con il presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato. 

La prima registrata il 14 febbraio 2010 nella quale chiede a Mussari se è vera la voce circa la sua candidatura all'Abi, in modo tale da fare qualcosa per sostenerlo. La seconda del 1° aprile sempre 2010: «Mi vergogno a chiedertelo ma, per il nostro torneo a Orbetello - è importante perché noi siamo ormai sull'osso - che rimanga immutata la cifra della sponsorizzazione» da 150.000 . Un'altra telefonata è di Piero Fassino, che il 24 febbraio lo chiama per chiedergli un incontro «così facciamo un po' il punto totale».

Ma telefonate Mussari ne riceve un po' da tutti i politici. È normale. È il suo ruolo, da potente presidente della fondazione prima, poi in quel 2010 della banca Mps, e in procinto di andare a guidare l'Abi. 

Sono relazioni, rapporti sociali, equilibrismi necessari e sovente neppure voluti. Se, come dice Piccini, Rossi era la scatola nera di Mussari, quante cose poteva sapere?

Quante ne avrebbe potute raccontare? Lo ha detto anche Antonella Tognazzi nel dicembre del 2021, ribadendo la sua convinzione che il marito sia stato ucciso: «David era la scatola nera». Nessuno ha mai tentato di aprirla. Eppure sarebbe stato quasi semplice. In fondazione prima e in banca poi, Rossi partecipava attivamente alla gestione delle sponsorizzazioni. E i 150.000 assegnati al circolo del tennis di Orbetello, caro al presidente Amato, erano briciole.

Nel 2001 dalla fondazione escono 118 milioni in erogazioni, nel 2002 sono 132 e nel 2003 salgono a 145 milioni. [...] L'anno successivo la fondazione segna un altro record per le erogazioni, 145 milioni, e investimenti in cofinanziamenti per 430 milioni. [...] Il 2007 è l'anno dell'acquisto di Antonveneta e le erogazioni esplodono a 210 milioni. In sei anni viene distribuito a fondo perduto più di un miliardo, per l'esattezza un miliardo e 92.000 . Centesimo più, centesimo meno. [...] 

Le voci di uscita sono infinite, per cifre di ogni entità, e disegnano la rete relazionale tessuta dalla fondazione. Soldi che vanno a tutti, probabilmente bastava chiederli. All'università cittadina, alle società del Comune e di sviluppo, alla diocesi, alle contrade del Palio. [...] Da Siena i soldi vanno anche a Lecce: all'arcidiocesi (120.000 ), a varie onlus e alla Provincia (50.000 ). [...] Poi ai circoli Arci, alle singole chiese, ai rioni, a tutte le amministrazioni a guida Pd della Toscana.

A partire dalla stessa Regione fino ai numerosi Comuni. Tutti quelli del territorio tranne uno, Gagliole, l'unico guidato dal centrodestra. Il centrosinistra, si sa, per fare le lotte in Italia ha bisogno di fondi. Lo stesso Mussari in dieci anni finanzia personalmente prima i Ds e poi il Pd con complessivi 673.000 . Prima in Comune con Piccini, poi in fondazione e in banca al fianco di Mussari, quante cose poteva sapere David.

Quante ne avrebbe potute raccontare. Perché non c'erano solo il Comune e Mps, ma l'intero circo che vi ruotava intorno. C'erano il potere politico e quello finanziario, ma anche l'università, il clero, la massoneria, i progetti e i sogni di molti realizzabili solo con la benedizione di Piccini o Mussari. [...] E David era stato fidato e affidabile braccio destro prima di uno e poi dell'altro. Per non parlare dei soldi, tutti quei miliardi elargiti, donati a fondo perduto. E poi cerimonie, feste, viaggi, premi. Avevano una contropartita? Sostegno, certo, potere sicuramente. Mps finanziava tutto e tutti dovevano divertirsi, essere felici e ringraziarla. Tutti o almeno tutti quelli che era bene avere per amici.

Nel libro-inchiesta di Davide Vecchi la verità sul caso David Rossi, il dirigente MPS volato dalla finestra del suo ufficio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Aprile 2022.

Tutto quello che non quadra dopo la prima (frettolosa) archiviazione del caso: le omissioni nelle indagini che lasciano aperti moltissimi interrogativi. Il libro verrà presentato al Festival del Giornalismo di Perugia domenica 10 aprile alle 15.30

David Rossi il capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, venne trovato riverso senza vita sul selciato sottostante alla finestra del suo ufficio al terzo piano, in circostanze archiviate come suicidio, ma che fin da subito sollevano moltissimi sospetti. Era il 6 marzo 2013. Dopo oltre otto anni, nel luglio 2021, è stata istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta per far luce sul mistero legato a questa morte fatto passare frettolosamente come suicidio, ma suicidio non è stato. 

Il giornalista Davide Vecchi, attuale direttore del quotidiano Il Tempo e delle testate del Gruppo Corriere e già autore nel 2017 di un precedente libro di successo sul caso “Il caso Davide Rossi”, è stato chiamato, unico giornalista in questo ruolo, a fare da consulente della commissione stessa. Nel suo nuovo libro, “La verità sul caso David Rossi“,di cui anticipiamo qui di seguito alcuni passaggi, Vecchi ha ricostruito tutto quello che ancora non si sapeva, grazie a testimonianze esclusive, perizie e documenti inediti. Quello che viene portato alla luce dalla sua inchiesta giornalistica puntuale e sconcertante, è che soltanto riaprendo il caso con l’ipotesi di omicidio si potrà evitare che quello sulla morte di David Rossi venga archiviato come l’ennesimo mistero italiano irrisolto dalla magistratura. Ecco un’anticipazione del suo libro in uscita oggi giovedì 7 aprile. 

«Saranno state le ventuno circa, ricordo che ero a casa, avevo cenato con la mia famiglia e stavo sistemando la cucina, quando ho ricevuto una telefonata da parte di Livio Marini.» Alessia Baiocchi all’epoca dei fatti era vicequestore di Siena. Il 6 marzo 2013 non era di turno, ma fu contattata dal sovrintendente Marini che con la volante era arrivato nel vicolo Monte Pio. «Marini mi disse che si trovava lì per una segnalazione di suicidio e la persona che si era buttata dalla finestra era David Rossi.»  Poi Marini aggiunge espressamente: «Comunque qui è presente sul posto il colonnello Aglieco che ha già preso in mano la situazione».  

Dopo appena dieci minuti Baiocchi riceve un’altra telefonata, sempre da Marini. «Aglieco ha suggerito a noi della volante di andare all’esterno dell’ufficio di Rossi in modo che nessuno possa entrare.» E aggiunge: «Dottoressa, perché non viene, visto che abita qui vicino?».  Il vicequestore prende la giacca e raggiunge vicolo Monte Pio. «Sarò arrivata sul posto intorno alle 21.30.»  

I sanitari avevano appena terminato le operazioni di rianimazione, stavano mettendo via la strumentazione e nel vicolo, accanto al cadavere, non doveva esserci nessuno tranne il personale del 118, almeno stando a quanto finora saputo. Baiocchi, invece, racconta tutt’altra scena.  «Ho visto subito il colonnello Aglieco, il colonnello Mortillaro, il maresciallo Cardiello.» Poi «la carabiniera Maria Amoroso, il tenente Cetola, il capitano Manichino. C’erano quattro o cinque ufficiali dell’Arma e una loro pattuglia, […] a un certo punto è venuto anche Grandini, all’epoca tenente colonnello: i carabinieri erano veramente tanti». 

E la polizia, a cui spettava l’intervento? Non era lì. Marini e Gigli erano a piantonare l’ufficio al terzo piano dove li aveva mandati sin da subito Aglieco. Non basta, perché Baiocchi riferisce dettagli ancora più importanti. Uno in particolare: «Il colonnello Aglieco era nel vicolo ed era al di là del corpo di David Rossi». E con lui «c’erano il colonnello Mortillaro e il maresciallo Cardiello».

Sono le 21.30. Il vicolo non è transennato, nessuno ha ancora avvisato la polizia scientifica, e a ridosso, intorno e addirittura oltre il corpo di David, mentre i sanitari stanno mettendo via gli strumenti, ci sono tre uomini dell’Arma che non dovrebbero essere lì. Baiocchi va verso Aglieco perché è il più alto in grado e lui le comunica di aver «già sentito anche il questore Benedetti». Mentre Cardiello aggiunge di aver «chiamato il pm di turno, Nicola Marini».

L’operatività dei Carabinieri senesi è encomiabile. Chissà cosa fanno quando gli interventi spettano a loro. Peccato che quella sera si dimentichino di chiamare la scientifica. Ma del resto quando c’è un cadavere a terra a che serve? I rilievi sono un dettaglio. Il merito andrebbe attribuito per lo più al colonnello Pasquale Aglieco, perché lui quella sera si trovava lì per puro caso, non era in servizio ed era distante chilometri da casa. «Passavo di lì.» 

Aglieco racconta sin da subito che quella sera aveva finito il turno e le sigarette, così in tuta era uscito per acquistarle e si era spinto a oltre tre chilometri dal suo alloggio di servizio. Mentre era al distributore automatico, dice, «vedo con la coda dell’occhio la volante e inizio a seguirla». Quindi arriva nel vicolo insieme a Marini e Gigli. Eppure, ricorda il primo, «io vidi che tentava di superarci, così l’ho bloccato per il braccio e si è qualificato come colonnello, dicendoci che l’uomo che era a terra morto si chiamava David Rossi ed era una persona importante perché capo della comunicazione di Mps, invitandoci a salire nel suo ufficio affinché controllassimo che nessuno vi entrasse». Non solo, Aglieco comunica ai due di allontanarsi senza preoccuparsi di lasciarlo solo, perché stava arrivando una radiomobile dei carabinieri. 

Dunque, nonostante stesse comprando le sigarette e avesse casualmente visto e seguito la volante, Aglieco era a conoscenza sia delle generalità del cadavere sia dell’imminente arrivo dell’auto dell’Arma. E appena arriva nel vicolo prende il comando delle operazioni. Che spettassero alla polizia e lui fosse a riposo sono altri dettagli. Chiama il questore e i suoi uomini: prima l’allora maresciallo e oggi tenente dell’Arma Marcello Cardiello, che quella sera non era in servizio e si presenta in abiti civili; poi Edoardo Cetola, oggi maggiore dei carabinieri, anche lui fuori servizio e in abiti civili; infine Giuseppe Manichino, tenente, che quel giorno e quello precedente era addirittura in licenza e arriva sul posto, pure lui, in borghese. 

Aglieco ne chiama altri. Fa avvisare da Cardiello il pm di turno, accoglie il vicequestore Baiocchi. Insomma, ha in mano la situazione. E quando il magistrato Nicola Marini arriva insieme ad altri due pm, Antonino Nastasi e Aldo Natalini, gli va incontro e fa praticamente gli onori di casa. O, meglio, di quella che sembra ormai la caserma da campo dei carabinieri. Sono tutti lì. Le operazioni spettavano alla polizia? Sì. È annotato anche nella scheda di intervento della volante di Marini e Gigli. Ma se n’è accorta solo la sala operativa dell’Arma, che riceve la telefonata di Mingrone alle 20.45 e avvisa la questura per passare appunto le consegne. La stessa Baiocchi, nel momento in cui arriva sul vicolo, vede un tale spiegamento di uomini dei carabinieri da credere che spetti a loro l’intervento. E quando, dopo oltre un’ora, viene avvisata, lo fa presente al pm di turno, Nicola Marini, sentendosi rispondere che non ha importanza, che ormai c’è l’Arma e dunque la polizia può occuparsi della rimozione del cadavere.  

Alle 21.38 il centralino del 118 registra una telefonata, l’ultima di appena sei allegate e disponibili agli atti. «118 Siena, dica.» «Buonasera, sono il maresciallo Cardiello dei carabinieri, volevo chiederle se era possibile attivare il carro funebre per la rimozione salma in via Dei Rossi angolo via del Refe Nero.» Già, Baiocchi non fa in tempo a occuparsi neppure di quello. Perché nel frattempo dal vicolo era partito un vero e proprio corteo diretto verso l’ufficio di Rossi, in Rocca Salimbeni. E non trovando più nessuno intorno, lei si era allontanata per raggiungere il pm e sapere come dovevano operare. Salita al terzo piano trova Aglieco, sempre lui. I due, raccontano i testimoni, si incontrano all’ingresso dell’ufficio di Rossi e nasce un battibecco proprio sulle competenze dell’intervento. Il pm Marini se ne accorge, li raggiunge e dice a Baiocchi di allontanarsi da lì, tornare nel vicolo e occuparsi della rimozione del cadavere. Il vicequestore esegue. Andandosene si gira e si rivolge ad Aglieco: «Avete avvisato la scientifica?». «No.»

La chiama lei. Sono trascorse ormai quasi tre ore da quando David è precipitato. L’ufficio è già stato invaso da carabinieri e pm, così il vicolo. Addirittura l’efficientissimo Cardiello ha già chiamato il 118 per far rimuovere il cadavere, ma la scientifica non è ancora stata avvisata. «Sono stata contattata verso le 22.15 a casa e sono arrivata alle 22.50 sul posto. Prima ho fatto il sopralluogo a terra. Era già presente la rimozione salma, quindi sono stata proprio l’ultima a essere chiamata. Alle 23.30 ho terminato il sopralluogo in Monte Pio.» Sul posto interviene Federica Romano, assistente capo coordinatore della polizia di stato. Quando lei arriva, il cadavere è già stato preparato nel sacco bianco della mortuaria per il trasporto. Per scattare le foto devono liberarlo e riadagiarlo sul selciato. 

La scientifica è l’ultima a essere chiamata ed è l’ultima a lasciare il vicolo. Dalle 23.30 in poi in quella stradina lunga appena ventotto metri e larga dai tre ai cinque metri non c’è nessuno. Resta un furgone parcheggiato sul lato sinistro poco dopo l’imbocco e uno scooter parcheggiato sin dal mattino contro il muro che chiude la strada, quindi oltre il punto dove è caduto Rossi. Quando se ne vanno le forze dell’ordine, inizia il viavai di curiosi e passanti. Del resto lì è appena stato trovato il cadavere di un personaggio a dir poco noto in città e la voce si diffonde rapidamente. Un carabiniere rimane all’imbocco del vicolo ma per un’ora, forse meno. Perché poco dopo mezzanotte arriva il proprietario dello scooter, Emanuele Dragoni.

Dragoni è un dipendente della banca. Si occupa di manutenzione. Ogni giorno parcheggia il motorino lì, in fondo al vicolo. Lo fa anche quel 6 marzo. «Sono uscito dal lavoro nel pomeriggio ma poi sono andato in palestra. Quando sono tornato per riprenderlo dopo le ventidue ho visto i carabinieri e un collega lì presente, mi ha spiegato cosa era accaduto, così me ne sono andato a casa della mia fidanzata.» Passano due ore, però, e torna per riprovare a prendere lo scooter e tornare a casa propria. «A mezzanotte circa sono andato di nuovo e ho potuto recuperare la moto perché lì non c’era nessuno.»

Si erano trasferiti tutti in Rocca Salimbeni, nell’ufficio di Rossi. Carabinieri, magistrati. Una dozzina di persone era dentro quella stanza. Tranne chi avrebbe dovuto esserci realmente e avrebbe dovuto entrare prima di tutti: la polizia scientifica. Che invece potrà accedervi solo alle 00.45. Come nel vicolo, anche nell’ufficio la dottoressa Romano arriva per ultima. Tutti nell’ufficio di Rossi. Ciascuno a fare il proprio mestiere.

«La carenza di dati disponibili relativamente al sopralluogo nell’ufficio di David Rossi e nella sede del rinvenimento del cadavere, nonché all’autopsia (sia per quel che riguarda il rilievo, la descrizione e la datazione delle lesioni oltre che alla repertazione di elementi utili per la ricostruzione delle dinamiche dell’evento mortale), impongono l’esumazione del cadavere e un sopralluogo.»

È il 16 marzo 2016 ed è tutto da rifare. A tre anni di distanza dalla scomparsa del manager Mps, l’indagine affidata al pm Andrea Boni certifica quanto si sapeva sin da settembre del 2013 ed era scritto nell’opposizione alla prima archiviazione depositata dall’avvocato Goracci: i pm Marini e Natalini non avevano svolto alcun tipo di accertamento e quel poco che erano stati costretti a fare, come l’autopsia, era risultato superficiale e pieno di errori e omissioni. Boni ha tentato di fare il suo mestiere, cercare la verità, e si è scontrato con le voragini investigative di chi l’ha preceduto. È grazie alla sua tenacia, ad esempio, che si è scoperta la distruzione dei fazzolettini.

Il perito nominato dal magistrato trova negli atti del primo fascicolo l’elenco degli oggetti repertati e ne chiede l’acquisizione. Tra questi, i sette fazzoletti di carta sporchi di sangue rinvenuti nel cestino dell’ufficio. Sono disponibili, dicono le carte. Quindi fa richiesta per analizzarli, ma nessuno risponde. Lui insiste, gli uffici tergiversano. Quei fazzoletti sarebbero fondamentali, perché i periti ipotizzano a ragione che siano stati usati per tamponare le ferite al volto, non i taglietti al polso vecchi di due giorni, come invece hanno sostenuto sin da subito gli inquirenti. Boni vuole analizzarli, sono indicati tra i reperti conservati, eppure pare non esistano. Dopo varie insistenze e richieste ufficiali, sulla sua scrivania arriva un fogliettino striminzito: è l’atto con cui nell’agosto del 2013 Natalini ne aveva disposto la distruzione. Quindi niente fazzolettini e nessuna analisi: non era stata fatta. E niente celle telefoniche o tabulati: non sono stati acquisiti né ora si possono acquisire. Troppo tardi, sono andati distrutti. 

Sempre Boni scopre che la banca più antica del mondo non aveva i registri degli ingressi nella sede. Scopre inoltre che il portiere Riccucci, sentito più volte per sapere come mai non avesse visto sui monitor David agonizzante per ventidue minuti, ha una memoria a dir poco inaffidabile e fornisce spiegazioni incredibili. Un esempio? Boni gli chiede una cosa semplice: «Ma lei come faceva la sera a sapere che tutti erano usciti dalla banca e chiudere?». Risposta: «Spegnevo le luci e se c’era qualcuno mi chiamava per farsele riaccendere». 

Il pm però non si lascia sopraffare dallo sconforto. Prende coscienza che va rifatto tutto dall’inizio, così nomina due consulenti tecnici scegliendoli ben distanti da Siena, città piccola in cui tutto ha ruotato e ruota attorno al Monte: chiunque qui ha collegamenti diretti o indiretti con la banca. Il pm si rivolge a Cristina Cattaneo dell’istituto di medicina legale dell’Università di Milano e al tenente colonnello Davide Zavattaro del Ris, il reparto investigazioni scientifiche dei Carabinieri. Il quesito che pone loro è chiarissimo: la morte di David Rossi è suicidio o omicidio?

Dopo meno di un mese, il 6 aprile 2016, il corpo viene riesumato e portato in laboratorio per l’analisi della dottoressa Cattaneo, mentre la simulazione della caduta è fissata per il successivo 25 giugno: serve più tempo perché è necessario reperire un manichino con la stessa corporatura di Rossi, altrimenti sarebbe inutile.

Inoltre il perito di parte, Luca Scarselli, ha compiuto un’analisi talmente accurata dell’unico video disponibile, da aver ricostruito la dinamica della caduta, la velocità dell’impatto al suolo, la posizione del corpo mentre precipita e una serie di elementi che Boni vuole verificare e comprendere in maniera approfondita. Non ha intenzione di lasciare dubbi, tenta di arrivare a scrivere e certificare la verità.

È evidente agli stessi periti della procura quanto strana sia la postura di David mentre precipita: a sacco di patate, piegato in due, con gli arti rivolti verso l’alto, come fosse caduto già privo di sensi. C’è poi un altro elemento fondamentale: l’oggetto che cade venti minuti dopo David. Secondo Scarselli si tratta del suo orologio. Qualcuno lo ha buttato dalla finestra a diversi minuti di distanza. Possibile? Di certo sul polso del cadavere viene trovato un ematoma perfettamente sovrapponibile alla cassa del Sector, così come è certo che l’orologio viene rinvenuto distante dal corpo e con le lancette che segnano le 20.10, non le 19.44, ora in cui David ha impattato sul selciato. Dal video, inoltre, è evidente che Rossi cadendo non ha sbattuto le braccia a terra e ha persino le maniche della camicia abbassate con i polsini allacciati. Anche questo è strano. E anche sull’orologio Boni vuole fare tutti gli accertamenti possibili.

La Procura di Milano ha un manichino perfetto per la simulazione della caduta: è quello utilizzato nel 1971 per ricostruire il volo fatto da Giuseppe Pinelli dal quarto piano della questura milanese, la notte del 15 dicembre 1969, un altro suicidio decisamente particolare. Tutto sembra procedere in maniera spedita. Ma il 21 aprile 2016 Boni riceve la comunicazione del suo trasferimento, ad appena un anno dal suo arrivo. Un notevole avanzamento di carriera: il ministero di Giustizia lo ha nominato procuratore capo di Urbino, accettando con rapidità sorprendente la richiesta che aveva presentato prima di avere il fascicolo Rossi, e dovrà prendere servizio a fine giugno.

L’indagine deve dunque passare di mano. Viene affidata a un nuovo pm, Fabio Ghiozzi. Se ne occuperà insieme al procuratore capo Salvatore Vitello, che decide di farsene carico. Il loro primo provvedimento è del 13 giugno 2016: danno disposizione ai vigili del fuoco e ai carabinieri di predisporre tutto ciò che è necessario a Zavattaro del Ris per le operazioni da compiere il 25 giugno. I rilievi durano sette ore e mezzo. Vengono prelevati oltre trenta reperti dalla parete esterna dell’ufficio. Altri dall’interno. La simulazione della caduta però non viene effettuata. O meglio, si decide di non usare il manichino ma di eseguire delle prove con un vigile del fuoco provvisto di imbracatura. L’uomo tenta di ripetere la ricostruzione fatta dai pm nell’archiviazione accolta dal gip Gaggelli e di inscenare l’ipotesi dei legali. Ma sollevarlo e spingerlo fuori dalla finestra non appare semplice, anche perché non è esattamente della stessa stazza di David, tutt’altro: né altezza né peso corrispondono. Per riuscire ad arrampicarsi senza sfondare il fan coil – come avrebbe fatto Rossi secondo chi ne ha decretato il suicidio – il pompiere deve aggrapparsi a una corda appositamente collocata sul battente della finestra per la simulazione.

Il vigile del fuoco inoltre tenta di imitare la dinamica reggendosi al davanzale con il volto rivolto alla parete ma, se si fosse lasciato andare, il corpo avrebbe sbattuto contro il muro, avrebbe ruotato e non sarebbe caduto perpendicolare né sarebbe atterrato con braccia e gambe rivolte verso l’alto. Poi i dubbi, sempre più numerosi, sulle ferite: sotto le ascelle e sulle braccia di Rossi l’autopsia ha accertato ematomi. Secondo i periti di parte dei famigliari erano frutto di «costrizioni» e «afferramento» da parte di terzi. Secondo i pm Marini e Natalini, invece, erano stati causati dal davanzale al quale Rossi si sarebbe aggrappato prima di lanciarsi nel vuoto. La simulazione ha accertato che nulla sulla finestra o all’esterno poteva in alcun modo lesionare gli arti come accaduto al manager.

Al termine delle operazioni gli sguardi sconsolati dei vigili del fuoco dicono tutto. Loro ci hanno provato a fare ciò che è stato chiesto, ma si è rivelato impossibile. Come è stato impossibile cercare tracce utili sui reperti a distanza di trentanove mesi di pioggia, neve, passaggi di persone, auto. Le indagini chiedono addirittura di individuare parti di Dna, ma trovare indizi seppur minimi è pura utopia dopo tutto quel tempo. L’unica certezza sembra essere il buco nero delle indagini iniziali. (si ringrazia l’editore Chiare Lettere) Redazione CdG 1947

La verità sul caso David Rossi, il libro-inchiesta di Davide Vecchi. L’anticipazione esclusiva: “Il morto è il colpevole perfetto”. Ecco cosa non quadra dopo la prima (frettolosa) archiviazione del caso: le omissioni, le indagini che lasciano aperti moltissimi interrogativi. Davide Vecchi su Il Tempo il 6 aprile 2022.

Il 6 marzo 2013, il capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, David Rossi, viene trovato riverso senza vita sul selciato sottostante alla finestra del suo ufficio al terzo piano, in circostanze archiviate come suicidio, ma che fin da subito sollevano moltissimi sospetti. Nel luglio 2021, oltre otto anni dopo, è stata istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta per far luce sul mistero legato a questa morte. L’ex inviato del Fatto Quotidiano Davide Vecchi, oggi direttore del quotidiano Il Tempo e delle testate del Gruppo Corriere e già autore nel 2017 di un libro di successo sul caso, è stato coinvolto in veste di consulente della commissione stessa (unico giornalista in questo ruolo). Nel suo nuovo libro, La verità sul caso David Rossi, in uscita giovedì 7 aprile e di cui anticipiamo un brano qui di seguito, Vecchi ricostruisce tutto ciò che ancora non sapevamo sulla vicenda, grazie a testimonianze esclusive, perizie e documenti inediti. Ciò che emerge dalla sua inchiesta puntuale e sconcertante, è che solo riaprendo il caso con l’ipotesi di omicidio si potrà evitare che quello sulla morte di David Rossi venga archiviato come l’ennesimo mistero italiano irrisolto. Ecco un’anticipazione in esclusiva.

«La carenza di dati disponibili relativamente al sopralluogo nell’ufficio di David Rossi e nella sede del rinvenimento del cadavere, nonché all’autopsia (sia per quel che riguarda il rilievo, la descrizione e la datazione delle lesioni oltre che alla repertazione di elementi utili per la ricostruzione delle dinamiche dell’evento mortale), impongono l’esumazione del cadavere e un sopralluogo.»

È il 16 marzo 2016 ed è tutto da rifare. A tre anni di distanza dalla scomparsa del manager Mps, l’indagine affidata al pm Andrea Boni certifica quanto si sapeva sin da settembre del 2013 ed era scritto nell’opposizione alla prima archiviazione depositata dall’avvocato Goracci: i pm Marini e Natalini non avevano svolto alcun tipo di accertamento e quel poco che erano stati costretti a fare, come l’autopsia, era risultato superficiale e pieno di errori e omissioni.

Boni ha tentato di fare il suo mestiere, cercare la verità, e si è scontrato con le voragini investigative di chi l’ha preceduto. È grazie alla sua tenacia, ad esempio, che si è scoperta la distruzione dei fazzolettini.

Il perito nominato dal magistrato trova negli atti del primo fascicolo l’elenco degli oggetti repertati e ne chiede l’acquisizione. Tra questi, i sette fazzoletti di carta sporchi di sangue rinvenuti nel cestino dell’ufficio. Sono disponibili, dicono le carte. Quindi fa richiesta per analizzarli, ma nessuno risponde. Lui insiste, gli uffici tergiversano. Quei fazzoletti sarebbero fondamentali, perché i periti ipotizzano a ragione che siano stati usati per tamponare le ferite al volto, non i taglietti al polso vecchi di due giorni, come invece hanno sostenuto sin da subito gli inquirenti. Boni vuole analizzarli, sono indicati tra i reperti conservati, eppure pare non esistano. Dopo varie insistenze e richieste ufficiali, sulla sua scrivania arriva un fogliettino striminzito: è l’atto con cui nell’agosto del 2013 Natalini ne aveva disposto la distruzione. Quindi niente fazzolettini e nessuna analisi: non era stata fatta. E niente celle telefoniche o tabulati: non sono stati acquisiti né ora si possono acquisire. Troppo tardi, sono andati distrutti.

Sempre Boni scopre che la banca più antica del mondo non aveva i registri degli ingressi nella sede. Scopre inoltre che il portiere Riccucci, sentito più volte per sapere come mai non avesse visto sui monitor David agonizzante per ventidue minuti, ha una memoria a dir poco inaffidabile e fornisce spiegazioni incredibili. Un esempio? Boni gli chiede una cosa semplice: «Ma lei come faceva la sera a sapere che tutti erano usciti dalla banca e chiudere?». Risposta: «Spegnevo le luci e se c’era qualcuno mi chiamava per farsele riaccendere».

Il pm però non si lascia sopraffare dallo sconforto. Prende coscienza che va rifatto tutto dall’inizio, così nomina due consulenti tecnici scegliendoli ben distanti da Siena, città piccola in cui tutto ha ruotato e ruota attorno al Monte: chiunque qui ha collegamenti diretti o indiretti con la banca. Il pm si rivolge a Cristina Cattaneo dell’istituto di medicina legale dell’Università di Milano e al tenente colonnello Davide Zavattaro del Ris, il reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri. Il quesito che pone loro è chiarissimo: la morte di David Rossi è suicidio o omicidio?

Dopo meno di un mese, il 6 aprile 2016, il corpo viene riesumato e portato in laboratorio per l’analisi della dottoressa Cattaneo, mentre la simulazione della caduta è fissata per il successivo 25 giugno: serve più tempo perché è necessario reperire un manichino con la stessa corporatura di Rossi, altrimenti sarebbe inutile.

Inoltre il perito di parte, Luca Scarselli, ha compiuto un’analisi talmente accurata dell’unico video disponibile, da aver ricostruito la dinamica della caduta, la velocità dell’impatto al suolo, la posizione del corpo mentre precipita e una serie di elementi che Boni vuole verificare e comprendere in maniera approfondita. Non ha intenzione di lasciare dubbi, tenta di arrivare a scrivere e certificare la verità.

È evidente agli stessi periti della procura quanto strana sia la postura di David mentre precipita: a sacco di patate, piegato in due, con gli arti rivolti verso l’alto, come fosse caduto già privo di sensi. C’è poi un altro elemento fondamentale: l’oggetto che cade venti minuti dopo David. Secondo Scarselli si tratta del suo orologio. Qualcuno lo ha buttato dalla finestra a diversi minuti di distanza. Possibile? Di certo sul polso del cadavere viene trovato un ematoma perfettamente sovrapponibile alla cassa del Sector, così come è certo che l’orologio viene rinvenuto distante dal corpo e con le lancette che segnano le 20.10, non le 19.44, ora in cui David ha impattato sul selciato. Dal video, inoltre, è evidente che Rossi cadendo non ha sbattuto le braccia a terra e ha persino le maniche della camicia abbassate con i polsini allacciati. Anche questo è strano. E anche sull’orologio Boni vuole fare tutti gli accertamenti possibili.

La Procura di Milano ha un manichino perfetto per la simulazione della caduta: è quello utilizzato nel 1971 per ricostruire il volo fatto da Giuseppe Pinelli dal quarto piano della questura milanese, la notte del 15 dicembre 1969, un altro suicidio decisamente particolare.

Tutto sembra procedere in maniera spedita. Ma il 21 aprile 2016 Boni riceve la comunicazione del suo trasferimento, ad appena un anno dal suo arrivo. Un notevole avanzamento di carriera: il ministero di Giustizia lo ha nominato procuratore capo di Urbino, accettando con rapidità sorprendente la richiesta che aveva presentato prima di avere il fascicolo Rossi, e dovrà prendere servizio a fine giugno.

L’indagine deve dunque passare di mano. Viene affidata a un nuovo pm, Fabio Ghiozzi. Se ne occuperà insieme al procuratore capo Salvatore Vitello, che decide di farsene carico.

Il loro primo provvedimento è del 13 giugno 2016: danno disposizione ai vigili del fuoco e ai carabinieri di predisporre tutto ciò che è necessario a Zavattaro del Ris per le operazioni da compiere il 25 giugno. I rilievi durano sette ore e mezzo. Vengono prelevati oltre trenta reperti dalla parete esterna dell’ufficio. Altri dall’interno. La simulazione della caduta però non viene effettuata. O meglio, si decide di non usare il manichino ma di eseguire delle prove con un vigile del fuoco provvisto di imbracatura. L’uomo tenta di ripetere la ricostruzione fatta dai pm nell’archiviazione accolta dal gip Gaggelli e di inscenare l’ipotesi dei legali. Ma sollevarlo e spingerlo fuori dalla finestra non appare semplice, anche perché non è esattamente della stessa stazza di David, tutt’altro: né altezza né peso corrispondono. Per riuscire ad arrampicarsi senza sfondare il fan coil – come avrebbe fatto Rossi secondo chi ne ha decretato il suicidio – il pompiere deve aggrapparsi a una corda appositamente collocata sul battente della finestra per la simulazione.

Il vigile del fuoco inoltre tenta di imitare la dinamica reggendosi al davanzale con il volto rivolto alla parete ma, se si fosse lasciato andare, il corpo avrebbe sbattuto contro il muro, avrebbe ruotato e non sarebbe caduto perpendicolare né sarebbe atterrato con braccia e gambe rivolte verso l’alto.

Poi i dubbi, sempre più numerosi, sulle ferite: sotto le ascelle e sulle braccia di Rossi l’autopsia ha accertato ematomi. Secondo i periti di parte dei famigliari erano frutto di «costrizioni» e «afferramento» da parte di terzi. Secondo i pm Marini e Natalini, invece, erano stati causati dal davanzale al quale Rossi si sarebbe aggrappato prima di lanciarsi nel vuoto. La simulazione ha accertato che nulla sulla finestra o all’esterno poteva in alcun modo lesionare gli arti come accaduto al manager.

Al termine delle operazioni gli sguardi sconsolati dei vigili del fuoco dicono tutto. Loro ci hanno provato a fare ciò che è stato chiesto, ma si è rivelato impossibile. Come è stato impossibile cercare tracce utili sui reperti a distanza di trentanove mesi di pioggia, neve, passaggi di persone, auto. Le indagini chiedono addirittura di individuare parti di Dna, ma trovare indizi seppur minimi è pura utopia dopo tutto quel tempo. L’unica certezza sembra essere il buco nero delle indagini iniziali.

La verità sul caso David Rossi, tutto quello che ancora non sapevamo. L'anticipazione del libro-inchiesta di Davide Vecchi. Il Tempo il 06 aprile 2022.

È stato suicidio. Una verità sottoscritta prima ancora di essere accertata. Da qui una sequela inverosimile di omissioni, leggerezze, errori madornali nel corso delle prime indagini, quelle che avrebbero dovuto congelare la scena, rilevare tracce e presenze sospette una sera piovosa del 6 marzo 2013 a Siena, nella sede centrale del Monte dei Paschi, quando il capo della comunicazione David Rossi viene trovato riverso senza vita sul selciato dopo essere precipitato dal suo ufficio al terzo piano. Invece gli inquirenti, secondo quanto sta emergendo dai lavori della commissione parlamentare d’inchiesta insediatasi nel luglio del 2021, avrebbero manomesso ogni indizio apparente e silenziato ogni possibile prova. Perché? Cosa c’era da nascondere?

L’ex inviato del Fatto Quotidiano Davide Vecchi, oggi direttore del quotidiano Il Tempo e delle testate del Gruppo Corriere e già autore nel 2017 di un libro di successo sul caso, è stato coinvolto in veste di consulente della commissione stessa (unico giornalista in questo ruolo). Nel suo nuovo libro, "La verità sul caso David Rossi", in uscita domani giovedì 7 aprile e di cui anticipiamo un brano qui di seguito, Vecchi ricostruisce tutto ciò che ancora non sapevamo sulla vicenda, grazie a testimonianze esclusive, perizie e documenti inediti. Ciò che emerge dalla sua inchiesta puntuale e sconcertante, è che solo riaprendo il caso con l’ipotesi di omicidio si potrà evitare che quello sulla morte di David Rossi venga archiviato come l’ennesimo mistero italiano irrisolto. Domenica prossima 10 aprile il direttore de Il Tempo presenterà il suo ultimo libro al "Festival giornalismo di Perugia" insieme con Antonella Tognazzi (vedova Rossi) e Amalia De Simone. Ecco un’anticipazione in esclusiva.

«Saranno state le ventuno circa, ricordo che ero a casa, avevo cenato con la mia famiglia e stavo sistemando la cucina, quando ho ricevuto una telefonata da parte di Livio Marini.» 

Alessia Baiocchi all’epoca dei fatti era vicequestore di Siena. Il 6 marzo 2013 non era di turno, ma fu contattata dal sovrintendente Marini che con la volante era arrivato nel vicolo Monte Pio. «Marini mi disse che si trovava lì per una segnalazione di suicidio e la persona che si era buttata dalla finestra era David Rossi.» 

Poi Marini aggiunge espressamente: «Comunque qui è presente sul posto il colonnello Aglieco che ha già preso in mano la situazione». 

Dopo appena dieci minuti Baiocchi riceve un’altra telefonata, sempre da Marini. «Aglieco ha suggerito a noi della volante di andare all’esterno dell’ufficio di Rossi in modo che nessuno possa entrare.» E aggiunge: «Dottoressa, perché non viene, visto che abita qui vicino?». 

Il vicequestore prende la giacca e raggiunge vicolo Monte Pio. «Sarò arrivata sul posto intorno alle 21.30.» 

I sanitari avevano appena terminato le operazioni di rianimazione, stavano mettendo via la strumentazione e nel vicolo, accanto al cadavere, non doveva esserci nessuno tranne il personale del 118, almeno stando a quanto finora saputo. Baiocchi, invece, racconta tutt’altra scena. 

«Ho visto subito il colonnello Aglieco, il colonnello Mortillaro, il maresciallo Cardiello.» Poi «la carabiniera Maria Amoroso, il tenente Cetola, il capitano Manichino. C’erano quattro o cinque ufficiali dell’Arma e una loro pattuglia, [...] a un certo punto è venuto anche Grandini, all’epoca tenente colonnello: i carabinieri erano veramente tanti». 

E la polizia, a cui spettava l’intervento? Non era lì. Marini e Gigli erano a piantonare l’ufficio al terzo piano dove li aveva mandati sin da subito Aglieco. Non basta, perché Baiocchi riferisce dettagli ancora più importanti. Uno in particolare: «Il colonnello Aglieco era nel vicolo ed era al di là del corpo di David Rossi». E con lui «c’erano il colonnello Mortillaro e il maresciallo Cardiello».

Sono le 21.30. Il vicolo non è transennato, nessuno ha ancora avvisato la polizia scientifica, e a ridosso, intorno e addirittura oltre il corpo di David, mentre i sanitari stanno mettendo via gli strumenti, ci sono tre uomini dell’Arma che non dovrebbero essere lì. Baiocchi va verso Aglieco perché è il più alto in grado e lui le comunica di aver «già sentito anche il questore Benedetti». Mentre Cardiello aggiunge di aver «chiamato il pm di turno, Nicola Marini».

L’operatività dei carabinieri senesi è encomiabile. Chissà cosa fanno quando gli interventi spettano a loro. Peccato che quella sera si dimentichino di chiamare la scientifica. Ma del resto quando c’è un cadavere a terra a che serve? I rilievi sono un dettaglio.

Il merito andrebbe attribuito per lo più al colonnello Pasquale Aglieco, perché lui quella sera si trovava lì per puro caso, non era in servizio ed era distante chilometri da casa. «Passavo di lì.»

Aglieco racconta sin da subito che quella sera aveva finito il turno e le sigarette, così in tuta era uscito per acquistarle e si era spinto a oltre tre chilometri dal suo alloggio di servizio. Mentre era al distributore automatico, dice, «vedo con la coda dell’occhio la volante e inizio a seguirla». Quindi arriva nel vicolo insieme a Marini e Gigli. Eppure, ricorda il primo, «io vidi che tentava di superarci, così l’ho bloccato per il braccio e si è qualificato come colonnello, dicendoci che l’uomo che era a terra morto si chiamava David Rossi ed era una persona importante perché capo della comunicazione di Mps, invitandoci a salire nel suo ufficio affinché controllassimo che nessuno vi entrasse». Non solo, Aglieco comunica ai due di allontanarsi senza preoccuparsi di lasciarlo solo, perché stava arrivando una radiomobile dei carabinieri.

Dunque, nonostante stesse comprando le sigarette e avesse casualmente visto e seguito la volante, Aglieco era a conoscenza sia delle generalità del cadavere sia dell’imminente arrivo dell’auto dell’Arma. E appena arriva nel vicolo prende il comando delle operazioni. Che spettassero alla polizia e lui fosse a riposo sono altri dettagli. Chiama il questore e i suoi uomini: prima l’allora maresciallo e oggi tenente dell’Arma Marcello Cardiello, che quella sera non era in servizio e si presenta in abiti civili; poi Edoardo Cetola, oggi maggiore dei carabinieri, anche lui fuori servizio e in abiti civili; infine Giuseppe Manichino, tenente, che quel giorno e quello precedente era addirittura in licenza e arriva sul posto, pure lui, in borghese.

Aglieco ne chiama altri. Fa avvisare da Cardiello il pm di turno, accoglie il vicequestore Baiocchi. Insomma, ha in mano la situazione. E quando il magistrato Nicola Marini arriva insieme ad altri due pm, Antonino Nastasi e Aldo Natalini, gli va incontro e fa praticamente gli onori di casa. O, meglio, di quella che sembra ormai la caserma da campo dei carabinieri. Sono tutti lì.

Le operazioni spettavano alla polizia? Sì. È annotato anche nella scheda di intervento della volante di Marini e Gigli. Ma se n’è accorta solo la sala operativa dell’Arma, che riceve la telefonata di Mingrone alle 20.45 e avvisa la questura per passare appunto le consegne. La stessa Baiocchi, nel momento in cui arriva sul vicolo, vede un tale spiegamento di uomini dei carabinieri da credere che spetti a loro l’intervento. E quando, dopo oltre un’ora, viene avvisata, lo fa presente al pm di turno, Nicola Marini, sentendosi rispondere che non ha importanza, che ormai c’è l’Arma e dunque la polizia può occuparsi della rimozione del cadavere. 

Alle 21.38 il centralino del 118 registra una telefonata, l’ultima di appena sei allegate e disponibili agli atti.

«118 Siena, dica.»

«Buonasera, sono il maresciallo Cardiello dei carabinieri, volevo chiederle se era possibile attivare il carro funebre per la rimozione salma in via Dei Rossi angolo via del Refe Nero.»

Già, Baiocchi non fa in tempo a occuparsi neppure di quello. Perché nel frattempo dal vicolo era partito un vero e proprio corteo diretto verso l’ufficio di Rossi, in Rocca Salimbeni. E non trovando più nessuno intorno, lei si era allontanata per raggiungere il pm e sapere come dovevano operare. Salita al terzo piano trova Aglieco, sempre lui. I due, raccontano i testimoni, si incontrano all’ingresso dell’ufficio di Rossi e nasce un battibecco proprio sulle competenze dell’intervento. Il pm Marini se ne accorge, li raggiunge e dice a Baiocchi di allontanarsi da lì, tornare nel vicolo e occuparsi della rimozione del cadavere. Il vicequestore esegue. Andandosene si gira e si rivolge ad Aglieco: «Avete avvisato la scientifica?».

«No.»

La chiama lei. Sono trascorse ormai quasi tre ore da quando David è precipitato. L’ufficio è già stato invaso da carabinieri e pm, così il vicolo. Addirittura l’efficientissimo Cardiello ha già chiamato il 118 per far rimuovere il cadavere, ma la scientifica non è ancora stata avvisata.

«Sono stata contattata verso le 22.15 a casa e sono arrivata alle 22.50 sul posto. Prima ho fatto il sopralluogo a terra. Era già presente la rimozione salma, quindi sono stata proprio l’ultima a essere chiamata. Alle 23.30 ho terminato il sopralluogo in Monte Pio.»

Sul posto interviene Federica Romano, assistente capo coordinatore della polizia di stato. Quando lei arriva, il cadavere è già stato preparato nel sacco bianco della mortuaria per il trasporto. Per scattare le foto devono liberarlo e riadagiarlo sul selciato. 

La scientifica è l’ultima a essere chiamata ed è l’ultima a lasciare il vicolo. Dalle 23.30 in poi in quella stradina lunga appena ventotto metri e larga dai tre ai cinque metri non c’è nessuno. Resta un furgone parcheggiato sul lato sinistro poco dopo l’imbocco e uno scooter parcheggiato sin dal mattino contro il muro che chiude la strada, quindi oltre il punto dove è caduto Rossi.

Quando se ne vanno le forze dell’ordine, inizia il viavai di curiosi e passanti. Del resto lì è appena stato trovato il cadavere di un personaggio a dir poco noto in città e la voce si diffonde rapidamente. Un carabiniere rimane all’imbocco del vicolo ma per un’ora, forse meno. Perché poco dopo mezzanotte arriva il proprietario dello scooter, Emanuele Dragoni.

Dragoni è un dipendente della banca. Si occupa di manutenzione. Ogni giorno parcheggia il motorino lì, in fondo al vicolo. Lo fa anche quel 6 marzo. «Sono uscito dal lavoro nel pomeriggio ma poi sono andato in palestra. Quando sono tornato per riprenderlo dopo le ventidue ho visto i carabinieri e un collega lì presente, mi ha spiegato cosa era accaduto, così me ne sono andato a casa della mia fidanzata.» Passano due ore, però, e torna per riprovare a prendere lo scooter e tornare a casa propria. «A mezzanotte circa sono andato di nuovo e ho potuto recuperare la moto perché lì non c’era nessuno.»

Si erano trasferiti tutti in Rocca Salimbeni, nell’ufficio di Rossi. Carabinieri, magistrati. Una dozzina di persone era dentro quella stanza. Tranne chi avrebbe dovuto esserci realmente e avrebbe dovuto entrare prima di tutti: la polizia scientifica. Che invece potrà accedervi solo alle 00.45. Come nel vicolo, anche nell’ufficio la dottoressa Romano arriva per ultima. 

Tutti nell’ufficio di Rossi. Ciascuno a fare il proprio mestiere.

David Rossi, nuovi dubbi sulla morte. L'ex direttore Mps Daniele Pirondini: "Non aveva motivo di suicidarsi". Il Tempo il 26 marzo 2022

"Dico che è molto strano che si sia ucciso per paura di perdere il lavoro, perché era molto bravo, molto conosciuto e non avrebbe avuto difficoltà a trovare un altro lavoro consono". Daniele Pirondini, ex direttore finanziario di Mps, è stato ascoltato in commissione parlamentare di inchiesta sulla morte dell'ex capo comunicazione della banca, David Rossi, avvenuta il 6 marzo 2013 a Siena, dopo essere precipitato da una finestra del suo ufficio in Rocca Salimbeni.

Si continua a indagare sulla morte incerta del manager di Mps e sono diversi i motivi per cui la tesi del suicidio del manager della comunicazione dell’istituto bancario vacilla. Nei cinque anni trascorsi sotto lo stesso tetto, Pirondini e Rossi si sono incrociati sporadicamente. “Ci incontravamo quattro volte all’anno per i comunicati stampa per i risultati trimestrali, semestrali e annuali, lo conoscevo ma non avevamo rapporti particolari – ha raccontato l’ex direttore finanziario di Banca Mps davanti alla commissione - Non avevo frequentazioni particolari, sapevo che con Mussari si conoscevano da prima del 2006. Io lo conoscevo dal punto di vista lavorativo”. E ancora: "Nelle trattative per l'acquisizione di Antonveneta da parte di Mps David Rossi non era assolutamente coinvolto".

"Pirondini è stato a Siena dal 2003 al 2008, quando fu promosso alla vice-direzione generale di Banca Antonveneta Istituto attorno al quale è girata quasi tutta l’audizione in commissione d’inchiesta - scrive Aldo Tani sul Corriere di Siena - Un confronto che sarebbe stato perfetto per altri contesti, ma che in questo, mirato a ricostruire un caso di cronaca nera, è sembrato non centrato. Pur tenendo presente la volontà dei commissari di indagare ulteriormente sugli scenari bancari del periodo e se in qualche modo possano aver influito sulla morte di Rossi".

"Non ricordo come ho saputo della sua morte, probabilmente da un tg - ha spiegato  Pirondini - il mio era un rapporto di lavoro con Rossi, ma assolutamente non frequente. Sono andato via nel 2008 e non so se avesse dei motivi di tensione particolari. Ma mi ha stupito che abbia commesso un gesto di quel tipo in un simile contesto della banca, dal momento che lui non c'entrava niente. Vuol dire che ci devono essere altri motivi che non il tam tam sui problemi del Monte dei Paschi".

Caso David Rossi, il commissario Claudio Borghi (Lega) avverte: "Impossibile sia tutto anomalo". Il Tempo il 23 aprile 2022

Fare luce e chiarire come sono andate le cose sul caso David Rossi. Tra coloro che più vogliono andare a fondo sulla questione della morte del capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena c’è Claudio Borghi, deputato della Lega e membro della commissione parlamentare d’inchiesta che cerca di far luce sulla vicenda: “Vogliamo capire come sia andata l'effettiva sequenza delle cose, perciò ci ritorneremo sopra. Non è possibile che in questa vicenda tutto sia anomalo”. Come riferisce il Corriere di Siena l’onorevole del Carroccio è rimasto sorpreso dalle audizioni dei magistrati: “Marini sembrava quasi dicesse che non aveva elementi per cercare che fosse un'altra cosa”.

Altro punto affrontato da Borghi è l'audizione di Mirco Mottula, assistente capo coordinatore della polizia: “È andato a chiedere agli operatori del 118 chi fosse la persona a terra, quando lo sapeva. Poi ha menzionato di dover chiamare Roma. Torna tutto molto poco”. “Sono sempre stati lì e non sono mai stati scoperti” è invece il commento dopo che è emerso che i carabinieri del Ros, incaricati della maxi-perizia, hanno portato all'attenzione della commissione l'esistenza di tre indirizzi mail appartenenti a Rossi

Lo stupore trova concorde Luca Migliorino del Movimento 5 Stelle, anche lui membro della commissione d’inchiesta sul caso: “Mi sembrava strano che Rossi facesse tutto con gli account di lavoro. Per questo nei quesiti era stato inserito uno relativo alla possibilità che fossero presenti altri indirizzi. Ora resta da capire se i carabinieri riusciranno a entrare, perché sarebbero elementi che non sono mai stati visti. Abbiamo chiesto di fare audizioni testimoniali, ci siamo attivati. È un procedura rilevante, perché le dichiarazioni assumono un certo peso. Come commissione d'inchiesta vogliamo sfruttare questa possibilità”.

Dagospia il 6 aprile 2022. Estratti del libro di Davide Vecchi, “La verità sul caso David Rossi” (in libreria dal 7 aprile 2022)

«C’è un’altra storia parallela. Un avvocato mi ha detto [...] devi indagare su alcune ville tra l’aretino e il mare, i festini che facevano lì. La magistratura potrebbe anche avere abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale.» 

L’ex sindaco Pierluigi Piccini parla a ruota libera, è seduto a un bar di piazza del Campo insieme ad Antonino Monteleone e Marco Occhipinti delle Iene. Non sa che le sue parole vengono registrate e mandate in onda l’8 ottobre 2017, aprendo un nuovo filone d’indagine tutto da accertare ma totalmente credibile. 

La «storia parallela», infatti, racconta di alcuni festini a base di escort e droga ai quali avrebbero partecipato esponenti di rilievo di Siena, magistrati, manager, politici, avvocati, carabinieri, addirittura preti. David Rossi ne era a conoscenza e anzi aveva pure video e foto di quelle serate. Per questo le indagini sulla sua morte sono state «abbuiate», come dice Piccini, per evitare che emergesse questa «bomba morale». Tale è la gravità delle dichiarazioni dell’ex sindaco che la Procura di Genova apre immediatamente un fascicolo per verificarne la veridicità. [...]

Monteleone insiste: «Ma quello che voglio capire è se lei crede che sia una forzatura non riconoscere il suicidio, oppure che effettivamente ci sono delle anomalie tali da...».

«No. Le anomalie ci sono, le anomalie ci sono. È inevitabile.» Piccini questa volta prosegue, non servono più troppe domande per stimolarne il pensiero: «E poi David fa un errore storico: fa il grande errore di dire “io parlo”. Cioè lui dice che sarebbe andato dai magistrati a raccontargli tutto. E dice “io di questa città conosco tutto dai tempi del Piccini fino a oggi”.

E allora: c’è un’altra storia parallela. Un avvocato romano mi ha detto: “Ma perché vi rigirate tanto i coglioni. Ma scusa perché?” – era un’amica mia dove il marito era nei servizi –, “Ma guarda” dice “devi indagare su alcune ville tra l’aretino e il mare, e i festini che facevano lì”. Perché la magistratura potrebbe anche avere abbuiato tutto perché scoppia una bomba morale. Non so se mi sono spiegato. Questo filone non è stato mai preso». 

Il fascicolo di Genova inizia da qui, da un’intervista rubata dalle Iene all’ex sindaco Piccini. E mentre i magistrati liguri cercano di ricostruire l’esistenza dei festini, anche Monteleone e Occhipinti approfondiscono il filone. Trovano la villa e riescono persino a individuare un escort di quelle serate. Un testimone. Che riconosce in foto alcuni partecipanti, tra questi il colonnello dell’Arma Pasquale Aglieco, un altro soggetto soprannominato «il Carabiniere», uno dei magistrati e altri soggetti. La stessa Procura genovese, poi, riterrà attendibile il suo racconto, seppur non sia mai riuscita a individuare i riscontri.

Quindi l’esistenza dei festini non è stata accertata, ma quelle serate rimangono legittimamente nella sfera del plausibile. Del resto, se a parteciparvi erano gli stessi che avrebbero dovuto denunciarle, è inverosimile immaginare di averne certezza, soprattutto a distanza di così tanti anni. Legittimamente i pm di Siena querelano Le Iene e presentano la denuncia proprio alla Procura di Genova già impegnata a indagare sul loro operato. Ennesimo corto circuito della giustizia del caso Rossi, che porterà a un altro paradosso: i pm liguri trasmetteranno ai colleghi senesi alcuni spunti investigativi individuati sulla vicenda affinché svolgano accertamenti.

L’epilogo di questi caroselli tra magistrati sarà un’archiviazione, l’ennesima, con mille falle ancora oggi non colmate. Addirittura Genova si è persa dei verbali di interrogatorio di testimoni che avallavano le accuse mosse dal giovane escort, ricostruendo anche numerosi altri casi di presunta negligenza nei confronti in particolare del pm Nicola Marini. Se ne accorgono gli avvocati Paolo Pirani e Carmelo Miceli, che assistono la famiglia Rossi, guardando gli atti depositati nella richiesta di archiviazione dai pm. E manca anche un altro interrogatorio, ritenuto molto importante, relativo alla posizione di Aldo Natalini, l’altro magistrato titolare del fascicolo: quello dell’avvocato Nicola Mini, che lo aveva assistito in un procedimento a suo carico.

«Nel giugno del 2013 o 2014 venni chiamato in procura dal procuratore Salerno [Tito Salerno, ex procuratore capo di Siena, nda], il quale mi disse che la Procura di Viterbo aveva indagato il sostituto Natalini, il quale intendeva nominarmi suo difensore per rendere immediato interrogatorio; a Natalini venivano contestati episodi di violazione del segreto d’ufficio per aver rivelato circostanze dell’indagine Monte Paschi a un avvocato di Perugia che era intercettato» racconta il giorno 8 febbraio 2019 l’avvocato Mini al pm genovese Cristina Camaiori e al procuratore Ranieri Miniati.

«Durante una telefonata con l’avvocato di Perugia i due avevano parlato di vari argomenti tra cui di sesso. Nel corso dell’interrogatorio il procuratore di Viterbo contestava [...] a Natalini queste circostanze pur non essendo oggetto di indagine e non essendo trascritte; il procuratore di Viterbo contestava al mio assistito di avere parlato di rapporti omosessuali e ricordo che il dottor Natalini piangeva e diceva “mi vergogno”. Non ricordo contestazioni relative a rapporti con escort.»

Secondo i legali dei famigliari di David Rossi gli atti relativi a quel fascicolo sarebbero utili ai fini delle indagini ma non sono mai stati acquisiti. Sicuramente Natalini si vergognava del fatto di essere finito intercettato e poi indagato con l’accusa di aver rilevato informazioni riservate sulle indagini relative a Mps, certo non in relazione ai festini. Ma appunto la legge prevede che tutto sia accertato oltre ogni ragionevole dubbio. E attorno alla Procura di Siena, invece, ci sono più dubbi che contrade.

Di come sia nato e si sia sviluppato il cosiddetto «filone dei festini» la persona più adatta a parlare è sicuramente Antonino Monteleone che, insieme a Marco Occhipinti, lo ha individuato e portato avanti tra mille difficoltà e molte critiche, a volte persino attacchi da parte di colleghi giornalisti. Io stesso sono sempre stato profondamente scettico al riguardo, ma seguendo le audizioni delle persone coinvolte in commissione parlamentare sono stato costretto a ricredermi.

Racconta Monteleone, da me sentito per la stesura di questo libro: «Il 26 novembre 2017 abbiamo ricevuto una segnalazione sul tema dei festini, ne arrivavano molte ma questa ci sembrava più circoscritta, intanto perché c’era un mittente specifico, Paola Puricelli Guerra, poi perché il testo era fin troppo chiaro e si riferiva a personaggi a noi già ben noti; ci scrive Puricelli: “Indagate sul colonnello Aglieco, all’epoca comandante provinciale del comando di Siena. Sono la sua ex moglie e proprio in quegli anni il mio matrimonio è terminato perché ho avuto sentore che mio marito (sono stata sposata per venticinque anni) frequentava giri molto strani”».

Monteleone e Occhipinti decidono di incontrarla l’indomani presso un piccolo bistrot nel quartiere Prati a Roma. «Per sicurezza decidiamo di filmare con dei complici seduti ad altri tavoli del locale. Ci fa un lungo racconto. Evocando le affermazioni di Piccini, ritiene che il suo matrimonio sia finito a causa di un presunto giro nel quale sarebbe finito suo marito. Prendiamo atto del suo punto di vista, ma fino a quel momento il rancore sembra prevalere sul contenuto informativo. Decidiamo di archiviare la conversazione e proseguire oltre.» 

Dopo poche settimane arriva un’altra mail, ancora più significativa: è il gigolò che, dice Monteleone, «finché è stato possibile ho protetto dietro l’anonimato con l’appellativo di Stefano». 

Scrive il ragazzo: «Ciao, ho alcune informazioni su dei festini privati che si svolgevano in Toscana (Siena, Monteriggioni) e nel litorale romano. Ho visto delle cose, ho partecipato ad alcuni eventi che credo potrebbero interessarti. La mia vita ormai è distrutta ma quel poco che ho di dignità (o meglio quello che mi è rimasto) lo voglio tutelare. Ho fatto delle cose per soldi di cui me ne vergogno, ma credo sia arrivato il momento di liberarmene. Ciao».

Monteleone gli risponde a inizio 2018, per esattezza l’8 gennaio. «Mi vuoi anticipare qualcosa?» gli chiede. Lui risponde: «Ho viaggiato molto per “lavoro”, Italia ed estero. Sono stato a contatto con banchieri, politici, giornalisti e alcuni personaggi televisivi. Ho fatto l’escort, ho avuto rapporti sessuali gay con molti di loro, ovviamente dietro compenso». 

Il giornalista delle Iene prosegue: «Si rifà vivo nei primi giorni di febbraio e ci accordiamo per sentirci telefonicamente. Mi spiega che ha molti impegni di lavoro e una compagna ignara di tutto. Il suo racconto è sconvolgente. Il tono della voce è molto grave e spesso gli si spezzano le parole in gola. Cerco di rassicurarlo, mentre non credo a ciò che sto ascoltando.

Dice di aver visto l’appello di Carolina Orlandi rivolto a chiunque sapesse qualcosa, di farsi coraggio e parlare. Che i suoi occhi e la sua voce gli avevano smosso la coscienza. Se ci ripenso mi rendo conto del grande coraggio che ha avuto. Di quanto questa decisione gli sta costando cara. Mi sono sempre chiesto cosa avrei fatto al suo posto, se avessi avuto lo stesso fegato. Con tutto quello che ha messo in gioco, niente da guadagnare, solo da perdere. Io non credo che ci sarei riuscito».

Monteleone poi entra nel merito. «Gli chiedo se le feste si svolgevano in luoghi privati oppure aperti al pubblico. Quante persone vi partecipavano, se si faceva uso di stupefacenti, se si ricorda i nomi dei partecipanti o almeno dei suoi clienti. Mi risponde che i nomi non li conosceva o non li ricordava. Ma che non avrebbe mai scordato le loro facce. Così gli chiedo se avrebbe potuto provare a fare dei riconoscimenti fotografici. Raccolgo delle foto. Persone che avevamo incontrato sulla nostra strada fino a quel momento. Politici, imprenditori, giornalisti, banchieri, magistrati. Ne riconosce molti e a me sembra tutto clamoroso.

«A un certo punto mi viene in mente di mostrargli una foto in particolare. Ci sono diverse persone sedute attorno al tavolo di un bar di piazza del Campo. Non è una foto pubblicamente accessibile. Nessuno è noto.» Ritrae alcuni del gruppo della birreria. 

«Senza esitare dice di riconoscere perfettamente due tra le persone ritratte in foto. Una non la conosce. Ma si dice convinto anche di “quel signore con la cravatta argento”. Gli chiedo di guardare attentamente, ma non vacilla. Gli dico che ci saremmo dovuti incontrare e che, a condizione di anonimato, avremmo dovuto ripetere quell’intervista. Avrebbe avuto il tempo per riflettere. Riflettere sul riconoscimento delle persone che secondo lui avrebbero partecipato a quelle feste. Riflettere se era pronto a rischiare. Se era consapevole delle conseguenze che, anche dietro lo scudo dell’anonimato, avrebbe dovuto affrontare.» Il ragazzo accetta.

«Nemmeno Marco [Occhipinti, nda] riesce a dissimulare lo sconcerto per quella conversazione. Quando gli mando l’audio [...], mi tremano ancora le mani. E la prima cosa che a lui viene in mente è che da quel momento quel ragazzo lì avrebbe corso seri pericoli. Ma rimane in silenzio quando gli dirò, prima ancora che abbia ascoltato, che ha riconosciuto, tra le foto che gli ho mandato, il volto dell’uomo che un tempo era sposato con la donna che tre mesi prima ci aveva scritto e avevamo incontrato: Pasquale Aglieco».

«Falsa la lettera scritta alla moglie di David Rossi sui conti off shore». Il Dubbio il 29 marzo 2022.  

La famiglia dell'ex capo comunicazione del Mps, lancia un appello alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte del marito «affinché proceda all’acquisizione della copia di tutti gli atti dei fascicoli che, nel tempo, la procura di Siena ha iscritto a modello 45».

La procura di Siena ha aperto un fascicolo a modello 45, ossia fatti non costituenti reato, risalendo all’autore e riscontrando «l’infondatezza delle notizie riferite». È quanto fanno sapere all’Adnkronos l’avvocato Carmelo Miceli e lo studio legale FmAvvocati, che difendono Antonella Tognazzi, moglie di David Rossi, e la figlia di lei, Carolina, in relazione alla lettera del 2015, di cui parla oggi il quotidiano “Libero”, indirizzata alla vedova e in cui una persona faceva riferimento a presunti conti off shore riferibili all’ex manager di Mps. Un fascicolo rispetto al quale Tognazzi, attraverso i legali, chiede ora di poter «accedere agli atti» lanciando anche un appello alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte del marito «affinché proceda all’acquisizione della copia di tutti gli atti dei fascicoli che, nel tempo, la procura di Siena ha iscritto a modello 45».

«La circostanza dell’esistenza di tale missiva corrisponde al vero – sottolineano l’avvocato Miceli e lo studio legale – La stessa venne ricevuta dalla signora Tognazzi e immediatamente depositata alla procura della Repubblica presso il Tribunale di Siena, per le valutazioni e gli approfondimenti di competenza». «Stando a quanto recentemente comunicatoci dai sostituti procuratori De Flammineis e Ludovici, in conseguenza a tale deposito, la procura della Repubblica presso il Tribunale di Siena ha provveduto all’apertura di un fascicolo a modello 45 (fatti non costituenti reato) che ha consentito di accertare l’identità dell’autore della missiva – precisano – ma di riscontrarne l’infondatezza delle notizie dallo stesso riferite».

«Proprio perché l’iscrizione di cui si parla è avvenuta a cosiddetto “modello 45” la signora Tognazzi non ha mai avuto il diritto di accedere agli atti di tale fascicolo e di prendere coscienza delle attività poste in essere dalla Procura di Siena – osservano i legali – Pur nel pieno rispetto delle considerazioni e valutazioni, Tognazzi, nella qualità di moglie di Rossi e, quindi, di persona offesa e/o danneggiata da reati commessi in danno di quest’ultimo, continua a rivendicare il diritto ad accedere agli atti del fascicolo citato e a potere formulare autonome valutazioni sugli stessi».

«Stante la mancata attribuzione, rectius il mancato riconoscimento, di tale diritto» la vedova dell’ex Capo della Comunicazione di Mps rivolge «un appello alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Rossi affinché proceda all’acquisizione della copia di tutti gli atti dei fascicoli che, nel tempo, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siena ha iscritto a modello 45 per fatti afferenti Rossi e le potenziali cause della sua morte».

Si attiva anche la commissione d’inchiesta sulla morte di David Rossi

A quanto apprende l’Adnkronos il presidente della Commissione di inchiesta sulla morte di David Rossi, Pierantonio Zanettin, chiederà, nel corso del prossimo Ufficio di presidenza della Commissione, di acquisire il fascicolo della procura di Siena, iscritto a modello 45, sulla lettera ricevuta nel 2015 dalla vedova, in cui una persona faceva riferimento a presunti conti off shore riferibili all’ex manager di Mps e i cui contenuti sarebbero risultati infondati.

Rispetto al fascicolo Tognazzi, attraverso i legali, aveva chiesto di poter «accedere agli atti» lanciando anche un appello alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte del marito «affinché proceda all’acquisizione della copia di tutti gli atti dei fascicoli che, nel tempo, la procura di Siena ha iscritto a modello 45». La Commissione potrebbe quindi decidere di acquisire gli atti per esaminarli nel dettaglio.

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 28 marzo 2022.

Una copia di una lettera datata 7 gennaio 2015, debitamente firmata dal mittente e con segnato l'indirizzo di provenienza arriva, a me indirizzata, nell'inverno del 2017 alla redazione di Panorama, giornale per cui collaboravo all'epoca. Nella immediatezza non riuscivo a capire perché quella copia di lettera fosse stata a me recapitata. Certo, avevo scritto già della vicenda del manager dei Monti dei Paschi di Siena trovato morto il 6 marzo del 2013 dopo la caduta dalla finestra del suo ufficio. 

Quella morte, ora come allora, porta con se omissioni, errori di indagine e leggerezze che rendono impossibile capire esattamente cosa sia davvero accaduto al povero David Rossi. Una cosa è certa: si è fatto troppo presto a dire che si trattava di suicidio. Oggi, alla luce di tutti gli inciampi nelle indagini evidenziati dalla Commissione Parlamentare d'inchiesta, credo sia impossibile non ipotizzare una ipotesi di reato contro ignoti per quanto riguarda l'omicidio.

Ma torniamo alla copia della lettera pervenuta in redazione indirizzata a suo tempo alla vedova di David, la dottoressa Antonella Tognazzi. "Palermo 7/01/2015 Gentilissima Signora Antonella Tognazzi" - così inizia la copia della lettera a me inviata - "ho così deciso di scriverle questa mia missiva dopo una mia prima titubanza dovuta alla paura di sbagliare ad esternare vicende per me dolorose... Prima di andare avanti con la mia lettera e raccontare la mia storia e cosa legava il sottoscritto a David, ai fiduciari, ai notai e avvocati, vorrei esprimerle le mie più sentite condoglianze anche se sono passati diversi mesi. Ma piano piano capirà tante cose con la mia lettera..."

La lettera proveniva da Palermo, dalla via dove c'è il carcere dell'Ucciardone, via Enrico Albanesi numero 3, ed è firmata da un signore che chiamerò "Giorgio" per riservatezza. Da una indagine veloce scopro che "Giorgio" non è più recluso all'Ucciardone ma, transitando da Rebibbia, aveva finito di scontare la sua pena per fatti che vanno dalla truffa al riciclaggio, in Sardegna e che la sua personalità è sicuramente particolare.

La lettera racconta come Giorgio viva tra Milano e il Principato di Monaco dove scrive "ho diversi interessi...". Giorgio racconta della malattia della sua amata moglie che la portò via "...purtroppo dopo circa due anni di tentativi e grosse tribolazioni la malattia se la prese e lei giovanissima e bellissima mi morì tra le braccia, da allora rimasi solo, veramente solo". 

Giorgio con una serie di premesse cerca di stabilire un contatto con la moglie di David Rossi di tipo emotivo ed empatico per poi arrivare dritto al cuore del tema: i soldi. In buona sostanza, Giorgio sostiene di dover dei soldi alla famiglia di David Rossi qualsiasi cosa fosse accaduta: ma ecco il passaggio della lettera: "Tuttavia io ho voluto essere sincero in quanto non sono abituato a sputare nel piatto dove ho mangiato e alcuni testamenti dei miei avvocati mi indicano che qualunque cosa fosse successo ad entrambi devo darle la somma di 8 milioni di euro a lei...”

“Così ho deciso di scrivere a lei per tenere fede da quanto chiesto dai miei avvocati. Vorrei chiederle cosa sa lei dei conti off shore di Ginevra? E della Bamk Leu di Ginevra? E della Sbs? E la conoscenza dei CCT e BTP? Suo marito le ha mai parlato dei miei avvocati e di quanto indicato in oggetto? Io non ho mai voluto scrivere al suo avvocato (che oggi è un altro, ndr) perché non so cosa sa, ma soprattutto ci sono in ballo tanti soldi che fanno venire la vista anche ai ciechi ed ecco perché mi sono rivolto a lei. Comunque le faccio presente che qualunque cosa che si farà, e su questo concorderà, sarà fatto con avvocati e notai”.

“Per adesso concorderemo il io e lei in questo momento non sodi chi fidarmi, in quanto sono persone che vorrebbero mettere le mani sui conti off shore che sono in mio possesso. Tuttavia lei deve crescere i suoi figli ed io mi devo ricostruire il mio futuro passo dopo passo. Tutto quello che ci scriveremo deve rimanere tra me e lei. Dopo che lei avrà ricevuto quanto indicato faremo uscire fuori i cani che erano vicini a David così potremo fare uscire chi tirava le file. Anche perché io non credo si sia buttato dalla finestra... Ma è una storia che piano piano a sapere e a conoscere con il tempo. Per adesso mi fermo qua ma rimango in attesa di un suo scritto così possiamo concordare il da farsi . Spero tanto di ricevere una sua gradita lettera in risposta alla mia . Questo è il mio indirizzo...".

Questa lettera, che feci analizzare da un mio amico avvocato, conteneva una serie di errori temporali nella sua ricostruzione e, ad una prima lettura, sembrava avere molti vulnus. Naturalmente ne parlai con la moglie di David che, pur dicendomi che le era arrivata, mi riferì che immediatamente la inviò alla Procura della Repubblica a Siena. La lettera la consegnai alla questura di Milano accompagnato da un mio amico poliziotto di nome Matteo. 

Sono passati anni in cui ho atteso che qualcosa accadesse cercando di capire se mai una indagine ed una acquisizione di informazione di "Giorgio" fosse stata mai fatta. Dalle mie informazioni in possesso nulla appare ed anche l'intervista fatta all'avvocato Pirani, legale della famiglia di David Rossi, fa capire come nulla sia accaduto. Perché?

Non è un elemento comunque importante su cui almeno indagare e porre attenzione? "Giorgio" è stato sentito? Verbalizzato? Per questo motivo ho deciso di pubblicare questo documento e di mettermi a disposizione dell'avvocato Pirani ai fini dell'indagine difensiva. È il momento di mostrare tutte le carte, anche quelle apparentemente inutili, per cercare di capire cosa è realmente accaduto a David Rossi ed in questo senso la commissione parlamentare d'inchiesta è davvero strumento fondamentale.

Morte di David Rossi, il pm Marini: «Possibile che ci sia sfuggito qualcosa». Il Dubbio il 25 marzo 2022.  

Dall’indagine «non c’era nemmeno un aspetto minatorio, una minaccia che gravava su Rossi» ha detto il magistrato che all'epoca indagò sulla morte dell'ex capo comunicazione del Monte Paschi di Siena.

«Le cose dette dal colonnello Aglieco non so perché le abbia dette, certo è che non sono vere». Lo ha detto il magistrato Nicola Marini, ascoltato oggi per la seconda volta in commissione parlamentare di inchiesta sulla morte dell’ex capo comunicazione della banca MPS, David Rossi, avvenuta il 6 marzo 2013 a Siena, dopo essere precipitato da una finestra del suo ufficio in Rocca Salimbeni. Marini, oggi procuratore della Repubblica facente funzioni presso il tribunale di Siena, all’epoca dei fatti era il pubblico ministero di turno e coordinò le indagini. «I fazzolettini» sporchi di sangue che erano nell’ufficio di David Rossi «non vennero analizzati perché il medico legale Gabrielli non lo ritenne necessario», ha spiegato il magistrato Nicola Marini, oggi procuratore della Repubblica facente funzioni presso il tribunale di Siena, ma all’epoca dei fatti era il pubblico ministero di turno e coordinò le indagini.

Caso David Rossi, il pm: «Possibile che ci sia sfuggito qualcosa»

«Il sequestro e il mantenimento dei fazzolettini, come reperto, servivano alle valutazioni del medico legale che ha depositato la consulenza tecnica nel 2013 – ha aggiunto Marini – Nessuna richiesta è arrivata del consulente di parte. Per questo fu ritenuto che si dovessero distruggere». «Non ne abbiamo trovati di vizi del Rossi», ha dichiarato Nicola Marini. «Facciamo tutto, anche in questa sede, perché si arrivi al risultato migliore possibile, che non è detto che sia quello delle ordinanze di archiviazione. Dal punto di vista giudiziario il risultato è stato questo, vediamo adesso dal punto di vista parlamentare. Il processo penale ha regole fisse, quindi ben venga questo nuovo canale di verifica e approfondimento perché è possibile che ci siano fatti che ci sono sfuggiti», ha sottolineato Marini.

«Il nostro sforzo era per comprendere il movente di questa azione auto-soppressiva. Il quadro era di una preoccupazione psicologica fortissima, dovuta anche alla perquisizione che aveva subito, amplificata da una situazione ambientale, cioè la situazione della banca, molto difficile. Situazione che, secondo la mia opinione, aveva somatizzato». Dall’indagine «non c’era nemmeno un aspetto minatorio, una minaccia che gravava su Rossi» ha concluso.

Claudio Bozza per il “Corriere della Sera” l'11 marzo 2022.

«Quando oggi si parla di David Rossi mi rimbombano, non solo in testa, le parole scritte in quella email. Dopo 9 anni provo turbamento». 

Sono molto sofferte le parole di Fabrizio Viola, ex amministratore delegato di Mps, mentre risponde alla commissione parlamentare d'inchiesta istituita per fare la luce sulla morte del capo della comunicazione del Monte dei Paschi, precipitato dal terzo piano di Rocca Salimbeni, a Siena, la sera del 6 marzo 2013. 

La mail a cui si riferisce Viola è quella, drammatica, che Rossi gli invia il 4 marzo alle 10.13 con oggetto «Help» e in cui c'è scritto: «Stasera mi suicido sul serio. Aiutatemi!». Il manager della comunicazione era fortemente turbato dopo la perquisizione subita per l'indagine sul crollo della banca: «Temeva di perdere il lavoro e di essere arrestato», conferma Viola.

Prima, ricordando che in quei giorni era a Dubai in vacanza con i figli, l'ex ad afferma: «Quel giorno mi ero collegato attraverso il Blackberry in una zona dove la connettività era instabile: sono entrato in un black out con Rossi durato circa 4 ore. Quella email non ricordo di averla vista quel giorno e ammetto anche che l'oggetto era tale che non si può dimenticare». Quella mail, come dichiarato da loro stessi, fu però letta da Valentino Fanti e Lorenza Pieraccini, i capi della segreteria dei vertici. 

Perché nessuno dette un allarme? E perché l'ad Viola, che ripete di aver letto quella mail solo dopo la morte di Rossi, non ne ha mai chiesto conto ai suoi segretari? «Perché non mi sentivo di attribuire ai miei collaboratori una responsabilità che era solo mia», ribatte l'ex ad. E poi, riguardo l'ipotesi di omicidio sostenuta dalla famiglia di Rossi, Viola afferma: «Io un omicidio non riesco proprio a immaginarmelo.

Non ho avuto dubbi. È il giudizio che mi sono dato avendo letto le carte, considerando abbastanza improbabile che qualcuno riesca ad entrare in banca» e spingere una persona giù dalla finestra. L'ex top manager della banca più antica del mondo ricorda poi che «David godeva della sua stima e di quella del presidente Profumo» e che in quel periodo «le tensioni erano fortissime: ricevemmo minacce di morte, tanto da finire sotto scorta». 

 Durante l'audizione, durata tre ore, e in parte secretata, Viola spiega poi che, dopo la tragedia, Mps aveva proposto un'assunzione alla moglie di Rossi, Antonella Tognazzi («però rifiutata») e pure un «importante arrotondamento del Tfr» del marito.

Alla fine la banca propose «200 mila euro», come sostegno. Ma l'ex ad rammenta che, a un certo punto, gli si presentò l'avvocato della famiglia che chiedeva «svariate centinaia di migliaia di euro». Ma «me ne tirai subito fuori», perché «non avevo intenzione di negoziare un euro». A breve, davanti alla commissione, arriverà Alessandro Profumo. E presto dovrebbero essere organizzati anche alcuni faccia a faccia: il più importante sarà quello tra il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco e Nicola Marini, pm senese titolare dell'inchiesta.

David Rossi, l'ex ad di Mps si difende: "La mail? Mi è sfuggita..." Francesco Boezi il 10 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'ex amministratore delegato di Mps è stato ascoltato dalla commissione d'inchiesta: "Io un omicidio non riesco ad immaginarmelo".

L'ex amministratore delegato di Monte dei Paschi Fabrizio Viola è stato ascoltato oggi dalla commissione d'inchiesta parlamentare durante l'ennesima audizione riguardante il caso David Rossi.

E tra i passaggi rimarchevoli ce n'è di sicuro uno relativo alla mail tramite cui l'ex capo Comunicazione di Mps avrebbe in qualche modo fatto capire che si sarebbe suicidato.

Dopo aver specificato chi aveva la possibilità di accedere alla sua mail, Fabrizio Viola ha detto quanto segue: "Quel giorno ero collegato con il mio Blackberry in una zona con poca connettività. Ero in vacanza a Dubai e sono entrato in un blackout con David Rossi durato circa 4 ore. Io quella email non ricordo di averla vista quel giorno". E ancora: "Quando David mi ha scritto, dopo quattro ore, ribadendomi che aveva bisogno di aiuto - ha fatto presente - non ha fatto riferimento alle mail precedente. Sicuramente quel giorno la mail mi è sfuggita".

La mail cui ci si riferisce è appunto quella in cui l'ex capo della Comunicazione della Mps avrebbe anticipato le intenzioni di suicidarsi. Come ripercorso dall'Ansa, Viola ha detto la sua sull'ipotesi che il caso David Rossi non sia un suicidio, dopo aver elencato alcune caratteristiche personali del Rossi: "David Rossi era una persona molto sensibile, educata, gradevolissima, molto colta". Poi la specificazione: "Io un omicidio non riesco ad immaginarmelo".

Com'è noto, i familiari di David Rossi vorrebbero che venisse aperta un'inchiesta per omicidio, mentre continuano a domandare verità anche rispetto alle attività degli inquirenti. Stando a quello che ha rimarcato l'Agi, inoltre, l'ex ad di Mps si è soffermato su un'altra questione che già era stata esaminata nel corso di altre audizioni, ossia la reazione psicologica del Rossi ad una perquisizione riguardante la banca: "David Rossi ha vissuto con grande disagio la perquisizione della Guardia di finanza del 12 febbraio del 2013. Quando gli è stata comunicata era nel suo ufficio", ha dichiarato Viola.

Viola ha poi continuato su quelli che sarebbero stati gli effetti sul Rossi di quella perquisizione: "Dopo la perquisizione del suo ufficio - ha osservato - i timori di David erano la perdita del posto di lavoro e l'arresto. Io non l'ho visto per tutto il giorno e quello successivo a quello della perquisizione. Quando l'ho rivisto era toccato psicologicamente".

Comunque sia, l'ex ad di Mps ha anche specificato di non aver avuto dubbi sul fatto che si fosse trattato di un suicidio.

"Quando oggi si parla di David Rossi mi rimbombano le parole scritte in quella mail". Morte David Rossi, l’ex ad Viola: “Mai avuto dubbi sul suicidio, era terrorizzato dal carcere”. Redazione su Il Riformista il 10 Marzo 2022. 

Fabrizio Viola, ex amministratore delegato pro tempore di Mps, è comparso oggi 10 marzo di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi, l’ex capo comunicazione della banca morto il 6 marzo 2013 dopo essere precipitato dalla finestra di Rocca Salimbeni, la sede della banca a Siena.

La sua testimonianza era molto attesa: l’audizione è durata circa tre ore, con gli ultimi venti minuti secretati.  “Questa tragedia, insieme a tanti altri problemi, è quella che più mi ha colpito dal punto di vista umano e che ancora oggi mi crea turbamento“, ha detto Viola ai commissari.

“Mi rimbombano le parole scritte in quella mail”

“Non c’è ombra di dubbio che il livello di complessità che le persone, tutto il management della banca, dovevano gestire, era assolutamente straordinario e i livelli di stress straordinari” ha spiegato Viola alla commissione. Una situazione che l’aveva spinto anche a chiedere il supporto della coach aziendale per i dirigenti.

“Quando oggi si parla di David Rossi mi rimbombano, non solo in testa, le parole scritte in quella e-mail, ma anche tutto ciò che c’è stato intorno. Siamo al paradosso che per me oggi parlare di Santorini e Alexandria è più facile che parlare di David Rossi“.

L’ex ad di Mps ha poi raccontato che David Rossi visse con enorme disagio la perquisizione del 19 febbraio 2013: “Quando l’ho rivisto dopo la perquisizione, ho trovato una persona colpita e toccata dal punto di vista psicologico“. Viola ha inoltre ricordato: “Quando gli è stata comunicata la perquisizione lui era casualmente nel mio ufficio e quando si presentò l’ufficiale della guardia di finanza mi ha preannunciato che avevano deciso di fare una perquisizione su un dirigente ancora in servizio. Io poi non l’ho visto per tutto il giorno e forse nemmeno il giorno successivo“, ha concluso, sottolineando di aver avuto rapporti piuttosto intensi con gli investigatori.

Le preoccupazioni di Rossi: perdere il lavoro e l’arresto

“Dopo la perquisizione, le preoccupazioni principali di David Rossi erano la perdita di lavoro e l’arresto” ha riferito Fabrizio Viola. Aggiungendo un aneddoto: “Sull’arresto – ha spiegato – l’avevamo messa anche sul ridere. Lui mi diceva la frase ‘Mi porterai le famose arance’. E io gli dicevo ‘non ti voglio sminuire, ma dai le giuste dimensioni alle cose che succedono’”. 

Mentre, per quanto riguarda il posto di lavoro “credo di avergli dato più volte rassicurazioni sul fatto che questa era una cosa fuori dai nostri radar. Primo perché più volte gli ho ricordato l’apprezzamento mio e del presidente Profumo, secondo perché ho deciso di farlo diventare un invitato stabile nel comitato di direzione, luogo delicato dove giravano informazioni molto riservate, e nel programma di coaching. Due segnali di grande fiducia nei suoi confronti.“

La mail ‘help’

La mail con oggetto ‘Help’, ha poi spiegato Viola, “ce l’ho stampata nella testa da nove anni, quelle parole mi rimbombano in testa ancora, mi sono sforzato più volte a capire cosa era successo“. La sua casella di posta elettronica era accessibile sia al capo della segreteria Fanti che alla signora Pieraccini, ha riferito. “Per quello che mi consta sapevo che la mia mail era solo a loro disposizione e quindi sono andato via relativamente tranquillo per tre giorni di vacanza a Dubai“.

L’ex ad di Mps ha poi specificato di non ricordare di aver letto quella mail. “Quando David mi ha scritto di nuovo e mi ha detto che aveva bisogno di aiuto gli ho risposto di mandarmi una mail chiedendogli di cosa avesse bisogno. Nell’ambito di questa risposta credo di averlo tranquillizzato.” Della sua morte è venuto a conoscenza solo al ritorno da Dubai.

In merito alla fuga di notizie sull’azione di responsabilità e la richiesta danni nei confronti di Banca Nomura e Deutsche Bank, Viola ha detto di non aver mai avuto dubbi sul fatto che non fosse stata responsabilità del capo comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena. “Una delle sue caratteristiche era che nel momento in cui una notizia doveva essere riservata, per lui era riservata e restava tale. Io l’ho conosciuto come una delle persone più riservate sulla faccia della terra“.

“Siamo arrivati con le carte in riunione e David Rossi è stato tenuto all’oscuro. Ma non è stata una mancanza di fiducia. Eravamo in quattro a saperlo, anche per sua tutela”. Viola ha anche evidenziato come l’orario della cena fosse tale per cui “le redazioni erano ormai chiuse” e avesse appreso successivamente che la fonte della fuga di notizie era dentro il consiglio di amministrazione.

Nessun dubbio sul suicidio

I commissari hanno posto una precisa domanda a Fabrizio Viola: se David Rossi possa essere stato ucciso. “Mi sento di dire di no” ha risposto. “È il giudizio che mi sono dato avendo letto le carte, considerando abbastanza improbabile che qualcuno riesca ad entrare in banca e possa fare quello che ha fatto”. 

“David Rossi era una persona molto sensibile, educata, gradevolissima, molto colta” ha aggiunto Viola. “Era sensibile, ma da lì a dire che quella sensibilità“, per interessi culturali e sociali, “lo potesse portare a quell’atto” del suicidio “non lo avrei mai pensato” ma comunque “io un omicidio non riesco ad immaginarmelo“.

La causa? Viola ha detto che pensava ci fosse dell’altro, che non fosse la banca, ma non ha mai avuti elementi  a supporto. E per quanto riguarda i famosi festini, l’ex ad di Banca Mps ha assicurato di averne sentito parlare per la prima volta in televisione. “E mi ha colpito perché neanche a Siena ne sapevano niente.” 

Viola ha poi spiegato di aver trovato una risposta all’accaduto nell’analisi che ha fatto la mental coach Ciani. “Il prestigio personale che per lui era tutto, accompagnato dal fatto che il lavoro era il centro della sua vita: mettendo tutto insieme mi dico che queste due componenti possano essere state anche deflagranti. Può darsi che siano stati dei detonatori“, ha dichiarato ancora il banchiere. 

Viola ha inoltre ricordato lo stato d’animo di Rossi nel momento in cui gli disse della morte del padre. “Mi disse ‘Mio padre è morto di crepacuore’, provai stupore, poi mi disse che un blog o due lo stavano martellando e che suo padre leggendo stava sempre più male”.

“Io mi sono fatto l’idea che Rossi ha difeso la banca con correttezza – ha detto Viola – d’altronde sono sempre stato convinto della sua onestà intellettuale, non ho mai avuto dubbi su questo, infatti da quando siamo arrivati io e Profumo lo abbiamo confermato come capo della comunicazione di Mps.”

Morte David Rossi, parla la moglie del capo comunicazione Mps: "Solo ora si cerca la verità". Pietro De Leo su Il Tempo il 06 marzo 2022.

Nove anni lottando per la verità, ogni giorno. Se ne dovessero servire altri nove, noi siamo qua». È cordiale ma decisa nel tono di voce al telefono con Il Tempo Antonella Tognazzi, vedova di David Rossi. Oggi, infatti, è la triste ricorrenza da quel 6 marzo 2013, giorno in cui, di sera, l’allora responsabile comunicazione della Monte dei Paschi di Siena morì dopo essere precipitato dalla finestra del suo ufficio a Rocca Salimbeni.

Erano i giorni della bufera giudiziaria, e grande eco mediatica, sul crack della banca più antica del mondo. Il racconto del "groviglio armonioso", dei grumi di potere attorno all’istituto bancario. Degli scandali. E il corpo del manager, che non era indagato, riverso a terra, in una dinamica che ancora oggi è ascrivibile al lungo novero dei misteri italiani. Due inchieste da parte dei Pm senesi, archiviate come suicidio. La battaglia continua della sua compagna di vita, e della figlia di lei, Carolina, per diradare tutte le nebbie e i nodi irrisolti, sostenendo la tesi dell’omicidio.

Oggi indaga un’altra procura, quella di Genova. E soprattutto, dopo una lunga battaglia politica, è stata istituita una commissione parlamentare d’inchiesta, che in pochi mesi di lavoro ha già fornito elementi importanti. Specie su certe contraddizioni, evidenti, dei Pm che si occuparono del caso ed emerse nel corso delle audizioni. Per esempio, quella di Antonio Nastasi, nel corso di un confronto con la commissione durato ben sette ore. Giunse nell’ufficio di Rossi assieme alle Forze dell’ordine, poco dopo la tragedia. I commissari gli chiedono se però sia sceso anche a Vicolo Pio da Siena, dove giaceva il corpo. Lui risponde di no, ma poi gli fanno vedere una foto che dimostra il contrario e lui ribatte «evidentemente non ricordavo la circostanza, può capitare, dopo nove anni». O ancora quanto affermato, in una nuova seduta, dall’altro pm Nicola Marini. Sempre dinnanzi ai commissari aveva spiegato che Rossi avrebbe cercato sul web, per ben 35 volte, la parola «suicidio».

A sostegno del fatto che avrebbe voluto farla finita. Circostanza, però, smentita dalla polizia postale di Genova, che ha indagato su incarico della Procura del capoluogo ligure. Nessuna ricerca, hanno chiarito da rilievi tecnici, ma quella parola era contenuta in alcune newsletter cui Rossi era iscritto. E poi ci sono tanti punti oscuri, da un hard disk danneggiato al sospetto di inquinamento della scena. Elementi su cui, man mano, la Commissione sta cercando di far chiarezza. «Notiamo che l’organismo sta portando avanti un lavoro molto serio –osserva Tognazzi - ma rammarica il fatto che ci siano voluti tutti questi anni per avviare un percorso vero di ricerca della verità».

Il pm e la morte di David Rossi: «Nel pc 35 ricerche sui suicidi». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2022.  

La morte di David Rossi «da subito apparve come suicidio». Perché per l’allora capo della comunicazione del Monte dei Paschi «il rischio di perdere il lavoro era molto significativo», a tal punto che «alla fine di febbraio lui si chiude e parla di terrore di essere arrestato, essendo stato male inquadrato» dai pm nell’ambito dell’inchiesta sul crollo della più antica banca del mondo. Le parole di Nicola Marini, pm che era di turno a Siena la tragica sera del 6 marzo 2013, non sembrano lasciare dubbi. Il magistrato, rispondendo alla raffica di domande davanti alla Commissione parlamentare istituita per fare luce sulla morte del manager Mps, ribatte punto per punto sui lati oscuri delle indagini aperte e richiuse in questi 9 anni. E per confutare le ipotesi di un possibile omicidio, dopo che le dichiarazioni di più testimoni davanti alla Commissione hanno innescato dubbi sull’operato della pubblica accusa, Marini sottolinea che «ben due sentenze» di due giudici distinti hanno affermato che si tratta di un suicidio.

I siti web

Ma il sostituto procuratore senese rivela sopratutto un particolare chiave: «Analizzando gli indirizzi dei siti web sul computer di Rossi» emergono «35 file relativi alla parola “suicidi”». Facendo fede ai risultati delle indagini condotte dalla Polposta, Marini aggiunge: «Le chiavi di ricerca erano parole come “soldi”, “crisi”, “suicidio” — aggiunge il pm —. Uno degli ultimi dati che stava leggendo Rossi è del 6 marzo 2013 alle ore 16.39 e riguardava un aspetto molto importante: la circostanza che 8 suicidi al mese avvengono per ragioni economiche». Il magistrato ricorda poi che «il medico legale confermò la natura autosoppressiva della morte». E poi: «Se ci fosse stato un elemento probatorio con ipotesi diverse dal suicidio avremmo indagato» anche in altre direzioni, precisa ancora Marini ricordando che «l’autopsia sul corpo di Rossi non fu disposta perché richiesta dalla famiglia», ma su sua iniziativa.

Il sopralluogo

Secondo il pm di turno, quella tragica sera, nell’ufficio del manager al terzo piano di Rocca Salimbeni, entrarono per un sopralluogo anche i pm Aldo Natalini e Antonino Nastasi, che coordinavano le indagini sul crollo di Mps. In questo quadro Marini offre la sua ricostruzione su un altro dei punti più discussi del giallo: i bigliettini di addio di Rossi. «Furono presi dal luogotenente Cardiello messi sul tavolo, dispiegati e ne leggemmo il contenuto». Nel dettaglio: «Rappresentavano le ultime volontà — ricorda Marini —, nella stanza la situazione era lineare, non rimaneva che andare a vedere il cadavere per chiudere il cerchio». Il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, invece, aveva attribuito questo passaggio al pm Nastasi affermando che quest’ultimo aveva anche «svuotato il cestino sul tavolo». Parole che innescarono una bufera, perché in tal modo sarebbe stata inquinata la scena del crimine. L’ufficiale dell’Arma aggiunse che lo stesso Nastasi aveva addirittura risposto a una telefonata dell’onorevole Daniela Santanchè arrivata sul cellulare di Rossi dopo la sua morte. «Nessuno rispose e smise di squillare», è la replica di Marini. E infine: «Quella sera Aglieco non era nell’ufficio di Rossi» durante il sopralluogo; per questo il pm si dice «meravigliato della sua audizione in commissione: non capisco perché».

L'audizione in commissione. Morte David Rossi, il pm Marini svela: “Sul pc 35 file ha cercato 35 volte la parola suicidio”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 23 Febbraio 2022. 

Su David Rossi non c’era altra ipotesi se non quella del suicidio. A dirlo rispondendo alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte del capo comunicazione del Monte dei Paschi è stato il magistrato Nicola Marini, al momento procuratore facente funzioni di Siena e all’epoca dei fatti tra i magistrati impegnati nell’indagine assieme ai colleghi Aldo Natalini e Antonino Nastasi.

Marini, parlando del ritrovamento di Rossi avvenuto il 6 marzo del 2013 in un vicolo accanto alla sede della banca a Siena, ha spiegato in Commissione di ricordare “un’impronta di scarpa sul davanzale della finestra”. “Sulla finestra ci sono dei segni che secondo me sono di una impronta di una scarpa. È una mia verifica, poi una consulenza successiva ha dimostrato come Rossi è uscito dalla finestra. Produrrò la fotografia, questo è il ricordo che ho”, ha detto ai parlamentari. Lo stesso presidente della Commissione, Pierantonio Zanettin, ha sottolineato l’importanza dell’affermazione, che implicherebbe, se vera, il fatto che Rossi si sia arrampicato sul davanzale di propria iniziativa.

Marini ha quindi difeso il suo lavoro e quello dei colleghi, che non hanno mai creduto all’ipotesi dell’omicidio, tesi sostenuta dalla famiglia dell’ex responsabile della comunicazione di Mps. “Se ci fosse stato un solo elemento concreto al quale agganciare un’ipotesi da investigare, diversa da quella suicidaria, lo avremmo fatto. Non c’era motivo di non farlo”, ha spiegato in Commissione Marini, che ha sottolineato come “non c’è un’informativa, una dichiarazione, un’ipotesi rappresentata che sia dissonante da un’ipotesi diversa dal suicidio”.

Altra dichiarazione importante fornita da Marini riguarda quanto trovato sul computer di Rossi, approfondimenti condotti nel 2019 dalla Polizia postale di Genova che indagava per abuso d’ufficio e favoreggiamento della prostituzione, anche minorile, a carico di ignoti. Inchiesta sui presunti festini a luci rosse a cui avrebbero partecipato alcuni magistrati senesi che poi avrebbero insabbiato le indagini sulla morte di Rossi.

Marini ha rivelato come “nell’ultimo periodo sul computer di Rossi vengono trovati 35 file relativi alla parola suicidi. Viene fatta una scrematura da parte della Polizia postale relativamente alle date 1 marzo e 6 marzo ristretta alle parole soldi, crisi, suicidio”, ha spiegato. “Uno degli ultimi dati che stava leggendo Rossi e messo nella posta eliminata è del 6 marzo 2013 alle ore 16.39 e riguardava un dato molto importante, la circostanza che otto suicidi al mese avvengono per ragioni economiche. Questo è un dato che stava leggendo”, ha raccontato Marini.

Quanto alla presenza del colonnello Aglieco, l’ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena che ha ‘accusato’ il pm Nastasi, Marini ha chiarito: “Non c’era nella stanza. L’ho incontrato, gli ho detto che la competenza era della polizia. Può darsi fosse stato sull’uscio ma io non l’ho visto“.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

(Adnkronos il 24 febbraio 2022) - "Il pm Marini, in modo incomprensibile, fa una sostanziale equiparazione tra il rinvenimento di file e la presunta esecuzione di ricerche da parte di Rossi, sul suo pc, con la parola 'suicidi'. 

Infatti stamattina ho letto su tutti i giornali che si è accreditata la tesi che avrebbe addirittura fatto 35 ricerche sul suo pc con la parola 'suicidio'. La circostanza che il ritrovamento di file in un pc con quella parola possa essere identificata per ricerca è falsa e destituita di ogni fondamento". 

E' quanto afferma all'Adnkronos l'avvocato Carmelo Miceli, legale della moglie di Rossi, Antonella Tognazzi, e della figlia di lei Carolina Orlandi, all'indomani dell'audizione del procuratore di Siena Nicola Marini, all'epoca della morte dell'ex manager pm di turno, riguardo ai file sul pc di Rossi.

"Quello che è vero è che furono rinvenuti 35 file, di cui 23 email, nel complesso della vita del pc di Rossi, che facevano riferimento alla parola suicidio, ma in nessuno di questi documenti è mai stato dimostrato che abbia cercato la parola suicidio. Quello che mi colpisce è che Marini riporti o acconsenta a una simile ricostruzione sulla quale, secondo gli atti che Genova rinvia a Siena, avrebbe dovuto fare ulteriori indagini - osserva Miceli -

La stessa polizia postale, infatti, circostanza incomprensibilmente omessa da Marini, sollecita l'assoluta necessità di compiere ulteriori approfondimenti anche in relazione alle attività effettivamente compiute attraverso quel pc e memorizzate sull'hard disk. E' incomprensibile che la postale e la procura di Genova abbiano chiesto ulteriori indagini e non solo questi atti non sono mai stati compiuti, ma viene addirittura data una lettura finalizzata a valorizzare ancora di più la tesi del suicidio".

(Adnkronos il 24 febbraio 2022) - "Mi è apparsa assurda, incomprensibile, irrituale e non conforme al codice di procedura penale la motivazione che Marini ha offerto alla Commissione di inchiesta sulla mancata iscrizione nel registro degli indagati della persona che entra nel vicolo e guarda verso il corpo di David Rossi".

E' quanto afferma all'Adnkronos l'avvocato Carmelo Miceli, legale della moglie di Rossi, Antonella Tognazzi, e della figlia di lei Carolina Orlandi, all'indomani dell'audizione del procuratore di Siena Nicola Marini, all'epoca della morte dell'ex manager pm di turno, riguardo alla persona che nel filmato di quella sera si vede affacciarsi nel vicolo. "A rigor di codice, Marini avrebbe dovuto iscrivere un fascicolo contro ignoti, provare a identificarlo e comprendere le ragioni per cui non è intervenuto.

E non supporre - sottolinea l'avvocato Miceli - per non si sa quale ragione, che quel tizio non avrebbe visto il corpo di Rossi né percepito il pericolo di vita". Allo stesso modo, secondo l'avvocato, "è assolutamente incomprensibile e irrituale il modo in cui Marini scarica sulla polizia giudiziaria la responsabilità per il mancato compimento di determinati atti di indagini, uno tra tutti, la mancata acquisizione delle celle telefoniche". 

"Qualcuno dovrebbe ricordare a Marini che il pm responsabile di guidare le indagini e coordinare le attività della polizia giudiziaria era lui - continua - E' gravissimo che ieri si sia tentato di far passare il compimento di quell'atto, ossia l'acquisizione dei tabulati, come comunque inutile". Infine il legale chiede: "Perché Marini si limita a riferire che non sarebbero state rinvenute sul pc immagini di festini e omette invece di dire che su quel pc erano state rinvenute immagini pornografiche e/o link di collegamento a siti di incontro che meriterebbero di essere approfonditi?".

(Adnkronos il 24 febbraio 2022) - "In qualità di difensore della moglie Antonella Tognazzi e della figlia di lei, Carolina Orlandi, non posso non stigmatizzare il modo in cui Marini ieri è apparso palesemente interessato a una difesa del suo operato contro ogni evidenza e totalmente disinteressato verso quegli approfondimenti che altre autorità giudiziarie, come quella di Genova su sollecitazione della polizia postale di Genova, hanno invece sollecitato".

E' quanto afferma all'Adnkronos l'avvocato Carmelo Miceli, legale della moglie di Rossi, Antonella Tognazzi, e della figlia di lei Carolina Orlandi, all'indomani dell'audizione del procuratore di Siena Nicola Marini, all'epoca della morte dell'ex manager pm di turno, sottolineando "l'incompatibilità ambientale di quella procura a trattare una eventuale istanza di riapertura delle indagini".

"Tale atteggiamento mostra all'evidenza una mancanza serenità di giudizio e la mancanza di quella terzietà che dovrebbe avere il capo di una procura a cui dovrebbe essere indirizzata l'istanza di riapertura delle indagini: a nostro avviso, dunque, le dichiarazioni di Marini dimostrano, ancora una volta, l'incompatibilità ambientale di quella procura a trattare una eventuale istanza di riapertura delle indagini", conclude.

(Adnkronos il 3 marzo 2022) - "E' stata cancellata dal registro delle chiamate una chiamata in entrata, ma non è specificato da che numero". Lo afferma Stefano Frisinghelli, ascoltato insieme all'ispettore superiore tecnico Claudio Di Tursi, del compartimento della polizia postale e delle comunicazioni della Liguria, davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi, rispondendo a una domanda del deputato Ms5 Luca Migliorino su una chiamata arrivata sul cellulare dell'ex capo della Comunicazione di Mps alle ore "21.54" quando era già morto.

"Risulta la chiamata alle 21.54, il sistema software forense non ha registrato quando è avvenuto il comando di cancellazione", ha precisato l'esperto aggiungendo che "è stato cancellato dal registro chiamate questo tentativo tanto che, specifico, non è stata registrata alcuna numerazione e nemmeno il momento in cui la cancellazione dal registro è stata eseguita".

 (Adnkronos il 3 marzo 2022) - "Vogliamo sapere chi e perché ha cancellato la telefonata ricevuta sul cellulare di David Rossi alle 21.54. Ne abbiamo diritto! Abbiamo diritto alle verità!". Lo afferma all'Adnkronos l'avvocato Carmelo MICELI, legale di Antonella Tognazzi, moglie di David Rossi, e di Carolina Orlandi, figlia di lei, alla luce di quanto emerso nel corso dell'audizione della polizia postale e delle comunicazioni della Liguria davanti alla Commissione di  inchiesta sulla morte di David Rossi riguardo a una chiamata arrivata 

 sul cellulare dell'ex manager di Mps, alle ore 21.54, quando era già  morto, e che è stata cancellata.

Da agenziaimpress.it il 3 marzo 2022.

“Dalla copia forense non vedo traccia di ricerche”. Il caso dei ‘35 file’ è adesso un capitolo chiuso. Augusto Vincenzo Ottaviano, assistente capo coordinatore della polizia postale di Genova, ha voluto chiarire l’episodio emerso nel corso dell’audizione del pm Nicola Marini davanti alla commissione che indaga sulla morte di David Rossi. Il magistrato aveva accennato al fatto che nel computer fisso del manager fossero stati trovati 35 file inerenti la parola “suicidio”.

 “Si tratta in buona parte di mail, visto che Rossi era iscritto a diverse newsletter per la rassegna stampa – ha affermato l’agente -. In quei giorni era emerso uno studio sui suicidi dell’anno precedente ed è probabile che al suo indirizzo posta siano arrivati articoli che ne parlavano. 

Dall’analisi della copia forense però non risultano ricerche effettuate dal browser”. Ottaviano ha voluto chiarire anche il modo di procedere: “Noi utilizziamo software forensi per fare analisi. Non sono ricerche fatte sui drive, ma sono fatte sugli artefatti”. 

L’agente è stato sentito insieme al collega Stefano Frisinghelli e a Claudio Di Tursi, ispettore superiore tecnico. I tre rappresentati della postale si erano occupati delle indagini su alcuni supporti informatici appartenuti a Rossi nell’ambito dell’inchiesta per abuso d’ufficio in merito ai presunti festini. 

Oltre al caso dei 35 file, avevano registrato e segnalato anche l’anomalia della mail postuma. Quella con oggetto “Help” e che recava come data di creazione il 7 marzo, ovvero il giorno dopo la morte di Rossi.

Quel messaggio, indirizzato all’interno di una corrispondenza con l’allora amministratore delegato di Banca Mps, Fabrizio Viola, recava tutta il 4 marzo come data di spedizione. Fatto per altro confermato da Lorenza Pieraccini, ex segretaria di Viola, e Valentino Fanti, ex caposegreteria di Giuseppe Mussari, che ai commissari avevano ribadito di averlo letto proprio quel giorno. 

“E’ stata scritta in due versioni: una, fatta qualche secondo prima della seconda, è stata cancellata e trovata tra gli elementi cancellati, e l’altra, in cartella inviati, con il testo: ’Stasera mi suicido aiutatemi!!!!’ ed è stata inviata subito dopo. L’anomalia di entrambe queste email risiede nel fatto che si ha come data di invio il 4 marzo 2013 e come data di creazione il 7 marzo 2013.

C’è una spiegazione plausibile per questo”, ha affermato Di Tursi, che ha delineato l’accaduto: “Dagli atti ricevuti a corredo delle copie dei dischi che venivano dalla procura di Siena c’è un documento che dice che la polizia postale di Siena, in data 7 marzo 2013, aveva chiesto alla struttura informatica di Mps di fare l’estrazione dal server exchange della casella di posta di Rossi, questo è stato fatto ed è stata creato un archivio. Dalla documentazione di Microsoft emerge che un’operazione del genere può incidere sulla data di creazione. Dunque ci troviamo la data del 7 marzo per questo motivo”.

Morte David Rossi, pm Marini smentito dalla polizia postale. Pietro De Leo su Il Tempo il 03 marzo 2022.

Ma quali ricerche sul web con la parola “suicidio”! Erano newsletter ricevute. I lavori della commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi hanno fornito un’altra badilata alla credibilità dei pm che indagarono sulla vicenda. Per i più smemorati: David Rossi era il capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, precipitato dalla finestra del suo ufficio, a Rocca Salimbeni, la sera del 6 marzo 2013. Eravamo in piena bufera giudiziaria e mediatica per il crac dell’istituto. Furono aperte due inchieste archiviate come suicidio. Ma la persistenza di molti elementi opachi e la tenacia della famiglia di Rossi, convinta che il loro caro sia stato invece ucciso, hanno fatto riaprire giudiziariamente il caso (oggi è la procura di Genova a indagare) e portato qualche mese fa all’istituzione di una commissione in Parlamento. In cui sono stati auditi anche i Pm che indagarono nel 2013. Uno di essi, Nicola Marini, alcuni giorni fa aveva parlato di ricerche che Rossi aveva eseguito sul web utilizzando la parola “suicidio”.

Per ben 35 volte. E aveva aggiunto: “uno degli ultimi dati che stava leggendo Rossi, e messo nella posta eliminata, è del 6 marzo 2013, alle ore 16:39 e riguardava un dato molto importante, la circostanza che otto suicidi al mese avvengono per ragioni economiche”. Dunque, la chiave di lettura è chiara, David Rossi compiva ricerche orientato dalla sua intenzione di farla finita. Circostanza, però, che è stata demolita dalla Polizia Postale di Genova, intervenuta sulle indagini  nel 2019 su mandato della procura del capoluogo ligure. Non è che Rossi cercasse di sua sponte la parola “suicidio”, è la conclusione dei poliziotti sulla base di elementi tecnici, ma riceveva delle newsletter con dei testi che, a vario titolo, contenevano il termine. L’assistente capo coordinatore Augusto Vincenzo Ottaviano dunque ha spiegato: “abbiamo cercato la fonte di queste informazioni, riaprendo quella copia lavoro”. Ricavando che Rossi “era iscritto a numerose newsletter nelle quali riceveva costanti comunicazioni da testate giornalistiche, agenzie di stampa, relative a notizie. Le riceveva spesso in posta elettronica”. Poi viene il nocciolo della questione: “la parola suicidio o suicida compare molte volte nella sua casella e-mail, ma la parola viene contestualizzata in modo diverso dall’intenzione di togliersi la vita, tipo riguardo a notizie finanziarie di tenore negativo si può leggere di ‘suicidio bancario'”. E ancora: “non vedo traccia di ricerche della parola suicidio”. Ottaviano poi spiega che “questa attività, se viene fatta, viene registrata dal sistema. I software forensi mostrano con alta descrizione quel tipo di ricerche”. I commissari, peraltro, richiamandosi ad una relazione tecnica chiedono a Ottaviano e all’ispettore Di Tursi se David Rossi abbia ricevuto, sempre tramite newsletter un articolo da Dagospia sugli otto suicidi al mese a causa della crisi economica. E se abbia visualizzato l’immagine di un cappio sempre, dopo un download. Ebbene, entrambi hanno confermato. La Commissione incalza: “Allora non ci sono evidenze che Rossi cercasse la parola suicidio. E’ così?”. I due poliziotti rispondono: “è così”. Altro tema analizzato, la famosa mail “help”, inviata all’ad Fabrizio Viola, in cui Rossi annunciava l’intenzione di farla finita. Su quella mail, sempre in audizione, si era pronunciato anche l’ex presidente Mussari affermando di non riconoscere, nel registro linguistico usato (“stasera mi suicido sul serio, aiutatemi!!”) quello abituale di Rossi. Su questo tema c’era una discrasia tra la data di invio, il 4 marzo 2013 e quella di creazione del messaggio, il 7 marzo. Di Tursi ha spiegato.

“C'e' una spiegazione plausibile. La Polposta senese il 7 marzo 2013 chiese alla struttura informatica di Mps di estrarre la casella e-mail di Rossi" e "in questa operazione la casella viene modificata e percio' troviamo la data del 7" invece del 4. Il punto oscuri, semmai sono altri due. L’impossibilità di recuperare la copia forense di un pc portatile utilizzati da Rossi. E il fatto che non è stato possibile recuperare due email dal suo Blackberry. Gli investigatori hanno parlato di un tentativo di “gestire” quelle due comunicazioni elettroniche il 14 marzo, dunque ben otto giorni dopo la morte di Rossi. Altri nodi da sciogliere, quindi. A fronte di una certezza. Dopo la smemoratezza dell’altro pm Nastasi (sempre davanti alla Commissione disse di non esser stato nel vicolo dove precipitò il corpo di Rossi, ma una foto ha provato il contrario e lui ha dovuto ammettere) e la ricostruzione di Natalini sulle ricerche web smentita dai poliziotti, si arricchisce l’antologia degli inciampi da parte dei pm che indagarono a suo tempo.

La Polizia Postale smentisce il pm Marini: “David Rossi non cercò la parola suicidio sul web”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Marzo 2022.  

Lo hanno dichiarato gli investigatori della Polizia Postale di Genova alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul presunto suicidio dell'ex capo della comunicazione di Mps. Anche la parola "festini" non compare mai nelle ricerche

David Rossi, il capo della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena morto il 6 marzo 2013  precipitando da una finestra della sede della banca senese, non aveva mai cercato la parola “suicidio” sui motori di ricerca ma ricevette nella sua e-mail testi di newsletter a cui era iscritto dove tale parola compariva. Lo hanno detto investigatori della Polizia Postale di Genova auditi alla Commissione parlamentare d’inchiesta. 

L’assistente capo coordinatore della Polposta di Genova Augusto Vincenzo Ottaviano ha spiegato che dopo le affermazioni del pm Nicola Marini, audito dalla stessa Commissione nei giorni scorsi, “abbiamo cercato la fonte di queste informazioni, riaprendo quella copia lavoro” ha confermato che David Rossi “era iscritto a numerose newsletter nelle quali riceveva costanti comunicazioni da testate giornalistiche, agenzie di stampa, relative a notizie. Le riceveva spesso in posta elettronica. La parola suicidio o suicida compare molte volte nella sua casella e-mail, ma la parola viene contestualizzata in modo diverso dall’intenzione di togliersi la vita, tipo riguardo a notizie finanziarie di tenore negativo si può leggere di ‘suicidio bancario‘”. 

I commissari chiedevano alla Polizia Postale una conferma ad affermazioni dell’attuale procuratore di Siena Nicola Marini secondo il quale Rossi prima della morte avrebbe cercato e digitato sul web la parola “suicidio” 35 volte. Ma dai riscontri tecnico-informatici degli investigatori della Polizia Postale di Genova non risulta che Rossi abbia fatto questo tipo di ricerca: “Non vedo traccia di ricerche della parola suicidio” coi motori, ha aggiunto Ottaviano, “questa attività, se viene fatta, viene registrata dal sistema. I software forensi mostrano con alta descrizione quel tipo di ricerche“. 

L’ispettore superiore tecnico Claudio Di Tursi sempre della Polizia postale di Genova, citando una relazione di altra sezione della Polposta, ha evidenziato che il 6 marzo 2013 Rossi aveva ricevuto alle 16.39 nella sua e-mail un articolo del sito Dagospia relativo a uno studio sul 2012 su soldi, crisi economica e suicidi dove si parlava di otto suicidi al mese. Un testo che sarebbe pervenuto per l’iscrizione di Rossi. Sempre alle 12.57 dello stesso 6 marzo 2013 sul computer di Rossi viene visualizzata la foto di denaro e cappio sempre da una stringa url del sito web di Dagospia. La Commissione parlamentare d’indagine ha osservato che Rossi quindi non cercava la parola suicidio, chiedendo: “E’ così?”. Sia Ottaviano che Di Tursi hanno risposto confermando: “E’ corretto”.

Così come non c’è alcuna traccia informatica sui presunti “festini” a cui Rossi avrebbe assistito.  Negli hard disk dei tre computer di David Rossi che la Polizia Postale di Genova ha avuto il compito di esaminare su delega della procura del capoluogo ligure impegnata dal 2019 a verificare affermazioni su eventuali ‘festini’ particolari a Siena in cui sarebbero, secondo testimoni, coinvolti magistrati Né immagini, né scritti, né ricerche nella Rete. Audito in Commissione parlamentare l’ispettore superiore tecnico Claudio Di Tursi della Polposta di Genova ha confermato che “La ricerca informatica sui computer di Rossi attinente all’indagine, circa la partecipazione a festini, ha dato esiti negativi“. 

Il prossimo 17 marzo toccherà al giornalista ex Ansa Domenico Mugnaini l’audizione a Palazzo San Macuto . Già deliberata anche l’audizione di Ettore Gotti Tedeschi che dovrebbe svolgersi i primi giorni di aprile, mese in cui potrebbero arrivare i risultati degli accertamenti svolti sulla caduta dai Carabinieri del Ris a Siena e poi rielaborati in collaborazione con l’Università La Sapienza di Roma. Redazione CdG 1947

David Rossi, la famiglia: "Vogliamo sapere chi cancellò la telefonata". Francesco Boezi il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.

Di nuovo un "giallo" attorno al caso David Rossi: in commissione d'inchiesta spunta una telefonata "cancellata" che l'ex capo Comunicazione di Mps ha ricevuto dopo la sua morte. 

L'audizione della Polizia postale in commissione d'inchiesta parlamentare apre un nuovo capitolo del caso David Rossi. Stefano Frisinghelli, uno degli esperti ascoltati, ha infatti parlato di una telefonata "cancellata dal registro delle chiamate una chiamata in entrata", aggiungendo che "non è specificato da che numero". Rossi avrebbe ricevuto quella telefonata alle 21.54 del giorno in cui è morto. E la novità, com'era pronosticabile, ha sollevato il coro scandalizzato della famiglia dell'ex capo Comunicazione di Mps.

"Vogliamo sapere chi e perché ha cancellato la telefonata ricevuta sul cellulare di David Rossi alle 21.54. Ne abbiamo diritto! Abbiamo diritto alle verità!", ha fatto subito presente l'avvocato Carmelo Miceli, che rappresenta sia la vedova Antonella Tognazzi sia la figlia, ossia Carolina Orlandi. Vale la pena specificare come, alle 21.54 - così come ripercorso dall'Adnkronos - David Rossi fosse già deceduto. Questa vicenda si tinge di nuovo di "giallo", quindi, con un altro elemento che rischia di far discutere anche rispetto alle modalità con cui sono state svolte le indagini.

Ma questo è soltanto uno degli aspetti che sono stati analizzati in commissione d'inchiesta. Nel corso di una recente audizione, il pm Nicola Marini aveva raccontato di come nel Pc del Rossi fossero presenti numerose ricerche legate alla parola "suicidio". Per gli investigatori della Polizia Postale, però, le cose non stanno proprio così. Un' altra delle persone sentite, ossia Augusto Vincenzo Ottaviani, ha infatti dichiarato che Rossi "era iscritto a numerose newsletter da cui riceveva costanti comunicazioni in mail. La parola "suicidio" o "suicida" compare molte volte nella e-mail ma può essere usata in contesti diversi dal significato di togliersi la vita, per esempio su notizie finanziarie si può leggere di 'suicidio bancario".

E ancora i "festini", quelli che sono balzati agli onori delle cronache in più circostanze durante le fasi inchiestistiche. L'ispettore Claudio Di Tursi ha fatto presente come "la ricerca sulla partecipazione a festini" abbia "dato esiti negativi". In estrema sintesi, David Rossi non avrebbe né cercato la parola "suicidio" né modalità per prendere parte a "festini". Il tutto - ovviamente - per quel che riguarda le ricerche compiute sul web.

Se la questione della diversificazione delle date della mail tramite cui David Rossi avrebbe chiesto aiuto sembrerebbe essere stata chiarita dalle motivaizoni fornite durante l'audizione, c'è anche un'altra questione che non può che tenere banco: "Inaccettabile - ha tuonato l'avvocato Miceli - che la Procura di Siena abbia lasciato che si rompesse un hard disk contenente la copia forense di uno dei portatili trovati nell'ufficio del Rossi. La Procura avrebbe dovuto garantire la catena di custodia di un reperto così importante. È chiaro che chiederemo nuove operazioni sui testi di questo hard disk". Un hard disk che la famiglia ritiene essenziale ai fini della comprensione della verità sul caso, insomma, si sarebbe rotto. E l'avvocato se la prende con la Procura che non avrebbe garantito la sicurezza dell'oggetto.

Come è morto David Rossi: omicidio o suicidio? Il caso raccontato dall’inizio (e cosa ancora non torna). Claudio Bozza e Antonella Mollica su Il Corriere della Sera il 23 dicembre 2021.

Due inchieste archiviate come suicidio. Ma ancora troppi i punti non chiari a quasi 9 anni dalla morte del capo della comunicazione di Mps. L’ultimo giallo del pm che avrebbe risposto al cellulare di Rossi, ma i tabulati smentiscono il colonnello Aglieco

6 marzo 2013: a Siena fa freddo, piove e un’inchiesta sul crac del Monte dei Paschi sta mettendo paura a tante persone. I pm senesi stanno indagando sulle responsabilità che hanno portato all’implosione della banca più antica del mondo, fondata nel 1472 . Nell’occhio del ciclone ci sono l’ex presidente del Monte Giuseppe Mussari e l’ex direttore generale Antonio Vigni. Sono stati loro, nel novembre 2007, gli artefici della a dir poco spericolata acquisizione di Antonveneta dagli spagnoli di Santander. 

Si saprà poi che, tra esborso e accollamento dei debiti, Antonveneta venne pagata circa 17 miliardi di euro (a cui andrà poi aggiunta la voragine causata dai derivati), mentre una perizia postuma l’avrebbe valutata appena 2 miliardi e 800 milioni. Ma quella sera del 6 marzo 2013 succede qualcosa di ben diverso. 

Qualcosa di cui, in questi giorni, si è tornato a parlare: alle 19.43 David Rossi , 52 anni, capo della comunicazione di Mps, vola dalla finestra al terzo piano di Rocca Salimbeni , dove c’era il suo ufficio. Il corpo di Rossi piomba sul selciato in pietra di vicolo Monte Pio.

Cosa succede la sera del 6 marzo 2013?

Da quasi un anno, dopo la cacciata di colui che era stato definito “il re di Siena”, Giuseppe Mussari, e di Antonio Vigni, il nuovo presidente del Monte Paschi Alessandro Profumo e l’amministratore delegato Fabrizio Viola stanno lavorando per cercare di resuscitare la terza banca italiana, travolta dagli scandali e dal rischio bancarotta. Un contesto incandescente, in cui la comunicazione, per la banca, gioca un ruolo chiave. Ogni minima indiscrezione sulla stampa condiziona l’andamento in borsa, ancora più del normale. 

Il capo della comunicazione di Mps si chiama David Rossi, appunto, 52 anni, un professionista apprezzato e benvoluto da tanti. È molto amico di Mussari, ma proprio per le sue grandi relazioni e le capacità riconosciute dai più, i nuovi vertici lo confermano nel suo ruolo apicale durante la rifondazione del Monte . Rossi è sposato con Antonella Tognazzi, che ha una figlia dal precedente matrimonio, Carolina Orlandi, a cui il manager è legatissimo.

Da alcune settimane, però, dopo aver subito una perquisizione — pur senza essere indagato — secondo alcune testimonianze Rossi avrebbe iniziato a smarrire la sua serenità. Teme di perdere il lavoro, a cui tiene tantissimo, ha paura di essere risucchiato nel vortice delle intercettazioni e delle accuse. Rossi si confronta più volte anche con l’amministratore delegato del Monte, il quale gli conferma piena fiducia. Ma il 4 marzo alle 10.13, proprio a Fabrizio Viola arriva una drammatica mail di Rossi in cui è scritto: «Stasera mi suicido sul serio. Aiutatemi!». Secondo gli atti delle inchieste, l’ex ad della banca dice di non aver visto quel messaggio.

Il cadavere a terra per quasi un’ora, e nessuno se ne accorge

La sequenza della caduta viene ripresa da una telecamera di sicurezza della banca, che registra anche l’agonia di Rossi prima della morte: venti minuti, durante i quali sembra che nessuno si sia accorto di nulla. I medici del 118 arriveranno quando non ci sarà più niente da fare. Ad allertare i soccorsi, quasi un’ora dopo, è Gian Carlo Filippone, funzionario Mps e amico di Rossi, chiamato dalla moglie di quest’ultimo, allarmata perché David non rispondeva al telefono. Filippone apre la porta dell’ufficio, trova la finestra aperta, si affaccia, vede a terra il cadavere dell’amico e corre giù. 

Omicidio o suicidio?

Due inchieste affermano con certezza che David Rossi si è tolto la vita : la prima è della giudice per le indagini preliminari Monica Gaggelli, la seconda è del 2017, dopo la riapertura delle indagini, da parte di un’altra gip, Roberta Malavasi, che in 58 pagine riepiloga la vicenda in seguito alla riesumazione della salma, sottoposta anche a una dettagliata Tac per far luce sui punti meno chiari. 

La tesi del suicidio è avvalorata anche dai biglietti di addio scritti a mano da Rossi, poi ritrovati strappati nel suo ufficio e che dicevano così: «Amore mio, ti chiedo scusa. Ma non posso più sopportare questa angoscia. In questi giorni ho fatto una cazzata immotivata, davvero troppo grossa. E non ce la faccio più credimi, è meglio così». Un altro elemento decisivo sarebbero i segni di autolesionismo sui polsi di Rossi, di cui i suoi stessi famigliari si erano accorti (e assai preoccupati) anche a casa, chiedendogli spiegazioni.

Perché così tanti dubbi dopo quasi 9 anni?

Quella di Rossi non è una morte qualunque. È la morte di un importante dirigente di una banca su cui erano puntati i fari della grande finanza, europea e non solo. E soprattutto perché, a fronte di tutti gli elementi raccolti dai pm e avvalorati dai gip, dopo quella tragica notte, nel corso del tempo sono emersi troppi particolari su cui i famigliari di Rossi hanno sollevato dubbi. 

Lamentano indagini troppo frettolose, convinti che quella morte sia stata classificata troppo presto come suicidio. Dalla conclusione della prima inchiesta – dicono – emergono diverse imprecisioni, anche nel provvedimento del gip.

I punti chiave del giallo

Perché sono state acquisite le immagini di una sola telecamera esterna? Grazie alle altre, che non hanno ripreso la caduta di Rossi, si sarebbe potuto far luce sull’identità delle persone che in quei minuti ruotavano attorno a Rocca Salimbeni. Nelle sequenze finite agli atti si intravedono persone che passano all’imbocco del vicolo, dove il corpo di Rossi giacerà per quasi un’ora. In particolare, 28 minuti dopo la caduta, si vede un passante che si affaccia nel vicolo e va via. 

Questa persona non è mai stata identificata nonostante sia stata aperta un’inchiesta per omissione di soccorso, che però non ha portato ad alcun risultato. E poi, si chiedono i famigliari, perché non è mai stato fatto l’esame del Dna sui fazzoletti macchiati di sangue ritrovati nell’ufficio di Rossi? Gli inquirenti, evidentemente, hanno dato per scontato che fosse sangue del capo della comunicazione di Mps e non di un ipotetico aggressore. E quando i famigliari hanno chiesto che quei fazzoletti venissero analizzati, si scoprì che erano stati distrutti dopo la prima inchiesta.

Ma il vulnus principale della prima inchiesta sta negli orari di registrazione della sequenza: la telecamera, per un errore nel settaggio, registra la caduta di Rossi 16 minuti più tardi rispetto all’ora reale: le 19.43 , come abbiamo detto. Questa differenza temporale, non rilevata dalla polizia giudiziaria, ha fatto sì che per lungo tempo molti dei riscontri con i testimoni ascoltati non tornassero affatto, dando adito a sospetti e sostanza a ipotesi e ricostruzioni di un possibile omicidio. Non c’erano invece telecamere interne alla banca che potessero riprendere la scena.

La dinamica di un possibile omicidio?

Una prima risposta possibile è che difficilmente una (o piu persone) siano riuscite ad agire nel totale silenzio negli uffici di una banca, dove c’erano diverse persone ancora al lavoro, e a lanciare una persona dalla finestra senza il minimo segno di colluttazione e senza che nessuno sentisse qualcosa.

Su questa vicenda, nel marzo del 2021, è stata istituita anche una commissione parlamentare d’inchiesta, su forte spinta di Fratelli d’Italia e dopo ripetute denunce e trasmissioni televisive in cui i famigliari di Rossi avevano dichiarato di non credere al suicidio. Come spesso accade, l’operato della Commissione di Montecitorio rimane sottotraccia per mesi. Finché succede qualcosa di molto sorprendente.

Il colpo di scena del colonnello Aglieco

La deposizione di un colonnello dell’Arma dei carabinieri che il 9 dicembre, ancora una volta, spariglia tutto. Si tratta di Pasquale Aglieco, ai tempi comandante provinciale di Siena, che racconta in Commissione che la sera della morte di Rossi lui era uscito per andare a comprare le sigarette. Ha visto passare una volante della polizia, ha chiesto informazioni alla sala operativa su cosa stesse succedendo e si è recato in vicolo Monte Pio. 

A Siena tutti conoscono tutti. E Aglieco riconosce subito che il cadavere è di David Rossi. Sempre secondo quanto raccontato dal colonnello, è stato lui a dare le prime disposizioni del caso, compresa quella di piantonare l’ufficio di Rossi. Ed è a questo punto del racconto, dopo oltre 5 ore di audizione, che Aglieco snocciola una serie di elementi che innescano una bufera, politica e non solo.

L’ipotetico inquinamento della scena di un possibile crimine

Agleico racconta che nella stanza di David Rossi, oltre al pm di turno Nicola Marini, arrivano anche i colleghi Antonino Nastasi e Aldo Natalini, che stavano già indagando sul crac Mps. Dal momento in cui si scopre il corpo senza vita di Rossi, nel suo ufficio entrano almeno 5 persone prima che la scena venga congelata dalla polizia scientifica e prima ancora dell’arrivo dei pm: i due colleghi Filippone e Mingrone che danno l’allarme, l’usciere della banca, i due poliziotti della volante. Infine, solo in ultima battuta, arrivano i tre pm che iniziano il sopralluogo alle 21.25. 

Aglieco racconta di essere presente in quella stanza pur non avendo i carabinieri in quel momento titolo per essere lì, visto che l’intervento è della polizia. E racconta anche che quella sera il pm Nastasi avrebbe risposto a una telefonata dell’onorevole Daniela Santanchè sul cellulare di Rossi . Secondo la ricostruzione di Aglieco, inoltre, lo stesso pm avrebbe toccato mouse e computer e avrebbe ricomposto le lettere di addio strappate e ritrovate nel cestino. Da lì è arrivata la prima conferma che si trattasse di un suicidio.

Possibile che un magistrato abbia risposto al cellulare di un morto?

Aglieco dice che a questa seconda telefonata avrebbe risposto il pm Nastasi, ma dai tabulati agli atti delle due inchieste e dall’analisi dell’Iphone di Rossi emerge che a quella telefonata non vi fu risposta . Nel 2017 la senatrice di Fratelli d’Italia aveva confermato questo aspetto, ma nei giorni scorsi, dopo il racconto di Aglieco, ha cambiato versione dicendo qualcuno rispose al telefono di David, senza però interloquire.

Il fronte politico e gli attacchi di Renzi

Le dichiarazioni del colonnello accendono anche un fronte politico. Perché Matteo Renzi, da mesi nella bufera per l’inchiesta sulla Fondazione Open, in cui è accusato di finanziamento illecito ai partiti, parte al contrattacco delle toghe . Il leader di Italia Viva non si lascia sfuggire l’occasione di ricordare che Nastasi è uno dei pm che lo accusano e si chiede retoricamente: «Voi sareste tranquilli se a indagare su di voi fosse un magistrato che agisce così?». Poco dopo, però, il Corriere della Sera riesce a recuperare dettagliati tabulati telefonici, dai quali risultano classificate come «chiamate in entrata senza risposta» le due telefonate riferite da Aglieco. 

Quindi, almeno uno dei tanti punti oscuri di questa vicenda è stato chiarito. Ne rimangono molti altri. Il tutto, mentre la commissione parlamentare, con l’aiuto dei carabinieri del Ris e di strumenti avveniristici dell’università, ha fatto nuovamente simulare, stavolta in 3D, la caduta dalla finestra di Rossi . E il 20 gennaio, una data a questo punto fondamentale, ascolterà a Montecitorio il pm Nastasi, finora rimasto nel riserbo più totale. Otto anni dopo, a Siena e non solo, la ferita è ancora profonda.

Morte Rossi: pm, distrutti fazzoletti sangue? Per me erano rifiuti. ANSA il 18 febbraio 2022. I fazzoletti insanguinati nel cestino dell'ufficio di David Rossi al Monte dei Paschi trovati dopo la sua morte furono distrutti perché considerati "rifiuti". Lo dice uno dei pm delle indagini, Aldo Natalini, in audizione alla Commissione parlamentare d'inchiesta. La Commissione ha chiesto, tra l'altro, a Natalini quale sarebbe stata un'attività di indagine che avrebbe potuto scalfire la certezza "granitica" della procura sulla tesi del suicidio. "Col senno di poi probabilmente questa sui fazzoletti", ha detto l'ex pm a Siena, oggi magistrato in Cassazione. (ANSA).

ACCUSE E SOSPETTI. David Rossi, un mistero italiano. Spuntano i verbali dei testimoni. GAETANO DE MONTE su Il Domani il 16 febbraio 2022

È il 26 gennaio del 2019 e, all’interno del carcere di Massa Carrara dove è recluso accusato dell’omicidio della prostituta Camargo Lucelly, l’escort brasiliano Villanova Correa, racconta al sostituto procuratore di Siena, Niccolò Ludovici: «con il decesso di David Rossi non c’entro nulla. Coloro che lo hanno fatto, sono ancora fuori». È il j’accuse di Correa: «per scoprire la verità dovete partire dalla donna che ho ucciso, dal suo amante. Lei era l’amante di un alto dirigente del Monte dei Paschi di Siena».

Si chiede oggi la difesa della famiglia di David Rossi, rappresentata dall’avvocato Carmelo Miceli: «perché è stata compromessa la scena dell’evento, molto prima che arrivasse la polizia scientifica»? 

Diverse domande restano sullo sfondo della vicenda tuttora senza risposta. Tra cui quelle  relative a ciò che accadde nelle prime ore in cui il corpo di David Rossi fu visto dai carabinieri e dai pubblici ministeri alle 20.50 del 6 marzo 2013, cioè quattro ore prima che sulla scena potesse accedere anche la polizia scientifica. Quesiti a cui la stessa Commissione parlamentare di inchiesta proverà a dare una risposta entro la fine della legislatura.

GAETANO DE MONTE. Nato a Taranto nel 1984, vive a Roma. Giornalista, si occupa di conflitti ambientali, mafie, migrazioni, violazioni di diritti umani. Ha scritto articoli e inchieste per quotidiani e riviste. Ha vinto i premi giornalistici: "Giovani reporter contro l'usura", "Michele Frascaro" e "Tommaso Francavilla". 

(ANSA il 16 febbraio 2022) - "David Rossi era un fratello, un amico. Lo feci assumere perché nel suo lavoro era il più bravo di tutti". 

Lo ha detto l'avvocato Giuseppe Mussari, audito stamani dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi, leggendo una lettera scritta da lui stesso alla vedova e ad affermazioni di un interrogatorio alla guardia di finanza. "Non gli ho mai confidato nulla, ma se c'era bisogno di un amico, lui c'era", ha anche detto Mussari. 

Giuseppe Mussari, già presidente del Monte dei Paschi di Siena, ha letto una lettera scritta alla vedova di David Rossi e alcune affermazioni di un interrogatorio di Rossi alla guardia di finanza. 

Mussari ha ricordato che i rapporti con David Rossi sono nati nell'ambito di Siena e si sono fatti più stretti in un rapporto diventato di amicizia e anche di lavoro, tuttavia ha ribadito Mussari "feci assumere Rossi perché era il più bravo".

(ANSA il 16 febbraio 2022) - E' iniziata alle 10.40 l'audizione di Giuseppe Mussari, ex presidente di Mps, nel corso della sua audizione davanti alla commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi, ex capo comunicazione della banca senese deceduto il 6 marzo 2013 dopo essere precipitato dalla finestra del suo ufficio

(ANSA il 16 febbraio 2022) - "David Rossi avrà partecipato a un cda di Mps, quando avrà dovuto esporre le linee guida sulla comunicazione o a un nuovo spot della banca che sarebbe andato in onda", "Rossi altrimenti non partecipava ai cda" della banca. Lo ha detto Giuseppe Mussari rispondendo alla Commissione parlamentare d'inchiesta rispetto al suo periodo di presidenza di Mps.

Alle domande sulle informazioni cui aveva accesso Rossi, Mussari ha detto che "aveva le informazioni che doveva veicolare verso il pubblico", fuori dalla banca, come capo della comunicazione di Mps. All'obiezione che forse la presenza di Rossi ai cda non sarebbe stata verbalizzata, Mussari ha ribadito: "David Rossi non ha partecipato ai cda, perché io c'ero. Non è che non risulta dai verbali - ha rimarcato Mussari -: lui non c'era ai cda se non per questioni afferenti al suo settore", della comunicazione. 

Successivamente, rispondendo a un altro commissario, l'on. Cenni, sul ruolo di David Rossi in banca Mps e quali informazioni poteva avere accesso, sempre Mussari ha detto che "Rossi non ha partecipato a riunioni di top management se non per questioni afferenti ad area di competenza", inoltre " non ho conoscenza che lui avesse informazioni su operazioni della banca".

"David Rossi non aveva deleghe, era il responsabile della comunicazione - ha detto Mussari - e in questo ruolo semmai aveva capacità di impegnare la banca con terzi per spese a importi stabiliti", "step per step, in relazione a elementi quantitativi crescenti. Per un primo step poteva decidere da solo la spesa, per uno step successivo rivolgersi a organismi predeterminati della banca per importi più alti"

(ANSA il 16 febbraio 2022) -  "Ritengo che David Rossi nulla sapesse delle operazioni Alexandria e Santorini, oggetto di indagine della procura di Siena.

Ritengo che nulla ne sapesse. Era già stato interrogato, non credo avesse cose di chissà quale significato, di chissà quale rilevanza da riferire. I suoi computer, i suoi strumenti elettronici, la sua posta, sono stati analizzati, da qui nulla è emerso nei fascicoli che mi riguardano, ma ritengo neanche in altri fascicoli altrimenti sarebbero inevitabilmente emersi". Lo ha detto Giuseppe Mussari alla Commissione d'inchiesta sulla morte di Rossi sulle email del capo della comunicazione all'ad Viola in cui avrebbe manifestato un forte disagio personale nei giorni in cui era stato interrogato.

Morte David Rossi, i dubbi di Mussari (ex Mps): "I bigliettini di addio? Non si esprimeva così". Il Tempo il 16 febbraio 2022

"La mia sensazione è che quello non era il modo di esprimersi del David che io conoscevo", così l’ex presidente di Mps, Giuseppe Mussari, ascoltato in Commissione di inchiesta sulla morte di David Rossi, ha risposto a una domanda sui bigliettini ritrovati, che l’ex capo della Comunicazione di Mps avrebbe scritto alla moglie.

Nel corso dell’audizione Mussari ha risposto anche a una domanda sulla possibilità che David Rossi fosse venuto a conoscenza dell’esistenza di presunti festini. "Ma sta scherzando? David in un festino? Quando si sarebbero tenuti questi festini?", ha risposto Mussari: "Se avesse saputo qualcosa di men che meno lecito sarebbe andato in procura a denunciare, ma non era nella sua natura. Non ce lo vedo dentro una discussione che aveva un oggetto di questo genere"

"Che idea si è fatto di questa vicenda?", ha chiesto poi la commissione di inchiesta a Giuseppe Mussari. "Per me quello che dice Antonella (la moglie id Rossi) è Vangelo - ha risposto Mussari - C’è chiaramente una non accettazione sostanziale delle conclusioni formali a cui si è arrivati. Da parte mia, da chi ha nutrito quel tipo di rapporto così da definirlo fraterno e non in senso massonico, non posso rimanere indifferente a una moglie che si batte come si batte Antonella o ai fratelli che continuano a chiedere giustizia, chiarezza, un livello definitivo di consapevolezza. Non posso rimanere indifferente e non posso che stare dalla loro parte ignorando le ragioni che li muovono, ma ci sono per scelta ontologica, per essenza della mia natura in relazione al rapporto che avevo con David, non posso stare da un’altra parte". Il giorno che avrò finito di rincorrere i miei processi se il mio spirito me lo consentirà io chiederò, se mi verrà concesso, la copia di questo fascicolo e se avrò la forza di leggerlo solo dopo mi farò un’idea", aveva detto prima. "Quando avrò la forza, ed è un rammarico non averla avuta, sarò felice di dare la mia opinione, ma fino ad allora io là devo stare perché è la mia natura, sto di là perché Davide mi avrebbe immaginato di là".

Claudio Bozza e Fabrizio Massaro per il "Corriere della Sera" il 17 febbraio 2022.

«Non era il modo di esprimersi di David Rossi: non lo riconosco in quei biglietti di addio». Poi: «Certo che avevo rapporti con Ettore Gotti Tedeschi. Ma allo Ior io non ci ho mai messo piede». 

E poi: «David era come un fratello», per poi precisare, respingendo ogni possibile allusione, «ma non in senso massonico». 

Dopo dieci anni di assoluto riserbo, Giuseppe Mussari, ex presidente di Mps, riappare in pubblico per parlare della morte del capo della comunicazione del Monte e degli aspetti che determinarono l'inizio della crisi della banca più antica del mondo. 

Lo fa davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta istituita per fare luce sulla vicenda del manager che la sera del 6 marzo 2013 morì precipitando dal suo ufficio di Rocca Salimbeni a Siena.

Un'audizione pubblica di circa 4 ore, con la sola parte finale segretata. Tra i punti oscuri della morte di Rossi ci sono anche i biglietti di addio, strappati ma trovati nel cestino dello studio . Biglietti nei quali Rossi si rivolge alla moglie Antonella Tognazzi chiamandola «Toni». Un modo di esprimersi che la moglie non ha riconosciuto come tipico del marito.

Mussari conferma: «Di Tonia non ne ho memoria, di Antonella ho memoria. Per me la chiamava Antonella». Tutto il testo non lo convince: «Non era il modo di esprimersi di David: non lo riconosco in questi biglietti di addio». 

Va però precisato che, dagli atti dell'inchiesta, emerge che, nel telefono di Rossi, il numero della moglie era registrato proprio come «Toni». 

Anche le mail di aiuto inviate pochi giorni prima del suicidio, per Mussari non sono nello stile dell'amico. Ma Mussari precisa di non avere elementi per giudicare come suicidio o omicidio il volo di Rossi dal terzo piano di Rocca Salimbeni.

Però «sto con Antonella, per scelta ontologica. Dove c'è lei, ci sono io», dice. E la vedova da anni ritiene che David Rossi sia stato ucciso. 

Mussari, se si fa eccezione alle dichiarazioni rese il 29 gennaio 2014 davanti ai magistrati (famosa la sua esclamazione davanti ai giudici «Io Maramaldo, no!»), non aveva proferito verbo dal 27 aprile 2012, quando fu costretto a lasciare il timone del Monte dei Paschi. Ora torna a farlo. 

Più volte si commuove quando ricorda l'amico: «Ho amato David come un fratello. Ha iniziato a lavorare alla fondazione Mps e ho chiesto alla banca di assumerlo perché era il più bravo di tutti», ricorda. E riguardo la possibilità che, visto il suo ruolo apicale nella comunicazione, Rossi fosse al corrente dell'operazione Antonveneta, Mussari è categorico: «Dell'acquisizione ce ne occupammo esclusivamente io e il direttore generale Antonio Vigni. Rossi seppe della notizia solo quando venne il momento di renderla pubblica».

Lo scandalo Mps esplose a inizio 2013 con due fughe di notizie relative ai cosiddetti «derivati» Alexandria e Santorini realizzati con le banche internazionali Nomura e Deutsche Bank, a gennaio 2013. 

Anche in seguito alla pubblicazione dei dettagli di questi contratti su Bloomberg e poi su Il Fatto , e al tracollo di Borsa che ne seguì, Mussari - che aveva lasciato la presidenza di Mps nell'aprile 2012 - fu costretto a lasciare anche il vertice dell'Abi.

Che idea si è fatto di quella doppia fuga di notizie? - gli chiede un deputato -, sono uscite dalla banca secondo lei? Mussari coglie il punto: «Non lo so, certamente quelle informazioni che sono veicolate non erano solo in possesso della banca, basta guardare i fascicoli di indagine e incrociare le date di acquisizione per averne contezza. È andata come lei ha detto. Quale è stata la manina non la conosco».

Morte David Rossi, Mussari (Mps) parla dopo 10 anni: «Non lo riconosco in quei biglietti di addio». Claudio Bozza e Fabrizio Massaro su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2022.

L’ex presidente della banca risponde alla commissione parlamentare: «Avevo rapporti con Gotti Tedeschi, ma allo Ior non ci ho mai messo piede. Rossi era come un fratello, ma seppe dell’operazione Antonveneta solo quando la notizia divenne pubblica»

«Non era il modo di esprimersi di David Rossi: non lo riconosco in questi biglietti di addio». Poi: «Certo che avevo rapporti con Ettore Gotti Tedeschi. Ma allo Ior io non ci ho mai messo piede». E poi: «David era come un fratello», per poi precisare per respingere ogni possibile allusione «ma non in senso massonico». Dopo 10 anni di assoluto riserbo, Giuseppe Mussari, ex presidente di Mps, riappare in pubblico per parlare della morte del capo della comunicazione del Monte e degli aspetti che determinarono l’inizio della crisi della banca più antica del mondo. Lo fa davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta istituita per fare luce sulla vicenda del manager che la sera del 6 marzo 2013 morì precipitando dalla finestra del suo ufficio al terzo piano di Rocca Salimbeni, a Siena. Una seduta iniziata alle 10.30 di mercoledì 16 e passata alle 14 in seduta segreta.

Gli ultimi messaggi

Tra i punti oscuri della morte di Rossi ci sono anche i biglietti di addio trovati nel cestino dello studio. Biglietti nei quali Rossi si rivolge alla moglie Antonella Tognazzi chiamandola «Toni». Un modo di esprimersi che la moglie non ha riconosciuto come tipico del marito. Mussari conferma: «Di Tonia non ne ho memoria, di Antonella ho memoria. Per me la chiamava Antonella». Tutto il testo non lo convince: «Non era il modo di esprimersi di David Rossi: non lo riconosco in questi biglietti di addio». Va però precisato che, dagli atti dell’inchiesta, emerge che, nel telefono di Rossi, il numero della moglie era registrato proprio come «Toni».

Anche le mail di aiuto inviate pochi giorni prima del suicidio, per Mussari non sono nello stile dell’amico. «Era questo il registro di Rossi?», gli viene chiesto. L’avvocato Mussari prima invita a fare un confronto fra testi di Rossi, come le prefazioni ai cataloghi di certe mostre promosse da Mps «fra cui quella della mostra su Corto Maltese scritta a quattro mani da me e David», poi conclude: «Non collimano, no». Ma Mussari precisa di non avere elementi per giudicare come suicidio o omicidio il volo di Rossi dalla finestra al terzo piano di Rocca Salimbeni. Però «sto con Antonella, per scelta ontologica. Dove c’è lei, ci sono io», dice. E la vedova da anni ritiene che David Rossi sia stato ucciso.

Dopo dieci anni di silenzio

Mussari, se si fa eccezione alle dichiarazioni rese il 29 gennaio 2014 davanti ai magistrati (famosa la sua esclamazione davanti ai giudici «Io Maramaldo, no!»), non aveva proferito verbo dal 27 aprile 2012, quando fu costretto a lasciare il timone di Mps. Ora torna a farlo. Più volte si commuove quando ricorda l’amico di una vita: «Ho amato David come un fratello. Ha iniziato a lavorare alla fondazione Monte dei Paschi e ho chiesto alla banca di assumerlo perché era il più bravo di tutti», ricorda. E poi: «Non ho mai confidato nulla a David né lui a me, ma ero certo che se avessi avuto bisogno lui c’era ed è questo che lo rendeva a me particolarmente caro». E riguardo la possibilità che, visto il suo ruolo apicale nella comunicazione, Rossi fosse al corrente dell’operazione Antonveneta, Mussari è categorico: «Dell’acquisizione ce ne occupammo esclusivamente io e il direttore generale Antonio Vigni. Rossi seppe della notizia solo quando venne il momento di renderla pubblica». Poi aggiunge un particolare sui banchieri: oltre a lui e Vigni, «l’unico che sapeva dell’operazione era il banchiere di Rothschild Alessandro Daffina, perché la propose» mentre «Andrea Orcel (oggi ceo di Unicredit, ndr) arrivò come tanti altri quando la transazione era finita».

La «manina» della fuga di notizie

Lo scandalo Mps esplose a inizio 2013 con due fughe di notizie relative ai cosiddetti “derivati” Alexandria e Santorini realizzati con le banche internazionali Nomura e Deutsche Bank, a gennaio 2013. Anche in seguito alla pubblicazione dei dettagli di questi contratti su Bloomberg e poi soprattutto sul Fatto, e al tracollo di Borsa che ne seguì, Mussari — che nell’aprile 2012 aveva lasciato la presidenza della banca — lasciò anche il vertice dell’Abi. Che idea si è fatto di quella doppia fuga di notizie? — gli chiede un deputato — sono uscite dalla banca secondo lei? Mussari coglie il punto: «Non lo so, certamente quelle informazioni che sono veicolate non erano solo in possesso della banca, basta guardare i fascicoli di indagine e incrociare le date di acquisizione per averne contezza. È andata come lei ha detto. Quale è stata la manina non la conosco».

Rossi e le operazioni segrete

Quelle operazioni e il presunto documento «segreto», il cosiddetto «mandate agreement» furono alla base dell’indagine a carico di Mussari. L’avvocato snocciola le date: condannato a Siena a 3 anni e mezzo a fine 2014, assolto nel 21017 a Firenze in appello «perché il fatto non costituisce reato», nel 2019 la Cassazione conferma l’assoluzione ma annulla la sentenza perché la corte d’appello deve valutare «se il fatto non sussiste» e non solo che non costituisca reato, puntualizza Mussari. La decisione non c’è ancora stata. Il «fatto» è l’occultamento del contratto con Nomura, quello che l’allora presidente Mps lesse al telefono in una chiamata, pubblicata proprio sul quotidiano diretto da Marco Travaglio. «Ritengo che David Rossi nulla sapesse delle operazioni Alexandria e Santorini, oggetto di indagine della procura di Siena», ha spiegato Mussari. «Era già stato interrogato, non credo avesse cose di chissà quale significato, di chissà quale rilevanza da riferire. I suoi computer, i suoi strumenti elettronici, la sua posta, sono stati analizzati, da qui nulla è emerso nei fascicoli che mi riguardano, ma ritengo neanche in altri fascicoli altrimenti sarebbero inevitabilmente emersi».

Morte David Rossi, l’ex presidente Mps Mussari: “Biglietto di addio? Non si esprimeva così”. Roberta Davi su Il Riformista il 16 Febbraio 2022.  

“Ho amato David come un fratello. Ha iniziato a lavorare alla fondazione Monte dei Paschi e ho chiesto alla Banca Monte dei Paschi di assumerlo perché era il più bravo di tutti.” L’ex presidente Mps, Giuseppe Mussari, ha parlato della morte di David Rossi, ex responsabile Comunicazione della banca deceduto il 6 marzo 2013 dopo essere precipitato da una finestra del suo ufficio a Siena, in circostanze mai chiarite.

Lo ha fatto, dopo 10 anni di silenzio, davanti alla commissione parlamentare di inchiesta che intende fare luce sulla vicenda. “Non riconosco David, quello non era il suo modo di esprimersi” ha inoltre sottolineato in riferimento ai biglietti d’addio trovati nel cestino dello studio, diretti alla moglie Antonella Tognazzi, scritti prima di morire.

Neanche la mail con oggetto “Help, stasera mi suicido sul serio, aiutatemi!!!”, inviata all’ad Viola il 4 marzo 2013 non è nello stile che caratterizzava David Rossi. “Queste valutazioni, fatte da una persona che lo conosceva bene, sono un passaggio significativo ed importante per trovare la verità sulla sua morte” ha dichiarato Walter Rizzetto, deputato di Fratelli d’Italia e componente della commissione d’inchiesta.

Mussari ha ricostruito l’amicizia e i rapporti con David Rossi in un’audizione durata quasi 4 ore. Fu suicidio, chiedono i commissari? Mussari non risponde a questa domanda, ma assicura di essere schierato con la vedova nella ricerca della verità sulla morte dell’amico. La vedova sostiene che il marito sia stato ucciso. “Da parte mia, da chi ha nutrito quel tipo di rapporto così da definirlo fraterno e non in senso massonico, non posso rimanere indifferente a una moglie che si batte come si batte Antonella o ai fratelli che continuano a chiedere giustizia, chiarezza” ha sottolineato. “Non posso rimanere indifferente e non posso che stare dalla loro parte ignorando le ragioni che li muovono, ma ci sono per scelta ontologica, per essenza della mia natura in relazione al rapporto che avevo con David, non posso stare da un’altra parte” spiega.

Aggiungendo che “Il giorno che avrò finito di rincorrere i miei processi se il mio spirito me lo consentirà io chiederò, se mi verrà concesso, la copia di questo fascicolo e se avrò la forza di leggerlo solo dopo mi farò un’idea. Quando avrò la forza, ed è un rammarico non averla avuta, sarò felice di dare la mia opinione, ma fino ad allora io là devo stare perché è la mia natura, sto di là perché David mi avrebbe immaginato di là”. 

I rapporti lavorativi

Mussari tratteggia poi i rapporti lavorativi: “In banca per mio costume l’unica persona cui davo del tu era David Rossi perché lo conoscevo da prima, come anche Morelli“. E assicura inoltre che l’allora responsabile della comunicazione “non partecipava alle riunioni del Cda, avrà partecipato a uno, quando doveva esporre le linee guida sulla comunicazione o il nuovo spot della banca“.

Come capo della comunicazione aveva accesso alle notizie che avrebbe dovuto veicolare verso il pubblico: Mussari ritiene che non fosse a conoscenza delle operazioni Alexandria e Santorini, oggetto di indagine da parte della procura di Siena, né che “avesse cose di chissà quale rilevanza da riferire ai magistrati“. I rapporti poi si interruppero con la “baraonda Mps”: l’ultimo incontro è del dicembre 2012, quando era ancora presidente di Abi e la ‘baraonda’ non era ancora scoppiata.

Da gennaio 2013, spiega Mussari, “cambia definitivamente il contesto, non era lecito, né utile, né prudente sentirci, scattano meccanismi di difesa, di autodifesa, di etero-difesa, io ero il nemico numero uno e lui gestiva la comunicazione di una banca che era, inevitabilmente, anche contro il nemico numero uno“.

L’audizione di Mussari segue quella del pm Antonino Nastasi durata 7 ore, che si è svolta il 10 febbraio 2022. Nastasi fu tra i primi ad entrare nell’ufficio di Rossi e venne ‘accusato’ da Aglieco di aver risposto ad una telefonata della Santanché allo stesso Rossi: circostanza che ha smentito categoricamente.  

Roberta Davi

La vedova di David Rossi: "Sbalordita dal pm. Le indagini le facciamo noi". Francesco Boezi il 13 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Antonella Tognazzi, vedova di David Rossi, reputa ingiustificabile che il Pm "non si ricordi" di essere stato nel vicolo o in prossimità dello stesso la sera del ritrovamento. Ma per la donna esistono altre incongruenze e la Giustizia, come questo caso dimostra, va riformata. 

La questione della foto del Pm Antontino Nastasi - quella che è emersa in audizione della commissione d'inchiesta parlamentare - ha lasciato "sbalordita" la signora Antonella Tognazzi, che è la vedova di David Rossi. L'ex moglie dell'ex Capo comunicazione di Mps insiste imperterrita nella sua battaglia per la verità, con uno occhio anche al sistema Giustizia. Lo stesso che, per la Tognazzi, ha dimostrato con questo caso di non funzionare.

Come ha reagito alla questione della fotografia ritraente il Pm Natasi? Quella di cui si è discusso in audizione...

"Sono rimasta sbalordita. Tutta l'audizione è stata un 'non mi ricordo'. Questo secondo me è giustificabile per un passante e non per un magistrato mentre svolge le sue funzioni. Il Pm avrebbe almeno dovuto verbalizzare tutte le sue mosse. Il fatto che dica "non mi ricordo" non è credibile e non è giustificabile. Poi è stato smentito, quando aveva escluso l'ipotesi di essersi recato nel vicolo. Non si trattava di un sopralluogo di una frana: lì era morta una persona e non è plausibile che non si ricordasse".

C'è tutto il dibattito relativo al fatto se stesse proprio nel vicolo o in prossimità di quel vicolo...

"Il vicolo è talmente corto che, al di là della misura e del preciso punto, il fatto che lui ci fosse non si poteva comunque escludere - com'è accaduto - in via completa. Non avrebbe dovuto dire di essere stato solo nell'ufficio. Poteva con tranquillità dire: "Mi sono affacciato". Quello che ha dichiarato dopo essere stato smentito".

Voi state attendendo l'esito delle perizie...

"Non conosco i tempi. Le aspettative sono ovvie: mi auguro che si metta una volta per tutte nero su bianco quello che è successo. Mi aspetto, in tutta sincerità, che ci siano elementi precisi ed obiettivi che certifichino tutta una serie d'incongruenze che invece sono emerse".

Il caso David Rossi sta diventando paradigmatico del funzionamento della giustizia italiana?

"Certo. Il problema è che le indagini - come vede - le stiamo facendo noi. Noi ci mettiamo l'impegno e la faccia. Poi la conseguenza è che i magistrati si occupano di questa o di quell'altra cosa. Ma non dovrebbe essere così. Genova (la Tognazzi si riferisce alla Procura, ndr) aveva già avuto l'occasione di indagare sull'operato dei magistrati di Siena ma, come si ricorderà, venne tutto archiviato. E questo nonostante il riconoscimento della credibilità di alcuni testimoni. Hanno pensato bene di chiudere in fretta, pure bypassando alcune testimonianze ritenute importanti come quella del commissario Marinucci, che è stato ascoltato in audizione. Noi avevamo segnalato la testimonianza di Marinucci alla Procura di Genova ma non siamo stati presi in considerazione. Siamo noi che stiamo spingendo la magistratura e non dovrebbe essere così".

Nastasi ha dato disponibilità per un'ulteriore audizione. Quali domande porrebbe?

"Ci si è soffermati sulla telefonata a cui lui dice di non aver risposto ma ce ne sarebbero altre di questioni. C'è uno stato complesso di situazioni modificate. Lui dice di aver toccato le cose perché era certo che fosse stato fatto un video. Intanto lui avrebbe dovuto essere certo del contenuto del video: non poteva sapere cosa il poliziotto avesse filmato e cosa no. Poi ci sono tante incongruenze. Lui dice di aver pensato dapprima ad un suicidio ma la prima fattispecie individuata come possibile era l'istigazione al suicidio. E poi, ancora, perché chiamare la scientifica data la "normalità" di quello che viene ritenuto un suicidio? Le immagini della stanza mostrano un ufficio a soqquadro".

Altre quesiti da porre?

"Erano in tre nella stanza, da questo punto non si esce: finestra chiusa, cestino rovesciato, armadio aperto... . Non sei stato te? Dimmi chi è stato! Dunque la telefonata a cui non avrebbe risposto - e questo lo verificheremo - , è forse la vicenda meno grave. Cosa cercavate in quell'ufficio? Perché è stato messo a soqquadro? Poi lui dice di aver parlato con qualcuno a Roma e che questo qualcuno gli avrebbe risposto che avrebbero preso la macchina immediatamente per venire a Siena. Se è un "suicidio normale", mi spiega che bisogno c'era di prendere la macchina da Roma, a sirene spiegate, per venire a Siena? E torniamo così alla famosa telefonata intercettata in cui viene detto al 118 il nome della persona morta perché il 118 il nome non lo sa. E gli dicono: "Mi faccia sapere se è David Rossi perché a Roma lo vogliono sapere. Sa, qui c'è tutto un giro...".

C'è attesa per l'audizione di Mussari...

"Conosco il legame umano che legava Mussari a David. Non dubito che risponderà alle domande che gli verranno fatte. Non gli ho mai chiesto niente. Credo che ognuno abbia la sua coscienza e che agisca di conseguenza. Ripeto: non credo abbia problemi a rispondere. E poi si può secretare tutto".

Possiamo dire che lei sostiene la necessità di una riforma della Giustizia?

"Assolutamente sì. Il sistema Giustizia non funziona. Perché non posso essere io a far emergere le mancanze dei magistrati. Non è compito mio e sono stato costretta a farlo. Io non ho mai fatto la guerra alla magistratura, mai, ma voglio la tutela dei miei diritti, ossia voglio che mi dicano cosa è successo. Dagli approfondimenti sono emerse delle mancanze: la colpa non è mia che le ho fatte emergere ma degli autori di quelle mancanze". 

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle

Tutti i buchi neri nell'inchiesta David Rossi. Felice Manti il 12 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Non c'è solo il giallo del vicolo nella versione dell'ex magistrato Nastasi, che però prende le distanze dai suoi ex colleghi di Siena.

Mentre in Parlamento si discute di pm che vogliono far politica, a Palazzo San Macuto - sede della commissione d'inchiesta che indaga sulla strana morte del manager Mps David Rossi - i parlamentari diventati (loro malgrado) inquirenti si sono presi una singolare rivincita: aver costretto un pm, Antonino Nastasi, ad ammettere di aver detto loro una bugia, o meglio un'inesattezza, per ben quattro volte. «Sì, sono io nella foto. Ero nel vicolo dove morì Rossi», ha ammesso l'altra sera il magistrato davanti ai commissari, ma la sua deposizione non è affatto finita, anzi. «Purtroppo non posso fornire ulteriori precisazioni o rispondere a domande relative alla morte del dottor Rossi - fa sapere al Giornale Nastasi, oggi a Firenze - Me lo impone il riserbo istituzionale che ho sempre mantenuto su questa, come su altre vicende, nonché il rispetto dovuto alla commissione che ha chiesto di riconvocarmi per sottopormi ad altre domande e alla quale ho dato la mia più completa disponibilità».

Ma quel che ha detto Nastasi alla commissione lascia più di un dubbio, tanto che la procura di Genova ha chiesto di interrogarlo nell'ambito dell'inchiesta bis sulle indagini svolte dai magistrati senesi. Le indagini sul manager Mps precipitato dalla finestra del suo studio il 6 marzo 2013 a Siena furono compromesse dalla manipolazione delle prove a opera di Nastasi, come accusa l'ex comandante provinciale Pasquale Aglieco? Furono insabbiate? Perché archiviare frettolosamente per suicidio e scartare come ipotesi il coinvolgimento di alcuni manager Mps nei festini gay a cui avrebbero partecipato (come accusa l'ex escort Matteo Bonaccorsi) oltre allo stesso Aglieco, i colleghi di Nastasi presenti sulla scena Aldo Natalini e Nicola Marini? E perché Nastasi sembra aver preso da loro le distanze?

«Tutti avevano a che fare con Rossi, in quella stanza, tranne Nastasi. Aglieco, Natalini, Marini che dice di non conoscere Rossi ma probabilmente mente. Eppure è Nastasi quello accusato di aver manipolato le prove, rovesciato il cestino con dentro i bigliettini suicidiari di Rossi (strappati ma ricomposti, ndr), chiusa la finestra da cui precipitò Rossi, manipolato il pc. Strano, no?», ragiona una fonte vicina alla Procura che conosce bene le carte delle indagini. Altro materiale per i magistrati liguri, che dopo aver chiuso le indagini sui tre colleghi senesi senza ravvisare alcun illecito sono stati costretti a riaprire il fascicolo dopo l'inquietante audizione di Aglieco sul possibile depistaggio, confermato ampiamente da alcune foto scattate prima e dopo l'arrivo dei pm: «È vero, al cellulare di Rossi chiamò Daniela Santanché ma non risposi, e tre tabulati lo confermano» ma la parlamentare fdi ricorda diversamente.

Dell'audizione choc parla anche Matteo Renzi, indagato da Nastasi per i soldi alla Fondazione Open. L'ex premier ritwitta il post di Davide Vecchi, direttore del Corriere dell'Umbria: «Dell'audizione di Nastasi più delle mille affermazioni (pienamente smentibili) mi colpisce l'approccio, come se la commissione su Rossi stesse colmando le voragini investigative di altri. No, Nastasi: sono solo vostre. È il lavoro che avreste dovuto fare voi». Sono le porte tra toghe e politica, fin troppo girevoli. Felice Manti

Claudio Bozza per il "Corriere della Sera" il 12 febbraio 2022.

Otto ore passate a rispondere in maniera circostanziata a tutte le domande della commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi, trovato morto la sera del 6 marzo 2013 in vicolo Monte Pio a Siena, dopo essere precipitato dal terzo piano del suo ufficio. 

Il pm Antonino Nastasi, rispondendo ai deputati, ha prima smontato uno ad uno (fornendo prove e spiegazioni) i punti non chiari delle indagini. Ma alla fine è incappato in uno scivolone, innescando di nuovo clamore sulla tragedia del capo della comunicazione del Monte dei Paschi.

«Lei non c'è proprio mai stato nel vicolo quella sera?», domanda il deputato M5S Luca Migliorino. E l'allora pm di Siena Nastasi, dopo aver risposto «no» più volte in precedenza, conferma: «Non ci sono stato, benché nel verbale della polizia che inizia alle 22.50 si faccia riferimento sia a me che al dottor Aldo Natalini (l'altro pm che indagava con lui sul crac di Mps, ndr). Io ricordo nitidamente di non essere entrato in quel vicolo». 

A quel punto Migliorino lo incalza: «Se le faccio vedere una foto può dirmi se è lei o no»? Il deputato gli mostra una foto dal pc e il magistrato è costretto ad ammettere: «Sì, sono io. Probabilmente mi sono affacciato e sono andato via. Evidentemente non ricordavo la circostanza».

La foto mostrata in commissione non dà l'idea che il pm si sia semplicemente «affacciato», in quanto si trova in mezzo ai carabinieri a poca distanza dal luogo in cui venne ritrovato il cadavere di Rossi. Questa contraddizione innesca nuovi dubbi su come iniziarono e furono portate avanti le indagini durante la prima inchiesta. 

L'interrogativo principale: perché il pm è inciampato così davanti alla domanda di Migliorino? Perché prima ha affermato di «ricordarsi nitidamente» di non essere stato nel vicolo, salvo poi essere smentito da una foto? Una semplice dimenticanza a quasi 9 anni di distanza, magari acuita dalla stanchezza per le 8 ore passate a replicare a una raffica di domande? O ci sono altri motivi? Nastasi si è reso disponibile a tornare davanti alla commissione per approfondire ulteriormente.

Certo è che fino a quel punto dell'audizione, il pm oggi in servizio a Firenze e co-titolare dell'inchiesta sulla fondazione Open che si avvia al processo contro Matteo Renzi, aveva confutato tutti i dubbi sollevati, a partire dal «giallo Santanchè». 

A dicembre infatti, sempre in commissione, il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco aveva tirato in ballo proprio Nastasi, affermando che la sera di quel 6 marzo il pm entrò nell'ufficio di Rossi dopo la sua morte, svuotando il cestino, ricomponendo i biglietti di addio e rispondendo anche a una telefonata arrivata sul cellulare del manager dalla deputata Daniela Santanchè; ipotizzando, cioè, l'inquinamento della scena criminis. 

«Non ho preso il telefono» di David Rossi e «non ho mai risposto» alle telefonate che arrivavano di continuo dopo la sua morte, ribatte Nastasi. E poi: «I tabulati di tre compagnie telefoniche attestano che quella è una chiamata senza risposta». E almeno questo punto, che tante polemiche aveva destato, carte alla mano sembra essere stato chiarito.

Anche perché Nastasi, giovedì sera a Montecitorio, ha precisato che Aglieco non entrò nell'ufficio di Rossi, circostanza già confermata poco tempo fa dall'allora vicequestore di Siena Alessia Baiocchi. È importante evidenziare che Nastasi, nonostante potesse chiedere senza problemi di segretare l'audizione, ha accettato di rispondere pubblicamente e in diretta streaming per quasi tutto il tempo. 

Tornando alla sera della tragedia, il pm ha ribadito che «tutti gli elementi raccolti portavano al suicidio». Poi ha spiegato che non c'erano motivi all'epoca per indagare il manager del Monte, possibilità che invece aveva innescato le fortissime preoccupazioni di quest'ultimo. Riguardo le perquisizioni a carico di Rossi, Nastasi ha precisato che furono eseguite solo perché il manager era molto vicino a Giuseppe Mussari («uno dei pochi a cui dava del tu») e quindi gli inquirenti ipotizzavano di trovare elementi probatori a carico del principale artefice del crollo della banca. E proprio Mussari, a breve, dovrebbe arrivare davanti alla commissione d'inchiesta: nelle settimane scorse aveva evitato l'audizione presentando un certificato medico.

(ANSA il 10 febbraio 2022) - "Non ho preso il telefono" di David Rossi, "non ho mai risposto" alle telefonate che arrivavano in continuazione. Lo ha detto il pm Antonino Nastasi ascoltato dalla commissione che indaga sulla morte di David Rossi, facendo riferimento alla sera del 6 marzo 2013, in occasione del sopralluogo nell'ufficio dell'ex capo comunicazione di Mps dopo il decesso di Rossi. In una precedente audizione della commissione il colonello dei carabinieri Pasquale Aglieco, comandante dell'Arma a Siena all'epoca della morte di Rossi, aveva detto che gli sembrava di ricordare che a rispondere al telefono di Rossi quella sera era stato Nastasi.

LA MORTE DEL MANAGER MPS. Caso David Rossi, il pm Nastasi: «Io mai stato nel vicolo dove morì». Ma una foto lo smentisce davanti alla commissione. Il magistrato che intervenne dopo la tragedia del manager Mps: «Ricordo nitidamente di non esserci andato». Ma c’è una foto di quella notte. Claudio Bozza su Il Corriere della Sera l'11 febbraio 2022.

«Lei non c’è proprio mai stato nel vicolo quella sera?», domanda il deputato del M5S Luca Migliorino. E l’allora pm di Siena Antonino Nastasi, dopo aver risposto «no» più volte in precedenza, conferma: «Non ci sono stato, benché nel verbale della polizia si faccia riferimento sia a me che al dottor Aldo Natalini. Io ricordo nitidamente di non essere entrato in quel vicolo». A quel punto Migliorino lo incalza: «Se le faccio vedere una foto può dirmi se è lei o no»? Il deputato pentastellato gli mostra una foto dal pc e il magistrato è costretto ad ammettere: «Sì, sono io. Probabilmente mi sono affacciato e sono andato via. Evidentemente non ricordavo la circostanza».

Dopo otto ore davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi (qui l’articolo con la ricostruzione completa del caso), è rilevante la contraddizione che vede protagonista uno dei magistrati che intervenne la sera in cui il capo della comunicazione di Mps morì precipitando dal suo ufficio a Siena. Si tratta dell’ennesimo giallo — alcuni chiariti, altri no — emerso durante le audizioni. A dicembre, sempre in commissione, il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco aveva tirato in ballo proprio Nastasi, affermando che il 6 marzo 2013 il pm entrò nell’ufficio di Rossi dopo la sua morte, svuotando il cestino, ricomponendo i biglietti di addio e rispondendo anche a una telefonata arrivata sul cellulare del manager dalla deputata Daniela Santanchè; ipotizzando, cioè, l’inquinamento della scena criminis. «Non ho preso il telefono» di David Rossi e «non ho mai risposto» alle telefonate che arrivavano di continuo dopo la sua morte, ribatte Nastasi.

E poi: «Il telefono squillò per un po’ e poi smise. I tabulati di tre compagnie telefoniche attestano che quella è una chiamata senza risposta». Tornando alla sera della tragedia, il pm ha ribadito che «tutti gli elementi raccolti portavano al suicidio». Nastasi aggiunge: «Ho il ricordo di Aglieco fuori dall’ufficio», contraddicendo di nuovo il colonnello. Per poi precisare di essere entrato «solo dopo che la polizia aveva girato il video» sullo stato delle cose. Una versione che respinge l’inquinamento della scena criminis, ipotesi che aveva innescato una durissima reazione di Matteo Renzi, che per questo aveva attaccato Nastasi, pm che da tempo sta indagando su Open, fondazione dell’ex premier.

Morte di David Rossi, il pm smentito da una foto ammette: "Sì, mi affacciai nel vicolo dove era il corpo". La Repubblica l'11 febbraio 2022.

Nastasi, sentito dalla commissione d'inchiesta, prima nega. Poi, davanti a un'immagine mostrata da un commissario, dice: "Quello sono io, non ricordavo la circostanza". «No, non sono mai stato in quel vicolo nonostante un verbale della polizia scientifica faccia riferimento a me». «Ma questo è lei?», chiede un parlamentare mostrando una foto dal pc. «Sì, quello sono io. Allora probabilmente mi sono affacciato poi sono andato via. Non ricordavo questa circostanza». È lo scambio tra il sostituto procuratore Antonino Nastasi e un membro della commissione d’inchiesta che indaga sulla morte di David Rossi, al termine dell’audizione del magistrato che giovedì pomeriggio è andata avanti per quasi sette ore.

"Non sono stato nel vicolo" e "ricordo di non esserci stato". Lo ha detto il pm Antonino Nastasi, rispondendo nel corso dell'audizione davanti alla Commissione di inchiesta sulla morte di David Rossi, alla domanda del deputato del M5s Luca Migliorino se fosse stato quella sera nel vicolo in cui fu ritrovato il corpo di Rossi. Ma davanti a una foto mostrata poi dallo stesso deputato, Nastasi ha ammesso: "Sì sono io nella foto, allora probabilmente mi sono affacciato e sono andato via. Dopo nove anni non ricordavo la circostanza".

David Rossi, il pm: "Forse lo preoccupava il 'gruppo birreria'". Francesco Boezi il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il pm Aldo Natalini, durante l'audizione sul caso David Rossi, cita un presunto gruppo di potere che l'ex capo Comunicazione di Mps avrebbe conosciuto. Ma Rossi - specifica - non ne faceva parte.

Oggi, presso la commissione d'inchiesta sul caso David Rossi, è stato ascoltato il pm Aldo Natalini, uno dei magistrati che ha indagato sul caso e che, durante l'audizione, ha citato la presunta esistenza di un "gruppo della birreria".

"La paura di una possibile frequentazione con il 'gruppo della birreria' anche in relazione alle perquisizioni effettuate, poteva essere un tema di ulteriore preoccupazione", ha fatto presente il magistrato. L'espressione citata fa riferimento a quello che - come si legge sull'Ansa - viene definito un "presunto gruppo di potere" che avrebbe operato nel senese in merito agli equilibri della città. "Discuteva - è stato specificato, rispetto al "gruppo della birreria" - anche di nomine nelle partecipate piuttosto che di affidamenti".

Il pm ha specificato come David Rossi non facesse parte del "gruppo della birreria" ma che avrebbe potuto conoscerne i membri. "La possibile frequentazione del "gruppo della birreria" - ha aggiunto Natalini - poteva essere un tema di ulteriore preoccupazione".

Natalini si è detto "ferito" dall'accusa di essere "pm indolenti". Le attività inchiestistiche svolte dalla magistratura sul caso dell'ex capo Comunicazione Mps sono molto discusse. La procura di Genova aveva anche aperto un'inchiesta che è poi stata archiviata. E le critiche sono continuate, e stanno continuando, anche per via di quanto dichiarato qualche settimana fa dal colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco in audizione. Natalini, nella sua esposizione, è voluto intervenire anche su quel passaggio.

Dopo aver escluso di netto la possibilità che, la sera in cui David Rossi è morto, abbia ricevuto una telefonata dal colonello Aglieco per essere avvisato della morte del dirigente della Monte dei Paschi, Natalini ha spiegato di essere stato chiamato da Antonino Nastasi, un altro dei pm che hanno indagato sul caso. E ha anche annotato di non essere stato in quel frangente il pm di turno.

Natalini ha anche detto la sua sulla presenza del colonello Pasquale Aglieco nell'ufficio di Rossi, così come raccontato dall'Adnkronos: "Poteva essere teoricamente sulla porta, poteva aver visto qualcosa sull'uscio - ha fatto presente Nataliani ai parlamentari che gli hanno posto delle domande - ma non lo ricordo dentro la stanza". Per Natalini, quindi, Aglieco non ha fatto il proprio ingresso nella stanza di Rossi la sera del decesso, mentre avevano inizio le attività d'indagini.

Se l'attività per rimuovere delle presunte microspie è stata definita dal pm audito una "leggenda", il discorso cambia rispetto ad alcune perquisizioni cui David Rossi fu sottoposto: "Con il senno di poi - ha continuato - abbiamo capito quanto poteva essere invasivo quell'atto che ne ha turbato la psiche. Rossi non è mai stato iscritto nel registro degli indagati e mai è stato oggetto di richiesta di iscrizione, era soggetto terzo rispetto alla persona sottoposta ad indagini".

Natalini ha raccontato quale fosse l'oggetto della ricerca: "Cercavamo corrispondenza con Mussari, che era indagato".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Morte di David Rossi, il pm si scaglia contro il carabiniere: «Aglieco non dice il vero». L'ex magistrato di Siena Aldo Natalini ascoltato dalla commissione che indaga sulla morte di David Rossi. «Non resse la pressione e si suicidò: i suoi gesti autolesivi sono tema pacifico». Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

Fa scudo all’inchiesta su Mps e smonta presunte nuove piste omicidiarie: Aldo Natalini, oggi magistrato al Massimario della Cassazione ma dal 2011 al 2018 sostituto di prima nomina alla procura di Siena, in audizione alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi traccia linee precise: Rossi era sotto pressione, anche mediatica, e si ammazzò dalla finestra del suo ufficio di Rocca Salimbeni.

Natalini era nel pool, fu lui a farlo perquisire a caccia di corrispondenza con Giuseppe Mussari che, tra i due, era il solo indagato. Natalini rivendica l’impegno della procura: «Non fummo indolenti, investigammo su tutti i settori di Siena, dalla banca al Palio». E respinge le affermazioni dell’ufficiale dei carabinieri Pasquale Aglieco su presunte alterazioni della scena criminis. «Escludo con certezza che la sera del 6 marzo 2013 io sia stato chiamato dal colonnello Aglieco» comandante provinciale dell’Arma all’epoca «per dirmi della morte di Rossi. Invece venni avvisato dal collega Nastasi», dice Natalini. «Non ero io il pm di turno», aggiunge ma «fu deciso di coadiuvare, io e Nicola Marini, Antonino Nastasi a Rocca Salimbeni, dovevamo stare là – spiega – per capire eventuali collegamenti tra il decesso e le nostre indagini».

«Ci fu un primo sopralluogo per escludere l’azione violenta di terzi» ma Aglieco non era nella stanza: «c’ero io con Nastasi e Marini e c’era un carabiniere, il luogotenente Cardiello comandante di Siena Centro, ma non altri. Marini entrò in stanza qualche minuto dopo di noi». Dice Natalini smentendo l’ufficiale: «Nessuno si sedette sulla sedia di Rossi», «non ci furono spostamenti di oggetti, né la sedia, né la sua giacca, né il cestino, né altre cose», «la finestra era aperta e nessuno la chiuse. La luce era accesa».

Alla telefonata dell’onorevole Santanché al cellulare di Rossi «il collega Nastasi non rispose altrimenti ciò mi avrebbe colpito e me lo ricorderei». Niente caos, neanche quando il luogotenente (secondo Natalini forse su indicazione di Marini) andò a cercare nel cestino e trovò tre bigliettini scritti “di addio£ accartocciati e fazzoletti con sangue «ma non abbastanza evidente, dall’esterno del cestino non si vedeva il sangue». «Il cestino comunque non fu rovesciato sul tavolo come dice il colonnello Aglieco». Nelle due ore di audizione poi sospesa, Natalini ha sottolineato che Rossi «non era indagato, mai è stato iscritto, non c’era nessun elemento né furono chieste intercettazioni», inoltre «non è mai stato ritenuto meritevole di audizione da parte nostra», «lo sentì solo la guardia di finanza».

Tuttavia l’ufficio comunicazione di Mps diretto da Rossi era di interesse investigativo. «C’era il tema di come la banca avesse comunicato Antonveneta e “Fresh“, c’era un tema di aggiotaggio da approfondire, l’ufficio comunicazione, non Rossi, era di interesse: in banca cercavamo agende, relazioni, contratti, rapporti con Nomura, rapporti fra Mps e Santander. Da Rossi cercavamo corrispondenza con Giuseppe Mussari, lui sì che era indagato».

La prima volta Rossi fu perquisito nel maggio 2012 ma il dramma sarà più là nel tempo quando sui giornali escono Alexandria e Santorini, mentre le dimissioni nel gennaio 2013 di Mussari dall’Abi determinarono attenzione spasmodica dei media. Rossi verrà di nuovo perquisito nel «troncone detto della “banda del 5%”, c’è stata pure fuga di notizie sull’azione di responsabilità» ai vertici. Secondo Natalini, David Rossi non resse la pressione e si uccise, «i suoi gesti autolesivi sono tema pacifico». (ANSA).

Una foto sbugiarda il pm del caso Rossi. Felice Manti l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nastasi incalzato dai commissari: "Io mai nel vicolo". Poi cambia idea.

Chi sapeva per primo che David Rossi era morto? Chi avvertì i pm, quando e perché? È rimasto più sorpreso che deluso chi pensava che con l'audizione alla commissione parlamentare su Rossi e Mps del pm Antonino Nastasi - durata più di sette ore interrotta e rimandata per un impegno personale - si sarebbero chiariti molti dei misteri sulla strana morte del manager Mps, volato da una finestra il 6 marzo di nove anni fa. Perché anziché chiarire cosa successe veramente nella stanza del responsabile Comunicazione Mps Nastasi nega il depistaggio sebbene alcune foto lo contraddicano palesemente, esclude la manipolazione delle prove di cui il 10 dicembre scorso in commissione lo accusa l'ex comandante dei carabinieri Pasquale Aglieco («Non ho toccato il mouse di quel computer, qualcuno probabilmente sì...») e insiste sul suicidio come unica opzione investigativa plausibile. E poi come l'ufficiale dei carabinieri cade più volte in contraddizione, incalzato dalle domande dei preparatissimi parlamentari della commissione, smentisce in più parti la versione degli altri suoi colleghi e inciampa sulla sua presenza nel vicolo dove morì Rossi. Per quattro volte dice «non ci sono mai stato» poi ammette che è lui quello ritratto in una foto mostratagli dal deputato M5s Luca Migliorino: «Allora probabilmente mi sono affacciato e sono andato via. Dopo nove anni non ricordavo...». «Il telefono di David Rossi squillava in continuazione» ma «non ho preso il telefono», insiste Nastasi, che oggi è a Firenze, titolare delle indagini sulla fondazione Open. «Non ho alcuna contezza dell'esistenza di festini gay, non vi partecipavo (come confermano i testi già auditi, ndr) ma sono certo che questo possa aver inciso in alcun modo sull'attività investigativa». C'è anche un giallo su chi lo avvisò della morte di Rossi: «Non fui informato dalla polizia giudiziaria ma dal perito balistico della scientifica Paride Minervini». E come faceva a saperlo? Glielo disse Aglieco? «No, quella sera non ero magistrato di turno, avvisai Nicola Marini che non sapeva nulla. Mi disse: Chi è David Rossi? Venite anche voi, come titolari delle indagini su Mps (assieme a Luca Natalini, ndr) laddove ci fossero correlazioni tra la morte e le indagini Mps». E proprio da Marini e Natalini, contrari alla commissione presieduta dall'ex Csm Francantonio Zanettin (Forza Italia) tanto da denunciare l'ingerenza al presidente della Camera Roberto Fico con una lettera dell'avvocato genovese Andrea Vernazza, Nastasi prende le distanze: «Vernazza non mi ha messo a parte dell'iniziativa verso la commissione». Se il fronte dei pm si incrina ne vedremo delle belle... Felice Manti

David Rossi, spunta la foto che inguaia il pm. Francesco Boezi l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Prosegue il dibattito sulla foto mostrata ieri dall'onorevole Migliorino al pm Antonino Nastasi. "Sì, sì sono io". E ora è possibile che si tenga un'ulteriore audizione con il magistrato sul caso David Rossi.

Ieri, la commissione d'inchiesta parlamentare sul caso David Rossi, ha ascoltato il Pm Antonino Nastasi e, come già ripercorso, le battute finali hanno riguardato una fotografia. Un'immagine che mostrerebbe la presenza del magistrato la sera del ritrovamento del cadavere dell'ex capo Comunicazione Mps nei pressi del luogo del rinvenimento.

Come riportato dall'Ansa, Nastasi aveva prima detto di non essere stato nel vicolo Pio di Siena. Poi, però, l'onorevole Luca Migliorino, che è un esponente del MoVimento 5 Stelle ha, dopo una serie di domande incalzanti, mostrato una fotografia al Pm. A questo punto Nastasi ha reagito così: "Si si sono io. Allora probabilmente mi sono affacciato e sono andato via. Evidentemente non ricordavo la circostanza, può capitare dopo nove anni, non ho problemi a dire che quello sono io evidentemente ricordavo male può capitare".

Prima di allora, Nastasi aveva dichiarato quanto segue, sempre nel corso dell'audizione: "No benchè dal verbale della polizia scientifica che inizia 22.50 si faccia riferimento sia a me che al dottor Natalini, io ricordo nitidamente di non essere entrato in quel vicolo".

Il dibattito sulla fotografia è poi proseguito, con delle dichiarazioni che sono state rilasciate dallo stesso parlamentare pentastellato: "Nel corso dell'audizione odierna - ha fatto sapere il grillino - , il dottor Nastasi ha reso delle dichiarazioni molto importanti. E stato particolarmente dettagliato e non ha rifiutato di rispondere alle domande dei commissari. Ha, inoltre, dato disponibilità a una prossima audizione in cui vi sarà la possibilità di un confronto anche sul materiale fotografico in possesso della commissione", ha dichiarato il parlamentare della commissione d'inchiesta.

Lo stesso Migliorino ha poi voluto aggiungere che " nel corso di un mio intervento durante l'audizione ho inteso evidenziare la presenza di uno scatto che ritraeva il dottor Nastasi non all'interno del vicolo di Monte Pio, ma nei pressi". L'audizione ha avuto una durata complessiva di sette ore.

Come già emerso nel corso della serata di ieri, questa potrebbe non essere l'ultima volta per il Pm Nastasi in commissione d'inchiesta parlamentare sul caso David Rossi: alcuni membri dell'organo vorrebbero porre ulteriori domande.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Audizione di 7 ore: "Mai risposto al telefono". Morte David Rossi, la foto mostra il pm Nastasi nel vicolo: “Sono io, non ricordavo la circostanza”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 10 Febbraio 2022

“Sì sono io nella foto, allora probabilmente mi sono affacciato e sono andato via. Dopo nove anni non ricordavo la circostanza”. E poi ancora: “Evidentemente non ricordavo la circostanza”. Sono le parole del pm Antonino Nastasi nel corso dell’audizione sul caso della morte di David Rossi, ex direttore della comunicazione del Monte dei Paschi precipitato il 6 marzo 2013 da una finestra del terzo piano della sede di piazza Salimbeni in circostanze mai chiarite.

Parole che arrivano dopo una foto mostrata attraverso un pc dal vicepresidente della commissione di inchiesta, il parlamentare Luca Migliorino (Movimento 5 Stelle). Pochi secondi prima lo stesso Nastasi alla domanda se fosse sicuro di non essere stato nella strada in oggetto aveva ribadito di “non essere stato nel vicolo” e non ricordare l’abbigliamento che indossava quella sera.

L’audizione di oggi è durata ben sette ore ed è stata ritenuta positiva dalla commissione. “Il dottor Nastasi ha reso delle dichiarazioni molto importanti. È stato particolarmente dettagliato e non ha rifiutato di rispondere alle domande dei commissari – ha dichiarato Migliorino -. Ha, inoltre, dato disponibilità a una prossima audizione nel corso della quale vi sarà la possibilità di un confronto anche sul materiale fotografico in possesso della commissione. A tal proposito, tengo a precisare che nel corso di un mio intervento durante l’audizione ho inteso evidenziare la presenza di uno scatto che ritraeva il dottor Nastasi non all’interno vicolo di monte Pio, ma nei pressi”.

Nastasi è stato chiamato in causa dall’allora comandante provinciale dei carabinieri di Siena Pasquale Aglieco, che ascoltato dalla commissione parlamentare d’inchiesta disse che (Nastasi) rispose ad una chiamata della parlamentare Daniela Santanché arrivata sul telefono di David Rossi, il magistrato oggi in servizio a Firenze smentisce categoricamente: “Ho memoria certa della telefonata della Santanché perché ero rivolto verso l’esterno. Guardai il display e sul display compariva Daniela Santanché e dissi a voce alta: ‘Sta telefonando Daniela Santanché’. Il telefono squillò per un po’, non ho preso il telefono e non ho risposto al telefono“, ha chiarito Natasi nel corso dell’audizione.

Ma il sostituto procuratore di Firenze va oltre e spiega anche che in precedenza c’era stata un’altra telefonata e anche a quella nessuno rispose. “Poi cosa le avrei dovuto dire – ha aggiunto Nastasi -. Io non ho preso il telefono e non ho risposto al telefono, i tabulati di tre compagnie telefoniche diverse attestano che quella è una chiamata senza risposta”.

L’alterazione della scena del ‘crimine’

Spazio quindi alla presunta alterazione della scena. Anche in questo caso le parole di Nastasi sono una risposta alle accuse di Aglieco, che in commissione aveva ricordato che un magistrato presente subito dopo i tragici fatti si sedette sulla sedia di Rossi, rovistò nel cestino con una penna prima di rovesciarlo, e toccò anche il pc del manager Mps.

Nastasi ai parlamentari riuniti nella Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto ha chiarito di non essersi seduto sulla sedia di Rossi “e non ho ricordo che qualcuno si sia seduto”. “Io ricordo che il cestino fu rovistato, i biglietti erano in cima e vennero presi dal maresciallo Cardiello, messi sul tavolo e ricomposti. Io non presi parte né alla presa dei biglietti dal cestino né alla loro ricomposizione“, ha aggiunto il sostituto procuratore.

Quanto al computer di Rossi, Nastasi ha spiegato di non aver toccato il mouse ma che “probabilmente” qualcuno presente nella stanza l’ha fatto, “ma per un motivo tecnico e che è agli atti, perché volevamo capire se a schermo c’era qualcosa di rilevante e la cosa meno invasiva da fare in quel momento era toccare il mouse o un tasto del computer”.

Il ruolo di Aglieco

Nastasi ha anche smentito la presenza di Aglieco nella stanza di Rossi. L’allora pm di Siena ha spiegato in commissione di “non aver memoria del colonnello Aglieco in quella stanza, il mio ricordo lo colloca nell’atrio davanti alla stanza di David Rossi, lo scritto anche nella relazione che ho depositato a dicembre al mio procuratore generale”, anche se sono passati nove anni e “il mio ricordo può essere fallace”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

La deposizione in commissione d'inchiesta. Morte David Rossi, il pm Nastasi smentisce Aglieco: “Mai risposto al telefono, lui non c’era nell’ufficio”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

Dopo esser stato chiamato in causa dall’allora comandante provinciale dei carabinieri di Siena Pasquale Aglieco, che ascoltato dalla commissione parlamentare d’inchiesta disse che rispose ad una chiamata della parlamentare Daniela Santanché arrivata sul telefono di David Rossi, Antonino Nastasi fornisce la sua versione dei fatti.

Il magistrato, oggi in servizio a Firenze e tornato all’onore della cronaca mercoledì per la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti del leader di Italia Viva Matteo Renzi nell’ambito dell’inchiesta sulla fondazione Open, è stato sentito dai membri della commissione d’inchiesta sulla morte di Rossi, ex direttore della comunicazione del Monte dei Paschi precipitato il 6 marzo 2013 da una finestra del terzo piano della sede di piazza Salimbeni in circostanze mai chiarite.

La telefonata con Santanché

Nastasi fu infatti tra i primi ad entrare nell’ufficio di Rossi e poi ‘accusato’ da Aglieco di aver risposto ad una telefonata della Santanché allo stesso Rossi. Una circostanza questa che il magistrato ora in servizio a Firenze smentisce categoricamente: “Ho memoria certa della telefonata della Santanché perché ero rivolto verso l’esterno. Guardai il display e sul display compariva Daniela Santanché e dissi a voce alta: ‘Sta telefonando Daniela Santanché’. Il telefono squillò per un po’, non ho preso il telefono e non ho risposto al telefono“, ha chiarito Natasi nel corso dell’audizione.

Ma il sostituto procuratore di Firenze va oltre e spiega anche che in precedenza c’era stata un’altra telefonata e anche a quella nessuno rispose. “Poi cosa le avrei dovuto dire – ha aggiunto Nastasi -. Io non ho preso il telefono e non ho risposto al telefono, i tabulati di tre compagnie telefoniche diverse attestano che quella è una chiamata senza risposta”.

L’alterazione della scena del ‘crimine’

Spazio quindi alla presunta alterazione della scena. Anche in questo caso le parole di Nastasi sono una risposta alle accuse di Aglieco, che in commissione aveva ricordato che un magistrato presente subito dopo i tragici fatti si sedette sulla sedia di Rossi, rovistò nel cestino con una penna prima di rovesciarlo, e toccò anche il pc del manager Mps.

Nastasi ai parlamentari riuniti nella Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto ha chiarito di non essersi seduto sulla sedia di Rossi “e non ho ricordo che qualcuno si sia seduto”. “Io ricordo che il cestino fu rovistato, i biglietti erano in cima e vennero presi dal maresciallo Cardiello, messi sul tavolo e ricomposti. Io non presi parte né alla presa dei biglietti dal cestino né alla loro ricomposizione“, ha aggiunto il sostituto procuratore.

Quanto al computer di Rossi, Nastasi ha spiegato di non aver toccato il mouse ma che “probabilmente” qualcuno presente nella stanza l’ha fatto, “ma per un motivo tecnico e che è agli atti, perché volevamo capire se a schermo c’era qualcosa di rilevante e la cosa meno invasiva da fare in quel momento era toccare il mouse o un tasto del computer”.

Il ruolo di Aglieco

Nastasi ha anche smentito la presenza di Aglieco nella stanza di Rossi. L’allora pm di Siena ha spiegato in commissione di “non aver memoria del colonnello Aglieco in quella stanza, il mio ricordo lo colloca nell’atrio davanti alla stanza di David Rossi, lo scritto anche nella relazione che ho depositato a dicembre al mio procuratore generale”, anche se sono passati nove anni e “il mio ricordo può essere fallace”.

Il sostituto procuratore di Firenze ha raccontato che nell’ufficio entrarono lui, “Natalini, Marini, gli uomini della volante, il vice questore Baiocchi e il maresciallo Cardiello”. Una stanza in cui “non c’era traccia di colluttazione, non c’erano oggetti rotti, né fuori posto. Se non ci fosse stato il cadavere dalla finestra sarebbe stato un normale ufficio. Non c’era traccia di un’azione violenta posta in essere da terzi”.

L’indagine per suicidio

Quanto all’inchiesta della procura di Siena, che ha sempre scartato qualsiasi ipotesi non fosse il suicidio, Nastasi spiega così le motivazioni: “Tutto lasciava intendere che si trattava di un suicidio. Iscrivere a omicidio volontario sarebbe stato singolare“.

“Stanza intonsa, bigliettini di addio nel cestino, segni di autolesionismo sul corpo. Questo il quadro che ci è stato rappresentato. Dati questi elementi l’unica iscrizione plausibile per poter fare degli approfondimenti, era per istigazione al suicidio. E tutto quanto doveva essere fatto, ai fini degli approfondimenti, in quel momento e nei giorni successivi, è stato fatto”, sono state le parole del magistrato ora a Firenze.

Nastasi spiega infatti che, anche se “ci può essere stato un errore e non dico che non ci possa essere stato”, però “così come leggo da anni che ci sia stata la volontà di insabbiare una vergognosa falsità. Noi non avevamo intenzione di coprire nessuno”.

I presunti festini

Insabbiamento che sarebbe strettamente legato ai presunti festini gay a cui avrebbero partecipato alcuni magistrati senesi che hanno indagato sul caso Rossi, inchiesta già archiviata. “Io non ho contezza dell’esistenza di festini e non vi ho mai partecipato. Ho letto gli atti delle Procura di Genova e posso dirle che dagli atti di Genova risulta che Bonaccorsi (Matteo Bonaccorsi, ex escort che avrebbe partecipato alle feste, nda) non mi ha riconosciuto nelle foto mostrate da Carolina Orlandi“, la figlia dell’ex manager Mps.

“Anche laddove sia data per certa e su questo avrei dei dubbi, l’esistenza dei festini – ha detto Nastasi ricordando il provvedimento di archiviazione – non vi è alcun elemento che l’esistenza di quei festini possano aver interferito sull’attività della procura“.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Audizione di 7 ore: "Mai risposto al telefono". Morte David Rossi, la foto mostra il pm Nastasi nel vicolo: “Sono io, non ricordavo la circostanza”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

“Sì sono io nella foto, allora probabilmente mi sono affacciato e sono andato via. Dopo nove anni non ricordavo la circostanza”. E poi ancora: “Evidentemente non ricordavo la circostanza”. Sono le parole del pm Antonino Nastasi nel corso dell’audizione sul caso della morte di David Rossi, ex direttore della comunicazione del Monte dei Paschi precipitato il 6 marzo 2013 da una finestra del terzo piano della sede di piazza Salimbeni in circostanze mai chiarite.

Parole che arrivano dopo una foto mostrata attraverso un pc dal vicepresidente della commissione di inchiesta, il parlamentare Luca Migliorino (Movimento 5 Stelle). Pochi secondi prima lo stesso Nastasi alla domanda se fosse sicuro di non essere stato nella strada in oggetto aveva ribadito di “non essere stato nel vicolo” e non ricordare l’abbigliamento che indossava quella sera.

L’audizione di oggi è durata ben sette ore ed è stata ritenuta positiva dalla commissione. “Il dottor Nastasi ha reso delle dichiarazioni molto importanti. È stato particolarmente dettagliato e non ha rifiutato di rispondere alle domande dei commissari – ha dichiarato Migliorino -. Ha, inoltre, dato disponibilità a una prossima audizione nel corso della quale vi sarà la possibilità di un confronto anche sul materiale fotografico in possesso della commissione. A tal proposito, tengo a precisare che nel corso di un mio intervento durante l’audizione ho inteso evidenziare la presenza di uno scatto che ritraeva il dottor Nastasi non all’interno vicolo di monte Pio, ma nei pressi”.

Nastasi è stato chiamato in causa dall’allora comandante provinciale dei carabinieri di Siena Pasquale Aglieco, che ascoltato dalla commissione parlamentare d’inchiesta disse che (Nastasi) rispose ad una chiamata della parlamentare Daniela Santanché arrivata sul telefono di David Rossi, il magistrato oggi in servizio a Firenze smentisce categoricamente: “Ho memoria certa della telefonata della Santanché perché ero rivolto verso l’esterno. Guardai il display e sul display compariva Daniela Santanché e dissi a voce alta: ‘Sta telefonando Daniela Santanché’. Il telefono squillò per un po’, non ho preso il telefono e non ho risposto al telefono“, ha chiarito Natasi nel corso dell’audizione.

Ma il sostituto procuratore di Firenze va oltre e spiega anche che in precedenza c’era stata un’altra telefonata e anche a quella nessuno rispose. “Poi cosa le avrei dovuto dire – ha aggiunto Nastasi -. Io non ho preso il telefono e non ho risposto al telefono, i tabulati di tre compagnie telefoniche diverse attestano che quella è una chiamata senza risposta”.

L’alterazione della scena del ‘crimine’

Spazio quindi alla presunta alterazione della scena. Anche in questo caso le parole di Nastasi sono una risposta alle accuse di Aglieco, che in commissione aveva ricordato che un magistrato presente subito dopo i tragici fatti si sedette sulla sedia di Rossi, rovistò nel cestino con una penna prima di rovesciarlo, e toccò anche il pc del manager Mps.

Nastasi ai parlamentari riuniti nella Sala del Refettorio di Palazzo San Macuto ha chiarito di non essersi seduto sulla sedia di Rossi “e non ho ricordo che qualcuno si sia seduto”. “Io ricordo che il cestino fu rovistato, i biglietti erano in cima e vennero presi dal maresciallo Cardiello, messi sul tavolo e ricomposti. Io non presi parte né alla presa dei biglietti dal cestino né alla loro ricomposizione“, ha aggiunto il sostituto procuratore.

Quanto al computer di Rossi, Nastasi ha spiegato di non aver toccato il mouse ma che “probabilmente” qualcuno presente nella stanza l’ha fatto, “ma per un motivo tecnico e che è agli atti, perché volevamo capire se a schermo c’era qualcosa di rilevante e la cosa meno invasiva da fare in quel momento era toccare il mouse o un tasto del computer”.

Il ruolo di Aglieco

Nastasi ha anche smentito la presenza di Aglieco nella stanza di Rossi. L’allora pm di Siena ha spiegato in commissione di “non aver memoria del colonnello Aglieco in quella stanza, il mio ricordo lo colloca nell’atrio davanti alla stanza di David Rossi, lo scritto anche nella relazione che ho depositato a dicembre al mio procuratore generale”, anche se sono passati nove anni e “il mio ricordo può essere fallace”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Morte David Rossi: un hard disk rotto, mail con date impossibili e una perizia shock in arrivo. Computer manomessi, messaggi “postumi” e poi scomparsi, pasticci sulla scena del crimine. Tutto quello che non torna nel caso dell’ex responsabile comunicazione del Monte dei Paschi di Siena. Simone Alliva e Antonio Fraschilla su L'Espresso il 07 febbraio 2022.

È morto la sera del 6 marzo 2013. È questa l’unica certezza sulla scomparsa di David Rossi, il capo della comunicazione del Monte dei Paschi sia negli anni della grande ascesa di uno dei poli bancari più importanti d’Europa e sia in quelli del crollo, repentino, con i bilanci saltati in aria e le varie indagini che hanno portato a processo i vertici di allora, Giuseppe Mussari e Antonio Vigni (in alcuni casi poi assolti, in altri, come per i derivati, in attesa di sentenza di appello).

Caso Rossi, la segretaria e il capo staff Mps: «Abbiamo letto la mail in cui annunciava il suicidio, ma non ne abbiamo mai parlato con nessuno». Il giallo del messaggio con il quale l’ex responsabile comunicazione della banca annunciava all’amministratore delegato il suicidio. L’ex ad Viola sostiene di non averla mai ricevuta. Antonio Fraschilla su La Repubblica il 9 febbraio 2022.

Il giallo delle mail nel caso della morte di David Rossi si infittisce. A partire dal messaggio chiave, quello con il quale l’ex responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi annunciava l’intenzione di suicidarsi: un messaggio inviato all’allora amministratore delegato Fabrizio Viola il 4 marzo, in una giornata nella quale i due si scambiano diverse mail. Quella sul suicidio ha come oggetto «help».

David Rossi, nella commissione d’inchiesta anche Carlo Nordio.  La commissione d'inchiesta che indaga sulla morte di David Rossi si avvarrà anche della consulenza di due magistrati: Carlo Nordio e Roberto Alfonso.  Il Dubbio il 14 gennaio 2022.

L’Ufficio di presidenza della Commissione di inchiesta sulla morte di David Rossi ha nominato come consulenti due «magistrati di altissimo valore ed esperienza, ora in pensione»: Carlo Nordio, già procuratore aggiunto di Venezia, e Roberto Alfonso, già procuratore generale presso la Corte di Appello di Milano. Lo rende noto Pierantonio Zanettin, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul decesso dell’ex capo comunicazione di Mps, morto dopo essere precipitato dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo 2013.

«Ho sempre ritenuto – spiega Zanettin – che la commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi avesse la necessità di avvalersi anche di magistrati, per svolgere al meglio il proprio compito. Il Csm finora non ha autorizzato alcun magistrato di ruolo a svolgere questa attività di consulenza a favore della commissione. L’Ufficio di presidenza della Commissione ha quindi nominato come consulenti» Nordio e Alfonso che, aggiunge Zanettin, «ringrazio per l’entusiasmo con cui hanno accettato questa nomina».

David Rossi, dopo lo scoop dell’Espresso interviene la commissione parlamentare: «Indagheremo sulla mail». Una relazione della Polizia postale mette in dubbio la mail inviata il 4 marzo, due giorni prima della morte, nella quale il dirigente annunciava l’intenzione di togliersi la vita. La procura di Genova aveva inviato le carte a Siena già lo scorso anno. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 14 Gennaio 2022.

La commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di David Rossi si muove dopo la pubblicazione dell’Espresso di una relazione della polizia postale che mette in dubbio la data della prova chiave che ha portato all’archiviazione del caso come suicidio.

Una relazione della Polizia postale, nelle carte del decreto di archiviazione della provoca di Genova sui colleghi senesi che avevano indagato dalla sera del 6 marzo 2013, che sostiene come la mail dell’ex responsabile comunicazione Mps inviata all’allora ad Fabrizio Viola nella quale scriveva “Stasera mi suicido, sul serio. Aiutatemi!!!” Sia stata creata il 7 marzo. Il giorno dopo la sua morte. Rossi morì il 6 marzo 2013 dopo essere caduto dalla finestra del suo ufficio di piazza Salimbeni. 

Un documento importante, nel quale tra l’altro la Polizia postale chiedeva deleghe per approfondimenti. Deleghi mai ricevute né da Genova né da Siena. Il caso sollevato dall’Espresso approderà in Parlamento. Dichiara il presidente della commissione d'inchiesta parlamentare sulla morte di David Rossi, Pierantonio Zanettin: «La questione, emersa nella giornata di ieri, della data di creazione della lettera, con cui David Rossi annunciava il proprio suicidio, in data successiva alla sua morte, merita di essere accuratamente approfondita in sede peritale, e, ove trovasse conferma, getterebbe un'ombra inquietante sull'intera vicenda. Ho quindi convocato in via d'urgenza per mercoledì prossimo l'ufficio di presidenza della commissione per affidare ai corpi speciali dei Carabinieri, già incaricati della maxi perizia, uno specifico ed articolato quesito sulla questione».

Intanto il giudice per le indagini preliminari di Genova, Franca Borzone, oggi in pensione, sostiene adesso di aver mandato alla procura di Siena la relazione della polizia postale in cui si diceva che la mail in cui David Rossi annunciava il suicidio era stata "creata dopo la sua morte". Il giudice aveva trasmesso gli atti dopo avere archiviato l'inchiesta sui presunti festini a luci rosse a cui avrebbero partecipato alcuni pm senesi e che per questo avrebbero archiviato le indagini sulla morte di Rossi.

Estratto dell'articolo di lanazione.it il 16 gennaio 2021.

’Ciao Toni, amore, l’ultima che ho fatto è troppo grossa per poterla sopportare.. Hai ragione, sono fuori di testa da settimane.." E’ uno dei biglietti ritrovati nel cestino nell’ufficio di David Rossi, da un carabiniere che li ha indicati ai magistrati titolari dell’inchiesta, la sera del 6 marzo 2013. Tre biglietti, "ho fatto una cazzata", scritti come ultimo atto di settimane ad alta tensione vissute dal manager del Monte. 

Un incarico dorato al vertice del terzo gruppo bancario d’Italia, una fitta rete di relazioni con giornalisti, politici, imprenditori, artisti e Vip, un lauto stipendio e la sensazione di essere a un passo dalla vetta. Poi le prime crepe, con i cambi al vertice del Monte, l’arrivo prima di Viola e poi di Profumo, l’affare Antonveneta che comincia a rivelarsi l’iceberg si cui sbatte il Titanic Mps.

Il 22 gennaio 2013 Giuseppe Mussari si dimette dall’Abi, per inchieste senesi che sembrano marginali, il 19 febbraio la procura di Siena dispone perquisizioni nei confronti di Mussari, dell’ex dg Antonio Vigni e di David Rossi. La polizia giudiziaria sequestra computer e documenti, rovista tra le cose di David, presumibilmente piazza cimici e telecamere a casa e in ufficio. La tempesta emotiva comincia ad addensarsi nella mente di Rossi: evita contatti, risponde a poche telefonate, preferisce parlare anche con i suoi cari lontano da occhi indiscreti. 

(…)

Sui polsi di Davis compaiono tagli sospetti, colloqui con la mental coach della banca evidenziano malesseri, gli amici raccolgono le confessioni sulle paure di perdere il lavoro o di essere processato. Il 4 marzo la mail “Stasera mi suicido sul serio”, poi altre ore sull’ottovolante psicologico. Fino a quei foglietti scritti quella sera, a quella finestra aperta e scavalcata, a quella barra stretta con forza. Per poi lasciarsi cadere…

Caso David Rossi, ora spunta il contenuto di un biglietto. Francesco Boezi il 16 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La commissione d'inchiesta parlamentare insiste sul caso David Rossi, mentre la stampa rilancia il contenuto dei messaggi che sarebbero stati lasciati in punto di morte.

Il caso David Rossi non smette di far parlare di sé: la commissione d'inchiesta parlamentare prosegue nel suo lavoro, mentre la stampa insiste nel parlare del contenuto dei biglietti che sarebbero stati rinvenuti nel cestino della stanza dell'ex capo di Comunicazione di Mps.

Il presidente della commissione d'inchiesta parlamentare Pierantonio Zanettin, che è stato intervistato da Avvenire, sta insistendo sul fatto che possano esistere punti irrisolti: "Ci sono evidenti smagliature nelle inchieste penali aperte e poi archiviate sulla morte di David Rossi. Da ultimo, la questione appena emersa della data di creazione della mail di Rossi, successiva alla morte. Se in sede peritale trovasse conferma, getterebbe un'ombra inquietante sulla vicenda", ha dichiarato l'esponente di Forza Italia, così come riporta l'Adnkronos.

Ma, quasi al contempo, il quotidiano La Nazione ha voluto anche porre un accento su uno dei messaggi che sarebbe stato lasciato dal Rossi prima di morire: "Ciao Toni, amore, l’ultima che ho fatto è troppo grossa per poterla sopportare.. Hai ragione, sono fuori di testa da settimane...", avrebbe scritto alla moglie il dirigente Mps, in uno dei bigliettini che sarebbero stati rinvenuti e che sarebbero stati poi consegnati alla procura dagli organi deputati ad indagare in prima istanza.

L'attenzione, in questi ultimi giorni, si è concentrata sulle tempistiche con cui la mail in cui Rossi avrebbe annunciato il suicidio sarebbe stata scritta: un documento della Polizia postale attesterebbe come il testo sia stato composto dopo la morte dell'ex dirigente della Monte dei Paschi. Il che, come approfondito dal Giornale, getterebbe nuove "ombre" su un caso già discusso, mediaticamente e non solo, di per sé.

I familiari del Rossi, nel frattempo, continuano a chiedere la verità, mentre richiedono senza troppi giri di parole la riapertura di un'indagine per omicidio. In questo senso, vale la pena ricordare come, sotto il profilo giudiziario, la vicenda della morte di Rossi sia stata archiviata in duplice battuta come un caso di suicidio.

Di sicuro, l'attività della commissione d'inchiesta parlamentare sta contribuendo a sollevare nell'opinione pubblica tutta una serie di punti interrogativi cui gli stessi membri dell'organo preposto sperano di rispondere. Una delle questioni aperte riguarda la trentina di perizie che sono state predisposte dai parlamentari: le stesse perizie di cui ora si attende l'esito. 

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

David Rossi, la vedova e il sospetto sugli ultimi bigliettini: "Mi ha mandato un messaggio cifrato". Serenella Bettin su Libero Quotidiano il 16 gennaio 2022.

«Questi sono fatti gravissimi. Se la magistratura opera così c'è da avere paura tutti». Antonella Tognazzi è la moglie di David Rossi. Il manager della Comunicazione del Monte Paschi di Siena morto il 6 marzo 2013. Quel giorno Rossi cadde dalla finestra del suo studio e poco dopo morì. Di due indagini che la magistratura ha avviato, entrambe sono state archiviate seguendo la pista del suicidio. Ma, come risulta dalla relazione della Polizia postale, la mail con cui Rossi annuncia il suicidio, sarebbe stata creata il giorno dopo la sua morte. Come è possibile? Chi ha scritto quella mail? I pm di Siena lo sapevano. Perché nessuno ha indagato? «Fatti gravissimi», dice la moglie intervistata da Libero.

Signora Tognazzi sono passati nove anni.

«Sì. Nove anni che cerchiamo di scoprire la verità. Ci sono troppi elementi che non tornano. Abbiamo inoltrato richieste alla procura di Siena portando a sostegno le prove, ma da parte della magistratura c'è sempre stato un muro».

Come mai secondo lei?

«Non lo so. Da quando è successo il fatto noi abbiamo sempre chiesto che si indagasse per omicidio. Tutte le nostre richieste sono sempre state rispedite al mittente. Non tenendo conto di tutte le prove».

Tipo l'orologio. È caduto mezz' ora dopo il corpo di suo marito. Qualcuno deve averlo buttato?

«Si limitano a dire che quel luccichio che si vede cadere dalla finestra dopo la caduta di David non è l'orologio ma qualcos' altro. Ma allora devono dirmi cos' è».

Perché non hanno approfondito?

«C'è voluta l'apertura di una commissione d'inchiesta parlamentare per chiarire cose che la magistratura non ha mai chiarito». 

Pierangelo Maurizio a "Quarto Grado" ha fatto vedere che nel pezzo di strada dove è stato trovato David, in un'ora passano centinaia di persone. Possibile che quella sera non sia passato nessuno?

«Per me è difficilissimo entrare in questi dettagli. Crea un disagio enorme. Cerco di sapere il meno possibile. Ci sono i tecnici e gli avvocati che godono della mia massima fiducia».

Le va di parlare di quei biglietti?

«Quel giorno la Scientifica è arrivata tre ore dopo. Uno dei magistrati ha vuotato il cestino e li ha ricomposti. Ma quei messaggi iniziavano con parole precise che David non usava mai. Tutti mi chiamano Toni. Lui mi diceva "ti chiami Antonella e io ti chiamo col tuo nome". O "Amore", lui non mi chiamava mai "amore"». Teme che quei biglietti non li abbia scritti lui? O potrebbe averli scritti sotto minaccia? «No. Non dico questo. Ho riconosciuto la calligrafia. Ma ci ho letto un messaggio».

Cioè?

«Come se lui avesse voluto dirmi: occhio quando leggerai queste parole. Come non ti tornano queste, non ti deve tornare tutto quanto. Non può essere un caso. Avevamo una sintonia perfetta noi. Ci capivamo al primo sguardo. In 15 anni mai litigato».

Gli ultimi giorni aveva notato qualcosa di strano in lui?

«Era preoccupato per la situazione della banca. C'era questa tensione. Negli ultimi giorni però io ero ricoverata per una bronchiolite. Ma ora col sennò di poi posso dire che lo vedevo impaurito. Sì. Era impaurito. Vedevo un David che non era David. Era pieno di ansie. E lui non lo è mai stato».

E quella mail con cui annuncia il suicidio?

«Quella mail me la fecero leggere per dirmi che era un gesto volontario. Io nell'immediato rimasi basita, stralunata. Quando un magistrato ti dice determinate cose poi cerchi di capire, ma ci credi perché te lo dice un giudice».

Invece cosa pensa ci sia dietro?

«L'interesse a farlo passare come suicidio».

Per questioni legate alla banca?

«Non lo so. Lui sicuramente sapeva qualcosa. In relazione alla banca. Ai festini. Era scomodo».

Cosa si può fare adesso?

«Stiamo lavorando per chiedere la riapertura del caso. La procura di Genova ha riaperto alcuni fascicoli perché Genova è competente sulla procura di Siena per l'operato di alcuni magistrati».

Ora viene fuori che la mail con cui David annuncia il suicidio è stata creata dopo la sua morte.

«Anche quella è strana. C'è tutta una conversazione. David si stava scrivendo con l'amministratore delegato a mezzo iPod. Che senso ha abbandonare l'iPod e scrivere una mail indirizzata alla stessa persona col pc?».

I pm di Siena, stando a quanto detto dal gip di Genova, sapevano che quella mail fosse un falso.

«Sì. Anche questa cosa è scandalosa. La procura di Siena come minimo avrebbe dovuto avvisarci. Secondo lei l'hanno fatto?».

David aveva nemici?

«No. Ma era una persona di spicco in questa città, conosceva vari ambienti. Era scomodo».

Cosa sappiamo della morte di David Rossi: le mail, la telefonata e i biglietti d’addio. Claudio Bozza, Antonella Mollica su Il Corriere della Sera il 17 gennaio 2022. 

Dopo nove anni il caso è ancora aperto. La perizia sul computer del manager Mps: «Date alterate dopo la riconsegna alla famiglia».

Sono passati quasi nove anni da quel 6 marzo 2013 in cui David Rossi , il capo comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, perse la vita precipitando dalla finestra del suo ufficio al terzo piano di Rocca Salimbeni. Nove anni in cui si sono affastellate inchieste — due a distanza di anni che sono arrivate alle conclusioni che si trattò di un suicidio —, consulenze tecniche e ricostruzioni di ogni genere che però non sono state sufficienti a tacitare dubbi e soprattutto l’ipotesi del complotto omicida. 

Oggi, dopo l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta promossa da Fratelli d’Italia, la vicenda torna quotidianamente alla ribalta, diventando anche terreno di scontro politico e con una forte eco mediatica. Sia da destra che da sinistra, per motivi diversi, nessuno si lascia sfuggire l’occasione di intervenire.

Da un lato si moltiplicano gli attacchi contro le toghe e verso la gestione della banca che fu storicamente legata alla sinistra; dall’altro lato c’è chi, come Matteo Renzi punta il dito contro Antonino Nastasi , uno dei magistrati che lo accusano di finanziamento illecito ai partiti nell’inchiesta sulla Fondazione Open. Il pm è lo stesso che ha condotto l’inchiesta sul Monte dei Paschi e ha seguito le indagini sulla morte di Rossi. 

Antonella Tognazzi, la vedova di David Rossi, e Carolina Orlandi, figlia della donna, sono sempre più spesso protagoniste nelle cronache, convinte che «qualcuno voleva David morto perché custodiva segreti inconfessabili», che «le prove sono state inquinate» e che quella sera «David è stato buttato dalla finestra». Al loro fianco c’è Carmelo Miceli, avvocato ma anche deputato del Pd, abile a tenere alta l’attenzione sul caso. Come nella vicenda delle mail inviate due giorni prima di morire da Rossi all’allora amministratore delegato di Mps Fabrizio Viola: «Stasera mi suicidio sul serio, aiutatemi!!!», aveva scritto alle 10.13 del 4 marzo. 

In quei giorni l’ad è in vacanza a Dubai, ma questo non impedisce un lungo scambio di mail tra i due. Alle 13.09 Rossi riscrive: «Ti posso mandare una mail sul tema di stamani. È urgente, domani potrebbe essere già tardi». Viola, che alla prima richiesta di aiuto non risulta aver mai risposto («Non l’ho vista», ha detto agli atti), a questo secondo messaggio replica: «Mandami la mail».

«Quelle mail — è la notizia diffusa e rilanciata — sono state create dopo la morte». Nell’hard disk del pc portatile di Rossi che la famiglia consegna alla polizia postale di Genova nel giugno 2019, in effetti, vengono trovate due versioni della mail: la prima con data di creazione 7 marzo alle 11.41 e consegna il 4 marzo alle 9.12, nella cartella «recoverable item-deletion»; la seconda creata sempre il 7 marzo e consegnata il 4 marzo che risulta tra la posta inviata. 

La relazione della polizia postale di Genova, risalente al giugno 2020, spiega che «l’evidente anomalia che contraddistingue quelle mail è costituita dal fatto che entrambe le mail hanno data di creazione posteriore alla data di ricevimento», ma subito dopo si aggiunge anche che «a complicare le cose c’è il fatto che il file che le contiene risulta creato il 29 luglio 2014, quando il portatile era nella disponibilità della famiglia di Rossi». E in una seconda annotazione, sempre della polizia postale, si ribadisce che «tutti i dispositivi consegnati sono stati alterati nel loro contenuto dopo la riconsegna alla famiglia, per cui la loro analisi risente di questa circostanza e ne risulta in alcuni casi viziata». 

A spegnere l’incendio, nei giorni scorsi, e a mettere un punto sulla questione è stato lo stesso fratello di David Rossi, Ranieri: «Dire che quella mail è stata creata il 7 marzo e sostenere che il 4 marzo non esisteva mi sembra eccessivo. Quella mail è stata letta il 4 marzo. Viola dice di non averla vista ma l’hanno letta comunque la sua segretaria e il capo segreteria».

Anche dei biglietti d’addio ritrovati nel cestino dell’ufficio la sera della morte di Rossi si continua a parlare. Il colonnello Pasquale Aglieco, all’epoca comandante provinciale dei carabinieri, davanti alla commissione d’inchiesta ha affermato che la sera della tragedia uno dei pm intervenuti (Nastasi, appunto) avrebbe inquinato la «scena del crimine» maneggiando oggetti, ricomponendo i biglietti strappati e rispondendo a una chiamata di Daniela Santanché, ai tempi deputata di Forza Italia e imprenditrice, arrivata sul cellulare di Rossi. Ma i tabulati telefonici (e lo stesso iPhone 5 di Rossi) hanno smentito questa ricostruzione, dal momento che non risulta risposta a quella chiamata. 

Saranno adesso gli esami del Ros, chiesti dalla commissione parlamentare, a dare eventuali ulteriori indicazioni, ammesso che si possano trovare nuovi elementi a distanza di tanti anni. Eppure Santanchè, oggi senatrice di Fratelli d’Italia, nel 2017 aveva confermato questa versione; salvo poi, dopo il racconto di Aglieco, ribaltarla dicendo in un’intervista al Corriere che qualcuno rispose, senza però interloquire.

Pure il contenuto dei biglietti d’addio è stato più volte utilizzato per sollevare dubbi su quanto accaduto quella sera. «Ciao Toni, amore, l’ultima che ho fatto è troppo grossa per poterla sopportare... Hai ragione, sono fuori di testa da settimane...», le ultime parole vergate da David Rossi prima di strappare i biglietti. «Lui non mi chiamava Toni né amore», ha sempre ripetuto Antonella Tognazzi, ma dalla rubrica telefonica del cellulare del marito agli atti dell’inchiesta lei è registrata proprio come «Toni». Mentre tutta l’agenda politica è impegnata sul fronte Quirinale, l’attività della commissione parlamentare è ora sospesa. Giuseppe Mussari ha dribblato l’audizione di giovedì scorso presentando un certificato medico all’ultimo minuto. Ed è slittato a data da destinarsi anche l’incontro tra i deputati-commissari e il pm Antonino Nastasi, finora rimasto nel massimo riserbo.

C'è del marcio a Siena. Mistero David Rossi, spunta mail in cui annuncia il suicidio inviata il giorno dopo la morte…Paolo Comi su Il Riformista il 14 Gennaio 2022. 

Il Consiglio superiore della magistratura non autorizza la partecipazione dei magistrati alla Commissione d’inchiesta sulla morte di David Rossi? Ecco pronta la riserva togata (in pensione). Pierantonio Zanettin (FI), presidente della Commissione, non si è perso d’animo e ieri ha tirato fuori dal cilindro due super toghe: Carlo Nordio, già procuratore aggiunto a Venezia, e Roberto Alfonso, ex pg a Milano. «Ho sempre ritenuto che la commissione avesse la necessità di avvalersi anche di magistrati, per svolgere al meglio il proprio compito. Dal momento che il Csm finora non ha autorizzato alcun magistrato di ruolo a svolgere questa attività di consulenza, abbiamo nominato come consulenti due magistrati di altissimo valore che hanno subito accettato con entusiasmo l’incarico (a titolo gratuito, ndr)», afferma Zanettin. Per Alfonso si tratta di un secondo incarico essendo anche componente dei probiviri dell’Anm che in questi giorni stanno definendo le incolpazioni nei confronti di una settantina di magistrati che chiedevano favori ed incarichi a Luca Palamara.

La Commissione, come raccontato dal Riformista, aveva chiesto nei mesi scorsi al Csm di potersi avvalere della collaborazione di due magistrati: la pm trentina Patrizia Foiera e il giudice di Cassazione Michele Romano. Le due toghe avrebbero dovuto aiutare i commissari che stanno procedendo a nuovi interrogatori e ad acquisizioni di documenti, valutando anche il materiale che arriverà dal Reparto investigazioni scientifiche (Ris) e dal Raggruppamento operativo speciale (Ros) dell’Arma ai quali è stato affidato il compito di effettuare una super perizia sulla caduta di Rossi dalla finestra del suo ufficio e sulle comunicazioni telefoniche e telematiche effettuate da egli prima del decesso. Al momento del voto sull’autorizzazione in Plenum, il pm antimafia Nino Di Matteo aveva dato parere negativo alla richiesta di Zanettin, affermando che i due magistrati avrebbero svolto un incarico in “piena ed evidente sovrapponibilità” agli accertamenti della magistratura. Un incarico “inopportuno” alla luce di «preservare sotto il profilo dell’immagine i valori dell’indipendenza e dell’imparzialità della funzione giudiziaria». Ieri, comunque, la Commissione avrebbe dovuto sentire l’ex presidente di banca Monte dei Paschi e dell’Abi Giuseppe Mussari il quale, però, ha mandato un certificato medico.

L’ex banchiere, ora tornato all’attività forense, lavora nello studio dell’avvocato Giancarlo Pittelli, già parlamentare di Forza Italia, finito sotto il tiro del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri nell’ambito dell’indagine Rinascita Scott. E sempre ieri la notizia che l’email con la quale Rossi comunicava all’ad di Mps Fabrizio Viola l’intenzione di togliersi la vita sarebbe stata creata alle ore 11.41 del 7 marzo 2013, il giorno dopo la sua morte, alle ore 11,41. “L’anomalia” è stata evidenziata dalla polizia postale che ha analizzato il pc di Rossi. Viola, ascoltato all’epoca dai magistrati senesi, aveva comunque detto di non ricordare di aver ricevuto questa mail nella quale Rossi annunciava la sua volontà di farla finita. «La questione delle mail inviate da Rossi sarà affrontata sempre dal Ris», ha precisato Zanettin dopo aver appreso della circostanza riportata dall’Espresso. Zanettin ha poi annunciato che i lavori della Commissione si interromperanno fino all’elezione del nuovo capo dello Stato.

Annullata, quindi, l’audizione del pm Antonino Nastasi, ora a Firenze. Nastasi, secondo la testimonianza del colonnello Pasquale Aglieco, l’ex comandante provinciale di Siena, avrebbe sostanzialmente inquinato la scena del crimine. «Quando siamo entrati l’ufficio tutto era in ordine», aveva detto in audizione Aglieco, ed il pm Nastasi «si è posizionato sulla sedia di Rossi e ha iniziato a toccare il pc per vedere se era acceso, poi con una penna ha rovistato nel cestino dei rifiuti, prima di rovesciarlo tutto sulla scrivania, dove erano stati sposati gli oggetti presenti, per controllarne il contenuto». Nel cestino vi erano i “fazzoletti macchiati di sangue e alcuni biglietti”, precisò Aglieco. Nastasi era in compagnia dei pm Nicola Marini e Aldo Natalini. Paolo Comi

David Rossi, il giallo della mail: «Mi suicido». Ma fu inviata dopo la sua morte. La polizia postale sostiene che la mail inviata dall'account di David Rossi sia stata scritta dopo la morte dell'ex capo della comunicazione di Mps. Il Dubbio il 14 gennaio 2022.

Spunta un altro giallo nella controversa vicenda della morte di David Rossi, l’ex responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena: secondo una relazione della Polizia postale, la mail con cui annunciava l’intenzione di suicidarsi all’ex ad della banca, Fabrizio Viola, sarebbe stata in realtà creata il giorno successivo al ritrovamento del suo cadavere. Una scoperta – come sottolinea L’Espresso, che pubblica la relazione della Polposta – che «mette in dubbio la prova chiave utilizzata per chiudere il caso come suicidio».

Anche se la relazione che evidenzia questa «anomalia» è nota da tempo agli inquirenti, poiché si trova «nelle centinaia di allegati alla richiesta di archiviazione della procura di Genova che indagava sui colleghi di Siena e su come erano state fatte le indagini sulla morte» di Rossi. Questi è stato trovato senza vita la sera del 6 marzo 2013, dopo essere caduto da una finestra della sede centrale di Mps in piazza Salimbeni. Secondo la polizia postale la mail incriminata, apparentemente inviata il 4 marzo 2013, è stata invece creata il 7 marzo.

David Rossi, il messaggio “incriminato”

Il messaggio – «Stasera mi suicido, sul serio. Aiutatemi!!!» – è collocato all’interno di uno scambio di mail tra Rossi e Viola. La Polizia postale ha trovato due versioni di questa mail, con la stessa frase, «ma entrambe hanno data di creazione il 7 marzo 2013» alle ore 11.41. Invece, «il delivery time è del 4 marzo 2013 alle ore 10.13». «Va rilevata l’anomalia, alla quale non è stato possibile trovare elementi di riscontro in questo hard disk», conclude la Polposta.

La famiglia di Rossi ha sempre contestato la tesi del suicidio e l’avvocato Carmelo Miceli, che la rappresentata, sottolinea che questo è un elemento importante che non è stato approfondito. «La risposta che ci è stata data – dice il legale, citato sempre dall’Espresso – è che la procura di Genova non aveva delega per indagare sulla morte di Rossi ma solo sulle indagini fatte a Siena, archiviando comunque qualsiasi ipotesi di errore da parte dei colleghi della procura di Siena. Per noi rimane comunque grave che di fronte a quanto scritto dalla polizia postale non ci sia stata alcuna verifica ulteriore, considerando che parliamo della prova chiave che avrebbe giustificato per gli inquirenti la tesi del suicidio, visto che l’avrebbe anche annunciato due giorni prima al suo superiore».

Lo scambio di mail tra Rossi e Viola di quel 4 marzo comincia la mattina verso 9 e va avanti fino al pomeriggio. I temi affrontati sono delicati, si parla di una avvenuta perquisizione da parte della Guardia di Finanza e traspare lo stato d’ansia di Rossi («Ti posso parlare del tema di stamani? È urgente. Domani potrebbe essere troppo tardi»). Viola comunque risponde sempre e alle 14.40 scrive: «Ho riflettuto. Essendo cosa molto delicata credo che cosa migliore sia quella che tu alzi il telefono e chiami uno dei pm per chiedere un appuntamento urgente».

Le presunte anomalie sul caso di David Rossi

La conversazione, sempre rimpallandosi la stessa mail con tutti i testi precedenti, viene chiusa alle ore 17.12 quando Rossi scrive a Viola: «In effetti, ripensandoci, sembravo pazzo, a farmi tutti questi problemi. Scusa la rottura… ciao David». In questo alternarsi di messaggi la mail delle ore 10.13, in cui Rossi annuncia il suicidio, appare del tutto fuori contesto ed estranea allo scambio, che avviene sempre con i testi precedenti allegati. Ascoltato dai magistrati Viola dice a verbale di non ricordare un simile messaggio, riconoscendo invece «tutte le altre mail scambiate con lui quel giorno». Dai tabulati telefonici, inoltre, non risultano telefonate tra i due dopo le 10.13, ed appare incredibile che Rossi e Viola non si siano sentiti a voce dopo una comunicazione così drammatica, proseguendo invece via mail una normale conversazione. (ANSA). 

David Rossi, la mail in cui annuncia il suicidio è stata «creata dopo la sua morte». Ecco la relazione della Polizia postale che mette in dubbio la prova chiave utilizzata per chiudere il caso come suicidio. L’ex ad di Mps Viola ha sempre sostenuto di non averla letta. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 14 gennaio 2022.

Un documento importante, finito nelle centinaia di allegati alla richiesta di archiviazione della procura di Genova che indagava sui colleghi di Siena e su come erano state fatte le indagini sulla morte dell’ex responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena David Rossi. Una relazione della polizia postale che mette in dubbio la prova chiave utilizzata dai magistrati senesi per chiudere il caso della morte di Rossi come suicidio dopo essere caduto la sera del 6 marzo 2013 da una finestra laterale della sede centrale di Mps in piazza Salimbeni. 

Un documento della polizia postale ha analizzato tutte le mail inviate da Rossi il giorno 4 marzo all’amministratore delegato Fabrizio Viola tra le quali ci sarebbe anche quella che annuncia il suicidio. A pagina 31 di questa relazione si legge: «All’interno del file Outlook appare l’invio dell’email con la quale David Rossi comunica al signor Fabrizio Viola l’intenzione di togliersi la vita». Sono presenti due versioni di questa mail, «ma entrambe hanno data di creazione il 7 marzo 2013» alle ore 11,41. «Il delivery time è del 4 marzo 2013 alle ore 9,13 e in entrambe la frase riportata è “Stasera mi suicido, sul serio. Aiutatemi!!!”.  Va rilevata l’anomalia, alla quale non è stato possibile trovare elementi di risconto in questo hard disk». La polizia postale analizza anche l’Ipad di Rossi è rileva che per ricezione o invio di posta elettronica è stato attivo fino al 7 marzo alle ore 2.  

L’avvocato Carmelo Miceli, legale della famiglia di Rossi che non ha mai creduto al suicidio, si chiede perché questo passaggio della relazione non sia stato approfondito: «La risposta che ci è stata data è che la procura di Genova non aveva delega per indagare sulla morte di Rossi ma solo sulle indagini fatte a Siena, archiviando comunque qualsiasi ipotesi di errore da parte dei colleghi della procura di Siena. Per noi rimane comunque grave che di fronte a quanto scritto dalla polizia postale non ci sia stata alcuna verifica ulteriore, considerando che parliamo della prova chiave che avrebbe giustificato per gli inquirenti la tesi del suicidio, visto che l’avrebbe anche annunciato due giorni prima al suo superiore». 

Ma proprio sulle mail scambiate il 4 marzo da Rossi e Viola c’è un altro giallo. La mattina di questo giorno Rossi, intorno alle 9, inizia uno scambio che va avanti fino al pomeriggio con Viola: «Parliamo dei mutui di Prato», scrive Rossi. E poco dopo alle 13: «Ti posso parlare del tema di stamani? E’ urgente. Domani potrebbe essere troppo tardi». Viola risponde alle 13,45: «Mandami mail». Alle 14,12 Rossi risponde, sempre inoltrando le vecchie mail dando continuità alla conversazione e parlando della perquisizione subita dalla Guardia di finanza: «Ho bisogno di un contatto con questi signori perché emo mi abbiano male inquadrato come elemento di un sistema e di un giro sbagliati. Capisco che il mio rapporto con certe persone possa farglielo pensare ma non è così. Se mi avessero chiamato a testimoniare glielo avrei spiegato, invece mi hanno messo nel mirino come se fossi chissà cosa...Avendo lavorato con tutti sono perfettamente in grado di ricostruire gli scenari, se è quello che cercano. Però vorrei avere garanzie di non essere travolto da questa cosa, per questo lo devo fare subito. Non ho contatti con loro ma lo farei volentieri se questo può servire a tutti. Mi puoi aiutare?». Alle 14,24 Viola risponde: «La cosa è delicata. Non so e non voglio sapere cosa succederà domani. Lasciami riflettere». Alle 14,28 David risponde: «Non so nemmeno io. Ma almeno si può provare a vedere se hanno interesse a parlare con me stasera, vedo che stanno cercando di ricostruire gli scenari politici ed i vari rapporti. Ho lavorato con Piccini, Mussari, Comune, Fondazione, Banca. Magari gli chiarisco cose, se so cosa gli serve. L’avrei fatto anche prima ma nessuno me lo ha chiesto». 

Viola alle 14,40 risponde: «Ho riflettuto. Essendo cosa molto delicata credo che cosa migliore sia quella che tu alzi il telefono e chiami uno dei pm per chiedere un appuntamento urgente. Qualsiasi altra soluzione potrebbe essere mal interpretata. Oltretutto mi sembrano delle persone molto equilibrate». La conversazione, sempre rimpallandosi la stessa mail con tutti i testi precedenti viene chiusa alle ore 17,12 quando Rossi scrive a Viola: «In effetti, ripensandoci, sembravo pazzo, a farmi tutti questi problemi. Scusa la rottura...ciao David». 

Ma la mail che annuncia il suicidio è delle ore 10,13, nel mezzo di questa conversazione ed estranea allo scambio che è sempre con i testi precedenti allegati e l’inoltro con “re”. E c’è di più. Ascoltato dai magistrati senesi Viola dice chiaramente a verbale: «Non ricordo di aver ricevuto questa mail delle 10,13 nella quale Rossi annunciava la sua volontà suicidaria». E commentando invece il resto della conversazione avuta con Rossi quel giorno, Viola nello stesso verbale davanti ai pm dice: «Riconosco tutte le altre mail scambiate con lui quel giorno. Non ricordo di aver parlato con lui telefonicamente prima dello scambio delle mail. Ribadisco che se c’è stata una telefonata è stata successiva a queste mail. Non era sereno per questo ci sentimmo per telefono, tuttavia non manifestò eccessivi segni di disperazione po ansia». 

In realtà dai tabulati del telefono di Rossi risulta che il 4 marzo prima delle dieci ci sono state delle chiamate di pochi secondi dal numero di Viola. Di certo non ce ne sono state dopo le 10,13 quando sarebbe arrivata la mail che minacciava il suicidio. Davvero singolare che dopo una mail del genere Viola e Rossi continuino su un’altra mail con continuità e inoltro degli stessi testi una normale conversazione. Davvero strano come tutta questa vicenda. 

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 12 gennaio 2022.

La giornalista Susanna Guarino, l'ex funzionaria della Questura di Siena Alessia Baiocchi e l'ex presidente del Monte dei Paschi e dell'Abi Giuseppe Mussari. Riparte col botto il ciclo di audizioni della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di David Rossi. Guarino e Baiocchi verranno ascoltate oggi, Mussari domani. Le loro audizioni si preannunciano esplosive e, quasi certamente, saranno a porte chiuse.

Guarino, giornalista che per anni ha lavorato al Corriere di Siena e ad altre testate locali, fu una delle ultime persone ad incontrare Rossi prima della morte, la sera del 6 marzo 2013. I due si conoscevano e quel giorno Guarino notò che Rossi aveva un comportamento molto strano: «Andava più volte su e giù tra Vallerozzi e Pian d'Ovile con passo veloce, come se stesse cercando qualcosa o qualcuno. Ad un certo punto mi ripassò vicino quasi correndo, sbattendomi addosso senza neppure chiedere scusa. Sembrava che parlasse da solo.

Quando morì quegli strani movimenti mi tornarono in mente. E così da cittadina non omertosa un paio di giorni dopo andai in questura. Riferii tutto ad un funzionario», sottolineando però che nessuno volle mai verbalizzare la sua testimonianza. Tutt' altro scenario per la vice questora Baiocchi. La funzionaria avrebbe avuto la sera della morte di Rossi un acceso diverbio con il colonnello Pasquale Aglieco, l'ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena, su chi dovesse condurre le indagini. Aglieco aveva sempre detto che la competenza era della polizia ma alcuni dei presenti nell'ufficio di Rossi hanno smentito questa ricostruzione.

Sarebbe dovuto intervenire il pm Nicola Marini per raffreddare gli anni ed affidare l'inchiesta alla questura. Ed infine Mussari. Mai ascolta fino ad ora. Eppure era stato lui a portare Rossi in Mps conoscendone le qualità professionali. Nei giorni prima della morte i contatti fra i due sarebbero stati molto intensi. Mussari, poi, terminata l'esperienza di banchiere, aveva ripreso l'attività forense nello studio dell'avvocato Giancarlo Pittelli, ex parlamentare di Forza Italia e personaggio chiave della maxi inchiesta contro l'ndragheta "Rinascita Scott".

Agli atti dell'indagine condotta dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri compare questa inquietante conversazione intercettata proprio nello studio di Pittelli a marzo del 2018: «Se riaprono l'indagine sulla morte di Rossi succederà un casino grosso... Non si è suicidato! Non si è suicidato! Rossi non si è suicidato! Rossi è stato ucciso». Le frasi sono pronunciate da Pittelli ad un interlocutore misterioso, indicato con le lettere XY dai carabinieri del Ros. Inizialmente si pensava fosse proprio Mussari ma poi ha smentito. «Abbiamo ripreso i lavori con grande lena», ha detto il presidente Pierantonio Zanettin, ospite a Porta a Porta, preannunciando che il 20 gennaio sarà il turno del pm Antonino Nastasi. Colui che, secondo Aglieco, avrebbe rovesciato il cestino dei rifiuti sulla scrivania di Rossi.

(Adnkronos il 13 gennaio 2022) - "Sugli aspetti medico-legali una nuova perizia è in corso" e "non appena il lavoro dei nostri consulenti sarà completato chiederemo la riapertura dell'indagine". Lo afferma all'Adnkronos l'avvocato Carmelo Miceli, legale di Antonella Tognazzi, moglie di David Rossi, e della figlia Carolina Orlandi, che hanno di recente incaricato un medico legale di svolgere una nuova perizia.

"Apprezziamo il lavoro della Commissione di inchiesta, che sta facendo analoghe valutazioni e approfondimenti, ma noi vogliamo che gli accertamenti avvengano anche in sede giudiziaria con la garanzia e il diritto al contraddittorio", spiega. Il lavoro dei consulenti è ancora in corso, ma già emergono alcuni particolari. 

"Abbiamo diverse lesioni su tutto il corpo di David, interne ed esterne, che sono state: documentate fotograficamente, descritte e motivate, erroneamente ad avviso dei nostri consulenti, oppure documentate fotograficamente, descritte succintamente e mai motivate oppure sono state documentate fotograficamente e mai neanche descritte - continua Miceli - Molte di queste lesioni, ad avviso dei nostri consulenti, non sono in nessun modo compatibili con le conseguenze di una precipitazione come descritta negli atti e quindi così come ritenuta, verificatasi e posta alla base e a fondamento della richiesta di archiviazione.

Una rivisitazione o analisi di queste lesioni 'nuove' costituiscono un fatto nuovo su cui, non appena avremo la consulenza medico-legale, investiremo l'autorità giudiziaria".

"Abbiamo notizia che la procura generale della Cassazione ha sciolto il conflitto in favore di Siena, secondo noi la valutazione è errata ma riteniamo di aver diritto di argomentare l'istanza di riapertura da destinare a un nuovo e diverso ufficio giudiziario". L'avvocato spiega che gli elementi sul tavolo sono legati alla "condizione psicologica di Rossi, alla dinamica della caduta e agli aspetti medico legali".

Non è l'arena, David Rossi e il video al rallentatore: "Caduta anomala, sul corpo...". Il ribaltone sull'autopsia. Libero Quotidiano il 13 gennaio 2022.

"Una caduta anomala". Massimo Giletti, a Non è l'arena su La7, torna sulla misteriosa morte di David Rossi, capo della comunicazione di Mps trovato morto in strada sotto il suo ufficio di Rocca Salimbeni il 6 marzo 2013. La tesi del suicidio fa acqua, e lo conferma la figlia della sua ultima compagna, Carolina Orlandi, ospite in studio. "Abbiamo contattato un medico legale - annuncia la giovane, in prima linea fin da subito nel contestare la 'versione ufficiale' della Procura senese -. Ad una prima occhiata (del video della caduta, ndr) ha detto che in 45 anni  non aveva mai visto nessuno suicidarsi in quel modo, è come se qualcuno lo tenesse per i polsi e lo lasciasse andare giù".  

"Tutti avremmo potuto credere nel suicidio - interviene Antonino Monteleone, giornalista delle Iene, riferendo una confidenza fattagli dalla stessa Carolina -, ma nessuno vedendo quelle immagini può continuare a credere che sia un suicidio. Carolina, sei tu che mi hai detto che quando avete visto le immagini per la prima volta vi è crollato il mondo addosso".

"Io aggiungo anche le foto dell'autopsia - sottolinea la figlia -, io le ho viste, il corpo di David parla e nessuno l'ha voluto ascoltare. Non ci possiamo sbilanciare, ma il medico legale ci ha parlato di lesioni nuove che fanno pensare a una colluttazione. Ci sono segni di afferramento su polsi e braccia, degli ematomi. Come se li spiegano?". 

Sotto le scarpe di Rossi c'era della polvere bianca. "Guarda caso al quarto piano, nella stanza sopra il suo studio, c'erano dei lavori. Questa è una ipotesi ma il problema è dato per assunto che David si sia buttato dal testo piano, dal suo studio".

Non è l'arena, Massimo Giletti: "Convocato in Procura, rispetto la legge ma...". David Rossi, nuova bomba. Libero Quotidiano il 13 gennaio 2022.

Dovrà andare in Procura, Massimo Giletti, a riferire quello che sa sul caso di David Rossi, il responsabile dell'area comunicazione di Mps trovato morto in strada a Siena, sotto il suo ufficio, il 6 marzo 2013. Suicidio, recita la versione ufficiale della procura senese, ma molto non torna in un giallo che mescola finanza "sporca", politica, poteri occulti e, forse, vizi inconfessabili dei potenti di Siena e non solo. 

"Questa mattina ho ricevuto la cortese visita della Guardia di finanza", annuncia il giornalista a Non è l'arena, durante l'intervista a Carolina Orlandi, figlia di Rossi presente in studio. "Mi hanno notificato la richiesta da parte della Procura di Genova per presentarmi e raccontare delle cose". Qualche puntata fa, Giletti aveva riferito di alcune prove, 61 foto e 2 filmati, venute a mancare nei fascicoli che la polizia scientifica aveva messo a disposizione dei magistrati.

"Ma non avevo detto niente di che - sottolinea il conduttore di Non è l'arena -, nel senso che la dottoressa Romano, in audizione alla Commissione parlamentare, quindi una cosa pubblica, aveva detto quello che ho detto io". La regia manda in onda il video della audizione: "Quando sono entrata (nello studio di Ross, ndr) ho fatto prima due video, poi le foto. Erano stati allegati agli atti, mi sembra che siano stati consegnati alla Procura". Ma dalla Procura nessuno di quei video è stato inviato alla Commissione parlamentare.  

"Se mi devono convocare, io rispetto la legge - conclude Giletti, sconcertato -. Però mi sembra una convocazione pleonastica, non posso che ribadire quello che dice la dottoressa Romano, che 61 fotografie sono state allegate e non sono state trovate, così come due filmati. Delle foto uguali si possono scartare, a discrezione del magistrato. Ma sui filmati si fa un po' più fatica". 

David Rossi, altri misteri. "Il mio verbale mai registrato". Felice Manti il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Sulla strana morte del manager Mps David Rossi si allunga l'ombra di una "faida" tra carabinieri e polizia per la competenza a indagare.

Sulla strana morte del manager Mps David Rossi si allunga l'ombra di una «faida» tra carabinieri e polizia per la competenza a indagare. A confermare le voci di un dissidio tra le forze dell'ordine, già emersa nelle ricostruzioni delle prime ore dopo il volo del responsabile Comunicazione di Mps, caduto alle 19:43 del 6 marzo 2013 a vicolo Monte Pio, è stata il vice questore aggiunto della Polizia di Stato Alessia Baiocchi durante un'audizione (in gran parte secretata) davanti alla commissione parlamentare su David Rossi, presieduta da Pierantonio Zanettin. Il tema è stato il ruolo dell'ex comandante provinciale dei carabinieri Pasquale Aglieco, presente sulla scena del crimine senza averne titolo, che davanti ai commissari ha di fatto accusato tre magistrati di aver compromesso le prove dentro l'ufficio di Rossi, come peraltro confermerebbero due video e alcune foto (in parte inedite) che stanno analizzando i carabinieri per conto della commissione. «Sono stata chiamata da un collega a casa mia, che dista 350 metri dal vicolo. Mi è stato riferito che era presente sul posto il colonnello dei carabinieri Aglieco e che aveva già preso in mano la situazione, aveva chiesto alla volante della polizia di recarsi all'esterno dell'ufficio perché nessuno potesse entrare dentro. Allora mi sono vestita, sono arrivata e mi sono diretta verso Aglieco, il quale mi ha detto che aveva già sentito il questore». Ma a far luce sulla vera dinamica e sulla possibile contaminazione delle prove nei prossimi giorni sarà l'audizione in commissione del pm Antonino Nastasi, trasferito a Firenze (indaga su Matteo Renzi e la fondazione Open). Slitta invece quella dell'ex numero uno Mps Giuseppe Mussari, intimo amico del manager morto che in quei giorni era particolarmente sotto stress anche per le indagini sul crac della banca senese, come conferma una testimone oculare che avrebbe visto Rossi poche ore prima della morte ma la cui deposizione in Questura non sarebbe mai stata inspiegabilmente verbalizzata. Quanto alla mail con le intenzioni suicidarie mandata all'allora ad Marcello Viola, l'altra sera a Porta a Porta l'avvocato della famiglia Carmelo Miceli, deputato Pd, ha rivelato un'anomalia: «Per la polizia postale della Liguria che ha esaminato l'iPad di Rossi la mail sarebbe stata creata dopo la morte di David, ma questo accertamento non è stato mai concluso». Felice Manti

I "misteri" nascosti dietro al caso David Rossi. Francesco Boezi l'8 Gennaio 2022 su Il Giornale. Il caso David Rossi continua a far parlare di sé. Tra molti lati "misteriosi", ecco quelli che la famiglia dell'ex capo Comunicazione di Mps ritiene più essenziali per comprendere la verità.  

Il caso David Rossi è tornato d'attualità. Sono stati anche se non soprattutto i lavori della commissione d'inchiesta parlamentare - quella che è presieduta dall'onorevole Pierantonio Zanettin - a far sì che della morte dell'ex capo della Comunicazione di Monte dei Paschi si parlasse ancora.

Nuove audizioni sono state considerate d'interesse. Una su tutte: quella del colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, che si è dapprima difeso, smentendo alcune ricostruzioni sui festini che si sarebbero svolti a Siena (presunti avvenimenti che alcuni correlano alla morte del Rossi), ma che ha anche voluto approfondire alcuni aspetti delle attività degli inquirenti.

Si tratta di dettagli sconosciuti sino a quel momento che più di un attore in campo definisce come rilevanti. Dalla presunta telefonata cui un pm avrebbe risposto al cestino che sarebbe stato rovesciato sulla scrivania, passando per il bigliettino che sarebbe stato ricomposto: le modalità tramite cui coloro che hanno indagato hanno svolto il proprio lavoro, in specie nella prima fase, continuano ad essere oggetto di discussione.

Le audizioni e la nuova inchiesta

Le audizioni non si fermeranno. Dopo quella di Aglieco e quella della mental coach, i prossimi 12 e 13 gennaio la commissione d'inchiesta parlamentare avrà modo di ascoltare Alessia Baiocchi, che è un vicequestore aggiunto della Polizia di Stato, la giornalista Susanna Guarino e l'ex presidente di Monte dei Paschi Giuseppe Mussari, che nel frattempo ha detto la sua sulla vicenda, sottolineando di non aver mai detto che David Rossi è stato ucciso. A riportare l'ordine delle audizioni in programma, peraltro, è stata l'Adnkronos.

In relazione a Mussari, le cronache avevano accennato ad un misterioso "mister X" in grado di suffragare un'affermazione dell'avvocato Giancarlo Pittelli. Una versione - quella di Pittelli - che sarebbe riscontrabile attraverso un'intercettazione. Ma l'ex vertice di Mps ha già preso posizione in merito. Per quanto la Giustizia, per mezzo di due inchieste, abbia archiviato la morte del Rossi come un caso di suicidio per due volte, insomma, questa storia non smette d'interessare le cronache. Se non altro perché in molti, famiglia compresa, pensano che non possa essere messa la parola "fine" alla vicenda.

"Presenza confermata...". Cosa non torna del caso David Rossi

Intanto, la procura di Genova ha riaperto un'inchiesta su alcune foto inedite che sono spuntate nel corso di questa fase. Immagini che sono emerse durante una puntata di Non è l'arena, la tramissione condotta da Massimo Giletti che va in onda su La 7. Sono state ventilate, inoltre, anche altre ipotesi inchiestistiche che sarebbero portate avanti sempre dalla procura del capoluogo ligure.

Nell'eventualità, potrebbero essere interessate alcune fattispecie di reato. Comunque sia, i presunti lati misteriosi del caso David Rossi - come descritto in questo articolo - sono molti e molto diversi tra loro. Per questo motivo, conviene fare una scelta e soffermarsi - come abbiamo preferito, attraverso questo approfondimento - su quanto rimarcato dai familiari.

Quello che non torna alla famiglia

La morte di Rossi risale al 2013. La famiglia, nonostante tutto il tempo trascorso, non ha mai mollato. La moglie dell'ex capo comunicazione Mps Antonella Tognazzi e la figlia Carolina Orlandi sono sempre state in prima linea con un solo fine: la ricerca della verità. La Orlandi, che di recente abbiamo anche avuto modo d'intervistare, ha elencato a Il Giornale.it quattro punti focali che fanno parte delle questioni che, per i familiari del Rossi, restano irrisolte.

David Rossi, Orlandi sull'attività degli inquirenti: "Danni irreparabili"

Anzitutto i segni sul corpo non sarebbero compatibili con quella che è stata considerata una caduta. La commissione d'inchiesta parlamentare ha disposto una serie di perizie tecniche (dovrebbero essere una trentina) che sono state effettuate a Siena e di cui si attendono i risultati. Tra queste, anche la simulazione della caduta con un manichino. Potrebbero emergere elementi rispetto alla compatibilità della caduta con un suicidio oppure no. Nello specifico, la Orlandi segnala alcuni segni sul corpo del Rossi: "Quelli sulla parte anteriore: fronte-naso-bocca in asse, l'afferramento braccio, l' ematoma sulla pancia, quelli sulle ascelle, quelli sull' inguine ed i segni sul polso compatibili con la cassa dell'orologio".

Orologio che sarebbe caduto dalla finestra tempo dopo il suicidio. Un ulteriore dettaglio che - com'era forse ovvio che fosse - ha alimentato ulteriori sospetti.

"Persone e ombre"

Ma non sono soltanto questi i punti sollevati. Poi, infatti, ci sono le "persone" e le "ombre" che fanno capolino nella strada durante "l’agonia di David" - insiste la Orlandi -, che aggiunge un particolare temporale: queste figure farebbero la loro comparsa nel vicolo (quello in cui è stato rivenuto il corpo) dopo che il Rossi "smette di muoversi".

David Rossi, esami e simulazioni: la mossa che può cambiare tutto

"Tra tutti - aggiunge la figlia dell'ex campo comunicazione Mps - l’uomo che entra con il telefono all’orecchio alle 20.11 che guarda il corpo e se ne va". E ancora: "I fari posteriori rossi di un’auto che si proiettano sul muro da prima che David cadesse a dopo l’arrivo di Filippone (un funzionario di Mps) che fanno pensare a un’auto posteggiata all’ingresso del vicolo per più di un’ora che potesse occludere la visuale dentro al vicolo".

Perché molto ruota attorno alla caduta

Non esistono molti dubbi sul fatto che l'attesa, arrivati a questo punto della fase odierna, riguardi l'esito delle perizie volute dalla commissione d'inchiesta parlamentare, con quella sulla caduta su cui forse esiste qualche aspettativa in più. Nel caso venisse dimostrata l'incompatibilità dei segni sul corpo di Rossi con una caduta, del resto, verrebbe o no riaperta tutta la vicendasotto il profilo inchiestistico? Per la Orlandi le cose stanno così: La "dinamica" della "caduta" - ci ha detto - "non è compatibile con un suicidio. Il corpo atterra come se qualcuno lo avesse tenuto per le braccia" e poi lo avesse "lasciato cadere. Se David si fosse gettato anche di schiena il suo corpo avrebbe avuto una rotazione fisica".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Felice Manti per "il Giornale" il 30 dicembre 2021. Ai festini gay nel Senese c'erano manager Mps, politici e anche un prete. «Mi dissero ci fosse anche il procuratore Nicola Marini. Ma lui mi chiese di insabbiare quella e altre indagini». A parlare con l'avvocato Carmelo Miceli non è un escort ma Francesco Marinucci, ex comandante della stazione dei carabinieri di Monteriggioni, che insinua anche l'esistenza di video sui festini che immortalerebbero lo stesso Marini, oggi procuratore capo reggente di Siena. Accuse pesantissime, depositate e finite (senza nomi) in una puntata delle Iene eppure rimaste senza seguito.

Se Marinucci mente perché non è stato mai indagato? E il Csm che cosa aspetta a intervenire? È lo stesso Miceli a chiederselo da quando dopo aver interrogato l'ufficiale da difensore della famiglia e aver depositato verbale interamente trascritto e pennetta Usb si aspettava una mossa alla Procura di Genova, che invece ha archiviato tutto e non l'ha mai sentito. Ma il verbale è sparito, poi riapparso, «senza essere mai preso in esame nel fascicolo sui presunti abusi e omissioni nelle indagini sulla strana morte di Rossi», volato da una finestra della banca senese il 6 marzo del 2013.

«Ed è ancora più grave ribadisce il legale al Giornale che il Procuratore aggiunto di Genova Vittorio Ranieri Miniati, anche davanti alla commissione d'inchiesta dica di esserne venuto a conoscenza all'ultima udienza, quando invece noi l'avevamo depositata il 14 agosto 2019 e fatta presente più volte». D'altronde, nessun insabbiamento è la linea sostenuta da tutti e tre i pm (oltre a Marini, anche Aldo Natalini e Antonio Nastasi), vergata nella lettera del legale genovese Andrea Vernazza contro il lavoro della commissione d'inchiesta.

Missiva dalla quale però sembrerebbero aver preso le distanze Nastasi e Natalini. Contattati dal Giornale, entrambi si rifugiano dietro un no comment, ma alcuni toni della missiva avrebbero irritato soprattutto Nastasi, oggi pm del caso Matteo Renzi-Fondazione Open, chiamato in causa in prima persona nel presunto inquinamento della scena del crimine dalla deposizione in commissione dell'ex comandante dei carabinieri di Siena, il colonnello Pasquale Aglieco, che sarebbe stato presente (senza averne titolo) nell'ufficio di Rossi dopo la caduta.

Anche, è emerso, per rivendicare inutilmente la competenza dell'Arma sulle indagini, sebbene qualche collega lo smentisca. Presto i tre verranno sentiti in commissione, probabilmente assieme a Marinucci, la cui testimonianza si intreccia con un esposto anonimo in cui si parlava dell'esistenza di festini all'interno dell'Arcivescovado, ben prima della morte di Rossi. Ma Marini avrebbe ordinato al maresciallo di interrompere qualsiasi indagine e di non verbalizzare nulla.

«Testimonianze inosservate, o addirittura perse, poi ritrovate, poi non considerate. Eppure si tratta di dichiarazioni spontanee di un ufficiale personalmente coinvolto dalle azioni omissive di Marini, che avrebbe dichiaratamente imposto a lui di non proseguire anche con altre indagini», si lamenta col Giornale Carolina Orlandi, figlia di Rossi.

«E nessuno ci chiede scusa», sottolinea Paolo Pirani, legale del fratello di Rossi, Ranieri. Ma c'è un filo rosso che lega alcuni protagonisti della vicenda Rossi con lo strano incendio del 2 aprile 2006 che devastò alcuni uffici all'interno della Curia arcivescovile di Siena. Fu Marini a indagare l'allora economo della diocesi (difeso da Giuseppe Mussari), che aveva ingiustamente accusato del rogo l'archivista, ma anche questa vicenda finì senza colpevoli. Cosa si nascondeva in quei documenti irrimediabilmente persi dalla Curia? Strani affari immobiliari? Forse non lo sapremo mai. Ma a Siena quasi tutti sanno. E presto qualcuno potrebbe decidersi a parlare.

La strana morte del pittore gay "amico" del pm del caso Mps. Felice Manti il 31 Dicembre 2021 su Il Giornale. Anticipò a un carabiniere l'esistenza dei party: "C'era Marini, ho i video". Trovato impiccato nella sua cella. Chi parla dei festini gay a Siena fa sempre una brutta fine? A leggere il verbale dell'ex comandante dei carabinieri di Monteriggioni (Siena) Francesco Marinucci si scopre infatti la strana morte del pittore gay Francesco Benocci. Sposato con moglie e figli, avrebbe raccontato molti anni prima di aver partecipato ad allegre festicciole con la Siena bene. Il suo racconto («Ballavano nudi sui tavoli...») collimerebbe su molti aspetti con quanto raccontato alle Iene successivamente dall'allora escort di Varese Matteo Bonaccorsi, sentito in segreto dalla commissione che indaga sulla vita del manager Mps, volato da una finestra il 6 marzo 2013. A Marinucci Benocci avrebbe detto che tra i partecipanti c'era Nicola Marini, che con Aldo Natalini e Antonino Nastasi (oggi a Firenze a indagare su Fondazione Open e Matteo Renzi) erano nell'ufficio di Rossi a rovistare nei suoi effetti, nel pc e nel cellulare, almeno stando alla deposizione in commissione del colonnello Pasquale Aglieco.

Benocci era delinquente abituale con una fedina penale infinita. Per Marinucci era così intimo di alcuni inquirenti senesi (su tutti il pm Marini) da sentirsi abbastanza sicuro di poterla fare franca, come se avesse una sorta di «immunità»: «Ma te non c'hai paura che... perché stai raccontando tutti sti festini...», racconta il carabiniere. E lui: «Maresciallo io sono una volpe. Io ci ho tutto registrato, filmini... se me succede qualcosa a me, qui salta Siena». Tanto furbo Benocci non doveva essere. Fu trovato impiccato a una finestra della sua cella del carcere di Massa Marittima il giorno prima di uscire con l'indulto. Guardando le foto della scena la dinamica del suicidio sembra improbabile, ma tant'è. E peraltro perché impiccarsi il giorno prima di uscire di cella? A Marinucci Benocci avrebbe detto: «So' quarantanni che entro ed esco, io sto meglio in carcere che a casa...».

Alcuni degli stessi protagonisti, periodi diversi. Dei filmati dei festini, di cui parla anche Bonaccorsi, finora non c'è traccia. Il presunto coinvolgimento di due dei tre pm ai festini ha spinto i familiari di Rossi a sospettare che la morte del manager Mps e le indagini incomplete siano in qualche modo collegate. Non secondo il tribunale di Genova, che ha archiviato l'indagine per abuso d'ufficio pur ritenendo credibile l'escort Bonaccorsi ma senza sentire nessuno dei tre magistrati e senza neppure interrogare o analizzare le gravissime dichiarazioni spontanee di Marinucci. E ora sono in tanti a chiedersi che fine abbia fatto al Csm la pratica disciplinare, sempre se è stata aperta, nei confronti dei pm. Bonaccorsi mente, come dice Aglieco? Questo non spiegherebbe le molestie telefoniche e lo stalking di cui sarebbe vittima ancora oggi, basti pensare al fatto che il colonnello - individuato da Bonaccorsi nei festini - l'avrebbe seguito il giorno dell'audizione secretata dell'escort a Palazzo San Macuto, la sua compagna l'avrebbe fotografato e la foto è finita sui social e su qualche giornale. Se ne starebbe occupando la Procura di Varese, altri filoni sarebbero aperti a Roma, Firenze e Genova.

Intanto fa ancora discutere la lettera che l'avvocato genovese Andrea Vernazza ha scritto al presidente della Camera Roberto Fico a nome dei pm Nastasi, Marini e Natalini (non senza qualche distinguo e attrito tra gli stessi magistrati) per lamentarsi del lavoro della commissione e di alcuni parlamentari come Luca Migliorino (M5s). Tra i grillini ha fatto discutere la scelta di Vernazza, che è anche il legale del figlio di Beppe Grillo (rinviato a giudizio per stupro a Tempio Pausania) di mettere all'indice un esponente del Movimento, suonata come una sconfessione se non una presa di distanza. «Ho chiesto di audire Vernazza e Marinucci in commissione», dice al Giornale Walter Rizzetto di Fdi. Nei prossimi giorni verrà anche sentito Giuseppe Mussari, che ha già seccamente smentito la ricostruzione dei suoi rapporti con l'ex parlamentare di Forza Italia Giancarlo Pittelli, in carcere per 'ndrangheta, che avrebbe detto «a Rossi l'hanno ammazzato, se si sa chi è stato è un casino». Chi ha fatto queste confidenze a Pittelli? Felice Manti

Rinascita Scott, l’avvocato Mussari e l’altra verità sulla morte di Rossi negli sms con Pittelli. Da calabria7.it il 19 Dicembre 2021. 

“Se riaprono l’indagine sulla morte di Rossi succederà un casino grosso… Non si è suicidato! Non si è suicidato! Rossi non si è suicidato! Rossi è stato ucciso”. E’ il 30 marzo del 2018 e gli investigatori del Ros intercettano nello studio dell’ex parlamentare a Catanzaro una conversazione tramite spyware tra l’avvocato Giancarlo Pittelli e un misterioso interlocutore che viene indicato con le lettere “X Y”. A parlare è proprio il noto penalista catanzarese e l’intercettazione finisce agli atti di “Rinascita Scott”, la maxi inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri sfociata nella notte tra il 18 e il 19 dicembre del 2019 nel mega blitz che portò, tra gli altri, all’arresto dello stesso Pittelli. Tra le pagine discoverate dell’indagine si parla anche del giallo dei gialli che coinvolge il Monte Paschi di Siena: la morte di David Rossi. Per Pittelli non si è suicidato ma è stato ucciso. E’ lui a riferirlo a “mister X” ma il vero mistero è un altro: da chi ha appreso queste informazioni l’ex senatore di Forza Italia? E qui entra in scena uno dei suoi legali di fiducia Giuseppe Mussari, ex presidente di Banca Mps, catanzarese d’origini, legato da un rapporto professionale e personale radicato negli anni con David Rossi. L’ipotesi è che a raccontare il particolare inquietante a Pittelli possa essere stato proprio lui. Il diretto interessato smentisce categoricamente e bolla le ricostruzioni di alcuni media nazionali come errate. Illazioni che definisce “devastanti” in un’intervista rilasciata a “La Nazione”.

Gli sms tra Mussari e Pittelli

Mettendo in fila date e intercettazioni estrapolate dalle migliaia di pagine che compongono la maxi inchiesta “Rinascita Scott” viene fuori un primo e fondamentale punto fermo: non è stato Giuseppe Mussari a riferire a Giancarlo Pittelli che David Rossi sarebbe stato ucciso. Innanzitutto, l’intercettazione con “Mister X” è datata 30 marzo 2018 e Pittelli – secondo quanto emerge dagli atti – conosce Mussari esattamente tre mesi dopo, il 26 maggio 2018. Riporta infatti questa data il primo contatto tra i due, intercettato sempre dagli uomini del Ros che stanno indagando sull’ex parlamentare. “Buona sera sono Giuseppe Mussari, spero di non disturbare, le scrivo per chiederle se possibile fissare un incontro. Buona domenica”. E’ un sms indirizzato da Mussari a Pittelli che risponde con altri tre messaggi testuali: “Alle 9? Se ti va bene facciamo quattro chiacchiere”; “Caro Giuseppe, non darmi mai più del Lei. Lunedì sarà a Reggio fino a sera e martedì a Crotone. Che ne pensi se prendiamo un caffè a Piazza Roma”; “Ho appreso che andavi all’asilo con mia moglie”. I messaggi confermano la recente conoscenza tra i due ribadita a chiare lettere anche da Mussari. “Dal tenore del primo messaggio io do del lei a Pittelli, e solo dopo il suo espresso invito, gli do del tu. A dimostrazione che non lo conoscevo prima di questo scambio. Pittelli è stato intercettato dal 22 gennaio al 6 dicembre 2018 e prima del mio sms del 26 maggio non c’è stato nessun rapporto o conversazione. I contenuti della conversazione con mister X del 30 marzo su David Rossi, sono da ascriversi esclusivamente all’avvocato Pittelli e non riferibili in alcun modo a me”. (mi.fa.)

Mps, David Rossi e feste gay. "Ma il pm mi disse: fermati". Felice Manti il 30 Dicembre 2021 su Il Giornale. In esclusiva il verbale del carabiniere mai sentito da Genova: "Così Marini impedì pure altre mie indagini". Ai festini gay nel Senese c'erano manager Mps, politici e anche un prete. «Mi dissero ci fosse anche il procuratore Nicola Marini. Ma lui mi chiese di insabbiare quella e altre indagini». A parlare con l'avvocato Carmelo Miceli non è un escort ma Francesco Marinucci, ex comandante della stazione dei carabinieri di Monteriggioni, che insinua anche l'esistenza di video sui festini che immortalerebbero lo stesso Marini, oggi procuratore capo reggente di Siena. Accuse pesantissime, depositate e finite (senza nomi) in una puntata delle Iene eppure rimaste senza seguito. Se Marinucci mente perché non è stato mai indagato? E il Csm che cosa aspetta a intervenire?

È lo stesso Miceli a chiederselo da quando dopo aver interrogato l'ufficiale da difensore della famiglia e aver depositato verbale interamente trascritto e pennetta Usb si aspettava una mossa alla Procura di Genova, che invece ha archiviato tutto e non l'ha mai sentito. Ma il verbale è sparito, poi riapparso, «senza essere mai preso in esame nel fascicolo sui presunti abusi e omissioni nelle indagini sulla strana morte di Rossi», volato da una finestra della banca senese il 6 marzo del 2013. «Ed è ancora più grave - ribadisce il legale al Giornale - che il Procuratore aggiunto di Genova Vittorio Ranieri Miniati, anche davanti alla commissione d'inchiesta dica di esserne venuto a conoscenza all'ultima udienza, quando invece noi l'avevamo depositata il 14 agosto 2019 e fatta presente più volte».

D'altronde, nessun insabbiamento è la linea sostenuta da tutti e tre i pm (oltre a Marini, anche Aldo Natalini e Antonio Nastasi), vergata nella lettera del legale genovese Andrea Vernazza contro il lavoro della commissione d'inchiesta. Missiva dalla quale però sembrerebbero aver preso le distanze Nastasi e Natalini. Contattati dal Giornale, entrambi si rifugiano dietro un no comment, ma alcuni toni della missiva avrebbero irritato soprattutto Nastasi, oggi pm del caso Matteo Renzi-Fondazione Open, chiamato in causa in prima persona nel presunto inquinamento della scena del crimine dalla deposizione in commissione dell'ex comandante dei carabinieri di Siena, il colonnello Pasquale Aglieco, che sarebbe stato presente (senza averne titolo) nell'ufficio di Rossi dopo la caduta. Anche, è emerso, per rivendicare inutilmente la competenza dell'Arma sulle indagini, sebbene qualche collega lo smentisca.

Presto i tre verranno sentiti in commissione, probabilmente assieme a Marinucci, la cui testimonianza si intreccia con un esposto anonimo in cui si parlava dell'esistenza di festini all'interno dell'Arcivescovado, ben prima della morte di Rossi. Ma Marini avrebbe ordinato al maresciallo di interrompere qualsiasi indagine e di non verbalizzare nulla. «Testimonianze inosservate, o addirittura perse, poi ritrovate, poi non considerate. Eppure si tratta di dichiarazioni spontanee di un ufficiale personalmente coinvolto dalle azioni omissive di Marini, che avrebbe dichiaratamente imposto a lui di non proseguire anche con altre indagini», si lamenta col Giornale Carolina Orlandi, figlia di Rossi. «E nessuno ci chiede scusa», sottolinea Paolo Pirani, legale del fratello di Rossi, Ranieri.

Ma c'è un filo rosso che lega alcuni protagonisti della vicenda Rossi con lo strano incendio del 2 aprile 2006 che devastò alcuni uffici all'interno della Curia arcivescovile di Siena. Fu Marini a indagare l'allora economo della diocesi (difeso da Giuseppe Mussari), che aveva ingiustamente accusato del rogo l'archivista, ma anche questa vicenda finì senza colpevoli. Cosa si nascondeva in quei documenti irrimediabilmente persi dalla Curia? Strani affari immobiliari? Forse non lo sapremo mai. Ma a Siena quasi tutti sanno. E presto qualcuno potrebbe decidersi a parlare. Felice Manti

Giacomo Amadori e François de Tonquédec per “La Verità” il 29 dicembre 2021. Il caso della morte di David Rossi rischia di intasare la Procura di Genova. Infatti il procuratore aggiunto Vittorio Ranieri Miniati ha in mano una decina di fascicoli sulla vicenda. Gli ultimi due sono a modello 45, ovvero senza iscrizione di indagati o di ipotesi di reato. 

Il primo è stato aperto dopo la trasmissione da parte della commissione d'inchiesta di alcuni verbali resi in aula da alcuni testimoni, come il colonnello dei carabinieri Pasquale Aglieco, che ha dichiarato di aver assistito personalmente all'inquinamento della scena da parte di tre magistrati: Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi.

L'altro modello 45 è stato iscritto dopo che Massimo Giletti, durante la trasmissione Non è l'Arena, ha dichiarato che una fonte anonima gli aveva riferito che «nel fascicolo dei magistrati c'erano altre foto e video di cui ora non c'è più traccia». Successivamente la Scientifica ha trasmesso alla commissione una sessantina di foto non depositate e due filmati. 

Sulla questione il presidente Pierantonio Zanettin con La Verità aveva minimizzato: «Si tratta di foto ulteriori, ma non alternative alle altre. [] I poliziotti hanno fatto tante foto e hanno mandato in Procura quelle che ritenevano più significative». 

A Genova esistono anche diversi fascicoli avviati dopo le querele dei pm senesi relative a diversi servizi delle Iene e di Quarto grado su presunti festini ed errori giudiziari. Marini, Natalini, ma anche Nastasi hanno pure denunciato il testimone e sedicente escort Matteo Bonaccorsi. 

I primi due magistrati sono stati indicati dal gigolò come presenti ai party a luci rosse, la denuncia di Nastasi è arrivata successivamente. Secondo il legale delle toghe, l'avvocato Andrea Vernazza, per Bonaccorsi sarebbe pronto un avviso di chiusura delle indagini per false dichiarazioni rese davanti ai pm.

In realtà il fascicolo non è ancora in fase di chiusura ed è iscritto per diffamazione, anche se in Procura non escludono di poter contestare anche l'articolo 371 bis del codice penale. Al momento, però, il giovane non risulta ancora accusato per quel reato. Le dichiarazioni di un secondo escort, Renan William Villanova Correa, attualmente in carcere per l'omicidio di una prostituta, hanno portato all'apertura di un altro procedimento, questa volta aperto su denuncia di Marini.

Infine il sostituto procuratore viterbese Massimiliano Siddi ha denunciato l'avvocato Nicola Mini, che nel 2013 ha assistito Natalini in un procedimento in cui era indagato per rivelazione di segreto. Mini, sia in un verbale che in un'intervista alla Verità, ha messo in dubbio la precisione del verbale redatto da Siddi e persino la data di stesura, che a suo giudizio sarebbe stata postdatata. Tutti questi fascicoli dovrebbero essere riordinati subito dopo le feste natalizie e in parte accorpati. 

Nei giorni scorsi la vedova di Rossi, Antonella Tognazzi, ha dichiarato di non credere all'ipotesi del suicidio poiché suo marito «custodiva segreti inconfessabili». Segreti che le nuove indagini potrebbero provare a svelare, magari scavando nelle stranezze emerse sui telefonini in uso all'ex manager del Monte dei Paschi di Siena. Per esempio, dopo la sua morte, non è stato più ritrovato il Blackberry con il tastierino grande che Rossi utilizzava insieme con il cellulare della stessa marca, ma con il tastierino piccolo.

Erano entrambi benefit aziendali associati ed erano associati al medesimo numero, che terminava con «179». L'imei (il codice di riconoscimento) del Blackberry sparito ha smesso di essere collegato a quel numero il 15 gennaio 2013, come risulta dai tabulati. L'ingegner Luca Scarselli, amico di David e consulente della famiglia, è netto: «Il cellulare che non si trova, era la scatola nera di David, tutte le mail, tutte le sue cose erano lì dentro». 

Ma anche per il secondo Blackberry non mancano le stranezze: ha smesso di essere utilizzato il 4 marzo, quando Rossi ha scritto una mail all'ex ad di Mps Fabrizio Viola rivelando la sua volontà di ammazzarsi. Prosegue Scarselli: «Dal 4 marzo David utilizza solo Iphone (quello con meno di 2 mesi di vita, ndr) come se avesse messo da parte l'altro ed è una cosa abbastanza particolare perché lui li utilizzava entrambi». 

Nella relazione trasmessa alla Procura di Genova, gli investigatori della Polizia postale annotano due email cancellate dal telefonino 8 giorni dopo la morte di Rossi. Il fatto che siano state eliminate non ha permesso di risalire ai destinatari. Anche quasi tutti gli sms, 59 su 64, risultano depennati.

Dall'analisi forense del telefonino emerge un tentativo di chiamata in entrata, «cancellato dal registro chiamate» e risalente alle ore 21.54 del 6 marzo 2013, quando Rossi era già morto. Ma le conversazioni eliminate dal registro del telefono sono moltissime: «Il registro contiene 1561 chiamate, di queste 229 sono cancellate [...]. La cancellazione in blocco del registro chiamate parte dal 12 febbraio 2013 ed arriva al 4 marzo 2013», data in cui il telefono smette di essere utilizzato.

È stato Rossi a cancellarle dopo la perquisizione subita nei giorni precedenti la sua morte o è opera della stessa mano che ha eliminato la chiamata della 21:54 del 6 marzo? La famiglia ricorda anche un altro numero, che termina con «156», attivato a metà degli anni '90 insieme con il collega giornalista David Taddei. Che ci spiega: «Lui credo che il "156" lo abbia dismesso nel 2008-2009. Negli anni successivi ha usato il "179" e un 366 che avevo salvato come "David 2"».

Se il «156» risulta, anche da fonti aperte, in uso a una casa di moda già nel 2008 e più recentemente a una ditta di transazioni finanziarie, il «366» è un numero intestato al Comune di Siena per cui David aveva lavorato come portavoce. C'è infine il numero che Rossi aveva salvato nella rubrica del suo Iphone come «secret David», che termina con «822». Gli investigatori hanno appurato che si trattava di «un'utenza Tim intestata alla Banca Monte dei paschi dal 19 marzo 2008» e cessata il 18 maggio 2015.

Su quel numero, gli uomini della Guardia di finanza hanno annotato che non è «mai comparso nei dati di traffico telefonico acquisiti dai gestori telefonici», suggerendo «di interessare Bmps al fine di verificare l'utilizzatore dell'utenza aziendale sopra individuata».Dal 2010 fino alla cessazione il referente della gestione del contratto telefonico era Massimo Castagnini, ad della società di servizi del gruppo Mps, ma incrociando i dati con fonti aperte è emerso che quel numero in Rete era associato a a un certo G. C., che ricopriva l'incarico di district manager della Banca. Oggi il numero non è più attivo.

Felice Manti per “il Giornale” il 28 dicembre 2021. Chi vuole davvero la verità sulla strana morte di David Rossi? Se l'è chiesto Carmelo Miceli, parlamentare Pd e legale della famiglia del manager Mps volato giù da una finestra di Banca Mps a Siena il 6 marzo del 2013, che in una lettera pubblicata su Facebook e indirizzata al legale che difende i pm Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi (secondo cui la morte di Rossi è stato un suicidio) chiede la rimozione dell'attuale capo dell'ufficio giudiziario di Siena.

Come sappiamo, i tre magistrati contestano il lavoro della commissione parlamentare diretta da Pierantonio Zanettin (Forza Italia), nata dopo le inchieste delle Iene, sebbene tutte o quasi le audizioni pubbliche in commissione li abbiano inguaiati, anche per la possibile presenza di Marini e Natalini ad alcuni festini gay ai quali avrebbero partecipato l'ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena Pasquale Aglieco e alcuni manager Mps.

Eppure loro si sono rammaricati di tanto accanimento rivolgendosi al presidente della Camera Roberto Fico tramite l'avvocato Andrea Vernazza (legale di Ciro Grillo, figlio di Beppe) del foro di Genova, guarda caso il distretto della Procura competente che ha già (ri)aperto l'indagine sui colleghi dopo le rivelazioni su alcune prove compromesse dello stesso Aglieco, presente sulla scena del crimine (anche se qualche suo collega nega) senza averne titolo.

Che i pm siano stati scaricati da Csm e Anm è cosa nota, meno le rivelazioni choc di Miceli, come l'esistenza di alcuni «ufficiali di polizia giudiziaria» disposti ad ammettere che Marini «chiese loro di insabbiare le indagini sui festini». L'aveva detto anche l'ex sindaco di Siena Pierluigi Piccini alle Iene («La magistratura potrebbe anche avere abbuiato tutto»).

E dunque «quanto è opportuna la sua permanenza come procuratore capo?». Secondo il deputato Pd infatti la lettera stessa lo pone «in una palese ed oggettiva situazione di incompatibilità». E ancora: perché Vernazza glissa sulle «omissioni documentate dei suoi assistiti» emerse dalle audizioni come le 60 foto e i due video inediti della scena del crimine, saltati fuori dopo 8 anni?

La partecipazione dei pm Marini e Natalini ai festini è stata riferita da un testimone che per il gip di Genova è «attendibile», dunque? Quanto all'ipotesi del suicidio, il fatto che la sera stessa della morte siano stati dati alla stampa alcuni messaggini (finiti in un cestino ma ricomposti da un pm in un libro) ben prima che la Scientifica intervenisse ha in qualche modo avvelenato i pozzi.

E che fine hanno fatto i fascicoli aperti al Csm di cui non si è mai saputo nulla? E come farà il Csm a restare indifferente? Intanto al Giornale è arrivata una lettera dal carcere dell'ex deputato di Forza Italia Giancarlo Pittelli, che in un audio captato in un'inchiesta per 'ndrangheta ha ammesso di sapere chi avrebbe ucciso Rossi («Se si sa chi l'ha ammazzato scoppia un casino»).

Nella sua missiva dal carcere di Melfi Pittelli dice di essere stato frainteso in quanto quelle deduzioni sarebbero frutto della puntata delle Iene vista la sera precedente. L'ex deputato azzurro proclama anche la sua innocenza dalle accuse di 'ndrangheta e conferma l'amicizia con l'ex numero uno di Mps Giuseppe Mussari.

Ma l'ombra della mafia calabrese si è già affacciata anche in questa vicenda, in una delle tante piste accarezzate (l'ultima volta nel 2019) e poi abbandonate. Ne parlò persino Sergio Rizzo su Repubblica, quando riportò alcune dichiarazioni dell'avvocato Luca Goracci in merito all'incontro con un misterioso imprenditore calabrese in odore di mafia, indebitato con Mps e con interessi nel Bresciano e nel Mantovano, tale Antonio Muto, che proprio il 6 marzo 2013 alle 18 aveva un appuntamento con Rossi ma arrivò quando era già morto. Peraltro, lo strano numero Tim comparso nei brogliacci di Rossi (4099009), oggi al vaglio dei Ros, sarebbe identico a un certificato di fondi al portatore in pancia a una banca mantovana. Coincidenze?

Giacomo Amadori per “La Verità” il 28 dicembre 2021. Ci sarebbe una vicequestore della Polizia, intervenuta per prima sulla scena del presunto suicidio di David Rossi, pronta a smentire le dichiarazioni del colonnello Pasquale Aglieco, l'ex comandante della Comando provinciale dei carabinieri di Siena che, davanti alla commissione d'inchiesta sul caso Rossi, ha sostenuto di aver partecipato al primo sopralluogo dentro alla stanza del manager deceduto otto anni fa e di aver visto tre pm, Nicola Marini, Antonino Nastasi e Aldo Natalini, inquinare la scena svuotando il cestino con importanti prove e persino rispondendo al telefono del defunto. L'avvocato chiamato a difendere l'onore dei tre magistrati (oltre che quello di altri due colleghi passati da Siena), il settantatreenne Andrea Vernazza, uno dei principi del foro genovese, ci spiega: «Marini, che era il pm di turno e il più anziano dei tre, è arrivato per ultimo con l'auto di servizio, mentre gli altri due sono intervenuti appena si è diffusa la notizia.

Nel corridoio su cui si affacciano le stanze dei funzionari c'erano loro due, Aglieco e questa dottoressa vicequestore che stavano aspettando Marini. Stavano disputando garbatamente su chi dovesse occuparsene a livello di polizia giudiziaria. Per Marini, secondo una sua costante prassi, il compito spettava a chi che aveva ricevuto la notizia ed era arrivato per primo sul luogo dei fatti.

Per questo, visto che la comunicazione era giunta alla Questura, Marini ha riferito al colonnello che non era il caso che si fermasse e lo ha congedato con i suoi uomini». 

E questo è avvenuto fuori dalla stanza? «"Davanti alla porta del corridoio", questo il ricordo preciso del dottor Marini. È stato lui a dirimere questa discussione» assicura Vernazza. Il legale è finito al centro di un'accesa polemica dopo aver scritto al presidente della Camera Roberto Fico una lettera di protesta per alcune interviste rilasciate dai membri della commissione parlamentare ad alcune trasmissioni tv. 

Vernazza ha contestato anche le presunte parole del presidente Pierantonio Zanettin, dichiarazioni che, però, quest' ultimo non avrebbe mai pronunciato, come ha precisato in una missiva inviata a Vernazza. «Domani (oggi per chi legge, ndr) gli scriverò una lettera di risposta per dirgli che ha preferito concentrarsi su un solo aspetto, cioè il fatto che forse gli ho attribuito una frase che non è proprio quella testuale, e sono pronto a scusarmi per questo, ma che ha eluso il centro del mio discorso.

Io ho scritto al presidente della Camera, anche se io non faccio politica e difendo il figlio di Grillo per un incarico strettamente professionale, per censurare il fatto che, con i lavori della commissione in corso, i membri parlino con gli organi di informazione. È inopportuno che i magistrati inquirenti lo facciano durante le indagini, anche per non mandare messaggi ai testimoni che devono essere ancora ascoltati.

Perché, seppure il lavoro della commissione abbia ricevuto un'investitura parlamentare e sia un organismo previsto dalla Costituzione lato sensu, siamo di fronte a un'indagine investigativa che dovrà essere trasmessa alla competente magistratura».

Vernazza mette in dubbio anche l'attendibilità del super testimone dei festini gay Matteo Bonaccorsi, il quale avrebbe dichiarato di aver visto a quegli incontri Marini, Natalini e lo stesso Aglieco: «Credo che a breve Bonaccorsi riceverà un avviso di chiusura delle indagini per false dichiarazioni ai pm» ci informa Vernazza.

Il tema dei party a luci rosse è stato ripreso ieri dall'avvocato della famiglia Rossi, il parlamentare del Pd Carmelo Miceli, in un lungo post di risposta su Facebook al legale genovese: «L'avvocato Vernazza può escludere che esistano soggetti, non ancora escussi in sede giudiziaria, che affermano di essere in grado di testimoniare della partecipazione ai "festini" di magistrati o ufficiali di Pg operanti in Siena?» domanda il legale. 

«Sa che esistono ufficiali di Pg che riferiscono di un intervento del dottor Marini su suoi sottoposti finalizzato a impedire lo svolgimento di indagini su storie di "festini" verificatisi nei sobborghi senesi?».

Quindi Miceli accusa Marini, procuratore facente funzioni di Siena, perché con il suo «giudizio di una asserita mancanza di "nuove prove" sulle cause della morte del dottor David Rossi», veicolato tramite la lettera di Vernazza a Fico, impedirebbe, di fatto, nuove indagini: «Con quale serenità e terzietà uno qualsiasi dei sostituti procuratori della Repubblica in forza al Tribunale di Siena potrebbe arrivare ad un giudizio diverso sull'esistenza o meno di "nuove prove" stante quanto dichiarato sul punto» dall'attuale capo dei pm attraverso il suo avvocato? 

Il problema è che a Siena sarebbe ancora aperto un fascicolo sulle dichiarazioni di Renan William Villanova Correa, assassino reo confesso di una prostituta, il quale ha assicurato di conoscere gli «autori dell'omicidio di David Rossi» e ha consigliato agli inquirenti di indagare «sull'amante della persona che ho ucciso, un dirigente Mps».

Per questo Miceli chiede se non ci sia «una palese ed oggettiva "incompatibilità ambientale"» di Marini, in quanto procuratore facente funzione, «alla luce di quanto è emerso dalle indagini di Genova e di quanto sta emergendo dai lavori della commissione d'inchiesta» e domanda «quanto è opportuna la permanenza del dottore Marini a capo della Procura della Repubblica di Siena».

Vernazza, ieri sera, ha replicato così al post di Miceli: «Non c'è alcuna incompatibilità perché nessuno dei pm che assisto si sta occupando di quel fascicolo. Inoltre io non ho mai affermato molte delle cose che mi attribuisce il collega. Mi sono limitato a dire che Aglieco non era nella stanza e a sottolineare l'esigenza di riservatezza sui lavori della commissione. E non l'ho fatto sui giornali o sui social, ma esclusivamente in una missiva inviata al presidente della Camera, volutamente limitata agli argomenti resi pubblici sui media da alcuni membri della commissione». La querelle è destinata a proseguire, almeno sino a quando i carabinieri, magari grazie alle ultime recenti analisi, non riusciranno a dire una parola definitiva sulla morte di David Rossi.

Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 29 dicembre 2021. «Mi auguro che il Consiglio superiore della magistratura stia mettendo mano in queste ore alla situazione di grave incompatibilità che si è creata all'interno della Procura di Siena», afferma l'onorevole Carmelo Miceli (Pd), avvocato penalista e difensore della famiglia di David Rossi, l'ex capo della comunicazione di Banca Monte Paschi morto precipitando dalla finestra del suo ufficio la sera del 6 marzo 2013.

Onorevole Miceli, è convinto che ci siamo profili di incompatibilità da parte dei pm senesi?

«Certo, è un fatto oggettivo alla luce di tutto quello che sta emergendo anche a seguito dell'attività della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Rossi. Ad aggravare questa incompatibilità, poi, la lettera inviata l'altro giorno dall'avvocato Andrea Vernazza, difensore del procuratore di Siena Nicola Marini, al presidente della Camera Roberto Fico».

L'avvocato Vernazza (difensore anche di Ciro Grillo, accusato di aver violentato una studentessa, ndr) afferma che non esistono «nuove prove» sulle cause della morte di Rossi.

«Come fa a desumerlo? È una anticipazione del giudizio da parte del legale del procuratore. In base alle sue affermazioni è inutile, allora, che la famiglia di Rossi si batta per la riapertura delle indagini. 

Noi non abbiamo nulla contro la Procura. Desideriamo soltanto che il fascicolo sia trattato da magistrati effettivamente terzi ed imparziali. Ed in questo momento non mi pare ci siano le condizioni». 

Ci sarebbe poi un procedimento disciplinare aperto nei confronti dei pm senesi.

«Vorremmo conoscerne l'esito». 

Cosa pensa, invece, di quanto affermato dal colonnello Pasquale Aglieco, l'ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena? L'ufficiale ha dichiarato, fra le tante cose, che l'ufficio di Rossi sarebbe stata alterato dai pm prima dell'arrivo della polizia scientifica per i rilievi.

«Premesso che dagli atti era già emersa un'alterazione oggettiva dello stato dei luoghi, vorrei che al Comando generale dell'Arma qualcuno visionasse l'integrale deposizione del colonnello. 

Aglieco non si è presentato l'altro giorno davanti alla Commissione per chiarire quello che sapeva su Rossi, ma perché avvertiva la necessità di smentire il teste Matteo Bonaccorsi (già escort di vip e professionisti, ora assistente di un europarlamentare, ndr) che aveva fatto il suo nome come partecipante ai festini, insieme ai pm Aldo Natalini e Nicola Marini, che si svolgevano nelle ville intorno a Siena. 

Aglieco ha solo fatto una arringa difensiva su quanto dichiarato da Bonaccorsi che ha già avuto, ricordo, un primo vaglio di attendibilità da parte dei magistrati. Il colonnello, avendo anche pedinato Bonaccorsi, non ha dato un buon esempio come ufficiale dell'Arma». 

Fra tre mesi si conosceranno gli esiti della super perizia.

«Spero che si riesca a sapere chi e perché ha alterato lo stato dei luoghi e quanto ciò possa incidere sull'accertamento delle reali cause della morte di Rossi».

Qual è la sua opinione al riguardo?

«Le possibilità sono tre: Aglieco era presente e ha visto tutto; Aglieco non era presente ma ha raccontato cose reali; Aglieco si è inventato tutto. In quest' ultima caso bisogna capire il motivo. 

Il colonnello ha affermato che ad inquinare la scena del delitto sarebbe stato l'unico pm (Antonino Nastasi, ndr) che non avrebbe partecipato con lui a questi festini. Curioso».

Vernazza ha detto che a breve Bonaccorsi riceverà un avviso di conclusione indagini per false dichiarazioni ai pm.

«Come fa a saperlo? Forse perché il suo assistito è un magistrato?».

Caso David Rossi: le dieci domande della famiglia ai pm di Siena. La famiglia di David Rossi pone dieci domande al legale dei pm di Siena che nei giorni scorsi si erano rivolti al presidente della Camera, Roberto Fico. Il Dubbio il 29 dicembre 2021. Dubbi su quanto emerso dai lavori della Commissione di inchiesta e dalle testimonianze ascoltate, sulle «lacune ed omissioni nelle indagini che la Commissione sta portando alla ribalta» e sulla vicenda dei presunti «festini». Così, riporta una nota, l’avvocato Carmelo Miceli, legale di Antonella Tognazzi, moglie di David Rossi, e della figlia Carolina Orlandi, su Facebook rivolge 10 “domande” direttamente all’avvocato Andrea Vernazza che, nei giorni scorsi, aveva scritto per conto dei pm Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi, una lettera al presidente della Camera Roberto Fico per contestare il metodo di lavoro della Commissione Parlamentare sulla morte dell’ex capo della comunicazione di Mps.

L’avvocato Miceli, riporta la stessa nota, avverte «la necessità di porre pubblicamente» una serie di interrogativi al collega «Vernazza o, se riterranno di volere rispondere, agli stessi Marini, Natalini e Nastasi». «In nome e per conto di chi ha scritto l’avvocato Vernazza al presidente Fico, visto che risulta formalmente difensore del solo Marini? – è una delle domande – Natalini e Nastasi hanno dato all’avvocato il mandato per spendere il loro nome innanzi al presidente della Camera dei Deputati o, comunque, l’assenso sul contenuto e forme della missiva?».

Inoltre, chiede, «quanto è opportuna la permanenza del dottore Marini in forza alla procura di Siena, peraltro con il ruolo di procuratore capo facente funzione? – scrive ancora Miceli – Alla luce di ciò e, soprattutto, della possibile anticipazione di giudizio contenuta nella missiva dell’avvocato Vernazza, la permanenza di Marini a Siena nell’apicale ruolo di procuratore capo facente funzione, non pone tale procura in una palese ed oggettiva situazione di “incompatibilità ambientale” rispetto alla trattazione del “caso David Rossi”?».

Tra le numerose domande, Miceli chiede anche: «Perché l’avvocato Vernazza ha glissato sull’esistenza di diversi soggetti che, sentiti in Commissione, hanno testimoniato e documentato tanto l’avvenuta e inspiegabile estromissione di numerose prove (soprattutto video e foto) dagli atti delle prime indagini, quanto l’avvenuta alterazione palese dei luoghi rispetto a quanto documentato dalla Scientifica?». Dopo aver elencato una serie di atti delle indagini, Miceli conclude: «Di chi è la responsabilità di questi atti e omissioni?».

Come è morto David Rossi: omicidio o suicidio? Il caso raccontato dall’inizio (e cosa ancora non torna). Claudio Bozza e Antonella Mollica su Il Corriere della Sera il 23 dicembre 2021. Due inchieste archiviate come suicidio. Ma ancora troppi i punti non chiari a quasi 9 anni dalla morte del capo della comunicazione di Mps. L’ultimo giallo del pm che avrebbe risposto al cellulare di Rossi, ma i tabulati smentiscono il colonnello Aglieco

6 marzo 2013: a Siena fa freddo, piove e un’inchiesta sul crac del Monte dei Paschi sta mettendo paura a tante persone. I pm senesi stanno indagando sulle responsabilità che hanno portato all’implosione della banca più antica del mondo, fondata nel 1472 . Nell’occhio del ciclone ci sono l’ex presidente del Monte Giuseppe Mussari e l’ex direttore generale Antonio Vigni. Sono stati loro, nel novembre 2007, gli artefici della a dir poco spericolata acquisizione di Antonveneta dagli spagnoli di Santander. 

Si saprà poi che, tra esborso e accollamento dei debiti, Antonveneta venne pagata circa 17 miliardi di euro (a cui andrà poi aggiunta la voragine causata dai derivati), mentre una perizia postuma l’avrebbe valutata appena 2 miliardi e 800 milioni. Ma quella sera del 6 marzo 2013 succede qualcosa di ben diverso. 

Qualcosa di cui, in questi giorni, si è tornato a parlare: alle 19.43 David Rossi , 52 anni, capo della comunicazione di Mps, vola dalla finestra al terzo piano di Rocca Salimbeni , dove c’era il suo ufficio. Il corpo di Rossi piomba sul selciato in pietra di vicolo Monte Pio.

Cosa succede la sera del 6 marzo 2013?

Da quasi un anno, dopo la cacciata di colui che era stato definito “il re di Siena”, Giuseppe Mussari, e di Antonio Vigni, il nuovo presidente del Monte Paschi Alessandro Profumo e l’amministratore delegato Fabrizio Viola stanno lavorando per cercare di resuscitare la terza banca italiana, travolta dagli scandali e dal rischio bancarotta. Un contesto incandescente, in cui la comunicazione, per la banca, gioca un ruolo chiave. Ogni minima indiscrezione sulla stampa condiziona l’andamento in borsa, ancora più del normale. 

Il capo della comunicazione di Mps si chiama David Rossi, appunto, 52 anni, un professionista apprezzato e benvoluto da tanti. È molto amico di Mussari, ma proprio per le sue grandi relazioni e le capacità riconosciute dai più, i nuovi vertici lo confermano nel suo ruolo apicale durante la rifondazione del Monte . Rossi è sposato con Antonella Tognazzi, che ha una figlia dal precedente matrimonio, Carolina Orlandi, a cui il manager è legatissimo.

Da alcune settimane, però, dopo aver subito una perquisizione — pur senza essere indagato — secondo alcune testimonianze Rossi avrebbe iniziato a smarrire la sua serenità. Teme di perdere il lavoro, a cui tiene tantissimo, ha paura di essere risucchiato nel vortice delle intercettazioni e delle accuse. Rossi si confronta più volte anche con l’amministratore delegato del Monte, il quale gli conferma piena fiducia. Ma il 4 marzo alle 10.13, proprio a Fabrizio Viola arriva una drammatica mail di Rossi in cui è scritto: «Stasera mi suicido sul serio. Aiutatemi!». Secondo gli atti delle inchieste, l’ex ad della banca dice di non aver visto quel messaggio.

Il cadavere a terra per quasi un’ora, e nessuno se ne accorge

La sequenza della caduta viene ripresa da una telecamera di sicurezza della banca, che registra anche l’agonia di Rossi prima della morte: venti minuti, durante i quali sembra che nessuno si sia accorto di nulla. I medici del 118 arriveranno quando non ci sarà più niente da fare. Ad allertare i soccorsi, quasi un’ora dopo, è Gian Carlo Filippone, funzionario Mps e amico di Rossi, chiamato dalla moglie di quest’ultimo, allarmata perché David non rispondeva al telefono. Filippone apre la porta dell’ufficio, trova la finestra aperta, si affaccia, vede a terra il cadavere dell’amico e corre giù.

Omicidio o suicidio?

Due inchieste affermano con certezza che David Rossi si è tolto la vita : la prima è della giudice per le indagini preliminari Monica Gaggelli, la seconda è del 2017, dopo la riapertura delle indagini, da parte di un’altra gip, Roberta Malavasi, che in 58 pagine riepiloga la vicenda in seguito alla riesumazione della salma, sottoposta anche a una dettagliata Tac per far luce sui punti meno chiari. 

La tesi del suicidio è avvalorata anche dai biglietti di addio scritti a mano da Rossi, poi ritrovati strappati nel suo ufficio e che dicevano così: «Amore mio, ti chiedo scusa. Ma non posso più sopportare questa angoscia. In questi giorni ho fatto una cazzata immotivata, davvero troppo grossa. E non ce la faccio più credimi, è meglio così». Un altro elemento decisivo sarebbero i segni di autolesionismo sui polsi di Rossi, di cui i suoi stessi famigliari si erano accorti (e assai preoccupati) anche a casa, chiedendogli spiegazioni.

Perché così tanti dubbi dopo quasi 9 anni?

Quella di Rossi non è una morte qualunque. È la morte di un importante dirigente di una banca su cui erano puntati i fari della grande finanza, europea e non solo. E soprattutto perché, a fronte di tutti gli elementi raccolti dai pm e avvalorati dai gip, dopo quella tragica notte, nel corso del tempo sono emersi troppi particolari su cui i famigliari di Rossi hanno sollevato dubbi. 

Lamentano indagini troppo frettolose, convinti che quella morte sia stata classificata troppo presto come suicidio. Dalla conclusione della prima inchiesta – dicono – emergono diverse imprecisioni, anche nel provvedimento del gip.

I punti chiave del giallo

Perché sono state acquisite le immagini di una sola telecamera esterna? Grazie alle altre, che non hanno ripreso la caduta di Rossi, si sarebbe potuto far luce sull’identità delle persone che in quei minuti ruotavano attorno a Rocca Salimbeni. Nelle sequenze finite agli atti si intravedono persone che passano all’imbocco del vicolo, dove il corpo di Rossi giacerà per quasi un’ora. In particolare, 28 minuti dopo la caduta, si vede un passante che si affaccia nel vicolo e va via. 

Questa persona non è mai stata identificata nonostante sia stata aperta un’inchiesta per omissione di soccorso, che però non ha portato ad alcun risultato. E poi, si chiedono i famigliari, perché non è mai stato fatto l’esame del Dna sui fazzoletti macchiati di sangue ritrovati nell’ufficio di Rossi? Gli inquirenti, evidentemente, hanno dato per scontato che fosse sangue del capo della comunicazione di Mps e non di un ipotetico aggressore. E quando i famigliari hanno chiesto che quei fazzoletti venissero analizzati, si scoprì che erano stati distrutti dopo la prima inchiesta.

Ma il vulnus principale della prima inchiesta sta negli orari di registrazione della sequenza: la telecamera, per un errore nel settaggio, registra la caduta di Rossi 16 minuti più tardi rispetto all’ora reale: le 19.43 , come abbiamo detto. Questa differenza temporale, non rilevata dalla polizia giudiziaria, ha fatto sì che per lungo tempo molti dei riscontri con i testimoni ascoltati non tornassero affatto, dando adito a sospetti e sostanza a ipotesi e ricostruzioni di un possibile omicidio. Non c’erano invece telecamere interne alla banca che potessero riprendere la scena.

La dinamica di un possibile omicidio?

Una prima risposta possibile è che difficilmente una (o piu persone) siano riuscite ad agire nel totale silenzio negli uffici di una banca, dove c’erano diverse persone ancora al lavoro, e a lanciare una persona dalla finestra senza il minimo segno di colluttazione e senza che nessuno sentisse qualcosa.

Su questa vicenda, nel marzo del 2021, è stata istituita anche una commissione parlamentare d’inchiesta, su forte spinta di Fratelli d’Italia e dopo ripetute denunce e trasmissioni televisive in cui i famigliari di Rossi avevano dichiarato di non credere al suicidio. Come spesso accade, l’operato della Commissione di Montecitorio rimane sottotraccia per mesi. Finché succede qualcosa di molto sorprendente.

Il colpo di scena del colonnello Aglieco

La deposizione di un colonnello dell’Arma dei carabinieri che il 9 dicembre, ancora una volta, spariglia tutto. Si tratta di Pasquale Aglieco, ai tempi comandante provinciale di Siena, che racconta in Commissione che la sera della morte di Rossi lui era uscito per andare a comprare le sigarette. Ha visto passare una volante della polizia, ha chiesto informazioni alla sala operativa su cosa stesse succedendo e si è recato in vicolo Monte Pio. 

A Siena tutti conoscono tutti. E Aglieco riconosce subito che il cadavere è di David Rossi. Sempre secondo quanto raccontato dal colonnello, è stato lui a dare le prime disposizioni del caso, compresa quella di piantonare l’ufficio di Rossi. Ed è a questo punto del racconto, dopo oltre 5 ore di audizione, che Aglieco snocciola una serie di elementi che innescano una bufera, politica e non solo.

L’ipotetico inquinamento della scena di un possibile crimine

Agleico racconta che nella stanza di David Rossi, oltre al pm di turno Nicola Marini, arrivano anche i colleghi Antonino Nastasi e Aldo Natalini, che stavano già indagando sul crac Mps. Dal momento in cui si scopre il corpo senza vita di Rossi, nel suo ufficio entrano almeno 5 persone prima che la scena venga congelata dalla polizia scientifica e prima ancora dell’arrivo dei pm: i due colleghi Filippone e Mingrone che danno l’allarme, l’usciere della banca, i due poliziotti della volante. Infine, solo in ultima battuta, arrivano i tre pm che iniziano il sopralluogo alle 21.25. 

Aglieco racconta di essere presente in quella stanza pur non avendo i carabinieri in quel momento titolo per essere lì, visto che l’intervento è della polizia. E racconta anche che quella sera il pm Nastasi avrebbe risposto a una telefonata dell’onorevole Daniela Santanchè sul cellulare di Rossi . Secondo la ricostruzione di Aglieco, inoltre, lo stesso pm avrebbe toccato mouse e computer e avrebbe ricomposto le lettere di addio strappate e ritrovate nel cestino. Da lì è arrivata la prima conferma che si trattasse di un suicidio.

Possibile che un magistrato abbia risposto al cellulare di un morto?

Aglieco dice che a questa seconda telefonata avrebbe risposto il pm Nastasi, ma dai tabulati agli atti delle due inchieste e dall’analisi dell’Iphone di Rossi emerge che a quella telefonata non vi fu risposta . Nel 2017 la senatrice di Fratelli d’Italia aveva confermato questo aspetto, ma nei giorni scorsi, dopo il racconto di Aglieco, ha cambiato versione dicendo qualcuno rispose al telefono di David, senza però interloquire.

Il fronte politico e gli attacchi di Renzi

Le dichiarazioni del colonnello accendono anche un fronte politico. Perché Matteo Renzi, da mesi nella bufera per l’inchiesta sulla Fondazione Open, in cui è accusato di finanziamento illecito ai partiti, parte al contrattacco delle toghe . Il leader di Italia Viva non si lascia sfuggire l’occasione di ricordare che Nastasi è uno dei pm che lo accusano e si chiede retoricamente: «Voi sareste tranquilli se a indagare su di voi fosse un magistrato che agisce così?». Poco dopo, però, il Corriere della Sera riesce a recuperare dettagliati tabulati telefonici, dai quali risultano classificate come «chiamate in entrata senza risposta» le due telefonate riferite da Aglieco. 

Quindi, almeno uno dei tanti punti oscuri di questa vicenda è stato chiarito. Ne rimangono molti altri. Il tutto, mentre la commissione parlamentare, con l’aiuto dei carabinieri del Ris e di strumenti avveniristici dell’università, ha fatto nuovamente simulare, stavolta in 3D, la caduta dalla finestra di Rossi . E il 20 gennaio, una data a questo punto fondamentale, ascolterà a Montecitorio il pm Nastasi, finora rimasto nel riserbo più totale. Otto anni dopo, a Siena e non solo, la ferita è ancora profonda.

Nicola Marini per “Libero Quotidiano” il 24 dicembre 2021. I nomi dei pm Aldo Natalini e Nicola Marini erano stati fatti da Matteo Bonaccorsi, l'ex escort di Varese adesso assistente dell'europarlamentare della Lega Alessandro Panza. Bonaccorsi raccontò ai magistrati liguri, che stavano facendo accertamenti sui colleghi senesi, di avere visto i due pm in alcuni festini omosex che si sarebbero tenuti in una villa sulle colline fra Arezzo e Firenze. Insieme a loro anche il colonnello Pasquale Aglieco, allora comandante provinciale dei carabinieri di Siena. Natalini e Marini e Antonino Nastasi erano stati fra i primi a entrare nell'ufficio di David Rossi.

A gennaio il gip di Genova Maria Franca Borzone, preso atto delle dichiarazioni di Bonaccorsi, aveva trasmesso, tramite il procuratore generale del capoluogo ligure, gli atti dell'indagine al pg della Cassazione Giovanni Salvi.

Il gip aveva archiviato il fascicolo «a prescindere da potenziali censure disciplinari, ravvisabili ove nei fatti esposti venga rilevato un pregiudizio per il prestigio della magistratura». Gli inquirenti liguri avevano sottolineato che le indagini condotte a Siena, pur «caratterizzate da carenze investigative», non presentavano gli elementi costitutivi dell'ipotizzato reato di abuso d’ufficio.

La confisca dei «fazzoletti di carta imbrattati di presunta sostanza ematica» sequestrati nell'ufficio di Rossi, rientrava ad esempio nella piena discrezionalità del magistrato. Sui possibili intrecci fra indagati e inquirenti, «quand'anche i due magistrati avessero partecipato ad alcuni dei festini, per ciò solo non potrebbe parlarsi di conflitto concreto d'interessi», aveva scritto il giudice.

Natalini venne anche indagato per il reato di violazione del segreto d'ufficio per avere rivelato circostanze dell'indagine su Mps ad un suo amico avvocato sotto intercettazione. Il procedimento fu archiviato e Natalini trasferito in Cassazione.

Per l'ipotesi di sfruttamento della prostituzione, sempre secondo il racconto di Bonaccorsi, il gip non aveva rinvenuto elementi per affermare che i due magistrati fossero stati fra gli organizzatori dei festini. 

La deposizione di Bonaccorsi aveva comunque avuto un «primo vaglio positivo di attendibilità» ai fini della responsabilità disciplinare, trattandosi di circostanze che avevano una «parvenza di realtà e vanno circoscritte e ulteriormente vagliate».

Felice Manti per “il Giornale” il 24 dicembre 2021. Pm che vanno dall'avvocato come persone qualunque, Csm e Anm che fanno spallucce e lasciano tre magistrati immersi nel fango senza curarsene, politici che rivendicano il primato della politica di fronte a una raffica di inchieste piene di buchi. Eravamo abituati a un'invasione di campo dei pm nella politica, non a una commissione parlamentare che sgambetta un potere giudiziario mai così claudicante, infermo. Il caso David Rossi riapre la ferita mai cicatrizzata del conflitto tra poteri dello Stato.

I tre pm che indagarono sulla morte del manager Mps caduto dalla finestra del suo ufficio, accusati da un colonnello dei carabinieri di aver compromesso con imperizia una scena del crimine dove l'ufficiale stesso si trovava senza averne titolo, anziché difendersi al Csm (zero pratiche a tutela aperte a ieri, fonte Palazzo de' Marescialli) e invocare l'Anm scappano da un legale di peso dello stesso foro della Procura che sta per indagare su di loro (di nuovo), già legale di Ciro Grillo.

Ai tre magistrati non sono andate giù le parole di alcuni componenti della commissione e sono «seccati per l'alone inaccettabile» caduto su di loro. «Curioso che un difensore scriva in nome e per conto di magistrati per redarguire una commissione, non per annunciare azioni contro chi su quei pm ha puntato il dito», dice il legale della famiglia Carmelo Miceli al Giornale.

Sulla vicenda deve decidere il presidente della Camera Roberto Fico («Le prerogative e i poteri delle commissioni parlamentari d'inchiesta sono definiti dalla nostra Costituzione: fondamentale far luce», dice in una nota) ma come spiega al Giornale l'avvocato Ivano Iai «secondo l'articolo 82 della Costituzione, l'organismo opera con gli stessi poteri e gli stessi limiti dell'Autorità giudiziaria, in passato sono state condotte indagini molto più ampie».

Dunque, perché tanto nervosismo? Perché questa mossa del tutto irrituale? Rossi si è davvero suicidato, come sembravano dire i bigliettini d'addio soffiati ai giornali prima dell'arrivo della Scientifica, ricostruiti a mano da un pm dopo che il cestino in cui erano buttati era stato rovesciato su una scrivania? 

E perché alcune prove come i fazzolettini sporchi di sangue sono state distrutte? È stato davvero «un atto incongruo» come ha detto in commissione l'ex procuratore capo di Siena Salvatore Vitello?

Eppure le prove mostrate dalle Iene e gli elementi spuntati nel corso delle audizioni dimostrano esattamente il contrario, come da sempre sostiene la famiglia. C'entrano forse i festini gay a cui avrebbero partecipato, secondo un teste «credibile» a dire del gip di Genova, l'ufficiale dell'Arma assieme a due pm e allo stesso Rossi? C'entra il crac che ha travolto il Monte dopo le spericolate alchimie finanziarie? E quante inchieste su episodi collaterali alla strana morte di Rossi ci sono aperti in tutta Italia?

Secondo quanto risulta al Giornale ci sono almeno 4 fascicoli pendenti (Roma, Firenze, Varese, Genova) e non è ancora del tutto sciolto il nodo della competenza territoriale. È di ieri la notizia che la Cassazione avrebbe rimandato a Siena la palla sul fascicolo legato a un testimone che chiama in causa l'attuale procuratore capo di Siena, alla faccia della competenza ex articolo 11 del codice di procedura penale.

«In realtà si aspetta che Genova indaghi sulle carte spedite dalla Commissione», spiega una fonte al Giornale. A quel punto sarà Siena a trasmettere tutto in Liguria. Ma sullo sfondo restano altri quesiti irrisolti. «Chi è l'uomo in fondo al vicolo che guarda il cadavere di Rossi? Perché non sono state acquisite tutte le immagini? Perché ci sono ferite incompatibili sulla caduta?», si chiede Antonino Monteleone delle Iene, che ha indagato sul caso. Le risposte sono nelle perizie affidate a Ris, Racis, Ros e medici legali.

David Rossi, i pm che indagano sul caso minacciano i deputati: nero su bianco, ecco la lettera. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 24 dicembre 2021. I pm di Siena hanno deciso di passare al contrattacco. Tramite il loro difensore, l'avvocato genovese Andrea Vernazza (componente del pool che assiste Grillo junior e i suoi amici nel processo per stupro in corso a Tempio Pausania, ndr), hanno fatto recapitare al pentastellato presidente della Camera Roberto Fico una "memoria" per stigmatizzare l'operato di alcuni componenti della Commissione parlamentare d'inchiesta che sta indagando sulla morte di David Rossi, l'ex capo della Comunicazione di Banca Monte Paschi. Una iniziativa «irrituale», come hanno detto molti, e che è stata subito stoppata da Fico il quale ha ricordato che la Commissione sta portando avanti il suo lavoro su una «vicenda molto delicata su cui è fondamentale fare luce».

Ma che cosa contestano i pm Aldo Natalini, Nicola Marini e Antonino Nastasi alla Commissione presieduta da Pierantonio Zanettin (Fi) che in cinque mesi dal suo insediamento ha scoperto più cose di quanto non avessero fatto i magistrati in otto anni? La principale accusa è quella di aver violato la "riservatezza istruttoria". Sembra una barzelletta ma è così. In un Paese dove per mettere un freno all'incontinenza verbale dei pm c'è stato bisogno di una direttiva europea e la minaccia di Bruxelles dell'apertura di una procedura d'infrazione, i parlamentari secondo Vernazza parlerebbero troppo. L'avvocato ligure in cinque pagine di memoria elenca le gravi violazioni del "segreto". Il primo a finire nel mirino del difensore di uno dei ragazzi che insieme a Ciro Grillo avrebbero violentato a turno la studentessa in Costa Smeralda nell'estate del 2019, ironia della sorte, è proprio Luca Migliorino, grillino della prima ora e vice presidente della Commissione. In un'intervista video definita "promozionale" da Vernazza, Migliorino avrebbe affermato che Marini e Natalini verrano sentiti alla fine delle altre audizioni «perché cosi loro (la Commissione, ndr) sono meglio preparati».

DITO PUNTATO

Interrogare i pm per ultimi, secondo Vernazza, sarebbe il chiaro segno che la Commissione è prevenuta nei loro confronti. Poi è il turno di Walter Rizzetto (FdI), fra i fautori dell'istituzione della Commissione d'inchiesta, che avrebbe rilasciato «lunghe interviste per magnificare l'apporto giornalistico alla chiarificazione del caso». Per chiudere la serie dei parlamentari loquaci non poteva mancare Zanettin. Vernazza afferma sicuro che durante una delle ultime trasmissioni del programma Quarta Repubblica in onda su Rete4 Zanettin avrebbe definito "scandaloso" l'operato dei magistrati di Siena. Un giudizio di valore, però, inventato di sana pianta da Vernazza perché rivedendo il filmato disponibile su Mediasetplay Zanettin non ha mai pronunciato quella parola. L'avvocato dei pm, dopo essersi lamentato della loquacità parlamentare, ha puntato il dito contro i consulenti della Commissione: l'avvocato Massimo Rossi e il giornalista Davide Vecchi, direttore del Corriere dell'Umbria.

Rossi, ricorda Vernazza, è stata condannato per un post su Fb in cui faceva cenno a festini gay ai quali avrebbero partecipato i pm senesi. Vecchi, invece, ha avuto un processo per violazione della privacy, da cui è stato assolto, per aver pubblicato la mail di Rossi in cui preannunciava l'intenzione di suicidarsi all'ex Amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola. Immediata la replica di Zanettin per il quale «l'attività della Commissione è rispettosa delle finalità dell'inchiesta e dei canoni di legittimità e legalità». Solidarietà a Zanettin dal collega Pietro Pittalis (Forza Italia) che ha parlato di «attacchi intimidatori» e di «interferenza di certa magistratura nelle prerogative parlamentari».

ACCUSE E SMENTITE

In serata è arrivata la controreplica di Vernazza che ha confermato che i suoi assistiti si faranno interrogare dalla Commissione. «Non sono turbati perché sanno che hanno agito nel giusto ma sono seccati perché c'è un alone antipatico su di loro», ha detto Vernazza. L'avvocato, poi, ha smentito quanto affermato nei giorni scorsi dal colonnello Pasquale Aglieco, l'ex comandante provinciale dei carabinieri. Aglieco aveva dichiarato alla Commissione di essere salito per primo nell'ufficio di Rossi insieme ai tre pm. In attesa che arrivasse la polizia scientifica per i rilievi, secondo il racconto di Aglieco, i tre magistrati avrebbero con il loro operato inquinato la scena del delitto: svuotato il contenuto del cestino dei rifiuti, acceso il pc di Rossi muovendo il mouse, spostato oggetti ed effetti personali presenti sulla scrivania. I pm avrebbero addirittura risposto a delle chiamate sul telefonino di Rossi, una di queste proveniente da Daniela Santanchè, e chiuso la finestra da dove il manager era precipitato al suolo. «Aglieco non era nella stanza», ha detto secco Vernazza ed i pm non hanno fatto nulla di quanto riferito dal colonnello, come lo svuotare il cestino o rispondere al telefono. Perché allora Aglieco, adesso fra i più stretti collaboratori del comandante della Scuola ufficiali carabinieri di Roma, si sarebbe inventato tutto? Un mistero a cui dovrà dare risposta la Commissione. L'alto ufficiale aveva anche detto di essere la sera della morte di Rossi in compagnia dei colonnelli Giuseppe Manichino e Rosario Mortillaro, dell'allora capitano Edoardo Cetola, e del luogotenente Marcello Cardiello. I quattro sono stati sentiti dalla Commissione nei giorni scorsi e, da quanto appreso, si sarebbero contraddetti a vicenda. La presenza di Aglieco è stata confermata da Mortillaro. Manichino, invece, si ricordava di Aglieco e non di Mortillaro. Cetola, invece, ha detto di essere rimasto sempre nel vicolo sottostante.