Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

LA CULTURA

ED I MEDIA

SETTIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

         

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scienza è un’opinione.

L’Anti-Scienza.

Alle origini della Vita.

L’Intelligenza Artificiale.

I Benefattori dell’Umanità.

Al di là della Luna.

Viaggiare nello Spazio.

Gli Ufo.

La Rivoluzione Digitale.

I Radioamatori.

Gli Hackers.

Catfishing: la Truffa.

La Matematica.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Libero Arbitrio.

Il Cervello Allenato.

Il Cervello Malato.

La Sindrome dell'Avana.

Le Onde Celebrali.

Gli impianti.

La disnomia.

La nomofobia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Geni.

Il Merito.

Ignoranti e Disoccupati.

Laureate e Disoccupate.

Il Docente Lavoratore.

Decenza e Decoro a Scuola.

Una scuola “sgarrupata”.

Gli speculatori: il caro-locazione.

Discriminazione di genere.

La Scuola Comunista.

La scuola di Maria Montessori.

Concorso scuola truccato.

Concorsi truccati all’università.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutti figli di…Neanderthal (nord) e Sapiens (Sud).

Come si usano.

Sapete che…?

Epifania e Befana.

Il Carnevale.

Gioventù del cazzo.

Gli Hikikomori. 

La Vecchiaia è una carogna…

Gemelli diversi.

L’Ignoranza.

La Rimembranza.

La Nostalgia.

Gli Amici.

La Fiducia.

Il Sesso.

Il Nome.

Le Icone.

Il Linguaggio.

La Fobia.

Il Tatuaggio.

Il Limbo.

Il Potere nel Telecomando.

Gli incontri casuali di svolta.

I Fantozzi.

Ho sempre ragione.

Il Narcisismo.

I Sosia.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Ghosting: interruzione dei rapporti.

Gli Insulti.

La Speranza.

Il Dialogo.

Il Silenzio.

I Bugiardi.

Gli stolti.

I Tirchi.

Altruismo.

I Neologismi.

Gli Snob.

I Radical Chic.

Il Pensiero Unico.

La Cancel Culture.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La P2 Culturale.

L’Utopia.

Il Cinema di Sinistra prezzolato.

Il Consenso.

I Negazionismi.

I Ribelli.

Geni incompresi.

Il Podcast.

Il Plagio.

Ladri di Cultura.

Il Mecenatismo.

I Beni culturali.

Il Futurismo.

I Bronzi di Riace e di San Casciano dei Bagni.

I Faraoni.

La Pittura.

Il Restauro.

Il Collezionismo.

La Moda.

Il Cappello.

Gli Orologi.

Le Case.

La Moto.

L’Auto.

L’emoticon.

I Fumetti.

I Manga.

I Giochi da Tavolo.

I Teatri.

Il direttore d’orchestra.

L’Arte in tv.

La Cultura Digitale.

Dalla cabina al selfie.

I Social.

La scienza, la cultura ed i social. I Divulgatori.

La Capitale della Cultura.

Oscar made in Italy.

I Balbuzienti.

Cultura Stupefacente.

I pseudo intellettuali.

Le lettere intellettuali.

L’Artistocrazia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Alberto Angela.

Aldo Busi.

Aldo Nove.

Alessandro Baricco.

Alessandro Manzoni.

Alfred Hitchcock.

Amy Sherald.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea G. Pinketts.

Andrea Palladio.

Andrea Pazienza.

Annie Ernaux.

Antonella Boralevi.

Antonio Canova.

Antonio de Curtis in arte Totò.

Antonio Pennacchi.

Arturo Toscanini.

Banksy.

Barbara Alberti.

Billy Wilder.

Carlo Emilio Gadda.

Carlo Levi.

Carlo Linati.

Carmen Llera e Alberto Moravia.

Cesare Pavese.

Charles Baudelaire.

Charles Bokowski.

Charles M. Schulz.

Chiara Valerio.

Crocifisso Dentello.

Dacia Maraini.

David LaChapelle.

Dino Buzzati.

Donatello.

Elisa De Marco.

Emil Cioran.

Emilio Giannelli.

Emilio Lari.

Ennio Flaiano.

Ernest Hemingway.

Espérance Hakuzwimana. 

Eugenio Montale.

Eva Cantarella.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli. 

Fernanda Pivano.

Francesca Alinovi.

Francesco Guicciardini.

Francesco Tullio Altan.

Francisco Umbral.

Franco Branciaroli.

Franco Cordelli.

Franz Peter Schubert.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriel Garcia Marquez.

Gabriele d'Annunzio.

Georges Bataille.

George Orwell.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel.

Giacomo Leopardi.

Gian Piero Brunetta.

Giampiero Mughini.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Ansaldo.

Giovanni Verga.

Giuseppe Pino.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Ungaretti.

Giuseppe Verdi.

Grazia Deledda.

Guido Gozzano.

Guido Harari.

Ian Fleming.

Ignazio Silone.

Indro Montanelli.

Italo Calvino.

Jane Austin.

John Le Carré.

John Williams.

José Saramago.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lawrence d'Arabia.

Leonardo da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Leopoldo (Leo) Longanesi.

Luciano Bianciardi. 

Luchino Visconti.

Louis-Ferdinand Céline.

Marcel Proust.

Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis.

Marcello Marchesi.

Marco Giusti.

Mario Picchi e Aldo Palazzeschi.

Mario Praz.

Massimiliano Fuksas.

Maurizio Cattelan.

Maurizio de Giovanni.

Melissa P.: Melissa Panarello.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michele Rech, in arte Zerocalcare.

Nietzsche.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Orson Welles.

Pablo Picasso.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Scarpa.

Renzo Piano.

Riccardo Muti. 

Richard Wagner.

Roberto Benigni.

Robert Byron.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Sacha Guitry.

Saint-John Perse.

Salvatore Quasimodo.

Sebastián Matta.

Sergio Leone.

Staino.

Stephen King.

Susanna Tamaro.

Sveva Casati Modignani.

Tiziano.

Truman Capote.

Umberto Boccioni.

Umberto Eco.

Valentino Garavani.

Vincent Van Gogh.

Virginia Woolf.

Vittorio Sgarbi.

Walt Disney.

Walt Whitman.

William Burroughs.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

La Sociologia Storica.

Il giornalismo d’inchiesta.

I Martiri.

Se questi son giornalisti...

Il Web e la Legione di Imbecilli.

Gli influencer.

Le Fallacie.

Le Fake News.

Il Nefasto Amazon.

I Censori.

Quello che c’è da sapere su Wikipedia.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Gli Oscar comunisti.

Lo Streaming.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Pizzo di Stato.

Mediaset.

Il Corriere della Sera.

Il Gruppo Editoriale Gedi.

Primo: la Verità del Il Giornale.

Alberto Matano.

Alda D'Eusanio.

Aldo Cazzullo.

Alessandra De Stefano.

Alessandra Sardoni. 

Alessandro Giuli.

Andrea Scanzi.

Andrea Vianello.

Beppe Severgnini.

Bernardo Valli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Longhi.

Bruno Vespa.

Camillo Langone.

Carlo De Benedetti.

Cecilia Sala.

Cesara Buonamici.

Claudio Cerasa.

Corrado Formigli.

Davìd Parenzo.

Diego Bianchi in arte Zoro.

Elisa Anzaldo.

Emilio Fede.

Ennio Simeone.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Biagi.

Ettore Mo.

Fabio Caressa.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Fiorenza Sarzanini.

Franca Leosini.

Francesca Fagnani.

Francesco Giorgino.

Gennaro Sangiuliano.

Giacinto Pinto.

Gian Paolo Ormezzano.

Gianluigi Nuzzi.

Gianni Minà.

Giorgia Cardinaletti.

Giovanna Botteri.

Giovanni Floris.

Giovanni Minoli.

Giovanni Tizian.

Giuliano Ferrara.

Giuseppe Cruciani.

Guido Meda.

Ivan Zazzaroni.

Julian Assange.

Hoara Borselli.

Lamberto Sposini.

Laura Laurenzi.

Lilli Gruber.

Lina Sotis.

Lucio Caracciolo.

Luigi Contu.

Luisella Costamagna.

Marcello Foa.

Marco Damilano.

Marco Travaglio.

Maria Giovanna Maglie.

Marino Bartoletti.

Mario Calabresi.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.  

Maurizio Costanzo.

Michele Mirabella.

Michele Santoro.

Michele Serra.

Milo Infante.

Mimosa Martini.

Monica Setta.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo del Debbio.

Paolo Zaccagnini.

Pierluigi Pardo.

Roberto D'Agostino.

Roberto Napoletano.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Alla.

Tiziana Panella.

Vincenzo Mollica.

Vincenzo Palmesano.

Vittorio Feltri.

 

  

LA CULTURA ED I MEDIA

SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Pizzo di Stato.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 17 novembre 2022.

Periodo sventurato per la Rai. Dopo il caso Remigi, il caso Di Mare e nell'infuriare dell'affair Montesano, ecco scoppiare un'altra magagna che coinvolge la Tv di Stato. A svelarlo è Pinuccio (alias Alessio Giannone), inviato di Striscia (a Notizia e titolare della rubrica Rai Scoglio 24. 

Questa sera su Canale 5, durante il Tg satirico di Antonio Ricci, Pinuccio ha svelato "un gravissimo episodio di presunta concussione sessuale accaduto nel 2021 e che coinvolge un giornalista della tivù di Stato".

Secondo il comunicato stampa di Striscia: "Tutto nasce da un'indagine in Basilicata, nel cui fascicolo di intercettazioni spunta anche la Rai. Alcune si riferiscono all'incontro di una giornalista con un collega Rai che in quel momento lavorava per la Regione, il quale, appena lei è entrata in ufficio, «ha chiuso la porta e si è messo la mano sulla patta. Ma figuriamoci se faccio un …. a uno per portare il pane a casa». In ballo c'era un'eventuale partecipazione della donna a Linea Verde che, in effetti, a un certo punto si concretizza".

E ancora: "Poco dopo però il giornalista le scrive chiedendole di incontrarsi. In una nuova intercettazione, il timore della donna è inequivocabile: «Questo vuole che io gli paghi il conto, ma io non gliela do la mia pa****na e neanche la mia b***a». E non è finita: «A un certo punto la collaborazione tra Linea Verde e questa giornalista si interrompe. Forse perché non è stato pagato il conto? Una cosa è certa: a detta della collega i vertici Rai sono a conoscenza dell'approccio strano che ha questo loro dipendente con alcune ragazze, per farle lavorare»", conclude Pinuccio.

Striscia la Notizia, sparizioni misteriose in Rai: una scoperta clamorosa. Libero Quotidiano l’08 novembre 2022

Pinuccio torna a occuparsi della Rai a Striscia la Notizia, il tg satirico in onda su Canale 5. Questa volta l'inviato del canale inventato "Rai Scoglio 24" si occupa di presunte sparizioni misteriose di opere d’arte e pezzi di design dalle sedi della tv di Stato. In particolare, sarebbero oltre 120 i capolavori che non si trovano più. Tra questi, come fa sapere Striscia, ci sarebbero anche dipinti di De Chirico e Guttuso e opere di design di Gio Ponti. 

Ma non è tutto: Pinuccio ha scoperto anche che mancherebbero all’appello scenografie storiche, come quella creata da Mario Ceroli per Orizzonti della Scienza e della Tecnica, programma trasmesso dalla Rai tra il 1966 e il 1973. L’inviato del tg satirico lo avrebbe ritrovato in una libreria di Venezia. "La Rai l’ha venduta? L’ha regalata?", si chiede Pinuccio. Altro punto di domanda riguarderebbe poi un plastico firmato da De Chirico per la stessa trasmissione. 

"Scenografie, dipinti e sculture di artisti importanti, dopo essere state usate, venivano regalate ad amici compiacenti o addirittura vendute - questo quanto rivelato a Pinuccio da un ex lavoratore del reparto scenografie della Rai -. Ricordo ancora un personaggio che quando diventò responsabile della scenografia Rai cominciò a cambiare auto in continuazione e a comprare appartamenti".

Rai, il Tg1 vuole far fuori Fiorello: "Sconcerto, totale contrarietà". Libero Quotidiano il 17 ottobre 2022

Clamoroso in Rai. Un clamoroso... "suicidio". O una "follia", così come la bolla Dagospia. Che succede? Succede che il Comitato di Redazione del Tg1 si schieri armi e bagagli contro Fiorello, il quale è pronto a tornare in tv tutte le mattine su Rai 1 con L'edicola, in onda dalle 7.15 alle 8. 

Ma come detto, al Tg1 non hanno gradito, affatto, l'invasione dei loro spazi. E così, ecco piovere una durissima nota del Cdr, in cui si parla di "sconcerto totale e contrarietà a un programma satirico di intrattenimento". 

Di seguito, la nota integrale del Cdr del Tg1 contro Fiorello

Care colleghe e cari colleghi,

il Comitato di redazione del TG1 esprime tutto il suo sconcerto e la sua totale contrarietà nell’apprendere del possibile approdo di un programma satirico di intrattenimento, guidato da Fiorello, al posto di quasi un’ora di programmazione gestita dal TG1, nello specifico TG1 Mattina.

Sappiamo che l’Usigrai non è stata preventivamente consultata, come deve avvenire in caso di cambio di palinsesto. E per questo ha già notificato all’azienda la mancata informativa.

All'azienda come Cdr del Tg1 chiediamo: 

il Consiglio di Amministrazione della Rai è stato informato di tale cambiamento? 

I suoi componenti hanno tutti condiviso questa scelta? 

Noi come Cdr della redazione del TG1 sottolineamo la battaglia fatta per ottenere quegli spazi e lo sforzo enorme compiuto da tutti noi sul mattino, impegnandoci su un lavoro di ripensamento e valorizzazione di quella fascia.

Ora abbiamo appreso che l'azienda sta pensando di ridurre lo spazio informativo del Tg1. Poniamo anche un'altra domanda: quali sono le motivazioni editoriali di tale scelta? Come si può pensare di interrompere il flusso informativo con un programma satirico, generando confusione nel pubblico a casa?

Non si può ospitare questo nuovo programma nella fascia della rete successiva al tg1 alle 9.00?

Un programma satirico con ospiti come quello che intuiamo dalle notizie circolate inoltre avrà un costo maggiore per l'azienda rispetto alla produzione del telegiornale e del Tg1 mattina. Chiediamo pertanto all'azienda

di rispondere invece alle nostre costanti lamentele e denunce riguardanti le carenze di troupe e zainetti sempre più difficili da trovare.

Chiediamo di conoscere la ratio di tale decisione, senza prevedere una compensazione per il Tg1.

Come Cdr siamo consapevoli che questa decisione semplicemente non può essere accettata, né tantomeno imposta, e rappresenta uno sfregio al nostro impegno quotidiano.

La Direzione, che abbiamo incontrato oggi su questo e altri temi,  ha condiviso la nostra preoccupazione sulla riduzione degli spazi editoriali del Tg1. Ci riserviamo di mettere in campo tutte le opportune forme di protesta. Questo tema sarà al primo punto della prossima Assemblea di redazione, che convochiamo il prossimo giovedì 20 ottobre e alla quale sarà presente il Segretario dell’Usigrai Daniele Macheda.

Il Cdr del Tg1

Roberto Chinzari

Leonardo Metalli

Virginia Lozito

Dagospia il 19 ottobre 2022. 

Care colleghe e cari colleghi, siamo sconcertati da come la legittima difesa di uno spazio informativo e del proprio lavoro, di fronte ad una decisione sulla quale non c’è stato alcun confronto o informativa con l'azienda, venga trasformato pubblicamente in uno scontro da cortile, tanto più odioso in quanto ci mette in contrapposizione ad un professionista come Fiorello che tutti noi amiamo e stimiamo. Ci piace la sua satira, non ci piace la satira di cattivo gusto che banalizza tutto in dualismo elementare tra buoni e cattivi, che ridicolizza e diffama il nostro lavoro. Chiediamo rispetto per il lavoro di tanti professionisti, che in questi mesi stanno cercando di raccontare al meglio al grande pubblico la quotidianità e gli eventi straordinari, facendo il proprio dovere di giornalisti del servizio pubblico. 

Invitiamo i colleghi che criticano la nostra difesa del Tg1 a informarsi prima di vergare i loro commenti. 

Dall'azienda ci è arrivata la notizia di un ripensamento sulla collocazione e quindi ha annullato l'incontro di oggi. Di conseguenza la nostra assemblea per ora viene rinviata. Resta la richiesta all'azienda di un incontro su questa tema.

Per quanto riguarda Fiorello, noi teniamo a sottolineare che stimiamo e ammiriamo il suo genio creativo e a lui abbiamo scritto questa lettera che decidiamo insieme di rendere pubblica… 

Caro Fiore, Roberto, Virginia ed io ti scriviamo in nome e per conto di tutta la redazione del Tg1, che nutre grande stima per il tuo lavoro e si diverte come tutti, da sempre, con le tue invenzioni televisive. Anche Renzo Arbore ebbe a che fare con un Telegiornale che si frapponeva fra la sua geniale Tv innovativa e l’informazione: era il Tg2 della notte, direttore Alberto La Volpe e il programma era “Indietro tutta” del 1987. La redazione fu avvertita e si trovò presto un accordo, la trasmissione andò subito dopo il Tg2 della notte “accorciato” e per il telegiornale Renzo compose una canzone “Vengo dopo il Tg” per lanciare meglio quella edizione del Tg2, definito "un inno al tg mai pensato prima". 

Una sinergia intelligente e proficua per vivere sereni e vincenti. L’azienda era diversa, la Tv aveva un gran peso, tutti furono d’accordo e gli ascolti andarono alle stelle.  Fu un grandissimo successo.

Il Tg1 non è in guerra con nessuno, come scrivono i giornali, tantomeno con un artista del quale continuamente racconta le mirabili imprese televisive. Potevamo parlarne diffusamente con l’azienda, fare progetti insieme - come fece Arbore con il Tg2 - lavorando reciprocamente a vantaggio degli ascolti. Forse non sarai stato informato, come noi del resto,  che il Tg1 da qui a giugno avrebbe perso quasi 150 ore di informazione. Forse non sai che molti colleghi lavorano per quel prodotto con grande passione nel nuovo spazio concordato con la rete dopo anni di trattative.  Ci sarebbe piaciuto condividere con te e con l’azienda queste brevi considerazioni. Il Tg1 ama gli artisti e li promuove da sempre, porte aperte a tutti e nessuno scontro tra professionisti della Tv.  I titoli dei giornali non hanno evidenziato questo rispetto  per il lavoro reciproco , hanno parlato solo di guerra a Fiorello, per questo ci teniamo a sottolinearlo: Fiorello ci piace, ma con un progetto anche per il Tg1 e i suoi giornalisti. 

Roberto, Virginia e Leonardo (Il Cdr del Tg1)

Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 19 ottobre 2022.

«Uno sfregio al nostro impegno quotidiano». Com' è possibile che un programma di Fiorello diventi uno sfregio per Viale Mazzini? Alla notizia di un possibile ritorno in Rai di Fiorello il cdr del Tg1 (firmato da Roberto Chinzari, Leonardo Metalli e Virginia Lozito) ha stilato un durissimo comunicato perché un programma satirico di intrattenimento (l'idea era quella simile a Edicola Fiore o Viva via Asiago ) toglierebbe spazi ai giornalisti del Tg1, in particolare a Tg1 Mattina . E poi l'angosciante domanda: «Come si può pensare di interrompere il flusso informativo con un programma satirico, generando confusione nel pubblico a casa?».

Me lo immagino il pubblico a casa che, mentre si fa qualche risata prima di iniziare una dura giornata di lavoro, si chiede: ma perché questa confusione? Non ho mai visto Tg1 Mattina (a quell'ora preferisco la radio) ma non credo, pur rispettando il lavoro di chiunque, sia un programma che lascerà traccia nella storia della tv. All'arrivo di una proposta come quella di Fiorello (al di là del valore altamente pedagogizzante: non è compito del servizio pubblico offrire agli spettatori il meglio che c'è?), qualunque azienda televisiva avrebbe fatto carte false pur di realizzare un progetto così allettante (c'è il bene dell'azienda e c'è il proprio orticello).

Fiorello sceglie la Rai anche per motivi affettivi, di riconoscenza, e invece di trovare le porte aperte riceve uno schiaffo di comunicato. I giornalisti del Tg1, è solo una mia ipotesi, avrebbero potuto mettersi d'accordo con Fiorello per dare un loro contributo all'interno della trasmissione.Adesso resteranno famosi per aver respinto Fiorello: una grande battaglia! Posso capire l'imbarazzo in cui si trova Monica Maggioni, direttrice del Tg1, ma l'ad della Rai Carlo Fuortes, potrebbe chiudere in bellezza il suo mandato lasciando, finalmente, qualcosa di buono al suo successore. 

Estratto dell’articolo di Nanni Delbecchi per il “Fatto quotidiano” il 19 ottobre 2022.

Tutta la nostra solidarietà a Rosario Fiorello contro la cui temibile invasione si sono levati i droni del Tg1 per scongiurare la possibilità di un'Edicola Fiore all'interno della fascia oraria di Tg1 Mattina. La semplice ipotesi di un progetto in fase di definizione ha prodotto un duro comunicato del Cdr […] 

Come si può pensare di interrompere il flusso informativo con un programma satirico […]? […] il cdr del Tg1 non ha tutti i torti; distinguere tra satira volontaria e involontaria sta diventando sempre più difficile […] in questo caso il Cdr del Tg1 la satira se l'è fatta da solo, con una mossa ridicola ancor prima che masochista.

Avrebbero dovuto stendere un tappeto rosso all'ultimo degli showman […] disposto alle stesse levatacce che il caporedattore Francesco Giorgino aveva sdegnosamente respinto; disposto a dare una botta di vita ai giornali di carta […] Invece sono lì a marcare il territorio con la granitica motivazione che ci sono già loro. E se fosse proprio per questo che a Fiorello andava messo il tappeto rosso? […]

Dagonews il 18 ottobre 2022.

L’Associazione Dirigenti RAI (ADRAI), esprime il più totale sconcerto alle dichiarazioni del CdR del TG1 che ha comunicato la propria contrarietà al rientro di Fiorello con lo spettacolo ‘Viva Asiago 10!' in diretta su Rai1 nella fascia mattutina. 

Fiorello è un formidabile showman e si può dire che sia un vero e proprio asset aziendale; solo per citare le ultime apparizioni, “W Raiplay!” del 2019 è stato un riuscitissimo spettacolo multipiattaforma che ha fatto da volano al lancio di Raiplay che anche grazie a quell’operazione oggi è utilizzata da moltissimi spettatori.

Il progetto di spettacolo su cui si sta lavorando sarebbe una grande operazione sia industriale che di marketing per rafforzare la fascia del mattino e di traino della edizione del Tg1 delle 8. 

I dirigenti della RAI vogliono una Azienda che sia innovativa, coinvolgente, competitiva, sempre meno ingessata nei processi produttivi, distintiva e riconoscibile nel segno dei valori del Servizio Pubblico. Tutto l’opposto della direzione che il CdR del TG1 vorrebbe imprimere a questo progetto.

L'obiettivo comune del management e dei giornalisti deve necessariamente favorire le  occasioni di cambiamento e di rinnovamento come questa evitando di portare avanti logiche di mera difesa corporativa.

L’Adrai ha sempre evitato di esternare polemiche interne. Ma davanti a questa mancanza di visione strategica non è più possibile tacere. I dirigenti hanno la responsabilità di definire le strategie aziendali e di condurle all’obiettivo. 

La Rai ha bisogno di grandi iniziative editoriali ed industriali per potersi rinnovare ed essere sempre in grado di assolvere alla propria aspirazione di essere la prima azienda culturale ed informativa del Paese.

I dirigenti RAI sono pronti a supportare il vertice aziendale in queste sfide. I giornalisti RAI da che parte vogliono stare?

Solo remando tutti dalla stessa parte la RAI potrà uscirne vincente.

Giuseppe Candela per Dagospia il 18 ottobre 2022.

"Sconcerto", "contrarietà", "sfregio". Sono queste le parole contenute nella nota del comitato di redazione del Tg1 diffusa ieri, non rivolte ai colleghi di punta (Giorgino, Chimenti, D'Aquino) che hanno rifiutato la conduzione della rassegna stampa delle 6.30. Non indirizzate a Monica Maggioni per il crollo degli ascolti del Tg1-Mattina condotto da Senio Bonini e Isabella Romano. La furia dei giornalisti del Tg1 è tutta riservata a Fiorello, protestano per il suo ritorno su Rai1 (in contemporanea su Radio 2 e RaiPlay) con un morning show: "Viva Asiago 10" previsto dalle 7.10 alle 8, fascia ora in mano al telegiornale, a partire da fine novembre.

Una manna dal cielo per Viale Mazzini, una boccata d'ossigeno sul fronte auditel e milioni di euro in tasca per la pubblicità. Il telegiornale della prima rete è, invece, sul piede di guerra. Nessuno fornisce commenti ufficiali, le bocche sono cucite ma ai piani alti raccontano del fortissimo nervosismo dell'amministratore delegato Carlo Fuortes schierato, comprensibilmente, dalla parte dello showman siciliano, sostenuto dall'intero gruppo dirigenziale. Stupore per i toni utilizzati ma anche per i tempi d'uscita, da settimane la notizia era di dominio pubblico.

"Monica calcola tutto. Non poteva non sapere, sa sempre come cadere in piedi", racconta una voce beninformata a Saxa Rubra. Maggioni maestra nell'arte del barcamenarsi, costretta a vestire i panni di chi "difende un suo spazio anche per non mettersi tutti contro al tg". E Maggioni pesa le mosse, pensa al dopo. Pensa a marzo quando probabilmente dovrà lasciare la poltrona a Gennaro Sangiuliano. Nel futuro si vedrà ma nell'immediato rischia di aprire un fronte con l'attuale governance. Un punto di non ritorno. 

L'Usigrai per ora evita affondi, in attesa dell'incontro di domani, ma al Tg1 il problema resta. Lo spazio che apre la giornata ha ascolti disastrosi, una lunga edizione senza appeal che nulla a che vedere con le famose morning news. Per rendere l'idea, ieri Unomattina e Storie Italiane hanno ottenuto ascolti molto alti, il 20% di share, seppur trainati dal pessimo risultato di Tg1-Mattina inchiodato al 14%. Battuto quotidianamente dalla concorrenza. Non a caso il lungo corteggiamento al grande showman capace di stravolgere gli equilibri.

"Può andare alle nove al posto di Unomattina o potevano valorizzare finalmente Rai2", insistono dalle parti di Saxa Rubra. Sottolineano la differenza tra satira e informazione, tra show e notizie. Testo firmato anche da Leonardo Metalli, quello che a Sanremo rincorreva la nave da crociera o i big in pigiama (povero Mollica!). Lo stesso Tg1 che alle 20 ospita i volti dello showbiz in una parte dello studio dedicata (come accade nei contenitori del daytime) e dedica decine di servizi allo spettacolo. Il braccio di ferro sarà vinto da Fuortes o dal Tg1? Il rischio è che perdano entrambi, con il "game over" di Fiorello ancora prima di cominciare...

Fiorello pronto a lasciare? La Rai lavora per trattenere lo showman «inviperito». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 18 Ottobre 2022.

Secondo «Dagospia» Fiorello pronto ad abbandonare il progetto «Viva Asiago 10!» dopo le proteste del Cdr del Tg1 

Polemiche, rivendicazioni, malumori. Nel mezzo Fiorello che con il suo nuovo programma pensava solo di far ridere e invece si ritrova additato come «sfregio» al lavoro del Tg1. Addirittura. Secondo Dagospia Fiorello sarebbe «inviperito» e «non ha più intenzione di fare il suo show del mattino. Non vuole avere più a che fare né con il tg della Maggioni, ispiratrice della rivolta dei giornalisti, né con Rai1». Voci che al momento non trovano conferma. Di certo lo showman è contrariato, dispiaciuto per un attacco a sorpresa che mai avrebbe immaginato, da quella stessa Rai a cui è fedele da anni. Se questo poi sfocerà addirittura in un passo indietro è da vedere.

Intanto la diplomazia della Rai è già al lavoro. A partire dall’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes: «Ritengo indispensabile precisare che il progetto editoriale è ancora in fase di definizione, compresa la sua collocazione nei palinsesti. Oltre all’approdo su RaiPlay, è in corso la valutazione sul canale televisivo più adatto ad accogliere il progetto innovativo di uno straordinario artista. La Rai avrà cura di comunicare il progetto definitivo non appena verrà ultimato». L’altro giorno il cdr del Tg1 aveva protestato contro l’ipotesi che lo show andasse in onda nell’orario di Tg1 Mattina con un comunicato molto duro, parlando di «sfregio al nostro impegno quotidiano».

Tutto comunque è ancora da definire, dunque. Secondo le ultime indiscrezioni il nuovo show di Fiorello Viva Asiago 10! doveva andare in onda sulla rete ammiraglia Rai, oltre che su Radio2 e RaiPlay, da lunedì 28 novembre, dopo tre settimane di rodaggio sulla piattaforma web con Aspettando Viva Asiago 10! (dal 7 novembre). Quanto alla collocazione televisiva appare molto difficile però che uno show in grado di illuminare tutta viale Mazzini possa non essere ospitato su Rai1. Del tema si parlerà probabilmente anche nella riunione del consiglio di amministrazione in programma giovedì, nella quale sarà approvata anche la semestrale. Il sindacato dei giornalisti resta sul piede di guerra. Dopo il cdr del Tg1, che aveva spiegato che la direttrice Monica Maggioni condivideva la preoccupazione per la riduzione degli spazi, è intervenuto l’Usigrai: «Il problema non è Fiorello, che in passato è sempre stato un valore aggiunto in termini di ascolti, ma il rispetto del contratto e la difesa degli spazi di informazione».

Viva Asiago 10! rappresenterebbe il ritorno di Fiorello in tv dopo il Festival di Sanremo con Amadeus e l’Edicola Fiore trasmessa da Sky. E proprio a quest’ultimo programma si ispira nuovamente Fiorello: mazzetta dei giornali a portata di mano, lo showman vuole dare la sveglia agli spettatori commentando a suo modo le news e i protagonisti dell’attualità. L’idea è quella di trasmettere lo show dal «glass studio», il box trasparente all’esterno della storica sede di Radio Rai.

Il coro prevenuto e stonato dei giornalisti Rai contro il nuovo show mattutino di Fiorello. Il presentatore è campione di ascolti ma Fuortes è costretto a fare retromarcia. Laura Rio il 19 ottobre 2022 su Il Giornale.  

Dunque: c'è il più grande showman italiano vivente che accetta di tornare in Rai. Quello stesso showman, per rinfrescarci la memoria, che raccoglie ascolti da urlo ogni volta che appare, lo stesso che regala monete sonanti alla concessionaria di pubblicità, lo stesso che si è tenuto sulle spalle, insieme ad Amadeus, il più d0ifficile Festival di Sanremo di tutti i tempi, in piena pandemia e con la platea deserta. E che succede? I giornalisti della Rai non lo vogliono, eh no, perché il suo show, pensato per la mattina presto (tra le sette e le otto), interrompe il «flusso dell'informazione» ed è «uno sfregio» al loro «impegno quotidiano». Dunque molto meglio raggranellare pochi ascolti (la mattina di Canale 5 batte regolatamente quella di Raiuno) e lasciare a casa il fuoriclasse oppure spedirlo in altre fasce orarie, alle nove (dove c'è Unomattina). Ma ce lo vedete voi Fiorello, che all'alba ha già fatto il giro del suo quartiere, passato per l'edicola di fiducia e letto tutti i giornali aspettare fino alle nove? A quell'ora si è già ammosciato Ma va proprio così: i giornalisti del Tg1, tramite il sindacato interno, fanno sapere che faranno opposizione durissima contro il progetto dell'azienda che prevede, appunto, il ritorno del presentatore con Via Asiago 10!, un morning show in multicasting su Raiuno, Radio 2 (con sede appunto in via Asiago) e RaiPlay. Data di partenza: il 28 novembre con un anticipo di rodaggio sulla piattaforma web dal 7 dello stesso mese. Una protesta arrivata dritta al segno: ieri pomeriggio l'Ad Rai, Carlo Fuortes, ha fatto sapere che la collocazione di Fiorello è «ancora in fase di definizione», quindi potrebbe andare in onda anche sul secondo o terzo canale. Insomma, il capo della Rai ha fatto retromarcia, ma è veramente strano pensare che non avesse messo in conto una reazione veemente dei giornalisti del Tg1.

Questi si sono infuriati perché quello guidato da Fiorello sarà un «programma satirico di intrattenimento», che toglierebbe spazio all'informazione della testata guidata da Monica Maggioni. A parte che una battuta dello showman siciliano è più incisiva di tutti telegiornali messi insieme, Fiore - come ci ha mostrato in tanti anni di Edicola - è in grado di captare le notizie come pochi reporter.

Certo è vero che è stato fatto uno sforzo notevole per distinguere Tg1 e Uno Mattina rispetto a quel pasticcio che era prima lo spazio del mattino che mixava intrattenimento e informazione, è vero che Monica Maggioni sta imprimendo una connotazione diversa, più moderna e prestigiosa, al notiziario del primo canale, ma come si fa a dire di no a uno come Fiore che darebbe un grande slancio a tutto questo lavoro anche solo per il traino di ascolti che porterebbe? E che si sarebbe inserito perfettamente nel «flusso di informazione». Lui è uno che ci pensa cento volte prima di tornare in tv e se vede un clima ostile, si tira indietro. Odia gli scontri. Figuriamoci un intero tg contro. Ora, quando si saprà orario e giorno di collocazione, vedremo se sarà lui ad accettare. O resterà a girare i teatri dove ha fatto il sold out in tutte le date.

Altro che servizio pubblico, la Rai ghettizza il Sud. Ricordiamo che un terzo del canone incassato dalla Rai proviene dalle Regioni del Mezzogiorno. Si torni allo spirito di "Non è mai troppo tardi". PIETRO MASSIMO BUSETTA su Il Quotidiano del Sud il 9 Settembre 2022. 

Il maestro Alberto Manzi, con la sua trasmissione "Non è mai troppo tardi" alfabetizzò milioni di italiani

Dal 1960 al 1968 la Rai mandò in onda un programma televisivo per combattere l’analfabetismo tra gli adulti. “Non è mai troppo tardi” si chiamava il programma, e chiamò a condurlo non un qualunque maestro di scuola elementare, ma Alberto Manzi scrittore insegnante e pedagogista romano.

L’esperimento andato in onda sulla Rai per ben otto anni aiutò 1 milione e mezzo di studenti a conseguire la licenza alimentare. Perché ricordare questo progetto? Per dimostrare che la televisione pubblica prima aveva chiaro di avere un ruolo nel nostro Paese totalmente diverso rispetto alla cosiddetta televisione commerciale.

Per tale motivo è previsto il pagamento di un canone, peraltro con la previsione di un prelievo automatico ed in ogni caso ad un costo indipendente dal reddito di ciascuno.

Per cui considerato che ormai il televisore entra in tutte le famiglie si può ritenere, senza timore di errore, che un terzo del canone complessivo, incassato dalla Rai, provenga dal Mezzogiorno d’Italia, come la popolazione.

Questo investimento che il Sud ogni anno fa si può affermare che torni con un servizio corrispondente alle risorse impiegate? In realtà in molti ritengono che la Rai sia funzionale al cosiddetto Partito Unico del Nord, e che si sia posta in modo strabico rispetto ad una parte del Paese.

Ad un occhio attento non può sfuggire il fatto che nella sua programmazione la presenza di opinion leader appartenenti al nord del Paese sia assolutamente prevalente.

Come pure la dimensione delle realtà produttive della stessa, in termini di fiction e di programmi, sia prevalentemente oltre che a Roma come è naturale poi a Milano, mentre tutto ciò che c’è da Napoli in giù è assolutamente trascurato.

In un processo nel quale si insegue, come forse è giusto che sia, lo spettacolo più cool, la mostra più ricca, il festival di successo, l’evento internazionale più importante, la concentrazione di attenzione rispetto al nord del Paese diventa quasi fastidiosa.

Ma anche laddove il tema diventa quello del confronto scientifico su temi riguardanti la medicina, l’economia, la fisica o le scienze varie la concentrazione degli opinionisti fa riflettere molto sullo strabismo della Rai.

Gli ultimi due anni di pandemia ci hanno fatto apprezzare moltissimo i tanti virologi esistenti in Italia. Molto strano è che tutti quanti avessero sede presso un policlinico o un’università al di sopra di Bologna.

E se poteva essere comprensibile, quando i collegamenti via web erano più complicati, che la scelta avvenisse in realtà più servite e più vicine ai centri di produzione, stupisce notevolmente che invece si è continuato a coinvolgere professionalità, pur di rilievo, del Nord, lasciando totalmente marginale tutte le realtà scientifiche che avessero sede a Napoli, Bari, Palermo o Catania ora che la dislocazione geografica diventa indifferente.

In una forma di discriminazione che se fatta dalla televisione commerciale, pur se non condivisibile, può trovare motivazione nelle cordate e nei gruppi prevalenti, ma che non può essere assolutamente condivisa se portata avanti dalla televisione pubblica.

La spiegazione di tale comportamento è molto semplice. Poiché la televisione pubblica è lottizzata dal Partito Unico del Nord, non è strano che esso promuova i propri “aficionados”, dando quei contentini che poi servono a lanciare libri a coloro che sono più vicini, se si tratta di giornalisti ad avere spazi televisivi pagati molto bene, se si tratta di divulgatori ad aver affidate trasmissioni da gestire.

Ovviamente si tratta di un tradimento assoluto degli obiettivi che dovrebbe porsi un servizio pubblico. Che, come fece nel 1960 quando cercò di unificare l’alfabetizzazione del Paese, negli anni 2000 dovrebbe aiutare a rilanciare le realtà marginali, aiutandole a promuovere le loro attività turistiche, i loro grandi concerti, le loro attività culturali che il Paese conosce poco, da quelle che si svolgono al teatro greco di Siracusa, alla Sagra del mandorlo in fiore della Valle dei templi, fino al festival della Taranta. Ovviamente non solo trasmettendole ma, cosa ben diversa, promuovendole.

Un’attenzione particolare dovrebbe essere rivolta anche all’informazione che arriva da queste realtà ed evitare che sia predominante quella che vuole far passare la parte dirigente dominante del Paese.

Le rassegne stampa che danno prevalenza ai giornaloni nazionali, per altro di proprietà degli imprenditori che indirizzano non solo l’economia ma anche il pensiero della gente, diventa una forma di lavaggio del cervello, per cui se un investimento non è congeniale all’indirizzo prevalente viene criminalizzato e coloro che lo sostengono spesso ridicolizzati.

Quello che è accaduto e che accade ancora con il progetto del ponte di Messina è illuminante di come investimenti importanti vengano trattati. Se poi si pone a confronto con la pubblicistica relativa al Mose di Venezia e alla TAV ci si accorge che quando si tratta di indirizzare le risorse per le infrastrutturazione del Sud del Paese tutto diventa assolutamente spesa sprecata.

Per cui il Mezzogiorno, che non ha voci autorevoli nella panoramica nazionale, sia per quanto riguarda la carta stampata che per quanto riguarda le televisioni generaliste, viene assolutamente silenziato nelle pagine regionali di media marginali e periferici.

Per cui mentre i media privati continuano a perseguire gli obiettivi legittimi che si sono proposti, l’unico media pubblico, che dovrebbe equilibrare in parte il rapporto di forza esistente, non fa altro che aiutare quella concentrazione di posizione dominante per cui una parte del Paese non riesce più ad avere voce.

Tale approccio si ritrova anche rispetto al Governo del Paese, per cui anche se vi dovessero essere ministri con provenienza meridionale, e non dovessero allinearsi rispetto alle posizioni dominanti prevalenti, vengono maltrattati quando non capita quello che è accaduto al presidente Leone, napoletano, costretto a dimettersi da un’inchiesta profondamente ingiusta. Mentre l’energia diventa costosissima ed i tassi esplodono potrebbe sembrare quello trattato un problema minore, ma la democrazia è fatta di pesi e contrappesi, di equilibri anche nell’informazione.

La Corte dei Conti campana contesta un danno erariale di circa 5 milioni di euro ai danni della Presidenza del Consiglio, per contributi sull’editoria. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Luglio 2022.  

L'attuale testata "BuonaSera" edizione di Taranto è nata nel 2012 e quindi è estranea alle precedenti attività poste in essere da Pasquale Piccirillo ed Antonio Sollazzo con la precedente testata "Buongiorno Campania", infatti i due co-editori campani sono usciti dalla cooperativa Dossier , nei primi mesi del 2012 allorquando si è trasferita a Grottaglie in provincia di Taranto e la testata ha cambiato nome, luogo di pubblicazione ed area di interesse.

I finanzieri dei Nuclei di Polizia Economico-Finanziaria di Taranto e di Caserta hanno eseguito un provvedimento di sequestro conservativo emesso, su richiesta della Procura regionale per la Campania, dal Presidente della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti di Napoli, fino alla concorrenza dell’importo del danno erariale accertato, pari a circa 4,2 milioni di euro, nei confronti della Società Cooperativa Giornalistica DOSSIER ed i suoi rappresentanti legali dal 2008 al 2012, per l’illecita percezione di contributi pubblici a sostegno dell’attività editoriale.

Nel comunicato però non si chiarisce qualcosa, e cioè che la cooperativa DOSSIER che aveva sede a Caserta, editava un quotidiano che si chiamava “Buongiorno Campania” per il quale erano stati erogati contributi per l’editoria per gli anni 2008/2011 e non 2012 come erroneamente indicato nel comunicato, in quanto i contributi si ricevono l’anno successivo a quello di competenza. Nel 2012 infatti il quotidiano “Buongiorno Campania” a Taranto non esisteva e tantomeno veniva pubblicato. 

L’attuale testata BuonaSera è nata nel 2012 e quindi è estranea alle precedenti attività poste in essere da Pasquale Piccirillo ed Antonio Sollazzo con la precedente testata “Buongiorno Campania“, infatti i due co-editori campani sono usciti dalla cooperativa Dossier , nei primi mesi del 2012 allorquando si è trasferita a Grottaglie in provincia di Taranto e la testata ha cambiato nome, luogo di pubblicazione ed area di interesse.

Il provvedimento reso noto dal comunicato stampa delle Fiamme Gialle consegue ad indagini condotte dalle fiamme gialle nei confronti della società cooperativa Dossier coordinate dai pubblici ministeri della Procura Regionale della Campania della Corte dei Conti, all’esito delle quali è stato accertato che la stessa cooperativa Dossier avrebbe più volte cambiato sede legale e denominazione di testata giornalistica, producendo falsa documentazione attestante un assetto societario diverso da quello reale, inducendo in errore la Presidenza del Consiglio – Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria di Roma, ad erogare indebitamente, per gli anni dal 2008 al 2012 contributi pubblici per circa 4,2 milioni di euro. In realtà dal gennaio 2012 la cooperativa che è stata correttamente liquidata con cessazione di attività, non ha mai cambiato sede da Grottaglie (Taranto).

Nel novembre 2011 nella cooperativa Dossier entrarono dei giornalisti pugliesi, e grazie ai contributi dell’anno 2011, soltanto incassati nel 2012 pagarono tutti i debiti contratti dai precedenti amministratori e gestori della Cooperativa. 

Sarebbe emerso secondo la Guardia di Finanza che i giornalisti della testata “Buongiorno Campania“, avvicendatisi nella compagine associativa nel suddetto periodo, avrebbero disconosciuto una propria volontaria e sostanziale adesione alla cooperativa in qualità di soci, specificando che in realtà avrebbero svolto esclusivamente attività di lavoratori dipendenti come redattori e che il formale rapporto associativo quali cooperatori sarebbe stato imposto loro dietro minaccia di licenziamento. E quindi anche su questa conclusione d’indagine, l’operato dei soci subentrati che gestiscono la cooperativa che edita il quotidiano “Buona Sera” Taranto non hanno alcuna responsabilità e coinvolgimento. 

Quanto reso noto dalle Fiamme Gialle all’esito delle suddette attività, tre persone Pasquale Piccirillo, Antonio Sollazzo e Caterina Maria Bagnardi, amministratori (altresì di fatto) della suindicata società,  furono denunziate all’Autorità Giudiziaria Ordinaria per il reato di truffa aggravata funzionale al conseguimento di erogazioni pubbliche, dimenticando di dire che la Bagnardi è stata assolta. Così come Corriere del Mezzogiorno edizione pugliese pubblicata dal Corriere della Sera, non ha raccontato correttamente qualcosa di molto importante, scrivendo e sostenendo che la “ Bagnardi ha un profilo marginale in questa vicenda perché è entrata nella società solo nel 2011 e la sua condotta è stata valutata in relazione alla richiesta di contributi per l’annualità 2012“in quanto questa vicenda riguarda esclusivamente i contributi dal 2008 al 2011. Documentarsi meglio evita di far leggere inesattezze al lettore. 

Nel procedimento penale avviato nel 2018 dalla procura di S. Maria Capua Vetere, la giornalista Caterina Maria Bagnardi che era subentrata soltanto a novembre 2011 nel ruolo di amministratore della cooperativa, e che aveva dovuto richiedere quale atto dovuto, i contributi pubblici maturati nel 2011 della cooperativa Dossier, è stato assolta “perchè il fatto non sussiste” con sentenza n. 887/18 depositata l’ 11 gennaio 2019, passata in giudicato. 

Quindi non si capisce oggi come possa oggi la giustizia contabile tornare alla carica per gli stessi fatti e presunte responsabilità per i quali la giustizia penale ha ritenuto innocente con sentenza definitiva la Bagnardi non ravvisando alcun suo reato. Quindi se non ha commesso alcun reato penale come può essere responsabile nei confronti dell’ Erario ? Una semplice domanda che la Guardia della Finanza e qualche giornalista avrebbe dovuto porsi.

Tg2, il delirio della sinistra: "Censura, cosa c'è dietro", altro fango contro la Meloni. Giovanni Torelli su Libero Quotidiano il 19 giugno 2022

Certo che ci vuole faccia tosta. Nella Rai più lottizzata di sempre dal Pd, nella spartizione di cariche tra tutti i partiti, esclusi quello di opposizione, cioè Fratelli d'Italia, chi viene accusato di farla da padrone e di proporre contenuti propagandistici in Rai? Ma il partito della Meloni, ovvio. È la tesi del segretario di Commissione Vigilanza Rai, Michele Anzaldi di Italia Viva, che su Facebook si è inalberato perché il Tg2 guidato da Gennaro Sangiuliano avrebbe censurato il comizio ormai celebre della Meloni in Andalusia per non metterla in difficoltà. 

«Grave pagina di disinformazione al Tg2 sul caso del discorso di Giorgia Meloni dal palco del partito estremista spagnolo Vox», ha scritto Anzaldi. «Il tg di Rai2 è stato ridotto a megafono della propaganda di un partito. Ha censurato il discorso-autogol della leader di Fdi, non facendolo sentire né vedere». Da qui l'appello a mezzo mondo a porre fine allo "scempio". «Che ne pensano l'Agcom, l'Ordine dei Giornalisti, il Cda Rai, la Fnsi, l'Usigrai, il Cdr? Davvero l'ad Rai Fuortes e il presidente Agcom Lasorella non intendono intervenire?», si chiede Anzaldi.

Al momento fortunatamente nessuno dei soggetti suddetti è intervenuto. Sono intervenuti però i parlamentari meloniani. Il responsabile dell'organizzazione di Fdi Giovanni Donzelli ha notato come Anzaldi «non si sente appagato dal linciaggio mediatico della maggioranza nei confronti della Meloni»; ma «l'emergenza democratica che stiamo vivendo» prevede anche che «se non sei al governo devi essere purgato», al punto che si «chiede la censura dei servizi giornalistici».

A sua volta il deputato Fdi Federico Mollicone ha notato come «Anzaldi continui a fare la voce del padrone» ma «sono finiti i tempi in cui dettava le notizie al Tg2». E quindi ricorda come quello di Sangiuliano sia un tg «che dà voce a tutte le forze politiche, e rappresenta le ragioni del primo partito italiano, dando comunque spazio a partitini come quello di Anzaldi...».

Al di là delle schermaglie politiche, a parlare sono i fatti. Fdi non vanta neppure un esponente nel cda Rai e non ha ottenuto alcuna direzione di genere (nel recente balletto delle nomine c'è solo stato un ricollocamento di esponenti Pd). Anche tra i direttori di tg l'unico che può considerarsi in orbita meloniana è Paolo Petrecca alla guida di RaiNews, peraltro il luogo più egemonizzato dai "rossi". 

Per il resto, di area Fdi, solo qualche vicedirezione di genere e di tg, e nulla più. Anche l'unico programma di approfondimento riconducibile al mondo Fratelli d'Italia, cioè Anni Venti, è stato chiuso. E allora di cosa blatera Anzaldi? Si lamenta del fatto che Sangiuliano eserciti la propria libertà editoriale, e che lui e i suoi giornalisti diano diritto di replica alla Meloni (nel servizio del Tg2 contestato c'erano infatti prima le parole di Letta contro di lei)? Ah già, forse la sinistra tutta (Iv non ne è che un'emanazione) non ammette che ci siano spazi di libertà nel servizio pubblico e vuole mangiarsi tutto. Come capita nell'informazione di regime. Democratico, s'intende. 

Ottavio Cappellani per La Sicilia il 19 giugno 2022.

Non sono soltanto gli stagionali che non si trovano, non si trova neanche gente che vuole lavorare al TG1. E ci credo: i conduttori preferiscono il reddito di cittadinanza. 

Francesco Giorgino, Emma D’Aquino e Laura Chimenti, conduttori e conduttoresse del TG1 delle 20.00, si sono rifiutati di condurre e condurroresse la rassegna stampa delle 6,30 del mattino, con tanto di certificato medico che testimonia come la loro salute non sia in grado di sostenere la levataccia: dice che per fare trucco e parrucco devono essere in Rai almeno alle 5,00. In realtà la levataccia dovevano farla soltanto cinque giorni ogni mese e mezzo, ma i dottori hanno detto no, non li vedete come sono smunti?

Sto scrivendo questo pezzo in un’area di servizio in mezzo al nulla frequentata da contadini in Ape Piaggio armati di zappe e picconi, da queste parti si stanno sfiorando i 40 gradi, anche loro sono molto d’accordo con i tre giornalist*:  e che sono pazzi a chiedere loro di condurre la rassegna stampa di mattina? 

Giorgino, addirittura, è stato retrocesso al TG1 meno prestigioso, quello delle 13,30, e dice che la faccenda è in mano ai suoi legali. I contadini, al bar, sono scandalizzati: e che si retrocede così Giorgino? E poi si sa che il TG1 delle 13,30 non lo guarda nessuno, a questo punto, ripetono, uno se ne sta a casa col reddito di cittadinanza.

Lo spietratore di orti dice che la colpa è della rotazione, nessuno vuole fare la rotazione, neanche quelli dei Cinquestelle vogliono il limite del doppio mandato, perché è chiaro che se uno si abitua a fare una cosa poi non vuole cambiare, anche se secondo lui sarebbe più giusto il limite e si informa se è possibile avere il limite dei due mandati per fare lo spietratore. 

Gli altri lo mandano affanculo perché sta andando fuori tema e tornano a parlare del TG.

Il trattorista dice che è d’accordo sia con i giornalisti sia con la direttrice Monica Maggioni che non ha tenuto in considerazione i certificati medici: il trattorista lavora in proprio e una mattina proprio si sentiva anche lui come i giornalisti, smunto, allora si è fatto fare il certificato medico, se lo è presentato a se stesso e se l’è rifiutato perché ancora deve finire di pagare le rate del trattore, così alle 3,30 del mattino era già a guidare che il tempo che arrivava al campo si facevano le sei perché i trattori vanno lenti sulle strade normali. 

Il contadino dice: che c’entra il trattore, anche io mi sveglio alle 3,00 perché la sera quando arrivo a casa alle 20,00 mi addormento di botto. Anche gli altri hanno tutti gli stessi orari, così si fanno due calcoli e capiscono che nessuno di loro guarda la rassegna stampa perché sono già al lavoro, alle 13,30 si mangiano il panino fuori, e alle 20,00 stanno già dormendo. Quindi mandano affanculo Giorgino e compagnia cantando e se ne tornano nei campi e nei cantieri.

I giornalisti del Tg1 Giorgino, Chimenti e D’Aquino e la guerra di certificati medici. Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 17 Giugno 2022.

I tre conduttori dell’edizione delle 20 avrebbero rifiutato di occuparsi della rassegna stampa mattutina, come richiesto dalla direttrice Maggioni, per motivi di salute.

Sta tutto scritto nei certificati medici. Quelli che i tre dei quattro conduttori del Tg1 delle 20, Francesco Giorgino, Emma D’Aquino e Laura Chimenti, avrebbero presentato per tempo, prima di essere rimossi dalla prestigiosa conduzione delle 20 - e «retrocessi» sul campo a quella delle 13.30 - per aver declinato l’invito della direttrice Monica Maggioni a condurre la rassegna stampa del mattino presto.

All’alba

Molto presto, visto che per essere in video alle 6.30, senza sfoggiare poco telegeniche occhiaie da panda e capelli scarruffati, occorre prima passare dal trucco e parrucco, nonché aver letto i giornali, per poterne parlare con contezza ai telespettatori. E dunque occorre presentarsi a Saxa Rubra intorno alle cinque, alle prime luci dell’alba. Non sempre, attenzione, ma per 5 giorni consecutivi ogni mese e mezzo. E subito tutti a dire, ad insinuare, a dare per certo che sia stata l’idea della levataccia antelucana a fare inorridire i tre noti e amati mezzibusti della Rai, abituati ad orari più comodi.

I tre ribelli

Soltanto Alessio Zucchini, forse perché ha alle spalle tanti duri anni da precario prima di approdare in Rai, ha accettato senza fare una piega. Ed è rimasto al suo posto. Per i tre «ribelli» invece Monica Maggioni avrebbe disposto uno spostamento a decorrenza immediata, comunicato per lettera senza troppo preavviso. Così come il progetto è partito in tempi ristretti. La direttrice del resto tiene moltissimo a questa rassegna stampa mattutina. Giorgino, Chimenti e D’Aquino sono stati dipinti come lavativi, pigri, viziati (o a scelta, vittime di una direttrice troppo intransigente e volitiva). In realtà ciascuno avrebbe presentato un dettagliato certificato medico che attesta l’impossibilità di affrontare turni troppo faticosi. Insomma il no sarebbe motivato da comprovate necessità di salute. Specialmente nel caso di Giorgino, che la stessa Monica Maggioni ha nominato vicedirettore del TG1, subito dopo il suo insediamento, nel novembre del 2021. E che dopo l’ultima conduzione alle 20 ha salutato il pubblico: «Grazie e arrivederci a tutti».

Rapporti incrinati

Il conduttore, prima ancora di essere selezionato per il compito della rassegna stampa delle 6.30, avrebbe chiesto una riduzione del carico lavorativo per motivi di salute. Su consiglio dei medici. Non per evitare sveglie anticipate, anche perché, nel suo ruolo, ha più volte lavorato di buon’ora e spesso fino a tarda sera , con oltre 400 giorni di ferie arretrate a dimostrare il suo impegno. «Non sono autorizzato a parlare, la vicenda è oggetto di valutazione dei miei legali» si è limitato a dire all’agenzia Adnkronos. Dispiaciuto per essere stato dipinto come un riottoso fannullone o come un vanesio che si sente una star. Nei consueti corridoi di Saxa Rubra si dice poi che da tempo i suoi rapporti con la direttrice fossero incrinati. Divergenze di vedute. E di schieramento: Maggioni assai governativa, Giorgino in generica quota centrodestra. Anche Emma D’Aquino e Laura Chimenti avrebbero motivato il no con certificato medico e sarebbero sorprese e mortificate dal brusco ordine di servizio. Tra i papabili sostituti, in prima fila c’è Giorgia Cardinaletti, molto apprezzata dalla direttrice.

DAGONEWS l'8 giugno 2022.  

Da dove nasce l’insofferenza (eufemismo) del Pd verso l’ad Rai Carlo Fuortes? Il suo “peccato originale” va ricercato nella nomina dei direttori dei telegiornali. In modo particolare la scelta di portare Monica Maggioni alla direzione del Tg1. L’ex inviata di guerra (si fa per dire) non è in quota Pd. Non è rappresentativa del mondo dem. 

La sua nomina è stata una cambialetta che Draghi ha dovuto pagare a Gianni Letta. L’Eminenza azzurrina, che sente ogni mattina al telefono la sua amica Maggioni, ha chiesto a Mariopio di riconoscere il valore della giornalista con una bella poltrona pesante. In nome dei vecchi tempi (fu il governo Berlusconi, dunque Letta, a fine 2005 a nominare Draghi governatore della Banca d’Italia), la richiesta è stata esaudita con una telefonata a Fuortes.

Il Pd, che ha visto confermato il mal-destro Sangiuliano al Tg2 e la nomina di Simona Sala in quota M5s al Tg3, è rimasto a bocca asciutta (e Orfeo ci ha provato fino alla fine di prendersi il Tg1). Di qui l’incazzatura di Enrico Letta. Di qui il “risarcimento” di Fuortes: il caso Orfeo ha innescato un valzer di incarichi che “premia” il Pd: Antonio Di Bella, ex direttore del Day Time e molto contiguo ai dem, va a guidare gli Approfondimenti giornalistici al posto di Mario Orfeo. Al Day Time, prima diretto da Di Bella, va Simona Sala, che a sua volta lascia la guida del Tg3 a Orfeo che fa felice il Nazareno: a Letta non dispiace, infatti, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, avere un telegiornale amico.  

A proposito di Fuortes. Il consiglio di amministrazione della Rai, nonostante i mal di pancia, stamattina ha dato il via libera alle nomine proposte dall’ad, con cinque voti favorevoli (Simona Agnes in quota Forza Italia/Gianni Letta, Francesca Bria in quota Orlando/Pd e Igor De Biasio in quota Lega; oltre alla presidente Marinella Soldi e Fuortes) e due contrari (il pentastellato Di Majo orfano di Simona Sala e Laganà, emissario dei dipendenti Rai). 

La presidente Rai Marinella Soldi e la consigliera in quota Pd Francesca Bria hanno lavorato in duplex per calmare gli animi ed evitare un traumatico siluramento di Fuortes, fedeli al vecchio adagio della politica: ora come ora, meglio azzopparlo che mandarlo via.  

Comunque, ora sta diventando chiaro il sì del leghista De Biasio: il sito del Fatto Quotidiano annuncia il siluramento della piddina Ilaria D’Amico, posizionata da Orfeo sulla salviniana Rai2, per essere sostituita da Francesco Giorgino….

Giuseppe Candela per ilfattoquotidiano.it l'8 giugno 2022.  

Manovre, spostamenti, incontri. Quando mancano venti giorni alla presentazione dei Palinsesti Rai, a Viale Mazzini arrivano nuovi colpi di scena. L’amministratore delegato Carlo Fuortes ha deciso di rimuovere dalla direzione Approfondimenti (tradotto quella che si occupa dei talk show) Mario Orfeo. Ex direttore generale, già alla guida dei tre telegiornali Rai. Renziano ma con referenze trasversali da destra a sinistra.

A differenza di quanto circolato nei giorni scorsi, il Cda Rai ha dato il via libera al nuovo pacchetto di nomine: la “retrocessione”, ma anche il ritorno, di Orfeo al Tg3 sostituito agli Approfondimenti da Antonio Di Bella, quest’ultimo ha ceduto la poltrona del Daytime a Simona Sala. Fino alla fine sono stati bilico i voti di Riccardo Laganà e del consigliere Alessandro Di Majo, rappresentante del Movimento 5 Stelle. 

In questo scenario, di fatto con collegamenti inevitabili, sono arrivati altri cambiamenti. Come anticipato dall’agenzia LaPresse è saltato l’arrivo in Rai di Ilaria D’Amico. Nei mesi scorsi il sito Dagospia aveva annunciato lo sbarco a Viale Mazzini per condurre il nuovo talk show di Rai2, destinato al prime del giovedì sera. Notizia confermata e rilanciata da diverse fonti. FqMagazine apprende da fonti qualificate che era tutto pronto ed era stato scelto anche il capoautore, l’ex iena Alessandro Sortino. Operazione voluta con forza dal manager Beppe Caschetto (che assiste la D’Amico) e da Mario Orfeo.

Al suo posto arriva Francesco Giorgino, attualmente impegnato alla conduzione del Tg1 delle 20, oltre che come vicedirettore della testata. Un nome interno apprezzato dall’intero centrodestra, gradito in particolare alla Lega. Al suo fianco o con un ruolo minore potrebbe esserci la giornalista Annalisa Chirico. Non l’unico cambiamento, al posto di Giorgino approda al Tg1 come vicedirettore Francesco Primozich, ora nello stesso ruolo al Tg2, anche lui nome gradito alla Lega.

Franco Bechis per veritaeaffari.it il 4 giugno 2022.

Mario Orfeo? “È il Patriarca Kirill del Pd”. E l’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes, che dopo avere sanzionato il suo dirigente l’ha immediatamente tolto dalla lista dei puniti quasi promuovendolo 24 ore dopo alla direzione del Tg3? “Lui è come Ursula von der Leyen di fronte a Victor Orban”.

È un Paolo Mieli pungentissimo quello che si diverte con il nominificio della Rai chiacchierando in diretta con Radio24. Manca solo l’ultimo paragone: chi è l’Orban in viale Mazzini? Ma naturalmente Enrico Letta che con il suo Pd non si perde mai una nomina, quasi l’occupazione di poltrone pubbliche fosse la missione statutaria del suo partito. “Fuortes”, spiega Mieli, “voleva mandare via da dove era Orfeo per tradimento, perché era inaffidabile. Invece sembra dalla lettura dei giornali che l’abbia rimesso proprio dove lui voleva tornare: alla direzione del Tg3”.

L’ex direttore del Corriere della Sera nota: “Sulle nomine non è mai distratto il Pd, vero? Eh sì, il Pd quando si tratta di nomine fa attenzione…”. Ed è qui che nasce il paragone: “In controluce, visto che le vicende sono contemporanee, direi che Orfeo è come il patriarca Kirill della Rai. E Fuortes è come la von der Leyen. Il Pd? Ha il volto pacioso e concreto di Orban…”

Paolo Mieli massacra Mario Orfeo: "Direi che è come...", il paragone con cui lo annienta. Libero Quotidiano il 04 giugno 2022

Paolo Mieli è entrato a gamba tesa sul caso Fuortes-Orfeo esploso in Rai e soprattutto sul Pd, che “quando si tratta di nomine fa attenzione”. Lo ha fatto dai microfoni di Radio24, dove l’editorialista del Corriere della Sera è stato a dir poco pungente. Innanzitutto Mieli ha palesato il suo punto di vista sulla situazione spinosa venutasi a creare: “Fuortes voleva mandare via Orfeo per tradimento, perché era inaffidabile”.

“Invece - ha sottolineato Mieli - dalla lettura dei giornali sembra che l’abbia rimesso proprio dove lui voleva tornare: alla direzione del Tg3. Sulle nomine non è mai distratto il Pd, vero? Quando si tratta di nomine fa sempre attenzione…”. In pratica i fatti sono i seguenti: Fuortes ha defenestrato Orfeo da direttore degli approfondimenti non avendo più fiducia nei suoi confronti; la faccenda è però diventato un caso politico, con il Pd in prima linea a protestare con vigore in Rai, ma anche a Palazzo Chigi. Finale della storia? Orfeo tornerà a dirigere il Tg3.

Mieli allora si è prestato al gioco dei paragoni, per quanto molto scomodi e per nulla tenersi: “In controluce, visto che le vicende sono contemporanee, direi che Orfeo è come il patriarca Kirill della Rai. E Fuortes è come Ursula von der Leyen di fronte a Viktor Orban. Il Pd? Ha il volto pacioso e concreto proprio di Orban”.

Girano le poltrone, non è la Rai ma tele-Pd. L'ad Fuortes fa fuori all'improvviso Mario Orfeo a capo degli approfondimenti e ci mette Di Bella. Ma poi, passata la nuttata lo fa direttore di Rai3 (e Di Bella è contento). Cosa c'è dietro questi straordinari giri di valzer e di nomine.  

Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 03 giugno 2022.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Ce l’immaginiamo l’Antonio Di Bella che, sdraiato in una spiaggia in provincia di Pescara, paonazzo sotto il primo solleone, con l’amata chitarra in una mano, mentre sfoglia con l’altra l’ultima copia del New York Times; e sogna una futuribile nuotata agli Hamptons. Epperò, in quel momento di massimo relax, l’Antonio riceve una telefonata da un collega dell’Adn Kronos. «Anto’, qui so’ cazzi...».

Il collega dell’agenzia stampa gli chiede lumi sul suo improvviso passaggio alla Direzione Approfondimenti Rai al posto di Mario Orfeo appena fatto fuori dal suo amministratore delegato Carlo Fuortes. Di Bella, sfodera un sorriso invincibile, esce dalla sua trance da romanzo di Noël Coward e gli risponde candidamente: «Io sono al mare, di questa cosa leggo sui giornali. Aspetto comunicazioni formali dall’azienda che non ho mai avuto». E probabilmente è vero. Di Bella sa nulla, sul caso, di più di quanto battano affannosamente le agenzie. In realtà, tutti gli attori –anche quelli chiusi nel buio della propria stanzetta in viale Mazzini- nella commedia del vorticoso giro di poltrone che sta per compiersi in Rai oggi, non hanno una chiara contezza del proprio destino. Né Di Bella che dall’approfondimento del Day Time passerebbe al ruolo di Orfeo; né Orfeo a cui verrebbe assegnata, in un inopinato gioco dell’oca, la direzione del telegiornale della terza rete che ora è della  Simona Sala; né la Sala la quale andrebbe ad occupare il posto di Di Bella da direttore del Day Time. Sarebbero queste le soluzioni maturate da Fuortes dopo la decisione –così tranchant<- di eliminare Orfeo in virtù di un «rapporto fiduciario venuto meno», e di più non è dato di sapere. Tra l'altro, stiamo parlando -sereve sottolinearlo- di professionisti stimatissimi.

In mezzo a questa narrazione ci scorre: lo stupore quasi infantile di Orfeo stesso, convinto in cuor suo, di aver toccato nervi delicatissimi nell’equilibrio dei poteri Rai (vedi caso Berlinguer) anche se, della Rai, Mario conosce i picchi d’estasi e gli anfratti più oscuri. Ma, in questa storia ci sta pure lo spiazzamento della politica che ha buon gioco nell’addossare all’ad Rai le colpe di una decisione radicale maturata senza preavviso; «a 24 ore dalla notizia della revoca dell’incarico al direttore Approfondimenti della Rai, ruolo delicato e strategico per il servizio pubblico radiotelevisivo a maggior ragione nel pieno di una campagna elettorale, non c’è ancora neanche un comunicato ufficiale della Rai», afferma il renziano Michele Anzaldi. A cui fanno eco, da destra Maurizio Lupi e Maurizio Gasparri, e Alberto Barachini presidente della Commissione Vigilanza Rai, tanto per riimanere in par condicio. Per non dire della sorpresa per la conseguente riconferma di Orfeo al Tg3, in fondo anelata dallo stesso ex direttore generale, ma abbastanza curiosa; perché, dopotutto, se tu sei un capo plenipotenziario messo lì da Draghi, e vuoi far fuori legittimamente un dirigente di cui dici  di non fidarti, be’, non gli dai certo la direzione di un tiggì. Un tiggì importante. Evidentemente, le reazioni dell’azienda da un lato e quelle del Parlamento dall’altra hanno prodotto questo strano cortocircuito. 

Il problema è che lunedì prossimo dovrebbe partire la nuova, rivoluzionaria Rai dei “Generi” in cui i palinsesti confezionati da Orfeo avevano, almeno sulla carta, una certa rilevanza nell’ambito del nuovo mosaico del servizio pubblico, assieme ai piani strategici di Stefano Coletta direzione “Intrattenimento Prime time”, di Silvia Calandrelli delegata al “Cultura ed Educational” e dello stesso Di Bella, per capirci.

Ora, qui noi potremmo riempire pagine e pagine di retroscena sul nuovo, ennesimo riassetto della nostra tv di Stato preferita. Ed è del tutto evidente che, qui, ora, si tratti di una partita e di una faida tutt’interna alla sinistra pro e contro Bianca Berlinguer il cui affaire si conclude, alla fine, con una riconferma in palinsesto della sua controversa Cartabianca (ma rimane il nostro stupore sull’immensa influenza di Bianca sulle cose Rai, sia detto con una certa ammirazione…). Ed è altrettanto evidente che i Dem non avrebbero mai lasciato, alle soglie delle elezioni, l’importante direzione di “Approfondimento” di Orfeo a seppur ottimi professionista targati centrodestra come Angelo Mellone, area FdI o Milo Infante area Lega. «Fuortes non ha più il controllo dell’azienda» commentano dalle parti dell’opposizione di Fratelli d’Italia. Ci permettiamo, alla luce dell’esperienza, una garbata forma di dissenso. Tutt’altro. Il  controllo di Fuortes rientra nel consolidato schema di potere della Rai dei bei tempi...

Piscialettissimo. I ragazzini sono scemi, ma noi che ci adeguiamo ai loro tic siamo anche peggio. Guia Soncini su L'Inkiesta il 3 Giugno 2022.

La Rai ha deciso di allinearsi allo spirito del tempo mandando in onda programmi sullo scontro generazionale. Ma è una formula già usata da decenni. La generazione dei giovani “che salveranno il mondo” ma che non sanno nulla lo ignora, gli altri fanno finta di nulla.

Quando, venticinque anni fa, ho lavorato per la prima volta in Rai, la frase che sentivo più spesso dire era «I vecchi poi muoiono»: era la motivazione che i dirigenti si davano per il goffo inseguimento del pubblico giovane. Era una motivazione meno fessa di «questa generazione ci salverà» e altre puttanate che noialtri adulti diciamo dei ventenni d’oggi.

All’epoca noialtri ventenni eravamo figli della generazione che aveva inventato la ventennitudine: quelli che avevano avuto vent’anni negli anni Sessanta. Quindi forse eravamo vagamente complessati, vagamente consapevoli di non essere altrettanto rivoluzionari (noi che avevamo sì e no avuto la Pantera, noi che avevamo avuto i paninari), il che mitigava il delirio d’onnipotenza connaturato all’età.

Quelli d’oggi, figli di noialtri disgraziati, sono convinti d’essere i primi e gli ultimi ventenni della storia del mondo, e che ogni cosa che accade a loro sia specialissima, esclusiva, inedita, degna d’attenzione. E noi – i peggiori genitori della storia del mondo – non osiamo contraddirli.

Il risultato è che martedì, tra indiscrezioni e annunci ufficiali, è stata data notizia di ben tre programmi autunnali (tutti e tre della Rai, quindi alla fine saranno di più: vuoi che le altre reti lascino libero il campo?) il cui scopo è contrapporre giovani e adulti.

Solo che gli adulti non sono più adulti: sono boomer, uno dei tic lessicali più sciatti della storia del mondo. Boomer sarebbe chi è nato negli anni del boom (cioè: nel dopoguerra); solo che i ragazzini d’oggi – persino più analfabeti di quanto fossimo noi alla loro età – lo usano indistintamente per chiunque abbia il difetto d’essere più adulto di loro. E noi cosa facciamo? Ci adeguiamo.

E quindi uno dei programmi – condotto dalla mia coetanea Alessia Marcuzzi – s’intititolerebbe Boomerissima, una parola che mi fa venir voglia d’andare a darmi fuoco nell’ufficio di Fuortes. Pensate a un programma degli anni Ottanta in cui i giovani baccagliano con gli adulti, e pensatelo intitolato Matusissimo. Un brivido.

La cosa interessante è che, a furia di non contraddire questi ragazzini che siamo convinti salveranno il mondo (lo salveranno da noi, mormoriamo indossando il cilicio), siamo diventati scemi quanto loro. E quindi parliamo dello scontro televisivo tra generazioni come fosse una novità, un guizzo creativo, un’invenzione di ora. Siamo come loro quando credono che le canzoni degli anni Sessanta siano nuove perché qualcuno le ha campionate su TikTok.

Negli anni Novanta in tv non c’era praticamente altro: quasi più programmi sullo scontro generazionale di quanti ci toccherà scanalarne in autunno. Lo stesso Pierluigi Diaco (che condurrà uno di questi tre nuovi programmi) nasce televisivamente in un programma di metà anni Novanta in cui si confrontava coi grandi. Un programma generazionale fu la prima conduzione di Ambra dopo Non è la Rai. E poi c’era lei, l’unica autrice televisiva italiana degli ultimi decenni: Maria De Filippi.

Prima di tutti, lo scontro tra generazioni se l’era inventato lei, trent’anni fa, con Amici. Che non era la gara di balletti di adesso, era un programma del sabato pomeriggio in cui gli adolescenti andavano a raccontare i loro disagi.

Amici era un programma di gente poco più giovane di me, loro erano liceali e io avevo vent’anni, e lo ricordo impagabile nel farmi pensare che per fortuna non ero uno di quei piscialetto che vanno a lamentarsi della vita in uno studio televisivo.

Sono passati trent’anni e i piscialetto hanno tutti fatto più carriera di me, e forse dipende da quello lo sterminato spazio che abbiamo deciso di concedere ai ragazzini d’oggi: certo, ora sono solo dei cretinetti che ci chiamano boomer, ma metti che domani ce li ritroviamo autori televisivi, direttori di giornale, piccoli potenti che possono tornarci utili. Forse questo giovanilismo è una strategia simile a quella battuta di Spike Lee: ricòrdati di me da ricco, io mi ricordo di te da povero.

Ho saltato, nell’elenco giovani/vecchi delle trasmissioni che furono, un altro format degli anni Novanta. Era un programma in cui liceali impegnati politicamente andavano a discutere col ministro dell’Istruzione. Andava in onda su Videomusic, se l’era inventato Flavia Fratello (all’inizio di questo secolo, in Inghilterra, Mtv fece una cosa analoga; fece notizia perché i ragazzini discutevano con Tony Blair: facile fare la tv quando hai lo star system).

Tra le promettenti liceali che la Fratello aveva trovato in giro per scuole e aveva messo in uno studio televisivo intuendone le potenzialità, c’era una certa Giorgia Meloni. Per allora sarò morta di colesterolo e pressione alta, e purtroppo mi perderò la nemesi che arriverà tra una trentina d’anni.

Quando le mie coetanee smaniose di dire che i ragazzi di oggi sono i migliori della storia del mondo, sono migliori di noi, sono quelli che aggiusteranno tutte le nostre nefandezze, quando le mie coetanee di sinistra pronte a inchinarsi a ogni capriccio di gioventù si ritroveranno con una Giorgia Meloni allevata nella tv del senso di colpa, nella tv costruita dalla mia generazione per dar lustro alla loro. E si chiederanno chi sia il responsabile di questa deriva a loro così sgradita, e non si guarderanno allo specchio.

Rai, lo scandalo di tele-Pd pagata con soldi pubblici: dopo Orfeo... ecco chi arriva ai vertici. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 04 giugno 2022

Ce l'immaginiamo l'Antonio Di Bella che, sdraiato in una spiaggia in provincia di Pescara, paonazzo sotto il primo solleone, con l'amata chitarra in una mano, mentre sfoglia con l'altra l'ultima copia del New York Times; e sogna una futuribile nuotata agli Hamptons. Epperò, in quel momento di massimo relax, l'Antonio riceve una telefonata da un collega dell'AdnKronos. «Anto', qui so' cazzi...».

Il collega dell'agenzia stampa gli chiede lumi sul suo improvviso passaggio alla Direzione Approfondimenti Rai al posto di Mario Orfeo appena fatto fuori dal suo amministratore delegato Carlo Fuortes. Di Bella, sfodera un sorriso invincibile, esce dalla sua trance da romanzo di Noël Coward e gli risponde candidamente: «Io sono al mare, di questa cosa leggo sui giornali.

Aspetto comunicazioni formali dall'azienda che non ho mai avuto». E probabilmente è vero. Di Bella non sa nulla, sul caso, di più di quanto battano affannosamente le agenzie. In realtà, tutti gli attori - anche quelli chiusi nel buio della propria stanzetta in viale Mazzini- nella commedia del vorticoso giro di poltrone che sta per compiersi in Rai oggi, non hanno una chiara contezza del proprio destino.

Né Di Bella che dall'approfondimento del Day Time passerebbe al ruolo di Orfeo; né Orfeo a cui verrebbe assegnata, in un inopinato gioco dell'oca, la direzione del telegiornale della terza rete che ora è di Simona Sala; né la Sala la quale andrebbe ad occupare il posto di Di Bella da direttore del Day Time. Sarebbero queste le soluzioni maturate da Fuortes dopo la decisione - così tranchant- di eliminare Orfeo in virtù di un «rapporto fiduciario venuto meno», e di più non è dato di sapere.

NERVI DELICATISSIMI

In mezzo a questa narrazione ci scorre: lo stupore quasi infantile di Orfeo stesso, convinto in cuor suo, di aver toccato nervi delicatissimi nell'equilibrio dei poteri Rai (vedi caso Berlinguer) anche se, della Rai, Mario conosce i picchi d'estasi e gli anfratti più oscuri. Ma, in questa storia ci sta pure lo spiazzamento della politica che ha buon gioco nell'addossare all'ad Rai le colpe di una decisione radicale maturata senza preavviso; «a 24 ore dalla notizia della revoca dell'incarico al direttore Approfondimenti della Rai, ruolo delicato e strategico per il servizio pubblico radiotelevisivo a maggior ragione nel pieno di una campagna elettorale, non c'è ancora neanche un comunicato ufficiale della Rai», afferma il renziano Michele Anzaldi. A cui fanno eco, da destra Maurizio Lupi e Maurizio Gasparri, e Alberto Barachini presidente della Commissione Vigilanza Rai, tanto per rimanere in par condicio.

Per non dire della sorpresa per la conseguente riconferma di Orfeo al Tg3, in fondo anelata dallo stesso ex direttore generale, ma abbastanza curiosa; perché, dopotutto, se tu sei un capo plenipotenziario messo lì da Draghi, e vuoi far fuori legittimamente un dirigente di cui dici di non fidarti, be', non gli dai certo la direzione di un tiggì. Un tiggì importante. Evidentemente, le reazioni dell'azienda da un lato e quelle del Parlamento dall'altra hanno prodotto questo strano cortocircuito.

ARRIVANO I "GENERI"

Il problema è che lunedì prossimo dovrebbe partire la nuova, rivoluzionaria Rai dei "Generi" in cui i palinsesti confezionati da Orfeo avevano, almeno sulla carta, una certa rilevanza nell'ambito del nuovo mosaico del servizio pubblico, assieme ai piani strategici di Stefano Coletta direzione "Intrattenimento Prime time", di Silvia Calandrelli delegata al "Cultura ed Educational" e dello stesso Di Bella, per capirci. Ora, qui noi potremmo riempire pagine e pagine di retroscena sul nuovo, ennesimo riassetto della nostra tv di Stato preferita. Ed è del tutto evidente che, qui, ora, si tratti di una partita e di una faida tutt' interna alla sinistra pro e contro Bianca Berlinguer il cui affaire si conclude, alla fine, con una riconferma in palinsesto della sua controversa Cartabianca (ma rimane il nostro stupore sull'immensa influenza di Bianca sulle cose Rai, sia detto con una certa ammirazione...). 

Ed è altrettanto evidente che i Dem non avrebbero mai lasciato, alle soglie delle elezioni, l'importante direzione di "Approfondimento" di Orfeo a seppur ottimi professionista targati centrodestra come Angelo Mellone, area FdI o Milo Infante area Lega. «Fuortes non ha più il controllo dell'azienda» commentano dalle parti dell'opposizione di Fratelli d'Italia. Ci permettiamo, alla luce dell'esperienza, una garbata forma di dissenso. Tutt' altro. Il controllo di Fuortes rientra nel consolidato schema di potere della Rai dei bei tempi... 

Giovanna Predoni per tag43.it il 2 giugno 2022.

In Rai, dove già da prima non si respirava una bella aria, ora è guerra totale. La decisione (anticipata da Dagospia) dell’ad Carlo Fuortes di silurare il capo degli Approfondimenti Mario Orfeo, l’uomo più trasversale della Rai vantando nel suo ormai lungo cursus honorum la direzione di tutti e tre i tg di Viale Mazzini oltre che la direzione generale e la presidenza di Rai Way (praticamente non c’è poltrona in cui l’ex giornalista di Repubblica non abbia anche per poco occupato), ha scatenato un putiferio. 

Perché è avvenuta alla viglia della presentazione dei palinsesti, che è sempre un momento delicato, perché è stata un blitz di cui il diretto interessato proprio non aveva sentore. Casus belli, il ritardo nella presentazione dei programmi e alcuni interventi che Orfeo volva apportare su Carta Bianca di Bianca Berlinguer e Report che avrebbero trovato l’opposizione del capoazienda.

In realtà non è andata così, o per lo meno questa è solo una parte della storia. A tagliare la testa di Orfeo c’è la classica congiura di palazzo.  Primo cospiratore Giuseppe Pasciucco, capo staff di Fuortes, una lunga carriera nella tivù di Stato dove è entrato nel 1993 ricoprendo varie posizioni fino all’ultima, quella di braccio destro dell’amministratore delegato. 

Secondo cospiratore Lucio Presta, ovvero il più potente manager dei teledivi, il quale non avrebbe gradito che nei palinsesti della prossima stagione ci fosse una preponderanza di programmi (si parla di nuovi talent) che fanno capo al suo rivale di sempre Beppe Caschetto. I due sono i Coppi e i Bartali dell’etere, o per venire ai nostri giorni i Nadal e i Federer, con la differenza però che non sono per nulla amici. 

Pasciucco e Presta invece amici lo sono: si conoscono da una vita, tanto da condividere anche i week end nelle rispettive case in Sabina. I due, di comune intesa, hanno suggerito a Fuortes di estromettere Orfeo. A quel punto il Napoleone di viale Mazzini (così lo hanno soprannominato al suo arrivo) ha preso in mano il telefono e ha chiamato i suoi dante causa a Palazzo Chigi.

Il via libera di Palazzo Chigi per mano di Francesco Giavazzi

A rispondergli non Antonio Funiciello, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, come qualcuno ha lasciato trapelare, ma Francesco Giavazzi. Il superconsulente economico di Mario Draghi, a Fuortes che gli manifestava le sue intenzioni, ha detto di procedere. A quel punto la vicenda è esplosa. La reazioni dei partiti, Pd in testa, è stata veemente e trasversale (proprio come il curriculum di Orfeo), perché a difendere il dirigente si sono levate anche le voci di Forza Italia e Italia Viva. E anche la Commissione di vigilanza Rai ci ha subito messo becco annunciando al richiesta di chiarimenti.

Ora si strologa sui perché della mossa di Fuortes, il cui rapporto con Orfeo era notoriamente poco idilliaco, ma non si pensava a un punto tale da farne rotolare la testa. Probabilmente il via libera di Giavazzi lo ha convinto di avere le spalle coperte. Difficile invece credere, come qualcuno ha evocato, che l’ad cercasse l’incidente proprio per togliersi da un contesto per lui ingovernabile e fonte di continui grattacapi. Doveva peraltro sapere che andare a dirigere la Rai, l’azienda più litigiosa del mondo, non era un pranzo di gala come poteva essere, soprattutto nell’ultimo periodo, la direzione dell’Opera di Roma. Conseguenze immediate?

Con molta probabilità l’attribuzione ad interim della carica ad Antonio Di Bella, attualmente direttore di Rai Day Time. E qualcuno si spinge oltre, pronosticando l’uscita di Fuortes e la sua sostituzione con l’attuale presidente Marinella Soldi che, sulla vicenda Orfeo, finora  si è tenuta in disparte.

Gianrico Carofiglio per “la Gazzetta del Mezzogiorno” il 31 maggio 2022.  

Se hai una qualche visibilità è inevitabile che ti facciano delle cattiverie, che dicano di te cose false e offensive. In questi casi torna utile un consiglio di Oscar Wilde: “perdona sempre i tuoi nemici, nulla li infastidisce così tanto” 

Da striscialanotizia.mediaset.it il 31 maggio 2022.

A “Rai Scoglio 24”, la rubrica di Striscia la notizia dedicata agli sprechi della tv di Stato, Pinuccio continua a indagare sulle relazioni amorose in Rai ad alto rischio conflitto di interessi. Nella puntata del 13 maggio erano stati accesi i riflettori sul caso del giornalista freelance Gian Micalessin, ex fidanzato della direttrice del Tg1 Monica Maggioni. 

E l’inviato del Tg satirico svela altri intrighi di cuore. A Radio Rai, dall’8 maggio Francesca Romana Ceci, moglie di Andrea Vianello, direttore di Rai Giornale Radio e Radio uno, è entrata nell’ufficio centrale di coordinamento dei programmi giornalistici e Gr. 

Mentre nel programma Dilemmi (Raitre) di Gianrico Carofiglio (ex senatore del Partito Democratico e autore di best seller come Della gentilezza e del coraggio) lavora come autrice esterna Francesca Santolini, ex compagna di Andrea Romano, onorevole del PD e - soprattutto - componente della Vigilanza Rai. «Carofiglio l’avrà fatto per gentilezza?», commenta Pinuccio. E non è tutto. Anche l’attuale moglie di Romano, Sara Manfuso, è spesso ospite in trasmissioni Rai.

Dagospia l'1 giugno 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

Caro Dago, hai ripostato prima e ieri riscritto una notizia falsa, peraltro già rettificata, calunniosa e talmente incredibile, che infatti non è vera. Non ho promosso ovviamente mia moglie, né ne ho cambiato mansioni, ruoli e retribuzione. Francesca Romana Ceci lavora al Giornale Radio Rai dal gennaio 1989, prima che io stesso entrassi in Rai, non ha avuto avanzamenti di carriera dal 1999, conduce e cura lo stesso programma da anni e continua a farlo con lo stesso modo con la mia direzione.

La notizia falsa che hai diffuso e contribuito a diffondere (“Vianello promuove la moglie) non solo offende la mia intelligenza e la mia integrità, ma offende soprattutto una giornalista onesta e professionale solo perché “moglie di”, usanza di altri tempi che sembravano superati, ma che tu evidentemente non riesci a superare, e la cosa, conoscendoti, davvero mi stupisce. Andrea Vianello

Dagospia l'1 giugno 2022. Premetto che ho sempre considerato la riservatezza un valore, di stile ma anche etico. Non ho mai pubblicizzato la mia vita privata, mai cercato qualsiasi tipo di visibilità che non fosse legata al mio lavoro di giornalista specializzata in temi ambientali. È dunque con profondo disagio e un filo di tristezza che mi vedo costretta a formulare i chiarimenti che seguono. 

In un pezzo pubblicato su Dagospia (pezzo che riprendeva un servizio del programma televisivo Striscia la notizia) si ipotizza un collegamento improprio fra il mio lavoro e la mia passata relazione con il deputato Andrea Romano. Tale ipotesi è destituita di ogni fondamento, lesiva della mia dignità personale e professionale, lesiva della reputazione personale e politica di Romano. 

La mia relazione con lui è cessata nel 2013, dunque da quasi dieci anni. Da allora i nostri rapporti si limitano a quanto necessario per la cura, la crescita e l’educazione della meravigliosa bambina nata dalla nostra unione, che amiamo sopra ogni cosa.  

Ripeto conclusivamente che Andrea Romano non ha - e non ha mai avuto -nulla a che fare con le mie scelte professionali; non ha avuto alcuna ingerenza con la vicenda lavorativa in cui il suo nome è stato impropriamente citato. Francesca Santolini

Terremoto a viale Mazzini. Caos Rai, salta la testa di Mario Orfeo: Fuortes gli revoca l’incarico di direttore dell’approfondimento. Carmine Di Niro su Il Riformista l'1 Giugno 2022. 

Appena sei mesi e poi la revoca. Tanto è durato l’incarico di direttore della divisione approfondimento della Rai di Mario Orfeo, già direttore generale a viale Mazzini e nel maggio 2020 nominato direttore del Tg3, prima dell’incarico di numero uno degli approfondimenti Rai dello scorso novembre.

La notizia, anticipata dal sito Dagospia, è stata confermata all’agenzia LaPresse da fonti vicine a viale Mazzini. A deciderlo è stato l’amministratore delegato della tv pubblica, Carlo Fuortes. Secondo Dagospia “la goccia di veleno che ha fatto traboccare il vaso tra i due: l’ultimo cda Rai è saltato perché l’ex direttore generale non ha scodellato il suo palinsesto”. In particolare tra i motivi della revoca di Orfeo potrebbe esserci il ‘caso Berlinguer‘, la conduttrice del programma di approfondimento di Rai3 ‘Cartabianca‘, il talk show da settimane nel mirino della critica per il largo spazio dedicato a ospiti considerati “filoputiniani”.

Una scelta che ha subito infiammato i corridoi di viale Mazzini. Il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, ha subito chiesto spiegazioni all’AD Fuortes per la decisione: “Fuortes chiarisca ai cittadini che pagano il canone e al Parlamento se la notizia risponda al vero, quali siano le motivazioni dietro questa eventuale rimozione e come intenda intervenire a brevissimo su uno dei ruoli più delicati dell’azienda”.

“Parliamo dell’informazione, che rappresenta – prosegue Anzaldi – la missione più importante del servizio pubblico pagato da quasi 2 miliardi di euro dei cittadini: possibile che non ci sia nessuna trasparenza? Peraltro siamo in piena Par Condicio elettorale, a pochi giorni dal voto per il Referendum sulla giustizia e per le amministrative”, aggiunge il segretario della Vigilanza.

Dopo la diffusione della notizia è intervenuto anche il senatore Alberto Barachini, presidente della Commissione di Vigilanza Rai, che ha annunciato che prossimamente lo stesso Fuortes verrà ascoltato per capire le ragioni della revoca.

“La sostituzione della direzione di un settore di rilevanza strategica per l’informazione pubblica, peraltro in periodo di par condicio elettorale, non può avvenire senza che vengano rese note le motivazioni che hanno portato a tale determinazione nonché le azioni che l’azienda intende mettere in atto per procedere rapidamente alla copertura di questa posizione così delicata”, è la posizione di Barachini.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Giorgio Gandola per “La Verità” il 31 maggio 2022.

Risparmiare spendendo è l'ossimoro preferito sull'immaginifico pianeta della Rai. Dopo le polemiche per il contratto all'ex direttore de L'Espresso Marco Damilano (paracadute pubblico da settembre su Raitre, dieci minuti al giorno, mille euro a puntata per 200 puntate, totale 200.000 euro lordi) dirigenti e sindacato avevano raggiunto un tacito accordo: mai più esterni paracadutati dalla luna. 

Con 1.700 giornalisti nelle otto redazioni e 60 milioni di rosso l'azienda culturale più importante e più indebitata d'Italia non dovrebbe potersi permettersi altre leggerezze. 

L'accordo è durato un mese. Il tempo di metabolizzarlo e già si parla di un nuovo blitz, questa volta della direttrice del Tg1 Monica Maggioni, determinata ad arruolare un altro esterno pesante: sarebbe Roberto Fontolan con il ruolo di consulente del nuovo Unomattina, che il piano editoriale trasversale prevede come piattaforma Morning News dall'alba all'ora della pastasciutta. Il programma ha scricchiolato per due anni (con perdite di ascolti e di identità a favore di MattinoCinque), di conseguenza Monica Giandotti torna ad Agorà su Raitre, scelta dal neo direttore degli Approfondimenti Mario Orfeo, suo testimone di nozze.

Servono nuove idee e la direttorissima Maggioni ha messo nel mirino una vecchia conoscenza, il responsabile del Centro internazionale di Comunione e Liberazione, che secondo il sito Tag43 dovrebbe sbarcare con un contratto vicino ai 200.000 euro lordi. 

I due hanno un'ottima sintonia professionale: nel 2014 hanno firmato insieme il docufilm La strada bella su don Luigi Giussani e il movimento.

Fontolan conosce bene anche le recondite armonie della Rai poiché nel 2000 fu vicedirettore del tg1 nei cento giorni di Gad Lerner; quest' ultimo si dimise dopo lo scandalo della pubblicazione dei siti pedofili. 

Si tratterebbe di un ritorno 20 anni dopo, roba da cappa e spada, ma l'Usigrai questa volta è sul piede di guerra, svegliato dalle fibrillazioni continue della rete ammiraglia.

Dopo l'imbarazzante caso delle flatulenze finite in Procura, il Tg1 è di nuovo al centro dell'uragano: lady Maggioni ha infatti ufficializzato la partenza delle Morning News, affidando a cinque conduttori del Tg della sera anche (a turno) la rassegna stampa alle 6.30 del mattino. 

La levataccia non è per niente gradita, volti conosciuti dal grande pubblico come Laura Chimenti ed Emma D'Aquino avrebbero già rifiutato, Francesco Giorgino (neo vicedirettore) ed Elisa Anzaldi non hanno ancora detto di no, mentre il più giovane Alessio Zucchini si è allineato. 

Il responsabile del coordinamento per il turno dell'alba sarà il caporedattore centrale Mario Prignano, molto stimato all'interno, storico medievalista ed esperto di storia della Chiesa. La lunga estate calda della Rai sta per cominciare, le scosse hanno destato dal torpore anche l'ad Carlo Fuortes che ieri pomeriggio si aggirava di pessimo umore per il settimo piano dopo aver saputo delle manovre della zarina del Tg1. 

La stella del «fantasma dell'opera» (soprannome che Fuortes porta con sé dai tempi dell'Opera di Roma) è in precipitoso calo e l'ad sta perdendo per strada anche il suo più ferreo sponsor, palazzo Chigi, nella persona del capo di gabinetto Antonio Funiciello. 

Arrivato con toni da Napoleone (e con la solita barzelletta «Fuori i partiti dalla Rai»), ormai nei corridoi è definito «Waterloo». Doveva rilanciare e non ha rilanciato (i conti sono pessimi); doveva riequilibrare e non ha riequilibrato (dominano Pd e cespugli di sinistra); doveva risanare e non ha risanato.

Anzi, in questi mesi di trattative su tutto, Fuortes è riuscito nell'impresa di tagliare l'ultima edizione dei Tg regionali senza tagliare i costi. Messo alle strette dall'Usigrai, ha concesso l'indennità notturna anche senza telegiornale. Più 25 assunzioni, 25 promozioni e la terza edizione del Tg esclusivamente sul web (partirà a fine anno) per un bacino stimato di 10.000 nottambuli. Lo stesso sindacato, che in partenza si era schierato contro l'eliminazione dell'edizione notturna (al grido «Non si può interrompere l'informazione regionale alle 20») una volta accontentato sui privilegi si è dimenticato la battaglia di principio e si è messo comodo.

Un'azienda organizzata in questo modo non può piacere a Mario Draghi, quindi è possibile che l'ad abbia un orizzonte limitato alla prossima primavera quando le elezioni politiche terremoteranno una volta di più viale Mazzini. 

Nel frattempo le anomalie continuano a far perdere soldi dei contribuenti, come i buchi nell'acquedotto pugliese. La Rai stipendia un Ufficio stampa con 15 giornalisti ma Fuortes ha nominato suo assistente per la Comunicazione l'ennesimo esterno, Maurizio Caprara, ex portavoce di Giorgio Napolitano e in aspettativa al Corriere della Sera.

A giugno va in pensione il direttore di Raitre, Franco Di Mare, ma continueremo a vederlo in video perché ha ottenuto un contratto di collaborazione per proseguire il programma Frontiere, pur con ascolti residuali (attorno al 3% di share). È benvoluto dal Movimento 5Stelle e nessuno lo tocca. La festa continua.

Marco Zini per tag43.it il 30 maggio 2022.

A Viale Mazzini le polemiche non dormono mai: si parli di talk show con tanto di presenze urticanti, di direttori che fanno da relatori a convention di partito, di flatulenze e altre gastrofagie che impediscono la pacifica convivenza in ufficio. O di nomine e ordini di servizio, che sono un po’ il piatto forte della televisione pubblica specie quando vanno a toccare la posizione (spesso rendita di posizione) degli oltre 1700 giornalisti iscritti sul libro paga della Rai.

Redazione in subbuglio per spostamenti e nuovi incarichi

Quando poi si parla della rete ammiraglia, e del suo telegiornale, il Tg1, lo scontento diventa manifestazione fisiologica del suo corpo redazionale. Con tanto di sindacato interno pronto a imbracciare il fucile. 

Succede così che Monica Maggioni, direttrice del Tg1, comunichi al cdr della sua testata (Roberto Chinzari, Leonardo Metalli e Virginia Lozito) spostamenti di ruoli e cambi di conduzione in vista della stagione autunnale, quella che vedrà partire anche i nuovi palinsesti, che entreranno in vigore dal prossimo 6 giugno.

Maggioni non si è risparmiata dando il via a un gran ballo di conduttori e a una vorticosa turnazione dei suoi giornalisti che sicuramente è destinata a far storcere la bocca a più di qualcuno. 

Un po’ per cercare di risolvere il caso delle flatulenze in redazione su cui sta indagando la Procura della Repubblica (i protagonisti del gassoso giallo sono stati prontamente separati e destinati ad altre redazioni), un po’ per accontentare le richieste del cdr, la direttrice che in passato è stata anche presidente della Rai, ha comunicato all’interno le sue volontà.

Ai conduttori del Tg delle 20 anche la rassegna stampa del mattino

Prese non molto bene, a occhio, perché malignamente Maggioni ha deciso con un ordine di servizio che i conduttori del Tg1 delle 20, ovvero l’edizione principale del Tg della rete ammiraglia, dovranno a turno occuparsi anche della rassegna stampa alle 6.30 del mattino. Per molti, una inattesa levataccia, che fa a pugni con la comoda e gratificante conduzione serale. 

Così che Emma D’Aquino e Laura Chimenti, volti storici conosciuti dal grande pubblico, hanno già detto di no. Cosa che pensa di fare anche un altro dei mezzibusti più noti, Francesco Giorgino, “offeso” dalla proposta ma frenato sulla strada del gran rifiuto dalla qualifica appena conquistata di vice direttore. 

Nessun problema invece per l’altro conduttore delle 20, Alessio Zucchini, che è anche il più giovane del gruppo, che si è subito allineato senza battere ciglio al nuovo organigramma. 

Sarà Mario Prignano, stimato caporedattore centrale del Tg1 nonché storico medievalista ed esperto di storia della Chiesa, il responsabile del coordinamento anche per il turno dell’alba. Il rapporto con la struttura di Day Time che collabora alla realizzazione della trasmissione, sarà coordinato dal vicedirettore Sabina Sacchi.

Maggioni vuole Fontolan come consulente per Unomattina

L’altro tema che sta facendo discutere nei corridoi delle redazioni riguarda quello che succederà nella nuova edizione di Unomattina, di cui si sa solo che a condurla non sarà più Monica Giandotti, che torna alle origini. 

La giornalista dovrebbe infatti conduzione di Agorà, il talk show di informazione del mattino su Rai3. Giandotti verrà sostituita dal 4 giugno per un anno dalla coppia emergente formata da Giorgia Cardinaletti e Senio Bonini, con quest’ultimo che ancora una volta su Rai3 ha battuto con il suo Agorà extra il segmento principale del programma guidato da Luisella Costamagna. Poco si sa invece per la squadra degli autori.

A parte che Maggioni, e la cosa ha scatenato il malcontento a mille, è determinata ad arruolare Roberto Fontolan (responsabile del Centro internazionale di Comunione e liberazione) in qualità di consulente della trasmissione che parte dopo l’estate. Si parla per lui di un compenso di quasi 200 mila euro. 

Per i maligni un debito di riconoscenza della direttrice verso il giornalista che nell’ormai lontano agosto del 2015 le aprì le porte del Meeting di Rimini, l’annuale festival di Cl, quando era stata da poco nominata presidente della Rai.

La conduttrice del Tg1: “Per punirmi mi hanno messo in stanza con un collega che soffre di flatulenza”. Indagati per stalking i vicedirettori Rai. Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 13 Maggio 2022.  

Dopo la denuncia di Dania Mondini, la procura procede contro cinque giornalisti dirigenti. Tra questi il vicedirettore del Tg1 Filippo Gaudenzi e Andrea Montanari, oggi direttore di Radio Rai 3.

Per punirla l’hanno messa in stanza con un collega che ha problemi di flatulenza ed eruttazioni. Questo è ciò che ritiene la conduttrice del Tg1 Dania Mondini. La giornalista ha denunciato i suoi superiori e il caso è finito in procura, a Roma. Il pm ha aperto un fascicolo per stalking mettendo nel mirino i cinque “giornalisti – dirigenti” indicati dalla Mondini.

Dania Mondini e la denuncia ai 5 dirigenti Rai: i nuovi documenti che ampliano l’inchiesta. Giulio De Santis e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2022.

Per i legali della giornalista ci sono altre «vessazioni» a carico del collega che soffre di flatulenza. Per la Procura generale che ora indaga, «lacunoso» il lavoro dei pm di Roma. 

Difficile che tutto svanisca aprendo una finestra, come qualche frettoloso commentatore auspica: la denuncia di mobbing aziendale attraverso la forzata esposizione al meteorismo di un collega, presentata dalla giornalista Dania Mondini, rischia di ampliarsi. Il criminologo e i difensori della presunta vittima presenteranno, nei prossimi giorni, un’integrazione alla denuncia nella quale sostengono (in estrema sintesi) che in Rai non esistono veri meccanismi di tutela nei confronti dei propri dipendenti, in balia di umori e arbitri dei vertici.

Anche quando, come in questo caso, si è trattato di condividere la stanza con un collega con un disturbo di flatulenza. Come pure che altri manager, oltre ai cinque già sottoposti a indagine, fossero a conoscenza di un problema mai davvero affrontato.

A fronte della richiesta di archiviazione per Filippo Gaudenzi, Marco Betello, Piero Damosso, Andrea Montanari e Costanza Crescimbeni, iscritti sul registro degli indagati per atti persecutori, l’accusa rilancia: il collega che con la sua flatulenza avrebbe afflitto Mondini ha un profilo professionale controverso e tutt’altro che derubricabile a semplice «asociale» della redazione. Rammentano infatti il criminologo Claudio Lo Iodice che assieme agli avvocati Ruggero Panzeri e Francesco Falvo D’Urso assistono la giornalista afflitta dalle meste problematiche dell’uomo come lo stesso dialogasse di promozioni con l’avvocato Paolo Romeo imputato al processo «Gotha» di Reggio Calabria.

Il collega di scrivania della giornalista, secondo il sito «Il Dispaccio» ora valorizzato dai difensori di Mondini, si sarebbe confrontato con Romeo su come procurarsi una raccomandazione in Rai lamentando la propria emarginazione dalla schiera di quanti stanno facendo carriera nelle testate d’infomazione Rai. Tutto da verificare. Tutto da approfondire ovviamente. Ma Mondini, socia dell’associazione antimafia Caponnetto, si chiede se ciò non configuri un’ulteriore vessazione. Intanto restano le motivazioni con le quali la procura generale ha deciso di avocare a sé l’inchiesta affrontata dalla Procura di Roma. Sintetizzando i magistrati avrebbero ritenuto lacunoso l’approfondimento dei pm romani. E «viziate» le testimonianze raccolte in una prima fase.

Almeno quattro dei testimoni ascoltati avrebbero smentito l’assunto della presunta vittima, la giornalista Mondini e minimizzato i fatti esposti. Eppure un quinto giornalista, ascoltato a suo tempo, avrebbe, al contrario, offerto conferme alla narrazione ricostruita nella denuncia. Ora, secondo la Procura generale i quattro potrebbero aver dato prova di una scarsa autonomia. «La situazione di sudditanza psicologica — scrive la procura generale — che in teoria potrebbe essere stata nutrita dai testi ad opera della dirigenza dell’azienda, di cui fa cenno la querelante, non è stata presa in alcuna considerazione».

Dal “Corriere della Sera” il 17 maggio 2022.

Il presidente della commissione antimafia Nicola Morra chiede alla Rai e alla commissione di vigilanza di intervenire in via precauzionale sulla vicenda di Dania Mondini.

Un'inchiesta per mobbing e stalking nei confronti della conduttrice del Tg1 che è stata recentemente avocata dalla Procura generale. La giornalista sarebbe stata oggetto di molestie (sotto forma di flatulenze soprattutto) da parte di un collega di stanza.

L'uomo era stato anche intercettato al telefono con un imputato dell'inchiesta «Gotha» della dda reggina, l'avvocato Paolo Romeo. Ed è questo il motivo che ha portato Morra a formulare una richiesta di sospensione nei suoi confronti: «Quella subita dalla conduttrice - dice Morra - non è solo una molestia nauseabonda. Responsabile di questi abusi e di queste bassezze c'è un uomo che aveva rapporti con esponenti di assoluto rilievo della 'ndrangheta reggina. L'uomo è ancora in Rai. È giusto che conservi il suo posto? Dovrebbe intanto essere sospeso fino alla fine della vicenda, a meno che non si voglia la 'ndrangheta nella tv pubblica». La Rai, finora, ha scelto il silenzio.

Dagospia il 22 maggio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, più di qualcuno nei “palazzi” ha bisogno di riposarsi, forse anche di un dottore di quelli bravi e pazienti. Ancora non si spegne l’eco del “fare” del COPASIR, Comitato Parlamentare di Controllo sui Servizi di Sicurezza, che si occupa degli “ospiti” nei talk più o meno informativi: se siano o meno prezzolati da Mosca (se poi si scopre che intervengono a titolo gratuito e nessuno li foraggia in rubli?) Per scoprire se sono o no agenti di Putin, intanto andranno in trasferta a Washington. Ora la storia della conduttrice del “Tg1” “punita” (non si è ancora capito per quale motivo) anni fa a “convivere” in una stanza con un collega “colpevole” di emissioni anali sgradevoli; parrebbe che il petomane sia stato “intercettato” mentre chiedeva una raccomandazione a un ex parlamentare colpevole di concorso esterno mafioso. Poteva perdere la ghiotta occasione il presidente della commissione parlamentare antimafia, l’indimenticabile Nicola Morra? Certo che no; e prontamente chiede la sospensione del pestifero giornalista, per adesso è sospetto di inquinamento, si vedrà se mafioso o meno. In RAI ci sono circa tremila giornalisti in servizio, e non parliamo di quelli che collaborano a vario titolo. Un’inchiesta per conoscere se, e da chi sono stati raccomandati, ci sta tutta. C’era una volta una Commissione antimafia: da Girolamo Li Causi, a Gerardo Chiaromonte, Pio La Torre, Cesare Terranova… ora Morra; e non è un gioco. Hai voglia di coltivare l’ottimismo della volontà. Incombe il pessimismo della ragione, dice che davvero tutto finisce. Valter Vecellio

La giornalista Dania Mondini: «Dal collega flatulenze e offese. Contro di me il mobbing della Rai». Giulio De Santis e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 15 maggio 2022.

E annuncia di voler depositare nuovi documenti contro i vertici dell’azienda. C’è scarsa tutela della riservatezza e del benessere dei dipendenti a suo dire. Le accuse al petomane di contatti con esponenti della ‘Ndrangheta. 

La giornalista Dania Mondini, con i suoi avvocati, è pronta a depositare nuovi documenti che puntano ai vertici della Rai. La conduttrice del Tg1 sostiene di essere vittima, dal 2018, di una serie di comportamenti del collega che lavora nella sua stessa stanza, affetto da flatulenza, poco attento all’igiene personale, ma anche sconveniente sotto il profilo verbale. Condotte messe in fila nelle denunce di Mondini, che costituiscono la base di un’inchiesta delicata su presunti reati riconducibili a un’attività di mobbing: a partire dagli atti persecutori. E ora la giornalista è pronta a suffragare quelle accuse con nuove testimonianze raccolte in azienda.

In un quadro complesso, perché la Procura generale ha deciso di avocare il fascicolo d’indagine, ritenendo «lacunosa» l’inchiesta della Procura romana. Cavalcando la novità, ossia proprio l’avocazione, legali e consulenti di Mondini (il criminologo Claudio Lo Iodice più i penalisti Ruggero Panzeri e Francesco Falvo D’Urso) depositeranno il risultato di una lunga indagine difensiva che testimonia come tutti, nell’ambiente della redazione, sarebbero stati a conoscenza della situazione invivibile, e nessuno avrebbe mosso un dito per risolverla. Una serie di dirigenti (o altri giornalisti di livello, al momento coperti da segreto) avrebbe testimoniato contro l’azienda, descrivendo come perlomeno traballanti i meccanismi interni di tutela dei giornalisti sotto il profilo della riservatezza e del benessere.

Mondini aggiunge un altro passaggio alla propria narrazione, accusando il collega petomane di contatti con presunti esponenti della ‘ndrangheta. Alla presenza della giornalista, che milita nell’associazione antimafia «Caponnetto», il collega in questione si sarebbe rivolto a Paolo Romeo, avvocato imputato per «Gotha», l’inchiesta reggina su ‘ndrangheta e massoneria chiedendogli di procurargli uno sponsor in Rai che mettesse fine alla sua pretesa emarginazione da incarichi e nomine. Anche questo, il filo diretto con un imputato di mafia, configurerebbe una persecuzione in grado di ingenerare nella conduttrice una fibrillazione.

Mondini denuncia un malessere concreto, al punto da essere più volte ricoverata al pronto soccorso (con tanto di referti) per uno stato d’animo a dir poco prostrato: la Procura di Roma minimizza, proponendo l’archiviazione per i dirigenti anchormen Filippo Gaudenzi, Andrea Montanari, Marco Betello, Piero Damosso e Costanza Crescimbeni, inizialmente indagati. Ma se è vero che non vi sarebbero state lesioni sia pure lievi nei confronti di Mondini, è vero anche che, come sottolinea la Procura generale, gli atti persecutori possono configurarsi anche in assenza di lesioni vere e proprie.

Spunta poi, tra le pieghe della avocazione, il tema del silenzio, la riluttanza da parte delle persone ascoltate a denunciare comportamenti illeciti. Quattro dei cinque dirigenti ascoltati dalla Procura di Roma hanno smentito Mondini? Ebbene per la Procura generale potrebbe essere stata una questione di «sudditanza psicologica nutrita dai testi ad opera della dirigenza dell’azienda». Anche qui si nasconderebbe da parte dei magistrati della Procura di Roma una sottovalutazione di questo tipo di dinamiche. Un invito a evitare minimizzazioni viene anche dal consigliere di amministrazione Riccardo Laganà: «Non si ridicolizzi il percorso doloroso di Mondini» dice.

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 18 maggio 2022.  

«Abbiamo abbandonato la stanza occupata dal collega per il cattivo odore e ci siamo sistemati in quella riservata ai dirigenti della redazione». Ecco la protesta dei colleghi contro il giornalista del Tg1 accusato di emettere flatulenze in redazione. La contestazione ha coinvolto non solo Dania Mondini, ma anche i cronisti Giuseppe Malara e Marco Valerio Lo Prete. Questo è ciò che racconta la stessa cronista in un passaggio della denuncia depositata in tribunale a Roma il 23 novembre 2018. Il mezzobusto del principale tiggì della Rai, si affida al criminologo Claudio Loidice per ripercorre la persecuzione che ritiene di aver subito dai suoi diretti superiori, Filippo Gaudenzi, Andrea Montanari, Piero Damosso, Costanza Crescimbeni e Marco Betello. 

Mondini sostiene di essere stata demansionata e quindi costretta a condividere una stanza con un redattore che aveva problemi di igiene personale, molestava le donne e avrebbe avuto rapporti con un dranghetista, il boss Paolo Romeo. Dopo che la procura ordinaria aveva chiesto l'archiviazione, la procura generale ha avocato a sé il caso: ora si indaga per stalking.

La novità, a leggere la denuncia, è che Mondini non è stata la sola a lamentarsi. Un altro giornalista ha bussato alla porta dei vertici Rai per il caso dei cattivi odori.

Questo è ciò che riferisce la mezzobusto: «Lo Prete ha manifestato il suo disappunto al vice direttore Francesco Primotzich che gli ha suggerito di dire al redattore di lavarsi». 

È l'11 giugno del 2018, la questione è ormai un problema all'interno del Tg1, tant' è che viene indetta una riunione di redazione. Partecipano 15 giornalisti, tranne quello accusato di flatulenze. Questo, secondo Mondini, il risultato dell'incontro: «La direzione pretende che i redattori ordinari restino in stanza con quella persona che non si lava ed emette maleodoranti rumori corporei, dimenticando anche gli episodi di alcuni anni addietro quando lo stesso aveva costruito un dossier di cento pagine sulle abitudini dei colleghi».

Ma non è tutto. Mondini riferisce che Betello avrebbe detto: «Chi non sta nella stanza con il collega non lavora più». Sempre secondo la mezzobusto, quattro giorni prima Gaudenzi avrebbe affermato che i «redattori che non stanno nella stanza con lui, come ha deciso il direttore, devono essere presi a calci in culo». 

I giorni passano e la situazione non migliora, anzi. Mondini sostiene di subire pressioni indebite. Poi il fattaccio. È il 4 luglio, «un'assistente di programma si avvicina al giornalista e quest' ultimo si lascia andare a rumorose, ripetute e maleodoranti emissioni corporee». L'episodio, spiega Mondini, viene raccontato dagli stessi assistenti di programma ai vertici. Dirigenti che, secondo il resoconto, avevano tranquillizzato la redazione dicendo che il cronista avrebbe fatto più attenzione alle flatulenze e all'igiene personale.

«Adesso dicono che si lava e non fa più nulla!», il commento amaro di una dipendente vittima del cronista. «Damosso, Crescimbeni e Betello che hanno ben sentito le proteste hanno fatto finta di nulla e non hanno risposto », spiega sempre la mezzobusto. Adesso anche la Commissione Parlamentare Antimafia, con il presidente Nicola Morra, ha chiesto di sospendere in via precauzionale il cronista. 

Giorgio Gandola per "La Verità" il 14 maggio 2022.

«Aprano le finestre e cambino l'aria». Al settimo piano di Rai-Totò sdrammatizzano ma il piano inclinato sul quale si è avviata l'azienda culturale più importante d'Italia sta diventando ripido. Dopo i videogiochi al posto dei bombardamenti, i freelance a Kiev perché il Tg1 di sua maestà Monica Maggioni non aveva l'inviato, le passerelle giornalistiche alle convention di partito e alle feste dell'Unità, le pesanti ingerenze del Pd sui programmi di approfondimento (vedi Cartabianca), il decalogo del bravo conduttore, i mariti direttori che promuovono le mogli (vedi caso Andrea Vianello), il servizio pubblico in salsa draghiana si interseca con il vaudeville: una conduttrice del Tg1 ha denunciato i suoi superiori per stalking. Con una motivazione che neanche Woody Allen prima del Me too: «Volevano mettermi in un ufficio con un collega petomane».

La vicenda con sfumature farsesche risale al 2018 ma anche grazie alle vie della magistratura (che come si sa sono più infinite di quelle di nostro Signore) arriva ora sulla scrivania dell'ad Carlo Fuortes già ingombra di poco invidiabili dossier. La denuncia è partita da Dania Mondini, mezzobusto del telegiornale della rete di punta, che ha messo nel mirino cinque vicedirettori di allora (Filippo Gaudenzi, Marco Betello, Piero Felice Damosso, Costanza Crescimbeni e Andrea Montanari, oggi direttore di Radio 3) in seguito a diatribe professionali sul suo lavoro in redazione. 

Secondo l'accusatrice, i suoi capi avrebbero deciso di demansionarla imponendole di cambiare ufficio e di condividerlo con un collega che non riesce a trattenere «flatulenze e rutti».

Il problema gastrointestinale del compagno di stanza diventa vessatorio e dirimente, Mondini si rifiuta di traslocare con un «no motivato all'ordine di servizio» e contemporaneamente apre il contenzioso legale. A quel punto, sempre secondo la denuncia della giornalista, la reazione è molto rigida: le vengono affidati servizi di routine e lei viene presa di mira con contestazioni pretestuose per «piccoli errori nella conduzione del telegiornale» come riporta La Repubblica. Da qui l'ipotesi di stalking. In conseguenza di ciò, Mondini subisce uno stress da demansionamento che certifica con referti medici. 

La procura di Roma convoca sei giornalisti indicati come testimoni: cinque smentiscono la persecuzione ma la sesta collega conferma la versione dell'accusa.

Al termine di una valutazione nel merito, la Procura decide di chiedere l'archiviazione: secondo i magistrati non starebbe in piedi l'imputazione per stalking, tutt' al più si potrebbero intravedere i contorni del mobbing. In ogni caso il dossier dovrebbe essere trasferito al tribunale civile. Ma ecco il colpo di scena: la Procura generale riapre l'inchiesta e continua ad approfondire sull'ipotetico reato di stalking. La tortura del peto ci delizierà con nuove, mirabolanti puntate, soprattutto se verrà chiamato a dire la sua in aula il torturatore involontario. 

Secondo il legale della querelante, Ruggero Panzeri, «la mia assistita ha avuto il coraggio di ribellarsi a una situazione che tocca soprattutto le donne. Una vicenda che viene fatta passare per un caso goffo, ma che nasconde molto di più». E si inoltra nel ginepraio delle promozioni redazionali, esclusiva facoltà dei direttori. «Resasi conto che le venivano negate promozioni ad altri concesse sebbene a fronte di minori anni di servizio, ha chiesto alla Rai l'accesso agli atti per comprendere i metodi di valutazione. Atti negati, così abbiamo fatto ricorso al Tar e l'abbiamo vinto. Nelle denunce penali ci sono nuovi elementi probatori».

La storia sta creando non pochi imbarazzi al piano nobile della Rai. Sarà un lungo weekend per l'ad Fuortes, preso in mezzo fra l'audizione dal Copasir, le pressioni della Vigilanza e questo caso dalla profonda valenza sensoriale. «Ma lui è bravissimo a scomparire», spiegano a viale Mazzini, fedele al soprannome inflittogli dopo qualche settimana: «il fantasma dell'opera». Dania Mondini è una giornalista di lungo corso, con un'esperienza a più livelli in televisione nella carta stampata.

Classe 1963, romana, si è laureata in teologia alla Pontificia Università Urbaniana. Nel 1995 è stata assunta al Tg regionale del Lazio e dentro mamma Rai ha fatto una carriera di prim' ordine, lavorando da inviata e curando rubriche tematiche per Rainews24 e Raiuno. Poi ecco l'occasione della vita, condurre un telegiornale. Tre anni fa Mondini ha avuto un certo successo come saggista con il libro L'affare Modigliani. 

Trame, crimini, misteri all'ombra del pittore italiano più amato e pagato di sempre. Un reportage per smascherare il business di mercanti senza scrupoli (circa 11 miliardi), con interconnessioni fra mondo dorato dell'arte, criminalità organizzata e riciclatori internazionali. Un secolo di segreti, ancora oggi solo un'opera su quattro di Amedeo Modigliani è originale. Qualcosa di aulico e tosto prima dell'inchiesta del peto che riporta tutti al piano terra, in fondo a destra.

Stefano Bartezzaghi per “la Repubblica” il 14 maggio 2022.

Quando a Ugo Fantozzi viene assegnato come compagno di stanza Alvaro Vitali il caso è chiaramente estremo. È peraltro proprio ciò che sarebbe capitato a Roma, alla Rai di Saxa Rubra.

Condizionale dovuto per garantismo: la procura ha aperto un fascicolo e indaga, si immagina tra molti imbarazzi e chissà con che metodi. Una giornalista, Dania Mondini, accusa infatti i suoi capi di averla demansionata e quindi spostata a lavorare nello stesso ufficio di un collega affetto da aerofagia. Costui non sarebbe in grado di trattenere neppure le emissioni aeree orali e si immagina allora che quella (presunta!) stanza tanto inospitale potrebbe essere intitolata, anche in ricordo di un glorioso claim aziendale: "Rai. Di rutto, di più".

Altro che smart working. La giustizia farà il suo corso ma è certo che a qualche mese dal ritorno a ranghi pieni nei luoghi fisici di lavoro, dopo aver assaporato piaceri e fastidi della convivenza domestica, molti hanno ripreso confidenza con quelli della prossimità professionale. Abitudini igieniche, tecniche più o meno sorvegliate del corpo, usanze disinvolte... La casistica è nutrita.

La legge Sirchia ha azzerato per tempo le dispute tra fumatori e non, almeno quello: un passo verso la civiltà. Ma nessun Sirchia ha sinora pensato ai molti altri modi, pur meno tossici, di rendere ancor più difficilmente tollerabile la permanenza già di per sé spiacevole sul luogo di lavoro.

A parte forse il gusto, ognuno degli altri quattro sensi ne può essere colpito. Chi dai colleghi consegue problemi all'olfatto ha qualche ragione a pensare che si tratti della fattispecie più molesta: è il senso più primitivo, più pervasivo, più indifeso. Gli affronti all'udito però arrivano quasi a pareggiare i mali odori, anche perché offrono un ancor più ampio ventaglio di possibilità: telefonate magari in viva voce, zufolate, canticchiamenti, battiti ritmici di dita o di penna biro, intercalari ossessivi, dialettalità incontrollate, masticazioni. Consumare cibo sulla propria scrivania reca noie multisensoriali, può offendere contemporaneamente olfatto, udito e anche vista. In quanto al tatto occorre qui prescindere da pacche e palpeggiamenti sessisti, i quali non sono semplicemente fastidiosi ma molesti in senso grave. Tutto un altro discorso. Veniali ma pure assai disturbanti (e, per fortuna, assai più frequenti) sono i tocchetti sul braccio, sulla spalla, i pelucchi tolti, anche qui senza arrivare agli strizzamenti di guancia inflitti a Fantozzi dall'efferato Calboni.

Abbigliamento inappropriato, ostensione di oggetti di dubbio gusto (gagliardetti di squadra nemica o cimeli mussoliniani) colpiscono il senso della vista, che pur essendo quello ritenuto principale ha almeno il vantaggio di poter essere distolto. Occhio non vede, cuore non duole. La vista è casomai il senso che interviene per ultimo, quando la sommatoria di tutte le noie acustiche, tattili e olfattive patite supera il livello di guardia e porta a varcare una soglia senza ritorno e a esclamare: «Quello non lo posso più vedere». La sentenza è inappellabile, giacché da quel momento del tal soggetto darà fastidio persino il semplice nome, la sagoma, la sconsolata certezza che sia sempre al mondo. 

Molestia che timbra il cartellino tutti i giorni, importunità scevra da assenteismo.

Anni fa proprio alla Rai, ma a Milano, si tramandava una leggenda, inverificata, a proposito di un dipendente di rispettabile anzianità aziendale che nel dopomensa esigeva dai colleghi più pivelli un po' di privacy per poter schiacciare un breve ma necessario pisolino in una branda che da tempo immemorabile si era fatto installare a quello scopo nella stanza condivisa. Una pretesa quasi innocente rispetto alla recente notizia delle accuse mosse dalla giornalista.

Se saranno confermate bisognerà, una volta di più, dire che la Rai in certi settori è pura avanguardia. Sì perché a un'allocazione casualmente sfortunata si aggiungerebbe il dolo. E si scoprirebbe così che un ufficio del personale dispone, più o meno formalmente, di una classifica dei dipendenti in ordine di loro potenziale molesto, al fine di assegnarli come vicini di scrivania a chi si vuole fare oggetto di mobbing.

Nell'attuale crisi di disaffezione al lavoro, tanti dipendenti sentono il desiderio di cambiare aria. Alla Rai può non trattarsi di una metafora

Tg1, Dania Mondini fa causa alla Rai: "Chiusa in una stanza col petomane. Rutti e flatulenze, cosa ho dovuto subire". Libero Quotidiano il 13 maggio 2022

Punita dai dirigenti e messa in una stanza con un collega che ha problemi di flatulenza: questa l'accusa che la giornalista del Tg1 Dania Mondini ha rivolto ai suoi superiori. Il caso è addirittura finito in Procura a Roma, come riporta Repubblica. Dopo la denuncia della diretta interessata, infatti, il pm ha aperto un fascicolo per stalking. Sotto la lente delle indagini ci sono i cinque “giornalisti-dirigenti” indicati dalla Mondini. All'epoca - la vicenda risale al 2018 - ricoprivano posizioni di vertice nel Tg di Rai 1.

La Mondini, in particolare, avrebbe raccontato che dopo diversi scontri con alcuni dei colleghi che dirigevano il telegiornale, lei sarebbe stata punita e ridimensionata. In che modo? L'avrebbero messa in una stanza con un collega che, a detta sua, non riuscirebbe a trattenere i peti e nemmeno i rutti. Una situazione piuttosto sgradevole alla quale la giornalista si sarebbe opposta fin da subito con un rifiuto "motivato all’ordine di servizio". Dunque avrebbe deciso semplicemente di non andarsi a sistemare nell'ufficio che le era stato destinato.

La sua reazione però non sarebbe piaciuta ai colleghi-dirigenti che quindi, a quel punto, le avrebbero assegnato solo servizi brevi e banali. E non è tutto. Stando alla versione della Mondini, i colleghi le avrebbero rivolto pure delle violente aggressioni verbali, talvolta motivati da alcuni errori commessi durante la conduzione del tg. Tra i sei giornalisti del Tg1 ascoltati in Procura, cinque hanno negato tutto, mentre una collega ha confermato la versione della Mondini. Alla fine il pm ha deciso di chiedere l’archiviazione. Anche se poi il caso è stato letteralmente ribaltato dalla procura generale, che è intervenuta mettendosi di traverso: il pg ha deciso di avocare a sé l’inchiesta, continuando a indagare per stalking.

Dania Mondini, i peti? "No, ecco cosa puzza al Tg1". La denuncia, ombre sui magistrati: un grave sospetto. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 15 maggio 2022.

Tira un'aria pessima nella giustizia italica, ed è sia la battuta che la notizia. La battuta è fin troppo facile, la notizia è fin troppo surrealista per essere riepilogata con senso logico e compostezza, ma ci proviamo. La Procura generale di Roma indaga per stalking cinque giornalisti: Filippo Gaudenzi (vicedirettore del Tg1), Marco Betello, Piero Felice Damosso, Andrea Montanari (direttore di Radio Rai 3) e Costanza Crescimbeni, all'epoca dei fatti contestati tutti al telegiornale della rete ammiraglia Rai in posizioni di vertice.

I fatti contestati sono i seguenti: costoro avrebbero costretto la denunciante, la conduttrice del tiggì Dania Mondini, a dividere l'ufficio con un collega particolare. Scelto con perfidia ad hoc per una caratteristica extra-professionale: la difficoltà a trattenere fisiologiche emissioni d'aria. Soffrirebbe sia di problemi di flatulenza che di eruttazione, il redattore con cui la banda dei cinque voleva serrare la malcapitata (usiamo il condizionale perché anche lui, poveraccio, ha diritto alla presunzione d'innocenza). Tanto che ella non si è piegata alla vessazione, non ha trasferito la sua scrivania a fianco del collega olfattivamente molesto, scatenando la rappresaglia dei superiori: commissioni di servizi brevi e banali e scenate al primo errore nella conduzione del telegiornale.

La Mondini produce referti medici che comprovano lo stress patito a causa dei demansionamenti, il pm indaga e decide di archiviare, con la precisazione semantica che al massimo saremmo di fronte a un caso di mobbing e non di stalking (il peto incontrollato costituirebbe insomma una pressione indebita più che una vera e propria persecuzione), ma il procuratore generale ribalta tutto e avoca a sé l'inchiesta. Bisogna andare fino in fondo: siamo in presenza di flatulenza sistematica e rutto libero, il che giustificherebbe le accuse andando a comporre un quadro di oggettiva premeditazione e volontà di nuocere, o quelli del vicino di postazione sono derubricabili a episodi isolati, per quanto poco edificanti, magari anche frutto di abitudini alimentari errate?

Non è un referto della neurodeliri, bensì il quesito su cui si scervellerà per i prossimi mesi (ma è più facile anni) qualche magistrato italiano. Ovvero, dello Stato ultimo nel continente per durata media dei processi secondo Cepej (la Commissione per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) e che negli ultimi cinque anni ha pagato circa 574 milioni di indennizzi ai cittadini peri ritardi ciclopici. Non esattamente il sistema che parrebbe poter permettersi il lusso di utilizzare risorse, umane ed economiche, per dirimere i contenziosi sullo stalking gassoso (seppur rigorosamente naturale). Invece questo accadrà, e ci piacerebbe (anche se non siamo sicuri sia il verbo adeguato) sapere come, nel concreto dell'inchiesta. Non per morbosità tardo-adolescenziale, ma per focalizzare il dramma fin troppo adulto, oltre che kafkiano, della giustizia all'italiana. Per cui diventa esercizio intellettualmente affascinante immaginarsi l'istruttoria in tutti i suoi passaggi.

Gli interrogatori, ad esempio, della giornalista offesa ma anche del disgraziato offendente malgré lui, incalzato su tempi, modalità e intensità dell'atto colposo. Non osiamo nemmeno addentrarci nel campo delle possibili perizie e controperizie richieste dalle varie parti in causa, ivi compreso il problema nient' affatto secondario della loro riproducibilità tecnica. Le testimonianze dei vari attori in gioco, poi, potrebbero facilmente incorrere nell'oltraggio alla corte, specie di fronte all'eventuale richiesta di riproporre in aula il microclima presente all'epoca dei fatti nell'ufficio condiviso, evidentemente cruciale per individuare la fattispecie del reato. Ci permettiamo solo un consiglio letterario agli inquirenti, che potrebbero trovare utile per districarsi nell'intricata materia il saggio che Jonathan Swift, l'autore dei Viaggi di Gulliver, le dedicò: "Sul beneficio della scoreggia". Il grande autore satirico irlandese sistematizzava tutta una casistica del fenomeno, distinguendo tra la scoreggia morbida, il peto sonoro, la doppia scoreggia. Era sì satira, ma a posteriori impallidisce, di fronte alla cronaca giudiziaria del Belpaese.

Da ferrucciogianola.com il 19 maggio 2022.

Un detto delle mie parte dice che A parlare di c*** e di m**** l’anima si conserva ed è questo detto che mi ha suggerito questa particolare top ten letteraria.  

Non c’è nessun fraintendimento nel titolo e nessuna intenzione sarcastica.  

Ho cercato di verificare se in letteratura esistono libri e racconti dove gli argomenti trattati sono quelli citati e ne è uscito un post sulle flatulenze.  

Magari ne siete già a conoscenza, ma anche questa è letteratura:  

1 - Nella celeberrima Divina Commedia di Dante Alighieri, l'ultimo verso del Canto XXI dell'Inferno recita: «ed elli avea del cul fatto trombetta», è in relazione all'atto del diavolo Barbariccia che con una flatulenza dà inizio alla marcia della sua cricca di diavoli.  

2 - Il disprezzo de Il giovane Holden di J.D. Salinger, mentre ascolta in una cappella un sermone fasullo di un pastore, viene temporaneamente interrotto quando un ragazzo seduto nella fila davanti a lui, Edgar Marsalla , emette una scoreggia eccezionale.  

3 - Nell’Ulisse di James Joyce - Il protagonista del romanzo, Leopold Bloom, è descritto in una scena dove è seduto con calma sopra il suo odore in aumento.  

4 - Nella Commedia degli errori di William Shakespeare, nel terzo atto, il personaggio di nome Dromio fa un chiaro riferimento alle scoregge 

A man may break a word with you, sir, and words are but wind 

Ay, and break it in your face, so he break it not behind. 

(secondo alcuni critici, negli atti shakespeariani, le scoregge sono più comuni di quanto ci si potrebbe aspettare). 

5 - In Notre-Dame de Paris, Victor Hugo fa emettere rumorosamente una scoreggia a una prostituta.  

6 - Nel romanzo di Erich Maria Remarque, Niente di nuovo sul fronte occidentale, un soldato emette rumorosamente un peto: il suo commento? “Ogni fagiolino fa il suo versino”.  

7 - Nel Racconto del Mugnaio (uno de I racconti di Canterbury di Chaucer), il personaggio di Nicholas sporge il suo sedere da una finestra ed emette un peto in faccia al rivale Absalom. La reazione di Absalom è quella di marchiare il sedere di Nicholas con un attizzatoio ardente. 

8 - Nella novella di De Sade, La filosofia del boudoir, il filosofo e tutore della protagonista pretende che la Marchesa St. Ange emetta una flatulenza su di lui piuttosto che offenderlo facendolo per conto proprio.  

9 - Nel saggio The Benefit of Farting, Jonathan Swift, - autore dei Viaggi di Gulliver - dimostra di essere un profondo conoscitore della flatulenza e spiega che ci sono diverse specie di scoreggia, tra le quali: il peto sonoro, la doppia scoreggia, la scoreggia morbida, la scoreggia umida e la scoreggia vento scontroso.  

10 - Nel Simplicius di Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen, al protagonista Simplicio viene suggerito di trattenere le flatulenze a tavola spingendo più che si può e pronunciando le parole «je pète, je pète, je pète!», naturalmente accade l’opposto. 

Caos in Rai. Dania Mondini, la giornalista del Tg1 messa in stanza col collega che soffre di flatulenza: indagati per stalking 5 vicedirettori. Carmine Di Niro su Il Riformista il 13 Maggio 2022. 

Sarebbe stata punita da cinque colleghi, tutti all’epoca figure apicali del Tg1, il più importante telegiornale Rai, con un demansionamento e addirittura costretta a stare in una stanza con un collega con problemi di flatulenza.

È l’incredibile vicenda, finita in tribunale, denunciata dalla conduttrice del Tg1 Dania Mondini, che ha trascinato in aula i suoi superiori. A darne notizia è l’edizione odierna di Repubblica, che ricostruisce anche il tortuoso e complesso iter giudiziario della vicenda.

Mondini nella sua denuncia per stalking tira in ballo cinque persone, giornalisti-dirigenti del telegiornale dell’ammiraglia: Filippo Gaudenzi, Marco Betello, Piero Felice Damosso, Andrea Montanari e Costanza Crescimbeni.

I cinque, nel 2018, avrebbero elaborato un piano per ridimensionare la giornalista con la decisione di metterla in stanza con un collega che non riesce a “trattenersi”. Una mossa che provoca la reazione di Monini, che oppone un rifiuto “motivato all’ordine di servizio”, ovvero non si sistema in stanza col collega.

Da qui ulteriori ritorsioni, denuncia il mezzobusto del Tg1, che sottolinea come da quel momento le vengono affidati servizi brevi e banali, oltre a subire violente aggressioni verbali a causa di piccoli errori durante la conduzione del telegiornale.

Mondini decide di denunciare il tutto alla Procura di Roma, portando a sostegno della propria tesi anche dei referti medici che ne proverebbero lo stress causato dal ridimensionamento subito a lavoro. I pm di Roma sentono sei testimoni, colleghi giornalisti del Tg1, per capire di più sulla vicenda: di questi però solo una conferma la versione di Mondini.

Di fronte alle difficoltà nel provare le accuse, la procura chiede dunque l’archiviazione del caso, chiedendo al massimo di valutare l’ipotesi di mobbing da risolvere nel tribunale civile. Ma, come sottolinea Repubblica, le sorprese non finiscono qui: il procuratore generale Marcello Monteleone avoca a sé l’inchiesta, togliendola di fatto al pm, e decide di continuare a indagare per stalking i 5 giornalisti della Rai.

Dunque il caso di Mondini e del demansionamento nella stanza del collega che non riesca a trattenere le flatulenza continua…

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Dagospia il 5 maggio 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

il balzello (a mio parere improprio) del canone Rai che nel 2005 è stato imposto sulle bollette elettriche dall’ex premier Matteo Renzi non convince, giustamente, gli organismi comunitari europei. E l’attuale primo ministro, Mario Draghi, appare intenzionato a cassarlo. Ben fatto.

A Palazzo Chigi, leggo, stanno studiando un nuovo meccanismo di riscossione. Ma Draghi avrebbe potuto fare di più (e di meglio) in tempi del rincaro di tutte le fonti energetiche a causa della guerra in Ucraina. Vale a dire, sospendere per un anno il pagamento dei 90 euro sulle utenze elettriche almeno per le fasce sociali più deboli.

Con la rincorsa del costo dell’energia casalinga, la tassa-Rai (vale 500 milioni di euro per l’erario) di fatto annulla gran parte dei benefici (sconti) annunciati dal governo. 

Leggo sul suo sito, non senza meraviglia, l’articolo del giornalista Aldo Fontanarosa della Repubblica che lancia in resta si scaglia in difesa della Rai e dell’attuale pagamento del canone che, bontà sua, ha “funzionato alla meglio e stroncato l’evasione”. 

Il giornalista forse ignora che oltre 15 milioni di euro, come denunciato da “Striscia la notizia”, sono ancora nelle casse dei gestori elettrici. Per aggiungere su mamma Rai: ciò ha consentito al servizio pubblico di chiudere in “sostanziale pareggio e di tenere i conti in ordine” il bilancio 2021.

Dunque, nella Rai degli sprechi, delle marchette e delle pubblicità sublimali, delle comparsate, degli investimenti sbagliati, sono i forzati del canone (anche quelli che non hanno un apparecchio tv o sono morti da anni) a tappare i loro buchi aziendali. 

Ma all’articolista della Repubblica, sponsor di viale Mazzini, tutto ciò sembra non interessare. Difende l’ultimo monopolio di Stato a prescindere, fingendo che oggi i teleutenti non possano scegliere liberamente i canali e le piattaforme (a pagamento) da vedere. Stiamo corrispondendo ancora una tassa sull’apparecchio tv? 

E perché pagare un balzello ad personam e non sul servizio offerto (90 euro) se, non è il mio caso, non voglio più sintonizzarmi con i canali della Rai?  Chi scrive ha impiegato due anni per cancellare tra gli abbonati i suoi genitori purtroppo scomparsi grazie proprio all’attuale iniquo sistema di riscossione che non consente di verificare nemmeno su chi ha lucrato, di furto si tratta, tra la Rai e l’Enel. E non si tratta di casi isolati.

Lettera firmata

Marco Zonetti per vigilanzatv.it l'11 aprile 2022.

Come ogni anno sta per tornare il Premio Agnes, il riconoscimento più autoriferito della Storia dell'Uomo; e con esso ricompare la comitiva di personaggi noti, celebrati e illustri del giornalismo italiano che si premiano a vicenda e, talvolta, si autopremiano in un tourbillon di vichiani corsi e ricorsi da far girare la testa.

Un'autoreferenzialità che si origina fin dall'organizzatrice del premio, ovvero la figlia del compianto Biagio ex direttore generale della Rai, la valente Simona Agnes che oggi siede in Consiglio di Amministrazione della Rai; Consiglio del quale fa parte lo stesso Ad Rai Carlo Fuortes che è anche giurato del Premio Agnes. Rai che, come ogni anno, fa la parte del leone nella spartizione dei vari premi, aggiudicandosene nella prossima edizione 2022 ben cinque, fra i quali uno assegnato all'ormai onnipresente Monica Maggioni, Direttrice del Tg1, malgrado il flop di Sette Storie e i non certo esaltanti ascolti del suo notiziario.

Fra gli ulteriori premiati in casa Rai, troviamo l'altro "prezzemolino" Amadeus - che, fermi restando i suoi meriti come conduttore del Festival di Sanremo, non si capisce per quale motivo vada insignito di un "premio di giornalismo e informazione" come si autodefinisce il riconoscimento, ma tant'è. E poi ancora la fiction di Rai1 Bianca; il film I fratelli De Filippo (prodotto da Rai Cinema); Geppi Cucciari e Giorgio Lauro conduttori della trasmissione Un giorno da Pecora di Rai Radio Uno; lo storico regista e autore Rai Michele Guardì, destinatario di un premio speciale.

Il Premio Agnes andrà poi in onda come di consueto su Rai1 presentato come di consueto dagli amici del cuore Mara Venier e Alberto Matano, amicissimi dichiarati anche di Simona Agnes, il cui ingresso in CdA Rai era amichevolmente auspicato da Gianni Letta, Presidente Onorario del Premio Agnes. 

Tra i giurati del Premio Agnes, anche Aurelio Regina, importante socio della Egon Zehnder alla quale Mario Draghi aveva affidato il vaglio dei curricula degli aspiranti consiglieri Rai, fra cui quello di Simona Agnes. Perdonateci le tante ripetizioni, ma del resto avevamo preventivato che c'era rischio vertigini.

Lasciando da parte "Mamma Rai", tra i giurati del Premio Agnes c'è anche il Direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana assieme a una delle sue firme, Antonio Polito (premiato due anni fa); e la testata di Urbano Cairo si vede assegnare due riconoscimenti, uno ad Angelo Panebianco e uno a Monica Guerzoni. Restando nella grande famiglia RCS di proprietà di Cairo, arriva un premio anche per il Vicedirettore di Oggi Marco Pratellesi. Due premi Agnes gravitano anche nella galassia del Messaggero, il cui Direttore Massimo Martinelli è a sua volta in giuria: uno a Camilla Mozzetti mentre l'altro va all'ex Direttore Virman Cusenza.

Con Alberto Orioli il trofeo approda poi in casa Sole 24 Ore, quotidiano patrocinatore del Premio Agnes attraverso Confindustria e forte di un autorevole rappresentante in giuria, il Direttore Fabio Tamburini, insignito del riconoscimento l'anno scorso racchiudendo in sé il triplice - e mai visto - ruolo di patrocinatore, giurato e premiato. Uscendo dalla carta stampata, quest'anno il Premio Agnes viene tributato alla cronista dell'Adnkronos Ileana Sciarra, e ne sarà contento il Direttore Giuseppe Marra, anch'egli fra i giurati del riconoscimento.

Se quest'anno La Repubblica resta a mani vuote e La Stampa ottiene un solo premio per il giornalismo periodico assegnato a Maria Corbi e Francesca Sforza del settimanale Specchio, per l'ennesima volta sono assenti dal palmares del Premio Agnes quotidiani come Domani, La Verità o Il Fatto Quotidiano, ancorché artefici di varie importanti inchieste nei mesi e negli anni scorsi. Mentre è totale oblio con relativa damnatio memoriae per le testate online, perfino quelle di riferimento come per esempio Fanpage, e soprattutto Dagospia dalla quale i cosiddetti quotidiani "autorevoli" attingono quotidianamente sempre più a man bassa - perlopiù e risibilmente senza neanche citare la fonte, facendo la figura dei copioni e per giunta dentologicamente scorretti. 

In ogni modo, senza nulla togliere a capacità e competenze di coloro che si sono visti assegnare il Premio Agnes, anche nell'edizione 2022 il riconoscimento sembra quindi nascere, dipanarsi e morire all'interno di una cerchia alquanto ristretta, nella quale prevalgono Rai e Corriere. E non bastano i riconoscimenti a Mstyslav Chernov, Evgeniy Maloletka e Vasilisa Stepanenko dell’Associated Press e quello alla carriera a David Robert Gilmour dello Spectator, per non evocare - più che un "premio giornalistico internazionale" - la compagnia de "I ragazzi del muretto".

Marco Damilano ripara in Rai, il nuovo programma fa infuriare tutti: rivolta contro Fuortes. Il Tempo il 04 aprile 2022.

Marco Damilano dopo aver sbattuto la porta del settimanale l'Espresso trova una collocazione in Rai, a ridosso della soap opera Un posto al sole, mossa che ricorda le polemiche per il progetto di programma - mai andato in porto - di Lucia Annunziata anni fa che aveva sollevato un vespaio di polemiche. E anche questa volta l'annuncio di viale Mazzini fa indignare mezza Rai e non solo. 

Da settembre infatti Rai3 manderà in onda una striscia quotidiana di informazione che sarà curata e condotta da Damilano, già direttore dimissionario dell’Espresso e commentatore in numerosi programmi televisivi. La trasmissione comincerà alle 20.35 e durerà dieci minuti. Andrà in onda, annuncia il servizio pubblico, "da uno innovativo studio nella sede Rai di viale Mazzini a Roma". L’amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, e il direttore dell’Approfondimento, Mario Orfeo, hanno "espresso soddisfazione e rivolto a Damilano auguri di buon lavoro per la preparazione del programma", ma nelle reti del servizio pubblico monta già la rabbia. 

Il comitato di redazione del Tg2, ossia la rappresentanza sindacale dei giornalisti, "esprime stupore in merito alla notizia di una striscia informativa che andrà in onda su Rai3 a partire da settembre, con orario previsto alle 20.35, cioè a due minuti dall’inizio del nostro telegiornale. Stupore perché dall’Azienda ci aspettiamo la difesa e la valorizzazione del nostro prodotto, che è risultato dello sforzo dell’intera redazione, non una ’concorrenza interna' che riteniamo fuori luogo e punitiva. Peraltro affidata ad un giornalista esterno alla Rai", si legge in un comunicato del Cdr. I giornalisti del telegiornale di Rai 2 chiedono "all’ad Carlo Fuortes e al direttore Mario Orfeo di ripensare l’orario di messa in onda della nuova striscia informativa, tenendo nella dovuta considerazione gli orari di trasmissione dei prodotti del Tg2 e il lavoro di tutto il personale che ne permette la realizzazione. A loro ricordiamo anche che una striscia informativa, premiata dagli ascolti, più o meno nella stessa fascia oraria c’è già ed è Tg2Post". 

Anche il sindacato Usigrai va all'attacco e non risparmia critiche pesantissime ai vertici: "Ancora una volta l’azienda ricorre ad un giornalista esterno per l’informazione. L’arrivo di Marco Damilano è soltanto l’ultimo caso. In un momento in cui l’ad Carlo Fuortes chiede sacrifici agli interni, ci sembra paradossale che all’improvviso ci siano i soldi per pagare l’ex direttore de L’Espresso, che è un giornalista esterno, quindi con un aggravio di costi per l’azienda. Come si è giunti alla scelta di Damilano? Il direttore Mario Orfeo, prima di ricorrere a un esterno, ha valutato ì curricula degli interni?", si legge nella nota. Il problema è anche di scelte di programmazione: "Non si comprende inoltre la logica di sovrapposizione di palinsesto della striscia di informazione prevista alle 20:35 su Raitre, con il Tg2 che va in onda allo stesso orario -si legge ancora nella nota-. La nuova organizzazione per generi così parte male e invece di migliorare l’offerta apre la strada ad una concorrenza interna che non giova al prodotto di informazione della Rai. Freelance, giornalisti esterni, conduttori esterni, non è questa la strada del servizio pubblico".

Parla di schiaffo ai "più di 2000 giornalisti interni" Lettera 22 che punta il dito sulla "scelta incomprensibile" se non "in una logica di mera lottizzazione". "Un’operazione che ricorda stagioni della Prima Repubblica in cui il servizio pubblico veniva usato come 'ammortizzatore sociale' piazzandovi i giornalisti in uscita dai giornali di partito" con i cittadini "costretti a pagare scelte dettate da logiche di bassa politica". 

Giornali "a scrocco" attraverso i social, sequestrati canali e siti. Il Quotidiano del Sud il 24 marzo 2022.

SONO 32 i canali Telegram, Facebook, Instagram, Twitter ed i siti web sequestrati dai finanzieri del Nucleo speciale beni e servizi nel corso di un’operazione – denominata “Black Screen” – di contrasto alla pirateria editoriale online. Lo stop alla diffusione illecita di giornali e periodici ha lasciato con lo schermo vuoto oltre 500 mila lettori “a scrocco”. Le indagini sono partite nel mese di dicembre dalla collaborazione instaurata dal reparto speciale delle fiamme gialle con la Fieg, la Federazione italiana editori giornali, che ha messo a disposizione i suoi esperti per la verifica, unitamente alle case editrici delle testate interessate, dei canali social e dei siti individuati dai finanzieri.

Ultimata l’analisi dei contenuti finalizzata a circoscrivere le pubblicazioni pirata, è stata informata la procura di Roma, che ha aperto un fascicolo ed avanzato richiesta di sequestro al Giudice per le indagini preliminari.

Il provvedimento dell’autorità giudiziaria è stato, quindi, notificato a gestori e provider interessati e l’illecita diffusione di quotidiani, settimanali, mensili e riviste specializzate immediatamente interrotta.

“La pirateria editoriale – sottolineano gli investigatori – sottrae risorse alle case editrici e danneggia la vendita di prodotti digitali, le cui modalità di diffusione consentono di raggiungere un numero elevato di utenti con costi estremamente limitati, senza contare che il rincaro delle materie prime degli ultimi tempi rende più onerosa la distribuzione con metodi tradizionali anche a causa dell’aumento dei costi per la stampa ed il trasporto di giornali e riviste”. Oltre al rischio di sanzioni, “i lettori che si rivolgono ai canali illeciti si espongono alla concreta possibilità di subire il furto dei propri dati mediante ‘pishing’. Infatti, come contropartita alla lettura gratis, taluni canali espongono link che reindirizzano a proposte commerciali a prezzi particolarmente vantaggiosi o di registrazione gratuita a servizi digitali. Utilizzando questi link, l’utente finisce per mettere i propri dati personali e finanziari nelle mani dei criminali oppure per attivare servizi a pagamento non richiesti”.

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 24 febbraio 2022.  

La vittoria di Achille Lauro a Una voce per San Marino , affermazione che gli permetterà di rappresentare «la Repubblica più antica del mondo» all'Eurovision Song Contest Torino 2022, ci ha ricordato che esiste anche RTV San Marino, visibile sul canale del digitale terrestre al numero 831.

Per buttarci un occhio, mi sono sorbito in prima serata Generazione Z , un colloquio con tre ragazzi collegati via streaming e poi Khorakhanè (è anche il titolo di quella canzone di Fabrizio De André dedicata a una tribù rom di provenienza serbo-montenegrina), un talk serio dove si parlava di disagio giovanile. C'era anche uno spot che preannunciava un programma con il duo Dario Vergassola e David Riondino: portano in tv il loro Corso di recupero per comici televisivi .

Ma l'aspetto più interessante di RTV San Marino è che alla direzione c'è sempre un uomo Rai (ora c'è Ludovico Di Meo), per una convenzione che risale al 1990, quando l'allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, fece visita al Titano per sancire la nascita di una società partecipata al 50% dall'Eras (Ente per la radiodiffusione sammarinese) e al 50% dalla Rai. Da allora, Viale Mazzini fornisce direttore e numerosi programmi. Da dove nasce questa scelta?

La decisione da parte della Rai di prendere la guida di RTV San Marino discende dalla paura che qualche importante emittente straniera potesse installarsi «in casa», in una posizione comoda per fare concorrenza. Era l'epoca delle battaglie con TeleCapodistria, con la stessa tv svizzera di lingua italiana, con TeleMontecarlo. 

Qualcuno voleva installare persino a Malta un trasmettitore per raggiungere l'Italia. Meglio prendere sotto tutela i trasmettitori del Titano. All'Eurovision Song Contest i sammarinesi non possono votare per Achille Lauro ma possono per Mahmood e Blanco. Gli spettatori italiani possono votare per Achille Lauro (sempre che arrivi in finale).

Antonella Clerici sconvolta, "veramente io ero in linea per...": cosa esce di bocca al concorrente. Libero Quotidiano il 23 febbraio 2022.

Imbarazzo a È sempre mezzogiorno. Nella puntata andata in onda mercoledì 23 febbraio su Rai 1, Antonella Clerici ha come sempre preso le telefonate degli spettatori. Questa volta però è stata diversa: la conduttrice si è ritrovata a parlare con una telespettatrice che aveva sbagliato numero, o meglio, programma. "Veramente io ero in linea per giocare con i Fatti Vostri, perché sono qui?", ha chiesto la signora mentre la Clerici ha tentato di sviare con un sorriso:"Non lo so, adesso chiamo Salvo Sottile e glielo chiedo".

Per la conduttrice non è però la prima volta. Spesso accade che il pubblico da casa vuole partecipare al "gioco del porcellino" su I Fatti Vostri in onda su Rai 2 e invece si ritrovano a parlare con È sempre mezzogiorno. Il motivo potrebbe essere del centralino, il numero unico che smista le telefonate per partecipare ai giochi sui programmi In diretta della Rai.

Dato che Clerici e Sottile sono in onda contemporaneamente capita che qualcuno possa fare confusione. E infatti la spiegazione della conduttrice è stata questa: "Il centralino dei giochi della Rai è unico... Dovremmo risolvere questo problema, così come abbiamo risolto il problema del cellulare". A buon intenditor...

“Rolex e suite di lusso”. L'inchiesta sugli appalti Rai fa tremare i manager della tv pubblica. Andrea Ossino, Giovanna Vitale su La Repubblica il 23 febbraio 2022.   

Mazzette e corruzione, arrestato l’ex capo Acquisti della tv di Stato: bracciali banconote e pepite d’oro nascosti nei vasi del giardino a casa della madre. Nell’ordinanza di custodia cautelare si svela “un sistema di irregolarità diffuse”.

 «Quella Rai… omissis… ha sempre corrotto tutti, dando soldi a non finire… omissis… e adesso vedrai che scoprono Roma... omissis… eh, gli orologi». Bastano venti omissis per far tremare i piani alti di Viale Mazzini.

L’inchiesta, nata tra le bancarelle del mercato ortofrutticolo di Milano, ha già portato all’arresto dell’ex capo della Direzione acquisti della Tv di Stato, Gianluca Ronchetti.

Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” - articolo del 19 febbraio 2022 il 21 Febbraio 2022.   

Non chiamatela Frattocchie 2.0, dice Gianni Cuperlo. Ma il suo "corso di politica" che coinvolge oggi e domani quasi un migliaio di attivisti, soprattutto giovani (i relatori saranno al Nazareno, gli altri collegati da pc), richiama il modello figiciotto, aggiornato. Obiettivo: formare le giovani leve del partito e sottrarle al correntismo smanioso di questi tempi.

«Ci sono due modi di selezionare la classe dirigente di una forza politica - ragiona Cuperlo - Si può puntare sulla fedeltà ai capi di turno oppure investire sulle persone, sulle loro capacità. Noi cerchiamo di percorrere la seconda strada». 

Meno capibastone, più studio, è il mood, spiega l'ex deputato Pd, che a Frattocchie c'è stato, prima tessera a 15 anni alla federazione dei giovani comunisti. E che ancora ricorda di quando si attovagliava con Pajetta in un'osteria dietro Botteghe Oscure: «Mi spiegava cos' era la disciplina». Ecco allora il ritorno dei seminari, in tutto saranno 5. Titolo del corso "Partecipazione e democrazia".

Mille attivisti col bloc notes, a prendere appunti davanti a Prodi, Gentiloni, Letta, Fassino ma anche Andrea Vianello e Giovanna Botteri. Un mix di politica e comunicazione (perché la politica è anche comunicazione, oggi), con un occhio ai venti di guerra in Ucraina: ne parlerà l'ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci. Aprirà i lavori Lucio Caracciolo, direttore di Limes. 

Gentiloni parlerà di Europa domattina. Oggi pomeriggio invece lectio di Prodi sul "mondo dopo la pandemia", introduce Enrico Letta. La scuola di Cuperlo è al secondo anno. A colpire il presidente della fondazione Pd, stavolta, è stata la carrellata di adesioni. Mille. In gran parte ragazzi fra i 16 e i 30 anni.

 Contrasta con la narrazione dei giovani indifferenti, sfiduciati verso i partiti. «L'antipolitica ha stancato», è convinto Alberto Bortolotti, architetto di 28 anni, segretario del Pd di Porta Venezia, Milano. Cita Berlinguer: «La questione morale, tra i ragazzi, è ancora sentita. Ma la pandemia ha fatto da spartiacque, si è capito che un politico oltre ad essere onesto, deve anche essere competente». Lorenzo Tinagli, 25 anni, consigliere Pd a Prato, si collegherà col tablet. Crede che la «gavetta sia importante». Meglio così «che ritrovarsi catapultati in Parlamento senza sapere nulla».

Delle Frattocchie conosce «la mitologia». «Lascerei stare Frattocchie - riprende Cuperlo - È stata una grande palestra, ma è una stagione chiusa. Il punto è che un partito ha bisogno di definire la sua cultura politica». Le mille iscrizioni? «Confermano il bisogno di qualche tweet in meno e qualche lezione in più». 

Andrea Ossino,Giovanna Vitale per "la Repubblica" il 23 febbraio 2022.

«Quella Rai omissis ha sempre corrotto tutti, dando soldi a non finire omissis e adesso vedrai che scoprono Roma... omiss is eh, gli orologi». Bastano venti omissis per far tremare i piani alti di Viale Mazzini. L'inchiesta, nata tra le bancarelle del mercato ortofrutticolo di Milano, ha già portato all'arresto dell'ex capo della Direzione acquisti della Tv di Stato, Gianluca Ronchetti. A cui apparterrebbero le buste zeppe di contanti per oltre 194 mila euro e decine di anelli, bracciali, pepite d'oro e Cartier rinvenuti il 31 gennaio nella casa della madre, nascosti dentro i vasi del piccolo giardino all'Aurelio.

I proventi, secondo gli inquirenti, delle mazzette che stanno seminando il panico nel quartier generale Rai. "Colpa" dei passaggi oscurati nell'ordinanza di applicazione delle misure cautelari anche a carico di due imprenditori lombardi, i fratelli Giorgio e Andrea Gnoli. Segreti che, una volta concluse le indagini, potrebbero inguaiare altri manager del servizio pubblico. Gli omissis riguardano infatti «un sistema diffuso di irregolarità attuate da dipendenti Rai per favorire l'aggiudicazione di appalti ad alcuni operatori del settore dei servizi di facchinaggio e manovalanza per gli allestimenti scenici nei centri di produzione di Milano e Roma», si legge nell'ordinanza.

Frutto dei «mutamenti dell'assetto organizzativo» che ormai impone anche all'emittente di Stato di applicare il «codice dei contratti pubblici». In sostanza: nelle gare che la controllata del Tesoro ha centralizzato ormai otto anni fa c'è qualcosa che non funziona. Da tenere però coperto finché la Finanza non avrà completato il lavoro coordinato dal pm Claudia Terracina. Dai documenti e dalle intercettazioni emergono 190 contratti di affidamento alla famiglia Gnoli fra il 2015 e il 2019. A stipularli era sempre la Direzione Acquisti guidata da Ronchetti. 

Il quale - in cambio di soldi, beni di lusso e favori - assegnava gli appalti diretti o con procedure negoziate sotto la soglia dei 40 mila euro per bypassare i controlli. Gli atti dell'inchiesta contengono tutti i cliché tipici della corruzione in salsa romana. Fra i regali compaiono due Rolex Daytona, suite all'Hotel Yard di Milano in occasione della partita Roma-Inter, viaggi a Saint Tropez. Persino la chat di gruppo aveva un nome da B-movie: "Martedì gnocchi".

A farne parte, oltre ai fratelli Gnoli, erano i tre dipendenti della tv pubblica Bruno Bortolotto, Corrado Pirola e Massimiliano Mazzon, responsabile dei contratti, con cui - secondo la procura - gli imprenditori avevano «rapporti diretti ». Sono i due imprenditori a rivelare l'esistenza di fondi neri con cui il padre e lo zio pagavano ogni mese 15 mila euro a Ronchetti e ad altri uomini della Rai di Milano. «Lo stipendio veniva calcolato a misura della importanza del funzionario» e poteva oscillare tra i 1.000 e i 2.000 euro. In questo modo gli indagati avrebbero ottenuto decine di affidamenti, anche per Sanremo Young . Un affare per gli Gnoli e per i dipendenti infedeli. Meno per l'azienda di Stato: «Dal 2014 al 2017 sono stati spesi sempre importi maggiori rispetto a quelli che Rai ha investito per i medesimi servizi nel 2013», scrivono gli inquirenti. Il costo della corruzione.

Estratto dell'articolo di Matteo Pinci per "la Repubblica" il 23 febbraio 2022.

Tremano in sessanta. Dirigenti, amministratori delegati, persino alcuni calciatori: tanti sono i soggetti che in queste ore hanno visto notificare la chiusura dell'indagine della Procura federale sulle plusvalenze gonfiate. 

Oltre a 11 società coinvolte nella pratica di scambio di calciatori a cifre che hanno spinto la Covisoc prima e poi il procuratore della Federcalcio Giuseppe Chinè ad approfondire.

L'indagine in ogni caso non avrà lo stesso peso per tutti. Perché tra le società ce ne sono alcune a cui è stata notificata la chiusura indagini ipotizzando un effetto di queste plusvalenze gonfiate sui requisiti per l'iscrizione al campionato.

Una situazione che, se dovesse essere riscontrata dai giudici federali, potrebbe portare a delle penalizzazioni ma anche all'esclusione dai campionati. Sarebbero 3 i club in una condizione simile. Anche uno di Serie A.

Delle 62 operazioni di mercato "segnalate" dalla Covisoc alla Procura - Repubblica anticipò la notizia a ottobre - non tutte sono finite nell'indagine della Federcalcio. 

Soprattutto sono state escluse alcune delle 42 che vedevano protagonista la Juventus: ad esempio, non sono più nel dossier gli affari Pjanic-Arthur col Barcellona (scambiati per 60 milioni più un conguaglio di quasi 12 in favore del Barça) e Cancelo-Danilo con il Manchester City (dove invece è stata la Juve a garantirsi un incasso di quasi 28 milioni).

In ogni caso, i bianconeri restano parte attiva in più della metà dei trasferimenti "attenzionati", s'indaga sui dirigenti, attuali o dell'epoca, visto che sono state prese in considerazioni operazioni di mercato dal gennaio 2019 al gennaio 2021.

Discorso che vale però anche per le altre squadre coinvolte: Napoli, per la supervalutazione dei ragazzi delle giovanili e un terzo portiere inseriti nell'affare Osimhen per un totale di 20 milioni, e poi Genoa (gli affari Rovella, Portanova e Petrelli con la Juve), la Samp, l'Empoli, il Parma, il Pescara, il Pisa, la Pro Vercelli, il Chievo (scomparso) e il Novara, che svolge solo attività giovanile. 

Carofiglio in onda, Veltroni dice di no. E RaiTre si conferma ancora "TelePd". Paolo Bracalini il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Programma all'ex senatore, offerta anche per l'ex segretario.  

«I partiti non bussano alla mia porta», diceva. «Il mio piano industriale sarà una rivoluzione, i partiti restano fuori», annunciava. «Il nuovo modello Rai allontanerà l'invadenza dei partiti», giurava. E invece già poco dopo, al momento delle nomine nei tg, spartite con il manuale Cencelli, si era capito che l'ad Carlo Fuortes i partiti li sentiva eccome. «Qualche interlocuzione c'è stata», ammise, minimizzando. Altro che interlocuzione, è finita che i palinsesti dei programmi Rai li decide direttamente il Partito Democratico. E li conduce pure. L'ex segretario del Pd, ed ex ministro dei Beni culturali tuttora influentissimo nel settore, Walter Veltroni, doveva sbarcare in primavera su RaiTre per condurre un programma dal titolo Storie (non originalissimo, ma comunque molto veltroniano), sotto la supervisione del vicedirettore della rete, Ilaria Capitani (che nel 2006 prese un'aspettativa dalla Rai per andare a fare la portavoce del sindaco di Roma. Che era? Sì, proprio lui, Uòlter). Poi però Veltroni ha preferito fare altro, come spiega a Dagospia: «Se ne era discusso nei mesi passati perché mi era venuta un'idea che al direttore di Rai tre era sembrata interessante. Tuttavia già l'otto febbraio ho comunicato al direttore che, per altri impegni di lavoro, non avrei potuto né condurre né partecipare come autore al programma». La Rai gli ha spalancato gli studi tv, ma lui aveva altro da fare. Peccato.

Ma, rivela il Fatto, Veltroni non sarebbe stato l'unico volto Pd a farsi un programmino tutto suo a Mamma Rai. In arrivo infatti sugli schermi del servizio pubblico c'è l'ex senatore Pd Gianrico Carofiglio, magistrato, scrittore, e poi candidato in Parlamento nel 2008 da chi? Ma sì, sempre da lui, Uòlter, che all'epoca faceva il leader e candidato premier del centrosinistra («La Puglia ha bisogno di legalità» lo slogan con cui lanciò il magistrato Carofiglio nelle liste Pd per il Senato, in Puglia).

Per Carofiglio la Rai ha pensato un format apposito, Il Dilemma, in sei puntate. Sempre su RaiTre, rete lottizzata militarmente dalla sinistra fin dalle origini, prima Pci, poi Ds, quindi Pd. È vero che anche Carofiglio, come Veltroni, non siede più in Parlamento, ma l'ex senatore riveste comunque un ruolo nel Pd, chiamato dal segretario Letta per fare l'«osservatore» nel progetto delle Agorà democratiche, «il più grande esperimento di democrazia partecipativa del Paese» (cit). Ma Carofiglio ha risolto in fretta il dilemma se fare la tv pubblica o la politica: entrambe. Un problema che invece non è mai esistito per Walter Veltroni, da sempre uno e trino. Eterno candidato a tutto (Colle compreso), scrittore prolifico, regista premiato, editorialista del Corriere della Sera, sempre con uno spazio riservato nella tv di Stato (e a Sky, che gli produce la qualunque). Recentemente Veltroni ha diretto un documentario per la Rai, qualche tempo fa è stato autore di un programma su RaiUno con Flavio Insinna. In un modo o nell'altro, un posto nel palinsesto Rai per il Pd si trova sempre. Anche senza bussare all'ad Fuortes. Paolo Bracalini

Da striscialanotizia.mediaset.it l'11 gennaio 2022.

Scoop di “Rai Scoglio 24”. Un insider, programmista-regista da vent’anni in Rai, fa rivelazioni scottanti a Pinuccio: nomi, cognomi e magagne della tv di Stato. 

«Lavoro per Raiuno, sono un programmista-regista. Siamo almeno un migliaio interni», racconta la fonte. Viale Mazzini, però, anziché affidarsi a loro (dipendenti comunque stipendiati dalla Rai), spessissimo si avvale di programmisti-registi esterni: alcuni addirittura con contratti artistici, che quindi non hanno limiti di retribuzione. 

«Io personalmente da interno non facevo nulla», prosegue l’insider. «Sono anche andato dal capo del personale, a cui ho denunciato più volte la situazione, ma mi ha risposto che facevo demagogia. È un sistema consolidato in Rai: gli esterni rappresentano il potere politico, forze lavoro nuove che vengono inserite tramite le agenzie di spettacolo nelle reti Rai. Chi sono le persone colluse con questo sistema? Innanzitutto i direttori…». 

Nuove rivelazioni nella prossima puntata di “Rai Scoglio 24”. 

Quanto ci costa davvero la Rai? Storia del canone, la tassa più odiata dagli italiani. Stefano Balassone  su Il Domani il 9 Gennaio 2022.

In Italia ogni nucleo familiare abbonato paga 25 centesimi per giorno come fonte del finanziamento del “Servizio Pubblico”, mentre per il tedesco ne sborsa €0,58, l’inglese €0,50, il francese €0,38.

Alle sorgenti dell’odio, che si dice maggioritario, per il canone sta la sovrapposizione della fazione allo Stato e il mito della tv gratuita.

Il Presidente del Consiglio, il Ministro dell’Economia e il Ministro dello Sviluppo Economico del 2016 tagliarono il canone e le prospettive di senso del Servizio Pubblico. 

STEFANO BALASSONE. Critico, produttore e autore televisivo. Le sue pubblicazioni: La TV nel mercato globale, 2000, Come cavarsela in TV, 2001, Piaceri e poteri della TV, 2004, Odiens, sbirciando l'Italia dal buco de

AIUTARE LA CONCORRENZA. Lo scippo per legge del canone Rai per finanziare tv private e giornali. Daniele Martini su editorialedomani.it il 5 gennaio 2022. Con il pagamento del canone attraverso il bollettino della luce è diminuita l’evasione e aumentato il gettito. Gli incassi aggiuntivi non sono stati però lasciati alla Rai, ma dirottati su un Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione.

In totale sono 110 milioni di euro l’anno con i quali vengono beneficiate centinaia di televisioni e radio locali e un gruppo di periodici e giornali, da Dolomiten a Famiglia Cristiana e Avvenire, Manifesto, Secolo d’Italia, Italia Oggi, Libero e Il Foglio.

L’amministratore della tv pubblica, Carlo Fuortes, vorrebbe poter contare su quelle risorse per mettere a posto i conti della Rai, ma governo e Parlamento non gli hanno prestato ascolto.

Daniele Martini per editorialedomani.it il 5 gennaio 2022. La Rai è l’unica azienda al mondo che finanzia la concorrenza. Lo fa malvolentieri e se potesse si sottrarrebbe al compito, ma non può perché il balzello è imposto per legge. La norma prevede che una parte degli introiti del canone televisivo riscossi attraverso la bolletta della luce siano fatti transitare dalla Rai a un Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione. 

Si tratta di 110 milioni di euro l’anno che vanno a finire in larga parte nelle casse delle tv e radio commerciali locali. Nel 2021 la quota versata a queste televisioni e in misura minore alle radio è stata di 66 milioni di euro, quest’anno sarà probabilmente più alta di cinque milioni grazie a uno degli ultimi commi della legge di bilancio la cui formulazione lascia però margini di ambiguità.

La ripartizione delle risorse viene stabilita dal ministero dello Sviluppo economico, in questo momento guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti, che periodicamente aggiorna le liste degli aventi diritto e la cifra spettante a ognuno di essi. L’elenco comprende 137 tv e 163 radio commerciali, più 301 tv e 320 radio «comunitarie» (cooperative, opere diocesane, parrocchie, associazioni culturali, eccetera). 

La quota restante dei 110 milioni del Fondo per il pluralismo è destinata a una lista di giornali e periodici, 107 in totale comprese otto pubblicazioni per le minoranze linguistiche, beneficiati in base a criteri applicati dal sottosegretario alla presidenza del consiglio con la delega all’editoria, il senatore Giuseppe Moles di Forza Italia, un politico che i giornali presentano come fedelissimo di Silvio Berlusconi.

In pratica i 22 milioni circa di italiani che ogni anno pagano i novanta euro del canone Rai finanziano a loro insaputa con cinque euro a testa anche televisioni locali private che non vedranno mai, radio di cui ignorano l’esistenza e giornali nei confronti dei quali nutrono come minimo indifferenza.

Negli elenchi c’è proprio di tutto. In cima alla lista delle tv c’è Telenorba, televisione molto seguita in Puglia e nel sud, a cui viene concesso un contributo di un milione e 700 mila euro. Per le altre 136 televisioni il sussidio è a scendere fino a un minimo di 25 mila euro per Tlt Molise 1. Per le radio il range degli importi va da un massimo di 247 mila euro per la milanese Radio popolare a un minimo di nove mila euro per la piemontese Radio studio aperto.

In cima alla lunga lista delle tv comunitarie c’è TeleclubItalia (141 mila euro) e poi dal 56esimo posto una sfilza di 256 televisioni beneficiate con 3.778,92 euro a testa. Umbria radio Inblu con 89 mila euro apre la lista delle radio comunitarie che in coda annovera 244 emittenti a cui viene concessa la somma di 3.114,20 euro ciascuna. 

Molto più elevati gli importi per i giornali: più di tutti incassa Dolomiten, quotidiano in lingua tedesca di Bolzano, sei milioni e 176 mila euro. I giornali cattolici Famiglia cristiana e Avvenire prendono rispettivamente sei e cinque milioni di euro, poi c’è l’editoriale Libero (5,4 milioni di euro), Italia Oggi (quattro milioni), Il Manifesto (tre milioni), Il Foglio (un milione e 800mila euro).

Tutto ciò è frutto di una riforma approvata ai tempi del governo di Matteo Renzi che aveva come scopo quello di spezzare le reni all’evasione di massa del canone Rai. Un obiettivo che è stato pienamente centrato perché oggi il canone è pagato con la bolletta elettrica da circa sette milioni di italiani in più rispetto a sette anni fa e il tasso di evasione è precipitato dal 27 per cento del totale al cinque per cento. L’importo del canone nel frattempo è diminuito, da 113,50 euro nel 2015 a cento nel 2016 a novanta euro degli anni successivi. 

Essendo cresciuta in modo considerevole la platea dei paganti è cresciuto anche il gettito complessivo che in media ora è di circa due miliardi di euro l’anno. Ma tra Fondo per il pluralismo, Iva al quattro per cento, e tassa di concessione governativa, le risorse a disposizione dell’azienda Rai sono rimaste le stesse, anzi, sono addirittura diminuite da un miliardo e 662 milioni di euro del 2013 a un miliardo e 649 milioni.

I quattrini riscossi in più grazie al canone non sono stati considerati dal governo Renzi e da quelli che sono venuti dopo come un recupero dell’evasione da destinare al legittimo destinatario finale della tassa, cioè la Rai. È stata invocata la fattispecie dell’extragettito in base a un ragionamento di questo tipo: è vero che gli incassi aggiuntivi sono frutto di una tassa di scopo e del miglioramento del sistema di riscossione del canone, ma siccome i soldi non hanno colore, allora li diamo ad altri senza però farlo sapere a nessuno.

I vertici Rai si sono sentiti raggirati e sollecitati dal sindacato interno Usigrai hanno presentato sette anni fa un ricorso al presidente della Repubblica. In tutto questo tempo, però, giustizia non è stata fatta e il Consiglio di stato a cui per prassi il presidente ha trasmesso la faccenda, non è stato neanche messo nelle condizioni di poter esaminare la questione per poi esprimere un parere perché dai ministeri e in particolare da quello dello Sviluppo economico non ha ricevuto le carte e le informazioni richieste. A gennaio di due anni fa i magistrati hanno chiesto di nuovo la documentazione idonea agli uffici ministeriali con tre sentenze distinte senza però ottenere risposta. 

Arrivato con il compito dichiarato di mettere a posto i conti della televisione pubblica, il nuovo amministratore Rai, Carlo Fuortes, in una delle prime audizioni davanti ai parlamentari della commissione di Vigilanza ha messo in evidenza l’anomalia dei quattrini riscossi per la Rai, ma regalati ad altri.

Di quei soldi aggiuntivi Fuortes avrebbe bisogno come il pane perché dal 2008 in poi i ricavi per la pubblicità si sono dimezzati, da un miliardo e 187 milioni di euro a 557 milioni. Fuortes sperava che governo e partiti gli dessero retta inserendo una qualche modifica, magari un emendamento alla legge di bilancio del 2022, ma non l’hanno accontentato. 

È stato confermato il criterio dell’extragettito Rai e reso permanente il Fondo per il pluralismo con annessi i 110 milioni di euro che a suo tempo era stato invece presentato come temporaneo. Sapendo di poter contare senza esitazioni sulla benevola accoglienza dell’informazione Rai, governo e partiti hanno deciso di continuare a coltivare a suon di risorse prelevate dal canone una pletora di televisioni private, radio e giornali che al bisogno possono tornare sempre utili. Soprattutto le tv private, megafoni sempre aperti alle richieste di qualsiasi amministratore locale e fondamentali per i candidati quando ci sono le elezioni.

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 5 gennaio 2022. Si dice (e si constata) che la stampa, non solo italiana, stia attraversando una crisi allarmante. Le copie cartacee di quotidiani e periodici sono molto meno diffuse rispetto ad anni fa. Purtroppo è vero e ciò addolora noi che lavoriamo e ci guadagniamo da vivere nel settore zoppicante. Ma dobbiamo amaramente registrare che anche le televisioni, pubbliche e private, sono in sofferenza. Il problema in parte si giustifica a causa della affermazione di Internet, cioè delle tecnologie grazie a cui la gente rimane in perenne contatto con l'informazione, più o meno di qualità.

I cosiddetti social poi dominano la scena, coinvolgono il popolo, il quale in pochi anni si è convinto che le notizie e i commenti siano gratis e oltretutto lo invitino direttamente a partecipare ad ogni sorta di dibattito. 

Questo è noto. Però esiste una aggravante che riguarda proprio i programmi in onda sul piccolo schermo, totalmente scaduti, con qualche rara eccezione. Prendiamo i telegiornali. Sono tutti uguali, ripetitivi, noiosi, punto interessanti. I servizi sono scontati e proposti con scarsa professionalità.

A un certo punto scatta un collegamento con Parigi o Londra. Compare un corrispondente che dice quattro bischerate prive di qualsiasi originalità sul COVID o su una seduta dai contenuti incomprensibili dell'Unione Europea.

Domina sempre la pandemia in qualunque servizio corredato di tabelle delle quali fai a tempo a leggere due cifre, poi scompaiono cosicché non capisci nulla. Ricorrono spesso le immagini di una fabbrica del Sud che chiude i battenti perché in procinto di delocalizzare. Segue intervista lagnosa a un paio di sindacalisti scandalizzati.

Mai un accenno alle ragioni degli imprenditori che in Italia sono sempre considerati mascalzoni, affamatori di operai e relative famiglie. Ed ecco un filmato che documenta l'uso delle mascherine e pone l'accento sugli assembramenti pericolosi ai fini dei contagi. 

Due palle vicine all'esplosione. I fatti di cronaca, quelli della vita, sono liquidati in fretta e furia. Quindi la politica: la battaglia per il Quirinale il cui esito preme soltanto ai partiti dei quali non importa a nessuno.

Rapide sequenze su Mattarella e su Draghi, roba dozzinale che non spiega assolutamente nulla. Di quello che succede nella tribolata società italiana, neanche un cenno o solo un cenno. 

Questo andazzo accomuna qualsiasi canale. C'è un'aggravante. I conduttori hanno sempre fretta, chiacchierano velocemente e non afferri il senso dei loro discorsi. Insomma una grande confusione e una totale incapacità di comunicare in modo colloquiale.

Quando poi terminano i notiziari, con grande sollievo degli spettatori, attacca la pubblicità, perfino peggiore del resto. Gli spot sono talmente fumosi che non riesci neppure a comprendere quale sia il prodotto reclamizzato. Trionfano materassi e divani, poltrone e utensili di cui si ignora la funzione. I famosi consigli degli acquisti sono pessimi sotto il profilo estetico, più scadenti dei tg che dovrebbero raccontarci il Paese.

Un esempio. C'è una inserzione visiva riguardante una assicurazione che mostra un'auto con tre passeggeri e un cane. Si ode un fragoroso peto. Che serve per invitare gli spettatori a sospettare di chi si frequenta. 

Per completare il quadro squallido, un altro spot in cui si accenna alle feci dure da eliminare con un farmaco. Questa antologia di schifezze va in onda durante le ore dei pasti. Siamo a livelli sottoterra. 

·        Mediaset.

Gabriele Marchetti: «“Ciao Darwin” e l’incidente che mi ha reso tetraplegico. Bonolis? Non mi ha mai cercato». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2022.

Parla Gabriele Marchetti, il concorrente della trasmissione di Canale 5 «Ciao Darwin» rimasto paralizzato dopo un gioco. «Ora sono senza autonomia e dipendo totalmente da mia moglie e mio figlio». 

Con un velo d’imbarazzo, Gabriele Marchetti, il concorrente della trasmissione «Ciao Darwin» rimasto tetraplegico dopo essere scivolato sui rulli durante la prova del «Genodrome», dice di non saper descrivere quello che prova, e invece le sue parole sono un pugno nello stomaco per come raccontano la sua tragedia: «Prima di quel giorno ero un uomo che faceva mille cose. Adesso per me è finito tutto».

Da quel giorno, il 17 aprile del 2019, sono passati più di tre anni, ben 1152 giorni: «Ma Paolo Bonolis non mi ha mai cercato per sapere come sto. Neanche persone a lui vicine mi hanno mai contattato». Tiene a sottolineare Marchetti che «soltanto qualcuno della produzione all’inizio si è fatto sentire per telefono e per mail con la mia famiglia per conoscere la mia condizione fisica. Si sono messi a disposizione per ogni eventuale nostra necessità. Poi però non ci sono stati altri contatti».

La sua seconda vita, quella seguita al drammatico incidente, è un susseguirsi di giornate «noiose e molto lunghe poiché non posso fare niente, nessuna attività – dice Gabriele - Sono completamente privo di autonomia e dipendo totalmente da mia moglie Sabrina e mio figlio Simone per lo svolgimento di ogni atto quotidiano». Nella sua prima vita, Gabriele, un omone dolce e molto coraggioso, rimarca con orgoglio e inconsolabile nostalgia un punto fermo: «Ho sempre lavorato e mi sono dedicato alla famiglia».

Anche il giorno della tragedia aveva lavorato: «Come sempre d’altronde. Poi verso le 11 sono andato presso gli studi televisivi della Titanus per la registrazione della trasmissione». Nel ricordare i giorni precedenti all’appuntamento con «Ciao Darwin», Gabriele non nasconde di essere stato «contento per la novità di poter partecipare a una trasmissione televisiva e fare una nuova esperienza. Avevo condiviso, come sempre, con Simone e Sabrina quest’avventura. «Pensavo di passare una serata diversa e divertirmi» dice Gabriele che nella testa ha marchiato a fuoco ogni frammento degli istanti successivi alla caduta dai rulli: «Ero finito in acqua a testa in giù, con le gambe rannicchiate e le braccia raccolte – ricorda - Pensavo che sarei affogato perché non riuscivo a muovere nulla. Poi ho sentito i soccorritori che sono intervenuti immediatamente».

I rulli sui cui è caduto Marchetti – assistito dagli avvocati Federica Magnanti e Giovanni Ciano - sono al centro del processo a quattro dirigenti, di cui due al vertice di Rti (Reti televisive italiane, società confluita in Mediaset), accusati dal pm Alessia Miele di lesioni gravissime perché la loro superficie sarebbe stata resa «scivolosa» per rendere più difficoltosa la prova. Quando ha riaperto gli occhi, per Gabriele è arrivato il maledetto verdetto: sarebbe rimasto tetraplegico, per sempre. «Per me è stato il crollo totale – confessa Gabriele - Mi sono sentito disperato, come i miei familiari poiché ci siamo ritrovati da un giorno all’altro con la vita completamente stravolta». Cosa gli manca, tra le tante cose che non potrà più fare? «Amavo tanto giocare a calcetto».

"Bonolis non mi ha mai cercato": lo sfogo del concorrente di Ciao Darwin rimasto invalido. Francesca Galici il 13 Giugno 2022 su Il Giornale.

Gabriele Marchetti da 3 anni soffre di una tetraparesi a causa di un incidente occorso durante la prova del genodrome di Ciao Darwin.

Gabriele Marchetti è il concorrente di Ciao Darwin vittima di un incidente durante lo svolgimento di uno dei giochi più amati del programma condotto da Paolo Bonolis, il genodrome. Era una sorta di giochi senza frontiere concentrato in un tempo più limitato e con giochi studiati per mettere alla prova le capacità atletiche dei concorrenti. Ma qualcosa durante la prova di Gabriele Marchetti è andata storta e l'uomo, da quel giorno, deve fare i conti con una tetraparesi.

Quella partecipazione doveva essere una parentesi divertente in una delle tante giornate trascorse da Marchetti tra famiglia e lavoro. "Poi verso le 11 sono andato presso gli studi televisivi della Titanus per la registrazione della trasmissione", ha ricordato l'uomo, intervistato dal Corriere della sera. "Pensavo di passare una serata diversa e divertirmi", spiega ancora ma durante il gioco dei rulli, una caduta ha cambiato per sempre il corso della sua vita. "Ero finito in acqua a testa in giù, con le gambe rannicchiate e le braccia raccolte. Pensavo che sarei affogato perché non riuscivo a muovere nulla. Poi ho sentito i soccorritori che sono intervenuti immediatamente", racconta, con i ricordi ancora vividi di quella giornata.

L'uomo è assistito dagli avvocati Federica Magnanti e Giovanni Ciano ed è in corso un procedimento giudiziario per appurare le responsabilità di quanto accaduto. Il pm Alessia Miele accusa quattro dirigenti di lesioni gravissime perché, in base a quanto emerso, la superficie dei rulli sui quali è caduto Gabriele Marchetti sarebbe stata resa maggiormente scivolosa per aumentare il livello di difficoltà della prova. Marchetti, che è sempre stato un uomo molto attivo e sportivo, oggi ammette di essere completamente dipendente da sua moglie e da suo figlio, che devono aiutarlo in ogni azione delle sue giornate, "noiose e molto lunghe poiché non posso fare niente, nessuna attività".

Durante l'intervista, Gabriele Marchetti ha dichiarato di non aver mai avuto contatti con il conduttore del programma: "Paolo Bonolis non mi ha mai cercato per sapere come sto. Neanche persone a lui vicine mi hanno mai contattato". Ammette che all'inizio ci sono stati alcuni scambi con qualcuno della produzione, che "si è fatto sentire per telefono e per mail con la mia famiglia per conoscere la mia condizione fisica. Si sono messi a disposizione per ogni eventuale nostra necessità. Poi però non ci sono stati altri contatti".

Ciao Darwin, il concorrente paralizzato smentito dalla sua legale: dopo l'incidente, Paolo Bonolis...Libero Quotidiano il 14 giugno 2022

Ha fatto molto discutere l'ultima intervista di Gabriele Marchetti rilasciata al Corriere della Sera. L'uomo era diventato tetraplegico a causa del gioco 'Genodrome' nel talent show televisivo Ciao Darwin condotto da Paolo Bonolis, esattamente il 17 aprile 2019. Durante l'intervista Marchetti ha accusato il conduttore romano di non essersi mai fatto vivo e di non essersi mai interessato sulle sue condizioni di salute. Sulla questione sono subito dopo intervenuti i legali di Bonolis a chiarire le dinamiche. 

L'avvocato Federica Magnanti, legale dello stesso Marchetti, ha dichiarato al Corriere della Sera: "Paolo Bonolis ha chiamato una volta la moglie e una volta il figlio di Gabriele Marchetti. Queste due telefonate sono avvenute nei giorni successivi all’incidente. Qualche mese dopo, invece, la moglie di Bonolis ha cercato la moglie di Marchetti, perché interessata a sapere come stesse il mio assistito". La versione sarebbe quindi molto differente da quella rilasciata da Gabriele. 

Marchetti, secondo quanto ha aggiunto il Corriere, avrebbe anche ritirato la querela contro i responsabili della trasmissione a fronte di un risarcimento da Rti, la somma erogata dalla società però non è stata resa nota. Procede comunque il processo penale che vede quattro persone imputate e accusate di lesioni, ovvero Sandro Costa e Massimo Porta (della società Rti, confluita in Mediaset), di Massimiliano Martinelli (Maxima) e di Giuliano Giovannotti (Sdl 2005), che si occuparono della selezione dei partecipanti e delle attrezzature per i giochi dello show.

La nascita del Tg5 trent’anni fa, con la promessa di credibilità. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2022.  

Dai complimenti di Berlusconi al messaggio d’auguri del presidente Cossiga fino al primo intoppo tecnico: i ricordi del compleanno del notiziario di Mediaset.  

Martedì 13 gennaio 1992 andava in onda il Tg5 diretto da Enrico Mentana. Il Corriere ne dà notizia il giorno seguente con due articoli nelle Cronache italiane: la recensione del critico (di tutto il pezzo salverei una frase: «Ci sarebbe ancora un aggettivo per definire la qualità di un Tg, credibile. La credibilità è il bene più prezioso dell’informazione, la sua pulizia: insegna a promettere poco e dare molto. Auguri al Tg5 di Enrico Mentana. Ma il difficile viene ora») e il pezzo di cronaca firmato Corrado Ruggeri. Molto più interessante. C’è il racconto dell’arrivo al centro di produzione Safa Palatino di Cristina Parodi su un’Alfa 164 con autista, «una specie di zucca fatata che la porta, da Cenerentola del 2000, nel mondo dell’informazione miliardaria».

Silvio Berlusconi si materializza su uno schermo per i primi complimenti dopo l’edizione delle 13: «Mi piacciono pulizia, ritmo e scelta delle notizie». Si insiste molto sul fatto che il nuovo tg si rivolge alla gente più che al Palazzo. C’è il commento di Biagio Agnes, ex presidente della Rai: «Copiare per copiare, hai copiato le 13,30 invece delle venti». Spiega Mentana: «Tradotto dal “raiese” vuol dire che secondo Agnes ho scelto la linea popolare». Il presidente Cossiga manda un messaggio di auguri: «Mi auguro che il Tg5 con la sua corretta informazione accompagni i cittadini italiani nel loro sforzo per la rifondazione di una Repubblica fondata sul nuovo patto nazionale all’insegna della democrazia e della libertà». Dal raiese al cossighese. Poi c’è il commento al primo intoppo tecnico, su un delitto di Firenze, con il servizio che dalla regia non parte e, per concludere il primo cicchetto di Mentana «severo ma con garbo». Non si capisce bene però a chi si rivolga: «Non ti preoccupare, anch’io ho sbagliato il primo giorno, ero troppo gasato. Abbassati di un tono, ma non smettere mai di essere entusiasta». Trent’anni fa.

Pier Silvio Berlusconi : «30 anni di Tg5, un punto di riferimento». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2022.

Clemente Mimun, direttore dal ‘94, traccia il bilancio di questi trent’anni.  

«Trent’anni e sembra un soffio. Mi pare ieri che eravamo a casa di Mentana con Lamberto Sposini. Ci facciamo una chiacchierata con un caffè. Enrico mette giù le idee e le scrive a macchina con una Lettera 32 su un foglio giallo, 10 righe di piano editoriale da presentare a Silvio Berlusconi che era il nostro editore. Creammo un tg diverso, dalla parte degli spettatori, fuori dalle logiche del Palazzo». Il 13 gennaio 1992 nasceva il Tg5. «Il primo giorno fu elettrizzante: battemmo il Tg1 di Vespa di tremila spettatori».

Clemente Mimun, direttore dal 2007, traccia il bilancio di questi trent’anni. «Io non amo particolarmente gli scoop, in Italia si riducono a nient’altro che un verbale della Procura e io ne faccio volentieri a meno perché sono un modo per fare il tifo per uno o per l’altro. Il nocciolo è fare bene il proprio mestiere giorno per giorno, raccontare la quotidianità in modo interessante. La mia linea editoriale è sempre la stessa: “informare senza annoiare” (formula cara a Enzo Biagi) e “i fatti separati dalle opinioni”, scelta storica di Lamberto Sechi». Il Tg5 ha avuto solo tre direttori: Enrico Mentana, Carlo Rossella e Mimun appunto. «La continuità è un elemento di grande forza rispetto ai tg Rai che nello stesso periodo hanno cambiato direttore ogni 2-3 anni. Siamo tre persone completamente diverse, ma animate dalla stessa passione, mai divisi da nessuna invidia. Mentana è un fuoriclasse anche e soprattutto davanti alla telecamera, e poi è un grande motivatore; Rossella è apparentemente più pacato, ma il suo gusto sul piano internazionale e del costume ha trasformato il notiziario in un tg brillante, elegante, pieno di cose. Nel tg che faccio io invece c’è sempre molto ambiente, i temi legati alla difesa degli animali, il costume come spinta al made in Italy perché penso che bisogna aiutare il Paese. Siamo i primi sul target commerciale, che è quello che interessa ai pubblicitari, imbattibili da trent’anni».

Pier Silvio Berlusconi ha sottolineato che «il Tg5 è riconosciuto come un punto di riferimento assoluto dell’informazione italiana. Trent’anni di credibilità, modernità, innovazione conquistati grazie al lavoro di tutti i giornalisti del tg, del fondatore Enrico Mentana e alla bravura dei suoi successori Carlo Rossella e Clemente Mimun». Qual è il suo rapporto con l’editore? «Noi fin dal ‘92 sappiamo che ci lascia assoluta libertà. Quando Silvio Berlusconi è sceso in campo, nonostante qualche pretestuosa critica, il Tg5 non è mai stato fazioso. Il lavoro di Pier Silvio è sotto gli occhi di tutti: ha ottimizzato l’azienda sul piano organizzativo e ha fatto di tutto per darci i mezzi tecnologici più moderni, all’altezza dei grandi network mondiali».

"Un miracolo senza numero 0 e grazie a 10 comandamenti". Valeria Braghieri il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Dall'esordio con Mentana fino alla lunga era Mimun Storia del notiziario Mediaset, "che partì nel caos..."

«Una simpaticissima situazione, voi potete benissimo immaginare». Quei minuti da riempire in onda, in attesa di lanciare un servizio che non arriva, quello sull'omicidio di Genova, valevano già tutto Enrico Mentana e la sua formidabile tagliola lessicale. A chiunque altro sarebbero salite onde di panico nel petto. «Ancora un attimo... Sentiamo la regia... D'altronde il nostro è un telegiornale neonato e questa prima edizione delle 20 non poteva che iniziare con l'attesa di un servizio...». La cornetta bianca del telefono interno, gli occhiali sistemati compulsivamente, una montagna di riccioli e il disagio raschiato in gola. Non arrivò il servizio sul giallo di Genova, bensì quello sull'omicidio di Firenze. Ma in quel momento lui, Mentana, e Mediaset, e lo studio Palatino «in» Roma, erano dentro, nel centro pieno, di qualcosa di grande e gli imprevisti, valevano l'avventura. Era il 13 gennaio 1992. Ed erano le 20 perché chi gioca nella serie A dei tiggì, gioca alle 20. Bisognava fare ciò che nessuno osava fare: andare contro la corazzata del Tg1 in prima serata, e contro quella del Tg2 all'ora di pranzo. E per questo c'era Silvio Berlusconi. Che lo spiegò bene «ai suoi», ancora prima di cominciare, conquistandoli col suo seducente progetto: se facciamo un notiziario, bisogna sfidare i grossi notiziari. Si andò a piazzare proprio dove tutti gli altri scappavano. E, complice la legge Mammì che aveva appena consentito le trasmissioni in diretta anche per le emittenti private, pretendo in cambio uno spazio di informazione, Berlusconi catapultò sugli schermi il suo Tg5 e l'Italia in avanti di vent'anni. Le sigle, i colori, le luci, i titoli di cronaca, il pastone politico snello, il linguaggio diretto. «Informare senza annoiare» sintetizzò poi Clemente J. Mimun, uno dei direttori più longevi della testata Mediaset (gli altri sono stati Mentana e Carlo Rossella), nonché attuale direttore. Quindi la formazione: Mentana, Parodi, Buonamici. Crederci per essere credibili. Enrico alle 20, Cristina alle 13, Cesara a mezzanotte. E gli spettatori in poltrona, impazienti e inchiodati allo schermo da piccole fitte di aspettativa: era finita la routine della solita tv. Salpava il notiziario dell'ammiraglia Mediaset e presto speronò il servizio pubblico in termini di ascolto e popolarità. Andò a prendersi il target pregiato, assieme alla legittimazione sociale, alla cittadinanza sociale che solo una tv munita di informazione può avere. E che informazione. Scoop, interviste, copertura «totale». Con l'estetica berlusconiana perfettamente incarnata dagli Sposini, dalle Parodi, dalle Buonamici... Dinamica, solare, vincente. Il Tg5 entrava nelle case così: attraente benchè severo. Crescere, senza invecchiare fino ad arrivare ad essere «istituzionali» è stato il mantra del nuovo tg. Improsciuttato tra il quiz della sera e l'access prime time di Striscia la Notizia e dei suoi mostruosi ascolti. «Oggi il Tg5 compie trent'anni ed è riconosciuto come il punto di riferimento assoluto dell'informazione italiana» commenta con orgoglio Pier Silvio Berlusconi.

E Mimun ripercorre la storia della sua creatura «libera e agile»: «Ricordo perfettamente quel primo giorno. Mentana si esibì in uno slalom nello studio perché i pezzi non si trovavano. Pensavamo che sarebbe stato un disastro e invece il giorno dopo scoprimmo che con più di sette milioni avevamo battuto il Tg1. Mentana ci convocò in casa sua. C'eravamo Lamberto Sposini ed io. Prese un foglio giallo, lo infilò nella macchina da scrivere e scrisse i dieci comandamenti del tg da mandare a Berlusconi. Il tutto tra caffè e risate. Andammo in onda senza aver mai fatto un numero zero». Se lo ricorda bene anche Mentana, infatti: «È come una bellissima casa che si è costruita. Poi, come succede nella vita, si cambia casa, ma resta il bellissimo ricordo di averla edificata, lanciata, di averci vissuto a lungo».

L'intervista di Mentana al piccolo Farouk Kassam nello speciale delle 22, quella di Sposini al giudice Paolo Borsellino, o lo stesso Sposini che sbrana un pollo in diretta durante la psicosi per l'influenza aviaria... «Un telegiornale meno paludato rispetto a quello della televisione di Stato, con un carattere più informale, pronto a dare più spazio alla cronaca. Ma anche a caccia di scoop e rigoroso nel racconto delle crisi del tempo, come ad esempio quella di Tangentopoli», è così che lo descrive Emilio Carelli che nel 1992 ha partecipato alla fondazione della testata Mediaset.

Lui e tutta quella squadra di giovani adulti che «fecero l'impresa». Valeria Braghieri

Cesara Buonamici, inquietante sospetto sulla pandemia: "Lo avevo capito sin dal primo speciale". Gianluca Veneziani Libero Quotidiano il 14 gennaio 2022.

In occasione dei 30 anni del Tg5 che cadono oggi (auguri!), arriva la benedizione dell'ad di Mediaset Piersilvio Berlusconi: «Il Tg5 è riconosciuto come punto di riferimento assoluto dell'informazione italiana», avverte. «30 anni di credibilità, modernità e innovazione sono stati conquistati grazie al lavoro dei giornalisti del tg che hanno contribuito a renderlo un vero e proprio servizio per il pubblico». E di quella storia è fondatrice e testimone diretta Cesara Buonamici, la più longeva a livello professionale delle giornaliste del Tg5.

Buonamici, il 13 gennaio 1992 lei condusse la prima edizione della notte. Che ricordi ha?

«Per cominciare, una grandissima ansia. E poi l'immagine di un impegno totalizzante: in quel periodo lavoravamo continuamente. Riguardando la prima edizione, mi chiedo perché indossassi quella giacca di color cammello, un colore che non ho mai più portato. Quasi non mi riconosco (sorride, ndr). Finimmo quella prima giornata stremati, ma l'indomani i risultati ci diedero ragione».

Qual è il motivo del successo perdurante del Tg5?

«Penso che il Tg5 abbia conservato l'anima degli inizi: è un tg serio ma non serioso. Noi non volevamo fare le veci del servizio pubblico, ma stare dalla parte della gente. La protagonista deve restare la notizia: bisogna farsi capire, senza dare messaggi trasversali o parlare in burocratese».

E qual è il segreto che le permette di restare da 30 anni a condurre il Tg5?

«Il mio segreto è non avere segreti. Io sono quella che i telespettatori vedono in tv. Non ho mai pensato di costruire il mio personaggio e alla gente a casa è piaciuto questo modo di fare».

Il direttore Mimun ha detto di lei: «Cesara è la più brava conduttrice di tg in Italia. Non ha bisogno di mettersi di sbieco come la Gruber o di far finta di sapere tutto come la Busi».

«Mi ha fatto piacere leggerlo. Conosco la Gruber da anni. Lei ha il suo stile, io ne ho un altro. Non la critico perché è brava. L'importante è non costruirsi diversamente da come si è».

Non ha mai pensato di poter diventare lei direttrice del Tg5?

«Non ci penso né sono smaniosa di diventarlo. Mimun ha quel quid in più di visione che gli permette di fare da guida. Per essere direttore ci vuole il talento dell'allenatore».

Ha mai avuto offerte da altri Tg?

«Ho avuto in passato due offerte dalla Rai e una da La7. Però ho sempre scelto di rimanere qua perché quest'azienda ti rispetta e ti lascia libero. Mentre in Rai ho sempre visto la politica come un elemento caratterizzante che può portarti in alto ma può anche farti precipitare».

Tra le colleghe chi ammira di più?

«Alessandra Sardoni è bravissima. Ormai nei tiggì ci sono tante donne, abbiamo occupato molti spazi. Nel nostro settore non c'è alcuna discriminazione».

Giusto esibire il crocifisso in conduzione come fa Marina Nalesso del Tg2?

«Io sono molto religiosa, ma non penso abbia senso mostrare il crocifisso al Tg».

Tifa per una donna al Quirinale?

«Non riesco a riconoscermi in questa battaglia. Sono amica delle donne, ma vinca il migliore, non perché donna. Le battaglie per le quote rosa non fanno per me».

Nel febbraio 2020 pronunciò una frase profetica sul Covid: «È più di un raffreddore, non è la peste».

«Sì, ma è qualcosa che non conosciamo ancora perfettamente. Già dai primi speciali che ho fatto in tv avevo capito che non ce ne saremmo liberati rapidamente. Ai No Vax direi: se non ci fosse questa massa di vaccinati, staremmo a contare un numero di morti enorme. Ci riflettano su». 

·        Il Corriere della Sera.

DAGOREPORT il 18 ottobre 2022.

C’è una bella differenza da quando il “Corriere della Sera” consentiva ai suoi lettori di leggere gratis, in anteprima, un capolavoro come “Il profumo” di Suskind e i markettizzati tempi odierni in cui i lettori si ritrovano a dover forzosamente acquistare, a pagamento, il romanzetto di Simona Sparaco per poter leggere il “Corriere della Sera”. 

Di sabato, infatti, il “Corriere” costa 3 euro poiché è obbligatorio prenderlo con “Io Donna” e, adesso, pure con l’allegato di “Io Donna”, ovvero il romanzetto di Simona Sparaco, “La vita in tasca”, una storiella di due ragazzini, Mattia e Malik, che ‘’nasce su invito dell’Unicef per sostenere la scuola nei paesi disagiati’’. Il quale, per giunta, è dato in più volumi, così in più sabato si è costretti a queste modalità di acquisto.

A questo punto, a qualcuno, sarà pur venuto il gusto di sapere chi sia cotanta scrittrice. Ebbene, ve lo diciamo noi. È niente po’ po’ di meno che la giovane seconda moglie di Massimo Gramellini, vicedirettore del “Corriere” portato dal patron, Urbano Cairo, in via Solferino, pare con un lauto stipendio. La quale, va detto, è già finita in finale del premio Veltroni-Strega, quello che assegnano al ninfeo di Villa Giulia gli Amici della domenica, essendo Veltroni-officianti più o meno tutti gli scrittori-colibrì utilizzati in via Solferino. 

Sparaco, grande sostenitrice del #metoo, è molto cosciente della difficoltà del ruolo delle donne, come disse in una intervista a “Libreriamo”: “La grande sfida di oggi per le donne è essere valorizzate quanto gli uomini. Sono, infatti,  troppi i settori in cui sono sottostimate. Non bastano le quote rose per ottenere davvero dei risultati”. 

No, per ottenere dell’altro ci vogliono altri mezzi perché “essere donne oggi non è facile”, sebbene, “rispetto a ieri, come donne siamo sicuramente più fortunate e viviamo una condizione privilegiata” (ah ecco!).

Del resto a molte mogli dei vicedirettori del “Corriere” si sono spalancate straordinarie opportunità di scrittura e di successo: perché non sarebbe dovuto accadere anche per quella di Gramellini? 

Quella di Giampaolo Tucci è una scrittrice di ricette e diventata responsabile dell’area Food del “Corriere”. Quella di Venanzio Postiglione di salute e benessere (oltreché consigliera di amministrazione di società musicale). Per tutte non mancano foto e pagine. Ci sono poi due doppie coppie interne: lei vicedirettore e lui inviato/scrittore. Un “Corriere” fatto in famiglia, insomma,

Dagospia il 6 ottobre 2022. COMUNICATO SINDACALE

Cari lettori, il Corriere della Sera e il sito Corriere.it oggi e domani non avranno le firme dei giornalisti del vostro quotidiano che, in questo modo, intendono protestare contro la decisione dell’azienda di chiusura del tavolo di confronto sulla flessibilità del lavoro, utilizzata per fare un giornale di qualità anche nei momenti più complessi degli oltre due anni di pandemia, e per il pessimo stato delle relazioni sindacali con l’azienda. I giornalisti del Corriere, inoltre, sono ancora in attesa di conoscere i dettagli industriali della fusione tra Rcs Mediagroup spa e Rcs Edizioni locali che l’azienda, in una comunicazione al Cdr, al momento ha posticipato. Troverete le firme dei collaboratori, molti pagati a pezzo e al minimo contrattuale, che altrimenti perderebbero la loro retribuzione.

Il Cdr

(Domenico Affinito

Gian Luca Bauzano

Giuditta Marvelli

Maria Rosaria Spadaccino)

RISPOSTA DELL'EDITORE

La fusione per incorporazione di Rcs Edizioni Locali in Rcs MediaGroup rappresenta un passo importante di valorizzazione delle edizioni locali che avranno modo di partecipare con maggiore coinvolgimento alla vita della azienda e contribuiranno meglio, con questa nuova organizzazione, alla qualità e alla completezza informativa del Corriere della Sera.

L'azienda ribadisce inoltre che i contenuti indipendenti, autorevoli e di qualità del Corriere della Sera sono il risultato di una tradizione di lavoro in presenza che valorizza il confronto, il dibattito e lo scambio di opinioni tra i giornalisti. 

Per questo l'Azienda ritiene che, dopo un periodo di emergenza in cui lo smart working ha funzionato, sia ora il momento di tornare al modello lavorativo in presenza. Infine si ricorda che il Corriere può contare su una redazione di 470 giornalisti dipendenti a cui si aggiunge un parco di collaboratori di oltre 1.700 persone, risorse fondamentali che contribuiscono alla qualità informativa quotidiana, e verso cui l'Azienda nutre il massimo rispetto.

Corriere della Sera condannato: per i giudici inglesi non fa giornalismo. Renato Farina su Libero Quotidiano il 18 agosto 2022

Il giudice inglese ha impartito in 8 pagine secche e ironiche, com' è nello stile della giustizia di Sua Maestà, una lezione di civiltà al Corriere della Sera e ai suoi giornalisti. In sintesi: non si dà notizia di un'indagine su Tizio e Caio, facendone nome e cognome, senza interpellare l'interessato e comunque anticipando in edicola o sul web l'avviso di garanzia, modo sicuro per rovinare la reputazione di una persona. Direte: che c'entra l'Alta Corte di Sua Maestà? Pazienza e vedremo come e perché "Rizzoli Corriere della Sera Group, Fiorenza Sarzanini, Mario Gerevini, Fabrizio Massaro" debbano intanto pagare le spese legali, e saranno chiamati nel prossimo novembre a difendersi in sede civile dall'accusa di diffamazione. Nel linguaggio cinematografico e televisivo quel che abbiamo scoperto sui guai del Corriere della Sera a Londra è uno spin-off, una filiazione della trama principale. Nel nostro caso trattasi di un ramo fiorito per conto suo dal tronco del grande processo del millennio in corso in Vaticano sulle presunte mascalzonate connesse alla compravendita del Palazzo sito a Chelsea, London, numero 60 di Sloane Avenue. Per intenderci, stiamo parlando del processo chiamato impropriamente "Becciu", dal nome dell'imputato più famoso tra i dieci, laici ed ecclesiastici. Impropriamente due volte, perché il cardinale sardo con quel Palazzo non c'entra nulla. È vero che è stato privato da Francesco il 24 settembre del 2020 del diritto ad entrare nel prossimo conclave con una "crocifissione cautelare" ancora in corso. A spulciare però lettere e relazioni rintracciabili tra le 30mila pagine depositate dal Promotore di Giustizia (la Procura vaticana), si evince che il porporato di Pattada, al tempo dei maneggi su 60-Sloane (primavera 2019 e seguenti), non era in condizione di decidere alcunché sul "Palazzo dello scandalo". Ne sapremo di più - si spera - da una fonte giudiziaria indipendente.

Infatti, come ha raccontato in esclusiva Libero lo scorso l'11 agosto, tra poco partirà un processo parallelo sul Tamigi. Ma il sottoscritto che ha firmato l'articolo dev' essere stato anch' egli intossicato dal fumus persecutionis prodotto a tonnellate dai quotidiani del triangolo magico del potere (Torino, Milano, Roma). Così ho attribuito l'imputazione di corruzione a Raffaele Mincione, finanziere che aveva indicato per primo l'investimento nel mattone crimine per cui neppure il professor Alessandro Diddi, pm vaticano, si è mai sognato di chiedere il rinvio a giudizio. Errore di cui mi scuso, tanto più che Mincione, sicuro del suo retto agire, è colui che ha chiamato la Segreteria di Stato della Santa Sede davanti alla "Alta Corte d'Appello civile d'Inghilterra e del Galles" dove è stata condannata a pagare 300mila sterline, aprendo la strada a novità che promettono di essere sorprendenti.

OSSO SEPOLTO La premessa si è fatta lunga, ma necessaria per capire come ci è finito tra le mani qualcosa che se ne stava nascosto come una talpa nel sottosuolo delle notizie che siccome danneggiano la Voce del padrone sono silenziate. Il fatto è che gli avvocati di Mincione, il giorno di Ferragosto, mi hanno via pec preannunciato querela se non mi fossi corretto.

Accertato il mio errore, cui ho appena rimediato, ho cercato di capire se quelli promessi dai legali di Mincione fossero, come spesso capita, tuoni senza fulmini. Ho consultato "Bailii", dove le sentenze inglesi (non le carte segretate!) sono attingibili in totale trasparenza. Ed ecco l'osso sepolto . La sentenza è stata depositata e resa pubblica dal giudice, onorevole Master Davison, lo scorso 12 agosto, al termine del primo round tra le parti, cioè Mincione contro Corriere & C. L'8 novembre del 2019 Fiorenza Sarzanini aveva pubblicato sul Corriere della Sera, cartaceo e web, un presunto scoop: «Roma, la truffa del palazzo venduto al Vaticano con i soldi di Enasarco». In base a «fonti confidenziali» l'attuale vicedirettrice del quotidiano affermava (e afferma ancora: il testo è ancora su Internet) che Mincione è indagato per «associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla truffa». Segue altro articolo sul web, ad opera di Mario Gerevini e Fabrizio Massaro, in cui si accusa Mincione di essersi «appropriato indebitamente di parte del denaro (200 milioni di dollari) investiti dal Vaticano» sempre in relazione a 60-Sloane. Il giudice manifesta addirittura stupefazione per il costume italiano di pubblicare sui giornali avvisi di garanzia prima che dell'essere indagato sia informato il diretto interessato. Tutto questo mr. Davison se l'è trovato sotto il naso, tranquillamente rivendicato come prassi del rito giornalistico italiano, e perciò impunito e accettato. Questa tesi gli è stata proposta senza alcun rossore nel parere pro-veritate di un avvocato del nostro Paese, nell'udienza del 27 luglio scorso dai legali inglesi dei "defendants". In questa fase del rito civile inglese non siamo ancora al giudizio di merito, se cioè ci sia stata o no diffamazione. Intanto l'Alta Corte della Giustizia di Sua Maestà, sezione Media e Comunicazioni, ha sentenziato che il cittadino italo-britannico Raffaele Mincione, residente a Londra, ha pieno diritto a farsi valere in Inghilterra, ha tacciato di «genericità» le argomentazioni dei «convenuti» (defendants) e toccherà ad essi rifondere le spese legali a Mincione, che saranno quantificate a settembre ma che - ci siamo informati - supereranno le 30mila sterline. 

PRASSI INACCETTABILE Davison ridicolizza le tesi corrieriste. Trascrive con un moto di trasalimento le parole dell'avvocato Adam Wolanski: «(Le circostanze da tenere in considerazione da parte del giudice, ndr) "devono, ovviamente, includere gli standard legali e giornalistici applicabili in Italia nel momento in cui gli articoli sono stati preparati e pubblicati". Ha affermato che se la tesi dell'attore (Mincione) era che il giornalismo dei convenuti (Corriere & C) in relazione agli articoli doveva essere giudicato solo con riferimento agli standard legali e giornalistici applicabili in Inghilterra, ciò era "assurdo". Era assurdo perché "ignorava completamente le circostanze più importanti del caso, ossia che gli articoli erano stati scritti in Italia, e in italiano, da giornalisti italiani, per un pubblico italiano"». Ehi, risponde il giudice, assurda è la prassi per cui un giornalista italiano può in base ai costumi giornalistici italiani saltare la legge italiana che pure vieta di rivelare il segreto istruttorio. In Italia facciano quel che gli pare, ma se un articolo sul web è acquistabile a Londra (e lo è) ed offende un inglese, cari miei, usiamo la nostra idea di che cosa valga la reputazione di una persona e come essa sia intangibile. Esiste un giudice a Londra, oltre che a Berlino. 

DAGONEWS il 27 gennaio 2022.

Attento Cairo! Le donne del “Corriere della Sera” non ti lasciano dormire sonni tranquilli. Trent’anni fa, al “Corriere”, per contare le donne ti bastavano le dita delle mani. 

Raddoppiate, triplicate e quadruplicate incessantemente nell’ultimo decennio, anche grazie a diverse mogli di giornalisti, talvolta vicedirettori, critici e inviati, talvolta grazie a figlie di ex giornalisti o parlamentari, talvolta mogli di ex presidenti del Consiglio…, costituiscono un corpus agguerritissimo della redazione.

La loro qualità ha spinto il giornale a sostenere il blog femminista con borsetta Prada “La 27ma ora”, l’iniziativa “Il tempo delle donne”, ricorrere a una donna per l’ultima nomina in direzione, avere una condirettrice che è anche direttrice di “Sette”, diverse capiredattrici di importanti settori, giovani “scrittrici” tra le collaboratrici, commentatrici di economia, quattro dei cinque membri del comitato sindacale… il tutto in cinque o sei anni. 

E’ grazie a loro che giunge forte il favore verso la trasformazione dell’informazione, ad esempio il favore verso lo “smart-working”, che altrimenti quei pitecantropi di maschi resterebbero ancora legati alla vecchia logica di andare in redazione a lavorare.

La loro spiccata capacità critica (anche autocritica?) sta trasformando il paludato giornale borghese e forse “maschilista” e per questo non risparmia la coppia Cairo-Fontana a ogni decisione “non inclusiva”. Prendiamo quelle dell’ultima settimana. A causa dello spostamento di un caporedattore, il direttore ha operato nel modo più tradizionale delle logiche aziendali: il vice è diventato capo, il sottovice vicecapo… 

Nessuna nuova iniziativa, niente di particolare: tre uomini spostati di un gradino. Ma le attente giornaliste, non l’hanno mica fatta passare liscia eh! Per una sera intera hanno inondata di email la redazione e il Cdr sottolineando l’assenza di personale femminile in questa operazione, che riguarda, in sostanza, la chiusura notturna al desk. 

Poi, causa l’entrata in vigore del Decreto-Legge 7 gennaio 2022 n.1, che prevede l’obbligo per i datori di lavoro di verificare che il personale acceda nei luoghi di lavoro solamente se in possesso di un Green Pass Rafforzato, l’azienda ha chiesto ai giornalisti di trasmettere a un indirizzo di verifica il proprio Green pass. 

“Si tratta di documento privato. Perché devo inviarlo? Sono disponibile a mostrarlo a chi di competenza, a entrare in una lista di over 50 con super green pass, ma non mando un mio documento privato”, ha subito attaccato via email la sagace giornalista a tutta la redazione. La stessa che aveva fatto lo sciopero della fame perché la “iniqua” azienda non la assumeva. “Non lo faccio vedere a nessuno”. Cioè, faceva vedere la bilancia, ma non il green pass. 

Da iltempo.it il 7 Dicembre 2022.

Tapiro d'Oro a Myrta Merlino. Dopo il comunicato stampa di denuncia del sindacato dei lavoratori di La7 contro i presunti "comportamenti incivili e maleducati" della conduttrice nei confronti dei suoi colleghi, Striscia la Notizia, nella puntata di martedì 6 dicembre, le assegna il famigerato premio. E Merlino, raggiunta da Valerio Staffelli, spiega per la prima volta la sua posizione.

"Davvero lei è un tiranno?", le chiede l’inviato del tg satirico dopo la bufera scatenata dalle accuse del sindacato Rsu il 30 novembre scorso. 

"Nelle famiglie ogni tanto esistono buoni umori, cattivi umori, ma sono cose che di solito si gestiscono dentro la famiglia, non fuori", spiega la conduttrice di La7. E riguardo alle indiscrezioni sui presunti massaggi ai piedi da lei richiesti ai suoi collaboratori, la conduttrice afferma: "Non prendete le fonti per buone. Ti sembra una cosa possibile?".

Giulia Turco per fanpage.it il 7 Dicembre 2022.

È un clima caldissimo quello che si respira tra i corridoi di La 7, pochi giorni dopo la "rivolta" dei lavoratori dei programmi esasperati dai comportamenti di Myrta Merlino. Con un comunicato sindacale diversi colleghi hanno lamentato un ambiente sempre più ostile, ormai saturo del disprezzo della conduttrice nei confronti della sua squadra di lavoro.

Nella giornata di giovedì 1 dicembre il testo è stato appeso ai muri della sede di La7, come Fanpage.it ha avuto modo di verificare. Il che avrebbe scatenato, inevitabilmente, l'ira funesta della giornalista.

Le accuse contro Myrta Merlino

La nota sindacale, fuoriuscita tempo record dalle mura di La7 e arrivata a Fanpage.it, sarebbe il culmine di una situazione di disagio che i collaboratori della giornalista subirebbero da tempo.

L'ambiente di lavoro de L'Aria che Tira non godrebbe di ottima fama, almeno stando ai dettagli sui retroscena che diverse fonti anonime riferiscono a Fanpage.it: "Insulta giornalisti e produttori in maniera pesante", racconta chi ha lavorato al fianco di Myrta Merlino. "È il quinto assistente di studio che licenzia in diretta", spiegano. "Gente che lavora in quello studio da 20 anni. 

L'ultimo, proprio due giorni prima che uscisse il comunicato". Come confermato anche da Dagospia, che ha spiegato quale sarebbe stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Anche il trattamento nei confronti di assistenti e personale sarebbe discutibile: "Lancia le spazzole in faccia alle parrucchiere", spiega qualcuno, "c'è chi deve occuparsi del suo abbigliamento, dalle scarpe alla biancheria intima". A peggiorare la situazione delle assistenti, sembra che alcune di loro figurino contrattualmente come autrici del programma, così da essere stipendiate direttamente dalla rete. 

Chi ha lavorato al suo fianco parla di un vero e proprio “clima del terrore”, spiegando che raramente a contare sarebbe stato il merito di colleghi e assistenti. “Conta quanto riesci ad anticipare i suoi bisogni.

Se non lo fai, se non riesci a tenerle testa lei ti chiama subumano, cretino o battendo le mani come se fossi il suo schiavo”, spiega una fonte a Fanpage.it, confermando anche i racconti sui presunti licenziamenti facili. “Siamo sicuri che si farebbe problemi a licenziare una persona con tre figli che l’ha seguita per anni?”. 

Come ha reagito Myrta Merlino

Non devono essere stati giorni semplici per chi si è trovato a gestire la reazione della giornalista. Chi sa, naturalmente, non parla, ma fonti interne alla rete assicurano che c'è un clima di silenziosa soddisfazione tra i lavoratori. Nel frattempo Myrta Merlino è andata in onda regolarmente con le puntate de L'Aria che Tira, allineandosi con la linea condivisa dell'azienda, che è quella del silenzio più totale su tutta la vicenda.

Marco Franchi per “il Fatto quotidiano” il 6 dicembre 2022.

Tutto è cominciato il 30 novembre con un comunicato sindacale, che il giorno dopo è stato affisso nelle bacheche della sede di La7 in via Umberto Novaro, a Roma: "La RSU ha riportato all'Azienda le numerosissime segnalazioni pervenute da parte dei lavoratori sull'atteggiamento della giornalista Myrta Merlino. Il volto di rete frequentemente adotta nei confronti dei colleghi e del personale in appalto comportamenti incivili e maleducati; influenza la possibilità di prolungare contratti di personale specializzato che lavora professionalmente nella nostra azienda e condiziona le turnazioni del personale interno con motivazioni che non possono essere considerate né di tipo professionale e né di tipo etico".

La denuncia della Rsu è stato il lampo, da quel giorno è piovuto un diluvio di assurde, grottesche e quasi comiche denunce - ovviamente anonime - sulle presunte angherie di Merlino e sulle sue bizze da star. Le hanno riportate, giorno per giorno, Fanpage e Dagospia.

 Chi lavora con la diva Myrta racconta, per esempio, come pochi giorni fa sia arrivata in sede "tutta infreddolita" e "abbia chiesto a uno degli assistenti di studio di riscaldarle la testa con un phon, salvo poi dare in escandescenze accusando il malcapitato di scompigliarle l'acconciatura".

Tremende, secondo gli anonimi accusatori, le reazioni della conduttrice a inconvenienti o veniali errori di chi lavora con lei: lanci di sgabello, sceneggiate perché il cornetto e il tè della colazione non erano all'altezza delle aspettative, angherie e sfoghi padronali sugli assistenti ("Siete a mia disposizione 24 ore su 24"). 

A più di qualcuno - scrive Dagospia - sono spettate mansioni non proprio edificanti e in linea con la professione: c'è chi ha dovuto prenotarle la ceretta, chi le ha portato i vestiti in tintoria o persino il cane dal veterinario. Un anonimo lavoratore di La7 ha raccontato al sito di D'Agostino questo retroscena drammatico: "Lei arriva alle 10-10.30 per andare in onda alle 11 e tu devi spiegarle la puntata mentre si lava i capelli e qualcuno le deve spalmare la crema ai piedi".

E ancora, una gola profonda a Fanpage: "Insulta giornalisti e produttori in maniera pesante. È il quinto assistente di studio che licenzia in diretta. L'ultimo, proprio due giorni prima che uscisse il comunicato". E poi "lancia le spazzole in faccia alle parrucchiere e c'è chi deve occuparsi del suo abbigliamento, dalle scarpe alla biancheria intima". 

In attesa che Merlino rettifichi o smentisca, o che La7 proferisca almeno una parola su questi scenari da padroni del vapore, se ne può trarre almeno una considerazione di natura quasi psicologica. Pochi mestieri possono sollecitare in chi li pratica un distacco dalla realtà tanto vertiginoso. In altre parole: i giornalisti hanno un drammatico problema di narcisismo.

Non tutti, certo, ma in ogni redazione - proprio ogni redazione - c'è almeno un esimio portatore di questo virus, di questa patologica percezione di sé. Dev' essere per questo che, almeno fino a oggi, i principali giornali nazionali hanno ignorato il caso: forse per paura di guardarsi allo specchio. O forse perché gli studi di Merlino, di giornalisti, ne hanno ospitati e ne ospitano tanti. O ancora, perché Myrta è frequente e apprezzatissima moderatrice di eventi mondani, presentazioni di libri, piccole e grandi camere di compensazione tra politica, giornalismo e quello che c'è in mezzo.

Le parole forse più lucide, sulla professione, sono dell'immenso Sergej Dovlatov in Compromesso: "Sui giornalisti si è espresso in modo eccellente Ford: 'Un cronista onesto si vende una volta sola'. Ritengo tuttavia che questa affermazione sia idealistica. Il giornalismo ha i suoi punti-vendita, i suoi negozi dell'usato e persino il suo mercatino delle pulci. Cioè è un commercio su larga scala". Dove oltre al potere, la moneta più preziosa e vacua - a volte l'unica considerata - è la reputazione, l'affermazione di sé.

DAGONEWS l’1 Dicembre 2022.

Il comunicato sindacale della Rsu La7, con cui vengono denunciati i "comportamenti incivili e maleducati" di Myrta Merlino, ha riattivato la memoria di chi ha avuto il dispiacere di lavorare con la sanguigna conduttrice. Alcuni sussurrano che pochi giorni fa, arrivata in studio, tutta infreddolita, la vispa Myrta abbia chiesto a uno degli assistenti di studio di riscadarle la testa con un phon, salvo poi dare in escandescenza accusando il malcapitato di scompigliarle l’acconciatura.

Chi è passato sotto la scure della giornalista rivela succosi dettagli del suo caratterino. C’è chi vagheggia del lancio di uno sgabello, chi evoca le sceneggiate perché il cornetto e il the trovati per colazione non erano di suo gradimento, le sfuriate agli assistenti ("Siete a mia disposizione 24 ore su 24!"). Le malelingue somministrano un episodio che svela l’indole para-guru della Merlino. Una volta rivelò che il medico le aveva consigliato di staccare dal lavoro, per almeno un mese, perché rischiava di compromettere la sua salute ma dopo una settimana di buoni ascolti con David Parenzo in conduzione il lunedì successivo tornò magicamente guarita e in forma…

Gli assistenti di studio, pagati da La7, lamentano di essere "invisibili" ai suoi occhi: "Una volta telefonò all’amministratore delegato Marco Ghigliani alle 10.55, poco prima di andare in onda, lamentandosi di essere sola in studio, praticamente abbandonata, mentre c’erano dieci persone che erano lì dalle sette del mattino a guardarla sbigottiti…". I più cattivelli insinuano: "Chissà se la giornalista che fa l’inviata è la stessa che faceva la baby sitter ai figli di Myrta…".

Altri recriminano di essere destinati a compiti non attinenti con le mansioni per cui vengono stipendiati dall’emittente. C’è chi ha dovuto persino prenotare la ceretta alla Merlino e chi doveva portarle i vestiti in tintoria o i cani dal veterinario: "Lei arriva alle 10-10.30 per andare in onda alle 11 e tu devi spiegarle la puntata mentre si lava i capelli e qualcuno le deve spalmare la crema ai piedi…". Alcuni redattori sostengono di essere stati messi a lavorare alle presentazioni degli eventi che la Merlino avrebbe dovuto moderare (remunerata) fuori da La7.

Il "casus belli" che però ha innescato il comunicato sindacale sarebbe il mancato rinnovo del contratto dell'assistente di studio, non particolarmente simpatico alla conduttrice. Già nel 2015, un articolo del "Fatto quotidiano" rivelava gli scazzi di Myrta con il personale dello studio (cameramen, fonici e addetti ai lavori): "La giornalista napoletana si è resa protagonista di un acceso scambio con i tecnici dello studio durante una pausa pubblicitaria, così acceso che sono dovute intervenire le rappresentanze sindacali. Si genera un alterco che degenera con urla da entrambe le parti…"

La RSU, nell’incontro sindacale del 30 novembre, ha riportato all’Azienda le numerosissime segnalazioni pervenute da parte dei lavoratori sull’atteggiamento della giornalista Myrta Merlino conduttrice del programma L’Aria che Tira.

Il volto di rete frequentemente adotta nei confronti dei colleghi e del personale in appalto comportamenti incivili e maleducati; influenza la possibilità di prolungare contratti di personale specializzato che lavora professionalmente nella nostra azienda e, condiziona le turnazioni del personale interno con motivazioni che non possono essere considerate né di tipo professionale e né di tipo etico.

La RSU esprime la sua ferma contrarietà nei confronti del comportamento della conduttrice ed auspica che dopo questa formale segnalazione vengano finalmente adottate le necessarie misure da parte dei vertici aziendali al fine di ripristinare il corretto rapporto individuo - Azienda e di ristabilire il giusto clima lavorativo, ad oggi deteriorato.

RSU La7 Roma, 01 dicembre 2022

Da insider.ilfattoquotidiano.it del 30 novembre 2015

Settimana complicata quella appena trascorsa per Myrta Merlino e la sua l’Aria che tira contenitore mattutino de La7 arrivato alla sua quinta edizione. La giornalista napoletana si è resa protagonista di un acceso scambio con i tecnici dello studio durante una pausa pubblicitaria, così acceso che sono dovute intervenire le rappresentanze sindacali con tanto di comunicato stampa affisso ad ogni piano dello stabile di via Novaro, dove tutti i giorni vanno in onda le edizioni dei Tg di Mentana e i vari programmi di approfondimento da "Omnibus" a "Otto e mezzo". Già da tempo i rapporti tra la Merlino e il personale dello studio (cameramen, fonici e addetti ai lavori) non è idilliaco.

Lunedì mattina, poco prima delle 12, un microfono ha un banale problema di batterie. Pubblicità. Il fonico mentre si avvicina viene apostrofato dalla Merlino con parole poco amorevoli, accusato di "non saper fare il proprio lavoro".

Si genera un alterco che degenera con urla da entrambe le parti. Dopo pochi giorni alle caselle di posta elettronica di tutta la7 viene notificato il comunicato delle Rsu de la7 con questo testo: "Negli ultimi tempi, purtroppo, si sono verificati nuovamente alcuni comportamenti irriguardosi nei confronti di colleghi del settore tecnico e di produzione.

Per la RSU La7 il rispetto e la buona educazione verso ogni collega, che con professionalità e impegno svolge il proprio lavoro quotidiano, sono principi primari inderogabili.

Ricordiamo a tutti, e in particolar modo a conduttori, giornalisti, redattori e produttori esecutivi, che più alto è il livello di visibilità e di responsabilità che si ricopre in Azienda maggiore deve essere la capacità di saper gestire gli imprevisti che possono capitare anche durante le dirette televisive. Pertanto invitiamo, nuovamente, tutti a un maggior rispetto delle persone sia dal punto di vista umano che professionale auspicandoci di non dover più trattare questo spiacevole tema". Da quel giorno il gelo è sceso tra tutti i componenti del gruppo di lavoro della Merlino e lo staff tecnico. Ora tira davvero una brutta aria.

Dagospia l’8 dicembre 2022. La biografia di Myrta Merlino su Wikipedia 

Myrta Merlino (Napoli, 3 maggio 1969) è una giornalista, autrice televisiva, scrittrice e conduttrice televisiva italiana. 

È figlia di Giuseppe Merlino e della sinologa e professoressa universitaria Annamaria Palermo, già direttrice dell'Istituto Italiano di Cultura di Pechino. Dopo il diploma di liceo classico, consegue la laurea con lode in scienze politiche con una tesi in Diritto internazionale sulla Carta Comunitaria dei diritti fondamentali dei lavoratori, ha lavorato per il Consiglio dei Ministri della Comunità Economica Europea, presso la Direzione Generale del Mercato Interno nell'ambito dei Servizi Finanziari.

La sua carriera giornalistica è iniziata con una collaborazione con la pagina economica del quotidiano Il Mattino, ma fin dal 1994 ha cominciato a occuparsi di televisione. Nel 1995 diviene giornalista professionista. 

Ha realizzato inchieste e servizi per il rotocalco Mixer, su Rai 2, ideato e condotto da Giovanni Minoli, occupandosi di tematiche socio-economiche; è stata responsabile economica di Rai 3, autrice del talk show economico del servizio pubblico Italia Maastricht, ma anche dei programmi Energia, Mister Euro (di cui è stata co-conduttrice) e La Storia siamo noi, per cui ha curato anche una serie di 10 puntate, dal titolo Il segno del comando, sulla storia del Novecento vista attraverso l'economia.

Nel frattempo, tra il 2002 e il 2003, è stata responsabile dell'informazione di Rai Educational e l'anno successivo è ospite fissa della trasmissione Casa Raiuno, in qualità di esperta economica. Tra il 2005 e il 2008 è stata autrice e conduttrice del programma di informazione Economix, prodotto da Rai Educational: un'intervista di trenta minuti a un grande personaggio della politica o dell'economia per affrontare i principali temi suggeriti dall'attualità. Nel 2009 approda a LA7, come autrice e conduttrice di Effetto Domino, un approfondimento economico in onda in seconda serata fino al 2011.

Dal 2011 è ideatrice, autrice e conduttrice, sempre su LA7, del programma L'aria che tira, un talk show in onda al mattino dal lunedì al venerdì. Giunta alla quarta edizione, la trasmissione è cresciuta nella sua durata, arrivando a due ore e mezza di diretta al giorno rispetto ai 23 minuti iniziali (anche per via del fatto che in origine, dopo il programma, andava in onda I menù di Benedetta, trasmissione non più in palinsesto dal momento che Benedetta Parodi passò a Real Time), e negli ascolti, con un incremento superiore al 100 per cento solo nell'ultimo anno.

Sull'onda dei suoi successi, nell'estate del 2014 la Merlino debutta in L'aria che tira stasera, quattro puntate in onda il lunedì: il programma arriva in prima serata, mentre prosegue la programmazione del mattino. Nel 2015 pubblica con Rizzoli Madri. Perché saranno loro a cambiare il Paese, una raccolta di storie di mamme famose e no, ma tutte protagoniste di storie importanti. Dal 15 novembre 2020 conduce un altro spin-off della sua trasmissione intitolato L'aria di domenica, in onda la domenica pomeriggio alle 14:00.

Ha lavorato a lungo anche per la radio conducendo, all'interno del programma di Rai Radio 2 Alle otto della sera, una serie di puntate sulla storia della moneta e poi, sempre per Rai Radio 2, una serie di venti puntate dedicate alle biografie degli uomini che hanno cambiato la storia attraverso il denaro, dal titolo Re di Denari. Ha scritto per Il Sole 24 Ore, Il Messaggero, Panorama, International Herald Tribune, Libération, Families in Business, Nord e Sud, Il Secolo XIX, Il Resto del Carlino, La Gazzetta del Mezzogiorno. 

È stata autrice di un dizionario dei termini comunitari, distribuito in 250 000 copie con i quotidiani Il Mattino e La Gazzetta del Mezzogiorno. Moderatrice di numerosi convegni e incontri pubblici, nel corso degli anni ha intervistato i principali attori internazionali della vita politica ed economica, tra cui Carlo Azeglio Ciampi, Matteo Renzi, Jacques Delors, Silvio Berlusconi, Massimo D'Alema, Gianfranco Fini, Romano Prodi, Yves-Thibault de Silguy, Karel Van Miert, Jeremy Rifkin, Hans Tietmeyer, Jean-Paul Fitoussi, Gordon Brown, Jean-Claude Trichet, Lawrence Summers, Franco Modigliani, Bill Gates.

Il 16 aprile 2019 diventa ambasciatrice Unicef. Nel febbraio del 2021 riceve l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica italiana da parte del presidente Sergio Mattarella. 

Vita privata

Ha tre figli: i gemelli Pietro e Giulio Tucci avuti in gioventù e la figlia Caterina avuta da Domenico Arcuri, ex amministratore delegato di Invitalia. Suo attuale compagno è l'ex allenatore ed ex calciatore della Juventus e della Nazionale Marco Tardelli. Si professa cattolica.

In un'intervista al programma TV di Klaus Davi su YouTube del 2013, Merlino raccontò che, durante un'intervista programmata all'allora ministro delle finanze francese Dominique Strauss-Kahn alla fine degli anni novanta a Davos, fu oggetto di un tentato abuso sessuale da parte del medesimo; lo respinse, senza tuttavia dar corso a denunce per evitare il clamore che ne sarebbe seguito. 

Nel 2015 è stata processata per abuso edilizio a causa della realizzazione di opere di ristrutturazione nella sua villa di Cala Grande sull'Argentario senza avere richiesto i permessi necessari. La vicenda si è conclusa nel gennaio 2017 con una sentenza di non doversi procedere: i reati sono stati derubricati per «sopraggiunta compatibilità paesaggistica».

Documento approvato all’unanimità dall’assemblea dei giornalisti de La7 l’1 Dicembre 2022.

Da molti anni La7 registra un indiscutibile successo, in termini di ascolti e di raccolta pubblicitaria, con introiti sempre ampiamente superiori ai costi sostenuti.

Un successo che dà incontestabili vantaggi ai conti del gruppo, anche per il valore aggiunto che La7 conferisce all’offerta pubblicitaria complessiva, ma che non lascia tracce nei bilanci dell’emittente, per le modalità con cui la proprietà ha scelto di regolare i rapporti tra la tv e la concessionaria, che dello stesso gruppo fa parte.

Una scelta che penalizza gli investimenti e la crescita ulteriore dell’emittente, i giornalisti e gli altri lavoratori de La7 (persino nella possibilità di percepire i bonus stanziati dal Governo di fronte all’emergenza bollette).

Eppure la chiave di questo successo è proprio la forte connotazione informativa de La7 dall’alba a notte inoltrata, quasi una all news, grazie ai tg e ai programmi di approfondimento, e quindi al decisivo impegno dei giornalisti che hanno garantito la massima produttività, anche nei drammatici mesi del lockdown e della pandemia, non ancora conclusa.

All’unanimità l’assemblea dei giornalisti de La7 chiede:

un immediato riconoscimento economico per tutti per lo sforzo profuso in questi anni;

l’assunzione a tempo indeterminato dei colleghi precari, superando il ricorso strutturale ai contratti a termine nei programmi;

la sostituzione dei colleghi che hanno lasciato la redazione del tg in questi anni, con l’assunzione a tempo indeterminato di altrettanti giornalisti;

il riconoscimento a tutti delle corrette retribuzioni, secondo le previsioni delle leggi, del CNLG e degli Accordi integrativi aziendali;

l’apertura, di fronte a un’inflazione a due cifre che decurta pesantemente il potere d’acquisto degli stipendi, di un confronto per adeguare le retribuzioni, ferme da oltre dieci anni, come le carriere, con gli strumenti previsti dal       CNLG e dagli accordi integrativi aziendali;

un confronto sulla cessione a terzi dell’opera dei giornalisti de La7, illegittima senza uno specifico accordo, secondo le previsioni di legge e contrattuali.

La valorizzazione del lavoro dei giornalisti de La7, oltre al superamento dei contenziosi collettivi da troppo tempo aperti, è il presupposto per ogni prospettiva di sviluppo dell’emittente, che deve essere perseguita sulla base di un piano industriale e di un piano editoriale dettagliati, con investimenti e progetti chiari e credibili, nel pieno rispetto di corrette relazioni sindacali, delle regole e delle procedure contrattuali.

·        Il Gruppo Editoriale Gedi.

Estratto dell'articolo di Marco Grasso per “il Fatto quotidiano” il 3 novembre 2022.

Mi si nota di più se firmo o se non firmo? Le acque a Repubblica continuano a essere molto agitate e dopo lo sciopero dei giorni scorsi, contro il piano annunciato dal direttore Maurizio Molinari a Prima Comunicazione, la redazione si è spaccata sulla successiva lotta sindacale: lo sciopero delle firme. (...) 

Mentre il grosso dei giornalisti (supportati dalla totalità dei precari) ha aderito all'iniziativa, firme molto note non hanno ritenuto di farlo: vicedirettori (Carlo Bonini e Francesco Bei); firme storiche in pensione (l'ex direttore Ezio Mauro, Paolo Garimberti, Daniele Mastrogiacomo, Enrico Franceschini) o che continuano a tenere seguitissime rubriche (Michele Serra, Concita De Gregorio).

Molti colleghi impegnati nella battaglia non l'hanno presa bene: "Scrivere su Repubblica o essere di Repubblica sono due cose ben diverse. Noi di Repubblica lo sapevamo già, ma questa grottesca faccenda delle firme/non firme lo ha spiegato meglio - scrive l'inviato Maurizio Crosetti su Twitter - Non sarebbe male se alla fine di questa storia ci si chiedesse quali e quante di queste firme siano davvero necessarie a Repubblica". Da ieri lo sciopero è stato revocato. 

La Repubblica, sciopero contro il direttore Molinari. I giornalisti sul piede di guerra. Il Tempo il 28 ottobre 2022

L'indiscrezione di Dagospia sullo sciopero è confermata. Nella redazione de "La Repubblica" tira una brutta aria dopo l'intervista del direttore Maurizio Molinari a Prima Comunicazione. "L'assemblea delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica è incredula e indignata per le dichiarazioni del direttore Maurizio Molinari che costituiscono una grave offesa all’intero corpo redazionale, di cui vengono sminuiti l’impegno e la professionalità", si legge sul sito.

Ai giornalisti non è andato già che il loro direttore abbia parlato prima ad altri che a loro sul piano di riorganizzazione del quotidiano. "Un sommario Piano di riorganizzazione editoriale viene raccontato in un’intervista a una rivista di settore senza che sia mai stato presentato, nei suoi dettagli e nelle sue implicazioni, prima al cdr e poi alla redazione, come invece le corrette procedure sindacali imporrebbero. La richiesta al direttore di esporre in assemblea il suo Piano perché venga poi votato – che ribadiamo - è stata dunque ignorata". 

L’assemblea ha indetto una giornata di sciopero che investirà l’intero corpo redazionale e tutte le piattaforme informative. "Il quotidiano non sarà in edicola sabato 29 ottobre e il sito non verrà aggiornato fino alle ore 19 dello stesso giorno".

Dagonews il 28 ottobre 2022.

I giornalisti di Repubblica salgono sulle barricate contro il direttore Maurizio Molinari e entrano in sciopero fino alle ore 19 di sabato 29 ottobre (229 voti a favore, 7 contrari e 14 astenuti: mai vista una disfatta del genere) 

Ad accendere la miccia è stata l’intervista a “Prima comunicazione” in cui Molinari annunciava “la spallata digitale” al giornale che non riesce a recuperare con l’edizione di carta i lettori persi negli ultimi anni.  

La protesta dei giornalisti è legata alla scelta del direttore di puntare quasi completamente sul digitale, contrariamente a quanto auspicato dalla redazione. 

Si contesta, inoltre, a Molinari l’aver presentato il piano di riorganizzazione editoriale non alla redazione, come era stato richiesto, ma a una rivista. 

I giornalisti, che non firmeranno i loro articoli, sono furibondi anche per il trasferimento da Roma a Milano della redazione di Affari&Finanza. 

Il comunicato dell'Assemblea dei giornalisti di Repubblica:

L’assemblea delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica è incredula e indignata per le dichiarazioni del direttore Maurizio Molinari che costituiscono una grave offesa all’intero corpo redazionale, di cui vengono sminuiti l’impegno e la professionalità. Un sommario Piano di riorganizzazione editoriale viene raccontato in un’intervista a una rivista di settore senza che sia mai stato presentato, nei suoi dettagli e nelle sue implicazioni, prima al cdr e poi alla redazione, come invece le corrette procedure sindacali imporrebbero. La richiesta al direttore di esporre in assemblea il suo Piano perché venga poi votato – che ribadiamo - è stata dunque ignorata. 

La richiesta della redazione al direttore e all’editore di dare risposte immediate ai gravi problemi del momento, a partire dal calo di vendite in edicola, è stata ignorata. Questioni cruciali – come il nuovo modello di integrazione tra edizione cartacea e sito, come l’influenza dei trend d’interesse osservate in Rete sulle scelte editoriali – sono  presentate in termini non convincenti. La loro esposizione – peraltro con modalità scorrette e irrituali - non risponde ai dubbi e alle inquietudini della redazione di Repubblica. 

L’assemblea delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica si oppone categoricamente al trasferimento da Roma a Milano della redazione di Affari&Finanza. L’assemblea indice anche una giornata immediata di sciopero che investirà l’intero corpo redazionale e tutte le piattaforme informative, secondo le modalità decise dal Comitato di redazione. Le giornaliste e i giornalisti di Repubblica non firmeranno i loro contenuti editoriali di qualsiasi tipo e su qualsiasi piattaforma informativa fino a quando non riceveranno risposte concrete e convincenti, in assemblea e nelle sole sedi deputate al confronto. 

L'assemblea delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica

Lanterne rosse a via Po: la storia del costume italiano raccontata dalle pagine de L’Espresso. Così il nostro giornale ha descritto le mode e i costumi del Paese. Alessandro De Feo su L'Espresso il 26 Luglio 2022.

Settimanale di Politica, Cultura ed Economia, “L’Espresso” dal suo primo numero del 2 ottobre 1955 è una bussola che orienta anche le mode e il costume degli italiani. E, naturalmente, anche la sfera erotica e sessuale. Nel secondo numero, sotto al titolo “Cugat ha deciso 1955 cha cha cha 1956 tarantella”, Il musicista e marito della prosperosa Abbe Lane, ha dettato la linea: nei night di via Veneto il “vecchio “mambo non è più di moda, dai tavolini nemmeno due coppie si alzano per scendere in pista. Il cha cha cha sarà travolgente, accompagnato da un degno piano bar. Nella pagina accanto, l’articolo intitolato “Cercano clienti disossate”, ci si riferisce ai guru della moda. E allora, in sintonia con la nuova stagione, come deve essere la donna 1955? “Pallore madreperlaceo, sopracciglia inchiostro, capelli catrame”. Il tailleur deve avere “una scollatura a punta sul davanti e sul dietro, per allungare la linea del collo”. Dramma! “La guerra al petto continua. Niente più balie fiorenti, generose scollature, seni sporgenti. Soppresso il busto, la nuova moda asseconda la linea naturale del corpo senza modellarlo artificialmente”. Non basta: “Abolita la cintura, il vestito, per la prima volta dal 1947, dall’accento del new look, è fatto di un sol getto e non spezza più in due la figura femminile”. Veniamo ai fianchi. “Mai più strettamente inguainati. Spoglia e lineare, la nuova moda sembra una reazione al sex-appeal delle dive”. La gonna corta non è di rigore, ma si allunga ben sotto al ginocchio tanto da far apparire le gambe più corte”. Le donne grissino alla Twiggy e le minigonne di Mary Quant sono lontane da venire.

Se il settimanale lenzuolo va contro corrente anche nel campo dell’eros, di pentite del sesso si può parlare. E in una foto di Gina Lollobrigida, la “Bersagliera”, l’attrice indossa una maglietta alla “vestivamo alla marinara”, mostra un décollété fuori taglia e la didascalia recita: “Parigi. In una lettera rivolta ai lettori americani. Gina Lollobrigida ha dichiarato: «Per me è ora di finirla col sesso. Il pubblico penserà che io sappia solo amare. Io intendo dargli qualcosa che mi faccia ricordare indipendentemente dal mio aspetto».

E chi è la “Bella cretina” come la definisce l’attore Anthony Quinn? Andiamo al sommario dell’articolo firmato Oberon, probabilmente uno pseudonimo: “Appena un’attrice italiana si mette a studiare recitazione e impara a parlare, la sua carriera può dirsi finita: conseguenza dei film sesso-dialettali”. Scorriamo l’incipit: “A Cinecittà, a via Veneto, alla Farnesina, alla Vasca Navale, dovunque a Roma si inventi, si produca e si compri del cinema, le dichiarazioni di Anthony Quinn hanno suscitato lo stesso commento: «Poco carine». Perfino Lea Padovani, Giulietta Masina, Kerima e Valentina Cortese, cioè le attrici che Quinn ha definito «serie e brave», si mostrano insoddisfatte: in loro più che il piacere dell’elogio gioca il timore delle nuove gelosie, dei nuovi intrighi che l’apprezzamento potrà provocare”.

Nella puritana America succede anche questo, come racconta la fotografia accompagnata da questa didascalia: “Pasadena (California). Le ballerine Francisca Eyres e Flo Ash Wilson nella stazione di polizia. Sono state fermate per essersi esibite davanti a 150 uomini in uno spettacolo indecente”. Nella foto, Francisca saluta i reporter mostrando - vestita - il sedere.

Il settimanale ha successo e attira locandine e annunci pubblicitari. Si fa notare quella del numero 12 del 18 dicembre. È uno spettacolo con Totò e Gino Cervi. Incorniciati in un salvagente, il titolo è “Il coraggio”. Tra gli altri, Irene Galter, Paola Barbara e compagnia cantante. La Galter appare in una fotografia all’epoca, pensiamo, peccaminosa. Indossa una mini sottoveste nera e nere sono le sue scarpe, mentre con sguardo felino tiene in mano una sigaretta inguainata in un lungo e sottile bocchino. Ancora “peggio” fa la matita di Mino Maccari, vignettista honorem de “L’Espresso”. La didascalia illustra così il disegno: “Questa vignetta raffigurante la Francia, uscì nel “Selvaggio “del 15 dicembre 1933. Il pittore Mino Maccari la commentava con questi versi: “Non quando li prende - Ma quando li rende - Parigi la offende”. La Marianna di turno indossa il tipico cappello della Rivoluzione, gioca facendoli volteggiare i parigini, mostra seni al vento, una lingerie délabré, calze a rete nere tenute d sottili giarrettiere. Le feste di Natale del 1955 celebrano la coppia dell’anno: Xavier Cugat e Abbe Lane (amava farsi fotografare con il suo barboncino) mentre provano i passi di danza del cha cha cha durante le riprese del film “Donatella”. Lui è in frack, lei in un vestito da sera lamé che abbraccia un bel décollété. A proposito di lingerie. In quegli anni e, fino ai Sessanta, la diva sexy la esibisce in tanti film. Uno per tutti: lo strip di Sophia Loren davanti a uno “sbavoso “ e fremente Marcello Mastroianni. Ma ne riparleremo.

1955 - 1960

Nel numero del 5 febbraio 1956 i lettori de “L’Espresso” si eccitano con “I francobolli della castità”, fotograficamente sintetizzati in prima pagina da una sfilata di belle figliole delle Flies-Bergère, in topless e le fatidiche pecette a coprire i peccaminosi capezzoli. La stella delle stelline è Colette Fleuriot, la cui esuberanza si può ammirare all’interno, in un fotomontaggio dove la bella svolazza con piumaggi dalla testa ai fianchi e francobolli da 5 lire a coprire i seni e il pube. Guerrini dà fondo alla sua arte e scrive che “L’Osservatore romano” in un articolo intitolato “Attenzione!” per la prima volta in 96 anni occupava di un music-hall e giudicava lo spettacolo che la compagnia delle Folies-Bergère stava dando a Napoli come “il frutto della fantasia morbosa di un drogato”.

Da un’unione che vorrebbe cominciare senza la santa benedizione a un’altra che naufraga clamorosamente: l’attrice svedese Ingrid Bergman si separa dal regista Roberto Rossellini, dopo sette anni di matrimonio. “L’Espresso” ci gioca su e domanda ai lettori: “L’italiano è un cattivo marito?” (17 novembre 1957). Di certo è sempre stato un po’ puttaniere e a lui è dedicata l’inchiesta di Guerrini, “la sua iniziativa. L’ultima notte della peccatrice di Stato. Persiane aperte” (21 settembre 1958), con foto di una famosa casa di tolleranza di Roma, in via del Leoncino, tra marinai, giovanotti in giacca e cravatta, ragazze non troppo svestite in attesa. Si celebra la chiusura dei casini e l’onorevole socialista Lina Merlin, promotrice dell’omonima legge, , aveva pure organizzato una conferenza stampa per difendere.

Dai tempi delle sabine il sesso è sempre stato un pallino di noi italiani. Ma anche i preti non scherzano. La buon’anima di Pio XII, per esempio, nel suo discusso pontificato aveva trovato il tempo di rivolgere un appello ai parroci, sostenendo che Roma era una città corrotta, dal peccato, dal vizio e dalla pornografia. “L’Espresso” domanda al capo della Polizia dei costumi se Roma è una città viziosa. Ha risposto di no (Gianni Corbi, 17 marzo 1957). Chissà se ci avrà ripensato davanti agli “Scettici blu del Rugantino” e alla “Turca desnuda” (16 novembre 1958) alias Aiché Nanà, la ballerina che nel locale di Trastevere, davanti alla “Ciampino society” Come Salomè si dimenò e si tolse tutti i veli, rimanendo in mutandine nere. Nelle foto del servizio, sia i volti degli spettatori che quello della ballerina (e non parliamo dei seni) erano stati coperti dal triangolino di circostanza.

Se Roma è viziosa, Milan “Alle Maschere”, la cosiddetta capitale morale, non è da meno. Sotto la Madonnina la parola d’ordine è: “Meno sesso signorina” (19 aprile 1959). Camilla Cederna racconta così uno spettacolo di strip-tease al teatro “Alle Maschere” e i dolci vizi di “Milan la nuit”: «Vengono pomposamente annunciate “due signorine inglesi in una loro creazione coreografica (…). In reggipetto e mutandine di lustrini e calze di rete e lustrini perfino nell’ombelico, le signorine inglesi si esibiscono in una breve danza di tipo esotico (…). Le ragazze si slacciano il reggiseno e appaiono decorate da due enormi stelle pensili che coprono tutto quello che sta al di sotto. Quando stanno per togliersi il resto: “Per carità!”, esclama il presentatore (Lucio Flauto, nda.), “basta così” e quindi rivolto al pubblico spiega: “Vedete che manca il sipario?. È stato proibito perché il direttore di scena a un certo punto non abbia a ordinare: “Giù il sipario!”, e ride, ma è l’unico a divertirsi. E’ a questo punto che una certa inquietudine comincia a infiltrarsi negli aspiranti-voyeurs di Milano e dintorni».

Nei campus americani fanno la comparsa “I giacobini dell’amore” (20 ottobre 1963). Sono gli studenti che reclamano la libertà sessuale nelle università. Da noi. Più prosaicamente, è la stagione di “Bovary 1960”, inchiesta a puntate su “La moglie in Italia” (13 gennaio 1960). Così la vede Gambino: c’è «una visione che tende a dividere le donne in due gruppi: le madri-vergini e le prostitute. La moglie rientra nella prima categoria. Il suo tentativo di desessualizzarla comincia il giorno stesso del matrimonio». Ma talvolta anche madame Bovary si prende le sue vendette. Una vittima eccellente è “Il seduttore sedotto” (10 luglio 1960) di Salvatore Bruno: «Il conquistatore degradato a ridicolo strumento della donna: ecco uno dei fatti più clamorosi di questi ultimi anni diu vita italiana. Ora una ragazza dice: “Giovanni è un vanitoso, un debole. Sto con lui perché mi serve”. Prima questo linguaggio spettava a lui, a Giovanni. L’uomo considerato alla stessa stregua di un genere di consumo».

Gli anni ‘50 si chiudono e si apre la stagione della dolce vita. Per tutta la primavera del 195 “L’Espresso” aveva seguito e documentato le riprese della “Dolce Vita” di Federico Fellini. La famosa scena del bagno notturno di Anita Ekberg nella fontana di Trevi con Marcello Mastroianni, viene così descritta: «Per tre notti di seguito alle tre del mattino Anita Ekberg e Marcello Mastroianni hanno dovuto gettarsi nelle acque della fontana di Trevi. La scena, una delle più lunghe del copione della “Dolce Vita”, è stata girata da Federico Fellini 20 volte di seguito. Con le spalle nude e un leggero vestito di mussola, l’attrice disguazzava nell’acqua trascinando dietro di sé il suo partner riluttante. Alla fine delle riprese i curiosi raccolti attorno alla fontana, gli operatori e il regista hanno applaudito l’attrice che si è allontanata in fretta buttandosi sulle spalle, come un accappatoio di spugna la pelliccia di visone». (“Il bagno di Anita”, 19 aprile 1959). Ma come venne accolta la “Dolce Vita” nelle sale? “L’Espresso” racconta (“Protestano i responsabili della dolce vita”, 14 febbraio 1960) che: «A Roma la proiezione è stata seguita senza proteste, ma un silenzio insolito ha sottolineato alcune scene, forse indizio di un accorato stupore. Altrove, e in particolare a Milano, il pubblico ha reagito, uno spettatore, in nome della Patria, ha sputato addosso a Fellini».

1960 - 1965

Se a Roma si riflette sulla dolce vita, a Parigi la scrittrice Simone de Beauvoir teorizza Brigitte Bardot, “La bella incosciente” e “L’Espresso” ne pubblica il saggio (1 maggio 1960), «Brigitte Bardot è l’esemplare più completo di queste ambigue ninfe. Visto di spalle, il suo corpo di ballerina minuta, muscoloso, è pressoché androgino, la femminilità balza esuberante dal suo busto incantevole, sulle sue spalle scende la lunga e voluttuosa chioma di Melisenda, acconciata però con una negligenza da selvaggia; cammina a piedi nudi, se ne infischia di come è vestita, non porta gioielli, non ricorre a busti, non si profuma, non fa uso di nessun artificio, purtuttavia le sue movenze sono lascive, e un santo si dannerebbe soltanto a vederla danzare». Regina di Saint-Tropez, dove vive in una faraonica villa e si treastulla con “giocattoli” italiani, il playboy Gigi Rizzi, e teutonici, Gunther Sachs, è la musa del regista Roger Vadim (“E Dio creò la donna”?). Una sua foto non manca nell’album dell’”Espresso”. La Bardot è immortalata nuda, con il bel sedere a farsi cullare dalle onde del mare.

Telefono a Nicola Carraro, marito di “zia” Mara Venier. Un bon vivant che di cose ne ha fatte e ne ha viste (è uno stimato produttore cinematografico), e gli chiedo: «Come venne raccolta e da chi la “rivoluzione” di Fellini?». «Quel segnale, davvero forte, venne recepito dal grande cinema d’autore italiano di quegli anni, dove gli studios di Cinecittà erano una calamita che portava a Roma il meglio della cinematografia e delle star internazionali. Rimanendo da noi, penso ai film di Rossellini, di Rosi, di Visconti e Germi, la Wertmuller». «Senta Carraro, di grandi stelle e del loro sex-appeal ne abbiamo incontrate già alcune, altre le ricorderemo. Lei, chi ritiene che meriti una nomination?». «Tra le icone di quei Sessanta, ne vorrei citare due molto diverse dalle altre, per eleganza, stile e ironia: Marina Lante della Rovere ed Elsa Martinelli. La top model Elsa Martinelli era di una bellezza sconvolgente, richiesta dai set cinematografici e dalle passerelle internazionali. Fascino prorompente dalle lunghe gambe e alternativo al sex-appeal delle maggiorate, ormai al tramonto. Tanto esposta ai flash dei fotografi, quanto discreta e riservata nella vita privata. Ben diversa Marina: esuberante, trasgressiva, dagli amori tanto travolgenti quanto effimeri. Come quello con il giornalista (“Espresso” e “Tempo illustrato”), che nella sua vita spericolata riempiva di petali di rose rosse l’alcova per la sua Marina. Ma c’è anche l’amore sulla via del tramonto: quello con Carlo Ripa di Meana, soprannominato, immaginiamo con merito, “orgasmo da Rotterdam”.

Poveri ma belli, in Italia ci si consola. Ma la star nazional-popolare del momento non è un’attrice, bensì “La desnuda di New York”, come ci fa sapere Mauro Calamandrei (8 aprile 1962). «La più celebre modella d’America è figlia di un conte italiano», si chiama Cristina Paolozzi, ha 22 anni e tariffe da 40 mila lire l’ora: «Solo una decina di modelle guadagnano di più, con un massimo di 80 mila lire per Suzy Parker». Racconta il corrispondente de “L’Espresso” da New York: «Taluni la chiamano la contessina scalza, altri l’hanno ribattezzata la Maya Desnuda (…). Ma quel che ha fatto di Cristina Paolozzi l’obbligo dei cocktail-party è stata la serie di foto di Richard Avedon apparse nel numero di gennaio di “Harper’s Bazar” che si apre con un nudo».

Nell’estati della dolce vita le italiane si confrontano sulle spiagge a colpi di bikini. “L’Espresso” non è da meno con una galleria di bellezze in due pezzi a illustrare i numeri estivi. Meglio la bionda Elke Sommer che si abbronza a Torvajanica prima di girare “Femmine di lusso” o la bruna Anna Maria Guarneri a Marina Piccola a Capri (10 luglio 1960)? Forse mette tutti d’accordo Jane Mansfield, ammirata a Positano (8 lugli0o 1962) e sulle pagine del settimanale di via Po che la offre nuda ai lettori fotografata in piscina a mostrare uno strepitoso seno.

Se al mare si va in due pezzi, sul set e sui palcoscenici si vorrebbe andare ben oltre. Ma, come racconta Sandro Viola in “Supersexy a Frascati” (24 novembre 1963), non è aria: «Un grido d’allarme, “Attenzione: le coppette non passano più”, si è diffuso in questi giorni negli ambienti dei produttori cinematografici specializzati in film della serie “sexy”. Le coppette sono i minuscoli coni (generalmente di cartone argentato o di velluto trapunto ma di metallo se si tratta della danza del ventre o di ballerina araba) che le strip-teuses portano sui capezzoli nei paesi dove è vietato il nudo integrale, Cosa vuol dire che “le coppette non passano più” è chiaro: la censura ha deciso di sopprimere le inquadrature con le “coppette” e di fermare gli strip-teases al momento in cui la ballerina si toglie il reggiseno». Ma le Giovanne d’Arco del nudo non si lasciano intimorire e perciò “Le attrici si spogliano” e “Il cinema torna all’erotismo” (25 agosto 1963). In un appartamento di piazza Navona, Sophia Loren si spoglia lentamente, davanti a Marcello Mastroianni, togliendosi uno dopo l’altro, il vestito, le calze, la guepière. E’ una scena di “Ieri, oggi e domani” di Vittorio De Sica e Saophia Loren non aveva mai girato una scena così dopo i suoi primi film ambientati nella Roma neroniana (…).

A Dublino per un film tratto dal romanzo di Somerset Maughan, “Of human bondage”, la pudica Kim Novak non ha fatto storie davanti all’obbligo di spogliarsi interamente, proprio lei che è cattolica fervente, che va sul set con un rosario regalatole da una nonna boema e che si è rifiutata di accettare la moda delle gonne sopra al ginocchio. Invece, davanti alla scena della camera da letto non ha voluto controfigure e si è volenterosamente spogliata». E “L’Espresso” ce la fa vedere la volonterosa, in cinque immagini riprese dal set: Kim Novak nuda, ma languidamente e strategicamente avvinghiata a un provvido lenzuolo, riesce nell’impresa di non far vedere nulla di peccaminoso, se non schiena, fianchi e cosce e appena la curva di un seno. Alla povera Rita Renoir non resta così che lasciare lo strip per interpretare i classici del teatro francese (“La Fedra del Crazy Horse”, 12 luglio 1964).

A Roma la premiata ditta Garinei & Giovannini, i padri della commedia musicale all’italiana, va invece controcorrente e sponsorizza 12 compagnie di avanspettacolo in gara sul palcoscenico del Sistina (“Il pomeriggio con Giunone”, 7 giugno 1964): «Nell’ultima serata delle eliminatorie, le compagnie in gara saranno quella di Fredo Pistoni e quella di Rosy Madia. Vediamo di cosa consiste lo spettacolo di questa compagnia. Gli elementi sono nove: un balletto formato da cinque ragazze, un cantante, due generici e la soubrette Rosy Madia. All’inizio dello spettacolo Rosy Madia si presenta in mutandine e reggiseno. E’ una donna non precisamente bella, ma molto procace, coi fianchi larghissimi. E’ appena entrata in scena che uno dei generici le chiede: “Scusi, signorina, lei di dov’è?”. “Di Milano”. “Ah”, riprende il generico guardando ostentatamente alla schiena della soubrette, l’avevo capito “dal panettone”».

1965 - 1970

Me ne vado a prendere un caffè al bar-ristorante sotto la casa di Rino Barillari, “The King of Paparazzi”, il cui mito è celebrato con tanto di sue foto, all’Harry’s Bar di via Veneto. Chiedo a Barillari di ricordarci le star più paparazzate in quegli anni. Barillari: «Premetto che erano tempi pieni di ritrovate energie, di riscossa nazionale. Anni belli e famosi come i divi che spopolavano sul grande schermo e sui fotoromanzi, all’apice del successo: Maurizio Arena e Renato Salvatori, “il povero ma bello”, Cristina Gaioni, la Bardot tricolore, Marisa Solinas, la “fotocopia” di Pascal Petit, Annabella Incontrera, la Sophia Loren dei poveri...”». Ma il cinema italiano profuma anche di donna ed è corteggiato all’estero. Ha, per esempio, il corpo di Claudia Cardinale che “dopo la metamorfosi si è decisa di girare un film in America. La tortora ha messo gli artigli” (di Marialivia Serini, 14 febbraio 1965). «Fu Alberto Moravia a darcene per primo un ritratto diverso, trovò nei suoi occhi di monella “qualcosa di meridionale, di intenso”, nel suo viso “una nobiltà arcaica”, notò “sdegnosa e rustica” della bocca, le mani “dure e secche di ragazzo”. Visconti ha addirittura rovesciato l’immagine di Claudia: il viso coperto da un “font de teinte” scuro, la bocca pallida, gli occhi dilatati, quasi brucianti, ne ha fatto nel suo ultimo film, “Vaghe stelle dell’Orsa” un’Eletta del nostro tempo, avida, spietata, perfino crudele».

Anche Gina Lollobrigida è a una svolta: “Dal cinema erotico a Pirandello. La Gina di Mao (7 marzo 1965). La Lollo è a Parigi per la riduzione per la riduzione cinematografica di un romanzo di Rodolfo L. Fouesca, intitolato “Torre eburnea”, la storia di tre monache violentate dai miliziani di Mao. Scrive Giancarlo Marmori: «Due spesse virgole di rimmel le bordano l’orlo degli occhi, accentuandone il morbido bagliore e certa fissità. Spesse, pastose pure le tracce di rossetto sulle labbra umide. Un profumo forte da alcova fine secolo, impregna il suo corpo, i suoi indumenti e il salotto. L’incarnato del suo viso e delle braccia nude è d’un rosa caldo, mai visto, d’un rosa Thea».

Restiamo con Marmori a Parigi, per un’altra metamorfosi: “Jane Fonda va a scuola da Vadim per raccogliere l’eredità di B. B. La puritana in bikini” (29 dicembre 1963). Dalla penna-pennello di Marmori esce un altro capolavoro: Jane Fonda è una ragazza americana metodica e caparbia, ma da quando vive e lavor a Parigi un tocco di frivo9lezza ha già corrotto in superficie i suoi modi e la sua fisionomia originali (…). Delle ragazze americane di razza ha il tipo “standard” di bellezza energica, sana, un po’ ottusa. Eppure già somiglia a Brigitte Bardot, a Annette Stroyberg, a Catherine Deneuve, queste terribili ragazze attrici sfornate in serie da Vadim, e ci assomiglierà sempre di più quando il parrucchiere Dessanges le metterà i capelli alla rinfusa sulla testa, liberandole le orecchie e la nuca, per fabbricare quel cupolone biondo alla B. B.».

E siamo agli anni Settanta. Si parla di libertà sessuale, di Gay Pride, di cortei e occupazione di scuole e università, di autogestione, di assemblee e di gruppuscoli extraparlamentari. Il Sessantotto francese, con le barricate e gli scontri con i flick è contagioso: in Italia, da Milano a Napoli, sale la febbre della contestazione. I fascisti uccidono a Roma l’universitario Paolo Rossi, e si consuma la famosa battaglia di Valle Giulia. Nelle fabbriche nascono i picchetti, gli scioperi. “La classe operaia va in paradiso” di Lina Wertmuller con Gian Maria Volontè e donna. Ne parlerò nella prossima puntata.

Lanterne Rosse in via Po, la classe operaia va in Paradiso. L’Italia raccontata dalle pagine de L’Espresso. Alessandro De Feo su L'Espresso il 26 Luglio 2022.

L’onda lunga delle estati all’italiana si infrange anche tra le stanze della redazione de “L’Espresso” in via Po. E come un camaleonte, si trasforma in una parola d’ordine: “Le vacanze intelligenti”. Oddio, non che le nostre vacanze fossero cretine, ma un po’ di snobismo sotto gli ombrelloni non guasta. Sempre con impegno e umorismo. E tanta santa trasgressione. Ma prima delle sudate ferie tricolori, l’Europa si concede una stagione, che non sarà breve, di “rivoluzione”.

Il vento della contestazione soffia forte in Francia. Si scatena a maggio. “Nelle strade di Parigi si può decidere il futuro dell’Europa” (2 giugno 1968). A muoversi sono prima gli studenti e poi gli operai. Ma c’est n’est pas qu’un debout, continuons le combat”. Infatti si mobilitano pure i “Cowboy della rivoluzione (23 marzo 1969)”, ovvero la strana coppia formata dal regista Jean-Luc Godard, da Dany Le Rouge e il leader studentesco Cohn-Bendit, per creare un nuovo genere cinematografico: la contestazione western. Da qui nasce il film di Godard “La Chinoise”, tra sesso e barricate, che al cinema d’essay “Nuovo Olimpia”, nel centro di Roma, infiamma i nostri rivoluzionari in erba sulle note della colonna sonora: “Le Vietrnam brule et moi je hurle Maò Maò. Le villes crèvent et moi je reve Maò Maò. Les puteins crient et moi je ris MaòMaò. Le ris est fou et moi je joue Maò Maò…”. Il Movimento studentesco elegge i suoi leader: Mario Capanna a Milano, Oreste Scalzone a Roma.

Il filosofo e scrittore Jean-Paul Sartre, amante delle buone letture e delle sigarette Gauloise, non è da meno. Firma come direttore responsabile il giornale più denunciato di Francia “La cause du peuple”, «organo de la gauche prolétarienne», spiega il corrispondente da Parigi Marmori, «maoista e per auto definizione “giornale comunista, rivoluzionario proletario”». Sulle sue pagine si fanno già le barricate. Un esempio: “All’esercito bianco dei terroristi (…) e dei torturatori basta opporre l’esercito rosso del popolo. Allora, vinceremo, perché il potere è in fondo alla canna del fucile (citazione dal “Libretto rosso” di Mao Tze Tung, ndr.)”.

Dal 12 aprile 1970 “L’Espresso” cambia direzione. A Gianni Corbi succede Livio Zanetti. Con Livio si raggiungeranno picchi di vendita vertiginosi, dalle 300 mila copie in su, grazie a iniziative e supplementi. Cambia la direzione ma non la vena polemica e dissacratoria. “La donna al maschile si dice verme”, rivela il settimanale (16 maggio 1971) e racconta che «le erinni del femminismo francese», ovvero le signorine del Mouvement pour la libération de la femme, «hanno tenuto i loro stati generali e promulgano la loro costituzione. Articolo 1: l’uomo non c’è più».

Dagli Stati Uniti Jane Fonda lancia “Un modo nuovo di fare la donna” (5 settembre 1971). La Pulzella d’America si divide fra set e comizi, spesso al fianco della combattiva leader del black power “rosa”, Angela Davis e al primo convegno indetto a San Francisco dalle femministe americane si proclama «il piano d’attacco al sistema repressivo maschile». Insomma, viene partorito uno slogan universale: “L’utero è mio e lo gestisco io”.

Letta la scandalosa autobiografia di Arthur Miller, uno dei tanti ex mariti di Marilyn Monroe, Romano Giachetti scopre che “L’uomo onesto di mogli ne ha cinque” (6 febbraio 1972). Non solo. Per tenersi in forma la mente e il corpo gioca a ping pong. «Ci si dedica ancora con il vigore d’un ragazzo, due ore al giorno. Spesso gioca con donne di passaggio. A quelle, garbato come un saggio orientale, dice: “Spogliati, per favore, mi aiuta a giocare meglio. E quelle si spogliano. Un documento del libro ci mostra una bionda formosa, completamente nuda; e lui, dall’altra parte del tavolo, mezzo sognante con la racchetta in mano».

Ai maschi sporcaccioni una lezione la impartisce a Parigi la dea del Crazy Horse. Infatti, «per collaborare al riscatto della donna, Rita Renoir lancia uno spettacolo ideologico a tesi. Protagonista il diavolo». E naturalmente, lei, “Nuda come un’arma” (9 aprile 1972). L’inviata Lia Quilici (ricordiamo che è la moglie di Telesio Malaspina, entrambi nom de plum (?) per i giornalisti che non volevano firmare con il loro nome) accorre sul piccolo locale sulla Rive gauche, il Théatre de Plaisance, dove è in programma il bollente “Le Diable”. E annota: «Molti ricordano che durante i suoi primi happening ogni tanto esasperava fino all’esasperazione qualcuno del pubblico e poi lo schiaffeggiava con violenza (…). Rita Renoir entra in scena avvolta con una cappa nera che lascia liberi i seni secondo l’iconografia de “L’Histoire d’O” e qualche attimo dopo è completamente nuda. Durante la prima parte dello spettacolo, ogni tanto Rita Renoir si rivolge agli uomini in sala: “Monsieur, vuol venire qui a toccarmi? E voi due, volete salire sul palcoscenico a far l’amore con me? Chi vuole cominciare?”. Alcuni farfugliano qualcosa fra i denti, i più sprofondano imbarazzati tra i braccioli. Nessuno osa raccogliere l’invito».

A modo suo, l’invito lo raccoglie “L’Espresso”, che oltre a essere un fan storico della Renoir, specie nella stagione 1972 inonda le pagine degli spettacoli con i topless di attrice e attricette: se serve una tetta intellettuale, ecco Adriana Asti e Marilù Tolo; per la tetta zozzetta e un po’ perversa, s’avanzano quella scandinava e lolitesca, ecco Janet Agren; per le tette terzomondiste, le migliori sono quelle di Zeudi Araya. Per la, cronaca, anni dopo l’eredità di Rita Renoir verrà presa al Crazy Horse da Rosa Fumetto. Nuda, immersa in una mega coppa di champagne, delizia senza pudore il pubblico. Inizia la stagione del genere burlesque.

Umberto Eco viene mobilitato in difesa della stampa erotica (“Ma cos’è questa pornografia?”, 2 febbraio 1975). Lo scrittore tira le orecchie a un cavallo di razza scudocrociato: «E se Fanfani avesse la competenza sociologica e quella lungimiranza storica che tutti gli negano, capirebbe che la diffusione della pornografia è un capitolo fondamentale della restaurazione strisciante, uno dei modi per avere un elettorato passivo, lontano dalle polemiche sul divorzio o sull’aborto, e persino disinteressato di fondi neri. Ma lui, pare, non legge». E dopo l’exploit teatrale di Rita Renoir, il settimanale accoglie a braccia aperte quello cinematografico di una sconosciuta Corinne Clery: “Histoire d’O. Così parlò Kamasutra” (4 maggio 1975). Il celebre romanzo diventa film, «fra tonnellate di glutei, cilici e gemiti in puro stile porno-kitsch», si infervora Marmori. E prosegue: «Nel film, “O” verrà interpretata da certa Corinne Clery, una gradevole e ignota bruna di 25 anni. (…) Corinne è tonda abbastanza, non quanto però l’originale, e non è più adolescente. Nasce poi da famiglia agiata e non sembra particolarmente perspicace».

Conosco Corinne Clery da poco più di un anno. Fu lei a contattarmi: amante dei cani, venne colpita dal mio Mario. Corinne vive in una bella e verde tenuta nella campagna di Tuscania, “il Coco”. Ospita turisti nelle stanze che affitta, in cerca di relax, di sole e di bagni in piscina. Un’ora e un quarto di macchina lungo la tranquilla Cassia bis, e torno dalla Clery per chiederle, visto che abbiamo appena ricordato quanto le scrisse “L’Esprsso”, qualcosa di quel film. Corinne è ancora una bella donna, di pochi anni più anziana di me. Vive da sola. I figli sono in Francia. E si occupa direttamente della gestione della sua “impresa” molto familiare ma co n un tocco di ricercatezza molto parisienne.

«Come sei stata scritturata per quel film?».

«Vivevo con i miei a Parigi. Per un po’ ho tergiversato, poi ho accettato di andare a un provino. Vado, ma senza grandi speranze; sapevo che davanti al regista avevano sfilato centinaia di ragazze. Viene il mio turno, non mi chiedono di spogliarmi, vengo prescelta».

D.: «Come venne accolta l’uscita del film in Francia?».

«Riscosse subito un successo enorme. L’assurdo è che venni contestata dalle femministe. Non avevano capito il senso liberatorio del film. Del resto io sono un’attrice, non una suffragetta. E nemmeno un’esibizionista. Mi piace il mio corpo e troppo tardi ho capito la potenzialità della mia fisicità. No, non mi sono mai sentita un sex-symbol. Ti voglio raccontare che mentre in albergo mi preparavo per la prima del film, con un certo spavento spiai dalla finestra della suite della mia stanzao: che impressione! Un mare di folla che dall’avenue des Champs E’lisée fino allArc de Triomphe du Carrousel voleva vedermi».

«Abbiamo detto dei tuoi fans. E la critica, la stampa?».

«Il settimanale politico e culturale “L’Express” mi dedicò una copertina con una delle foto più nude e crude del film. Il suo direttore, Jean-Jacques Servan-Schreiber, politico, scrittore, oltre che giornalista, è diventato un caro amico».

«Nel film, nuda, sei legata e fustigata. C’è molto sadismo. Che impressione ti fa oggi rivedere il film?».

«Bien, ho provato una noia mortale, un film per educande. Naturalmente non ho avuto controfigure. Potrei girare nuda per Tuscania, talmente sono libera da pregiudizi. Quanto alle frustate, erano delle dolci carezze...».

Negli Stati Uniti «due sociologi dimostrano che l’erotismo di gruppo giova all’America» ( “E’ un patriota: dorme in comitiva” , 11 aprile 1971). Lo swinging o sesso collettivo per rivitalizzare la depressione a stelle e strisce, viene teorizzato, scrive Romano Giachetti, dai coniugi Bartell: «Nel trio o nella doppia coppia le cose sono più delicate (…) tanto che perfino il linguaggio è mantenuto allusivo, mai volgare. Così si parla di amore alla francese (orale), alla romana (orgia), alla greca (anale), all’inglese (sadomasochismo), alla tv (travestiti), alla polaroyd (voyeurismo). Il sesso, poi, può essere “chiuso”, tutti in camere diverse, o “aperto”, tutti insieme (…). I Barrell raccontano che quando a una coppia marito e moglie, eccitati da tanto baccanale, cercano di fare all’amore tra di loro, tutti gli altri insorgono e li fermano: “Questo non è permesso, è incesto”».

Il 1975 segna un’altra importante battaglia civile e sociale di cui “L’Espresso” si fa promotore. Dalla mia intervista all’avvocato Oreste Flamminii Minuto leggo:

Domanda: «Quella storica e scandalosa copertina del 1975, intitolata “Aborto: una tragedia italiana”, raffigurava una donna nuda, incinta e messa in croce, suscitò un vespaio. Perché?».

Risposta: «Facciamo un passo indietro, all’anno prima. Il 13 gennaio “L’Espresso”, che era ancora in formato lenzuolo, aveva in primo piano il referendum abrogativo del divorzio, approvato grazie ai deputati Fortuna e Baslini. Una valanga di “No” restituì al paese una legge civile. In copertina il risultato del referendum venne salutato con uno sberleffo: una lingua con sopra la percentuale del voto. Torniamo alla copertina del 1975. Ebbe un impatto visivo enorme e venne denunciata per vilipendio della religione. Finiti al giudizio della Cassazione, il direttore Zanetti e l’autore dell’articolo vennero assolti “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”».

Arriviamo al 1976: Se Zanetti spedisce Sergio Saviane a Uscio (più si caga, più si dimagrisce), ai lettori consiglia di meglio: Vacanze intelligenti. E le vacanze intelligenti, come vedremo, diventa un appuntamento estivo oltre che un tormentone. Vacenze intelligenti come quelle che consigliano un viaggio alla Gohete nell’arte italiana (18 luglio 1976), oppure a contato con la natura italiana (17 giugno 1978). Chi fa vacanze deficienti è l’aspirante re d’Italia, Vittorio Emanuele di Savoia. Il “re di Cavallo” (3 settembre 1978), isolotto vip della Corsica, arricchisce il suo pédigree con «criminali imprese di artigliere marittimo», come le chiama Gabriele Invernizzi.

La stagione dei “mesi intelligenti” viene anticipata con una locandina pubblicitaria: “Le Vacanze intelligenti: l’estate apocalittica: quest’anno si gioca alla sopravvivenza in montagna, al mare, nell’albergo abbandonato. Mostre, spettacoli, festival: calendario ragionato delle più importanti manifestazioni. Itinerari insoliti: quattro viaggiatori stravaganti scoprono la vecchia Europa. I libri del sole: classici e novità da leggere per approfittare dei giorni liberi (li consigliano Umberto Eco, Elio Chinol, Giuseppe Galasso). Italia tecnica e magica: itinerario fra le testimonianze del mondo moderno e le sopravvivenze dell’antico”. Sotto, la foto di una splendida ragazza bionda e nuda, bandana a tenere i capelli, la bocca a sfiorare una fisarmonica, bracciale ai polsi e cavigliera al piede. Quello che colpisce è la ricerca e la raffinatezza dei nudi che propone “L’Espresso”, Tanto erotismo e mai una goccia di volgarità.

Tirano bene anche le “Vacanze orientaliste” (“Cinquemila al giorno, Buddha compreso”, 18 giugno 1978), da trascorrere in “campi di meditazione” e in compagnia, come annota Marisa Rusconi, «di guru, yoghi, professori junghiani e danzatori più o meno seri». Ma la grande questione è un’altra: “La coppia deve dividersi per almeno un mese all’anno?”. Interrogativo amletico che merita la copertina e il proclama: “Vacanze separate” (23 luglio 1978). A illustrare “Le vacanze separate” vengono fotografati due ragazzi. Lei in topless bianco e bianca la sua collana, svolazza felice e a piedi nudi sulla sabbia. Lui, un po’ depresso, si allontana mogio mogio nel suo costume hawajano.

Andiamo a leggere l’articolo. Sommario: Costume / Le vacanze separate. Titolo: “Finalmente sola”. Sì, è davvero sola la ragazza nuda con gli occhi chiusi da sognatrice, distesa al sole accanto a un windsurf. Sui seni e sul sedere risalta il bianco del bikini che si è sfilata. Veniamo all’incipit: “Lui lì / Lei là / E gli altri? Chissà”. E’ il couplet per l’estate: insomma le vacanze separate. Un modo diverso di interpretare la villeggiatura e la vita di coppia? Le vacanze per proprio conto come ricerca di un ménage in crisi? Come ripensamento e addirittura come un’infrazione ai vecchi comandamenti del vivere insieme?”. Seguono le testimonianze dei pionieri di queste vacane. C’è l’avvocato trentacinquenne benestante ed emancipato che legge “Lotta continua”; e l’arredatrice ventinovenne che al lavoro nel suo studio alterna le riunioni del collettivo femminista del quartiere. E gli esperti del settore come la pensano? Il regista Marco Ferreri (“L’ultima donna”, “Ciao maschio”) non ha peli sulla lingua: «Cosa credono queste coppie, che un mese di lontananza le fa tornare differenti? Al massimo si fanno tre scopate in più, se ci riescono, ma questo non ha mai risolto nessun problema». Lidia Ravera, scrittrice (“Porci con le ali” con Marco Lombardo Radice), è anche lei sul fronte del No: «Le vacanze separate mi sembrano un trucchetto a cui ricorrono tutte quelle persone che non hanno mai fatto l’esperienza dell’autonomia: questa si misura nella vita quotidiana, non certo separandosi per qualche settimana». Rileggendo l’articolo ci viene un sospetto. Non sarà che le vacanze separate spaccano le generazioni? I ragazzi e le ragazze intervistati sono tutti del partito del Sì. «Fa bene stare un periodo senza vedersi: Quando torni tutto è più bello di prima, anche lui è più bello», è la voce, fra le tante, di Luciana, studentessa di filosofia. Meno teorica e più pratica è Teresa, una biondina di vent’anni: «La vacanza separata significa libertà in tutto, anche nei rapporti sessuali».

Facile a dirsi, un po’ più complicato il farsi: come, dove, quando, con chi? Già, con chi? Bel problema. Anche perché s’avanza una nuova protagonista della stagione: “E’ la donna del momento. Bella, complicata, fra i trenta e i quaranta” (28 maggio 1978). Lucilla Casucci ce la presenta: «Realizzata ma disperata, emancipata quanto insoddisfatta, ambiziosa e insicura, anticonformista, romantica, impegnata, disillusa (…). E’ lei, la trentenne, che adesso detta le mode, fa notizia, conta». Una tipa anche molto curiosa che, tra l’altro, vuole esplorare le vie della sessualità. Tanto più che lì le cose non è che vadano proprio bene. Dagli Stati Uniti “L’Espresso” diffonde il “Rapporto Hite”, redatto da una studiosa americana Shere Hite, laurea alla Columbia University di New York (Mr. Orgasmo? C’è una signora che aspetta”, 6 novembre 1977).

Nel 1979 le conquiste del femminismo non hanno barriere. Scavalcano anche le corde del ring. “Botte da donne” recita il titolo. Le ragazze sono una francese di origine italiana, Lina Magnani e la fiamminga Cleo Dewert. L’ “evento” si è tenuto al Teatro Tenda di Roma e ad applaudire “Femme catch, le donne sul ring”, spettatori di eccezione: come il regista Sergio Leone e l’attore Giuliano Gemma. Ironico il finale dell’articolo: «Per un’ora, sul ring, Lina, Cleo e altre loro due colleghe, hanno fatto finta di darsele di santa ragione, con discreto spasso di tutti. Forse se gli organizzatori avessero invitato quattro femministe romane di diversa tendenza, le botte si sarebbero viste sul serio». Quattro le foto che accompagnano il match. Nella prima sembra avere il sopravvento la leoapardata Cleo, ma presto finisce alle corde, tra calci e testate nel ventre e la bocca spalancata…

Una possibilità che il formato tabloid dà ai grafici è quella di dividere in due o tre parti la copertina. Prendiamo quella del 13 aprile 1980. Tre le foto. In alto un terrorista che punta una Beretta (“Un mitra si aggira per l’Europa”). In basso un contrasto di gioco e “Il memoriale del super testimone” del calcio truffa. Al centro la splendida Ilona Staller, seni nudi in vista, seduta su un trono dorato dove i braccioli hanno la testa di due capricorni. Collane, bracciale e una corona da regina del porno fanno brillare la sua pelle bianca come il latte. Titolo. “Rai-tv erotica. Ne vedremo delle nude!”.

Dopo aver spogliato attrici e debuttanti, il principe di “Playboy” Hugh Hefner se n’è inventata un’altra: è la volta delle segretarie. Lasciamo perdere i nomi delle ardite, non dicono niente. Molto di più le loro foto: bei seni, lunghe gambe, natiche toste e sguardi malandrini. Il “Playboy” italiano è fedele alla linea dell’eros a stelle e strisce. Con l’obiettivo di Angelo Frontoni inaugura la galleria di “donne qualunque”, come Francesca Guidato, segretaria di una galleria romana: ha un seno scoperto, l’altro coperto maliziosamente dal reggiseno e con unghie delle lunghe mani laccate di rosso. Sia made in Usa o made in Italy, delle ragazze non si deve mai vedere il basso ventre né il suo boschetto. Nella scheda “Miss autoscatto” si dà voce alla protesta risentita dei redattori de “Le Ore”, leader assoluto nel settore più spinto (80 mila copie a numero in media): «Ma cosa credono quelli di “Playboy”, di avere veramente scoperto l’America? Sono anni che noi pubblichiamo solo nudi di donne qualunque». E il successo è tale che “Le Ore” ha perfino lanciato un concorso: in palio il titolo di “Miss Autoscatto”, dalla omonima rubrica Autoscatto dove si celebra il trionfo del porno casareccio.

A essere sinceri, in questa stagione è un’altra l’aria che tira nel paese. “L’Espresso” la sintetizza con una copertina dove un bel sedere femminile diventa l’obiettivo di una freccetta. “Italia volgare” (31 gennaio 1982) è la scritta, contornata da “sederi”, pierini, pernacchie, storielle goliardiche. E a scegliere “Le cronache dell’Italia volgare” è la penna di Dante Matelli. Che dopo aver esplorato “Viva la foca”, film con Lory Del Santo e “Pierino contro tutti del due Alvaro Vitali & Michela Miti, attacca: «Ben cinque minuti al cazzo, durante una tranquilla trasmissione domenicale, in origine, forse, programmata per le famiglie. E’ accaduto a “Blitz”, il 10 gennaio scorso, per iniziativa di Giorgio Bracardi, macchiettista in linea con i tempo. “Ma tu vuoi mettere il pipino di Spadolini con la mazzaferrata di Predappio?”, è stato l’esordio virilnostalgico dell’attore». Il 16 maggio di quell’anno si preparano le valigie e si riorganizzano le idee per l’estate. “L’Espresso” offre un suggerimento: “Vacanze: fatele in Italia”. Bella e un po’ surreale la copertina. Una splendida mulatta corre nuda verso il mare dove biancheggiano le onde. Alla sua sinistra si erge una scala bianca come le onde. A Giorgio de Chirico sarebbe piaciuta. Già: ma dove porterà quella scala, Tirreno o Adriatico?

Stagione di scazzi e stagione di donne con le palle, come suggerisce anche il leghista Roberto Maroni, parlando di una sua dipendente, capo gabinetto. E le “donne con le palle” appaiono anche sulla copertina de “L’Espresso” (23 settembre 1994). Una di loro, Letizia Moratti (“Nelle mani di donna Letizia), era arrivata al vertice della Rai, provocando un terremoto. Il giornale si chiede: “Lottizzata o indipendente? Manager navigata o principiante? Prima o seconda Repubblica? Meriti e segreti della signora Brachetti Moratti)”. Figlia di quell’Angelo Moratti, industriale e presidente della grande Inter di Helenio Herrera, e sorella di Massimo e di Gianmarco, la risposta ai quesiti arriva sulla copertina del 30 settembre 1994, E’ una copertina a due volti: da una parte c’è “Santa Moana”, “Nuovi miti. Vita, morte e apoteosi di una pornostar”, in cui appare Moana prematuramente morta (il suo mito, creato “in società” con Riccardo Schicchi, patron della Diva Futura, sede in campagna, strip estremi nei locali di via Veneto) è talmente vivo ancora oggi che molti suoi fans sono convinti che sia ancora viva e si sia rifugiata in un convento). Dall’altra, ecco la “Letizia tragica”, “Vecchi vizi: la presa del potere di Berlusconi”.

Sul numero del 21 ottobre 1994, il giornale dà notizia che la “Marescialla” chiede 10 miliardi di lire”. La Moratti querela per diffamazione Rinaldi e Pansa. “Tra politica & salotti” impazzano “Le donne delle due Repubbliche” (28 ottobre 1994). Le racconta Denise Pardo e ci fa sapere che «alcune orfane di Bettino, sono approdate da Silvio. Altre annaspano in mezzo al guado. Altre ancora si sono ritirate a vita privata». Seguono «fasti e nefasti di dieci signore-simbolo». Da Marina Ripa di Meana a Maria Pia La Malfa, da Alda D’Eusanio ad Anja Pieroni e via elencando.

Un amarcord d’autore lo offre un inedito di Pier Paolo Pasolini (“Federico”, 19 gennaio !992). E’ il 1965 e in macchina assieme a Fellini parte alla ricerca della “Bomba”, la “mitica battona romana”. Comincia così: «Ricorderò sempre la mattinata che ho conosciuto Fellini: mattinata “favolosa”, secondo la sua linguistica più frequente. «Siamo partiti con la sua macchina, massiccia e molle, ubriaca ed esattissima (come lui), da piazza del Popolo, e di strada in strada siamo arrivati in campagna: era la Flaminia? L’Aurelia? La Cassia? L’unica cosa fisicamente certa era che si trattava di campagna, con strade asfaltate, benzinai, qualche casale, qualche ragazzo in bicicletta un po’ burino e un’immensa guaina verde, imbevuta di sole ancora freddo che rivestiva tutto. Federico guidava con una mano e dava arraffate qua e là al paesaggio, rischiando continuamente di schiacciare i ragazzetti burini o di finire nel fosso, ma dando però l’impressione che ciò, in realtà, era impossibile: guidava la macchina magicamente come tirandola e tenendola sospesa con un filo».

E che ti combina Chicco Testa, allora alla presidenza dell’Enel, primo boiardo diessino dell’era Prodi? E’ l’amante focoso che compare nel fotoromanzo d’antan “Donna di cuori o di denari?”, «pubblicato nel 1985 sul primo numero di “Lucciola”, periodico dalla parte della prostitute diretto dalla saggista Roberta Tatafiore» (“Dalle lucciole all’elettricità”). Più villoso sul cuoio capelluto che sul petto, Chicco sbaciucca la partner , che è proprio la Tatafiore: «Daniela, Daniela, mi piaci… Sei il tipo di donna che può farmi impazzire». E lei, languida: «Me l’hai già detto. Dimmelo un’altra volta». Furono invece “Sgominati da una pernacchia” (23 maggio 1996) i compagni di Servire il Popolo, i maoisti italiani che nel ‘68 fondarono un partitino e un giornale, e si votarono all’integralismo comunista (all’indice l’infedeltà!), fra comuni, matrimoni rossi e collettivizazioni. Per il loro piccolo Mao c’era pure una cantilena: “Viva, viva Meldolesi, il gran capo dei cinesi…”. I più cinici (vedi i “compagni” di Potere Operaio che nel pomeriggio del sabato sfilavano nel centro delle città, terrorizzando gli amanti dello shoppimg, caschi da centauro, mazze di ferro e a proteggere il corteo i katanga foulard sul volto e molotov in mano. La sera si scatenavano ai tavoli del poker ) li soprannominarono Servire Il Pollo…

Che al direttore Claudio Rinaldi piacciono le donne è un fatto (tipologia Jo Champa o Veronica Pivetti). Che ami guardare le belle donne è un altro fatto. Che non perda occasione per sbatterle nude in copertina è una certezza. Al di là di alcune copertine canoniche che un po’ tutti i direttori fanno nei momenti di magra, da come curare il mal di testa alle allergie, dalle coppie in crisi all’adulterio, fino alla diatriba nucleare, per fare un esempio. Rinaldi batte tutte le strade dell’eros. Per cominciare, non butta niente: non solo copertine con star e rockstar (adora il genere coatto-chic-trasgressivo stile Courtney Love & Asia Argento), ma spazia da anonime ucraine al Calendario Pirelli fino ad Alba Parietti. Ma sono le top model le sue fissazioni. Claudio, infatti, adora le sfilate (come le partite della Roma). Claudia Schiffer (“Oh, Claudia”, 3 giugno 1994) Le immortala nude in copertina praticamente tutte: Naomi Campbell (“La dittatura dell’apparenza”, 26 aprile 1992) e Carla Bruni (“Oh, Carla, 22 novembre 1992) e Nadja Auermann (“Nadja!”, 16 settembre 1994). Si risuscitano nudi d’annata, da Jane Fonda a Brigitte Bardot fino a Silvana Mangano.

Fondamentali anche gli interrogativi e le tematiche che dibatte il giornale. “Come fanno l’amore gli italiani”; “Oggetto del desiderio l’alluce” (Una paparazzata estiva di Sarah Fergusson e del suo aristocratico amante sorpreso, appunto, col principesco alluce in bocca); “Come cambia la prostituzione”; “Il Vangelo del nuovo libertino”. Il top Rinaldi lo raggiunge l’8 agosto 1996, con una sfilata in copertina di culi femminili. Titolo: “Il fattore C”, Occhiello: “La prevalenza del didietro”. Sommario: “20 pagine posteriormente scorrette”

C’è un’altra grande notizia che rende felici le pantere canute e i ragazzi della via Po. Il farmaco-miracolo: “Viagra la pillola che guarisce” (27 novembre 1997) e che promette di risolvere i problemi dei maschietti «sette volte su dieci». Se la scienza dà una mano, la tecnologia dà l’altra: “L’amore al tempo di Internet” (10 maggio 1996) è un baedeker dell’eros: «Ricerca di partner, lezioni di sesso, immagini choc». Il giornale offre «una guida esclusiva alle passioni online». E le perversioni? “L’Espresso” le garantisce patinate con i maestri dell’erotismo. Richard Avedon spoglia “L’ultima Madonna”, Courtney Love, vedova del leader dei Nirvana Kurt Cobain (“Le perverse”, 8 gennaio 199(). Poi Helmut Newton svela le grazie e i tatuaggi inguinali di Asia Argento (“Peccato d’argento”, 15 gennaio 1998) che, very hot, sibila: «Mentre scattava quelle foto mi sentivo veramente come una bambina in un bordello. Una baby seduttrice, un manichino in un casino».

Il 15 agosto 1996 “la coscia lunga della sinistra” “L’Alba desnuda” si merita una copertina, firmata dal maestro Helmut Newton. La Parietti si era data al cinema erotico, protagonista del film “Il Macellaio” di Aurelio Grimaldi (“Tutta l’Alba in 3 minuti e 5 secondi”, 19 marzo 1998). La viviseziona l’ultrarecidivo Matelli, cronometrista dell’eros: «Le cose variano quando Alba si masturba sul corpo del macellaio esausto. E’ un assolo da post-femminismo. Alba in questa scena fa pendant col marito che sul podio di Odessa dirige un “Messia”. Lui si sbraccia e lei si mette “a candela”. Lei deve aver toccato in qualche modo il suo punto “G” e il marito, in contemporanea, si contorce sul podio nell’imitazione di Sir Colin Davis». La sceneggiata dell’erotica Alba comunque dura troppo poco, rispetto a quanto promesso: 1 minuto e 19 secondi, secondo il cronometrista dell’eros Matelli. Il problema è grave: eiaculazione precoce.

La Milano by night si distrae a ritmo di samba sotto la Madonnina con bellezze russe, viados brasiliani e droga a fiumi. L’oggetto del desiderio si chiama Lara Souza De Morais, detta Lara, testimone di Geova nata a Goias, in Brasile, 34 anni fa. E’ sospettata di sfruttamento della prostituzione e detenzione di cocaina (“Sesso, Lara e cocaina”, 24 febbraio 2000). Marco Gregoretti sniffa la pista e incassa verbali a luci rosse. Una delle ragazze dell’allegra banda Lara racconta: «Lara mi chiamò in disparte e mi disse di non chiedere soldi ai clienti perché al termine mi avrebbe pagato lei… Preciso che in quella circostanza percepii la somma di 500 mila lire (250 a testa) per i due rapporti orali consumati in bagno in quanto nella stanza c’erano le sorelle che pregavano». I clienti non sono persone qualsiasi, ma stelle del calcio, famosi attori, rampolli della borghesia meneghina. E’ un giro di feste, festini, orge, ammucchiate, che ha come punto di riferimento la discoteca Hollywood. Un imprenditore confessa il costo della spesa: 30 milioni versati a Lara nel gennaio-febbraio 1998, 80 milioni nel maggio-giugno 1998.

“Monica desnuda” (2 novembre 2000) queste cosacce non le fa. Lei, Monica Bellucci, è la protagonista del film “Malèna” di Giuseppe Tornatore. Il regista la intervista per “L’Espresso” e ne esce un curioso faccia a faccia. Si comincia dal potere della seduzione: «E’ chiaro che la bellezza dà una grande forma di potere», ammette la Bellucci: «Io ho scelto un lavoro basato sul desiderio degli altri. Se faccio un calendario nuda, e dopo 36 ore va esaurito, significa che di un certo potere, minimo se vuoi, posso disporre. D’altra parte è naturale. Biologicamente, se ci pensi, la donna cosa vuole? Sedurre l’uomo, proprio da un punto di vista animale. Proprio come la giraffa con il maschio, lo stesso fa la donna».

La “bona” Samaritana non risparmia i particolari della sua prima volta: «Avevo 14 anni, lui 18: E’ stato bellissimo e molto naturale. Dove? In una Lancia».

Flavio Briatore, mister Formula 1 oltre che mister Cambell e presto mister Gregoracci, non se la passa malaccio. Apre le porte della sua nuova creatura a Enrico Arosio (“Io ballo con Naomi”, 3 agosto 200), il Billionaire, il locale di Porto Cervo più corteggiato da sceicchi e calciatori, commendatori della Brianza e stelline. La formula Briatore è semplice: «Io vivo a Londra da 12 anni ma la Sardegna è sempre il posto più bello e a a Porto Cervo mancava un locale adatto (…) a tutti quelli che la sera stanno chiusi nelle case o sulle barche. Inglesi, americani. Amici che da anni vanno a Saint-Tropez proprio per i locali. Ma cosa c’è a Saint-Tropez oltre ai locali? Il mare no, il mare è qui». Ma niente Sardegna per i lettori de “L’Espresso”. Le sempre più resistenti vacanze intelligenti della direzione Anselmi fanno rotta “Alla scoperta delle due Sicilie dei Borbone” (3 agosto 2000).

Grosso scandalo all’università. La ragazza è bella, ha i capelli lunghi, una camicetta bianca e una voce da fatina. Appena entra nello studio del professore si giustifica perché è venuta con una bambina (…). Di certo la bambina resta fuori. Il professore se ne disinteressa e si lancia sulla studentessa. Prima la sfiora tra le gambe, poi le prende la testa. Vuole un rapporto orale. Lei resiste: «No, professore, non me la sento. La prego, qualsiasi cosa ma questo no». Il professore la stringe sul divano e lei l’accontenta in altro modo. Lui resta immobile sulla sedia. Sembra un filmino stile “Il professore riceve l’allieva” e invece improvvisamente la scena cambia. Lei si ferma e comincia a piangere. Lui resta con i pantaloni calati, sul volto un tragico imbarazzo. Gli exploit erotici del professor Ezio Capizzano (“Ecco a voi il Decamerino”, 14 febbraio 2002), docente di diritto commerciale all’Università di Camerino sono immortalati, a insaputa delle sue allieve, dall’emerito studioso in altrettante videocassette. Una trentina di video hard. Non la passerà liscia.

Un altro film erotico molto gettonato in questa stagione ha per titolo “Milingo & Milinga” (6 settembre 2001). Protagonista maschile Emmanuel Milingo. vescovo, guaritore ed esorcista, detto il padre Pio africano. Interprete femminile: la dottoressa Maria Sung, 43 anni, detta “la Milinga”. E dire che all’apice della carriera, «il vescovo africano è una slot-machine, Tra le offerte per le guarigioni e i diritti dei suoi libri, tira su più di un miliardo l’anno. Nel ‘97 i suoi seguaci organizzano una crociera-pellegrinaggio in Grecia con il vescovo a bordo. Costo del biglietto: 2 milioni a testa».

Il 7 marzo del 2001 cambia la direzione. Giulio Anselmi saluta i lettori e in Largo Fochetti da Milano arriva “la direttora”. La milanese Daniela Hamaui. Sempre di Prada vestita e tacchi a spillo esagerati (la “sciura” a Roma si direbbe che è un tappo…), Daniela detesta il pettegolezzo. E il nudo scompare dal giornale. Le immagini più spinte bisogna cercarle nelle inserzioni pubblicitarie. E anche quando in copertina punta sul sesso, di erotico c’è solo il titolo. Il 25 aprile 2002 la top model Elle McPherson in abito da sera introduce al Porno-chic. “L’orgia chic”, 31 luglio 2003) è illustrata da ragazzetti puritani. Per “Il sesso scatenato” (13 giugno 2002) c’è il faccione di una castissima Laetitia Casta. Insomma, lo scritto osa più dell’immagine. Due esempi: “Caccia al punto G” (25 luglio 2002), dedicata al piacere femminile. E “La predatrice” (7 agosto 2002), la giovane single e spregiudicata che cerca «un maschio per una notte». Ebbene, non ci scappa una tetta nemmeno a pagarla. Il maschilismo di via Po è in rotta. Come le Vacanze intelligenti, ormai una reliquia, La Hamaui propone “L’estate zingara”, dal deserto alla giungla, le vacanze a cielo aperto.

LA RIVINCITA DI BERLUSCONI. La fedelissima di Cosentino entra nel cda dell’Espresso. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 04 luglio 2022

Per uno strano caso del destino nel consiglio di amministrazione del nuovo settimanale L’Espresso, ormai in mano al nuovo editore Danilo Iervolino, siede Paola Picilli.

Esperta di comunicazione, fondatrice di aziende, collaboratrice di politici e sottosegretari di Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi, che le inchieste dell’Espresso hanno raccontato in ogni sua sfumatura. Picilli è sposata con Luca D’Alessandro, giornalista, ex parlamentare, pure lui in Forza Italia (in passato capo ufficio stampa) fino all’uscita nel 2015.

Picilli è stata soprattutto, però, braccio destro e portavoce di Nicola Cosentino, che è stato il più potente politico di Forza Italia in Campania e sottosegretario all’Economia negli anni d’oro del berlusconismo. E questo ruolo è quello che più imbarazza all’interno della redazione.

GIOVANNI TIZIAN. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini. 

Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 5 luglio 2022.  

Per uno strano caso del destino nel consiglio di amministrazione del nuovo settimanale L’Espresso, ormai in mano al nuovo editore Danilo Iervolino, siede Paola Picilli. Esperta di comunicazione, fondatrice di aziende, collaboratrice di politici e sottosegretari di Forza Italia, il partito di Silvio Berlusconi, che le inchieste dell’Espresso hanno raccontato in ogni sua sfumatura. Picilli è sposata con Luca D’Alessandro, giornalista, ex parlamentare, pure lui in Forza Italia (in passato capo ufficio stampa) fino all’uscita nel 2015.

Picilli è stata soprattutto, però, braccio destro e portavoce di Nicola Cosentino, che è stato il più potente politico di Forza Italia in Campania e sottosegretario all’Economia negli anni d’oro del berlusconismo. E questo ruolo è quello che più imbarazza all’interno della redazione. Il motivo è semplice e riporta il giornale in piena epoca antiberlusconiana. “La camorra nel governo” è stato il titolo di una copertina dell’Espresso nel 2008, e ha scatenato il finimondo. Soprattutto perché al centro dell’indagine giornalistica c’era l’allora potente sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, ras di Forza Italia in Campania e fedelissimo di Silvio Berlusconi. 

I verbali pubblicati rivelavano per la prima volta l’esistenza di un’inchiesta dell’antimafia di Napoli sui rapporti molto stretti tra il sottosegretario e il famigerato clan dei Casalesi. Rapporti fondati sull’affare della spazzatura, business attorno al quale la camorra casertana ha costruito un impero, prima avvelenando i terreni con gli sversamenti illegali, poi gestendo con la politica lo smaltimento ufficialmente legale.

«Cosentino oggi produce vini in Campania, è fuori dalla politica», dice Picilli, che replica: «Non capisco cosa c’entra la mia nomina da indipendente nel cda dell’Espresso con le mie collaborazioni che ho avuto con diversi politici da Scajola a Cosentino». Picilli a settembre 2020 gioiva per l’assoluzione di Cosentino in uno dei tanti filoni aperti: «Vorrei solo che i nove anni di vita e di carriera qualcuno li restituisse a Nicola Cosentino, solo chi ha parlato con i suoi figli prova rabbia per un’assoluzione scontata. Povera Italia». Con lei hanno twittato il direttore del Foglio Claudio Cerasa, quello del garantista Pietro Sansonetti e tutti i politici di Forza Italia. Tutti avevano però omesso un elemento rilevante: gli altri procedimenti ancora aperti e le altre condanne ricevute da Cosentino per reati più gravi.

Un anno dopo, infatti, i giudici di secondo grado lo hanno condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, proprio l’inchiesta di cui L’Espresso aveva rivelato l’esistenza nel lontano 2008. Dieci anni di condanna in appello, perché secondo i giudici l’ex sottosegretario berlusconiano era il referente politico nazionale del clan dei Casalesi. Dopo questo verdetto, cui manca solo l’ultima parola della Cassazione, né Picilli né gli altri del partito hanno detto nulla.

«Io condivido sempre la libertà di stampa, soprattutto quando è fatta nel modo più corretto, e quando i colleghi giornalisti hanno onestà intellettuale che sia apolitica e apartitica. Nel 2008-2009 era quella la teoria dei magistrati, dopo le cose sono cambiate e infatti l’Espresso non ha più fatto quella copertina», dice Picilli. Alla teoria dei magistrati, però, hanno creduto sia giudici di primo che di secondo grado. «Ho ancora un ottimo rapporto con Cosentino. Vedremo in Cassazione che succede».

Picilli non è soltanto una consulente esterna che ha prestato la propria professionalità al partito di Berlusconi. Condivide con Forza Italia ideali e la passione per il capo politico di Arcore. E questo è evidente anche dai post pubblicati sui social network meno di un anno fa. Il 17 agosto 2021, commentando un intervento di Berlusconi sull’Afghanistan, Picilli scriveva: «Grazie presidente Silvio Berlusconi, gigante fra nani». Qualche mese fa, prima che Iervolino acquistasse definitivamente il settimanale e chiamasse la Picilli come membro del cda, l’Espresso aveva pubblicato un servizio sull’elezione del nuovo presidente della Repubblica: “Lui No”, titolava la copertina con una foto di Berlusconi.

Chissà che effetto farà a Picilli entrare ora nelle stanze dove sono nate le oltre cento copertine sul leader di Forza Italia: da “Sex and the Silvio”, “Arcore by Night” fino ad “Affari Suoi” e alle inchieste sui rapporti con la mafia, attraverso il fedelissimo Marcello Dell’Utri. Vent’anni di berlusconismo raccontati attraverso il settimanale e di cui la storia di Cosentino è stata una delle inchieste più significative degli ultimi anni. «Io sono solo una consigliera del Cda, non intervengo sulla linea editoriale».

DOPO L’ARTICOLO DI DOMANI. La fedelissima di Cosentino e Berlusconi si dimette dal cda dell’Espresso.  GIOVANNI TIZIAN Il Domani il 06 luglio 2022

L’amica di Nicola Cosentino ed estimatrice di Silvio Berlusconi non sarà più dentro il consiglio di amministrazione del settimanale L’Espresso, che proprio a Cosentino aveva dedicato copertine sui legami con la camorra.

Paola Picilli si è dimessa dopo l’articolo pubblicato da Domani sulla sua nomina e sulle sue solide relazioni con l’ex politico di FI.

«Motivi personali», è la motivazione ufficiale.

La fatwa di Fatto e Domani. Travaglio e Feltri si scagliano contro Chiocchetti e Picilli: “Sono mafiosi perché hanno lavorato con Dell’Utri e Cosentino”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Luglio 2022 

Chi sono Paola Picilli e Alessandro Chiocchetti e che cosa hanno in comune? Quali delitti hanno commesso, per meritare di essere afferrati per la gola dai quotidiani di Marco Travaglio e Stefano Feltri? Si diceva un tempo che le colpe dei padri non dovrebbero mai ricadere sui figli. Poi ricadevano, eccome. E uccidevano in culla carriere e ambizioni politiche. Ma arrivarono in seguito anche i giorni in cui cominciarono a piovere sulla testa dei figli le storie di vita di coloro che li avevano messi al mondo, nella buona e nella cattiva sorte. In Italia succede così, nel mondo dell’informazione.

Delle “colpe” dei figli che ricadono sui padri sa qualcosa Matteo Renzi, che ha avuto una sofferenza sincera nel vedere i propri genitori braccati dal meccanismo infernale delle inchieste-gogna su fatti che non avrebbero destato la minima attenzione se non avessero riguardato la famiglia del Presidente del consiglio. Un’operazione politica che ha poi presentato anche il vantaggio di far aprire gli occhi al leader di Italia viva, oggi fiero combattente in nome dei principi dello Stato di diritto. Ma non tutto è politica e non tutti sono Matteo Renzi. Il mondo è pieno di persone “normali” e Paola Picilli e Alessandro Ciocchetti sono tra questi. Esperta di comunicazione la prima, alto funzionario del Parlamento europeo il secondo. Due persone che probabilmente non si conoscono tra loro. Che cosa dunque avvicina le loro sorti? Due colossali sgambetti giornalistici in momenti delicati della loro carriera, tirati dalla furia dell’antimafia militante. Non siamo più alle colpe dei padri che ricadono sui figli né quelle dei pargoli a soffocare i genitori. Il salto di qualità porta a definire come impresentabile, o incandidabile a qualunque forma di carriera o promozione persino chi abbia “lavorato per”. Un “per” grande come una casa, se va a sfiorare Silvio Berlusconi, l’eterno uomo nero.

Paola Picilli “per uno strano caso del destino” è stata nominata dal primo luglio nel consiglio di amministrazione del nuovo Espresso dell’editore Danilo Iervolino. Dovrebbe sentirsi a disagio, pontifica uno che quelle stanze conosce bene, anche se ha traslocato a Domani, perché il settimanale, che nella gestione precedente era ridotto a qualche paginetta omaggio nella versione domenicale di Repubblica, ha pubblicato tante copertine contro Berlusconi. L’ultima, davvero patetica, strillava “Lui no” sotto la sua foto di candidato alla Presidenza della repubblica. Quale è dunque il motivo per cui una professionista della comunicazione come Paola Picilli non dovrebbe sedere (ma ormai c’è, caro Tizian, e non pare a disagio) in quel cda? Perché è “berlusconiana” e ha persino osato lanciare qualche tweet in favore del leader di Forza Italia. Ma soprattutto perché ha lavorato con Nicola Cosentino, ex sottosegretario di un governo di centrodestra e assolto dal reato più grave di cui era accusato dai magistrati “anticamorra” napoletani, anche se poi condannato per il solito reato associativo “esterno”. È chiaro il nesso di causalità? In fondo è come se la giornalista fosse stata contagiata da un virus e diventata un po’ mafiosa. Non può violare la sacralità di quelle stanze dove sono state fatte cento patetiche copertine contro Berlusconi, la “mafiosetta”!

Il caso di Chiocchetti è ancora più grave, perché lo sgambetto arriva mentre la pratica è ancora in corso. Si tratta di un alto funzionario che, scrive il giornalista del Fatto quotidiano, «diverse fonti ci descrivono come ‘una persona molto seria e tecnica, estranea alla vita dei partiti’». Questo funzionario, che oggi è capo di gabinetto di Roberta Metsola, la maltese presidente del Parlamento europeo succeduta a David Sassoli, e che in precedenza ha lavorato con Antonio Tajani, potrebbe diventare il segretario generale dell’assemblea. Ma Travaglio non vuole, e insieme a lui, pare, anche un giornalista del quotidiano gauchiste Liberation. Perché? Perché oltre vent’anni fa fu assistente di Marcello Dell’Utri. Chiaro? Anche lui contagiato dal virus della mafiosità, dovrebbe pagare per le “colpe” dei datori di lavoro. E gli auguriamo di essere promosso, a questo punto. 

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Nello Trocchia per editorialedomani.it l'8 luglio 2022.

Danilo Iervolino, nuovo proprietario dell’Espresso, chiede due milioni di euro al gruppo Gedi che edita Repubblica, a Ezio Mauro, storica firma e per due decenni direttore del quotidiano nazionale, a Luigi Vicinanza, ex direttore dell’Espresso e a due cronisti (chi scrive e Corrado Zunino). 

Dal primo luglio, il settimanale L’Espresso è di proprietà del gruppo di Danilo Iervolino, proprietario della Salernitana, quadra di calcio in Serie A, e fondatore dell’università telematica Pegaso. L’accordo che ha sancito il passaggio da Gedi al Bfc Media spa prevede che il settimanale mantenga un legame con i cugini di Repubblica. Il settimanale, diretto da Lirio Abbate, esce ogni settimana in edicola abbinato al quotidiano, diretto da Maurizio Molinari.

Un matrimonio che rende la separazione societaria meno sofferta, ma sotto la calma apparente c’è una guerra legale da due milioni di euro. I termini del contenzioso legale sono contenuti nel ricorso in appello presentato dall’avvocato Franceco Fimmanò per conto di Danilo Iervolino. Saranno i giudici di secondo grado a stabilire la fondatezza o meno del ricorso.

Luigi Vicinanza ed Ezio Mauro vengono citati in giudizio in quanto direttori all’epoca dei fatti e tenuti a vigilare sul contenuto delle pubblicazioni. Vicinanza, Mauro e i cronisti sarebbero responsabili di aver danneggiato la vita a Iervolino.

«L’impatto mediatico denigratorio delle pubblicazioni è stato devastante per Danilo Iervolino determinando stati di ansia persistenti, perdite di concentrazioni, rinvii di appuntamenti, rinuncia a uscite pubbliche (etc.)», si legge nel ricorso. 

Mauro e Vicinanza e, ovviamente i cronisti, sarebbero responsabili «di tali paturnie e dell’assoluto senso di abbandono e solitudine determinati dagli articoli diffamanti de L’Espresso e de La Repubblica, Danilo Iervolino dovrà ottenere un congruo ristoro nella misura non inferiore a 2.000.000,00 euro in considerazione della rete di rapporti professionali intrattenuta, della persistente pubblicazione degli articoli, della defatigante opera di ricostruzione dei rapporti familiari (che ancora oggi risultano compromessi)», si legge nel ricorso.

La materia del contendere sono due articoli, definiti nel ricorso «opera di infangamento». Il primo è un’inchiesta pubblicata a novembre 2014 e intitolata “Pegaso, l’ateneo dove la laurea volta”, il secondo è un lavoro, firmato da Corrado Zunino, nel 2015, dal titolo “Il Consiglio di stato ferma l’università telematica Pegaso”. 

Nel ricorso in appello, Fimmanò fa riferimento anche a Domani che ha dedicato un’inchiesta a Danilo Iervolino. Si parla di una «specie di crociata» che il sottoscritto avrebbe mosso contro Iervolino. In primo grado, il tribunale di Napoli ha rigettato la richiesta risarcitoria, pari a 38 milioni di euro, evidenziando la veridicità dei fatti riportati, la correttezza del lavoro svolto e che si tratta di diritto di cronaca e critica, costituzionalmente garantiti, nulla più.

Il ricorso sarà valutato dai giudici d'appello, ma quello che emerge è un contenzioso legale che racconta di due realtà editoriali, Repubblica e L’Espresso, unite in edicola e una contro l’altra in tribunale. I fatti si riferiscono a un periodo antecedente al passaggio del settimanale nelle mani di Danilo Iervolino, ma la situazione che si è generata è a dir poco paradossale con Iervolino contro giornalisti, ex direttore e gruppo Gedi che controlla Repubblica.

Il gruppo che edita l’Espresso è la Bfc Media Spa, una società quotata allo Euronext Growth Milan di Borsa Italiana, fondata da Denis Masetti e controllata da Danilo Iervolino. «(L’Espresso) dispone di un bacino ideale di milioni di italiani e, anche grazie all’abbinamento con il quotidiano La Repubblica, la sua diffusione in edicola supera le centomila copie, oltre ai 50mila abbonati cartacei e digitali, con una readership di oltre un milione di lettori», si legge nel comunicato dell’editore pubblicato sul sito del settimanale lo scorso 28 giugno. 

Bfc Media ha acquistato L’Espresso, il periodico Le Guide de L’Espresso e i relativi asset editoriali e digitali, «per un valore complessivo di 4,5 milioni di euro, da corrispondere in due tranche (la prima da 2,8 milioni all’atto del closing, la seconda entro il 31 agosto 2022)». 

Nel comunicato veniva anche presentato il Consiglio di amministrazione composto dal presidente Denis Masetti, dall’amministratore delegato Marco Forlani e dai consiglieri Mirko Bertucci, Mario Rosario Miele, Maurizio Milan, Massimiliano Muneghina, Paola Picilli, Alessandro Mauro Rossi.

Un cda che ha subìto, lunedì scorso, un primo inaspettato addio, quello di Paola Picilli. «Il consigliere indipendente di Bfc Media, Paola Picilli, ha rassegnato, nella serata di ieri, le dimissioni per motivi personali. Le dimissioni, su richiesta di Picilli, hanno effetto immediato. Il presidente Denis Masetti, l’amministratore Marco Forlani e la società ringraziano Paola per la dedizione mostrata al gruppo. Picilli non detiene azioni di Bfc Media Spa», si legge in un comunicato del gruppo.

Le dimissioni arrivano poche ore dopo la pubblicazione da parte di Domani di un articolo nel quale si ricordava il lavoro svolto in passato da Paola Pacilli, professionista dell’informazione che aveva collaborato con Nicola Cosentino, l’ex plenipotenziario di Forza Italia in Campania, sottosegretario all’Economia, considerato dalla procura antimafia partenopea referente nazionale del clan dei Casalesi. 

Un altro paradosso in questa storia, visto che L’Espresso, nel 2008, aveva dedicato al caso una storica copertina dal titolo “La Camorra nel governo”, raffigurante il volto di Nicola Cosentino, anticipando i verbali del collaboratore di giustizia Gaetano Vassallo che lo indicava come braccio politico del clan. 

«Cosentino oggi produce vini in Campania, è fuori dalla politica, non capisco cosa c’entra la mia nomina da indipendente nel cda dell’Espresso con le mie collaborazioni che ho avuto con diversi politici da Scajola a Cosentino», diceva Picilli a Domani poche ore prima di dimettersi. 

Picilli a settembre 2020 gioiva per l’assoluzione di Cosentino in uno dei tanti filoni aperti: «Vorrei solo che i nove anni di vita e di carriera qualcuno li restituisse a Nicola Cosentino, solo chi ha parlato con i suoi figli prova rabbia per un’assoluzione scontata. Povera Italia», scriveva. Con lei hanno twittato il direttore del Foglio Claudio Cerasa, quello del Riformista Piero Sansonetti e tutti i politici di Forza Italia. 

Nessuno aveva ricordato gli altri procedimenti aperti a carico di Nick ‘o mericano, al secolo Nicola Cosentino, già condannato in via definitiva per aver corrotto un agente penitenziario. Nel 2021, i giudici della corte d’Appello di Napoli lo hanno condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a dieci anni di carcere, ora si è in attesa del pronunciamento della corte di Cassazione.

 

Segreti svelati, cause e minacce: in difesa dell’Espresso nel “porto delle nebbie”. Alessandro De Feo su L'Espresso il 6 giugno 2022.

L’avvocato Alfonso Gatti, Livio Zanetit e Alessandro De Feo nella prima udienza del processo relativo alla Commissione Moro.

Alfonso Gatti e Oreste Flamminii Minuto sono stati i due penalisti che per anni hanno difeso il settimanale in tribunale, con punte di 80 processi l’anno. La loro storia è anche un pezzo di quella della libertà di stampa nel nostro Paese

Alfonso Gatti e Oreste Flamminii Minuto. Ovvero i due penalisti che si sono succeduti nella difesa de L’Espresso. Parlerò di loro, consultando le uniche fonti di cui dispongo. La mia storia de L’Espresso e l’intervista a Oreste, per me un secondo padre. E, naturalmente, la mia memoria.

L’idea del libro mi venne nella redazione di largo Fochetti. L’ora dello stacco, ovvero dalle 13,30 alle 15,30, più di un tramezzino e un’acqua tonica con ghiaccio e limone, non andavo. Meglio passeggiare nello splendido quartiere della Garbatella, animato da villette, ristorantini, inquilini che apparecchiavano per il pranzo nei giardini e insieme consumavano ricche ciotole di pasta al sugo, murales inneggianti a Totti e allo scudetto della Roma.

Bella la Garbatella e belle le passeggiate. Tra le tante cose, pensai che non esisteva qualcosa che racchiudesse la storia dei “ragazzi di via Po”. Nell’emeroteca del gruppo c’era tutta la collezione rilegata de L’Espresso, dal formato lenzuolo a quello tabloid. Ne parlai all’amministratore delegato Marco Benedetto: in pochi cd si potevano registrare tutti gli articoli della collezione. Sarebbe stata una enciclopedia della storia del paese, utile a tutti i redattori e, magari, una strenna preziosa agli amici, invece di mandare quei ricchi pacchi natalizi di champagne e cotechini… Ovviamente Marco mi disse che ci avrebbe pensato. Probabilmente ci sta pensando ancora oggi. E allora ci ho pensato io. Le ore della pausa pranzo le avrei passate in emeroteca. La struttura del libro sarebbe stata su due livelli: la storia de “L’Espresso” e una testimonianza di peso. In pratica, una intervista.

D’estate la redazione di via Po si trasferiva quasi in massa all’“Ultima spiaggia” di Capalbio dei bravi Riccardo, Valerio & C. Una mattina, passeggiando in riva al mare, sotto a un ombrellone vidi Oreste che le estati le divideva tra le sue villette a Capalbio e in Abruzzo. Andai a parlargli. Poteva essere lui la persona da intervistare? L’idea gli piaceva. Tanto più, mi disse, che nei suoi archivi, un caveau nella cantina della sua casa romana vicino a piazzale Clodio, c’era la storia giudiziaria del settimanale e le schede di tutti i redattori portati in giudizio. Rimanemmo d’accordo che appena avrei ultimato la lettura del giornale dal 1955 al 2005, i suoi primi 50 anni, fotocopiando gli articoli che avrei fedelmente riportato, ogni sabato mattina ci saremmo visti nel suo studio-abitazione e avrei registrato le conversazioni. Poi, sbobinate, le avrei spedite via computer a Oreste che le avrebbe rilette e corrette.

Che la vita de L’Espresso l’avrebbe portato a trascorrere molte mattinate a piazzale Clodio, nelle aule del tribunale giudiziario, il famoso “Porto delle nebbie”, era uno dei tanti problemi del nascente settimanale. Il tribunale romano era chiamato così perché il capo della Procura, Achille Gallucci, insabbiava le porcherie della casta politica e imprenditoriale, fino a che nei cassetti non venivano coperte di polvere e cadevano in prescrizione. Flamminii non sapeva esattamente come Adolfo Gatti venne investito dell’incarico di difendere il giornale. Ma il suo curriculum non lasciava dubbi. Laureato a pieni voti in giurisprudenza, era uno dei due o tre penalisti più famosi d’Italia e, di sicuro, l’avvocato più esperto nella difesa dei reati a mezzo stampa. Di idee di sinistra, di quella sinistra liberale che gravitava attorno alle idee di Pietro Calamandrei ed Ernesto Rossi, si lega al gruppo di intellettuali del Mondo di Mario Pannunzio. Amico di Scalfari, fondatore con Arrigo Benedetti de L’Espresso, fu probabilmente Eugenio a cooptarlo per la difesa del giornale.

«L’avvocato Gatti emanava un fortissimo carisma –  mi raccontò Flamminii – lo avevo conosciuto in quanto difendemmo insieme il disegnatore di Paese sera Zac, accusato di diffamazione per aver illustrato un opuscolo elettorale del Psi. I testi erano del giornalista Alberto La Volpe, l’editore Giampaolo Sodano, entrambi ovviamente querelati. Entrambi li ritroveremo in Rai. Su indicazione del partito, per la difesa venne chiamato l’avvocato Gatti, che era il numero uno in Italia. E quindi facemmo questo processo insieme e andò bene».

Gatti era un signore elegante e distinto, molto discreto e riservato. Era un modello di rigore morale riconosciuto da tutti i colleghi. Il suo modello era Adelmo Niccolai, un famosissimo avvocato di Roma. E Gatti, che era figlio di un senatore della Repubblica, fece la gavetta nel suo studio. Qui apprese il cosiddetto laicismo della professione. E il laicismo nella professione significava il rigore della prova, l’esposizione scientifica, la capacità di sintesi e, di conseguenza, la capacità di persuasione.

Uomo di grande charme e di cultura illuministica (aveva studiato a fondo la Rivoluzione francese). Me lo ha confermato Oreste. «Andai a Milano per difendere assieme a Gatti il direttore del nostro settimanale rivale, Panorama, Claudio Rinaldi e l’inviato Antonio Carlucci (entrambi li ritroveremo in via Po), chiamati alla sbarra per aver pubblicato un documento sul quale il premier Bettino Craxi aveva posto il segreto di Stato. Rischiavano l’arresto; riuscimmo a farli assolvere. Ebbene, la sera, in un albergo milanese, dopo cena ci accomodavamo in un salottino. Gatti - era tale il suo carisma che non mi sono mai permesso di dargli del tu - in compagnia dell’unico sigaro che si concedeva in tutta la giornata affabulava in maniera simpatica e accattivante, con un insospettabile e raffinato senso dell’humour».

L’esempio che mi fece Oreste fu un processo che Gatti fece a Napoli. Non ricordo di quale processo si trattasse, ma doveva essere molto popolare visto che il nome di Gatti faceva accorrere all’ingresso del tribunale due ali di folla. Tra i tanti, un tormentone dell’avvocato: un venditore ambulante che offriva di tutto, pure il caffè, e inseguiva Gatti urlandogli ogni mattina: «Avvocà, e accattatevene ‘na cosa».

L’ometto lo divertiva e lo metteva di buon umore e ogni giorno gli comprava “‘na cosa”. L’avvocato Gatti amava il mare e la “sua” Capri dove aveva una villa. Non si direbbe, avendolo conosciuto, ma era un provetto sub: con muta e bombola d’ossigeno esplorava i fondali senza sollevare una conchiglia, rispettoso com’era dell’ecosistema e delle bellezze della natura. A Roma lo studio dell’avvocato era nel cuore della Roma storica: in un palazzo di via Condotti, al civico 9, al primo piano sopra le vetrine del gioielliere Bulgari e di fronte al Caffè Greco. Per il mio processo ci andai solo una volta assieme a Oreste. Era un elegante appartamento, con il parquet antico, di quello che appena lo sfiori ti incute rispetto per lo scricchiolio che emette, gli affreschi alle volte, grandi tendaggi che oscuravano le stanze.

Era il primo pomeriggio di un’estate che si preannunciava calda e in ogni casa ci si difendeva dai raggi del sole. «Era l’ambiente classico di un importante studio legale», mi confermò Flamminii. Lo studio, come si è detto, era immerso nella penombra, alla fine di un lungo corridoio una lampada art déco illuminava solo il volto dell’avvocato Gatti, come una buffa aureola che sovrastava la sua chioma grigia dando l’effetto dell’onda che schiumeggia sul mare. Del perché andai in quello studio e del processo che mi ci aveva portato, ne parlerò in seguito. Torniamo al racconto di Flamminii.

«Un giorno del maggio del 1969 Gatti mi chiamò nel suo studio e mi chiese se ero interessato a difendere un giornale». Gatti non gli comunicò subito il nome di quel giornale. «No, né glielo chiesi. Gatti era un avvocato molto serio e riservato: se non aveva ancora l’intenzione di rivelarmi il nome della testata, non stava a me essere indiscreto». Flamminii non aveva la minima idea che potesse essere L’Espresso.

L’unica preoccupazione che Oreste mi mostrò era quella che se veniva chiamato a difendere un giornale che aveva delle idee e una ideologia incompatibili con le sue, avrebbe rifiutato. Ma quando Gatti gli chiese di quali tendenze politiche fosse, Flamminii rispose di area socialista. «Tranquillo, quel giornale ha radici ber radicate nella sinistra italiana» spiegò Gatti. Domandai a Oreste: «Gatti che idee politiche aveva?». «Lui proveniva da Giustizia e Libertà, era quello che oggi si potrebbe definire un liberal-socialista. Sicuramente non era un marxista, era un laico molto attento alle questioni politiche ed economiche».

Il 15 settembre, di quell’anno, dopo la sosta estiva, Gatti telefona a Flamminii e gli chiede se può raggiungerlo nel suo studio. Oreste: «Nell’appartamento un particolare mi colpì: su un piccolo tavolino nella sala d’attesa c’era appoggiato un libro. Era un libro del “nostro” critico televisivo Sergio Saviane, l’ideatore del neologismo “mezzobusto” per i giornalisti del tg della Rai: “I misteri di Alleghe”, una inchiesta di Sergio che aveva rivelato i retroscena di una serie di feroci e inspiegabili delitti».

Fu in quel pomeriggio che Gatti rivelò a Flamminii che il giornale che avrebbe difeso era L’Espresso. Poi lo portò in un’altra sala dove, come in un coup de théatre, aprì una porta e fece entrare uno dopo l’altro Carlo Caracciolo, Eugenio Scalfari, Gianni Corbi e Livio Zanetti. «Ci abbracciammo da vecchi amici, del resto il pallone ci aveva fatto fraternizzare sui campi di calcio dell’Acqua Acetosa». Ridiamo la parola a Oreste.

«Caracciolo non lo conoscevo. Ma mi diede subito del tu. Con lui c’era anche l’avvocato Vittorio Ripa di Meana che era il consigliere delegato del giornale. Con lui avrei discusso il mio trattamento economico. Uscito dallo studio, via Condotti mi sembrava il Paradiso. Ero contentissimo. La mi carriera avrebbe avuto una svolta in tutti i sensi». Un suo amico, l’avvocato Gianni Le Pera, uno degli assistenti di Gatti, gli disse: «Vedi Oreste, prima eri un avvocato abbastanza ricco e poco noto. Da domani sarai, almeno inizialmente, un avvocato meno ricco e molto noto». E infatti il primo stipendio venne stabilito attorno alle 300 mila lire al mese, che all’epoca non era certo una cifra splendida.

In uno degli incontri con Oreste nel suo studio, mi spiegò che nella sua cantina teneva l’archivio dei processi a carico de L’Espresso. Divisi per il tipo di reato, dalla diffamazione alla violazione del segreto di Stato. E il tutto era poi inserito nei fascicoli dei vari redattori. A come Ajello, Z come Zanetti. In una sua agenda annotava il tutto con tanto di data e di chiusura del processo con i relativi atti. Chiesi al nostro avvocato quanti processi svolgeva ogni anno per il settimanale. «Diciamo una sessantina. Poi ci sono le annate “doc”, nelle quali si arriva anche a 80 processi. In proposito ho una mia teoria: all’aumento delle querele corrisponde sempre un aumento delle tirature».

Un sabato chiesi a Oreste: «Ma voi avvocati non vi incazzate mai? Non mi dire che talvolta non vi prende la smania di protagonismo. Insomma, nonostante l’understatement alla Gatti, poi, se ve ne capita l’occasione, vi piace dare spettacolo. In fondo, in aula c’è sempre una bella platea di spettatori». «Siamo uomini e ciascuno di noi ha le sue debolezze. Vinicio de Matteis, un altro grande avvocato scomparso e amico di Gatti, era il difensore di Paese sera. Era coltissimo e faceva grande sfoggio di cultura umanistica in tutti i processi. Alo, elegantissimo, sobrio sia nel vestire che nel parlare, aveva però un tallone d’Achille: le scarpe. Sì, proprio così, le scarpe. Sempre lucidissime e che si ammirava e controllava. L’avvocato Gatti una volta, parlando a un gruppo di colleghi, rivelò: “Se volete vincere un processo contro de Matteis, fate finta di inciampare e pestategli un piede...”».

E veniamo al mio processo. Non perché “mio”, ma per i tanti risvolti giudiziari che ebbe. Nel luglio del 1980 uscì un mio articolo dal titolo: !Io, Generale Dalla Chiesa, dichiaro che”. In pratica, violando il segreto istruttorio della Commissione Moro, sintetizzai la deposizione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che in Commissione parlò per 11 ore e, come recita il sottotitolo, “Il comandante della divisione Pastrengo ha illustrato i risultati di due anni di lotta al terrorismo, aprendo i suoi cassetti segreti”. L’aspetto più interessante della sua analisi fu che, dopo aver raccontato da Genova a Torino, da Milano a Padova l’attività dei suoi corpi speciali, sulla Libera Università delle Calabrie, meglio conosciuta come l’Università Cosenza, dove uno dei leader era Franco Piperno, assieme alla sua compagna, Lucia Annunziata, oggi brava giornalista Rai, disse esplicitamente che il rettore di quell’ateneo aveva tollerato il fenomeno eversivo, al punto che l’università si era trasformata in una palestra di attività sovversive. Con la crudezza militare, affermò che l’ateneo calabrese era un covo di terroristi.

Per la speciale legge che la Commissione Moro si era data, la violazione del segreto istruttorio prevedeva il carcere: da sei mesi a tre anni. E dire che fino al giorno prima, lo stesso reato si estingueva con 150-200 mila lire. Direi che all’epoca il settimanale usciva il lunedì. Ma già il sabato, fresco di stampa, veniva consegnato a piazzale Clodio. In edicola il settimanale, l’articolo scatenò un putiferio politico sulla Commissione (ma come, ironizzò qualcuno, la Commissione Moro è un colabrodo…?) che chiese il lunedì stesso il mio arresto. Il martedì, Oreste mi disse che entro l’alba di venerdì, mi avrebbero arrestato. Il clima all’epoca era pesante: già da diversi mesi il collega del Messaggero Fabio Isman era a Regina Coeli per aver pubblicato delle carte riservate dei servizi segreti sulle Br. Tra l’altro la deposizione di Dalla Chiesa quel lunedì del 1980 era stata pubblicata anche sul Corriere della Sera dall’inviato Sandro Acciari, che in seguito sarebbe stato assunto in via Po.

Che fare? Oreste mi consigliò di fare le valigie e di andarmene all’estero: «Se si potesse ragionare con calma assieme ai magistrati, senza la tua presenza, sarebbe meglio». Lo stesso consiglio, seppi da Sandro, era stato dato dai suoi avvocati. Con mia moglie me ne sarei andato “in vacanza” a Londra, dove la nonna di Chiara aveva una di quelle famose casette che si affittano per 99 anni. Ma la sera di giovedì, prima di andarsene a casa, Zanetti mi pregò di aspettarlo. Mi disse che quella sera stessa, l’avvocato Gatti sarebbe andato a parlare con il capo della Procura, Achille Gallucci per trovare un accordo. La mattina dopo Zanetti mi disse di stare tranquillo, era stato raggiunto un compromesso: processo per direttissima e obbligo della mi presenza in aula in tutte le udienze. E così tutti i sabati, il mare me lo vedevo dalle vetrate delle aule di piazzale Clodio. 

Quando intervistai Flamminii, gli chiesi: «Ma perché quella deroga così pesante nello statuto della Commissione?». «Perché, in un’epoca in cui il mandato di cattura era facoltativo e non obbligatorio, si voleva dare un segnale forte, un avvertimento a tutta la stampa. Il tuo caso era un’occasione propizia. Ecco il perché ero assai poco ottimista e ti consigliai di diventare uccel di bosco». Una parentesi, tanto per spiegare che a celebrare il mio processo fu Ponzio Pilato. Quando venni interrogato e mi venne chiesto quale fosse stata la fonte dell’articolo, ovviamente mi appellai al segreto professionale e non feci quel nome. Visto l’accordo che c’era con Gallucci, il presidente della Corte glissò. In altri tempi e in altre occasioni, il silenzio del giornalista lo portava dritto dietro le sbarre. Da quel luglio sono passati oltre vent’anni e posso dire che la nostra fonte era Paolo Cabras, un senatore democristiano. I commissari del Pci? Troppo giustizialisti, visto come si erano comportati nel “condannare “ a morte Moro.

Sì, tirava una brutta aria. E quando tutte le parti si erano espresse e si andava a sentenza, Oreste, che in aula sedeva vicino a me, si voltò verso l’avvocato Gatti e gli disse: «Sono convinto che la legge istitutiva della Commissione sia nettamente in contrasto con il codice penale. Per quel reato, il carcere non è previsto. La Commissione non può riscrivere il codice penale. Non era la prima volta che avevo espresso questa opinione a Gatti, ma lui non era d’accordo con me». Gatti, flemmatico, fissò senza parlare Flamminii. Con tutta calma aprì la sua borsa di pelle, estrasse il “famoso” pacchetto di cracker Saiwa salati, ne sgranocchiò un paio e poi: «Avvocato, proceda». Sono convinto che il presidente del Tribunale tirò un sospiro di sollievo a non dover emettere la sentenza. Meglio che la patata bollente la sbucciasse la Corte Costituzionale.

Conservo “religiosamente” la fotocopia della sentenza della Corte di appello di Roma, terza sezione Penale, che arrivò il 28 gennaio 1981 e aveva recepito la delibera della Corte Costituzionale. Sono cinque fogli oggi molto ingialliti e scritti a mano dai cancellieri e con in calce la firma dei “signori Magistrati” dott. Luigi Saragò, presidente, dott. Ottorino Mariano e Luciano Infelisi, consiglieri. Leggo: “Gli stessi concetti (ovvero quelli espressi da Dalla Chiesa, ndr.) riferiti in estrema sintesi nell’articolo dell’”Espresso” colgono in pieno il pensiero del generale Dalla Chiesa… Visti gli articoli - e via con il Codice penale- assolve gli imputati Zanetti Livio e Alessandro de Feo dai reati ascritti loro perché il fatto non costituisce reato”.

Buffo: la Corte Costituzionale non sconfessava quell’articolo giustizialista della Commissione Moro ma, alla Ponzio Pilato, consigliava di non prevederlo più in futuro. Non solo: L’Espresso aveva comunque violato il segreto istruttorio della Commissione, ma mettiamoci una pietra sopra. Un’ultima curiosità. Quella sentenza della Corte Costituzionale, mi spiegò Oreste, fece giurisdizione, nel senso che venne recepita nel Codice di procedura penale con tanto di articolo, numero e sentenza – i termini esatti non li ricordo – catalogata sotto il nome di sentenza “Espresso” - Livio Zanetti.

I ragazzacci di via Po: ricordi preziosi di una vita passata a L’Espresso. Alessandro De Feo su L'Espresso il 12 aprile 2022.  

I soprannomi, l’ironia, le partite a scacchi. Le barzellette di Umberto Eco, le visite di Cicciolina, i dibattiti con Moravia. E gli aneddoti tra giornalisti. Come quando Agnelli si lamentò di un articolo. E il direttore de La Stampa dell’epoca Giulio De Benedetti rispose secco: «Avvocato, lei pensi a fare bene le sue automobili. Io penso a fare bene il “suo” giornale».

Raccogliendo l’invito degli amici del Cdr, vorrei dare una mia testimonianza.

A “L’Espresso” sono entrato da collaboratore nel 1976 e ne sono uscito nel 2014 come caporedattore. Il settimanale è più giovane di me di tre anni. Ma dal primo numero è sempre entrato nelle mie case. In quel primo numero del 2 ottobre 1955, l’articolo di spalla sinistra nella prima pagina era firmato da mio padre, Nicola Adelfi (pseudonimo coniato da Giulio De Benedetti, direttore de “La Stampa” di Torino, per distinguerlo dal fratello Sandro). A sua volta, Sandro de Feo, mio zio, da quel primo numero firmava la rubrica di teatro.

Giulio De Benedetti è stato un grande direttore. Onesto quanto indipendente. Un esempio? Quando l’avvocato Gianni Agnelli voleva fare una pazzia per portare alla sua amata Juventus il fantasista Gigi Meroni (numero 7 sulla maglia e ala di diamante del Torino, capelli stile Beatles, calzettoni arrotolati alla caviglia alla Omar Sivori. Morì troppo presto, in una notte piovosa di Torino), De Benedetti chiese a mio padre di scrivere un pezzo per ricordare all’Avvocato che le maestranze della Fiat Mirafiori avevano aperto una vertenza sindacale e che, dalle presse alle catene di montaggio ruggiva gatto selvaggio. “La Stampa” era il secondo quotidiano più venduto in Italia, dopo “Il Corriere della Sera”, molto letto con “l’Unità” dagli operai. Uscito l’articolo, Agnelli fece la prima (e sarebbe stata l’ultima) telefonata a De Benedetti: «Ma quell’articolo… Non mi è piaciuto...». De Benedetti: «Avvocato, lei pensi a fare bene le sue automobili. Io penso a fare bene il “suo” giornale. Se non le sta bene, le mando la lettera di dimissioni». Da persona intelligente qual era, Gianni Agnelli si tenne a lungo quel suo prezioso direttore.

Giulio De Benedetti (anche lui un legame con “L’Espresso” ce l’aveva: sua figlia Simonetta aveva sposato Eugenio Scalfari), Arrigo Benedetti, Carlo De Benedetti, Marco Benedetto… Una sorta di nemesi storica per un giornale davvero molto “benedetto”.

Arrigo Benedetti è stato il primo direttore de “L’Espresso”. Era molto amico di mio padre. E quando Arrigo era tenuto a Roma per lavoro anche per le feste di fine anno, immancabilmente era ospite alla nostra tavola. Poi arrivò a papà una telefonata della dolce Rina, sua moglie: «Arrigo se ne sta per andare. Vieni, gli farebbe piacere. Siamo all’ospedale Fatebenefratelli sull’isola Tiberina». Papà non se la sentiva di guidare. Mi chiese di accompagnarlo. Nel corridoio davanti alla stanza di Benedetti, papà non riconobbe nessun giornalista de “L’Espresso”. Lo salutarono i colleghi di “Paese sera”, l’ultimo giornale diretto da Benedetti.

Entrammo nella stanza, appena illuminata da un lumicino sul comodino. Rina era seduta davanti al letto, dove Arrigo aveva gli occhi chiusi e farfugliava frasi senza senso. Rina aveva nelle mani un taccuino e una penna. Faceva finta di scrivere. Rina: «Quando ancora era cosciente, Arrigo mi ha detto che voleva dettarmi l’ultimo suo editoriale e darmi le sue ultime volontà. E mi ha pregato di alcune cose, le sue volontà. Mi pregò di restare serena e tranquilla: lui mi avrebbe protetta anche da lassù. Quanto al suo funerale, doveva essere sobrio, laico e solo con gli amici più. «Ma quella persona, non fatela venire”, mi disse». Il nome di “quella persona”, ovviamente, non lo posso fare.

A L’Espresso Sergio Saviane mi aveva soprannominato “il Raccomandato”. E non a torto, visto che mi aveva chiamato mio cugino, Gianni Corbi, che è stato uno dei direttore del settimanale. Per dire quanto fosse ironico e disponibile Sergio, una volta Livio Zanetti lo mandò a Uscio, località famosa per una dieta che si faceva soprattutto sul water, a cagare… Livio chiamò Sergio: «Come va? Che aria tira?». E Sergio:«Ghe xè ‘na gran pusa...».

“Arruolato” nella sezione Economia, sotto la guida dell’amico Alberto Statera, il caposervizio (la sua famiglia abitava due piani sotto al nostro appartamento). Il suo vice era Salvatore Gatti, figlio del principale avvocato difensore del giornale, Adolfo Gatti, un principe del Foro.

Se l’avvocato Gatti è stato il primo penalista de “L’Espresso”, in seguito, visto il carico di lavoro, ovvero le querele per diffamazione, venne affiancato da Oreste Flamminii Minuto. Rispetto a colleghi pluridenunciati, io in tribunale sono stato chiamato 17 volte e 17 volte Oreste mi ha fatto assolvere. Abruzzese duro (una volta, con me testimone alla sbarra, ridicolizzo il Pm Luciano Infelisi. Rivolto al Presidente, disse: «Signor Presidente, ha visto il bel décolletée del signor Infelisi...? Fa caldo a luglio a Roma, ma lui sotto la toga si è dimenticato la camicia...»), ma per me come un padre affettuoso e rassicurante. Per dire quanto fosse stimato ovunque fosse chiamato a difendere “L’Espresso”, ricordo un processo nel tribunale di Arezzo. Io, il caposervizio degli Interni, Maurizio De Luca e Sandro Acciari, eravamo stati denunciati da Licio Gelli, burattinaio della loggia massonica coperta P2, per “violazione di domicilio”. Gelli non c’era; aveva mandato suo figlio Maurizio. Il nostro articolo era stato corredato con delle foto della residenza di Gelli, “Villa Wanda”. Quelle immagini erano state scattate da un fotografo, ovviamente, che Oreste si guardò bene di coprire. Fummo assolti. E il giudice si avvicinò costernato a Oreste, gli strinse la mano e gli disse: «Avvocato, ci scusi per il disturbo».

Torniamo a via Po. Avevo 24 anni, pochissima esperienza, ma Statera mi mise subito alla prova e mi spedì a Lecce per uno scandalo di fondi neri della Banca del Salento. Poco prima di tornare a Roma, mi contattò un collega e oggi amico, Lino De Matteis, redattore di un coraggioso giornale locale, “Il Quotidiano di Lecce”, vicino alla sinistra socialista del leccese Claudio Signorile. Lino mi aiutò a fare la cosiddetta quadra dello scandalo che aveva procacciato soldi e affari ai notabili del posto e perfino ad alti prelati. Ma mi fece capire anche che cosa rappresentasse “L’Espresso” in un importante capoluogo di provincia. Un misterioso tam tam aveva fatto sapere in città che era arrivato non certo un giornalista pieno di volontà e alle prime armi, ma “L’ESPRESSO”, il più prestigioso settimanale del paese. Nemmeno fosse arrivato il papa. Il settimanale significava rispetto e rispetto è una delle tante regole che abbiamo imparato a via Po.

L’ironia non ci manca. E nemmeno i soprannomi. “L’Espresso” era “la gallina dalle uova d’oro”. Carlo Caracciolo “il Principe”. Livio Zanetti “Il gran bugiardo” (copyright Oreste Flamminii). Paolo Mieli “Zelig”. Mario Scialoja “Vecchio scarpone”. Arrigo Benedetti “Il Tonno”. Ad Arrigo quel soprannome glielo aveva affibbiato suo fratello Mario che sul giornale firmava Agatoni, visto che di Benedetti ce n’erano fin troppi. Diciamo che Mario non era una penna sopraffina e si dilettava più sulla tavolozza che sulla Olivetti lettera 22. Le sue croste le regalava a tutti, una toccò pure a mio padre. Si favoleggiava che per giustificare lo stipendio del fratello, Benedetti lo inviò a fare un servizio all’estero. Ebbene: Mario non fece avere più sue notizie per due settimane e men che meno mandò il pezzo concordato.

A proposito di ironia. Quel gran signore napoletano, Nello Ajello, condirettore di Zanetti, era una sorta di Vesuvio. Un esempio: a una riunione di redazione per mettere a punto i vari servizi, la responsabile delle Scienze annunciò una clamorosa apertura dedicata alla balbuzie... E Nello “eruttò”: «Che idea…! C’è già il titolo: “Esclusivo: Come vincere la ba...ba...ba...balbuuuzieee!”».

A “Panorama”, il settimanale concorrente, non ci amavano, troppo radical chic, troppo privilegiati. In treno si viaggiava in prima; in aereo in business. E se, per esempio, si scendeva a Napoli, l’Hotel Excelsior ci teneva sempre riservata una camera. Il conto? Veniva spedito direttamente a Milvia Fiorani, il direttore amministrativo, gran signora e sacerdotessa delle note spese. Infine, troppi scoop. Domanda: chi si ricorda uno scoop di “Panorama”? E a proposito di note spese, merita un ricordo anche Paolo Pernici, un cronista di razza un po’ stralunato, impressionante somiglianza con Stan Lauren, e con un punto interrogativo perennemente stampato sul viso. Trovava storie incredibili nelle lande più sperdute della Penisola, ignorate da Dio e dagli uomini. Lui partiva: come, non era un problema. Cosa mangiasse e dove dormisse, un mistero. Non certo desumibile dalle sue ridicole note spese. Una mattina lo vedemmo arrivare in via Po a bordo di una scassata Fiat multipla guidata da un contadino che gli aveva dato un passaggio, e scendere dall’auto facendosi largo tra gabbie di galline e cesti di verdure.

Un altro inviato davvero speciale è stato Mario La Ferla. Giornalista della sezione Economia di Milano, lavorava come un mulo tutta la settimana. Sempre sorridente e cordiale, Mario aveva una passionaccia: il calcio. Meglio, l’amato Potenza di cui, se non ricordo male, era anche uno dei dirigenti. Ogni fine settimana scovava e proponeva, ben accetto, servizi nei capoluoghi e nei comuni del Meridione. Guarda caso, proprio dove la domenica giocava il Potenza. Il bello è che gli articoli che portava a casa erano curiosi come Mario, oggi scrittore di libri colti e ricercati.

In via Po si coltivavano le passioni più disperate. Carlo Caracciolo, l’ultimo editore puro, da aristocratico qual era amava la trasgressione (e di trasgressioni il suo giornale gliene regalava ogni settimana). Frequentava nobil donne e poi si divertiva con le pazzie di Cavallo pazzo, Mario Appignani (una volta i fattorini lo placcarono mentre se ne usciva dalla redazione con un computer sottobraccio… Su Internet ci sono dei video imperdibili), con gli intrighi di Flavio Carboni, faccendiere piduista, compagno di viaggio a Londra del banchiere Calvi, finito impiccato sotto il ponte dei “Black Friars”, e con i giornaletti di Giuseppe Ciarrapico. Non mancavano le attività sportive: dalle sfide al flipper del bar di via Isonzo, alle partite a tressette (i campioni erano Federico Bugno, Franco Giustolisi, Pierluigi Ficoneri e Francesco De Vito), fino agli scacchi con i maestri Luciano Filippi e il venerabile Manlio Maradei, raffinato massone con baffetti e pizzetto, iscritto allo loggia “Lira e spada”. Ma anche le passioni del cuore venivano molto curate. I triangoli si sprecavano, a cominciare dai piani alti. E se Livio Zanetti apprezzava le virtù teatrali di Adriana Asti, Paolo Mieli andava pazzo per le “Cicacale, Cicale…”, di Heather Parisi; nella stanza del caro direttore Claudio Rinaldi si potevano incontrare le attrici Veronica Pivetti e Jo Champa. Tremavano le segretarie quando arrivava Paolo Milano, che certo non era un adone. Lui era il critico letterario del settimanale. E con la scusa che non sapeva scrivere a macchina, ma si serviva solo della penna, si accomodava ben vicino alla disgraziata di turno e via con la mano morta. Se infine si voleva ascoltare un po’ di buona musica classica, bastava appoggiare le orecchie alla porta sempre chiusa di Mario Picchi.

“L’Espresso” di via Po non era solo la redazione di un settimanale, ma un salotto. Venivano Alberto Moravia e Leonardo Sciascia e, magari, ci scappava un dibattito d’autore. E nelle stanze arrivavano gli amici della redazione milanese, all’epoca dislocata in via Cino del Duca 5, ovviamente vicino piazza San Babila. Ecco, per esempio, Umberto Eco che ancora non era diventato Umberto Eco, intrattenerci con irresistibili barzellette degne di Carlo Dapporto. Nei corridoi si incrociavano Ilona Staller e Stefania Sandrelli, una ancora splendida Sandra Milo, di bianco vestita, sotto braccio a Sergio Saviane, anche lui in completo bianco ferragostiano e scarpe da golf: bianche con le bordature marroni. E che dire di Antonio Ligabue. Con quella sua faccia un po’ così, pittore sconosciuto entrò timidamente nelle stanze di via Po. Se ne andò lasciando alcune sue tele appoggiate in un corridoio. Fortunato chi le raccolse.

Dal salotto romano al salotto della redazione milanese in una palazzina tra San Babila e via Montenapoleone. Zanetti mi ci spedì “per farmi le ossa”. Bella Milano e affascinante Camilla Cederna. Quando, raramente, veniva in redazione, i capelli castani cotonati, collo di visone a impreziosirle il cappotto, dal bar arrivavano tartine e bollicine.

Aperto alle scoperte della scienza, alle innovazioni, “L’Espresso” finalmente si aprì anche alle nuove tecnologie. Si materializzarono sulla parete accanto alla stipite della porta del direttore Zanetti con la forma ovale di una piccola spia. Come ai semafori, diventava rossa se Livio premeva un pulsante strategicamente posto sotto la sua scrivania. Guai, dunque, a entrare. E se solo ci si avvicinava alla porta, la segretaria di redazione, Lily E. Marx, uno scricciolo di signorina (guai a chiamarla signora) faceva scudo con i suoi 45 chili. Che cosa facesse Zanetti è uno dei misteri di via Po.

Snob sui campi di tennis e precursori in quelli d’erba dell’hockey, arditi sui campi dell’Acqua Acetosa, nelle sfide contro “Panorama”. Un mio ricordo di una chiacchiera-intervista per quel mio libro sulla storia de “L’Espresso” da vent’anni ancora inedito e di cui possiedo ben due copie rilegate... con uno dei difensori del settimanale, Oreste Flamminii Minuto: «Gambino era un assassino. Era pericolosissimo in quanto metteva una tenacia bottusa e ostinata nel difendere la palla e così, se uno si avvicinava, lui cominciava a tirare calci all’indietro, come un mulo... Zanetti, il “Farfallino” (volava dalla difesa all’attacco), era il regista, in redazione come sul campo. Corbi, poco tecnico ma terribilmente caparbio, era soprannominato il “Lupo marsicano”. Della rosa interclassista facevano parte anche gli amministrativi e i fattorini. Ugo Gazzini, driblomane dal baricentro basso, con Roberto Paris (marito di Milvia Fiorani) e Mario Perosillo erano i corazzieri della linea di difesa. Un’ultima annotazione pallonara. Claudio Rinaldi era un ultras della “Magica”. Una volta un fattorino andò a casa sua per portargli forse la mazzetta dei giornali, e lo trovò seduto davanti alla tv intento a seguire l’amata Roma con tanto di maglietta giallorossa con dietro il numero 23 e il nome del difensore della Roma Alessandro Rinaldi.

Lo sport si praticava anche nelle pagine dedicate al tempo libero, pardon, agli hobby. I muscoli da allenare erano quelli del cervello con il bridge e gli scacchi. Al tavolo verde, a proporre ogni settimana un problema (“in due o tre mosse” Giorgio Belladonna che con Benito Garozzo formò quel formidabile Blue Team che dominò la scena internazionale. Bottino: 10 titoli mondiali, tre ori olimpici, cinque podi europei. Politicamente un po’ destrorsi, tanto che in gara non indossavano la tradizionale maglia azzurra, ma la camicia nera. I quesiti da scacco al re erano di competenza del maestro Giorgio Porreca, più volte campione d’Italia, una laurea in Letteratura e lingua russa e autore di numerosi libri dedicati ai maestri dell’arrocco.

Ma che razza di mestiere è il nostro? Leggiamo nella bacheca del Cdr di via Po quanto vi affisse Antonio Gambino. Il compitino di suo figlio. La maestra delle elementari aveva chiesto ai suoi scolaretti un pensierino sul lavoro di papà e mammà. Il figlio di Gambino “sentenziò”: “Mamma lavora. Mio padre, invece, fa il giornalista”…

Restando in quel lungo e stretto corridoio di via Po, dove quando arrivava sempre incazzato Alberto Moravia, ci ci stringeva alle pareti, in uno stanzino c’erano i correttori delle bozze. Tutti insieme, tutti in famiglia. Una grande famiglia. Anche per i correttori. Erano quattro, ma ne ricordo tre. Una gentile signora, un riccioluto capellone biondo che, si diceva, aveva un doppio lavoro, gestiva un locale o qualcosa di simile e arrivava in via Po a bordo di una Porsche. E Tamaro (chissà come si chiamava) triestino triste e solitario, ma sempre elegante, in giacca e cravatta. Era il padre di Susanna, la scrittrice di “Va’ dove ti porta il cuore”, ma fra loro non c’erano rapporti.

Per chiudere, una lectio magistralis del “maestro” Carlo Gregoretti, al settimanale dal 1955. Giornalista raffinato, lo sono andato a trovare un anno fa nella sua bella casa sull’Aventino dove vive con la moglie. E quando la compagna di una vita, Chicchi, si frantumò un femore lo chiamai per avere notizie. Poi gli chiesi: «E tu come stai?». E Carlo: «Malissimo. Ho una brutta malattia: la vecchiaia».

Con Scalfari, Gregoretti è l’ultimo superstite di quella navicella che, salpata da via Po, diventò presto un vascello. Oggi Carlo non ha perso l’ironia e lo stile di sempre. A lui l’onore di lasciarci un incipit strepitoso. Livio Zanetti e Nello Ajello non erano solo giornalisti di razza, ma “cani da tartufo”. In tempi non sospetti, Livio e Nello “fiutarono” che l’Argentario, all’epoca un villaggio di commercianti, contadini e soprattutto pescatori, sarebbe diventato il buen retiro di “quelli che contano”. Perfino gli Agnelli si sarebbero regalati una villa. Così, per il numero del 16 agosto 1964, spedirono Gregoretti che, sotto al titolo “Le contesse sul promontorio”, cominciò così l’articolo: «Porto Santo Stefano. C’erano le cernie, dieci anni fa, nelle insenature segrete dell’Argentario. E non si vedevano neppure quelle, perché se ne stavano all’ombra delle rocce, o affacciate sulla soglia delle tane, o sospese a mezz’acqua con la testa rivolta verso l’alto, il colore del dorso confuso con quello delle alghe sul fondo, immobili, come rispettose del paesaggio. Oggi c’è il cane nero della contessa Nina Benini, un piccolo Schnauzer, autostoppista e subacqueo, che scende a Calapiccola chiedendo un passaggio alla corriera dell’albergo, si tuffa dagli scogli, nuota a collo dritto, come un cormorano, per non mandarsi il sale negli occhi; poi torna a casa e fa la doccia». 

Non c'è pace per L'Espresso dopo il terremoto Damilano: il gran rifiuto di Ferruccio De Bortoli. Il Tempo l'08 aprile 2022.

Porta sbattuta in faccia a Danilo Iervolino: Ferruccio De Bortoli non sarà il nuovo direttore de L’Espresso. L’ex direttore del Corriere della Sera, oggi editorialista del quotidiano di Via Solferino, ha risposto un “grazie, preferisco di no” alla proposta del nuovo proprietario del settimanale e della Salernitana, squadra di calcio che sta lottando per rimanere in Serie A dopo il cambio al vertice. La cessione de L’Espresso dal Gruppo Gedi alle mani di Iervolino ha scatenato, ricorda Dagospia, l’addio di Marco Damilano, che ora condurrà una striscia quotidiana di informazione su Rai3. Dopo le dimissioni di Damilano ha preso il suo posto Lirio Abbate, che ricopriva la carica di vice-direttore.

Sempre il sito di Roberto D’Agostino svela un retroscena fino a qui rimasto inedito: nel momento in cui Damilano aveva deciso di lasciare il settimanale, che fino a marzo 2023 uscirà abbinato a La Repubblica, Gedi ha proposto il nome di Concita De Gregorio come nuova guida. Iervolino ha però scartato l’ipotesi di affidare il nuovo progetto alla giornalista, che attualmente è al timone di In Onda, talk show del weekend di La7, in compagnia di David Parenzo.

Dagospia il 21 maggio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: "Gentile direttore, l'ipotesi di  una vendita di testate GEDI riportata dall’articolo pubblicato oggi è destituita di ogni fondamento. Le sarei grato se volesse segnalarlo ai suoi lettori. Grazie e Buon lavoro! Andrea Griva Comunicazione GEDI"

DAGOREPORT il 21 maggio 2022.

Lo scenario scodellato dal giornale diretto da Franco Bechis non è per niente una fantasy lisergica. A Torino John Elkann, con il fido Scanavino al fianco, in futuro potrebbe, dopo le vendite di “Micromega” e “Espresso”, sbarazzarsi della “Repubblica” di Molinari (in edicola ormai doppiata dal “Corriere”), tenersi stretta la vispa “La Stampa” di Giannini (in memoria dell’Avvocato) e puntare sull’acquisizione del quotidiano della Confindustria (il “Sole 24 Ore” in Borsa capitalizza intorno ai 35 milioni) per portare così a compimento la joint venture con il settimanale economico inglese di proprietà di Elkann, “The Economist”, e creare così un quotidiano economico europeo.

Le chiacchiere intorno alla Gedi sono tante. Ad esempio, il ritorno alla “Stampa” di Federico Monga come vice direttore, dopo aver diretto “Il Mattino” di Caltagirone, ha innescato la possibilità di un suo up-grade al vertice rimettendo così a posto i cocci di “Repubblica” con Massimo Giannini che torna a Roma a dirigere quello che resta del giornale fondato da Scalfari, con Maurizio Molinari che rimane direttore editoriale del gruppo. Ipotesi e indiscrezioni a cui darà una risposta il 2023.

Tobia De Stefano per “Verità & Affari” il 21 maggio 2022.

Se si vogliono capire davvero le prossime mosse di Danilo Iervolino bisogna partire dall’ultimo contratto che l’imprenditore campano ha chiuso per rilevare L’Espresso dal gruppo Gedi, cifra 4,5 milioni di euro. O meglio, bisogna partire dalla clausola voluta esplicitamente dal venditore con la quale veniva esclusa la possibilità di trasformare il settimanale in un quotidiano fino alla fine del 2023. 

Cosa vuol dire? Da un lato che la fame editoriale di mister miliardo - appellativo che Iervolino si e meritato dopo la cessione dell’Università telematica Pegaso per un miliardo, appunto, al fondo Cvc - non si e placata. Secondo le notizie raccolte da Verita&Affari il prossimo obiettivo e quello di acquisire un quotidiano generalista di caratura nazionale.

E dall’altro che la Exor di John Elkann, insomma, la famiglia Agnelli che ha in pancia Gedi, e ben consapevole della volontà di espansione di Iervolino e inserendo dei paletti evidenzia di non avere, almeno per il momento, intenzione di smobilitare sul fronte editoriale. Ma vediamo.

Iervolino e in questo momento uno degli uomini più liquidi di Italia ed e infatti tirato in ballo in tante operazioni anche in un’ottica di diversificazione del business. Si sa per esempio degli investimenti in sanita e cybersecurity, cosi come e emerso da poco che ha messo una fiches anche nel progetto Crazy Pizza di Flavio Briatore. Ma la vera passione dell’imprenditore di Palma Campania e l’editoria, da sempre, e adesso il calcio con la Salernitana. E convinto che entrambi i business siano gestiti con metodi non industriali e quindi che ci siano tanti margini di guadagno aggiuntivi.

Il suo modello e Carlo Caracciolo, l’editore puro che non usa i giornali per proteggere altri business. L’ambizione e quella di ripetere il successo ottenuto con l’università telematica. Anche per scuola e formazione si diceva che rappresentassero fasce di mercato con le quali era tradizionalmente difficile portare a casa grandi profitti, eppure tutti sanno come e andata a finire. 

Prima di acquisire il gruppo Bfc (che edita tra le altre cose Forbes Italia e Bluerating), Iervolino aveva trattato con Andrea Riffeser Monti, che tra il serio e il faceto aveva chiesto un milione per una singola azione del suo gruppo, il Resto del Carlino, la Nazione e Il Giorno, e poi e stato a un passo dal chiudere per il gruppo Class, operazione saltata solo per divergenza sulla governance con l’attuale proprietà.

Ma dopo l’Espresso le cose sono cambiate. La struttura che Iervolino ha in mente inizia a prendere corpo e il tassello mancante e rappresentato appunto da un quotidiano generalista di caratura nazionale. Detto che La Stampa risulta in vendita, ma non interessa, sarebbe sicuramente diverso un discorso su Repubblica che pero al momento non risulta sul mercato. Inutile dire che se lo fosse Iervolino un tentativo lo farebbe di sicuro. 

Tutte le fonti smentiscono che se ne sia già parlato, ma nulla esclude che a stretto giro le cose possano cambiare o che si tratti di un gioco delle parti per non far lievitare il prezzo. Anche perchè si parla sempre con maggiore insistenza di un lavoro degli sherpa in atto da settimane per organizzare un incontro tra lo stesso Danilo Iervolino e John Elkann.

Del resto, se si esclude Repubblica, di quotidiani generalisti di caratura nazionale, resta solo il Corriere della Sera. Detto che i rapporti tra Iervolino e Urbano Cairo sono ottimi e viaggiano sull' asse calcistico, tutto granata, Salernitana-Torino, e che i due si vedono con una certa continuità. 

E anche vero che mezza Italia sta aspettando l’esito della causa tra Cairo e il fondo Blackstone per la vertenza sull’immobile di via Solferino. Se Cairo dovesse perdere a quel punto sarebbe costretto a cedere il Corriere e ci sarebbe la fila. Ma in coda non si intravede nessuno con la liquidita di Mister miliardo.

Fosca Bincher per “Verità & Affari” il 30 maggio 2022.

Il dubbio è legittimo e viene dalla calcolatrice. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Bruno Tabacci ha chiesto all'apposito dipartimento di palazzo Chigi di comprargli gli abbonamenti online necessari per la sua mazzetta di quotidiani digitali. Ne ha scelti cinque: Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Sole 24 Ore e Il Fatto Quotidiano. 

L'incarico di stipulare gli abbonamenti per un anno è stato affidato alla società Simul News srl di Roma (anche se bastava un clic per farlo sui dispositivi dello stesso Tabacci). Costo del contratto: 1.224,20 euro più 82,58 di Iva per un totale di 1.306,78 euro. E qui entra in funzione la calcolatrice. 

Andiamo a fare gli abbonamenti sui siti di ciascuna testata. Corriere della Sera: quotidiano digitale più sito senza limiti a 119,99 euro. La Repubblica: quotidiano digitale, tutto sito, edizioni locali e podcast a 199,99 euro. Il Sole 24 Ore: abbonamento digital base per quotidiano e sito a 299 euro. La Stampa: edizione digitale, sito e approfondimenti: 129,99 euro. In tutto fanno 748,97 euro, e ne mancano ancora quasi 600. Manca anche Il Fatto quotidiano. Che ha tre opzioni per gli abbonamenti. Formula “partner”: 189,99 euro. Formula “partner plus”: 214 euro. E formula “socio” a 500 euro. E allora quella domanda si impone: non è che zitto zitto il nostro Tabacci quest'anno è diventato socio di Marco Travaglio?

Francesca Vercesi per “Libero quotidiano” il 21 maggio 2022.

Le voci girano da qualche tempo: Il Fatto Quotidiano sarebbe in vendita. E, in piena campagna elettorale, certe operazioni sono più comprensibili di altre, se si pensa che il quotidiano fondato da Antonio Padellaro è considerato molto vicino al Movimento 5 Stelle, il quale - da due anni in crisi di consensi e passato dal 34% dei voti a un pallido 13%, secondo gli ultimi sondaggi non può permettersi di fare a meno di una tale cassa di risonanza mediatica.

Sta di fatto che il giornale diretto da Marco Travaglio è un dossier interessante, e soprattutto in salute, per imprenditori che vogliano farsi conoscere sul mercato e nel mondo dell'editoria. 

Il gruppo Seif che lo edita è quotato sul listino EGM (ex Aim) di Borsa Italiana dal marzo 2019, ha una capitalizzazione intorno agli 11 milioni di euro e, assumendo un'ipotesi di valorizzazione tra 4 e 5 volte l'Ebitda (che a fine 2021 valeva 5,9 milioni di euro), l'enterprise value potrebbe aggirarsi tra i 23 e i 29 milioni di euro. A fine 2021 è migliorata anche la posizione finanziaria netta, passata da 1,373 milioni a 2,29 milioni, con un miglioramento di 922 mila euro.

Sul bilancio di chiusura 2021, quanto al posizionamento, si legge che "con una tiratura di 65.381 copie e un totale di 24.895 copie, Il Fatto Quotidiano si posiziona al 7° posto per tiratura e al 9° per diffusione cartacea nella classifica dei player di informazione al di sotto delle 100.000 copie di tiratura media giornaliera".

E, sempre nel bilancio, è scritto che il quotidiano in formato digitale, nel corso degli ultimi anni, ha registrato un'incidenza delle copie digitali sul totale delle copie distribuite superiore ai principali player del mercato. "Oggi è la 4° testata in Italia per diffusione di copie in formato digitale e la 3° come incidenza delle copie digitali sul totale", si legge. Volendo però numeri ancora più aggiornati, secondo gli ultimi dati di Ads notizie di marzo 2022, la tiratura del Fatto arriva a 59.727 mila copie.

In ogni caso, nelle ultime ore ha iniziato a circolare, tra i possibili interessati a rilevare Seif, uno degli imprenditori più liquidi del momento: Danilo Iervolino, giovane e intraprendente campano a capo di un nuovo gruppo media costituito da un lato dalla quotata BFC Media e dall'altro dal settimanale L'Espresso e dal periodico Le Guide dell'Espresso.

L'asso pigliatutto dell'editoria, mister miliardo, chiamato così per essere riuscito a cedere a settembre 2021 per un miliardo di euro a CVC Capital Partners la quota rimanente di Wversity, cui fanno capo Multiversity srl (Università Telematica Pegaso e Università Mercatorum) e l'erogatore dei programmi internazionali di certificazione delle competenze digitali Certipass. 

Un'operazione che gli ha fruttato, vendendo tutto il suo 49%, circa 500 milioni di euro.

Iervolino, che ha chiuso un contratto da 4,5 milioni di euro per rilevare il settimanale L'Espresso dal gruppo Gedi, sta puntando all'acquisizione di un quotidiano nazionale, e il giornale diretto da Marco Travaglio potrebbe essere un obiettivo da considerare. Del resto, ha per l'appunto oltre mezzo miliardo di liquidità da investire. 

Negli ultimi mesi, l'imprenditore campano è assurto alle cronache anche per aver acquistato la Salernitana Calcio. Piccole operazioni all'insegna della diversificazione, che potrebbero proseguire nei prossimi mesi, a giudicare dalle varie partite a cui viene ultimamente associato. Inoltre, sul dossier L'Espresso esiste una clausola secondo cui è esclusa la possibilità di trasformare il settimanale in un quotidiano fino alla fine del 2023: quindi, secondo le voci che, l'acquisizione di un quotidiano generalista come Il Fatto potrebbe fare al caso suo.

Come potenziali acquirenti del quotidiano è girato nelle ultime ore anche il nome di Cdp, la Cassa Depositi e Presiti controllata dal ministero dell'Economia e delle Finanze. Ma questa non pare un'ipotesi realistica, considerando che lo Stato, secondo la Costituzione, non potrebbe investire né direttamente né indirettamente nell'editoria, o comunque nel settore dei media. 

Tornando a Iervolino, il manger ha acquisito il gruppo Bfc (che edita, tra gli altri, Bluerating, Forbes Italia e Robb Report) e inizialmente - stando alle cronache avrebbe cercato anche un accordo per rilevare il controllo di Class Editori. Operazione poi sfumata, anche se chi conosce la questione dice che Iervolino potrebbe comunque avere un ruolo, benché più defilato, nel rafforzamento patrimoniale della casa editrice che edita Milano Finanza.

All'imprenditore non deve essere poi certo sfuggito quanto la casa editrice di Marco Travaglio ha comunicato poche ore fa al mercato. Ovvero il varo di un progetto per l'espansione della società nell'ambito dell'istruzione e della formazione. Guarda caso, proprio il settore in cui lo Iervolino ha fatto fortuna con Università Pegaso...

Gli affari di Mister Espresso, ecco chi è Danilo Iervolino. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 28 marzo 2022

Danilo Iervolino è uno degli imprenditori italiani più in vista del momento. Inventore dell'Unipegaso, l’ateneo online che ha venduto di recente a un fondo inglese incassando più di un miliardo di euro.

Iervolino nelle ultime settimane ha cominciato a investire una parte (minima) dei guadagni. Portandosi a casa prima la Salernitana, squadra di serie A assai cara a Vincenzo De Luca, e poi il glorioso settimanale L'Espresso svenduto dalla Gedi di John Elkann. 

Alle inchieste della magistratura, ha scoperto Domani, si sommano i sospetti dell’antiriciclaggio su pezzi del gruppo: una delle ultime riguarda proprio l’acquisizione della Salernitana dal trust che l’ha gestita dopo l’uscita di Claudio Lotito. 

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Giovanni Tizian e Nello Trocchia per “Domani” il 28 marzo 2022.

Danilo Iervolino è uno degli imprenditori italiani più in vista del momento. È l’inventore dell’Unipegaso, l’ateneo online che ha venduto di recente a un fondo inglese, incassando più di un miliardo di euro. 

Nelle ultime settimane ha cominciato a investire una parte dei suoi guadagni, portandosi a casa prima la Salernitana, squadra di serie A cara a Vincenzo De Luca, e poi il glorioso settimanale L’Espresso, svenduto dalla Gedi di John Elkann. 

È un imprenditore creativo e ambizioso che ha fatto crescere l’impero fondato dal nonno. I successi di famiglia corrono paralleli a qualche guaio giudiziario del padre e del fratello, deceduto, con il quale Danilo aveva fondato l’università telematica Pegaso, il brand più noto della formazione privata online. 

Iervolino è stato sempre attento a non ostentare affiliazioni politiche. In passato è stato dato vicino al centrodestra, ma lui ha sempre smentito queste voci. Le ultime indiscrezioni lo collocano nell’area del centrosinistra campano dominato da De Luca, il presidente della regione Campania, che lo vedrebbe come perfetto erede politico.

Solo voci, ha ribadito ancora l’imprenditore. Eppure un legame indiretto con De Luca è sicuro: la moglie di Iervolino ha versato il contributo elettorale più alto alla lista Campania Libera, che ha sostenuto la corsa di De Luca alle ultime regionali del 2020.

Alle inchieste della magistratura, ha scoperto Domani, si sommano i sospetti dell’antiriciclaggio su pezzi del gruppo: uno degli ultimi riguarda proprio l’acquisizione della Salernitana dal trust che l’ha gestita dopo l’uscita di Claudio Lotito.

Nei documenti ottenuti è riportata la reale cifra dell’operazione e le modalità di pagamento, poi ci sono alcune anomalie e sono stati inviati alla procura di Napoli in virtù di una richiesta di collaborazione da parte della Guardia di finanza del capoluogo campano. 

In uno di questi documenti, del 2021, l’antiriciclagigo scrive: «Le attenzioni sono rivolte alla natura del gruppo Iervolino, costituito da complesse catene societarie caratterizzate dalla presenza di holding spesso inattive e da alcune società con medesima denominazione ma diversa forma societaria. Tali soggetti risultano già ripetutamente segnalati a questa unità».

Tra le operazioni «sospette» ci sono anche quelle effettuate sui conti di una delle aziende della galassia Pegaso sull’asse Italia-Bulgaria.

Iervolino si è accreditato nei palazzi del potere nazionale con l’università Pegaso che lo ha reso famoso a Napoli e dintorni, oltre che ricchissimo. Il calcio gli ha poi aperto le porte dell’olimpo italiano dei presidenti della serie A. Infine il salto nell’editoria, con l’acquisto delL’Espresso. Il veicolo societario usato da Iervolino si chiama Bfc media, la holding che edita l’edizione italiana di Forbes e di cui Iervolino è diventato socio di maggioranza nel 2021.

Tra L’Espresso e Iervolino non è stato amore a prima vista. L’imprenditore campano aveva querelato il settimanale per un’inchiesta giornalistica (a firma Nello Trocchia) sulla Pegaso e aveva chiesto 38 milioni di euro di danni. Iervolino è stato sconfitto sia in sede penale sia civile in primo grado. Le sentenze favorevoli alla testata risalgono a novembre e dicembre 2021, pochi mesi prima della vendita dell’Espresso a Iervolino. 

Tra le notizie contestate (ma vere) dal patron dell’università telematica c’è quella dell’indagine per associazione a delinquere nei confronti del fratello Angelo, un procedimento chiuso con la morte dell’indagato, che non ha potuto dimostrare la sua estraneità. L’accusa era di falsi e irregolarità nel settore dell’istruzione privata. I due fratelli erano soci in Pegaso.

A chiedere la collaborazione degli investigatori antiriciclaggio di Banca d’Italia è stata la procura di Napoli nel 2019. Esistono decine di segnalazioni sulla galassia Iervolino inviate dagli istituti di credito all’autorità di Banca d’Italia. 

Ce n’è una in cui i detective finanziari evidenziano anomalie nei flussi tra l’Italia e l’estero, in particolare la Bulgaria, relativi a Pegaso Consulting, «società che ha nell’oggetto sociale l’attività di consulenza direzionale con prestazione di servizi di carattere gestionale e amministrativo. Controllata al 100 per cento dall’ente Università telematica Pegaso».

Nel 2018 sui conti della Pegaso Consulting è stata riscontrata una «operatività apparentemente poco trasparente posta in essere su rapporto intestato a una società italiana che gestisce una università con sede in Bulgaria; suscita perplessità che i flussi relativi alla tesoreria dell’università estera vengano gestiti su rapporto di conto in essere presso il nostro paese». 

L’istituto che ha inoltrato a Banca d’Italia la segnalazione sottolinea che «pur in presenza di disponibilità e chiarezza da parte dell’amministratore che ha descritto i processi amministrativi adottati, permane l’anomalia della gestione della tesoreria di ente estero mediante utilizzo di conto corrente a nome del tesoriere, società operante in Italia».

C’è poi l’operazione Salernitana. Iervolino ha versato il 31 dicembre, ultimo giorno utile, mezzo milione come acconto. Il 13 gennaio, si legge negli atti, ha saldato con 9,5 milioni. 

Rilevare la proprietà della squadra di Lotito è stato per Iervolino un affare. Come riportano gli articoli di quei giorni, la cifra plausibile sembrava potesse essere attorno ai 17 milioni.

Gli esperti dell’antiriciclaggio che hanno studiato la pratica segnalano un particolare: il giorno prima che Iervolino versasse la caparra da 500mila euro, il trust Salernitana aveva ricevuto un’offerta molto più bassa da un notaio salernitano, che aveva versato un acconto di 78mila euro, restituito al professionista dopo la decisione di chiudere con l’imprenditore dell’università privata. 

Un’altra segnalazione sospetta risale al 2013 e riguarda l’affitto di un immobile di pregio nel centro di Napoli. A locarlo era stata la fondazione Frontiere internazionali della ricerca scientifica e tecnologica, che faceva capo a Iervolino. 

L’affitto da 10mila euro al mese, si legge nel documento, finiva sul conto della moglie dell’imprenditore reale proprietaria dell’immobile, costato alla signora quasi 1,5 milioni pagati con un mutuo che scade nel 2031 e una rata mensile da 7mila euro al mese.

«Appare evidente, in ultima istanza, la distrazione di fondi della fondazione per finalità non congrue con lo scopo sociale della stessa, ma destinati alla soddisfazione di interessi riconducibili direttamente alla signora e indirettamente allo Iervolino». 

Gli addetti all’antiriciclaggio della banca aggiungevano che «così come per l’Università telematica Pegaso anche per la fondazione non siamo in grado di valutarne la reale consistenza patrimoniale, nonché le corrispondenze tra i dati fiscali, quelli di bilancio e i volumi transitati sul conto, in ragione della scarsa collaborazione in tal senso dimostrata dallo Iervolino e dallo studio commercialista, che si limita ad affermare che la fondazione non ha alcun obbligo di dichiarazione fiscale».

Di certo il palazzo di via Medina 5 è centrale negli affari di Iervolino: qui hanno avuto sede fino al 2016 gli uffici di Pegaso e della capofila Multiversity. 

Sono numerose le movimentazioni sul conto corrente di Iervolino passate al setaccio dai detective dell’autorità antiriciclaggio su richiesta anche della Guardia di finanza. L’analisi ripercorre gli ultimi nove anni di flussi finanziari. Tra questi ci sono 60mila euro alla fondazione socio culturale internazionale Passarelli, che gestisce un istituto paritario al centro dell’inchiesta della procura di Vallo della Lucania sui diplomi fasulli che alla fine del 2021 contava oltre 500 indagati in tutta Italia.

Tra settembre e novembre del 2021 Iervolino perfeziona la vendita del 100 per cento dell’università Pegaso al fondo di investimento inglese Cvc Capital Partner, rappresentato in Italia da Giampiero Mazza. Il prezzo di cessione è stato pari a un miliardo di euro, «1.081.048.297,00», si legge nel documento riservato che sancisce la vendita del polo accademico davanti al notaio Luca Amato. Iervolino tuttavia è rimasto presidente dell’università.

Negli stessi mesi in cui aveva deciso di rilevare Pegaso, Cvc era impegnata in un altro affare miliardario con la serie A: era nella cordata pronta a creare la media company, progetto fallito miseramente per l’opposizione feroce di alcuni presidenti delle squadre, su tutti Claudio Lotito, all’epoca ancora presidente della Salernitana oltreché della Lazio. 

Un anno dopo il caso ha poi voluto che Iervolino, diventato ricco grazie al fondo Cvc, rilevasse proprio la squadra campana, nel frattempo promossa nella massima serie. Alla fine Cvc ha portato a termine il progetto della media company con la Liga spagnola e lo sta definendo con il campionato francese.

Il fondo inglese ha versato a Iervolino oltre un miliardo a fronte di una società con capitale sociale di 1 milione di euro, con un fatturato dichiarato nel bilancio 2020 di quasi 166 milioni di euro e un utile decuplicato nello stesso anno, da 6 milioni a 56. 

Anche i debiti, però, sono aumentati, da 63 a 85 milioni nel 2020. Gli iscritti nell’anno 2020/21, secondo i report del ministero dell’Istruzione, ammontano a oltre 65mila. Nel 2016 erano poco più di 20mila. 

Diversi i risultati operativi della società Multiversity, al vertice della catena societaria e al 100 per cento fino al 2020 di Danilo Iervolino tramite un’altra spa, Wversity. L’ultimo bilancio presentato sotto la proprietà Iervolino fornisce molte informazioni.

La prima è che, a differenza della società controllata Pegaso, ha chiuso l’anno 2020 in perdita di oltre 1,5 milioni. Nella relazione sulla gestione dello stesso anno è riportata anche una sanzione tributaria pari a 2 milioni, ricevuta dall’Agenzia delle entrate sul «maggior carico fiscale seguito alla risposta dell’Agenzia». 

La società credeva di poter beneficiare di una sorta di sconto sulle plusvalenze ricavate dalla cessione delle partecipazioni in favore di un partner finanziario. Non poteva farlo e ha dovuto pagare la multa al Fisco.

Iervolino si è ritrovato così all’improvviso a essere il paperone del Mezzogiorno. C’è chi lo ha definito «fuoriclasse», chi un «futuro Urbano Cairo», per altri è «l’immagine migliore del sud». 

Il Foglio diretto da Claudio Cerasa gli ha dedicato un ritratto generoso, secondo cui sarebbe figlio del senatore democristiano Antonio. Il vero padre di Danilo si chiama Antonio, ma è deceduto nel 2007 e non è stato parlamentare, bensì l’inventore dell’istituto scolastico privato Iervolino. 

Danilo Iervolino ha ricordato il padre e la madre a gennaio scorso, durante l’inaugurazione di una sala dell’accademia militare Nunziatella di Napoli: «Sono felicissimo di aver contribuito alla realizzazione della sala museale di storia, arte e cultura della scuola militare Nunziatella, eccellenza nel settore dell’istruzione militare e fucina di giovani di coraggio e di valore. 

Ma soprattutto sono commosso dal fatto che questo luogo è stato dedicato alla memoria dei miei genitori, Giuditta e Antonio Iervolino. Nel ricordo di un grande impegno per i giovani e per il loro inserimento nel mondo del lavoro: democratizzazione dei saperi come unica traiettoria di crescita e di riduzione delle disuguaglianze». 

Iervolino, tuttavia, preferisce non ricordare l’inciampo giudiziario del padre all’epoca in cui gestiva l’istituto Iervolino in provincia di Napoli, attivo nell’istruzione privata e che ha fatto diplomare studenti napoletani e anche di altre zone d’Italia. 

Era il 1993, 5 ottobre, il quotidiano di Napoli Il Mattino, nelle cronache interne, titolava così: «10 milioni e sarai ragioniere», e poi «in manette il titolare dell’istituto Iervolino».

La foto dell’articolo ritrae Antonio Iervolino, il padre di Danilo, accusato di concorso in concussione aggravata. Si era difeso, aveva affermato con forza di essere estraneo alle accuse. Le cronache riferiscono della chiusura della vicenda con Iervolino senior che ne è uscito con il patteggiamento. Anche su questo punto, come su altri, Danilo Iervolino ha preferito non rispondere alle nostre domande. 

Il caso era finito anche in parlamento con il deputato Michele Del Gaudio, un indipendente confluito nel gruppo Progressisti federativi, presieduti da Luigi Berlinguer.

Del Gaudio, ex magistrato, aveva chiesto al ministero dell’Istruzione informazioni sul ritorno in attività delle scuole private Iervolino dopo lo scandalo. L’interrogazione è rimasta senza risposta.

Nell’ascesa imprenditoriale di Iervolino junior hanno contato molto le relazioni che ha saputo coltivare nel tempo. 

Le collaborazioni con le istituzioni contribuiscono agli ottimi fatturati di Pegaso. «Gli appartenenti ai ruoli dell’esercito, della marina, dell’aeronautica e dei carabinieri potranno iscriversi ai corsi di laurea dell’Università versando una retta annuale pari ad euro 1.500,00. La medesima agevolazione è estesa anche al personale in congedo (personale in pensione)», è l’annuncio che gli utenti possono leggere sul sito dell’università telematica, presieduta da Iervolino anche dopo la vendita al fondo inglese.

Oltre alle convenzioni con il ministero della Difesa, ci sono quelle con la Polizia di stato, terzo settore e cooperative. Pegaso ha promosso convegni, dibattiti ai quali hanno partecipato magistrati, consiglieri di stato, presidenti emeriti della Corte costituzionale e i vertici dell’antimafia. 

Il direttore scientifico di Pegaso è un giurista affermato: l’avvocato civilista Francesco Fimmanò, amico di Iervolino. Fimmanò e Iervolino hanno subìto un’indagine dalla procura di Napoli. L’ipotesi era di corruzione, ma è stata archiviata nel 2021. Già prima il tribunale del Riesame aveva smontato il decreto di perquisizione. 

L’avvocato Fimmanò ha inviato in quell’occasione ai vertici di tribunale e Corte d’appello di Napoli una lunga lettera in cui ha contestato, punto a punto, i provvedimenti disposti dalla procura. E ha ricordato il suo percorso prestigioso: «Solo per fare un esempio sono notoriamente legato culturalmente (e coautore di testi, convegni, simposi) al procuratore generale aggiunto della Cassazione in carica, a giudici costituzionali, a tantissimi consiglieri di Cassazione, a presidenti di tribunale e di Corti d’appello.

O ancora, sono l’unico professore universitario italiano ad aver scritto col più grande giurista vivente, Guido Calabresi, già preside di Yale e oggi giudice della Corte federale d’appello degli Stati Uniti (…) Ho formato presso la Scuola superiore della Magistratura di Scandicci (e prima nella formazione della IX Commissione del Csm) centinaia di giudici fallimentari, di tribunali delle imprese e di procure di criminalità economica».

Parole che il professore ha utilizzato per smontare l’ipotesi accusatoria secondo cui alcuni giudici amministrativi avrebbero favorito Pegaso in un pronunciamento perché precedentemente impegnati in un master dell’università, poi neanche svoltosi. 

Tra i tanti master proposti dall’università telematica c’è quello di giornalismo con Bruno Vespa che insegna Politica e giornalismo, con Mario Giordano, Telegiornali e informazione in tv, con il deputato ed ex direttore di Panorama Giorgio Mulè, che si è occupato di Informazione e l’evoluzione da testata giornalistica a brand commerciale. Infine quello su Giornalismo d’inchiesta, corso tenuto da Barbara Carfagna, giornalista del Tg1.

Il core business della famiglia Iervolino è stato sempre l’istruzione privata. Prima il padre, poi i due figli, in particolare Danilo che ha fatto dell’università Pegaso un’esperienza di successo. Il punto di svolta è stato nel 2003, grazie al decreto Moratti-Stanca che ha istituito le università telematiche. 

Iervolino ha conquistato anche la politica. Nel 2014 Silvio Berlusconi ha scelto la sua università per formare i quadri dirigenti di Forza Italia. Il costo dell’iscrizione al corso “politico”, si legge in un vecchio articolo, era di 650 euro. Berlusconi aveva persino pensato a Iervolino come coordinatore del partito in Campania dopo gli scandali di voti e camorra che avevano travolto l’ex sottosegretario Nicola Cosentino. 

Sebbene ci siano stati ammiccamenti con il centrodestra, l’imprenditore campano ha buoni rapporti anche nel centrosinistra. Dai documenti ottenuti da Domani risulta che la moglie Chiara Giugliano ha finanziato con 20mila euro la lista Campania Libera del presidente De Luca, impegnata con successo alle regionali del 2015 e del 2020.

Iervolino è molto amico del deputato di Forza Italia Giorgio Mulè, già direttore di Panorama. Il giornalista nel suo curriculum su LinkedIn scrive che dal 2014 al 2018 è stato docente “straordinario” di Teorie e tecniche della comunicazione. Nel 2017 Mulè da direttore di Panorama ha incluso l’università Pegaso, di cui era professore, nelle eccellenze d’Italia. 

Mister Pegaso vanta collaborazioni editoriali pure con l’ex magistrato anticamorra Catello Maresca, candidato a sindaco di Napoli supportato dal centrodestra. Il tema del libro non è la legalità, ma «il presepe napoletano» in una pregiata edizione illustrata venduta su Unilibro.it a 76 euro a copia.

L’elenco degli ospiti alla festa dei dieci anni dell’università telematica è rivelatore di rapporti e amicizie: banchieri, giudici contabili, procuratori, presidenti di tribunali, deputati, senatori, generali della Guardia di finanza, fino a Luciano Chiappetta, capo dipartimento del ministero dell’Istruzione. 

In ogni intervista Iervolino ricorda la bellezza delle sedi dove gli studenti possono svolgere le sessioni d’esame. La società capofila Multiversity ha speso 10,1 milioni nel 2020 per acquistare un palazzo storico nel cuore di Roma, a piazza Ara Coeli, a un metro dall’Altare della patria in piazza Venezia. 

Il civico dell’immobile prestigioso indicato nel bilancio della società corrisponde al palazzo “Fani Pecci Blunt” del sedicesimo secolo, costato a Iervolino tanto quanto l’acquisto della Salernitana. Una delle ipotesi circolate è che potrebbe diventare la nuova sede dell’Espresso.

Alle nostre domande l’imprenditore non solo ha deciso di non rispondere, ma ci ha avvisati (con una lunga nota che pubblichiamo integrale qui sotto) di aver inviato una denuncia preventiva sui contenuti che pubblicherà Domani. Il motivo? 

Le nostre notizie «turbano nel complesso proprio il settore della libertà e del pluralismo dell’informazione, con condizionamenti potenzialmente violativi dei precetti costituzionali». Un ottimo inizio come futuro editore dell’Espresso. Una strana idea di giornalismo per un editore

Giovedì 24 marzo alle 10.36 di mattina abbiamo contattato Danilo Iervolino. Gli abbiamo chiesto se preferiva rispondere via telefono alle nostre domande, «se può scrivermi è meglio, contatti la dott.ssa Mara Andria».

Così abbiamo fatto, Andria ci ha chiesto i quesiti scritti in una mail. Alle 11.35 era già stata inviata, con dieci domande puntuali e con la richiesta di rispondere entro sabato alle 14 (due giorni abbondanti dopo) così da poter chiudere l’articolo con le loro risposte. Sabato arriva una nota inviata da Andria per conto di Iervolino e il tono è decisamente diverso. 

Non ci sono le risposte ai dubbi né le repliche alle notizie che stavamo per pubblicare. Ma solo l’annuncio di una denuncia preventiva all’autorità giudiziaria. E le accuse di aver violato numerosi principi etici e giornalistici. Noi, come sempre facciamo, chiediamo conto ai protagonisti delle nostre inchieste, per dare la possibilità di rispondere e ribattere punto su punto. 

«In relazione ai quesiti che ci avete sottoposto faccio presente preliminarmente che appaiono connotati da una strumentale capziosità che disvela un chiaro intento diffamatorio tracimante in nuce i canoni di verità, critica e continenza», inizia così la lettera inviata a Domani.

E prosegue: «Ciò renderebbe ogni risposta del tutto inutile e funzionale solo ai vostri malcelati intenti di colorare le stesse con un simulacro di dovere di controllo delle fonti e diritto di replica. Ma ciò che è più grave, e che impedisce persino ogni risposta, è che le stesse domande contengono non solo profili violativi della privacy ma soprattutto possibili violazioni del segreto istruttorio». 

«Pertanto non abbiamo potuto far altro che denunciare alle autorità inquirenti i detti contenuti che in parte qua non sono neppure noti al sottoscritto e ai propri legali costituiti nei relativi procedimenti. Ciò che inquieta è che tutto ciò avviene con un tempismo logico-sequenziale ad altre recentissime vicende che appaiono collegate e tali da turbare nel complesso proprio il settore della libertà e del pluralismo dell'informazione, con condizionamenti potenzialmente violativi dei precetti costituzionali».

Dopo l’inchiesta di Domani, L’Espresso attacca Iervolino. Il Domani il 28 marzo 2022

«I giornalisti dell'Espresso vogliono per questo rassicurare i lettori: non smetteremo di fare domande, chiunque sia il nostro editore», scrivono in una nota dopo che l’imprenditore Danilo Iervolino ha minacciato di denunciare Domani per avergli sottoposto delle semplici domande

Dopo l’inchiesta di Domani a firma di Giovanni Tizian e Nello Trocchia sull’imprenditore Danilo Iervolino che ha da poco acquistato l’Espresso, i giornalisti del settimanale hanno scritto un comunicato in cui esprimono preoccupazione per la reazione del loro futuro editore alle domande poste da Domani.

«I giornalisti dell’Espresso hanno appreso con sconcerto il contenuto della risposta fornita da Danilo Iervolino, prossimo possibile editore della nostra testata, alle domande legittime formulate dal quotidiano Domani nell’ambito di un’inchiesta giornalistica. Stando ai resoconti pubblicati, Iervolino avrebbe preannunciato una querela non per l’articolo finale ma per il semplice contenuto delle domande».

La nota dei giornalisti si riferisce alla denuncia annunciata dallo stesso Iervolino nei confronti di Domani dopo che ha ricevuto delle domande formulate da Tizian e Trocchia per garantire il suo diritto di replica. Domande a cui non ha mai risposto.

«Riteniamo che questa reazione non sia compatibile con gli standard minimi dell’attività giornalistica a cui dovrebbe uniformarsi anche un imprenditore che intende pubblicare questo giornale. Che cosa succederebbe se tutti i prossimi interlocutori della nostra testata reagissero nello stesso modo di Iervolino in risposta a semplici domande? Il nostro timore è che si sentirebbero legittimati a querelarci preventivamente», si legge nel comunicato che si conclude con un appello rivolto ai lettori.

«I giornalisti dell'Espresso vogliono per questo rassicurare i lettori: non smetteremo di fare domande, chiunque sia il nostro editore».

Da espresso.repubblica.it il 28 marzo 2022.

I giornalisti dell’Espresso hanno appreso con sconcerto il contenuto della risposta fornita da Danilo Iervolino, prossimo possibile editore della nostra testata, alle domande legittime formulate dal quotidiano Domani nell’ambito di un’inchiesta giornalistica. Stando ai resoconti pubblicati, Iervolino avrebbe preannunciato una querela non per l’articolo finale ma per il semplice contenuto delle domande.

Riteniamo che questa reazione non sia compatibile con gli standard minimi dell’attività giornalistica a cui dovrebbe uniformarsi anche un imprenditore che intende pubblicare questo giornale. Che cosa succederebbe se tutti i prossimi interlocutori della nostra testata reagissero nello stesso modo di Iervolino in risposta a semplici domande? Il nostro timore è che si sentirebbero legittimati a querelarci preventivamente.

Gedi attacca L’Espresso, i giornalisti: «Basta fake news». Il documento dell’assemblea dei giornalisti de L’Espresso il 14 Marzo 2022.

I giornalisti dell’Espresso prendono atto con sorpresa e sconcerto delle recenti dichiarazioni di Maurizio Scanavino, amministratore delegato del gruppo Gedi, un gruppo che, lo ricordiamo per chi si fosse nel frattempo distratto, continuerà a essere l’editore dell’Espresso in attesa che si completi l’annunciata (e non ancora perfezionata) vendita della testata al gruppo Bfc media di Danilo Iervolino. 

Un giornale che ha fatto della lotta alle fake news una propria bandiera, con inchieste che in questi ultimi anni hanno avuto risonanza internazionale, non può fare a meno di contestare alcune affermazioni che ci sembrano lontane dalla realtà dei fatti, lesive dell’immagine della testata e della professionalità di quanti vi lavorano. 

Andiamo con ordine: secondo quanto si legge nel comunicato diffuso dal comitato di redazione della Stampa, al termine dell’incontro con Scanavino di giovedì 10 marzo, lo stesso Scanavino avrebbe affermato testualmente che L’Espresso ha fatto «registrare ormai da anni perdite estremamente significative”.

Facciamo notare che in base ai dati comunicati dall’azienda, le perdite operative dell’Espresso, oltre a rappresentare una quota più che trascurabile rispetto al passivo del gruppo, sono nettamente diminuite nell’arco degli ultimi tre anni, un trend che, sempre secondo quanto comunicato dai vertici aziendali, era destinato a proseguire anche nel 2022. Tutto questo in una situazione di mercato estremante difficile, che ha penalizzato pesantemente anche il conto economico delle altre principali testate del gruppo. 

Ricordiamo inoltre che solo un mese fa, in un incontro con la direzione generale il comitato di redazione dell’Espresso si era sentito rassicurare sul futuro della testata poiché i conti per quanto in perdita erano in miglioramento e le ricorrenti voci di una possibile cessione della testata erano «totalmente infondate». In quell’occasione il deficit dell’Espresso era stato definito «importante ma in miglioramento rispetto al 2020-21» ed era stato assicurato che non «erano previsti tagli di borderò né di altro tipo». 

L’Espresso, sostiene Scanavino, avrebbe avuto «la priorità» negli investimenti sul piano tecnologico: un’informazione che non corrisponde assolutamente alla verità se si esclude, pochi mesi fa, l’aggiornamento di un sistema editoriale ormai superato.

Sempre secondo quanto riportato dal comitato di redazione della Stampa, Scanavino avrebbe inoltre affermato che L’Espresso «ha in qualche modo fatto il suo tempo». Rispediamo al mittente le considerazioni sulla morte del giornalismo d’inchiesta e di approfondimento e troviamo quantomeno sorprendente che l’amministratore delegato di Gedi consideri obsoleto un settimanale che, secondo quanto previsto dagli accordi con l’acquirente, continuerà a essere offerto ogni domenica in allegato obbligatorio a Repubblica almeno fino a 31 marzo 2023. 

I giornalisti dell’Espresso, a dispetto di quanto affermato da Scanavino, vogliono riaffermare il proprio impegno a difesa della testata che ogni settimana con i propri articoli dimostra di essere viva e vitale. Come ci ha ricordato di recente Corrado Augias, «I giornali hanno una storia e in qualche caso fanno la storia. E vanno maneggiati con cura, bisogna tenerlo presente quando si fa l'editore».

Da calcioefinanza.it il 13 marzo 2022.

Il nuovo editore dell’Espresso, Danilo Iervolino, proprietario di BFC media e patron della Salernitana da inizio anno, è indagato dalla Procura di Napoli per un’ipotesi di evasione fiscale di alcuni milioni di euro. L’accusa – scrive Il Fatto Quotidiano nella sua edizione odierna – risale ad anni e vicende a cavallo della metà del decennio scorso, quando il core business dell’imprenditore era l’università telematica UniPegaso. 

Nelle scorse settimane la Procura guidata da Giovanni Melillo ha notificato a Iervolino un avviso di proroga delle indagini. Il fascicolo contesta all’imprenditore una presunta violazione dell’articolo 3 del decreto legislativo 74 del 2.000, una fattispecie di evasione fiscale detta «dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici».

Il fascicolo è nato in seguito all’esito di alcuni accertamenti dell’Agenzia delle Entrate risalenti alle dichiarazioni fiscali di diversi anni fa. L’avviso di proroga fornisce agli indagati pochissimi elementi utili a ricostruire i dettagli dell’accusa. Quasi sempre si limita a indicare il titolo di reato. L’indagato ha la facoltà di opporsi alla proroga e chiedere al Gip lo stop dell’inchiesta, per accelerarne la conclusione: ma lo può fare solo “al buio”, senza poter accedere agli atti. 

Iervolino è stato iscritto nel registro degli indagati perché gli inquirenti interpretano sfavorevolmente alcune condotte fiscali dell’imprenditore, finalizzate a ridurre di qualche milione di euro l’imponibile. I legali di Iervolino sono invece sicuri di poterne dimostrare l’innocenza, e la correttezza delle informazioni riportate in dichiarazione.

ANDREA GARIBALDI per professionereporter.eu il 13 marzo 2022.  

“Sa che ho scritto sull’Espresso?”.

Notizia clamorosa, visto che viene da Danilo Iervolino, imprenditore napoletano creatore dell’università telematica Pegaso, che ha comprato L’Espresso dal Gruppo Gedi. Suscitando scandalo, scioperi, le dimissioni del direttore Marco Damilano. 

Quando ha scritto sull’Espresso?

“E’ un piccolo giornale, si chiama l’Espresso napoletano, in onore del caffè”. 

Forse una premonizione.

“Può essere”.

Ha detto che all’Espresso, quello che ha comprato, non farà licenziamenti. Ma il direttore lo cambierà?

“La verità? Non lo so. Stiamo valutando. Prepariamo il progetto industriale. Ancora non è definito l’acquisto”. 

Ha parlato con Lirio Abbate, nominato dopo le dimissioni di Damilano?

“No. Ho avuto un incontro con alcuni giornalisti, ma lui non c’era, mi pare”.

C’era il Comitato di redazione, i rappresentanti sindacali?

“Di preciso non lo so”. 

Il suo Espresso manterrà l’identità che lo distingue da 66 anni?

“Manterrà identità, valori, indipendenza. La voglia di fare inchieste, di gettare luce sulle cose torbide del Paese”. 

Ci metterà qualcosa di suo.

“Sarò un editore in punta di piedi, ma darò entusiasmo e porterò le mie esperienze tecnologiche. Il giornale dovrà spingere anche sull’infotaiment, informazione più intrattenimento, sul coinvolgimento del lettore”. 

Ha detto che vuole creare, attorno all’Espresso, una community. Cosa significa?

“Una comunità di lettori che condividono gli stessi valori, la passione per la lettura, la tensione verso la verità. Che siano amici, e abbiano in comune battaglie sociali e hobby”.

L’Espresso resterà nell’ambito della sinistra?

“Non è questione di parte o di partito. Credo in un giornalismo sano, di qualità, che illumini, cerchi la verità. L’Espresso può diventare un punto di riferimento, un avamposto di libertà intellettuali”. 

Lo scorso anno doveva fare il candidato sindaco a Napoli?

“Falso. Né Berlusconi, né De Luca né altri politici o partiti hanno mai fatto il mio nome come candidato a Napoli. Sapevano che avrei detto comunque no”. 

Berlusconi e De Luca Sono suoi amici e sostenitori?

“Ho relazioni con tutti, vada a vedere le presenze nei convegni di Pegaso”.

Ma per chi ha votato nel corso degli anni?

“Non ha importanza. Sono un imprenditore che vuole una società 5.0, nuove tecnologie per fornire prosperità, nel rispetto del pianeta. Sono per il progresso, la sostenibilità, la pace a tutti i costi, la riduzione delle disuguaglianze, le stesse opportunità per tutti. Chi sposa queste idee mi è vicino”. 

L’Espresso si allargherà su altri mezzi?

“Tv e radio”.

Una mediatech industry italiana?

“La prima, non ne esistono altre”. 

L’editoria italiana chiede continuamente aiuti, sembra sul punto di affondare”.

“E’ un approccio un po’ vecchio. Sono convinto che con l’editoria si possano fare profitti. L’audience può essere convertita in denaro. Ho comprato L’Espresso per lo stesso motivo per cui ho comprato la Salernitana calcio”. 

Cosa c’entrano?

“Calcio ed editoria hanno audience inespresse”. 

Si rifà a modelli stranieri?

“Nessuno. Sono un inventore. Fra Archimede e Ray Kroc, l’uomo che ha sviluppato Mc Donald’s nel mondo”. 

Dottore Iervolino, perché ha venduto Pegaso?

“Perché ho ricevuto una buona proposta economica. La formazione è stato per me un campo per lavorare sull’ascensore sociale. Ora mi dedico ad altro, sempre nello stesso spirito. Sono un costruttore innovatore”.

Ho letto che ha realizzato una app per proteggere lo smart working.

“Si chiama Duskrise. Lo produce una società di cyber security, abbiamo brevettato hardware e software: salvaguarda i mezzi tecnologici di casa dai malware, gli attacchi informatici”. 

Lei ha querelato due giornalisti dell’Espresso, Trocchia e  Zunino, per quello che avevano scritto su Pegaso.

“Storia vecchia di anni! Mi sembrò un’aggressione alla modernità. Mi piacerebbe che oggi qualcuno dicesse che avevamo ragione, che la formazione a distanza è valida e importante”. 

Il Tribunale civile di Napoli ha rigettato il risarcimento per 38 milioni e avete fatto ricorso. Adesso che è proprietario dell’Espresso, ritirerà la causa?

“Potrei anche, ma la causa coinvolge oltre cento persone, docenti e dipendenti. Deve decidere l’assemblea dei soci di Pegaso. Voglio dire però una cosa: ho grande stima per i giornalisti e la loro professione. Svolgono un decisivo ruolo sociale. Io sono uno di loro, giornalista pubblicista”. 

Come ha preso il tesserino?

“Con gli articoli sull’Espresso napoletano”.

Tobia De Stefano per “Libero quotidiano” l'8 marzo 2022. 

Presidente, non vorrà mica diventare il Berlusconi del Sud?

 «In che senso?» 

Prima il calcio con la Salernitana, ora l'editoria con l'Espresso, e domani entrerà in politica?

«Assolutamente no. Non ho nessuna intenzione di fare politica, la mia ambizione è quella di creare posti di lavoro certo, ma restando un imprenditore innovativo...».

Danilo Iervolino è oggi uno degli uomini più liquidi d'Italia. Dopo averla fondata, pochi mesi fa ha venduto al fondo di Private equity Cvc l'università telematica Pegaso, e adesso si sta dedicando a una meticolosa campagna acquisti. Diversificando. Torniamo all'editoria. L'operazione per acquisire l'Espresso è chiusa?

«Guardi, abbiamo firmato una lettera di intenti nella quale c'è convergenza praticamente su tutto. Faremo in esclusiva una due diligence di qualche settimana e se tutto va come deve andare entro fine mese sarà chiusa».

C'è molta curiosità sul prezzo. A noi risulta che si tratti di un'operazione almeno da cinque milioni di euro.

«Abbiamo un'obbligo di riservatezza, mi dispiace non posso dirle nulla...». 

Sta di fatto che sarà un'operazione onerosa. L'ha sorpresa la reazione dell'ormai ex direttore Marco Damilano che si è dimesso parlando di un indebolimento del giornale e di conseguenza della democrazia?

«Non sono a conoscenza dei fatti, quindi non voglio far polemiche con un professionista che peraltro stimo».

Beh, se è per questo, con Damilano si è schierata una buona parte della sinistra che sembra guardarla con la puzza sotto il naso...».

«Accettiamo le critiche e cerchiamo di trasformarle in stimolo positivo. Detto questo, mi limito a evidenziare che l'editoria è un settore in stagnazione e mi sarei aspettato maggiore apertura nel giudicare l'impegno di un giovane imprenditore che decide di investire delle risorse per rilanciarlo». 

All'Espresso serve un rilancio?

«Certo. Oggi l'editoria è un settore piatto e asfittico che ha bisogno di essere rivitalizzato». 

In che modo?

«Resterà il settimanale delle grandi inchieste, resteremo fedeli ai suoi valori e all'indipendenza che lo ha contraddistinto sin dalla fondazione...». 

Ma...

«Allo stesso tempo punteremo molto sull'on line, su una maggiore contaminazione e su un linguaggio ibrido».

Nel concreto?

«Potenzieremo la parte digitale con nuovi servizi e una fortissima integrazione con il cartaceo». 

I giornalisti possono stare tranquilli?

«Assolutamente sì, la ristrutturazione non riguarderà il personale che anzi in modo graduale sarà rafforzato magari con nuove figure che hanno maggiore dimestichezza con il digitale». 

Manca il nome del direttore. O meglio uno nuovo già c'è, Lirio Abbate...

«Non abbiamo ancora deciso nulla, non abbiamo ragionato neanche su un identikit...».

Non le credo, ma passiamo alla Salernitana, le piacciono proprio le imprese impossibili...

«...Guardi, il nostro a prescindere dalla salvezza è un progetto di lungo periodo. Credo che si possa estrarre più valore dal mondo del calcio. Non è ammissibile che l'Italia guadagni dai diritti tv meno soldi non solo dell'Inghilterra, ma anche di Germania, Spagna e Francia». 

I fondi avevano fatto una proposta importante, ma sono stati respinti.

«Fondi o non fondi bisogna cambiare le cattive abitudini. Ho trovato un'ambiente divisivo, nel quale prevalgono i personalismi a dispetto dell'unità. Con la crisi post Covid se non ci sbrighiamo a prendere delle decisioni ci sarà una selezione naturale. Anche i giovani si stanno disamorando». 

Davvero?

«Lo dicono tutti i dati. Le nuove generazioni snobbano il calcio». Soluzioni? «Dobbiamo puntare sulla qualità dello spettacolo che offriamo e sulle nuove tecnologie. Penso alla possibilità per i fan di allenarsi virtualmente con i propri idoli, di interagire con l'allenatore o di ricevere gli auguri personalizzati. Quando decido di fare un investimento guardo alle potenzialità tecnologiche di quello che sto acquisendo. E penso che nel calcio come nell'editoria ce ne siano molte ancora inesplorate».

Dagonews il 7 marzo 2022.  

Plebiscito per l'Espresso. Dopo anni Repubblica torna a scioperare. 223 voti a favore, solo 9 contro e 6 astenuti. Domani niente giornale in edicola e sito fermo. Soprattutto, un pacchetto di altri giorni di sciopero se non viene garantito al giornalista, che non vuole andare sotto Iervolino, di poter restare nel gruppo Gedi.

DAGONEWS il 9 marzo 2022.

A Danilo Iervolino rilevare l’Espresso è costato 5 milioni di euro, quando Torino fino a poco tempo fa l’offriva gratis al finanziere Guido Maria Brera, dopo che era fallito il tentativo di fusione del settimanale con l’Economist (proprietà Exor) per mancanza di giornalisti economici.  

Aggiungere che per Elkann la perdita annua del settimanale era di un milione e mezzo annuo, una goccia in un bilancio di 200 milioni, e si comprende che la svendita dell’Espresso giace nelle pieghe di un antico astio verso un magazine, specialmente nell’epoca della direzione di Giulio Anselmi, capace di far imbufalire casa Agnelli.

Ha stupito molti che la solidarietà verso i giornalisti dell’Espresso ‘’venduti’’ a Iervolino sia arrivata solo dai colleghi scioperanti di “Repubblica” mentre “La Stampa” e giornali locali sono usciti in edicola regolarmente. Alcuni dicono per non urtare la proprietà, visto che starebbe per far calare la mannaia degli esuberi, soprattutto in casa “Repubblica”. Altri vedono lo sciopero anche come protesta nei confronti del direttore Maurizio Molinari. 

Avrà una nuova sede a Milano la redazione dell’Espresso secondo i progetti del nuovo editore Bfc, che ha formalizzato l’offerta di acquisto a Gedi. La casa editrice di cui Denis Masetti ha venduto la maggioranza ad Danilo Iervolino, continuando però a esserne il gestore (Iervolino ha grandi ambizioni come editore ma non essendo un esperto vuole approfondire bene il business prima dì prenderne la responsabilità operativa) avrà sede in via Melchiorre Gioia all’ultimo piano dì un palazzo prospiciente il quartiere Gae Aulenti. 

Secondo Bfc la redazione milanese dell’Espresso avrà molta rilevanza e sarà numerosa. Ancora da decidere dove troverà sede la redazione romana. Bfc oltre all’informazione politica vuole sviluppare la parte legata alla cultura, all’economia legata all’innovazione.

Gli accordi con Gedi per il passaggio di proprietà dello storico settimanale prevedono che tutto l’organico passerà a Bfc, che ha un progetto molto articolato per il nuovo Espresso Media (il nuovo brand) che significa una piattaforma che oltre al settimanale su carta con una potente presenza online, prevede una radio, contenuti video, podcast ed eventi. Insomma la formula dell’editoria moderna che terrà conto della diffusa competenza tecnologica che ha Jervolino. 

L’Espresso continuerà ad uscire alla domenica insieme a La Repubblica, la pubblicità, finora un ricavo residuale, dovrebbe essere gestita dalla dinamica organizzazione interna a Bfc. 

L'"Espresso" a Iervolino. E "Repubblica" sciopera. Gian Maria De Francesco l'8 Marzo 2022 su Il Giornale.

Adesione massiccia alla protesta contro l'editore. Bfc Media: "Non faremo alcun licenziamento".

Il gruppo Gedi (controllato all'89,6% da Exor) ha accettato la lettera d'intenti per l'acquisizione del settimanale L'Espresso presentata da Blue Financial Communication (Bfc), quotata a Euronext Growth, e dalla Idi srl dell'imprenditore Danilo Iervolino, da poco più di due mesi patron della Salernitana Calcio. Immediata la proclamazione dello sciopero alla Repubblica (che oggi non è in edicola) con maggioranza bulgara (223 sì, 9 contrari e 6 astenuti con il vicedirettore Bonini che ha votato a favore), mentre La Stampa è in agitazione. Il quotidiano romano è nato nel 1976 da una costola del settimanale fondato nel 1955 da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari e «salvato» dal principe Carlo Caracciolo (cognato dell'avvocato Agnelli) dopo il disimpegno di Adriano Olivetti nel 1957.

«Abbiamo un'esclusiva per negoziare il closing entro 60-90 giorni» spiega al Giornale Iervolino che, come la controparte, non intende fornire la disclosure sul prezzo della transazione. «Sarà un progetto focalizzato sulla media tech - aggiunge - e almeno per i primi 12 mesi proseguirà l'abbinamento obbligatorio con la Repubblica». Iervolino sarà l'editore dell'Espresso: la società veicolo per l'acquisizione, L'Espresso Media srl, è partecipata al 49% da Idi e al 51% da Bfc di cui Iervolino ha annunciato l'acquisizione del 51% dalla lussemburghese Jd Farrods del fondatore Denis Masetti al prezzo unitario di 3,75 euro per una spesa di 6 milioni. L'imprenditore campano, dunque, avrà direttamente e indirettamente il 75% circa dell'Espresso (o anche di più in caso di massicce adesioni all'Opa obbligatoria su Bfc).

«L'Espresso continuerà a essere una voce critica, aperta e a dedicarsi alle grandi inchieste rappresentando la society 5.0, quella del metaverso, dell'inclusività e della tolleranza», rimarca Iervolino che, pur non avendo individuato ancora il nuovo direttore, assicura che intende mantenere i circa 20 giornalisti impiegati. E proprio per quei redattori che intendono battersi a Repubblica (votato anche un pacchetto di altri 3 giorni di sciopero) chiedendo un «salvagente» per i colleghi che volessero restare nel gruppo Gedi mantenendo anche la retribuzione. A Largo Fochetti si lamenta la perdita di «un patrimonio del giornalismo italiano», ma si teme che la riorganizzazione di Gedi, centrata su informazione real time e contenuti digitali, possa portare in futuro il ridimensionamento dei quotidiani. D'altronde, Gedi ha chiuso il primo semestre 2021 con una perdita di 11 milioni dopo i -166 milioni del 2020. La perdita, però, è soprattutto «affettiva» perché Repubblica e l'Espresso erano le leve con cui il precedente editore, Carlo De Benedetti, condizionava politicamente e culturalmente l'élite radical chic della sinistra italiana. Una filosofia che il presidente di Gedi, John Elkann, non ha mai abbracciato. Ieri in Borsa Bfc ha guadagnato l'1,14% a 3,54 euro, giù Exor (-3,35%).

Comunicato del cdr dell’Espresso il 7 marzo 2022.

Dopo mesi di smentite e astratte rassicurazioni, il gruppo GEDI annuncia infine la vendita dell’Espresso. L’offerta che appena tre giorni fa “non era ancora stata formalizzata” e doveva per questo essere prima valutata, è invece stata formalizzata e accettata in tempi record. 

Si demolisce il castello eretto nei mesi scorsi dai vertici del gruppo GEDI, che così confermano la propria serietà e affidabilità. La stessa che ha portato nell’ultima settimana alle dimissioni del precedente direttore, arrecando un ulteriore pesantissimo danno d’immagine alla testata. 

La redazione dell’Espresso esprime grande preoccupazione per il futuro di un giornale che ha fatto delle inchieste e delle battaglie politiche, civili e culturali la propria ragion d’essere ed entra in un gruppo editoriale che finora si è concentrato su altri settori dell’informazione. 

La redazione esprime la propria ferma protesta per i modi in cui la trattativa sulla cessione della testata è stata condotta, e per il risultato finale di un negoziato che per mesi metterà l’Espresso in una situazione che non ha precedenti nella storia dell’editoria italiana, di fatto una co-gestione sospesa tra due proprietà. Una vecchia proprietà che ha affermato la “non strategicità” della testata e un’altra società promessa acquirente di cui al momento non è dato sapere che tipo di obiettivi si pone per il giornale. Una situazione che rende impossibile il sereno lavoro dell’intero corpo redazionale.

Per questo l’assemblea dell’Espresso proclama lo sciopero a oltranza delle firme, sia sul settimanale cartaceo che online, e conferma l’astensione dal lavoro per impedire l’uscita del prossimo numero. Chiediamo inoltre un incontro urgente con i rappresentanti dei due soggetti giuridici che da oggi avranno competenza sulla pubblicazione della testata.

Dagospia. Dal profilo Facebook di Alessandro Gilioli il 9 marzo 2022.

Nell'apocalisse delle immagini di guerra, nell'uragano di dolori e torti che ci massacrano l'anima già devastata da due anni di epidemia, questa di cui parlo qui è cosa talmente piccola che quasi mi vergogno a scriverne. 

Lo faccio quindi con gli occhi del miope, dell'autocentrato: insomma, perché è stato un pezzo importante della mia vita. E, professionalmente parlando, il più importante, fino a meno di due anni fa.

Nel cortile di via Colombo, sede della Repubblica e dell'Espresso, ci sono delle macchinette del caffè. È lì che ci si incontrava tra colleghi e si chiacchierava delle cose ufficiose, quelle che poi - quasi sempre - diventavano vere.  Ed è lì che un giorno ho saputo che la Fiat ci voleva comprare. 

È un esperienza strana, «essere comprati», chi l'ha provata lo sa. Ti senti un po' una pecora in un gregge che viene pesata e poi passa da un padrone all'altro. Capisci che succedono cose molto più in alto di te, tra miliardari felpati, che impatteranno sulla tua vita senza che tu possa fare assolutamente niente.

In un giornale però c'è qualcosa di più, visto che produce informazione, inchieste, opinioni. Non ti chiedi solo quale sarà il tuo destino personale. Ti chiedi anche quanto sarà più larga o più stretta la mordacchia. Perché, come ovvio, nessun giornale che abbia un padrone è privo di mordacchia; la questione è solo quanto è stretta o larga, insomma qual è il margine di indipendenza e di libertà.

Diciamo la verità: era  assai lasca e di fatto impercettibile quella mordacchia quando a capo della baracca c'era il Principe, come veniva chiamato Carlo Caracciolo. Insomma, si era sostanzialmente liberi. 

Uomo di mondo, gran viveur, sempre divertente e divertito dalla vita. Il giorno in cui fui assunto all'Espresso – era la fine del 2002 – passai per il vaglio di prammatica del colloquio nel suo ufficio, anche se ormai era cosa fatta, grazie a Daniela Hamaui. C'erano dei quadri alle pareti con cui avrei sistemato un paio di generazioni di Gilioli e questa fu la prima, stolta, cosa che pensai.

Lui guardò distrattamente il mio curriculum e fu incuriosito dai quattro anni alla direzione di un mensile: «Ah lei ha fatto Gulliver. E cosa ne pensa del nostro Viaggi, l'allegato a Repubblica?», mi chiese. Ora, l'allegato in questione era abbastanza pessimo. Con le foto degli uffici stampa, nessun inviato, pezzi scopiazzati dalle guide turistiche, per non dire delle marchette. Ero imbarazzatissimo. Me la cavai con un codardo «Beh, secondo me ci sono margini di miglioramento». E lui: «Ma no! Dica pure che l'abbiamo fatto alla cazzo di cane!». E giù a sghignazzare.

Insomma, decisamente non era il tipo che intimidiva. Il resto del colloquio fu un cazzeggio a ruota libera, con qualche bel ricordo suo di quando era stato partigiano. O di quando un'estate su un taxi accaldato passò per caso da Melito, e lui mezzo addormentato vide il cartello e sobbalzò, «ma io sono il principe di Melito!», e il taxista preoccupato: «Dottò, le accendo l'aria condizionata eh?». Comunque, mi sono sentito accolto. E in una bella squadra.

E sempre più in una bella squadra mi sono sentito pochi giorni dopo, alla festa di Natale in via Po. Che lo stesso Caracciolo faceva ogni anno, ma per me era la prima volta. Nel conoscere i colleghi, avevo la percezione di essere a bordo di quella che Scalfari chiamava “vascello pirata”. Dove noi marinai di vario grado venivamo da tutte le sinistre possibili - liberali o comuniste, moderate o extraparlamentari, laiche o cattoliche e così via - ma eravamo tutti parte di uno stesso progetto, libero e non impaurito da nessun potere politico o economico. 

Non voglio raccontare un quadro idilliaco. I cazzi amari poi c'erano, come dappertutto. Così come i brutti ceffi, le guerre di scrivania, le ambizioni personali, le vanità (quelle non mancano mai, nel nostro mestiere di narcisi frustrati, almeno fino a una certa età). Eppure idilliaco sembra, al confronto con quello che è successo poi, senza che questo sia uno scherzo della memoria.

La deriva non è avvenuta in un giorno. Come tutte le derive, in effetti.  Il Principe morì nel 2008.  L'Ingegnere - cioè Carlo De Benedetti - divenne direttamente presidente, da cauto azionista che era. Le feste di Natale finirono subito e come amministratore delegato arrivò una signora gentile che però sedeva già in tre o quattro importanti consigli di amministrazione. Iniziò insomma l'aziendalizzazione, l'intreccio con i poteri di fuori.

Nel quotidiano, il pass magnetico per entrare e uscire, la polizia privata che in via Po non si era mai vista e che nel palazzo di via Colombo invece è la prima cosa che vedi.

Attorno a noi, intanto, si cominciava a vedere anche un'altra cosa, assai peggiore, cioè il piano inclinato della carta stampata, che iniziava a essere divorata dalla crisi strutturale che ben conoscete - allora non era così chiara a tutti, in verità, specie nella sua velocità. Comunque, servivano nuove strategie - questo era evidente - ma nessuno sapeva dove andarle a pescare. 

Non so se è anche per questo che nel 2012 l'Ingegnere regalò il gruppo ai tre figli, tutto passava sempre sulle nostre teste. Ad ogni modo rimase alla presidenza, per un po', anche se noi non se ne aveva più notizia. Poi a un certo punto tutto andò in modo abbastanza rapido, tra ondate di prepensionamenti, voci di cassintegrazione, tagli di borderò ai collaboratori, insomma il senso di paura.

Uscito dal Corriere, il gruppo Fiat entrò con una quota di minoranza, portando in dote La Stampa. Era il 2016. L'anno dopo uno dei figli dell'Ingegnere, Marco, divenne  presidente al posto del padre. Un giorno venne a trovarci in redazione, fu cortese nell'ascoltare il lavoro che facevamo, ma era palesemente disinteressato. Alle redazioni, ai giornali, all'editoria. 

Nessuno conosceva le sue opinioni politiche, anche se tra noi si scherzava su quelle della moglie, del giro Santanché. Comunque, mai più visto né sentito.  Si era in un limbo. Ma la direzione era abbastanza chiara e portava dritti a Torino, al gruppo privato più grosso d'Italia, insomma al cuore dell'establishment economico italiano, all'azienda che da sempre privatizzava i profitti e statalizzava le perdite, che quindi ci avrebbe comprato come merce di scambio con la politica e con il capitalismo di relazione italiano. 

E così nel 2019 il “vascello pirata” era già diventato il tender di casa Agnelli.

Torino ho scritto, ma il nostro nuovo padrone tecnicamente era una finanziaria olandese, insomma la cassaforte all'estero per non pagare le tasse. Mica male per noi dell'Espresso, quelli delle battaglie civili.

Scalfari scrisse un editoriale in cui disse che andava tutto bene. Il “Fundador” è sempre stato molto bravo nel convincersi che è giusto ciò che gli conviene - e non gli conveniva far casino,  a 95 anni poi. E comunque non poteva disconoscere il figlio anche se questo era diventato il contrario di quello che lui in età meno senile aveva voluto. Ma noi gli si voleva bene lo stesso, in fondo senza di lui non ci sarebbe stato niente di tutto quello di cui sto parlando.

I Fiat boys atterrarono da Torino alla Garbatella con le loro cravatte blu, il profumo di Penhalingon's e l'aria di quelli che “qui non capite un cazzo, ma adesso ci pensiamo noi”.

Come amministratore delegato Elkann mise uno dei suoi yesman, un Carneade dell'editoria ma fedelissimo al sistema di potere Exor. 

Poco dopo la nomina, questo tizio convocò le direzioni dei giornali del gruppo nella sala riunioni all'ultimo piano, Elkann non c'era ma intervenne in audio. Non ricordo nemmeno che cazzate disse, ma era il solito aziendalese di maniera, le sfide del futuro, lo sbarco nel digitale e bla bla bla. Ricordo solo tutti questi direttori e vicedirettori - quorum ego, sì - in piedi ad ascoltare il padrone in religioso silenzio. Fantozzi non è stata un'invenzione, diciamolo.

Ah, a quell'imbarazzante cerimonia, a quel bacio della pantofola, non era presente Carlo Verdelli, il direttore di Repubblica, che pure era il più importante tra noi, per ruolo.

Eccellente giornalista e uomo di sinistra, Verdelli era stato chiamato un anno prima dai De Benedetti che sulla direzione di Repubblica avevano già fatto un bel po' di pasticci. Esonerato Ezio Mauro poco prima che superasse Scalfari per anni di direzione - cosa che gli diede un bel po' di fastidio - gli azionisti avevano chiamato in via Colombo Mario Calabresi, proprio dalla Stampa.

Pieno di idee innovative e digitali sul futuro ma assai poco presente in redazione e sull'oggi, Calabresi aveva quindi peggiorato l'emorragia di copie già rotolante per conto proprio. Sicché i De Benedetti  a un certo punto pensarono di affiancargli un pazzo creativo che poi era il mio direttore all'Espresso, Tommaso Cerno, a cui non difettavano né le ambizioni né l'intelligenza.

Ma Cerno era convinto di andare lì a comandare, insomma a fare le scarpe a Calabresi, il quale evidentemente non era d'accordo, quindi venne fuori un casino al termine del quale, tre mesi dopo, un bel mattino Cerno lasciò il suo cappotto firmato sulla poltrona di condirettore per scappare in garage da un ascensore laterale e diventare senatore renziano. Oh: non è un'iperbole, il dettaglio sul cappotto abbandonato dalla fretta di andarsene, qualche collega lo fotografò e fece girare l'immagine, tra le nostre risate alla solita macchinetta del caffè.

Comunque, dicevo, fatto il pasticcio Calabresi e poi quello Cerno, a un certo punto i De Benedetti decisero di tagliare la testa al toro chiamando Carlo Verdelli, curriculum straordinario e grande artigiano dei giornali. Però, appunto, era anche uomo di sinistra, e quindi la prima cosa che fecero gli Agnelli appena arrivati fu cacciarlo. Lo fecero nel giorno in cui doveva morire, secondo le minacce che aveva ricevuto dall'estrema destra. Con l'eleganza del padrone senza peli sullo stomaco, lo stile Fiat. 

A Repubblica arrivò Maurizio Molinari. Non devo dirlo io, chi sia: lo vedete da soli, se ancora comprate Repubblica. Non mi va nemmeno di raccontare troppo nel dettaglio l'imbarazzo - la vergogna - che provavo nel vedere come stava trasformando un giornale che un tempo era stato aperto a una sinistra plurale e libertina: ogni giorno di più ridotto a megafono del potere  economico, con sbandate continue verso le peggiori destre americane e israeliane. E poi: le censure a Bernardo Valli (a Bernardo Valli!), le firme dei neocon e degli ex ministri di Berlusconi, il misto continuo tra cialtroneria e fake news, giù giù fino alle liste di proscrizione di Riotta.

Il tutto nel perdonabile silenzio della redazione, perché quando uno tsunami devasta il tuo settore di mercato i rapporti di forza sono tutti sbilanciati dalla parte del padrone, ognuno è terrorizzato dai suoi destini personali, non è il momento delle battaglie collettive, se siamo in troppi per favore licenziate il mio vicino di scrivania e non me.

Ma a quel punto, per fortuna, me ne stavo già andando. Solo fortuna, nessuno è eroe e abbiamo tutti bisogno di uno stipendio per i figli. 

Ogni tanto l'ho sentito, il mio ex direttore all'Espresso, Marco Damilano, in questi mesi. Poche cose e nulla che meriti di essere reso pubblico. È un uomo con la schiena diritta, il suo editoriale di saluto - straordinario - è sul sito dell'Espresso. Cita Aldo Moro, a un certo punto: «Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie».

Questo è il motivo per cui me ne sono andato, in effetti. Lui invece, quando ero ancora lì, mi diceva che dovevamo provarci: «Perfino Berlusconi, nel mangiarsi la Rai, lasciò il Tg3 alla sinistra», mi diceva. E voleva spiegare ai nuovi padroni che anche a loro conveniva avere una voce dissenziente, anche a loro conveniva coprire un'area di mercato diversa da quella dell'ammiraglia. 

“Resistiamo”, mi rispondeva su WhatsApp quando, ormai lontano da Roma, gli chiedevo come andassero le cose. E finché ha potuto lo ha fatto. Ma gli Agnelli si sono dimostrati meno tolleranti o meno furbi di Berlusconi.  Oggi anche lui ha smesso di resistere.

Dell'Espresso ora vorrei che restasse almeno il ricordo di un giornale che ha aiutato a emancipare l'Italia. Di un giornale che ha combattuto grandi battaglie civili e sociali per spingere il Paese un po' più in là - e che lo ha fatto finché gli hanno permesso di farlo.

Mauro Della Corte per stylo24.it il 9 marzo 2022.

Sembra non aver più limiti la carriera di Danilo Iervolino da Palma Campania. Il 44enne imprenditore napoletano, dopo l’università telematica Pegaso, venduta a un fondo americano per circa 1 miliardo di euro, sembra aver spiegato le vele e acquisita la squadra di calcio della Salernitana, che si è rivelata un’abile operazione di marketing (almeno per il momento), sembra aver ormai in tasca la proprietà dello storico settimanale «L’Espresso» fondato negli anni ‘50 da Arrigo Benedetti.

Non un giornale qualsiasi ma una testata con un suo peso specifico nel panorama giornalistico e politico italiano, punto di riferimento culturale e anche ideologico della sinistra cara ad Eugenio Scalfari. 

In realtà, anche se lui continua a smentire, già in passato ha provato a entrare nel mondo dell’informazione testando se ci fossero le condizioni per compare «il Mattino», il più importante quotidiano del Sud Italia, come riportato proprio da Stylo24. 

I rapporti con i partiti politici

In un’intervista concessa al Fatto Quotidiano non ha nascosto la sua volontà di vedersi protagonista pure nell’agone politico. «La misura della mia passione civica è integra e andrà messa alla prova. Politico ma non partitico» ha affermato al giornale diretto da Marco Travaglio.

Tra le righe si può intuire anche lo schieramento che l’imprenditore palmese vorrà occupare. Iervolino ha chiarito di aver intrattenuto rapporti con Forza Italia ma anche con il Partito Democratico. Rapporti che non significano avere una tessera di partito tant’è che l’imprenditore subito corre a specificare di voler volgere «lo sguardo ovunque».

Chi lo conosce assicura che il vulcanico presidente della Pegaso è intenzionato a fondare un suo partito, che si rivolga al centro senza legami con alcuno degli attuali schieramenti.

«D’altronde», spiega una fonte romana vicina al neo editore dell’Espresso, «non ha mai nascosto la sua simpatia verso Renzi, ad oggi il candidato più autorevole per la creazione di una area moderata». 

Consigliere regionale o deputato? Troppo poco

Come prototipo – spiega sempre il nostro interlocutore – «ha sempre avuto Silvio Berlusconi e forse, in qualche modo, anche se in piccolo, mira a seguirne le orme ma senza schierarsi a destra o a sinistra».

«È sicuramente una persona molto ambiziosa e ha sempre detto di non volersi candidare come consigliere regionale o deputato ma che puntava più in alto», confida invece un amico napoletano, sentito – dietro promessa di anonimato – dal nostro giornale.

Mire ambiziose che potrebbero concretizzarsi nel momento storico in cui si trova, con ingenti fondi derivati dalla vendita della Pegaso al fondo americano (circa 300 milioni di euro, si vocifera), con la notorietà scaturita dall’acquisto della Salernitana e dell’Espresso. 

Ma dove può arrivare un partito centrista a guida Iervolino? «Non si può dire ancora», conclude la nostra fonte romana. «Al momento sembra non avere un grosso appeal sull’elettorato ma tra gli “ambienti che contano” è molto conosciuto». Basterà questo? 

Dagonews il 7 marzo 2022.

Danilo Iervolino ha comprato a Capri una delle ville più belle denominata Villa Bismarck che apparteneva a Tonino Perna ex titolare della Ittierre, società che produceva marchi come D&G, Malo, etc. Valore dell’operazione 18 milioni di euro. 

La storica dimora di oltre 1600 metri quadri, a pochi metri dal famoso ristorante Paolino detto anche la Limonaia, gode di una magnifica veduta sul golfo di Napoli, conta nove camere, dieci bagni, un giardino di 10mila metri quadri, con discesa a mare privata

Da napolitoday.it il 7 marzo 2022.

Italy Sotheby’s International Realty, tra le più importanti società di intermediazione immobiliare di lusso, propone in vendita la celebre Villa Bismarck a Capri, in via Palazzo a Mare. Costruita durante la seconda metà del 18° secolo, sulle rovine di un imponente palazzo Romano, abitata da artisti di diversa forgia, pittori, musicisti, compositori, la sontuosa Villa Bismarck, prende il nome dalla sua più celebre proprietaria, la Contessa Mona Strader Bismarck. 

 La villa, tra le più belle al mondo, gode di una posizione privilegiata sull'isola di Capri. Sin dall'ingresso nel curatissimo giardino la vista si appaga grazie ad un susseguirsi incalzante di coste e panorami mozzafiato che partono dal vicino porto di Marina Grande fino a raggiungere il Vesuvio, la baia di Napoli e la straordinaria penisola Sorrentina. Alle spalle il Monte Solaro ed Anacapri rendono ulteriore suggestione alla straordinaria dimora.

La villa conta 9 camere e 10 bagni, lo spazio esterno è di 10mila metri quadri. Il lussureggiante giardino ricco di una grande varietà di piante mediterranee si estende fino al mare su vari terrazzamenti, il primo molto ampio, panoramicissimo circonda la villa, il secondo contiene una comoda piscina con area solarium e attraverso 150 gradini si arriva al mare. L'accesso privato al mare, dotato di ogni comfort dispone anche di un attracco privato e di una piscina idromassaggio incastonata tra le rocce ed adagiata sullo straordinario mare caprese.

La villa domina imponente l'area circostante, un ampio e maestoso salone, ed una panoramicissima sala da pranzo con soffitto a cupola di oltre sei metri, conferiscono importanza alla sontuosa zona di alta rappresentanza. L'incantevole biblioteca circolare ed il salotto adiacente sembrano rievocare la storicità della villa. La zona notte, è divisa su più livelli, al primo sussistono cinque camere matrimoniali con bagni en-suite. 

Al secondo piano con accessi indipendenti vi sono altre tre camere con bagno tra cui l'ampia suite principale con due grandi vetrate panoramiche sul porto e sul mare e con bagno en-suite interamente realizzato in marmo prezioso. Al terzo piano un ulteriore suite con salottino gode dell'incredibile vista del Monte Solaro. Un corpo esterno contiene tutta la zona di servizio. La villa in vendita per 24 milioni di euro.

Iervolino ha preso l’Espresso dopo la Salernitana. Chi è il mister miliardo. Fabrizio Massaro su Il Corriere della Sera il 7Marzo 2022.

A quasi 44 anni, Danilo Iervolino ha già fatto l’affare della vita: la vendita dell’università telematica Unipegaso al fondo d’investimento Cvc. Un’operazione stimata un miliardo di euro, anche se non ci sono conferme ufficiali: insomma, una valorizzazione da «unicorno» — così si chiamano le startup che in Borsa arrivano a valere quella cifra — anche se a Piazza Affari il suo ateneo (e l’altro gemello, Mercatorum), non ci è mai entrato. Adesso Iervolino punta una parte della sua ricchezza sui media, dopo essere sbarcato nel calcio rilevando la Salernitana. Da poco ha rilevato la maggioranza del gruppo quotato Bfc Media, società che edita riviste finanziarie e specializzate come Forbes Italia, Bluerating, Private, Forbes Italia, Asset Class e Cosmo, per 6 milioni di euro. Presto lancerà l’opa obbligatoria. Ora ha puntato al bersaglio grosso: L’Espresso, lo storico settimanale fondato da Arrigo Benedetti ed Eugenio Scalfari nel 1955.

L’acquisto de L’Espresso dagli Agnelli

A vendere il settimanale è il gruppo Gedi controllato dalla Exor della famiglia Agneli-Elkann (che una volta era il Gruppo editoriale L’Espresso, venduto a Elkann dai figli di Carlo De Benedetti). L’operazione, si legge in una nota, verrà condotta dalla neocostituita società L’Espresso Media, partecipata al 51% da BFC Media Spa, ed al 49% da Idi srl a socio unico, ovvero il veicolo di Danilo Iervolino. «L’accordo prevede varie forme di collaborazione — spiega la nota sull’operazione — tra cui la prosecuzione dell’abbinamento del settimanale L’Espresso all’edizione domenicale del quotidiano La Repubblica, la promozione congiunta delle iniziative editoriali, dei servizi di distribuzione nelle edicole e di gestione degli abbonamenti». La decisione del gruppo presieduto da John Elkann e guidato da Maurizio Scanavino di vendere ha portato alle dimissioni del direttore del settimanale, Marco Damilano (sostituito da Lirio Abbate) e allo sciopero dei giornalisti, fra l’altro perché — scrive il comitato di redazione del settimanale — passa a un gruppo editoriale «che finora si è concentrato su altri settori dell’informazione» e «di cui al momento non è dato sapere che tipo di obiettivi si pone per il giornale». Anche i giornalisti di Repubblica hanno proclamato lo sciopero per martedì 8 marzo.

Ma chi è Danilo Iervolino?

Il ritratto di Iervolino

La storia di Iervolino parte da Palma Campania (Napoli), paese di origine dei genitori. Il padre è il fondatore delle scuole paritarie «Iervolino», diffusissime a Napoli e in Campania. Nato il 2 aprile 1978, laureato in Economia e Commercio all’università Parthenope di Napoli con una tesi sul franchising, Danilo Iervolino racconta nel suo libro «Now» di come la tesi sia stata un momento di svolta nel suo percorso: «Un docente dell’università di Salerno, che collaborava con mio padre, la lesse e ne rimase colpito. Mi presentò ai responsabili del corso di laurea in Scienze della Formazione del suo ateneo e così cominciai ad approfondire il tema della formazione a distanza nei suoi corsi». Da lì inizia a ragionare sulle università telematiche e su come aprirle in Italia. In un’intervista a Panorama ha raccontato che l’ha maturata a 28 anni, durante un viaggio negli Stati Uniti: «Osservavo realtà come la Columbia, la Fordham University, l’Ucla e altre ancora. Atenei capaci di diventare veri e propri brand del sapere perché, invece di sedersi sulla loro fama e sui loro fatturati, iniziavano a investire sul web come leva per moltiplicare iscritti, competenze e opportunità».

La fortuna con le università telematiche

Nel 2003 il decreto «Moratti-Stanca» aveva istituito le università telematiche. L’Università telematica Pegaso, con sede legale a Napoli, nasce nel 2006. L’inizio è difficile, «avevo sottovalutato il fatto che l’Italia non era pronta», racconterà in seguito Iervolino. Ma a poco a poco il settore prende piede: oggi ha oltre 100mila studenti, che tengono gli esami online, e 92 sedi in Italia per le sedute di laurea. Quindici anni dopo, la cessione. A settembre vende al fondo Cvc metà delle azioni della holding Multiversity, a cui fanno capo le università telematiche Pegaso e Mercatorum (della quale resta presidente) affidate ora a Fabio Vaccarono, ex numero uno in Italia di Google. Due anni prima, Iervolino aveva ceduto il primo 50%, sempre a Cvc.

Lo sbarco nel calcio e l’acquisto della Salernitana

A fine 2021 anche entra nel mondo del calcio rilevando la Salernitana, per la prima volta in Serie A, il 31 dicembre scorso, per 10 milioni di euro. Appena in tempo per evitare l’esclusione dal massimo campionato. Ma non sono finite le mire di Iervolino: guarderebbe anche ad altri settori di espansione, come la sanità — ha provato a rilevare il Policlinico Gemelli di Campobasso — e la cybersecurity.

Stefano Marrone per true-news.it il 10 marzo 2022.

“Mi sono battuto in ogni modo, fino all’ultimo giorno, all’ultima ora”. Con queste parole, “dopo mesi di stillicidio sulla vendita” e in aperta polemica con la decisone dell’editore – il gruppo GEDI, della famiglia Agnelli – Marco Damilano ha deciso di dimettersi da direttore de L’Espresso.

Sul “mestiere” e sulla “coscienza” da lui citati nella lettera di congedo ai lettori c’è poco da discutere. Qualcosina invece sulla strategia adottata nel dirigere la rivista, forse si può eccepire. 

Anche Propaganda Live, la trasmissione di La7 di cui è ideatore e ospite fisso ogni venerdì aveva iniziato a fare ironia sull’esorbitante numero di ospitate televisive del direttore.

Il video è scherzoso, ma tocca una questione che potrebbe avere pesato sulle recenti vicende de L’Espresso: quando il direttore va perennemente in tv, il giornale ne risente. In questi mesi di palinsesti da riempire causa pandemia, Quirinale – sul tema Damilano ha fatto un libro e un podcast – e infine guerra in Ucraina, il direttore si è prodigato. Forse a spese della rivista che dirige dal 2017.

Nel mandato quinquennale di Damilano i dati di vendita de L’Espresso sono impietosi: al suo arrivo, dopo un biennio di crescita (203mila copie vendute nel 2016 e 269mila nel 2017), la rivista ha iniziato a ridurre le copie vendute, fino a scendere sotto le 175mila copie vendute – con crollo ulteriormente aggravato negli ultimi mesi del 2021, secondo Informa.

Il nesso causa effetto è da dimostrare, ma l’importanza del “fattore opinionista” sull’efficacia di una direzione per una rivista o un giornale, può essere corroborata dal dato che L’Espresso ha raggiunto l’apice delle vendite nel 2007, sotto la direzione di Daniela Hamaui, un’autentica Carneade delle ospitate tv.

Compagni di sventura

La deriva “opinionistica” della direzione di una testata ha sconvolto il percorso di due ex compagni di redazione di Damilano: Concita De Gregorio e Piero Sansonetti, anche loro provenienti da L’Unità. 

Sansonetti è poi approdato a Liberazione, di cui è stato direttore per cinque anni fino all’allontanamento nel 2009. Incurante dei un deficit di oltre tre milioni e mezzo di euro accumulato dal giornale, Sansonetti è stato a più riprese ospite di varie trasmissioni televisive: Porta a Porta e soprattutto i vari programmi Mediaset di Giordano e Del Debbio, dove continua ad apparire, in qualità di direttore de Il riformista.

Delle ultime turbolente vicende del giornale fondato da Gramsci è stata protagonista Concita De Gregorio, direttrice dal 2008 al 2011. 

La sua direzione a L’Unità si conclude tra le polemiche sui dati di vendita del giornale: calato da 60mila a 35mila copie vendute. Per l’ex direttrice inizia un difficile periodo di controversie legali, dovute al fallimento della società editrice, che non ha però inficiato – anzi – sulle sue comparse televisive: da Ballarò a Rai3. 

Anche i grandi piangono

Il sito di Palazzo Chigi ha calcolato un finanziamento pubblico dal 2013 superiore ai 60 milioni di euro per Unità, con un ammontare annuo superiore ai 5 milioni. 

Al posto della morente Unità, il partito democratico ha dato vita alla rivista Democratica, sotto la direzione del deputato dem Andrea Romano. L’avventura editoriale non ha certo contribuito a ridurre il dissesto economico ed è durata poco più di un anno – fino al 2020. Nonostante ciò, Romano si è speso in partecipazioni televisive a reti diversificate. Una situazione rivista in piccolo – per tiratura del giornale e per numero di apparizioni – con il Manifesto. 

Lo storico giornale comunista, fondato nel 1969 come rivista e due anni dopo come quotidiano, ha conosciuto una profonda crisi, culminata con la liquidazione coatta del 2012. Direttrice a quei tempi era già Norma Rangeri, la più televisiva delle direttrici del quotidiano, anche grazie alla sua formazione da critica – è autrice di Chi l’ha vista? Tutto il peggio della tv da Berlusconi a Prodi, uscito nel 2007; opera di notevole spessore bibliografico, ma che ben poco ha avvantaggiato il giornale diretto da Rangeri.

“Sono ancora sotto choc, è un pugno nello stomaco – ha detto -. Mi mandano via, senza un perché…” così Mario Calabresi commentava il suo allontanamento da Repubblica nel 2019, dopo tre anni di direzione. Di perché, in realtà, se ne potrebbero trovare: su tutti la costante emorragia nelle vendite del quotidiano che negli anni ha perduto il primato – in realtà sempre contestato – di più venduto e più autorevole. All’inarrestabile crollo di Repubblica potrebbe aver contribuito il “presenzialismo” – non redazionale – di Calabresi: convegni, eventi, presentazioni e festival. Oltre, ovviamente, all’immancabile televisione: Formigli, Mentana, Porro, Giordano, Gruber e Vespa hanno sempre potuto contare sul direttore, ospite fisso. 

Se la sinistra piange, la destra non ride

L’effetto opinionista ha colpito anche quotidiani e riviste di destra e centrodestra. Non sembra essere un caso che la crisi del Secolo d’Italia, culminata con il passaggio dal cartaceo all’online nel 2012, sia coincisa con la direzione di Flavia Perina: la più multitasking dei direttori del quotidiano organo prima del Msi e poi di An. Politica (per due legislature), scrittrice (anche di romanzi) e ovviamente opinionista televisiva. Perina è stata una presenza costante negli studi Rai e di La7 negli anni del suo mandato, conclusosi a fine 2011. 

Lodo Mondadori, riassetto di Mediaset e declino del Cavaliere, ma dietro la clamorosa cessione di Panorama nel 2018 ha inciso anche la picchiata delle vendite della rivista fondata nel 1962, e dal 2009 diretta per quasi un decennio dall’attuale sottosegretario alla Difesa del governo Draghi, Giorgio Mulé: un habitué dei salotti televisivi, su tutti quello di Bruno Vespa.

Il nuovo proprietario e direttore di Panorama, Maurizio Belpietro, potrebbe rappresentare la prova del nove dell’effetto opinionista. Potrebbe non essere un caso che la drastica riduzione delle sue comparsate televisive – complice anche il recente ostracismo delle reti Mediaset, di cui è stato conduttore oltre che opinionista – sia coinciso con il momento positivo delle testate del gruppo che porta il suo nome. Su tutte La Verità, che ha da poco completato il sorpasso delle copie vendute sugli altri e più storici quotidiani dell’area del centrodestra: a dicembre 34mile copie, contro le 33mila de Il Giornale, diretto da Augusto Minzolini, e le 20mila di Libero di Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti – tre direttori che al contrario non si sono certo risparmiati quanto a presenze in tv.

Con l'indebolimento de L'Espresso in Italia democrazia più fragile: il veleno di Marco Damilano a Propaganda Live. Il Tempo il 04 marzo 2022.

“Da oggi non sono più il direttore de L’Espresso, mi sono dimesso” Così Marco Damilano, ospite della puntata di venerdì 4 marzo di Propaganda Live su La7. Dal salotto di Diego Bianchi, Damilano confida ai telespettatori le ragioni che l’hanno portato a dimettersi dal prestigioso incarico nel settimanale: “Mi sono dimesso per difendere il settimanale in cui ho lavorato per 21 anni, perché penso che L'Espresso non sia solo un pezzo di storia del giornalismo ma sia anche un pezzo di storia del nostro Paese. E se tu indebolisci un giornale, rendi più fragile la democrazia” spiega il giornalista. “Se per dirlo bisogna fare un gesto, io questo gesto l'ho fatto” conclude, a suon di applausi. 

Lirio Abbate sostituisce Marco Damilano alla direzione dell'Espresso. Il Tempo il 04 marzo 2022.

Sarà il giornalista Lirio Abbatte a prendere il posto di Marco Damilano alla direzione dell'Espresso. Damilano oggi stesso aveva annunciato le sue dimissioni in un lungo editoriale sull'edizione online del settimanale, motivando il gesto come atto di rottura nei confronti della proprietà che sarebbe ormai in procinto di vendere la storica testata al gruppo che fa capo all'imprenditore Danilo Iervolino, patron dell'università on line Pegaso e recentemente anche della Salernitana Calcio.

Lirio Abbate era già vicedirettore dell'Espresso e dovrebbe ricoprire la carica pro-tempore in attesa delle decisioni del nuovo editore. Nel frattempo la redazione ha annunciato uno stato d'agitazione e ha condiviso la posizione di Damilano.

Marco Giusti per Dagospia il 5 marzo 2022. 

Ieri, per disperazione, mi sono visto tre puntate di “Inventing Anna”, la serie del momento. Funziona solo quando entriamo più dentro alla storia e si configura il personaggio di Anna, misteriosa russa che si costruisce una personalità da socialite finto miliardaria psicopatica che sa riconoscere però un Cindy Sherman. Serie bizzarra e snob quanto basta (di questi tempi).

Ma la giornalista che deve fare lo scoop della sua vita insieme a tutti i suoi amici vecchi giornalisti che sembrano i fantasmi dell’Espresso che fu è quasi insopportabile. Certo quando un direttore ti dice: hai tre settimane per scrivere l’articolo, anche io mi ricordo che ci fu un tempo che gli articoli non si facevano come si fanno oggi, scritti-e-pisciati senza pensare, diciamo. In tutto questo Marco Damilano lascia un Espresso da anni abbandonato a se stesso e nessuno, ovviamente, che gli dica Torna a bordo, cazzo! Non tutti sono Zelensky, si sa.

E non tutti i direttori dell’Espresso sono stati all’altezza della situazione. Ma ricordo che scrivere sull’Espresso, negli anni ’80, era la massima aspirazione per un giornalista. “Sto come un topo nel formaggio” mi diceva Giovanni Buttafava quando venne assunto più di quarant’anni fa. Oggi il formaggio si è spostato tutto nei talk della 7 di Cairo, mi sa. Curiosamente, i ricchi di “Inventing Anna” leggono “Forbes”, la testata che si dovrebbe comprare L’espresso. Brutto segno. 

Abbate nuovo direttore de L’Espresso "Ho accettato per i lettori e i colleghi”. “Mai avrei pensato che tutto ciò accadesse in queste condizioni, ma occorreva dare continuità al lavoro svolto da Damilano”. Lirio Abbate su L'Espresso il 6 marzo 2022.

È per una scelta di responsabilità che ho accettato l’incarico di direttore de L’Espresso. Per senso del dovere e di rispetto nei confronti del gruppo di lavoro di cui mi onoro di fare parte da tredici anni.

Mai avrei pensato che tutto ciò avvenisse in queste condizioni, dopo le dimissioni del mio amico Marco Damilano che ringrazio per tutto quello che ha fatto in questi anni di direzione. Occorreva adesso dare seguito e continuità al lavoro svolto fino ad ora. Per rispetto alla redazione, ai poligrafici e ai collaboratori. Ma soprattutto ai lettori.

Prendo il timone di una nave che si muove in un mare in tempesta, ma non è nel mio dna sottrarmi davanti alle sfide e alle situazioni difficili e non lo farò nemmeno questa volta.

L’Espresso si è sempre caratterizzato per le inchieste, che lasciano il segno, disturbano i potenti, ledono interessi consolidati. È il connotato tipico di questo giornale con le sue rivelazioni taglienti, intese come assolvimento d’un compito civile. E questo voglio continuare a fare.

Puntando sulla difesa di chi è più debole, proseguendo la battaglia sui diritti, e contro la corruzione e il malaffare. Perché “la stampa serve chi è governato e non chi governa”. L’obiettivo è quindi di conservare e rafforzare la dignità originaria de L’Espresso.

Giampiero Mughini per Dagospia l'8 marzo 2022.

Caro Dago, beninteso dopo avere espresso la mia più fraterna solidarietà a Marco Damilano, l’ex direttore dell’ “Espresso” che si è dimesso perché contrario alla vendita del settimanale a un imprenditore privato (di cui non sappiamo che identità gli darà), vorrei dire due o tre cose sul come sono morti editorialmente i settimanali d’attualità che per lungo tempo erano stati centrali nel panorama dell’informazione italiana. 

Ne parlo con cognizione di causa, dato che ho lavorato poco meno di trent’anni in due di quei settimanali, “L’Europeo” e “Panorama”, e per giunta la buona parte del tempo sotto la direzione di Claudio Rinaldi, il più grande direttore della mia generazione, quello che di certo avrebbe sostituito Eugenio Scalfari alla guida della “Repubblica” non fosse quell’atroce malattia che lo stroncò quando era ancora nel pieno delle sue forze e del suo destino. 

Più ancora di questo, sono stato un italiano di quelli - sessant’anni fa - che era un giorno della settimana diverso da tutti gli altri quello in cui prendevamo in mano “L’Espresso” nel formato gigante. Ogni numero di quel giornale, e successivamente “L’Espresso” nel formato piccolo e il ”Panorama” diretto prima da Lamberto Sechi e poi da Rinaldi, facevano di noi lettori un essere diverso, uno che ne sapeva di più, uno che ne capiva di più, che connetteva meglio e più a fondo le cose della cronaca della politica della cultura che gli stavano tutt’attorno.

Fu una bella giornata della mia vita quella dell’autunno 1987 nella cui mattinata mi telefonò Rinaldi a dirmi che mi avrebbe assunto a “Panorama” che in quel momento vendeva 600mila copie contro le 420mila copie dell’ “Espresso”, cifre entrambe da urlo. Alla Mondadori ante-Berlusconi dicevano di “Panorama” che fosse “la gallina d’oro”, 600mila copie vendute ogni settimana al pubblico migliore che ci fosse in Italia, quello che ci teneva ad essere aggiornato sulle cose del mondo e che aveva dei bei soldoni da spendere nel comprare le merci offerte sulle pagine pubblicitarie del settimanale.

Copie vendute. Pagine pubblicitarie che erano meglio dell’oro. Influenza morale e culturale sul migliore comparto della società. Che ne è restato di tutto questo quaranta o cinquant’anni dopo? Niente di niente di niente. “Panorama” è stato regalato dalla Mondadori al bravissimo Maurizio Belpietro che mi pare riesca a venderne 20-25mila copie, “L’Espresso” è accluso la domenica al quotidiano “Repubblica” e io stesso confesso che ne leggevo un articolo al mese e non perché fossero dei cattivi articoli (non lo erano affatto) ma perché sono cambiati i tempi e i meccanismi dell’informazione. 

Beccheggiano i quotidiani, figuriamoci i settimanali. Quando ero a “Panorama”, facevamo la riunione di redazione al lunedì mattina, entro martedì venivano assegnati i pezzi per il numero successivo, al massimo li consegnavamo al giovedì pomeriggio, il sabato mattina il settimanale era in edicola. 

Adesso viviamo un tempo in cui le notizie/commenti che appaiono su Dagospia alle dieci del mattino sono invecchiati e fuori uso alle prime ore del pomeriggio, e laddove i quotidiani si sono “settimanalizzati” nel senso che fanno il lavoro che un tempo facevano i settimanali, e questo dopo le cure che avevano fatto ai quotidiani prima Eugenio Scalfari e poi Paolo Mieli, per dire di due figli della storia dell’ “Espresso”.  

Quanto a copie vendute non se ne parta nemmeno, striminzitissimo il mercato dei quotidiani di carta, nullo il mercato dei settimanali. Nullo. Nullo. E non c’è altro da aggiungere. Se non da augurare fraternamente ai colleghi che ci lavorano ancora di conservare il proprio stipendio. Altro da dire purtroppo non c’è.

L’Espresso, il direttore lascia. «Questione di dignità».  Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.

Addio di Damilano dopo le voci di vendita della testata da parte del gruppo Gedi a Bfc Media di Danilo Iervolino (fresco patron della Salernitana calcio). 

Marco Damilano, 53 anni, romano, ha lasciato ieri la guida dello storico settimanale L’Espresso (andò in edicola per la prima volta il 2 ottobre 1955) e la redazione, entrata in stato di agitazione, ha annunciato la proclamazione delle «giornate di sciopero necessarie per impedire l’uscita del numero in lavorazione». «Non è una buona notizia — twitta il ministro del Lavoro, Andrea Orlando —. Le ragioni di questa scelta devono far riflettere sull’assetto dell’editoria italiana e sul futuro dell’informazione. La democrazia si nutre anche di questo».

È stato lo stesso direttore, ieri, in un lungo editoriale pubblicato sul sito del settimanale fondato da Eugenio Scalfari e Arrigo Benedetti, a spiegare le ragioni delle dimissioni. Una decisione presa dopo le voci di vendita della testata da parte del gruppo Gedi a Bfc Media di Danilo Iervolino (fresco patron della Salernitana calcio). Un editoriale amaro, quello di Damilano: «Questa mattina ho scritto una mail all’ingegnere John Elkann, presidente del gruppo Gedi, per comunicare la mia decisione di lasciare la direzione dopo 4 anni e mezzo. Non è una questione privata. Ho cercato sempre di fermare una decisione che ritengo scellerata. Mi sono battuto in ogni modo, fino all’ultimo giorno, all’ultima ora. Ma quando il tempo è scaduto e lo spettacolo si è fatto insostenibile, c’è bisogno che qualcuno faccia un gesto, pagando anche in prima persona. Lo faccio io».

Gli era sta offerta la possibilità di restare, ma Damilano pur ringraziando ha tirato dritto: «L’Espresso è sempre stato la mia casa. Ma se la casa viene cambiata, dall’arredamento alle suppellettili, fino a venderla, non resta altro da fare che prenderne atto. É una questione di dignità». Al suo posto ieri Gedi ha nominato direttore Lirio Abbate, 51 anni, siciliano di Castelbuono, già vice di Damilano. E di fronte alle richieste del Comitato di redazione, l’ad Maurizio Scanavino ha risposto che l’azienda non ha ricevuto «alcuna proposta formalizzata» di acquisto.

Nel suo duro pezzo di commiato, Damilano racconta però di aver appreso della decisione della Gedi di vendere «da un tweet di un giornalista, mercoledì pomeriggio» e di aver «chiesto immediati chiarimenti all’ad come ho sempre fatto in questi mesi. Mesi di stillicidio continuo». Il Cdr ieri ha espresso «solidarietà» al direttore: «Recidere L’Espresso, la radice da cui è nato il gruppo, mette a rischio la tenuta di tutta l’azienda — avverte il sindacato interno dei giornalisti —. Siamo consapevoli dello stato di difficoltà in cui versa il giornalismo, ma Gedi è nel cuore di questa crisi, come dimostrano i numerosi avvicendamenti al suo vertice e alla guida delle sue principali testate. Un’assenza di strategia che ora si vuole far pagare all’Espresso».

«Giù il cappello e buon vento per il futuro», il tweet affettuoso rivolto a Damilano dal segretario del Pd, Enrico Letta. «Non possiamo vedere il giornalismo spegnersi», avverte Carlo Calenda di Azione. «Siamo preoccupati per le sorti de L’Espresso», afferma Marco Di Maio, vicepresidente di Italia viva alla Camera. E preoccupato si dice pure il leader di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni: «Continua l’opera di dissoluzione del gruppo Repubblica/L’Espresso che ha segnato decenni di battaglie civili e politiche del nostro Paese. Una nuova brutta pagina per il pluralismo e la qualità dell’informazione».

Marco Damilano per espresso.repubblica.it il 4 marzo 2022.  

Questa mattina ho scritto una mail all’ingegnere John Elkann, presidente del gruppo Gedi, per comunicare la mia decisione di lasciare la direzione dell’Espresso, dopo quattro anni e mezzo. Sento in questo momento di dover dare qualche spiegazione ai lettori, che per un giornalista sono i veri padroni. Per un debito di gratitudine nei vostri confronti, per senso di responsabilità, per un dovere di verità.

Lascio la direzione del settimanale dopo quasi quattro anni e mezzo di direzione e esattamente dopo ventidue anni di servizio prestato nella testata più importante del giornalismo italiano, un mito per chi fa il nostro mestiere. Fui assunto, infatti, il primo marzo 2001. Entrai con emozione nella mia stanza, nella vecchia sede di via Po, la palazzina liberty affacciata su villa Borghese, con il parquet ai pavimenti, nelle stanze si fumava e si rideva, c’erano Guido Quaranta, Edmondo Berselli e il mio adorato Giampaolo Pansa. Il direttore era Giulio Anselmi, dopo Claudio Rinaldi. Uno squadrone, la redazione più forte d'Italia, in un Paese dominato da Silvio Berlusconi che di noi aveva paura. 

Per arrivare alla mia stanza, ogni mattina, percorrevo un lungo corridoio al secondo piano dove quasi sempre incontravo una figura alta e magra, Carlo Caracciolo, il principe-editore. A volte lo incrociavo che si faceva il caffè nella piccola cucina di servizio, altre volte con il cane. Era lì con noi, in mezzo ai giornalisti e al giornale che aveva fondato e che amava più di ogni altra cosa. L'Espresso.

Tutto era partito da lì, in effetti: via Po 12, quattro stanze, più una toilette e un altro stanzino, nel 1955. «Eravamo agitati, emozionati, felici, impauriti allo stesso tempo. Sembrava di partecipare al varo d'una nave, della quale nessuno conosceva con esattezza forma, dimensioni e strutture», ha scritto Eugenio Scalfari che con Caracciolo partecipò alla fondazione. Omaggiando, dieci anni dopo, il pubblico «giovane, moderno, privo di tribù ma anche privo di cinismo, pessimista forse sul presente ma profondamente fiducioso nell'avvenire del Paese».

Da quella nave Espresso è partita una flotta di modernità, di progresso, di costruzione della democrazia italiana: prima con la nascita di Repubblica, nel 1976, poi con la rete dei giornali locali, infine con il gruppo Gedi, dopo la fusione con la Stampa. L'Espresso ha segnato la storia del giornalismo italiano. I diritti civili, le grandi inchieste, la lotta contro le mafie, le massonerie e tutti i poteri occulti, la laicità dello Stato, l'ambiente, la tenuta della democrazia italiana. Siamo sempre stati schierati, a volte sbagliando, ma mai venendo meno al nostro codice genetico.

Sono le stesse battaglie che abbiamo portato avanti in questi quattro anni e mezzo. L'Espresso ha raccontato l'Italia che cambia, con l'inizio della nuova legislatura, nel 2018, il governo dei sovranisti e dei populisti e poi l'incubo della pandemia, dal 2020. Abbiamo dato voce a un pezzo di Italia, l'Italia migliore, come scrissi nel mio editoriale di presentazione nel 2017: le donne, i giovani, gli stranieri migranti, i territori. Abbiamo combattuto con intransigenza contro chi voleva chiudere e isolare il nostro Paese.

Abbiamo rivelato, con inchieste che hanno fatto il giro dei media mondiali, i legami tra la Lega di Matteo Salvini e il regime di Vladimir Putin, abbiamo anticipato il processo in Vaticano nei confronti di un cardinale costretto a dimettersi. Abbiamo tenuto fede al nostro patto con i lettori: essere una testata libera, accogliente, indipendente. 

L'indipendenza è uno dei valori contenuti nella carta Gedi, accanto alla coesione. Con la redazione dell'Espresso abbiamo difeso questi valori, in anni difficili, sul piano editoriale e industriale. In una situazione di crisi del mercato editoriale e con la difficoltà di far decollare la transizione digitale sempre annunciata e mai praticata. Mentre i giornali tradizionali perdono copie, lettori, peso politico, credibilità, fiducia.

La categoria dei giornalisti fatica a parlarne, si attarda nella difesa di quote di mercato sempre più ridotte. Gli editori tendono a scaricare le colpe della crisi sui costi industriali della produzione. Il mondo imprenditoriale, intellettuale e politico non riesce a inquadrare il tramonto della stampa italiana all'interno di una questione più importante, perché tocca da vicino la tenuta delle istituzioni democratiche. 

«La stampa in Italia costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza... la gestione giornalistica è talmente costosa da essere proibitiva... Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale. Infatti, su 20-25 seri giornali è difficile bloccare; su 5 o 6 sì».

Non solo non troverai opinioni, ma nemmeno notizie: lo scriveva Aldo Moro, nel suo memoriale dal covo delle Brigate rosse, nel 1978. Si pensa di risolvere la situazione rincorrendo le nuove opportunità offerte dal digitale, come in altri parti del mondo. Anche in Italia ci sono imprese che stanno dimostrando di saper affrontare con successo le sfide della transizione. Ma non si può farlo immaginando di perdere la propria identità. L'anima, il carattere di una testata.

È una scorciatoia che disorienta il pubblico e che prima o poi si dimostra illusoria. Gedi è nel cuore di questa crisi. In un gruppo che aveva sempre fatto della solidità, della stabilità e della continuità aziendale e editoriale il suo modo di essere, soltanto durante la mia direzione si sono alternati due gruppi proprietari, due presidenti, tre amministratori delegati, tre direttori di Repubblica. E ora si vuole far pagare al solo Espresso l'assenza di strategia complessiva.

Ho appreso della decisione di vendere L'Espresso da un tweet di un giornalista, due giorni fa, mercoledì pomeriggio. Ho chiesto immediati chiarimenti all'amministratore delegato Maurizio Scanavino, come ho sempre fatto in questi mesi. Mesi di stillicidio continuo, di notizie non smentite, di voci che sono circolate indisturbate e che hanno provocato un grave danno alla testata.

Non mi sono mai nascosto le difficoltà. Ho più volte offerto la mia disponibilità in prima persona a trovare una soluzione per L'Espresso, anche esterna al gruppo Gedi, che offrisse la garanzia che questo patrimonio non fosse disperso. Ma le trattative sono proseguite senza condivisione di un percorso, fino ad arrivare a oggi, alla violazione del più elementare obbligo di lealtà e di fiducia. La cessione dell'Espresso, in questo modo e in questo momento, rappresenta un grave indebolimento del primo gruppo editoriale italiano.

È una decisione che recide la radice da cui è cresciuto l'intero albero e che mette a rischio la tenuta dell'intero gruppo. È una pagina di storia del giornalismo italiano che viene voltata senza misurarne le conseguenze. Di più: L'Espresso è un pezzo di storia dell’intero Paese. Un Paese che rischia di diventare ancora più fragile in una funzione essenziale, la libertà di stampa, l'autonomia del giornalismo dai poteri, il ruolo critico di controllo verso chi governa le strutture politiche, economiche, finanziarie. 

Ogni volta che c'è un cedimento, una cessione, è un pezzo che viene meno. E di questa storia L'Espresso non è comprimario, ma protagonista. Per questo non c'è nulla di personale in questo mio saluto. L'Espresso è sempre stato la mia casa e Gedi ha garantito il lavoro del nostro giornale. Ma se la casa viene cambiata, dall'arredamento alle suppellettili, fino a venderla, non resta altro da fare che prenderne atto. È una questione di coscienza e di dignità. Lo devo ai lettori che ci hanno sempre seguito in modo esigente.

Lo devo alle giornaliste e ai giornalisti che costituiscono la straordinaria redazione dell'Espresso, alla rete dei collaboratori e delle firme eccezionali di questo giornale. Mi è stata offerta la possibilità di restare, ringrazio, ma non posso accettare per elementari ragioni di dignità personale e professionale. Non è una questione privata, spero che tutto questo serva almeno a garantire all'Espresso un futuro e ad aprire un dibattito serio sul ruolo dell’informazione nel nostro Paese.

Ho cercato sempre di fermare una decisione che ritengo scellerata. Mi sono battuto in ogni modo, fino all’ultimo giorno, all’ultima ora. Ma quando il tempo è scaduto e lo spettacolo si è fatto insostenibile, c’è bisogno che qualcuno faccia un gesto, pagando anche in prima persona. Lo faccio io. Lo devo al mestiere che amo, il giornalismo. E soprattutto lo devo alla mia coscienza.

Dagospia il 4 marzo 2022. Comunicato.

La redazione dell’Espresso condivide pienamente le motivazioni delle dimissioni del direttore Marco Damilano, a cui esprime la sua totale solidarietà e che ringrazia per questi quattro anni insieme. 

Esponendosi in prima persona, Marco Damilano ha dato risalto a una “decisione scellerata” che impoverisce il gruppo Gedi e l’intero panorama dell’informazione italiana. Recidere L’Espresso, la radice da cui è nato questo gruppo editoriale, mette a rischio la tenuta di tutta l’azienda.

Siamo consapevoli dello stato di difficoltà in cui versa il giornalismo, ma Gedi è nel cuore di questa crisi, come dimostrano i numerosi avvicendamenti al suo vertice e alla guida delle sue principali testate. Un'assenza di strategia che ora si vuole far pagare all’Espresso. 

Noi giornalisti continueremo a difendere l’identità, l’anima e il ruolo civile, politico e culturale della nostra testata. Per questo la redazione è da oggi in stato di agitazione, e proclamerà le giornate di sciopero necessarie per impedire l’uscita del numero dell’Espresso attualmente in lavorazione.

Graziella Di Mambro per articolo21.org - 3 dicembre 2021 

Tra Davide e Golia, alla fine, ha vinto Davide. L’ottava sezione del Tribunale civile di Napoli ha rigettato la domanda risarcitoria pari a 38 milioni di euro avanzata dal Presidente dell’Università Telematica Pegaso contro i giornalisti Nello Trocchia e Corrado Zunino con il Gruppo Editoriale L’Espresso.

Una vicenda iniziata in sede civile ad aprile 2018 e ancor prima davanti al giudice penale. Si chiude così quella che era apparsa dal primo momento come una causa esorbitante oltre che infondata e che è diventata, adesso, l’ultima prova, la più schiacciante, dell’esistenza di azioni legali temerarie contro i giornalisti, pur legittimate dall’ordinamento vigente. 

“Me lo ricordo ancora il giorno che ho letto quel fascicolo – ha commentato Nello Trocchia – e ricordo ancora meglio le cose che su di me erano scritte per sostenere la tesi che quella mia inchiesta valesse una causa risarcitoria da 38 milioni di euro. 38 milioni di euro! 

Perché i giornalisti quelli bravi e famosi, non i cronisti di provincia come me, lì andavano a tenere un corso di giornalismo per le nuove leve, mentre io facevo il collaboratore a pezzo. Ricordo tutto, solo che io lo sapevo che non avevo fatto niente di eccezionale, ma neanche niente di sbagliato, avevo fatto il mio lavoro”. 

La citazione per danni ha riguardato i due giornalisti (Trocchia e Zunino), i rispettivi direttori, la società editrice e a presentarla era stato Danilo Iervolino in proprio e quale presidente della Pegaso spa; oltre a Iervolino erano firmatarie della domanda risarcitoria altre 137 persone tra dipendenti e docenti della stessa università.

L’ipotesi era quelle del danno che sarebbe stato procurato tra tre articoli di cui non è stata mai accertata la portata diffamatoria, anzi all’esito di uno dei due giudizi cautelari, relativamente all’articolo del giornalista Nello Trocchia era già stato riconosciuto dal Tribunale di Napoli che i fatti descritti in esso erano tutti corrispondenti al vero. ma intanto sempre nella fase iniziale uno degli articoli contestati dall’Università Pegaso e dagli altri attori fu tolto dalla rete per ordine di un giudice.

Alla base di tutto c’è stata un’inchiesta giornalistica di Nello Trocchia sul fenomeno delle università telematiche e dunque anche sulla Pegaso. Il Consiglio di Stato, chiamato a decidere sul punto in altro procedimento, ha negato per le università telematiche la possibilità di fornire i cosiddetti TFA, ovvero i percorsi di tirocinio formativo attivo per l’abilitazione all’insegnamento nella scuola secondaria di primo e secondo grado. L’inchiesta giornalistica era allargata al complessivo fenomeno delle università telematiche e ricostruiva anche la storia dei fondatori della Pegaso. 

“Ogni tanto una buona notizia – ha detto in merito alla sentenza il Presidente della Fnsi Giuseppe Giulietti – ma questa storia come tante altre ci spinge a ripetere ciò che diciamo ormai da troppi anni, ossia che non è più rinviabile una riforma legislativa contro le azioni bavaglio”.

Cristiano Vella per ilfattoquotidiano.it il 4 marzo 2022.  

43 anni, (quasi) un “millennial” Danilo Iervolino: l’uomo che, salvo imprevisti a questo punto clamorosi, ha salvato la Salernitana dall’esclusione del campionato. Napoletano di Palma Campania, giovanissimo eppure con una storia imprenditoriale già ricca alle spalle: ha fondato l’Università telematica Pegaso, centrando un business milionario e in un certo senso proseguendo, innovandola, una tradizione di famiglia, visto che il padre aveva fondato le scuole paritarie Iervolino, molto diffuse in Campania.

Il business l’aveva annusato a soli 26 anni, dopo un viaggio negli States e cogliendo l’opportunità fornita dalla legge Moratti-Stanca che istituiva le università telematiche in Italia: la struttura fu immaginata nel 2003 in un locale piccolissimo, pochi anni dopo Unipegaso aveva 10 corsi di laurea e 58 sedi e circa 60mila studenti passati per le lezioni online. 

Poi le quote della Pegaso le aveva cedute a un fondo inglese, Cvc, per un miliardo di euro: di lì l’investimento nel mondo dell’editoria acquisendo il gruppo Bfc Media, che edita tra le altre le riviste Forbes Italia, Bluerating, Private e canali televisivi come Bike, ma gli interessi sono molteplici e legati spesso alla tecnologia e alla sua evoluzione. 

Giovane, italiano e per certi versi visionario: un profilo che pare essere in controtendenza rispetto a quelli delle proprietà dei club di Serie A che oggi vanno perlopiù verso fondi o presidenti stranieri (Inter, Milan, Roma, Genoa, Spezia, Venezia, Fiorentina) o a imprenditori più “esperti” (Napoli, Lazio, Udinese, Atalanta, Torino). 

Del suo interesse per l’acquisizione della Salernitana si era parlato già nei mesi scorsi, tanto da spingerlo a uscire con una nota di smentita: “Non sono interessato, ma auguro ogni bene al club”, il succo del comunicato di novembre scorso. Ieri invece è spuntato il suo nome quasi a sorpresa, quando i rumors attorno al club granata puntavano decisamente in altra direzione.

La sua offerta, come anticipato ieri, è di circa 10 milioni di euro per l’acquisizione del club più una ventina per la gestione della squadra a partire dal mercato: dopo aver salvato la Salernitana dall’esclusione dalla Serie A, infatti, a Iervolino toccherà provare a conservare la categoria sul campo, impresa non facile visto che il club è ultimo con soli 8 punti totalizzati nel girone d’andata. 

E oltre al mercato e alla difficile impresa che ha di fronte sul campo, le difficoltà per Iervolino si profilano anche fuori, visto l’annuncio di un fondo svizzero interessato all’acquisizione del club Granata di presentare un esposto alla Procura della Repubblica sulla cessione al giovane imprenditore napoletano.

Ma Iervolino parla da presidente, e ai tifosi dice: “E’ con grande emozione che annuncio l’acquisizione della Salernitana 1919. Salerno e i suoi tifosi meritano una squadra competitiva. Credo fortemente che il progetto di rilancio della squadra che stiamo predisponendo garantirà equilibrio e stabilità alla società. 

Assicuro il massimo impegno per costruire un futuro duraturo e ricco di soddisfazioni per la città e per la sua straordinaria tifoseria. E’ con questi auspici che, insieme, accogliamo con fiducia il nuovo anno. Auguri a Salerno, evviva i granata”. 

E parlando di se e dei suoi punti di riferimento, Iervolino ama citare Don Milani: “Bisogna che ci sentiamo tutti parte del cambiamento e della speranza, contribuendo ognuno secondo le proprie possibilità e le proprie inclinazioni a ricostruire laddove qualcosa si è spezzato. Perché, come diceva don Milani ‘non serve avere le mani pulite se poi si tengono in tasca’” e lui ha deciso di contribuire, diventando (buona) parte delle speranze dei tifosi della Salernitana.

Lo strappo con GEDI. Marco Damilano si dimette da L’Espresso, strappo con Elkann per la cessione del settimanale: in pole c’è Iervolino. Carmine Di Niro su Il Riformista il 4 Marzo 2022.  

Un terremoto, l’ennesimo, nel gruppo editoriale GEDI della famiglia Elkann-Agnelli. Il direttore de L’Espresso Marco Damilano ha annunciato oggi, in un editoriale pubblicato sul sito web del settimanale, le dimissioni dal suo incarico in aperta polemica con l’editore.

Una decisione che arriva per la scelta di GEDI di vendere la testata, una mossa che segue un periodo di continua ‘ristrutturazione’ dei giornali del gruppo. In realtà, come sottolineato dallo stesso Damilano nella sua lettera di commiato dai lettori de L’Espresso, le voci su una cessione del giornale andavano avanti ormai da tempo, senza essere smentite dall’editore.

Tornando a Damilano, il direttore usa toni sferzanti contro l’editore, accusandolo di aver appreso della decisione di vendere L’Espresso “da un tweet di un giornalista, due giorni fa, mercoledì pomeriggio”, un riferimento a quanto pubblicato da Claudio Plazzotta martedì.

Una situazione che è precipitata dopo “mesi di stillicidio continuo, di notizie non smentite, di voci che sono circolare indisturbate” che secondo Damilano hanno provocato “un grave danno alla testata“.

Il direttore de L’Espresso nella sua lettera ai lettori ha anche rivelato di essersi speso personalmente nel tentativo di trovare soluzioni alternative per il gruppo GEDI, trattative che “sono proseguite senza condivisione di un percorso” fino ad arrivare “a oggi, alla violazione del più elementare obbligo di lealtà e di fiducia”.

Parole al vetriolo sono destinate alla strategia editoriale del gruppo ora di proprietà della famiglia Elkann, con Damilano che ricorda come “soltanto durante la mia direzione si sono alternati due gruppi proprietari, due presidenti, tre amministratori delegati, tre direttori di Repubblica. E ora si vuole far pagare al solo Espresso l’assenza di strategia complessiva”.

Una decisione, quella del gruppo GEDI, che per Damilano è “scellerata” ma “quando il tempo è scaduto e lo spettacolo si è fatto insostenibile, c’è bisogno che qualcuno faccia un gesto, pagando anche in prima persona. Lo faccio io. Lo devo al mestiere che amo, il giornalismo. E soprattutto lo devo alla mia coscienza“.

Futuro con Iervolino?

Quanto al futuro della storica testata fondata da Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo, le voci sempre più insistenti parlano di una cessione del settimanale al gruppo editoriale Bfc Media, controllato dalla famiglia Iervolino.

Daniele Iervolino, 43enne imprenditore napoletano originario di Palma Campania, ha fondato l’Università telematica Pegaso (venduta Fondo Cvc per 1 miliardo di euro) ed è da pochi mesi proprietario della Salernitana, club di Serie A. Recentemente è entrato nel mondo dell’editoria, acquistando il 51% di Bfc Media, azienda che opera nel settore dell’informazione, editrice di Forbes Italia.

I problemi di GEDI ed Espresso

La scelta di GEDI di cedere la testata non sorprende. L’Espresso negli ultimi anni, così come gli altri settimanali di informazioni in Italia, ha vissuto un periodo travagliato fatto di perdite economiche e cali di vendite.

Damilano era stato nominato direttore nel 2017, dopo due anni da vicedirettore, e in più occasioni non aveva fatto mancare critiche alla proprietà sui pochi investimenti sul settimanale. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “la Verità” il 9 novembre 2022.

L'Istituto nazionale per la previdenza sociale presieduto da Pasquale Tridico dopo anni di prudenza ha deciso di prendere provvedimenti nei confronti dei prepensionati del gruppo Gedi, che avrebbero ottenuto anzitempo l'assegno previdenziale in modo truffaldino. La lentezza dei provvedimenti potrebbe essere stata dettata dall'idem sentire di alcuni dirigenti e giornalisti della casa editrice e dei vertici dell'ente nominati dalla sinistra, a partire da quel Tito Boeri che del quotidiano La Repubblica è anche apprezzato collaboratore.

Il 24 maggio scorso il pm romano Francesco Dall'Olio ha firmato l'avviso di conclusione delle indagini nei confronti di 101 persone e di cinque aziende del gruppo Gedi coinvolte in una presunta truffa aggravata ai danni dell'Inps che avrebbe erogato 22,2 milioni di euro di assegni pensionistici non dovuti, mentre, grazie alla frode, la casa editrice e le sue collegate avrebbero risparmiato 38,9 milioni di euro di costi del personale. 

La notifica dell'atto è in fase di completamento. Ma a settembre, l'Inps in una riunione in Procura ha annunciato di aver deciso di sospendere in autotutela i trattamenti contestati. Non conosciamo il numero di quelli già bloccati dato che all'Inps sostengono di non poterlo rivelare «essendo il procedimento penale aperto e non essendoci ancora stato un formale giudizio». 

Anche se la decisione è arrivata pochi mesi dopo la chiusura delle indagini e quindi con fatti finalmente cristallizzati a livello giudiziario, in via Ciro il Grande erano al corrente da anni di questa complessa vicenda.

Le indagini sui prepensionamenti irregolari sono partite da una mail recapitata all'ente previdenziale nel maggio del 2016 in cui veniva svelato il sistema truffaldino per accedere ad ammortizzatori sociali come pensione anticipata e cassa integrazione. Già nel 2012 un anonimo aveva segnalato anomalie, ma l'allora direttore dell'Inps della Lazio, Gabriella Di Michele, aveva riferito che «il controllo effettuato a livello amministrativo sulle posizioni dei dipendenti del gruppo L'Espresso (oggi Gedi, ndr) è risultato regolare e, pertanto, non sembrano esserci elementi tali da suffragare la segnalazione anonima».

Quattro anni dopo, un ex controller di Elemedia, la società che raggruppa le emittenti radiofoniche del gruppo Gedi, aveva annunciato a Boeri che avrebbe presentato «formale esposto alla Guardia di finanza» e si era detto fiducioso del fatto che Boeri avrebbe fatto «le dovute verifiche» e proceduto «senza esitazione, a differenza di quanto ha fatto la Cgil, per riportare giustizia». Il dg Massimo Cioffi ordinò un'ispezione e nel 2018 la Procura aprì un procedimento. 

Quattro anni fa, però, venne revocata solo una pensione, avendo l'Inps effettuato «un'analisi suppletiva che ha portato a non riconoscere come validi i periodi riscattati». Con Tridico sembra che tutto sia rimasto fermo sino a settembre, quando la notizia dell'avviso di fine delle indagini aveva iniziato a girare e il governo appoggiato dal Partito democratico, grande sponsor (ricambiato) del gruppo Gedi, era caduto.

Dopo la vittoria del centrodestra alle elezioni, anche se potrebbe essere una semplice coincidenza, sono partite le lettere con le revoche di altre pensioni. Noi abbiamo intercettato «il provvedimento di annullamento in autotutela del provvedimento notificato in data 18 novembre 2009 in materia di "contributi-rendita vitalizia"» indirizzato all'ex archivista del gruppo Anna Piludu, andata in pensione nel 2010 a 53 anni. 

Il prepensionamento sarebbe stato reso possibile grazie a una copia falsificata dell'attestato sostitutivo del suo libretto di lavoro da cui risultavano 160 settimane di marchette pagate da una ditta per cui non aveva mai lavorato e che neanche conosceva. Un artifizio che ha permesso di colmare un periodo contributivo ancora mancante di tre anni e di raggiungere con questa «rendita vitalizia» i requisiti per la prestazione pensionistica.

La motivazione della decisione della revoca è la seguente: «A seguito di verifiche effettuate sulla pratica di rendita vitalizia in oggetto, sono emerse incongruenze nei documenti presentati a supporto dell'istanza stessa, che ne inficiano la validità e ne determinano la revoca in autotutela». 

Non sfuggirà che non vengono citate le indagini della Procura e della Guardia di finanza e che questo tipo di rilievo, forse, poteva essere avanzato già nel 2012 o almeno tra il 2016 e il 2018. Ma, forse, all'epoca, il gruppo Gedi non era aggredibile dall'istituto con serenità.

L'annullamento della rendita vitalizia e della collegata pensione è stato disposto non essendo «decorso un periodo di tempo eccessivamente ampio dall'emanazione dell'atto stesso» ed essendo stato «rilevato sussistente e prevalente [] l'interesse pubblico». Nell'avviso di chiusura delle indagini inviato dalla Procura le accuse vanno, a vario titolo, dalla truffa aggravata ai danni dello Stato all'accesso abusivo a sistema informatico alla responsabilità amministrativa da reato (per cinque aziende della holding), ai sensi del decreto legislativo 231, nei confronti del gruppo Gedi, della concessionaria pubblicitaria Manzoni, della Elemedia, della Gedi news network e della Gedi printing. 

Nel documento sono elencate 101 persone a cui è contestata la truffa: 79 prepensionati (altri due sono deceduti), di cui 16 dirigenti; 17 manager (compresi due prepensionati), quattro sindacalisti della Cgil (di cui due prepensionati), due funzionari Inps (a cui, insieme con 16 dirigenti, è contestato anche l'accesso abusivo) e altre due figure minori.

I quattro principali indagati sono considerati l'ex amministratore delegato del gruppo Monica Mondardini, attuale ad del gruppo Cir, la cassaforte della famiglia De Benedetti (vecchi proprietari di Gedi), il capo delle risorse umane Roberto Moro, il suo vecchio vice Romeo Marrocchio, il direttore generale della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi. 

Le frodi, come abbiamo scritto a gennaio, sarebbero state sostanzialmente di quattro tipi: fittizi demansionamenti di dirigenti a quadro per fargli ottenere i requisiti previsti dalla normativa di settore per i prepensionamenti; illeciti riscatti di annualità (a spese dell'azienda) «asseritamente» lavorate, come nel caso della Piludu, con la complicità di funzionari Inps e la falsificazione dei libretti di lavoro; utilizzo in veste di collaboratori esterni, nelle stesse società del gruppo, di dipendenti prepensionati in quanto falsamente indicati come esuberi; trasferimenti di personale eseguiti (in svariati casi solo sulla carta) per poter accedere «indebitamente» agli scivoli previsti per la sede/società di destinazione.

A dicembre il gip Andrea Fanelli ha ordinato di «congelare» il presunto corpo del reato ovvero l'illecito profitto per Gedi, quantificato dai pm, come detto, in 38,9 milioni di euro. Il giudice ha, invece, rigettato la richiesta di sequestro preventivo degli assegni previdenziali indebitamente erogati. Infatti Fanelli ha chiesto il ricalcolo del «profitto illecito percepito dai singoli dipendenti» che, a suo giudizio «e pari all'importo netto della pensione» e non a quanto sborsato dall'Inps. Nove mesi dopo, contemporaneamente all'arrivo al governo del centrodestra, l'istituto ha iniziato, in autonomia, a bloccare le pensioni degli indagati e a chiedere la restituzione degli assegni che sarebbero stati indebitamente incassati.

Giacomo Amadori e François de Tonquédec per “La Verità” il 14 novembre 2022.

Una gola profonda aveva provato a denunciare alla Cgil la presunta truffa milionaria che il gruppo editoriale Gedi avrebbe perpetrato ai danni dell'Inps e per riuscire nell'intento si era rivolta a più uffici della Confederazione generale italiana del lavoro, compreso quello dell'allora segretario Susanna Camusso, da ottobre parlamentare del Pd. Ma nessuno dei destinatari dei messaggi di posta avrebbe risposto o preso provvedimenti. 

In compenso tre ex rappresentanti aziendali proprio della Cgil (Danilo di Cesare, Stefano Graziosi e Maria Fidalma Mazzi) sono tuttora indagati con l'accusa di aver dato il loro contributo alla presunta frode dei prepensionamenti illeciti ottenuti da Gedi, azienda che nel dicembre scorso è stata oggetto di un sequestro preventivo da 38,9 milioni di euro. 

A riferire agli investigatori della Guardia di finanza la notizia dell'alert indirizzato al sindacato è stato il supertestimone dell'inchiesta. Il quale, il 23 agosto 2017, ha impresso una svolta alle indagini con le sue accuse, raccolte in un verbale di sei pagine che oggi La Verità può rivelare in esclusiva.

Quel mercoledì, verso le 8,30, Giovanni Dell'Acqua, quarantottenne originario di Taranto, ma residente a Milano, è entrato nella sede del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di via Talli, periferia Nord di Roma. L'uomo, nel dicembre 2006, era stato assunto dalla Elemedia - azienda che gestiva le radio del Gruppo l'Espresso e a partire dal settembre 2012 era stato distaccato presso un'altra società del gruppo, la Manzoni spa. 

In entrambe le aziende aveva ricoperto il ruolo di quadro all'interno di una struttura che si occupava di controllo di gestione. Nell'agosto del 2017, in caserma, precisa quale fosse il suo ruolo: «In sostanza mi occupavo della verifica dei costi delle società per le quali lavoravo. Venivo pertanto a conoscenza anche dei costi relativi al personale e dei vari spostamenti di personale che venivano effettuati da e per le società per le quali lavoravo».

Nel maggio del 2016 aveva iniziato a scrivere all'allora presidente dell'Inps Tito Boeri per raccontargli quanto a suo giudizio non tornasse nei prepensionamenti ottenuti da Gedi con la complicità del sindacato. In un'intercettazione agli atti Marco Benedetto, ex ad del gruppo, dice di lui: «È uno che loro hanno trattato male e lui si e vendicato». Un altro dirigente, Alessandro Rocca, conferma: «Esatto e ha rotto le scatole scrivendo questa mail a Boeri». 

Nei messaggi inviati all'allora presidente dell'Inps erano contenute le storie di sette dirigenti dell'azienda editoriale, in particolare del comparto radiofonico e della concessionaria pubblicitaria Manzoni, i quali sarebbero stati demansionati e successivamente trasferiti da società sane a società in crisi per poter usufruire della cassa integrazione e delle agevolazioni per i prepensionamenti garantite ai poligrafici dalla legge sull'editoria. Un sistema che ha portato all'iscrizione di 101 persone e cinque società sul registro degli indagati della Procura di Roma.

In una delle sue mail a Boeri, Dell'Acqua aveva specificato: «Ho già segnalato tutto alla trasmissione Report che spero approfondisca e presto farò formale esposto alla Guardia di finanza, ma sono fiducioso che lei farà le dovute verifiche e che procederà senza esitazione, a differenza di quanto ha fatto la Cgil, per riportare giustizia». Per questo i finanzieri, nell'agosto di cinque anni fa, hanno chiesto a Dell'Acqua con chi avesse parlato di quei fatti oltre che con il presidente dell'Inps. 

Con le sue dichiarazioni il testimone chiama in causa i piani alti della Cgil: «Ho inviato alcune mail relative alla vicenda ai seguenti soggetti: alla segreteria della Camusso; alla segreteria nazionale Slc (Sindacato lavoratori della comunicazione, sempre della Cgil, ndr); a Massimo Bonini, responsabile della Cgil di Milano; a Francesco Auferi e Mimma Agnusdei, entrambi responsabili della Slc-Cgil di Milano; a Massimo Luciani e Walter Pilato entrambi firmatari di decreti e membri di Slc-Cgil nazionale; a Paolo Puglisi della Cgil Lombardia».

Di fronte alle Fiamme gialle l'uomo ha ricordato di aver cercato sponde non solo nel sindacato per far deflagrare lo scandalo: «Rappresento anche di aver inviato alcune mail a Mediaset, al Corriere della Sera, a Report e a numerose altre testate giornalistiche a cui ho rappresentato il meccanismo, ma i miei interlocutori non hanno successivamente più avuto interesse sulle vicende, infatti non mi hanno più ricontattato e non hanno mai pubblicato qualcosa in merito. Aggiungo che solo Report ha trasmesso una puntata di approfondimento sulla vicenda di Cioffi senza parlare dei fatti da me segnalati anche se collegati».

Il 23 agosto 2017, Dell'Acqua ribadisce quanto denunciato nei messaggi a Boeri. Racconta di dirigenti che «venivano demansionati a quadro senza mai però variare la tipologia di attività svolta e mantenendo il medesimo trattamento stipendiale e i vari benefit acquisiti nel tempo»; riferisce di dipendenti trasferiti «da società che non avevano diritto all'accesso ai regimi agevolativi a società che invece ne avevano diritto, senza mai, però trasferirsi materialmente e mantenendo il medesimo ufficio e funzioni».

Dell'Acqua fa nomi e cognomi e cita anche il caso di un suo vecchio superiore che avrebbe «mantenuto le proprie funzioni di dirigente anche da quadro» e che, quando a novembre 2016 la vicenda dei prepensionamenti Gedi finisce sui giornali, sarebbe stato «reintegrato in Manzoni», grazie a «una clausola di reintegro in caso di mancata erogazione del trattamento pensionistico» contenuta nell'accordo con cui aveva lasciato anticipatamente l'azienda. Un escamotage che sarebbe stato utilizzato anche in altri casi. 

Dell'Acqua ricorda agli investigatori che il suo scambio epistolare con Boeri, nel 2016, era stato citato dal Fatto quotidiano e dal nostro giornale, gli unici due mezzi d'informazione a ragguagliare i propri i lettori sull'inchiesta: «Sulla Verità addirittura erano presenti anche le mie iniziali» sottolinea il teste. Che continua: «In merito credo che la fuga di notizie sia dovuta ad una sorta di guerra interna all'Inps che vedeva contrapposti Boeri a Cioffi (Massimo, ex dg dell'Inps, ndr), tra l'altro riportata anche da notizie stampa in merito.

Cioffi accusava Boeri di avere un conflitto di interessi sulla vicenda segnalata in quanto lo stesso in precedenza aveva ricoperto un ruolo all'interno della fondazione De Benedetti. Boeri a sua volta rispondeva accusando e chiedendo le dimissioni di Cioffi il quale in precedenza aveva ricoperto un ruolo di vertice in Enel, successivamente sottoposta a controllo da parte dell'Inps». Dell'Acqua collega la presunta faida all'uscita degli articoli sui giornali e conclude: «Quindi credo che le mie mail siano state trasmesse al Fatto Quotidiano da qualcuno dell'Inps per gettare discredito sull'operato di Boeri accusandolo di aver insabbiato le attività di indagine».

 

DAGOSPIA FLASH! il 3 gennaio 2021.  - COME MAI NESSUNO SCRIVE CHE I PREPENSIONAMENTI DI “REPUBBLICA” E “ESPRESSO”, ALLA BASE DEL SEQUESTRO PREVENTIVO DI 38 MILIONI DI EURO SUBITO DAL GRUPPO “GEDI”, VENNERO FATTI COME ULTIMO ATTO DEL GOVERNO LETTA? IL TUTTO MENTRE TITO BOERI (COLLABORATORE DI “REPUBBLICA”) ERA A CAPO DELL’INPS…

La Procura di Roma sequestra 38 milioni di euro al gruppo editoriale Gedi (famiglia Agnelli). Il Corriere del Giorno il 3 gennaio 2021. Come giustamente evidenzia il quotidiano La Verità né dalla Gedi, né dalle agenzie di stampa o da altri organi di informazione era stato diffuso alcun comunicato sulla vicenda resa nota dal quotidiano diretto da Belpietro. Legittimo chiedersi quali siano state le cause che hanno portato alla clamorosa autocensura. Il sequestro preventivo da oltre 38 milioni subito dalla società editrice Gedi (di cui fanno parte tra l’altro i quotidiani La Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX) vigilia delle feste natalizie è un’iniziativa della Procura di Roma che con l’avallo del gip, ai sensi della legge 231 del 2001, quella che punisce la responsabilità amministrativa delle società, ha bloccato una somma equivalente al massimo che l’accusa ritiene essere stata sottratta al bilancio dell’INPS per delle presunte irregolarità nelle procedure di prepensionamento di una settantina di dipendenti , operazione effettuata quando però la società editrice era ancora controllata, dalla Cir cioè la holding degli affari della famiglia De Benedetti. 

Come giustamente evidenzia il quotidiano La Verità né dalla Gedi, né dalle agenzie di stampa o da altri organi di informazione era stato diffuso alcun comunicato sulla vicenda resa nota dal dal giornale diretto da Maurizio Belpietro. Legittimo chiedersi quali siano state le cause che hanno portato alla clamorosa autocensura. Ieri Andrea Griva direttore della comunicazione del gruppo Gedi , parlando con i colleghi de La Verità ha sottolineato una dimenticanza del loro articolo pubblicato il 31 dicembre : “Non ci sono commenti se non forse che poteva essere un servizio al lettore ricordare con maggiore precisione che si tratta di una vicenda originata dalla precedente gestione del gruppo Gedi (quando la proprietà era in capo ai De Benedetti, ndr) e quindi la fotografia dell’ingegner Elkann non sembrava essere in linea con la verità storica di questa vicenda. Posso aggiungere che la società continua a collaborare con gli inquirenti“. 

Nonostante uno dei tre indagati, Monica Mondardini, ha lasciato il gruppo Gedi, in cui ha ricoperto il ruolo di amministratore delegato e vicepresidente, per passare alla Cir dell’ingegner Carlo De Benedetti, gli altri due manager sotto inchiesta, il direttore delle risorse umane Roberto Moro e il capo della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi, in realtà sono ancora in carica. 

Il fascicolo è in mano all’aggiunto della Procura di Roma Paolo Ielo e al pm Francesco Dall’Olio in relazione ad una presunta truffa ai danni dell’Inps legata al prepensionamento di dirigenti e altri dipendenti di Gedi e della concessionaria pubblicitaria Manzoni che non avrebbero avuto diritto al beneficio e che per questo sono stati demansionati o trasferiti per ottenere lo scivolo. La notizia del sequestro della Procura di Roma, seppur tacitata e nascosta, ha fatto rapidamente il giro di tutti i giornali. Compresa La Repubblica, edita dal gruppo Gedi. In passato il gruppo Gedi in quanto quotato in Borsa sarebbe stato costretto a rendere pubblica la notizia . Ma dopo l’acquisizione dalla Cir l’89 per cento delle azioni della casa editrice, la Gedi per decisione della nuova proprietà del gruppo cioè la Exor della famiglia Elkann-Agnelli) è stata “delistata” cioè è uscita dalla Borsa italiana di Piazza Affari. Per questo motivo l’obbligo delle comunicazioni al mercato è venuto meno in quanto non dovuto.

L’avvocato della società editrice, l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, si sarebbe affrettata a far aprire un conto bancario vincolato su cui Gedi avrebbe già versato i fondi oggetto del sequestro, evitando in tal modo che venissero colpiti i patrimoni personali degli indagati. 

Alla vigilia del maxi sequestro subito dalla Gedi , il quotidiano La Repubblica lo scorso 15 dicembre aveva dato ampio risalto alla notizia di un altro sequestro preventivo di 600.00 euro effettuato dalla Procura di Milano ai danni di “alcune sigle sindacali” della Cisl lombarda. Una somma sessanta volte inferiore all’importo bloccato sotto sequestro dalla Procura di Roma al gruppo Gedi, notizia che sino a questa mattina, i lettori del quotidiano romano, non hanno ancora potuto leggere. Grazie al complice silenzio della direzione e redazione.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “La Verità” il 2 gennaio 2021. Per due giorni abbiamo atteso un comunicato del gruppo editoriale Gedi (che edita La Repubblica, L'Espresso, La Stampa e Il Secolo XIX, tre radio e una serie di testate locali), di proprietà della famiglia Agnelli, sul sequestro preventivo da oltre 38 milioni subito dall'azienda alla vigilia delle feste natalizie. Si tratta di un'iniziativa della Procura di Roma che ha congelato, con l'avallo del gip, una somma equivalente al massimo che l'accusa ritiene essere stata sottratta al bilancio dell'Inps per presunte irregolarità nelle procedure di prepensionamento di una settantina di dipendenti ai tempi in cui la società era controllata, attraverso la Cir, dalla famiglia De Benedetti. Purtroppo, sino a ieri sera, né dall'azienda, né dalle agenzie di stampa o da altri media era stato diffuso alcun dispaccio sulla spinosa vicenda che confermasse e arricchisse di particolari lo scoop della Verità.

Anche su Internet la notizia è stata quasi censurata, trovando pochissimo spazio. Tra i principali siti di informazione è stata ripresa solo da Affari italiani. Distrazione, superficialità, solidarietà, gelosia? Possono essere molte le motivazioni che hanno portato al clamoroso black out. Ieri il direttore della comunicazione del gruppo, Andrea Griva, ci ha risposto con garbo e ha sottolineato una dimenticanza nel nostro pezzo del 31 dicembre: «Non ci sono commenti se non forse che poteva essere un servizio al lettore ricordare con maggiore precisione che si tratta di una vicenda originata dalla precedente gestione del gruppo Gedi (quando la proprietà era in capo ai De Benedetti, ndr) e quindi la fotografia dell'ingegner Elkann non sembrava essere in linea con la verità storica di questa vicenda. Posso aggiungere che la società continua a collaborare con gli inquirenti».

È vero che uno dei tre indagati, Monica Mondardini, ha lasciato il gruppo, in cui ha ricoperto il ruolo di amministratore delegato e vicepresidente, per trasferirsi alla Cir dell'ingegner Carlo De Benedetti, ma gli altri due manager sotto inchiesta, il direttore delle risorse umane Roberto Moro e il capo della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi, sono ancora al loro posto. 

Siamo riusciti a parlare, nonostante la giornata post veglione, anche con l'avvocato di Gedi, l'ex ministro Paola Severino, la quale una decina di giorni fa si è affrettata ad accendere il conto su cui far confluire i quasi 40 milioni che la Procura ha ordinato di sequestrare ai sensi della legge 231 del 2001, quella che punisce la responsabilità amministrativa delle società.

Ma anche la Severino non è stata particolarmente loquace: «Dovreste sapere che non rilascio mai dichiarazioni sui processi che seguo» ci ha detto, confermando di essere il legale incaricato della vicenda. «Inoltre» ha aggiunto, «mi pare che abbiate già delle fonti dirette». E ha concluso con un festoso saluto: «Io posso solo augurarvi buon anno». Buon 2022 anche a lei.

Ha inserito lo stesso disco l'aggiunto Paolo Ielo che, contattato dalla Verità, si è schermato dietro alla riforma della giustizia messa a punto dal Guardasigilli Marta Cartabia: «Come sa esiste una legge che vi impedisce di avere rapporti con persone diverse dal procuratore, quindi, mi dispiace, ma non mi resta che farvi gli auguri di buon anno».Il fascicolo è in mano a Ielo e al pm Francesco Dall'Olio e riguarda, come detto, una presunta truffa ai danni dell'Inps legata al prepensionamento di dirigenti e altri dipendenti di Gedi e della concessionaria pubblicitaria Manzoni che non avrebbero avuto diritto al beneficio e che per questo sono stati demansionati o trasferiti per ottenere lo scivolo. La notizia del sequestro, seppur silenziata, ha fatto rapidamente il giro di tutte le redazioni. Anche della Repubblica.

Qui ci risulta che alcuni esponenti del comitato di redazione si siano sentiti telefonicamente per valutare quali azioni intraprendere e avrebbero concordato di scrivere una nota all'azienda per chiedere lumi, visto che nessun aggiornamento era arrivato ai membri del Cdr e che le ultime informazioni conosciute risalivano al 2018. Non è escluso che successivamente venga diffuso anche un comunicato indirizzato alle redazioni. Ma tutto è rinviato alla giornata di domani.

Salvo che in queste ore l'azienda non scelga una linea di maggiore trasparenza comunicativa. In passato al gruppo Gedi sarebbero stati costretti a dare la notizia in quanto società quotata in Borsa. Ma quando la Exor della famiglia Elkann-Agnelli ha rilevato dalla Cir l'89 per cento delle azioni della casa editrice, quest' ultima è stata «delistata» ed è uscita da Piazza affari.

Per questo l'obbligo delle comunicazioni al mercato è caduto. E così, per uno strano scherzo del destino, il 15 dicembre, alla vigilia del maxi sequestro, La Repubblica aveva dato ampio spazio a un altro sequestro preventivo effettuato dalla Procura di Milano ai danni di «alcune sigle sindacali» della Cisl lombarda. Peccato che si parlasse di 600.00 euro. Una cifra sessanta volte inferiore al tesoretto prelevato al gruppo Gedi dalla Procura di Roma, notizia che, però, i lettori quotidiano romano, non hanno ancora potuto leggere. Almeno sino a questa mattina.

 Giacomo Amadori per “La Verità” il 2 gennaio 2021. Nelle scorse ore finalmente i siti di due giornali, Il Tempo e Il Fatto Quotidiano, hanno ripreso la notizia della Verità sul sequestro preventivo da circa 38 milioni di euro ordinato dalla Procura di Roma nei confronti del gruppo Gedi. 

L'azienda editoriale è accusata di aver organizzato una truffa ai danni dell'Inps, perché avrebbe prepensionato numerosi ex dipendenti privi dei requisiti necessari, in particolare dirigenti che, non avendo diritto al beneficio, erano stati demansionati. All'inizio dell'indagine si parlò anche di cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs) ottenuta trasferendo lavoratori da rami sani della holding a società in difficoltà. Ma da Gedi ci fanno sapere che la «Cigs è stata erogata correttamente e che non risultano addebiti a questo proposito».

La Procura ha iscritto almeno tre persone sul registro degli indagati, tra cui due importanti dirigenti del gruppo: il direttore delle risorse umane Roberto Moro e il capo della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi.Ma i lettori di Repubblica, Stampa, Secolo XIX e alcune testate locali di Gedi continuano a non essere informati della vicenda. Tranne quelli che hanno ricevuto da qualche benefattore il nostro articolo del 31 dicembre che ha svelato il clamoroso provvedimento degli inquirenti.

È il caso dell'ex presidente dell'Inps Tito Boeri, citato nel nostro scoop di tre giorni fa. Infatti, prima di contestare la nostra ricostruzione in una lettera al direttore, ha precisato: «Non essendo un lettore del suo giornale, ho ricevuto lo stralcio di articolo dal dirigente Inps cui a suo tempo avevo chiesto di seguire la vicenda». 

Il manager in questione, Luca Sabatini, avrebbe informato del sequestro il suo vecchio presidente in modo encomiastico: «Le voglio dare una buona notizia: grazie al suo intervento siamo riusciti a smascherare una truffa ai danni dell'Inps; c'è voluto del tempo, ma ci siamo riusciti». Insomma l'intervento della Procura sarebbe merito di Boeri, collaboratore di Repubblica dai tempi in cui l'azienda era guidata dalla famiglia De Benedetti.

Ma nel 2020 la proprietà è cambiata: sarà per questo che oggi l'economista cerca di appuntarsi la medaglia? Chissà. Comunque l'ex presidente dell'Inps proprio non si è ritrovato nella nostra descrizione dei fatti: «Leggo l'articolo, ma mi trovo di fronte ad una ricostruzione distorta e maliziosa del mio operato, volta a insinuare che io abbia voluto insabbiare la vicenda». 

Quindi spiega come avrebbe scoperchiato il presunto marciume dentro al gruppo Gedi: «Come posso documentare, dopo avere ricevuto un messaggio criptico da una persona a me sconosciuta (non era un messaggio anonimo) riguardo a potenziali frodi ai danni dell'istituto, fui io stesso a sollecitare il mittente perché mi offrisse i dettagli della vicenda.

E il giorno stesso in cui ricevetti una mail più circostanziata incaricai il direttore centrale della direzione centrale ammortizzatori sociali (Sabatini, ndr), struttura competente in materia (e non certo un "dirigente di seconda fascia" come riportato dal vostro giornalista) di approfondire la vicenda».

Ma Boeri porta anche altre prove del suo lavoro di implacabile segugio anti Gedi: «Posso documentare che anche successivamente a questa mia prima segnalazione sollecitai la direzione ad andare a fondo, lasciando poi al direttore generale, una volta appurato che ci potevano essere gli estremi di una frode, il compito di seguirne l'evoluzione». 

L'ex presidente dell'Inps sottolinea anche: «Se avessi voluto davvero insabbiare la vicenda, lo avrei potuto fare in un'infinita di modi, a partire dall'ignorare il messaggio di una persona a me sconosciuta tra le centinaia di mail che ricevevo ogni giorno». 

Quindi adesso l'Inps potrebbe recuperare 38 milioni di euro grazie alla tenacia investigativa del suo ex presidente detective. Però dal nostro archivio abbiamo tirato fuori un comunicato del sindacato Usb che, cinque anni fa, metteva fortemente in dubbio la versione di Boeri, dopo che quest' ultimo aveva fatto pubblicare sul sito dell'Inps il carteggio interno riguardante le segnalazioni dell'ex dipendente del futuro gruppo Gedi. 

Scriveva il sindacato: «Se l'obiettivo di Boeri era di smarcarsi da eventuali accuse di ritardi nella trasmissione agli uffici competenti delle informazioni ricevute [], le mail pubblicate di certo non lo aiutano. Innanzitutto il presidente non ha sentito il bisogno di coinvolgere da subito il direttore generale, che è il responsabile della gestione dell'Inps.

Il carteggio è cominciato il 10 maggio di quest' anno (2016, ndr) e Cioffi (Massimo, l'allora dg, ndr) ne viene a conoscenza solo il 4 luglio, perché» Sabatini «gli gira per conoscenza una mail indirizzata al presidente, che lo aveva incaricato di approfondire la vicenda. Bisogna arrivare al 12 agosto perché siano interessate (anche questa volta dal dc degli ammortizzatori sociali, ndr) della vicenda le direzioni centrali Entrate, Pensioni, Vigilanza e Informatica». 

Nelle settimane successive, il direttore generale Cioffi dà indicazione di coordinare l'attività ispettiva con il ministero del Lavoro, all'epoca guidato dal renziano Giuliano Poletti. Nel comunicato il sindacato evidenzia che ci vollero ben cinque mesi perché dall'Inps partisse una lettera indirizzata al dicastero di via Veneto, quello che autorizza le Cigs. «Perché tanto ritardo?», si chiedevano i sindacalisti, intravedendo «molte zone d'ombra».

A loro giudizio Boeri nelle mail invitava Sabatini «ad approfondire, ad andare fino in fondo alla vicenda», ma al tempo stesso non ravvisava quali potessero «essere le violazioni». Per questo si domandavano: «Ma è regolare demansionare a quadri dei dirigenti d'azienda per poter usufruire di prepensionamenti a carico della collettività?». E aggiungevano: «Se le circostanziate accuse dell'ex dipendente del gruppo Espresso (oggi Gedi, ndr) sono veritiere, siamo di fronte a illegittimità che vanno sanzionate».

Interrogativi accompagnati da una frecciata finale: «Il conflitto d'interessi a carico di Boeri è fuori discussione. Legato professionalmente al gruppo editoriale che fa capo a De Benedetti, il presidente dell'Inps si trova nella necessità di dover indagare su presunte illegittimità commesse da quel gruppo e a niente vale scaricare la patata bollente sul ministero del Lavoro». Cinque anni dopo, in modo un po' ardimentoso, Boeri si vuole prendere tutti meriti del sequestro alla casa editrice per cui scrive.

Fabio Amendolara e François De Tonquédec per “La Verità” il 4 settembre 2022.

Le brutte notizie per il gruppo Gedi non finiscono mai. Mentre i suoi giornalisti sono impegnati a cercare di esorcizzare la vittoria annunciata della destra alle prossime elezioni, la magistratura è pronta a chiedere il rinvio a giudizio per i suoi dirigenti e per la stessa società. 

La Procura di Roma ha notificato nelle ultime settimane avvisi di chiusura delle indagini a decine di dipendenti o ex dipendenti di Gedi, editore, tra gli altri, della Repubblica, della Stampa e del Secolo XIX, quando era guidato dalla famiglia De Benedetti (sino a fine 2019, quando è stato ceduto alla Exor della famiglia Agnelli-Elkann).

Le accuse sono pesantissime ed erano state anticipate tra dicembre e gennaio da questo giornale: si va, a vario titolo, dalla truffa aggravata ai danni dello Stato per aver indotto in errore l'Inps, all'accesso abusivo a sistema informatico alla responsabilità amministrativa da reato (per cinque aziende della holding), ai sensi del decreto legislativo 231. 

Per «massimizzare i profitti» l'azienda avrebbe mandato in pensione dipendenti che non ne avevano diritto, anche sotto i 55 anni. Il 9 dicembre scorso il gip di Roma Andrea Fanelli, ha ordinato di «congelare» il presunto corpo del reato ovvero l'illecito profitto che Gedi avrebbe conseguito grazie all'abbattimento del costo del personale quantificato dai pm in 38,9 milioni di euro.

 Denari che il giudice ha fatto cercare nelle casse di Gedi (12,8) e di altre aziende della holding (la concessionaria pubblicitaria Manzoni -8,7-; Elemedia -3,6; Gedi news network -6,4-; Gedi printing -7,4-). All'epoca il gruppo ha aperto in tutta fretta un conto ad hoc per evitare l'aggressione ai beni immobili dei quattro principali indagati: l'ex ad del gruppo Monica Mondardini (attuale amministratore delegato del gruppo Cir), il capo delle risorse umane Roberto Moro, il suo vecchio vice Romeo Marrocchio (poi passato al Sole 24 ore), il direttore generale della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi (ora, stando al suo profilo Linkedin, ad e direttore generale di Gedi news network).

Nel decreto di sequestro erano elencati i 101 indagati (due nel frattempo erano deceduti), tra presunti prepensionati a sbafo (80, compresi 16 dirigenti), manager accusati di truffa (17), sindacalisti ritenuti complici (almeno sei, per lo più della Cgil), funzionari Inps sospettati di infedeltà (due) e altre figure minori (due). Dall'avviso di chiusura delle indagini si capisce che le accuse non sono cambiate e adesso tutti i personaggi coinvolti rischiano il processo. Dopo aver ricevuto la notifica gli indagati hanno tempo 20 giorni per farsi interrogare o presentare memorie. 

Ma visto il periodo estivo i termini si sono allungati. Al termine di tutte le notifiche il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Francesco Dall'Olio chiederanno, salvo cataclismi, il rinvio a giudizio per la maggior parte delle persone coinvolte.

Le frodi sarebbero state, stando alla ricostruzione degli inquirenti, fondamentalmente quattro: fittizi demansionamenti di dirigenti a quadro per fargli ottenere i requisiti previsti dalla normativa di settore per i prepensionamenti; illeciti riscatti di annualità (a spese dell'azienda) asseritamente lavorate, per le quali non risultavano i relativi versamenti contributivi (i libretti di lavoro sarebbero stati truccati); utilizzo come collaboratori esterni, nelle stesse società del gruppo, di dipendenti prepensionati in quanto falsamente indicati come esuberi; trasferimenti di personale eseguiti (in svariati casi solo «cartolarmente») per poter accedere «indebitamente» agli scivoli previsti per la sede/società di destinazione.

Nello specifico, «le investigazioni della polizia giudiziaria», sostiene l'accusa, avrebbero consentito di raccogliere «gravi indizi» nei confronti di 83 presunte posizioni illecite, così distinte: 16 dirigenti fittiziamente demansionati; 44 dipendenti che hanno illecitamente riscattato periodi contributivi; 20 dipendenti fittiziamente trasferiti/transitati; tre dipendenti prepensionati che hanno continuato il rapporto di lavoro come collaboratori esterni. 

L'innesco ai prepensionamenti considerati illeciti era stato raccontato agli inquirenti da Michela Marani, responsabile del controllo di gestione del gruppo: «Intorno al 2007/2008, in concomitanza con una progressiva riduzione dei margini del gruppo, gli azionisti De Benedetti (ingegner Carlo e Rodolfo) hanno chiesto all'allora vertice aziendale [] di individuare una serie di interventi, prevalentemente sui costi, volti a preservare la marginalità del gruppo». La decisione finale «di procedere con i prepensionamenti veniva presa direttamente», sempre secondo la teste, «dalla Mondardini».

E in occasione della discussione finale del documento di budget, raccontò la testimone, «era presente anche la proprietà». In quell'occasione sarebbe stato illustrato l'intero piano di ristrutturazioni: compresa la parte sulla riduzione del costo del lavoro, compresi i prepensionamenti. Ma i De Benedetti, che non risultano indagati, non sarebbero stati messi a conoscenza degli escamotage illeciti.

Per i magistrati a inchiodare la Mondardini ci sarebbe un'intercettazione ambientale del 12 luglio 2018, captata all'interno di un ristorante romano. Al tavolo, oltre all'ex ad di Gedi, ci sono anche il direttore generale Corradi, il capo del personale Moro e l'ex direttore di Repubblica Ezio Mauro. L'analisi degli investigatori è questa: «È sembrata proseguire la direzione, di fatto, del gruppo Gedi, da parte della Mondardini, eseguita per il tramite del direttore generale Corradi e del responsabile delle risorse umane Moro, anche dopo la nomina del nuovo amministratore delegato Laura Cioli». È Mondardini a raccontare la genesi del parere pro veritate redatto dal professor Arturo Maresca e depositato insieme alle memoria difensiva di Gedi e della stessa Mondardini.

Stando a quanto riportò ai commensali Mondardini, Maresca avrebbe affermato: «Dottoressa questi sono artifizi... alcuni sono artifizi... perché voi dovevate trasferirli fisicamente». Mondardini continuò a raccontare come si svolse la conversazione con il prof: «Gli ho detto: professore, la magistratura prudente, a tal punto che se non c'è proprio nulla... mobilitano 103 finanzieri?». 

E sempre riferendosi alla chiacchierata con Maresca, aggiunse: «Si siede e mi dice: "Beh certo dottoressa, bisognerebbe dimostrare che tutto questo personale sia trasferito". Ho detto: "Perché, lei crede che io sarei qui se fossero trasferiti realmente?"». Parole che devono essere apparse agli inquirenti come una confessione. 

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per "La Verità" il 4 Gennaio 2022. Al gruppo Gedi sono stati presi in contropiede dal sequestro preventivo del valore di circa 38 milioni di euro ordinato dalla Procura di Roma. Questo nonostante il 21 marzo 2018 avessero subìto una perquisizione e nel decreto fosse già chiaro dove sarebbe andata a parare l'inchiesta per truffa aggravata ai danni dell'Inps. 

Alcuni giornali (tra cui La Verità) raccontarono con precisione la vicenda. Scrissero che il danno presunto per l'ente previdenziale era di una trentina di milioni e spiegarono che decine di dirigenti, durante le ristrutturazioni all'interno del gruppo e della concessionaria pubblicitaria Manzoni, erano stati retrocessi a quadri in modo che potessero andare in cassa integrazione e successivamente essere prepensionati a spese dell'Inps.

Ma nel bilancio 2020 di Gedi, depositato nel maggio 2021, c'è un riferimento all'indagine della Procura di Roma, in cui si spiega perché, tre anni dopo la perquisizione, non fosse ancora stato predisposto nessun tipo di accantonamento. 

Nella nota Gedi ammette di essere stata informata il 21 marzo 2018 «dell'esistenza di un procedimento penale» per l'ipotesi di truffa aggravata in concorso «nei confronti dell'amministratore delegato pro tempore, del direttore centrale delle Risorse umane e del direttore generale Stampa nazionale», nonché della contestazione nei confronti della società e di alcune delle controllate della responsabilità amministrativa ai sensi della legge, «a seguito di illecito commesso da persone fisiche nell'interesse o a vantaggio dell'ente». 

L'appunto prosegue: «L'indagine condotta dalla Procura di Roma riguarda una presunta truffa ai danni dell'Inps in relazione all'accesso, asseritamente irregolare, da parte di alcuni dipendenti nel periodo fra il 2012 e il 2015, alla cosiddetta Cigs (Cassa integrazione straordinaria, Ndr) finalizzato al prepensionamento». 

Ma Gedi spiega anche perché non abbia messo da parte un tesoretto per coprire eventuali sequestri e confische: «Nella convinzione di aver sempre agito nel rispetto della normativa vigente, circostanza che risulta corroborata anche da verifiche interne finalizzate all'esame del rispetto dell'iter procedurale previsto dalla normativa di riferimento e da un autorevole parere legale giuslavorista, la società rappresenta che allo stato attuale non si trova per ragioni oggettive nelle condizioni di potere valutare né le specifiche condotte che asseritamente integrerebbero le ipotesi di reato, né il numero degli ex dipendenti che avrebbero avuto illegittimamente accesso al pensionamento anticipato, né conseguentemente l'eventuale danno erariale risarcibile. 

Non risultano, infatti, pervenuti atti giudiziari e/o notifiche integrative o modificative di quelle ricevute in data 21 marzo 2018. Tale situazione rende pertanto allo stato impossibile la valutazione del grado di rischio e la conseguente quantificazione dello stesso». 

I 38 milioni «congelati» su ordine degli inquirenti capitolini si vanno a sommare a un monte di debiti: 135,7 milioni di euro nel bilancio 2020, in forte crescita rispetto al precedente, che vedeva Gedi in rosso per 106,2 milioni. La fetta più consistente dell'indebitamento, che ammonta a 89,7 milioni, è verso «imprese del gruppo», a fronte degli 80,7 dell'anno precedente. I debiti in conto corrente verso le banche sono di 39,7 milioni, mentre nel 2019 erano di 19,5. Numeri che potrebbero consentire ai pm di fare istanza di fallimento.

L'immobilismo di Gedi è forse collegato al fatto che per quasi 4 anni (dal marzo 2018 al dicembre 2021) l'indagine sembrava finita nel dimenticatoio. Il decreto legislativo 231 del 2001 prevede che gli illeciti amministrativi delle società si prescrivano dopo 5 anni dalla commissione dei fatti. 

Tuttavia il reato non si estingue se, nel frattempo, vengono applicate misure cautelari interdittive o se le persone fisiche che sono accusate del reato presupposto (cioè quello che costituisce la premessa della contestazione alla società) vengono mandate alla sbarra. Il reato di truffa si prescrive in 7 anni e mezzo e per questo, se non ci sarà il rinvio a giudizio entro la prima metà del 2022, il procedimento rischia di finire nel nulla, con conseguente restituzione delle somme sequestrate. 

Sarà per questo che nel bilancio del 2020 Gedi aveva precisato, a proposito della ipotizzata responsabilità amministrativa, che «a tutt' oggi non è stato formalizzato alcun atto nei confronti delle società o di attuali amministratori e dipendenti delle stesse». Anche in caso di prescrizione all'Inps resterà, però, la possibilità di agire in sede civile per avere ristoro dei danni patiti. 

In una lettera, scritta nel novembre 2016 dall'allora direttore generale dell'Inps, Massimo Cioffi, e indirizzata al ministero del Lavoro, erano sintetizzate le ipotesi di irregolarità commesse dal management di Gedi, che sono poi diventate oggetto dell'indagine della Procura capitolina. Nel documento Cioffi spiega che «le segnalazioni riguardano il gruppo editoriale L'Espresso (oggi Gedi, ndr) e nello specifico la società Manzoni Spa (concessionaria del gruppo).

L'azienda, secondo queste segnalazioni, avrebbe posto in essere due operazioni di ristrutturazione, la prima conclusasi nel 2012 e la seconda nel 2015, gestendo nel contempo 117 esuberi, attraverso l'assunzione di personale che aveva maturato requisiti di anzianità (30/35 persone) nei mesi precedenti la richiesta dello stato di crisi, personale proveniente da tutte le società appartenenti al medesimo gruppo e, in taluni casi, proveniente dall'esterno rispetto alle stesse aziende del gruppo».

 Quindi aggiungeva: «Viene, altresì, segnalato che il trasferimento nell'azienda beneficiaria dei trattamenti di Cigs e successivo prepensionamento non era sempre realmente avvenuto». Nella nota Cioffi elenca anche i decreti del direttore generale del ministero del Lavoro che hanno scandito la gestione delle crisi, 7 per la Manzoni e 12 per Gedi.

I decreti a favore della «ristrutturazione» della Manzoni attraversano tre governi: tre con Monti (gennaio 2012-aprile 2013), uno con Letta (dicembre '13), tre con Renzi (aprile '14-ottobre '15). Quelli riguardanti Gedi vengono firmati durante gli stessi gabinetti: due con Monti (febbraio-luglio '12), tre con Letta (maggio-dicembre '13), sei con Renzi (giugno '14-maggio '16). Nel database dell'Inps, nei periodi delle ristrutturazioni aziendali, per la Manzoni risultano 372 «comunicazioni Unilav», che, spiega il sito del ministero, riguardano «instaurazione, proroga, trasformazione, cessazione di un rapporto di lavoro», mentre quelle per Gedi sono 290.

Cioffi conclude: «Dalla documentazione sopra enumerata, pertanto, risulta evidente, per entrambe le aziende, la presenza di un rilevante numero di assunzioni nel periodo precedente l'adozione dei decreti di Cigs e successivo prepensionamento. Eventuali profili di elusione delle norme sarebbero comunque da accertare con una più articolata e dettagliata indagine ispettiva». 

La missiva di Cioffi arrivò al ministero del Lavoro, all'epoca guidato dal renziano Giuliano Poletti. Successivamente ci fu una riunione al dicastero con quattro dirigenti dell'Inps. Che compilarono un'accurata nota. Secondo l'appunto il direttore generale del ministero Ugo Menziani avrebbe, «in via preliminare», rimarcato «con fermezza il preminente ruolo del ministero del Lavoro, in quanto organo vigilante sull'Istituto (l'Inps, ndr)» nell'«azione di vigilanza» e avrebbe «fatto presente che le verifiche, aventi cadenza semestrale [] compiute sul gruppo Manzoni/Espresso []» sino a quel momento «non avevano fatto emergere anomalie». Irregolarità, invece, riscontrate dalla procura di Roma.

Giacomo Amadori per "La Verità" il 5 gennaio 2022. L'inchiesta sui prepensionamenti dei dirigenti di Gedi potrebbe presto diventare una piccola bomba sociale. Infatti la Procura di Roma, dopo aver ordinato il sequestro preventivo di oltre 30 milioni di euro al gruppo editoriale di proprietà degli Agnelli, sarebbe pronta a prelevare all'incirca la stessa somma anche agli ex dipendenti che sarebbero, secondo gli inquirenti, andati in pensione senza averne diritto. 

Una presunta truffa ai danni dello Stato aggravata dal numero dei partecipanti e dall'entità del danno patrimoniale. Nel fascicolo sarebbe contestato ad alcuni indagati anche l'accesso abusivo a sistema informatico. 

La cifra congelata all'azienda corrisponde all'ipotizzato illecito profitto garantito dal non aver dovuto pagare per anni lauti stipendi e contributi ai manager, prima demansionati e anche trasferiti (a volte fittiziamente) in aziende del gruppo che usufruivano della Cigs (cassa integrazione guadagni straordinaria), quindi prepensionati. 

Ma sarebbe pronto un ulteriore provvedimento di sequestro nei confronti dei dipendenti che hanno usufruito della Cigs e percepito pensioni illegittime. La Guardia di finanza starebbe completando i calcoli per stabilire a quanto ammontino esattamente gli assegni erogati a partire a partire dal 2012 a decine di dipendenti di Gedi e in particolare della controllata concessionaria pubblicitaria Manzoni.

Tra il 2012 e il 2015 il gruppo realizzò due costose (per lo Stato) ristrutturazioni aziendali, quando la proprietà era in mano alla famiglia De Benedetti e il presidente era l'ingegner Carlo. Nel 2020 la casa editrice è passata agli Agnelli. In base alle ultime stime la truffa ammonterebbe a circa altri 30 milioni di euro. Basti pensare che ci sono pensionati che percepiscono 7.000 euro al mese. 

Fonti della Verità riferiscono che le persone finite nel mirino sono una settantina e che buona parte di queste rischiano di subire il prelievo forzoso. Gli ex dipendenti ritenuti consapevoli dell'uso distorto degli ammortizzatori sono stati iscritti sul registro degli indagati, come detto, per il concorso nella truffa aggravata. 

Si tratterebbe in particolare di ex dirigenti demansionati, ma dovrebbero far parte della lista nera anche i lavoratori che hanno riscattato periodi contributivi in modo illecito. 

Gli investigatori inizieranno a sentire i pensionati sotto inchiesta nei prossimi giorni. A ognuno di loro verrà sequestrata la quota percepita dell'intera somma erogata, ma qualora questi non fossero capienti, gli inquirenti sarebbero pronti a cercare il denaro sottratto indebitamente allo Stato sui conti di coloro i quali hanno stipulato gli accordi per i prepensionamenti, che verrebbero obbligati in solido.

Stiamo parlando dei manager Gedi (almeno tre sono indagati) e dei sindacalisti che hanno firmato gli accordi per i prepensionamenti, conoscendone bene la sostanza. Come fa chi difende i diritti dei lavoratori ad accettare un demansionamento del proprio assistito? È stata seguita la procedura di conciliazione davanti all'ispettorato del lavoro, passaggio praticamente obbligato quando un dipendente va a stare peggio? 

Se ciò non fosse accaduto sarebbe l'ulteriore prova di un patto scellerato tra azienda, sindacato e lavoratori. Del resto se accettare di essere «degradati» per mantenere il posto in un'azienda in crisi è comprensibile, farsi trasferire (a volte solo sulla carta) da società sane a ditte in difficoltà e declassare per poter usufruire della cassa integrazione e della pensione anticipata è considerato dagli inquirenti un gesto di correità.

Rischiano qualcosa anche i dirigenti Inps che hanno ratificato l'accordo ed erogato le pensioni. Non è chiaro se a livello penale o erariale nel caso in cui la Corte dei conti dovesse riconoscere un danno alle casse dell'Inps causato da dolo o colpa grave. 

Ricordiamo che nell'aprile 2012 all'Inps arriva la prima denuncia anonima sul presunto comportamento scorretto di alcuni manager dell'Istituto, i quali avrebbero inserito contributi mai versati a favore di dipendenti del gruppo L'Espresso, all'epoca guidato dalla famiglia De Benedetti, per favorirne il prepensionamento.

Dopo diversi solleciti da parte delle direzioni centrali competenti l'allora direttore regionale del Lazio, Gabriella Di Michele, rispose che «il controllo effettuato a livello amministrativo sulle posizioni dei dipendenti del gruppo l'Espresso è risultato regolare e, pertanto, non sembrano esserci elementi tali da suffragare la segnalazione anonima». 

Anche il direttore generale degli ammortizzatori del ministero del Lavoro Ugo Menziani nel novembre 2016 avrebbe fatto presente, a detta di quattro dirigenti dell'Inps, durante una riunione sul tema, che «le verifiche, aventi cadenza semestrale [] compiute sul gruppo Manzoni/Espresso []» sino a quel momento «non avevano fatto emergere anomalie».

Successivamente la vigilanza di Inps e Inail sono confluite nell'ispettorato del lavoro ed è stato proprio quest' ultimo a dare il via all'inchiesta inviando un'informativa alla Procura in cui denunciava l'ottenimento da parte dei dirigenti di Gedi e Manzoni del beneficio del prepensionamento mediante la fruizione di periodi di Cigs nel settore dell'editoria (non spettante alla categoria dei dirigenti) mediante «l'artificioso demansionamento a livello di "quadro"». 

Le indagini sono state condotte proprio con il supporto dell'ispettorato e hanno fatto emergere irregolarità relative anche ad altri dipendenti «trasferiti/transitati da sedi/società del gruppo non aventi diritto al particolare ammortizzatore sociale a sedi/società beneficiarie dello stesso». 

Il 21 marzo 2018 uomini del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza hanno eseguito decreti di sequestro di documentazione presso le sedi di nove società appartenenti o appartenute al gruppo Gedi, nonché presso due sedi dell'Inps di Roma.

Le attività vennero eseguite a Milano, Livorno, Udine, Bolzano e nella Capitale. Successivamente i militari hanno proceduto al sequestro di ulteriore documentazione presso la sede capitolina del gruppo Gedi e ha notificato un ordine di esibizione finalizzato all'acquisizione presso gli uffici del ministero del Lavoro e delle politiche sociali di documentazione utile alla prosecuzione delle indagini. 

In tale occasione le Fiamme gialle non diramarono nessuna comunicazione agli organi di stampa, una decisione del tutto inusuale.

A quanto risulta alla Verità la notizia venne gestita a livello mediatico direttamente dalla Procura (all'epoca guidata da Giuseppe Pignatone, mentre il fascicolo era ed è rimasto in mano all'aggiunto Paolo Ielo e al pm Francesco Dall'Olio) e, dopo le perquisizioni del marzo 2018, uscirono solo pochi e sintetici lanci di agenzia. Il decreto di sequestro non circolò nelle redazioni. La palla fu lasciata a Gedi costretta a diffondere una nota essendo allora società quotata in Borsa. 

Ma alla vigilia di questo Natale è andata persino peggio: non solo non sono stati diffusi comunicati riguardanti il sequestro preventivo monstre di oltre 30 milioni di euro, ma non è uscita neppure un'indiscrezione, sino allo scoop della Verità del 31 dicembre.

Nulla di nulla. E questo buco nero informativo non è addebitabile solo alla riforma Cartabia che obbliga le Procure a contingentare le informazioni da dare ai giornali, visto che nelle stesse ore sui media sono apparse cronache dettagliate su altri sequestri. 

Qui al contrario è complicato persino risalire alla data in cui sia stato eseguito il sequestro. Fonti qualificate riferiscono che sarebbe avvenuto il 18 o il 19 dicembre. Ma si trattava di un week end. Se fosse vero ci troveremmo di fronte a un'altra scelta singolare. Perché la Procura di Roma è così blindata sul sequestro milionario a un potente gruppo editoriale? 

C'entrerà quel Sistema descritto dall'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati Luca Palamara nel suo libro? Leggiamone un passo: «Magistrati e giornalisti - lo dico anche per esperienza personale - si usano a vicenda, all'interno di rapporti che si costruiscono e consolidano negli anni.

Il giornalista vive di notizie, ogni testata ha una sua linea politica dettata dall'editore, che ha precisi interessi da difendere. Il pm li conosce bene, e sa che senza quella cassa di risonanza la sua inchiesta non decollerà, verrebbe a mancare il clamore mediatico che fa da sponda con la politica». Fatto sta che la notizia sul gruppo Gedi è stata oscurata. Ma il black out del sistema informativo si potrebbe spiegare anche diversamente. 

La risposta è forse in un nostro articolo dell'ottobre del 2018, quando svelammo che l'audit interno dell'Inps aveva preparato una relazione conclusiva sul danno provocato all'istituto dall'erogazione di circa 3,8 milioni di euro di assegni pensionistici non dovuti a ex poligrafici e altri lavoratori del settore editoriale con la complicità di una decina di funzionari dell'ente.

E l'indagine aveva coinvolto non solo dipendenti del gruppo Gedi, ma anche di altre testate. Inoltre nel 2016 la Dg dell'Inps Di Michele aveva condizionato il proprio benestare a una relazione destinata al ministero del Lavoro sul caso Gedi all'allargamento dell'ispezione agli altri gruppi editoriali. 

Partirono così le verifiche istruttorie per Sole24ore e Rcs che non sappiamo, però, se abbiano portato all'apertura di fascicoli penali. Ma il rischio che il sistema dei prepensionamenti illeciti non coinvolga solo il gruppo Gedi è un'ipotesi avvalorata dalla cappa di silenzio che i principali organi d'informazione hanno fatto calare sulla notizia del sequestro. 

Fabio Amendolara e François de Tonquédec per la Verità il 6 gennaio 2022. C'è un documento riservato trasmesso nel 2016 dall'allora Dg dell'Inps Massimo Cioffi al ministero del Lavoro che, già cinque anni fa, svelava artifici della truffa ai danni dello Stato contestata dalla Procura di Roma al gruppo editoriale Gedi. In quel documento, salvato come «Nota informativa su Cigs e prepensionamenti Gruppo editoriale L'Espresso», insieme alla ricostruzione di tutte le segnalazioni arrivate all'istituto, erano contenute le storie di sette dirigenti della casa editrice, in particolare del comparto radiofonico e della concessionaria pubblicitaria, la Manzoni. Quello che sconcerta è che questi manager, alcuni dopo essere stati trasferiti da società sane a società in crisi e dopo essere stati demansionati per poter usufruire della cassa integrazione, sono stati mandati ai giardinetti (si fa per dire) con la qualifica di grafico, una delle categorie nel settore editoriale più facilmente rottamabili. I sette sono andati tutti in pensione tra i 53 e i 61 anni, ma con una maggioranza di cinquantenni (due avevano 55 anni, uno 57 e uno 58).Insomma un bel giochino per scaricare sulle casse dello Stato i costi dei dirigenti assunti dall'azienda all'epoca guidata dalla famiglia De Benedetti. 

Oggi a pagare il conto sono gli Agnelli: infatti la Procura ha sequestrato al gruppo Gedi oltre 30 milioni di euro ai sensi del decreto legislativo 231 del 2001, quella che punisce la responsabilità amministrativa delle società. La cifra congelata all'azienda corrisponde all'ipotizzato illecito profitto garantito dal non aver dovuto pagare per anni lauti stipendi e contributi ai manager, prima demansionati e anche trasferiti (a volte fittiziamente) in aziende del gruppo che usufruivano della Cigs (cassa integrazione guadagni straordinaria), quindi prepensionati.

Il recupero. Ma presto potrebbero pagare il conto proprio i prepensionati a cui la Procura è pronta a sequestrare le somme illecitamente percepite. E per loro si tratterebbe di un vero è proprio salasso.

C'è, infatti, chi intasca da anni assegni da 7.000 euro al mese. Gli ex dipendenti ritenuti consapevoli dell'uso distorto degli ammortizzatori sono stati iscritti sul registro degli indagati per il concorso nella truffa in danno dello Stato aggravata dall'entità del danno patrimoniale. 

La maggior parte dei prepensionati sotto inchiesta sono ex dirigenti «degradati», ma dovrebbero far parte dell'elenco anche i lavoratori che hanno riscattato periodi contributivi in modo ritenuto illecito.Ma vediamo le storie dei sette dirigenti finiti nella lista di Cioffi.Ad esempio, per A.R., nato nel 1958 e dipendente della Manzoni, la nota racconta che nel «flusso Uniemens (denuncia obbligatoria inviata mensilmente all'Inps dai datori di lavoro del settore privato che svolgono le funzioni di sostituti d'imposta, ndr)» risulta «nell'agosto 2011 un cambio di qualifica da dirigente a quadro che non risulta in Unilav».

Due anni dopo, nel 2013, l'uomo percepisce per una settimana, dal 24 al 31 agosto, la Cigs. Dall'1 settembre, per A.R. entra il vigore il suo prepensionamento, chiesto «come grafico», che l'ex dirigente della Manzoni aveva richiesto il 6 agosto.Il Cda Per B.R., nata nel 1957, e che risulta anche essere stata, per un breve periodo, nel cda di Gedi e in quello della stessa Manzoni invece i tempi sono più stretti. Il cambio di qualifica, sempre da dirigente a quadro, risale al maggio 2014. Sei mesi dopo, il 14 novembre, l'ex consigliere di amministrazione ed ex dirigente presenta «domanda di prepensionamento come grafico», che viene accolta con decorrenza dal primo gennaio 2015. Ma il caso più curioso è forse quello di D.U., approdato alla Manzoni come quadro il primo maggio 2014, proveniente da un'altra società del gruppo, la Elemedia, che controlla le tre radio del gruppo Gedi: Radio capital, M2O e Radio deejay, dove sembra che l'uomo si occupasse di programmazione. D.U. è l'unico degli ex dirigenti a non aver ottenuto il prepensionamento. La nota di Cioffi infatti su di lui dice: «Ha percepito dal 21 maggio 2015 al 28 maggio 2015 (data di licenziamento) Cigs.

In data 26 febbraio 2015 ha presentato la domanda di prepensionamento come grafico, ma non è stata concessa». Se degli ex dirigenti citati finora non c'è traccia di curriculum disponibili in rete, gli altri invece raccontano la loro storia. A.S., classe 1960, dirigente Manzoni che dalla sua pagina Linkedin risulta laureato in economia, viene demansionato a quadro nel gennaio 2014, per poi andare in pensione anticipata, «come grafico», il primo luglio 2015, dopo aver trascorso i dieci giorni precedenti in Cigs. Per il periodo da quadro Manzoni il suo profilo Linkedin non riporta nessun incarico, con un salto dal precedente incarico dirigenziale, che risulta terminato a dicembre 2013, a quello successivo al pensionamento anticipato.

A soli 53 anni, essendo nato nel 1960. E forse non è un caso se, pur formalmente pensionato, l'uomo è l'unico che risulta essersi ricollocato rapidamente come manager. Secondo il social network infatti A.S. risulta ricoprire, da settembre 2015 un incarico di Direttore relazioni esterne e istituzionali di un importante gruppo di centri scolastici dal modello educativo ispirato al pensiero di San Josemaría Escrivá, fondatore dell'Opus Dei. le Tracce social M.B. da Novara, invece, su Linkedin si presenta subito come «pensionato Inps» dal 2016.

Ha lasciato il mondo del lavoro come «grafico». Ma stando al profilo professionale che ha affidato alla rete è stato in Manzoni per 15 anni e 11 mesi. Era entrato nel 2000 nel colosso della pubblicità, dopo esperienze da credit manager alla Gft spa e alla Barilla. Sulla piattaforma per professionisti non risulta attivo da tempo. E ha solo 29 collegamenti. 

Al pensionamento deve essersi ritirato, perché anche su Google non ha lasciato tracce. S. M., classe 1962, si presenta come consulente di vendita di Teamradio. L'esperienza precedente è nella Manzoni come direttore vendite (occupandosi di budget control dei piani di vendita, target di divisione e target forza di vendita. 

Ma anche di accordi quadro centrali tra media e clienti). Sul suo profilo Linkedin dice di aver studiato economia alla Cattolica. Entrato in Manzoni nel 2009 (dalla quale è uscito come grafico), si è sempre occupato di pubblicità: dal 2006 al 2009 per la Publishare e prima ancora era direttore clienti di Radio e Reti. Nel 1996, con una socia e 2 milioni e mezzo di lire pro capite versati, ha aperto anche un'impresa, la New media sas con sede a Settimo Milanese. le conferenze M. S., 68 anni, già direttore commerciale della divisione Radio e Tv di Manzoni, nelle informazioni di Linkedin si presenta come in pensione. E omettendo che la fuoriuscita dal colosso pubblicitario è da grafico, dettaglia le sue esperienze professionali: «Entrato nel mondo del lavoro dopo il diploma e il servizio militare sin dal primo incarico nella rete di vendita».

Dopo sette anni è già direttore commerciale di Sper, concessionaria radio del Gruppo Espresso (poi sostituita da Manzoni). Poi in Spe e Radio e reti, per rientrare in Manzoni nel 2009 come direttore commerciale per Radio e Tv. Ma alla fine scrive: «Dopo una breve parentesi come amministratore delegato di Publishare (storica e importante venditrice di spazi pubblicitari delle Tv locali italiane che trionfò con Michele Santoro, ndr), oggi in pensione». Anche se per l'Inps è un grafico pensionato, va in giro per accademie per conferenze e per incontrare gli studenti. Per i suoi 30 anni di storia tra le radio, ha tenuto una conferenza su «vita e opere di un direttore commerciale radiofonico». Nel frattempo ha avuto il tempo di aprire e chiudere ben due società: la Max media sas e la Gamma media. 

E ha fatto parte di altre quattro imprese: la Audiradio srl, la C&g srl, la Gamma media pubblicità e la Publishare. Contattato dalla Verità, ha spiegato di aver «sottoscritto gli accordi nelle sedi competenti». Poi, seccato, ha chiuso il discorso: «Preferisco non parlarne». 

Dago FLASH il 6 gennaio 2022. CARLO DE BENEDETTI, IN MERITO ALLA VICENDA INPS, COMUNICA A DAGOSPIA CHE "NON AVEVA DELEGHE OPERATIVE ED ERA TOTALMENTE ESTRANEO ALLA VICENDA, DI CUI VENNE A CONOSCENZA SOLO DOPO LA VISITA ISPETTIVA"

Giacomo Amadori per "La Verità" il 7 gennaio 2022. Le indagini presso il gruppo editoriale Gedi (che hanno portato a un sequestro preventivo da oltre 30 milioni di euro) sono una sorta di progetto pilota che presto sarà seguito da ulteriori accertamenti da parte degli specialisti dell'Inps e dell'Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) in altri gruppi editoriali, a partire da Rcs e gruppo Sole 24 ore.

Del resto le investigazioni della Procura capitolina sono partite nel 2018 proprio da una segnalazione dell'Inl che aveva riscontrato un'ipotetica truffa ai danni dello Stato aggravata dall'entità del danno patrimoniale per decine di prepensionamenti e accessi alla Cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs), attraverso trasferimenti e demansionamenti fittizi, di cui approfittarono una ventina di dirigenti e una cinquantina di dipendenti che non avevano diritto al beneficio.

Alla vigilia delle feste natalizie, a quattro anni dalle prime perquisizioni in nove aziende del gruppo, il Gip ha autorizzato il congelamento del tesoretto. Adesso potrebbe arrivare la richiesta di rinvio a giudizio per i dirigenti Gedi che risultano indagati. I nomi di tre di loro sono stati confermati alla Verità nei giorni scorsi: si tratta del direttore delle risorse umane Roberto Moro, del capo della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi e dell'ex amministratore delegato Monica Mondardini, rimasta con la famiglia De Benedetti come ad della Cir Spa dopo che Gedi è stata ceduta alla Exor degli Agnelli.

Gli inquirenti dovrebbero a breve iniziare a interrogare gli ex lavoratori considerati complici della presunta truffa e sequestrare loro le pensioni illecitamente percepite.Fonti interne dell'Inps ci riferiscono che l'istituto e l'Inl stanno attendendo la conclusione delle indagini preliminari sui presunti imbrogli di Gedi e alla fine di questa fase di osservazione, quando la situazione sarà più definita, dovrebbero partire ulteriori ispezioni su Milano, e Torino nei confronti di altre case editrici, come Rcs (che edita, tra le altre testate, Il Corriere della sera) e il Sole 24 Ore.

Il nuovo capitolo si aprirà nel 2022, quando gli ispettori avranno cognizione di quali saranno stati gli ulteriori accertamenti effettuati dalla Procura e dalla Guardia di finanza e quindi avranno ulteriori elementi per fare controlli ancora più mirati, anche in considerazione delle contestazioni che avranno trovato accoglimento in Tribunale.

Con un precedente tanto significativo e il conseguente ulteriore bagaglio di conoscenze gli ispettori andranno nelle varie aziende a prendere visione della documentazione d'interesse, di quelle che una fonte definisce «le carte giuste». In questa fase due se gli ispettori riscontreranno reati avranno l'obbligo di segnalarli alle Procure eventualmente interessate, altrimenti concluderanno il lavoro con un verbale di addebito laddove saranno riscontrate (quasi sicuramente, ci dicono, alla luce dei controlli preliminari) delle irregolarità dal punto di vista contributivo.

Ieri Il Fatto quotidiano ha annunciato che ci sarebbe già un fascicolo aperto sui prepensionati di Rcs a Milano. Ma le nostre fonti escludono che l'Inps abbia completato accertamenti in Lombardia e che quindi abbia fatto segnalazioni in Procura, che vengono trasmesse solo all'esito delle ispezioni. Anche dalla Finanza hanno confermato che non ci sarebbero fascicoli su Rcs. Il procuratore meneghino facente funzioni Riccardo Targetti ha chiuso il discorso in serata: «Ho controllato con i miei aggiunti. Allo stato non c'è nessun procedimento contro noti o ignoti, né nessuna indagine in corso su Rcs. Non posso escludere che ci sia da qualche parte un esposto parcheggiato a modello 45, ma certo non c'è niente di operativo». 

Anche perché Inps e Inl non hanno trasmesso i loro accertamenti. Le indagini sui prepensionamenti che hanno portato al sequestro milionario di dicembre sono partite da una mail arrivata all'Inps nel maggio del 2016.

Allora G. D., controller di Elemedia, la società che raggruppa le emittenti radiofoniche del gruppo Gedi scrive all'allora presidente dell'Inps Tito Boeri questa mail: «Poniamo per assurdo che qualche azienda nel paese dei furbi dicesse che ha oggi 3 esuberi di personale, però 1 dei 3 è stato assunto ieri proprio per poter usufruire di vantaggiosissimi ammortizzatori sociali, qualcosa del tipo pensione anticipata o cassa integrazione. Guarda caso questo assunto ieri, arriva (ironia della sorte?) da una azienda perfettamente in utile dello stesso gruppo. Questa potrebbe essere considerata una truffa?». 

Quattro anni prima un anonimo aveva segnalato altre anomalie, ma l'allora direttore dell'Inps della Lazio, Gabriella Di Michele, aveva riferito che «il controllo effettuato a livello amministrativo sulle posizioni dei dipendenti del gruppo L'Espresso (oggi Gedi, ndr) è risultato regolare e, pertanto, non sembrano esserci elementi tali da suffragare la segnalazione anonima».

Ma torniamo a G. D.. Un mese dopo la sua prima mail svela a Boeri che la sua ipotesi «per assurdo» è ben radicata nella realtà: «Presto farò formale esposto alla Guardia di finanza, ma sono fiducioso che lei farà le dovute verifiche e che procederà senza esitazione, a differenza di quanto ha fatto la Cgil, per riportare giustizia». 

Quando viene informato il Dg Massimo Cioffi ordina l'apertura di un tavolo tecnico sulla questione, che viene avviato a settembre; i dirigenti coinvolti decidono di informare il ministero del Lavoro subito dopo aver fatto partire l'ispezione. A novembre, di fronte alla bozza di relazione da inviare al governo, tutti gli altri dirigenti coinvolti danno il loro assenso per iscritto tranne la Di Michele, la stessa del «controllo regolare» del 2012, la quale offre un «concordo» informale e condiziona il suo benestare a un allargamento dell'ispezione agli altri gruppi editoriali.

Cioffi accoglie la proposta di estendere l'attività. Dopo qualche giorno viene dato mandato ufficiale di controllare il gruppo L'Espresso, ma contestualmente partono le verifiche istruttorie nei confronti di Rcs e Sole 24 Ore. 

Intanto ieri Carlo De Benedetti ha fatto sapere al sito Dagospia che ha ripreso i nostri articoli sull'affaire Gedi, che lui «non aveva deleghe operative ed era totalmente estraneo alla vicenda, di cui venne a conoscenza solo dopo la visita ispettiva». Come abbiamo già scritto, all'epoca dei fatti, De Benedetti era presidente di quello che allora si chiamava Gruppo editoriale L'Espresso (l'attuale denominazione risale al 2017, anno in cui, De Benedetti ha lasciato la presidenza al figlio Marco), ma nessuno lo ha mai coinvolto nella vicenda giudiziaria.

Ai figli De Benedetti aveva già ceduto, nel 2012, anche le quote di controllo delle attività di famiglia, gestite attraverso la Cir Spa. Infine ieri abbiamo raccontato alcune storie di manager della concessionaria pubblicitaria del gruppo Gedi demansionati e mandati in pensione come grafici. Su uno di questi ex dirigenti ci è arrivata una segnalazione anonima via email. D. U., approdato alla Manzoni come quadro il primo maggio 2014, proveniente da Elemedia, dove sembra che l'uomo si occupasse di programmazione radiofonica, è l'unico degli ex dirigenti a non aver ottenuto il prepensionamento nella tornata del 2015, quella sotto esame della Procura capitolina. 

Ma stando all'anonimo, D.U. «non riuscì a uscire in quel prepensionamento, ma in quello successivo sì!». Quindi il nostro lettore commenta: «Diciamo che senza pudore è stato reinserito il suo nome nel prepensionamento dell'ottobre 2020». Il misterioso informatore aggiunge anche: «Adesso dico, se il suo trasferimento e contestuale demansionamento nel 2015 era una montatura, perché riprovarci nel 2020?». L'anonimo, che sembra avere le idee chiare, una risposta se l'è data: «Erano certi che sarebbe stato tutto insabbiato». Ipotesi che non si è verificata. 

Fabio Amendolara e François De Tonquédec per “La Verità” il 10 gennaio 2022.

Cominciano a saltare fuori i primi nomi di chi risulta coinvolto nelle attività investigative sui prepensionamenti con demansionamento messi a punto dal gruppo Gedi. Tra questi ci sono personaggi di primo piano dell'azienda un tempo guidata dalla famiglia De Benedetti. 

Gianni Dotta, per esempio, un tempo vicinissimo all'avvocato Gianni Agnelli: una vita trascorsa nel mondo dei giornali come manager. La Stampa, Il Secolo XIX, Il Tirreno e poi il gruppo editoriale L'Espresso. Sul sito web della Nexto, associazione che si occupa dello sviluppo sociale ed economico di Torino, si presenta come «consulente in ambito gestionale, organizzativo e della comunicazione».

Ma anche come «curioso della vita e del mondo, insaziabile lettore» e, infine, «velista». In foto si mostra in una posa da vero manager d'altri tempi, giacca scura e cravatta. Su Linkedin, invece, elenca le sue esperienze professionali che abbracciano un arco temporale che va dal 1978, quando era addetto alle relazioni sindacali della Fiat (probabilmente non un caso in questa storia), al 2013, quando è arrivato a ricoprire il ruolo da consigliere delegato del quotidiano Il Tirreno e altri incarichi nelle società del gruppo Espresso. 

Contattato dalla Verità, dice subito di non aver ricevuto nulla che riguarda l'inchiesta. E se in prima battuta afferma che «non saprebbe cosa dire», alla fine taglia corto con un «non ho nulla da dichiarare sull'argomento». 

Dotta adesso, come una altra ventina di manager del gruppo e una cinquantina di dipendenti, rischia di dover restituire la propria quota dei circa 30 milioni di euro che l'Inps avrebbe erogato in pensioni giudicate dai pm illegittime. Intanto, dalle carte recuperate dalla Verità, emerge che il piano del 2013 per i prepensionamenti all'interno della Manzoni, la concessionaria di pubblicità del gruppo, era stato benedetto da tutti i sindacati. 

Il «verbale di accordo» sottoscritto al ministero del Lavoro il 5 agosto di quell'anno infatti oltre alla firma del rappresentante della società contiene anche quelle degli esponenti di «Slc Cgil, Fistel Cisl, Uilcom Uil nazionali», che approvarono «l'ammissione di un massimo di 53 unità lavorative al trattamento di pensionamento anticipato», riassunte in un piano che, per le sedi di Genova, Udine e Napoli, prevedeva l'esubero di tutto il personale.

L'inchiesta della Procura di Roma sta ricordando al mondo come i vertici del gruppo Gedi, progressisti e illuminati fuori, quando si trattava di confezionare Repubblica, Espresso e giornali locali come Il Tirreno e Il Piccolo di Trieste, fossero duri e spregiudicati dentro, quando si trattava di gestire i dipendenti con lo stesso piglio sabaudo di casa Fiat, da dove casualmente sono sempre arrivati tutti i top manager del gruppo editoriale fondato da Eugenio Scalfari e dal principe Carlo Caracciolo (cognato di Gianni Agnelli).

Un colosso finito prima nelle fauci di Carlo De Benedetti (1990) dopo la famosa guerra di Segrate con Silvio Berlusconi, per poi ritornare nelle mani degli Agnelli Elkann (fine 2019). L'inchiesta sui presunti falsi prepensionamenti svelata dalla Verità, costata alla Gedi il sequestro cautelativo di oltre 30 milioni, al momento riguarda solo il periodo 2012-2015, quando gli azionisti di riferimento del gruppo L'Espresso erano l'Ingegnere di Dogliani e i figli, il capo del personale era Roberto Moro, il direttore generale della divisione Stampa nazionale era Corrado Corradi, il capo della concessionaria di pubblicità Manzoni (che ha registrato gran parte dei prepensionamenti farlocchi) era Massimo Ghedini.

Moro e Corradi sono rimasti ai loro posti anche con il passaggio di Gedi alla Exor di John Elkann. Il capo del personale era entrato nel gruppo editoriale nel 2000, dopo 15 anni al personale della Fiat. Corradi era arrivato nel 1991 dalla Stampa di Torino. Entrambi, al pari di un altro uomo Fiat come Ezio Mauro, erano stati assunti dall'allora ad Marco Benedetto, a sua volta ex capo ufficio stampa della casa automobilistica e poi amministratore delegato del quotidiano torinese.

Benedetto è stato per anni non solo un mastino, ma anche un abile trait d'union tra Caracciolo e De Benedetti, diversissimi tra loro e con il primo accusato dal secondo di essere uno spendaccione troppo innamorato dei giornalisti. Benedetto, classe 1945, di editoria capiva parecchio, ma nel 2008 fu sostituito con un manager delle assicurazioni come Monica Mondardini, che era quindi il numero uno dell'Espresso all'epoca dei prepensionamenti e dei demansionamenti sospetti.

Chi tra il 2000 e il 2020 ha avuto l'ardire di fare il sindacalista nel gruppo ha sperimentato sulla propria pelle che cosa volesse dire trattare con manager forgiati alla scuola muscolare della Fiat di Cesare Romiti e nella palestra del sorridente cinismo dell'Avvocato. 

Durante l'era in cui era la famiglia De Benedetti ad avere in mano le redini del gruppo editoriale, con la nomina della Mondardini, nonostante bilanci sempre in utile ci fu una raffica di prepensionamenti di manager, giornalisti, grafici, venditori di pubblicità. I sindacati interni avevano pochi spazi di manovra perché quando le vertenze s' inasprivano venivano immediatamente richiamati all'ordine dai loro vertici nazionali.

A cominciare, come ci ha rivelato un ex sindacalista del gruppo, da Franco Siddi, ex presidente della Fnsi, poi deputato del Pd e naturalmente giornalista del gruppo L'Espresso in perenne distacco sindacale. Oppure dai capi del sindacato dei poligrafici, la cui disastrata cassa previdenziale (il fondo Casella) veniva periodicamente «aiutata» con operazioni immobiliari.

Tra i giornalisti che si candidavano per i vari comitati di redazione (il sindacato interno dei giornalisti) del gruppo c'era la poco edificante consuetudine di entrare con un grado e uscire dal mandato sindacale con un altro.

Più alto, ovviamente. E negli anni sui quali indagano ora magistratura e Guardia di finanza, i giornalisti più giovani del gruppo hanno assistito senza quasi fiatare allo spettacolo di decine colleghi più anziani, spesso inviati o vicedirettori, che uscivano con ricchi scivoli a spese della cassa dei giornalisti (l'Inpgi, nel frattempo saltata per aria e salvata dall'Inps) a soli 55-56 anni, per poi rientrare come collaboratori a fare le stesse identiche cose che facevano da dipendenti.

Chi ha vissuto in prima linea la gestione del personale di quegli anni ricorda che la madre di tutti i guai fu il ritiro della quotazione in Borsa di Kataweb, nel 2000, al termine di una lotta di potere tutta interna al gruppo L'Espresso. All'epoca di Kataweb, vinse il Partito Fiat che oggi, curiosamente, è sotto inchiesta per la gestione del personale. 

Unicredit comprò prima della quotazione abortita il 5 per cento del portale Internet per 300 miliardi di lire, ovvero stimando la società la folle cifra di 6.000 miliardi, a fronte della realizzazione di una trentina di portali locali con il marchio Vivacity. Strangolata nella culla Kataweb, con i 300 miliardi di Unicredit, Mondardini, Corradi e Moro coprirono le perdite di Kataweb e la piazzarono dentro Elemedia insieme alle radio del gruppo, in modo da dedurre le perdite del portale Internet dai ricchi guadagni delle radio e abbattere anche l'imponibile.

E proprio un dipendente di Elemedia, per una sorta di contrappasso, è quello che in una mail inviata all'allora presidente dell'Inps Tito Boeri ha svelato il presunto giochetto dei prepensionamenti arrivati con demansionamenti mirati di dirigenti e trasferimenti per poter avere accesso alla cassa integrazione. Adesso, il tema dei prepensionamenti eccellenti è destinato a esplodere laddove, a fronte di poche grandi firme prepensionate, e riprese in collaborazione con articoli strapagati, nei giornali locali si pagavano e si pagavano i collaboratori pochi euro a pezzo. Il resto dell'italian job di Repubblica è gravato sulle spalle di Inps e Inpgi, nel silenzio pressoché assoluto di dipendenti e sindacati.

Fabio Amendolara e François De Tonquédec per "la Verità" l'11 gennaio 2022.

La gola profonda che ha fatto nascere l'inchiesta sui prepensionamenti di Gedi, il gruppo editoriale oggi di proprietà di Exor, la cassaforte degli Agnelli/Elkhan sembra essersi trasferita in Brasile. 

Dove ha preso la residenza nella città di Fortaleza e dove, allo stesso indirizzo di casa, ha fondato, nel 2018, una società di servizi insieme ad una cittadina brasiliana. La Verità si è messa sulle sue tracce. 

E ha scoperto che Giovanni Dell'Acqua, controller di Elemedia, la società che raggruppa le emittenti radiofoniche del gruppo Gedi, è la fonte che aveva inviato nel 2016 all'allora Dg dell'Inps Massimo Cioffi le notizie poi confluite in un documento che il top manager dell'istituto previdenziale trasmise al ministero del Lavoro. 

Una nota che, già cinque anni fa, svelava artifici della truffa ai danni dello Stato contestata dalla Procura di Roma al gruppo editoriale Gedi. Nel file erano contenute le storie di sette dirigenti della casa editrice, in particolare del comparto radiofonico e della concessionaria pubblicitaria, la Manzoni.

Di cui alcuni dopo essere stati trasferiti da società sane a società in crisi e dopo essere stati demansionati per poter usufruire della cassa integrazione, sono stati mandati ai giardinetti (si fa per dire) con la qualifica di grafico, una delle categorie nel settore editoriale più facilmente rottamabili.

Il lavoro in Italia

Le cose in Italia, dopo lo strappo con Gedi, non devono essere andate nel migliore dei modi per Dell'Acqua, visto che tra il 2018 e il 2020 ha dichiarato circa 5.000 euro di reddito in tutto. Dall'8 maggio 2016 al 19 aprile 2018, peraltro, risultano contributi figurativi Naspi, segno che ha percepito l'indennità mensile di disoccupazione.

Il suo rapporto di lavoro all'interno di Elemedia Spa, cominciato l'1 gennaio 2006, si è concluso proprio a maggio, il 31 per l'esattezza. E lui proprio a maggio si è trasformato nella gola profonda dell'inchiesta, scrivendo a Boeri, alla Cgil e a Report. Quello con Elemedia è stato un ritorno nel mondo della pubblicità e dei media. Perché tra il 2013 e il 2015 è stato il rappresentante legale della My7lives limited, con sede in Purley place Islington Londra, azienda del settore dei viaggi e dell'intrattenimento. 

Prima, invece, dal 2002 al 2006 è stato dipendente di Rcs quotidiani Spa. A Milano non ci sono tracce ormai da tempo. I vicini dei quattro appartamenti di sua proprietà, forse per discrezione, dicono addirittura di non ricordarselo. Così come non ricordano nei parcheggi attorno agli appartamenti la sua Opel Corsa o il ciclomotore che usava come mezzi di locomozione.

Nel luglio del 2021, però, era in patria, visto che a Seregno ha denunciato ai carabinieri lo smarrimento del portafogli. Ma c'è anche un'altra denuncia recente: il 29 luglio 2018, ovvero, quando uscirono le prime notizie sull'esposto inviato anche all'Inps, qualcuno entrò nel suo appartamento. Dell'Acqua si presentò in Questura a Milano per mettere nero su bianco di aver subito un furto molto sinistro. 

Anche il gruppo Sole 24 Ore, almeno nel periodo tra il 2103 e il 2016, avrebbe utilizzato in modo irregolare la cassa integrazione straordinaria e i prepensionamenti dei suoi dipendenti, con il pieno consenso dei sindacati e alle spalle degli enti previdenziali. E' quanto emerge dai bilanci del giornale della Confindustria consultati dalla Verità, oltre che dagli ultimi accordi interni per sfoltire le redazioni.

Meccanismi molto simili a quelli scoperti dall'Inps per il gruppo Espresso ma a differenza dei concorrenti di Repubblica, nel 2018 al Sole avevano affidato un audit a una società esterna, hanno accantonato 1,8 milioni di euro per sanare le irregolarità commesse e hanno restituito almeno mezzo milione all'Inps. 

I dati nei bilanci

Le informazioni sui rischi per gli azionisti (il gruppo è quotato in Borsa) legati all'utilizzo degli ammortizzatori sociali sono state pubblicate nei bilanci della casa editrice a partire dal 2017, dopo un ribaltone dei vertici. Va detto che per ora non si sa nulla del periodo 2011-2015, ovvero quello che è oggetto d'indagine per il vecchio gruppo Espresso. Nel 2016, Confindustria dà il benservito a Benito Benedini e Donatella Treu travolti, insieme all'ex direttore Roberto Napoletano, dallo scandalo delle copie digitali gonfiate. 

Tra giugno e novembre di quell'anno, l'amministratore delegato è Gabriele Del Torchio, che lascia dopo gli scontri con lo stesso Napoletano e con l'uomo forte di quel consiglio di amministrazione, l'editore Luigi Abete. A fine anno gli subentra Franco Moscetti, che poi a fine 2018 lascia il posto a Giuseppe Cerbone.

E allora, nel bilancio 2018 si legge che «nell'ambito dell'attività di verifica avviata dal nuovo management a valle del proprio insediamento, la Società ha conferito nel secondo trimestre 2017 ad una primaria società di consulenza l'incarico di effettuare un assessment in ordine alla gestione e all'applicazione degli ammortizzatori sociali». 

I risultati, prosegue il documento contabile, «hanno evidenziato che, nel periodo maggio 2013-aprile 2016, presso l'area manutenzione dello stabilimento di Milano è stato previsto, con accordo sindacale, lo svolgimento di attività aggiuntive durante il periodo di applicazione del contratto di solidarietà difensiva, nella misura di 12 ore/mese pro capite, per il quale è stata corrisposta un'indennità non portata in compensazione con l'integrazione salariale». Insomma, c'erano dipendenti a orario e paga ridotta per i contratti di solidarietà, che però venivano poi impiegati (e pagati) «a parte».

Come riconoscono gli amministratori, «ciò costituisce un'irregolarità che espone la Società all'obbligo di restituire all'Istituto erogatore un importo corrispondente al trattamento di integrazione salariale riconosciuto e non dovuto, relativamente all'orario di lavoro effettivamente non ridotto rispetto al contratto di solidarietà, oltre alle maggiorazioni previste per sanzioni amministrative ed interessi di mora che saranno determinate, nei limiti delle prescrizioni di legge, dallo stesso Istituto e successivamente comunicati alla Società». 

La mossa del Sole

Il Sole ha dunque presentato una richiesta di regolarizzazione spontanea all'Inps che risulta accolta. Sempre nella stessa paginetta di bilancio, si legge che «la Società non può escludere che l'anomalia riscontrata si sia verificata anche in altre aree aziendali del Gruppo».

E così ha provveduto ad accantonare 1.850.000 euro. Nel documento del 2019, si aggiunge una nuova puntata: «Il 21 ottobre 2019 la società ha provveduto al versamento dell'onere di regolarizzazione». Il fondo rischi però viene mantenuto con la somma di 1.379.000 euro. 

Da ultimo, la relazione al 30 settembre 2021 ricapitola ancora la vicenda e stanzia al fondo rischi «un valore residuo pari a 1.252.000 euro». Insomma, gli ultimi quattro bilanci del gruppo della Confindustria non raccontano che cosa sia successo nel periodo per cui è sotto inchiesta il gruppo Espresso-Gedi e non dicono quanto sia stato pagato di preciso all'Inps. Però sembrerebbe che il Sole abbia riparato il torto con almeno 481.000 euro, che è la differenza tra il primo e l'ultimo accantonamento.

E a proposito di accordi sindacali tutti da rivedere, il 4 febbraio del 2017 sempre al Sole 24 Ore viene firmata con il comitato di redazione una modifica a un accordo biennale sullo stato di crisi per stabilire che i giornalisti con i requisiti del prepensionamento (all'epoca, 58 anni compiuti) sarebbero stati messi in cassa integrazione forzata a zero ore dal primo marzo 2017 fino al 31 gennaio 2018 se non avessero accettato di dimettersi. 

Eppure, secondo la legge (416 e successive modifiche) il prepensionamento è un atto volontario, che discende dalle dimissioni, ma con la clausola della cassa forzata viene puntata una pistola alla tempia dei giornalisti e con l'assenso dei loro sindacalisti. L'accordo è stato poi confermato al ministero del Lavoro con il via libera della Fnsi, il sindacato unico dei giornalisti, ed è diventato efficace. Chi non ha accettato di dimettersi è stato messo in cassa fino al 31 gennaio 2018. 

Le nuove uscite

In questi giorni, al Sole, azienda e cdr stanno di nuovo discutendo come obbligare al prepensionamento chi ha 62 anni con l'obiettivo, annunciato in un'assemblea di redazione il 3 dicembre scorso, di mandare via 25 giornalisti entro il 31 luglio 2023. 

Chi non dovesse dimettersi «spontaneamente» verrebbe messo in cassa a zero ore fino al 31 luglio 2023. Ma dopo quell'assemblea è calato il silenzio, forse anche perché il sequestro ai danni di Gedi sta consigliando ai grandi editori maggior prudenza. E la paura di nuove indagini, dopo l'imbarazzante salvataggio dell'Inpgi a spese dell'Inps, si fa sentire.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 13 gennaio 2022.

Il gruppo Gedi, editore della Repubblica, della Stampa e dell'Espresso, quando era guidato dai De Benedetti (sino a fine 2019, quando è stato ceduto alla Exor della famiglia Agnelli-Elkann), per «massimizzare i profitti», ha conquistato un record che fa impallidire quota 100: mandare in pensione un'ottantina di lavoratori con un'età media, a un primo conteggio, di 54 anni. 

Ex dipendenti finiti nel mirino del procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo e del pm Francesco Dall'Olio. Infatti nel decreto di sequestro preventivo, firmato il 9 dicembre dal gip di Roma Andrea Fanelli, sono elencati ben 101 indagati (due nel frattempo sono deceduti), tra presunti prepensionati a sbafo (80, compresi 16 dirigenti), manager accusati di truffa (17), sindacalisti ritenuti maneggioni (almeno 6, per lo più della Cgil), funzionari Inps tacciati di infedeltà (2) e altre figure minori (2).

Qualcuno di questi soggetti compare in più di un elenco. Le accuse, a vario titolo, sono di truffa aggravata ai danni dello Stato, accesso abusivo a sistema informatico e responsabilità amministrativa da reato (per cinque aziende della holding), ai sensi del decreto legislativo 231.

Fanelli ha ordinato di «congelare» il presunto corpo del reato ovvero l'illecito profitto che Gedi avrebbe conseguito grazie all'abbattimento del costo del personale quantificato dai pm in 38,9 milioni di euro. Denari che il giudice ha fatto cercare nelle casse di Gedi (12,8) e di altre aziende della holding (la concessionaria pubblicitaria Manzoni - 8,7 -; Elemedia -3,6 -; Gedi news network - 6,4 -; Gedi printing - 7,4 -). 

Se fossero state vuote, gli investigatori avevano l'ordine di aggredire i beni immobili dei quattro principali indagati: l'ex ad del gruppo Monica Mondardini, il capo delle risorse umane Roberto Moro, il suo vecchio vice Romeo Marrocchio, il direttore generale della divisione Stampa nazionale Corrado Corradi. 

Il gip ha, invece, rigettato (come aveva già fatto a ottobre) la richiesta di sequestro preventivo di 22.282.000 euro di assegni previdenziali indebitamente erogati da prelevare dai conti dei prepensionati indagati e di manager, sindacalisti e funzionari Inps compartecipi del reato. Se è vero che la cifra corrisponde al danno subito dall'ente previdenziale, però, la toga ritiene che questa «non corrisponda al profitto illecito percepito dai singoli dipendenti, che e pari all'importo netto della pensione» e per questo ha chiesto alla Guardia di finanza un ricalcolo della somma da prelevare. 

Per Fanelli, comunque, il fumus dei reati contestati c'è tutto, come confermerebbero, a suo giudizio, intercettazioni e testimonianze. «I sistemi illeciti» 

Le frodi sarebbero state fondamentalmente quattro: fittizi demansionamenti di dirigenti a quadro per fargli ottenere i requisiti previsti dalla normativa di settore per i prepensionamenti; illeciti riscatti di annualità (a spese dell'azienda) «asseritamente» lavorate, con la complicità di funzionari Inps e la falsificazione dei libretti di lavoro; utilizzo come collaboratori esterni, nelle stesse società del gruppo, di dipendenti prepensionati in quanto falsamente indicati come esuberi; trasferimenti di personale eseguiti (in svariati casi solo sulla carta) per poter accedere «indebitamente» agli scivoli previsti per la sede/società di destinazione.

Le investigazioni della polizia giudiziaria hanno consentito di «raccogliere gravi indizi di reità nei confronti di 83 posizioni illecite» (su 137 attenzionate tra il 2009 e il 2015), così distinte: 16 dirigenti fittiziamente demansionati; 44 dipendenti che avrebbero illegalmente riscattato periodi contributivi; 20 lavoratori falsamente trasferiti/transitati; 3 dipendenti prepensionati che hanno continuato il rapporto di lavoro come collaboratori esterni. Il giudice nota anche che, dopo le perquisizioni del marzo 2018, l'azienda non avrebbe cambiato rotta. Tutt' altro.

Per il gip, addirittura, «è sembrata proseguire la direzione, di fatto, del gruppo, da parte della Mondardini», tramite Corradi e Moro, «anche dopo la nomina del nuovo ad Laura Cioli» e il passaggio della manager indagata alla Cir dei De Benedetti. Moro, del resto, avrebbe «mostrato di voler proseguire con i comportamenti censurati» anche in alcune conversazioni telefoniche, intrattenute pure con la Cioli (non indagata). 

Inoltre alcuni dirigenti dell'azienda si sarebbero «prodigati per rendere difficili i controlli [], ponendo in essere azioni tese a "evitare problemi" in caso di controlli» e l'Organismo di vigilanza, sottolinea il Gip, «ha omesso di intervenire nonostante gli avvisi di garanzia notificati nel marzo del 2018 e, addirittura, ha individuato, quale "amministratore incaricato della istituzione e del mantenimento di un efficace sistema di controllo interno e di gestione dei rischi", la stessa Mondardini» che si sapeva indagata. Non è finita.

I soci di minoranza

Di fronte ai quesiti posti da un gruppo di azionisti di minoranza, che chiedeva se non fosse opportuno l'allontanamento degli indagati dai posti di comando per scongiurare eventuali arresti, l'azienda era stata netta: «Non sono state prese in considerazione misure come quelle sopra prospettate né da parte degli interessati né degli organi sociali» e «nel Gruppo non e stato fatto alcun artificio o raggiro».

L'innesco ai prepensionamenti illeciti e alla vicenda penale che sta coinvolgendo Gedi lo ha raccontato agli inquirenti Michela Marani, responsabile del controllo di gestione del gruppo: «Intorno al 2007/2008, in concomitanza con una progressiva riduzione dei margini del gruppo, gli azionisti De Benedetti (ingegner Carlo e Rodolfo) hanno chiesto all'allora vertice aziendale [] di individuare una serie di interventi, prevalentemente sui costi, volti a preservare la marginalità del gruppo». 

La decisione finale «di procedere con i prepensionamenti veniva presa» dalla Mondardini, ma, in occasione della discussione finale del documento di budget, «era presente anche la proprietà, a cui veniva illustrato l'intero piano di ristrutturazioni, ivi compresa la parte relativa alla riduzione del costo del lavoro, quindi anche la parte legata ai prepensionamenti». 

I conti del gruppo

I De Benedetti, che non risultano indagati, non sarebbero, però, stati messi a conoscenza degli escamotage illeciti con cui sarebbero stati raggiunti gli obiettivi da loro prefissati. E brillantemente realizzati: se tra il 2008 e il 2016 il fatturato si è dimezzato, passando da 1 miliardo a 540 milioni, l'azienda «ha registrato tutti gli anni un risultato sostanzialmente positivo, contraddistinguendosi nel settore come unico gruppo editoriale che ha saputo salvaguardare la sostenibilità finanziaria» si legge nel decreto. 

Per garantire questa sostenibilità gli addetti sono passati da 3.344 a 2.185 negli otto anni in esame. Il costo del personale, nello specifico, e stato ridotto del 35%, passando da 331 milioni a 214 milioni. Fanelli puntualizza: «Negli anni di maggior flessione del fatturato del settore editoria [], si rileva comunque un consistente utile» e tra il 2010 e il 2011 «il gruppo ha proceduto a distribuire utili agli azionisti per 54 milioni di euro».

Il giudice, infine, per completare il quadro, cita un'intercettazione tra Mondardini e Moro: «I due confermano [] che la collocazione in pensione anticipata dei dipendenti era finalizzata alla massimizzazione dei profitti» e non era collegata al presupposto necessario dello stato di crisi. Perché, come si diceva un tempo, certi imprenditori amano socializzare i costi, ma privatizzare i guadagni. 

Fabio Amendolara per “La Verità” il 14 gennaio 2022.

I furbetti della truffa previdenziale ritenevano di poter contare su una rete di relazioni. A partire dall'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all'editoria Vito Crimi, che poi si è trasformato nel capo politico dei Cinque stelle. 

Il 2 settembre 2018 Monica Mondardini, ex presidente e ad di Gedi e già presidente del Cda della Manzoni spa, attende notizie da Francesco Dini, capo della direzione Affari generali di Cir spa, che aveva appuntamento con Crimi.

La conversazione, annotano i magistrati, tocca prima temi di carattere generale legati a finanziamenti per l'editoria. Ma l'argomento che in quel preciso momento sta a cuore a Mondardini è il taglio dei costi. Dini riferisce l'esito dell'incontro e, riferendosi al sottosegretario, sostiene di «averlo convinto a parlare di lavoro, ristrutturazione, ammortizzatori sociali e pubblicità».

Crimi deve aver mostrato una certa apertura nei confronti degli uomini della struttura del gruppo editoriale che fino a poco tempo prima aveva dedicato paginate alle inchieste giudiziarie sulle sindache pentastellate Chiara Appendino e Virginia Raggi, visto che Dini riferisce che «la cosa è andata straordinariamente». 

Inoltre, come se i manager facessero parte di una centrale di spionaggio, Dini dice alla collega di ritenere di essersi «organizzato per conto suo», si legge nel decreto firmato dal gip di Roma, «in modo da avere un vantaggio anche competitivo sulle informazioni da ottenere attraverso Marina Macelloni (presidente del cda dell'Inpgi, la cassa di previdenza dei giornalisti), Mimma Iorio (direttore generale dell'Inpgi) e Ferruccio Sepe (capo dipartimento per l'Informazione e l'editoria della presidenza del Consiglio dei ministri, ovvero l'uomo macchina dell'ufficio nel quale passano le istruttorie per i prepensionamenti) «per cercare di capire quando arrivano le risorse in dotazione sulla 416 che secondo me 2019, secondo la Iorio 2020».

La 416 è la legge del 1981 che prevede la possibilità, per i giornalisti dipendenti di società editoriali in stato di crisi, di accedere al trattamento di pensione anticipata. Gedi con molta probabilità, dopo aver mandato a casa con quelli che la procura definisce «artifizi e raggiri» non pochi manager demansionandoli per finta, puntava al finanziamento della 416 per togliersi davanti, tramite i prepensionamenti, anche un po' di giornalisti. 

Il gip, infatti, sottolinea: «In proposito, è di rilievo evidenziare che la possibilità per le aziende di accedere ai prepensionamenti nel settore editoria non è assoluta, ma dipende dalla quantità dei fondi stanziati periodicamente dal governo, quantomeno per il personale giornalistico. Da qui la conseguenza che non tutti possono beneficiarne, ma solo le aziende che a tali fondi riescono ad accedere, per il tramite del ministero del Lavoro, che autorizza le istanze». 

Mondardini e Dini, quindi, secondo l'accusa, «si stavano attivando, attraverso organi istituzionali, al fine di ottenere i fondi necessari per una nuova procedura di prepensionamento da adottare nel gruppo Gedi».

D'altra parte, la legge permette alle aziende di liberarsi di giornalisti che abbiano almeno 58 anni d'età e 18 anni di contributi. Caratteristiche che avrebbero permesso a Gedi di individuarne un bel fascio. Inoltre, hanno scoperto gli investigatori acquisendo gli elenchi del personale dipendente delle società del gruppo, tra grafici e poligrafici (in alcuni casi ex manager spacciati per tali) sarebbero stati collocati in pensione sfruttando la 416 circa 590 lavoratori tra il 2008 e il 2016. 

Tra questi sono state individuate 137 posizioni di dipendenti distinte nelle diverse tipologie di comportamenti indicati come «truffaldini», tra demansionamenti, trasferimenti, transiti e riscatti, che, al mese di ottobre 2017, avevano già causato all'Inps un danno di circa 18 milioni di euro.

Ma oltre a Crimi il futuro di Gedi, stando a una chiacchierata tra Danilo Di Cesare, ex rappresentante sindacale interno al gruppo Gedi, indagato, e il collega Vincenzo Di Martino, ex dipendente dell'agenzia di stampa Ansa, rappresentante sindacale anche lui, avrebbe destato la curiosità anche di Nicola Morra, altro pentastellato, a capo della commissione parlamentare Antimafia. 

È il 17 luglio 2018 quando i due sindacalisti fanno riferimento a un incontro «da tenersi al ministero (presumibilmente, stando alle carte dell'inchiesta, il ministero del Lavoro e delle politiche sociali, in quel momento guidato da Luigi Di Maio, ndr)» per trovare una soluzione per i poligrafici. 

I due usano il termine «sanare», con particolare riferimento a «quelli che j' hanno mandate», da intendersi verosimilmente a coloro i quali l'Inps aveva inviato le lettere di sospensione delle pensioni, per illeciti riscatti contributivi.

Ed è a questo punto che Di Martino afferma di sapere che di questa faccenda «si stava interessando anche l'onorevole Nicola Morra». E infatti, il 19 luglio 2018, quindi solo due giorni dopo l'ultimo riferimento a un incontro al ministero, quando l'ex sindacalista indagata della Cgil Fidelma Mazzi parla con una certa Paola, le due fanno riferimento a un incontro da tenersi proprio al ministero del Lavoro, definito dalla Mazzi «un po' aumma aumma».

A settembre, però, Mazzi viene convocata dalla polizia giudiziaria. E al telefono con Di Cesare esprime non poca preoccupazione. I due prima dell'interrogatorio cercano di immaginare cosa possa volere la pg. Di Cesare prova a dare un'interpretazione: «Mi viene in mente 'na cosa del genere, che la signora del ministero veniva a fare le... le, le, le, le, le, le verifiche e poi ce le facevano firmare a noi... e però noi non è che eravamo presenti eh, perché le verifiche le faceva 'sta signora del ministero». 

Secondo gli investigatori si tratta delle visite ministeriali per verificare lo stato delle procedure di prepensionamento del gruppo Gedi. I due sindacalisti, è annotato negli atti dell'inchiesta, ammettono «che non erano presenti [...] pur avendo sottoscritto i relativi verbali». Fatto sta che in una ulteriore conversazione, tra Di Cesare e Di Martino, torna il tema delle relazioni nei palazzi che contano.

I due, a proposito dei «riscattati» ai quali è stata sospesa la pensione, fanno riferimento a una possibile soluzione da trovarsi «a livello politico» o per «l'interessamento del boss dell'istituto», ovvero, secondo chi indaga, «il presidente dell'Inps». Ma anche questo appare come un terreno scivoloso. È proprio Di Cesare ad ammettere che «gli interessati», però, «non conoscono il nominativo dell'azienda relativamente alla quale sono stati riscattati i periodi lavorativi». Probabilmente era solo un altro dei tanti trucchetti.

·        Primo: la Verità del Il Giornale.

Da leggo.it l'8 settembre 2022.  

A quasi tre anni dalla denuncia per diffamazione da parte di Selvaggia Lucarelli, arriva il rinvio a giudizio per Alessandro Sallusti, all'epoca direttore del quotidiano Il Giornale (ora a Libero), per una vicenda di cui si occuparono tutti i giornali e che alla giornalista non andò giù, per via dei termini utilizzati, a suo avviso decisamente forti.

Il caso dei commenti sessisti

Il caso nasce dall'ospitata a Non è la D'Urso di Sergio Vessicchio, il giornalista prima sospeso e poi radiato dall'Ordine dei giornalisti per via di alcuni commenti sessisti contro un arbitro donna. La Lucarelli sui suoi profili social aveva ripreso alcuni passaggi della sua intervista, ironizzando sulle sue parole (in cui definiva «becera» la tv della D'Urso) e aggiungendo «ridategli il tesserino da giornalista».

A quei tweet, Sallusti aveva replicato duramente in un editoriale sul Giornale, definendo Selvaggia con l'epiteto «esperta di zoccolaggine» e sostenendo che Selvaggia avesse «preso le parti di Vessicchio, dando di fatto e in diretta delle zoccole a Barbara D'Urso e alle sue ospiti». 

 Infine Sallusti tirò fuori uno dei cavalli di battaglia dei critici della Lucarelli, cioè l'accusa di «aver messo in circolo un video hot privato di una giovane Belen». Nel documento in cui si rinvia a giudizio Sallusti, i giudici sottolineano su quest'ultimo punto che la giornalista è «totalmente estranea a tale condotta penalmente rilevante, e in più non risulta essere mai stata indagata su quei fatti». Ora, a distanza di tre anni, dovrebbe partire il processo, come confermato anche dalla stessa Lucarelli sul suo profilo Facebook.

Da “il Giornale” il 15 gennaio 2022.  

La Verità, in spregio al suo nome, da qualche giorno continua a estrarre numeri dal cilindro per giustificare un ipotetico sorpasso di copie sul nostro quotidiano.

La matematica non è un'opinione, mai numeri evidentemente si possono interpretare. 

Noi teniamo ai nostri lettori e forniamo loro un'informazione corretta sul Covid e sui vaccini. 

Magari loro hanno anche guadagnato qualche lettore (meno di quello che dicono), ma rischiano di averne spedito qualcuno al Creatore.

Da “La Verità” il 14 gennaio 2022.  

I colleghi del Giornale si sono risentiti perché abbiamo pubblicato i dati ufficiali che certificano il sorpasso della Verità nei loro confronti. Ma c'è un equivoco: noi ci riferivamo alle copie (cartacee e digitali) vendute. Per quelle regalate, in effetti, al Giornale sono sempre i numeri uno.

Da “il Giornale” il 13 gennaio 2022.

C'è un quotidiano che sostiene di essere «il primo dell'area di centrodestra», ma per ora dà solo i numeri. Perché il calcolo delle copie cartacee e digitali è sbagliato, perché ci sono ancora almeno 300 copie di differenza tra Il Giornale e quest' altro quotidiano (molte di più in edicola, ma tant' è...), almeno stando alle fonti ufficiali di riferimento - i dati pubblicati da Prima Comunicazione, tanto per intenderci - e ci sarebbero molti altri perché, ma è meglio soprassedere per non tediare il lettore.

Anzi, no: se sorpasso deve essere, che sia. Quello che ai nostri competitor mancherà per sempre è la nostra storia e la nostra credibilità, costruita in quasi 50 annidi vita controcorrente. È questa la verità...

Da “La Verità” il 13 gennaio 2022.

Ottime notizie per La Verità: consolidando un trend già in corso da diversi mesi, il nostro quotidiano ha fatto registrare, secondo i dati Ads pubblicati dal sito di Prima comunicazione nella giornata di ieri, un importante sorpasso in termini di vendite. Stando ai numeri divulgati, infatti, per la prima volta dalla nostra fondazione, che risale al settembre 2016, sommando le copie cartacee e quelle digitali i nostri lettori ci hanno scelto per 34.311 volte al giorno nel mese di novembre, superando - questo è il fatto inedito - quelli del Giornale, a quota 33.654 nella casella delle «vendite individuali». 

A consentire questo risultato storico è l'ottimo andamento sia delle vendite in edicola sia di quelle online: se le prime si sono attestate a 27.699 copie (contro le 31.886 del quotidiano diretto da Augusto Minzolini), il digitale continua un percorso di forte crescita che attesta il totale di novembre a un livello di poco inferiore alle 7.000 copie. 

La somma arriva così appunto a 34.311 unità di «venduto», che consente alla nostra testata di staccare di diverse centinaia di copie il giornale fondato da Indro Montanelli, meno performante rispetto alla Verità sulle copie online. Particolarmente significativo anche il dato che vede protagonista il nostro quotidiano nei confronti di Libero.

Si approfondisce infatti il divario di preferenze che i lettori hanno voluto accordarci rispetto al giornale oggi diretto da Alessandro Sallusti. 

Sempre secondo le tabelle diffuse da Prima comunicazione, infatti, sono 18.928 le copie cartacee di Libero che, sommate al digitale, arrivano a quota 20.175: circa 14.000 in meno rispetto alle nostre.Stando a questi dati, La Verità, a poco più di cinque anni dalla fondazione, al momento si consolida quindi come prima testata nell'alveo dei giornali con un pubblico di riferimento nell'area moderata e di centrodestra. 

Un dato che, ove confermato nei prossimi mesi, avrebbe conseguenze potenzialmente rilevanti nel mercato editoriale e della raccolta pubblicitaria. 

Un risultato che soprattutto premia, grazie ai lettori, lo sforzo della redazione e degli azionisti che hanno accompagnato l'avventura di questi anni. 

Durante i quali ai successi del giornale che state leggendo si sono aggiunti l'acquisizione di un marchio storico come Panorama, in breve ricondotto a risultati economici confortanti, e di diverse altre prestigiose testate del gruppo Mondadori. 

Ai lettori ovviamente il grazie più sentito per aver sostenuto in modo tanto generoso il nostro tentativo di dare vita a un giornalismo indipendente. 

·        Alberto Matano.

Alberto Matano compie 50 anni: dall’addio commovente al Tg1 al matrimonio con Riccardo Mannino. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 9 Settembre 2022. 

Il conduttore e giornalista è uno dei più amati del piccolo schermo e il suo programma “La Vita in diretta” riscuote quotidianamente successo di pubblico. E’ molto amica di Mara Venier e racconta fiabe al telefono ai nipotini

Il percorso

Alberto Matano compie 50 anni il 9 settembre e si conferma uno dei volti noti della tv italiana più amati dal pubblico tanto che il suo programma “La vita in diretta” è spesso leader di ascolti nella fascia pomeridiana di riferimento. Nato da papà biologo e mamma un’insegnante, ha sin da bambino coltivato il sogno di diventare giornalista. Dopo il diploma al Liceo Scientifico e, nonostante la sua propensione per il mondo della comunicazione, ha intrapreso inizialmente un percorso di studi diverso. Ha infatti frequentato la Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza ma, nel corso dei suoi studi, ha iniziato a collaborare con una rivista e – dopo la laurea – ha deciso di iscriversi alla Scuola di Giornalismo di Perugia.

L’amica Mara Venier

Una delle amicizie più care e sincere di Matano è quella con Mara Venier: la conduttrice infatti lo ha sposato il 12 giugno 2022 con Riccardo Mannino in un resort fuori Roma.

L’addio emozionante al Tg1

Ad agosto del 2019 Alberto annuncia in diretta che “per un po’ non condurrà più il telegiornale delle 20 su Rai1”. Dopo tanti anni Matano, con grande emozione, ha annunciato al pubblico l’allontanamento (temporaneo) dalla carriera di mezzobusto. A lui e Lorella Cuccarini, quell’anno era stata affidata la conduzione de “La Vita in diretta”.

Il marito

Il marito di Matano è l’avvocato cassazionista Riccardo Mannino, sei più del giornalista. L’avvocato ha una grande passione per lo sport: va in palestra quotidianamente ma non solo. E’ un grande sciatore e in inverno non rinuncia a sciare sulle Dolomiti.

In libreria

“Innocenti. Vite segnate dall'ingiustizia” è il titolo del libro di Alberto Matano: una serie di racconti di presunti colpevoli (e spesso condannati dall’opinione pubblica) riconosciuti poi innocenti.

Bullismo

«Ho sofferto il bullismo. Mi isolavano dai giochi, mi prendevano in giro, mi sentivo ai margini della vita. Ma ho combattuto, non mi sono piegato» ha detto Matano in un’intervista al Corriere «Ma se incontrassi il 16enne che ero lo abbraccerei e lo ringrazierei. La sua sofferenza e la sua forza sono state la condizione della gioia che provo ora»

Racconta storie

Su Instagram capita spesso che pubblichi foto in compagnia dei suoi due nipotini, a cui è estremamente legato. “Quando i miri nipotini non riescono a prendere sonno, mi chiamano al telefono e racconto loro una storia per farli addormentare” ha detto alla trasmissione “Vieni da me”

Alberto Matano e Riccardo Mannino si sono sposati: la commozione di Mara Venier. Maria Volpe su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2022.

Le prime foto del matrimonio fra il giornalista e conduttore e l’avvocato della Cassazione. Andrea Sannino canta la loro canzone «Abbracciame», Santamaria intona «Roma nun fa la stupida stasera»

Alberto Matano e Riccardo Mannino si sono sposati. Il sì è stato pronunciato intorno alle 18.30 di oggi all’Antonello Colonna Resort & Spa a Labico, alle porte di Roma. Un matrimonio atteso, sentito, seguito. Perchè lui è uno tra i conduttori e giornalisti più amati d’Italia. Perchè lui solo di recente davanti alle telecamere a «La vita in diretta» ha fatto coming out. Perchè lui è un uomo garbato, positivo, accogliente che ha scelto di vivere una vita libera e piena d’amore.

Celebrante d’eccezione Mara Venier, la conduttrice più amata d’Italia, amica quasi sorella di Alberto Matano. Alle 21, in mezzo alla festa, Mara risponde al telefono. 

Mara com’è andata? Molto emozionata?

«Tantissimo - racconta - Quando ho detto la fatidica frase: “Vuoi tu Alberto Matano prendere come tuo .....” mi si è strozzata la voce, non riuscivo più ad andare avanti. L’idea di essere lì a sposare i miei due amici era troppo commovente. Poi lentamente ce l’ho fatta e sono riuscita ad andare avanti». 

E qual è stato il momento in cui ha visto Alberto più commosso?

«Quando è arrivato con Riccardo e i suoi amati nipoti. Io ero lì che lo aspettavo con la fascia che mi aveva dato il sindaco». 

E c’era anche la sorpresa...

«Si ho fatto arrivare Andrea Sannino che ha cantato “Abbracciame” che un po’ la loro canzone» (Il cantante su Instagram ha detto: «Cantare per voi è stata una grande emozione»)». 

Sembra davvero tutto molto romantico dai suoi racconti.

«Sì è stato davvero un matrimonio d’amore puro, circondato da tanta amicizia. Io non ho dormito tre notti, mi sono letta e studiata i grandi poeti, tra cui Alda Merini. Mi ero preparata tanti discorsi belli, ma non ho detto nulla di tutto quel che mi ero studiata. Ho preferito raccontare a tutti”perchè siamo qua”». 

Lei ha spinto tanto per questo matrimonio, vero?

«Eravamo a tavola e due mesi fa, ho chiesto ad Alberto e Riccardo : “perchè non vi sposate? Io non mi alzo da tavola finché non tirate fuori la data. All’inizio Alberto tergiversava, Riccardo mi ha dato subito la data possibile. E’ stato bellissimo, emozionante, commovente: dopo pochi minuti stavamo brindando a tavola con gli occhi lucidi». 

Un momento privato sì, ma che ha anche una forte eco mediatica.

«Ha una grande risonanza mediatica, un messaggio culturale ben preciso e io sono felice di aver fatto il possibile perchè questo matrimonio avvenisse». 

Conferma Alberto: «Sono quindici anni che stiamo insieme. Durante una cena, un paio di mesi fa, Mara, la nostra amica del cuore che oggi celebrerà, ha detto che sarebbe stato bello che noi ci sposassimo. Riccardo ha subito detto di sì. Era euforico. Io anche ero contento. Poi, nel fine settimana, sono entrato in crisi. Ho pensato a tutto quello che ci circondava, alla dimensione esterna di qualcosa che ci riguardava così privatamente. La sera, a casa, abbiamo parlato, abbiamo discusso, ci siamo accapigliati, ci siamo abbracciati e abbiamo deciso che sì, era la cosa giusta da fare. Oggi celebreremo un amore che merita un vestito formale» ha raccontato Matano a Walter Veltroni.

La festa è stata allegra e si contavano circa 200 ospiti. Ovviamente le famiglie degli sposi, gli amici e anche tanti personaggi del mondo dello spettacolo e del giornalismo: Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, l’attore Claudio Santamaria che ha intonato «Roma nun fa la stupida stasera» con la moglie Francesca Barra («già piango», ha scritto lei sui social commentando un post con la notizia delle nozze dei due, a poche ore dalla cerimonia) e diverse colleghe del tg della Rai. E poi ancora il senatore Casini, Eleonora Daniele con il marito Giulio Tassoni; Raoul Bova e la moglie Rocio Munoz Morales, Nunzia De Girolamo, Fabio Canino (giudice di «Ballando con le stelle»).

Giordano Tedoldi per “Libero Quotidiano” l'11 giugno 2022.

L'11 giugno, a Labico, in provincia di Roma, il mondo si fermerà. Anche Sirio, l'astro più brillante del cielo notturno, quel giorno volgerà la sua celeste attenzione e spargerà gli influssi più benigni sul resort dello chef Antonello Colonna, il quale, come scrive trionfalmente Repubblica, nel mondo della ristorazione è soprannominato "l'ottavo re di Roma". (Parentesi: ma quanti sono gli ottavi re di Roma? Gigi Proietti, Francesco Totti, Antonello Colonna... Non sarà il caso di istituire, anziché una monarchia, un triumvirato?).

Ebbene, che diavolo accade- chiederà il lettore ignaro - l'11 giugno a Labico, nel ristorante di uno dei tanti ottavi re di Roma? Vi è il "matrimonio" (il politicamente corretto impone di chiamarlo così, quando tutti sanno che, in Italia, il matrimonio egualitario - così la giurisprudenza definisce le nozze tra persone dello stesso sesso - non esiste sotto il profilo legislativo) tra il conduttore de "La Vita in Diretta" Alberto Matano e Riccardo Mannino, avvocato presso la Cassazione, suo storico compagno. 

Ora, tanto per non sprecare troppe parole su una questione preliminare che occorre chiarire per non ingenerare equivoci: ognuno può pensarla come crede riguardo al fatto che tutti possano sposarsi con tutti, indipendentemente dalle tendenze sessuali, e che quindi sia auspicabile una legge che codifichi il matrimonio ugualitario (questo giornale non è d'accordo sul punto, per esempio, ma chi scrive sì).

Resta il fatto che tutti ormai si sono abituati a parlare di "nozze gay", di marito e marito (o moglie e moglie) - locuzioni che avrebbero sdegnato i bacchettoni di qualche decennio fa, ma anche quei gay, e non sono pochi, che vivono l'omosessualità come una sorta di rivolta antiborghese, e ai quali il matrimonio come istituzione fa schifo, e anche questi hanno le loro ragioni. In sostanza, si tratta di una trasformazione che, se ancora non è regolata normativamente, è già nei costumi e nella mentalità degli italiani. 

TONI ENFATICI Chiarito questo punto, sarà forse esente da sospetti il nostro affermare che la copertura mediatica, e i toni usati per annunziare il lieto evento, sono un tantino esagerati, enfatici, retorici. Il resort ovviamente è "da sogno". Ah, quanti sogni si celano nelle contrade del Lazio! E pensare a quei cafoni che vanno a sposarsi, ad esempio, sull'isola caraibica di Mustique. Se solo sapessero che a pochi chilometri da Roma potrebbero attingere alla beatitudine...

Ma proseguiamo. Il proprietario del resort da sogno, l'abbiamo detto e ripetuto, è "l'ottavo re di Roma". Di tale resort siamo stati informati che, come avrebbe detto Renato Pozzetto (immaginate la sua voce, quella dei tempi d'oro con Cochi), «esso possiede dodici camere, piscina termale, centro benessere, ristorante e ortogiardino, è stato creato nel 2012 ma la famiglia dello chef ha una storia gastronomica a Labico che risale al 1874, allora era la Trattoria Andrea Colonna, un ristorante a conduzione familiare». Allora lo era, poi la trattoria, il centro benessere, l'ortogiardino e tutto quanto è entrato nel sogno. 

Porca miseria, solo a descriverlo ci sembra quasi di essere lì.

Ma non è finita. Si fanno anche alcuni nomi, davvero di peso, tra gli invitati.

Innanzitutto il rito sarà celebrato da Mara Venier, amica di lunga data di Matano, e poi ci sarà l'attore Claudio Santamaria con la moglie, la giornalista Francesca Barra, e Giuliano Sangiorgi dei Negramaro. Per l'occasione Matano, «da sempre geloso della sua privacy» come leggiamo da una delle innumerevoli fonti d'informazione che si occupano dell'evento, si è un poco sbottonato, e ha concesso qualche indiscrezione, «confessando qualche tempo fa di essere pronto a giurare eterno amore al suo fidanzato». Non sarà stato, l'ottimo e simpatico giornalista Rai, troppo incauto a lasciarsi sfuggire un'indiscrezione così perigliosa?

Lo sgomento dei lettori di fronte al disvelamento di tali segreti sarà forte e diffuso. Ma si sa, come scriveva Platone, il dio Eros fa impazzire coloro che gli si consegnano, li fa uscire di senno, e gli fa dire cose che solo i posseduti, o gli iniziati, dicono. E mentre Matano è posseduto dal terribile spirito di Eros, noi siamo posseduti dai titoli che annunciano il suo (non) matrimonio come il più importante dai tempi di... ecco, non ci viene nemmeno un termine di paragone adeguato. Carlo e Diana? Meglio non nominarlo, quello.

Ranieri di Monaco e Grace Kelly? A costo di sembrare noi quelli che esagerano, lo affermiamo: la cerimonia di Matano supera anche quello.

RETORICA IMMORTALE Ieri il Corriere aveva in home page uno sfizioso articolo dedicato al «menù segreto, i 200 invitati (vip), le indiscrezioni» sulle nozze di Labico. Notate il «vip» messo tra parentesi, come a dire: va da sé, non volete mica che invitassero proletari e plebaglia. E che siamo, al Quarto Stato di Pellizza da Volpedo? La società progredisce, i costumi si liberano, le identità si fluidificano, e la vecchia retorica del matrimonio da favola con gli invitati vip nella cornice da sogno, quella resta immutata nei secoli.

Alberto Matano: «Ho resistito al bullismo e non amo le etichette. Oggi sposo Riccardo, con lui ho capito chi sono». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2022.

Il giornalista: «Attorno a noi tanto affetto e nessuna morbosità. Sono 15 anni che stiamo assieme». «Se incontrassi il 16enne che ero lo abbraccerei e lo ringrazierei. La sua sofferenza e la sua forza sono state la condizione della gioia che provo ora». 

«Sono quindici anni che stiamo insieme. Durante una cena, un paio di mesi fa, Mara, la nostra amica del cuore che oggi celebrerà, ha detto che sarebbe stato bello che noi ci sposassimo. Riccardo ha subito detto di sì. Era euforico. Io anche ero contento. Poi, nel fine settimana, sono entrato in crisi. Ho pensato a tutto quello che ci circondava, alla dimensione esterna di qualcosa che ci riguardava così privatamente. La sera, a casa, abbiamo parlato, abbiamo discusso, ci siamo accapigliati, ci siamo abbracciati e abbiamo deciso che sì, era la cosa giusta da fare. Oggi celebreremo un amore che merita un vestito formale».

Chiedo ad Alberto Matano di parlare della sua infanzia, a Catanzaro.

«Ero molto felice, nei primi anni. La mia famiglia era molto armonica. I ruoli si intercambiavano, tra mio padre e mia madre. Mamma era un’insegnante, sempre molto attiva sul piano associativo, sindacale. È stata anche l’unica assessore donna nella giunta comunale di Catanzaro, rappresentava la Dc. Stava poco a casa, fisicamente. Ma era sempre presente. Ricordo l’infanzia come giorni sereni, lieti. Ma poi il cielo si annuvolò. Attorno ai 14 anni mi sono accorto con dolore che non crescevo. I miei amici erano almeno venti centimetri più di me. E allora la mia stanza si chiuse a chiave, come un riparo dal mondo. Perché fuori mi sembrava che le cose andassero a rovescio. Ho sofferto il bullismo. Mi isolavano dai giochi, mi prendevano in giro, mi sentivo ai margini della vita. Ma ho combattuto, non mi sono piegato. Mi sono detto che ce la dovevo fare. Ho trovato la forza e tutto quello che di buono mi sta accadendo è figlio di quella volontà di non subire. In terza liceo, dopo un’estate, sono cresciuto e sono diventato come sono ora».

Credo che Matano non ami le definizioni conclusive, i recinti, anche a proposito delle sue scelte sessuali.

«All’inizio ho avuto una vita eterosessuale, avevo successo con le ragazze. A 24 anni ho interrotto una storia d’amore. Capivo che dentro di me c’era altro, che dovevo esplorarmi, capirmi. Per dieci anni sono stato irrequieto. Cercavo un’appartenenza, anche esasperata. Pensavo che questo mi desse sicurezza. Qualcuno ci riesce. A me invece un’identità chiusa stava stretta. Una mia amica psicoterapeuta un giorno mi ha parlato del continuum psicosessuale come di un punto dove ciascuno di noi si può trovare, che non è mai uguale a quello di un altro. Poi è arrivato Riccardo e tutto, nella mia vita, si è stabilizzato. La mia stabilità è stata una persona, non un’identità».

Proviamo a ricordare la sua stanza chiusa.

«Per me, in ogni campo, i recinti sono l’antitesi della libertà. Ho capito negli anni che le persone hanno bisogno, per rassicurare sé stesse, di dare te o anche di assegnare a sé stessi una categoria, una casella, un’appartenenza, sessuale, politica, anche sul lavoro. Tutto questo rassicura, ma è fragile. Nell’adolescenza dovevo uscire da un ambiente chiuso, opprimente. Detestavo gli stereotipi, ero uno spirto libero. Nella mia stanza c’era il mondo intero. Mi mettevo lì e ascoltavo Sting, Tracy Chapman, Sade, David Bowie. E leggevo. Orwell, Dickens e poi i poeti romantici come Keats, Shelley, Byron. La mia preferita era una poesia di Spencer, che mi è tornata in mente in questi giorni. Comincia così: “Un giorno scrissi il suo nome sulla spiaggia,

Ma arrivò un’onda e lo lavò via:

Ancora una volta ho scritto con una seconda mano,

Ma arrivò la marea, e fece del mio dolore la sua preda.”

Ma poi finisce con: “I miei versi renderanno eterne le tue rare virtù,

e scrivo nei cieli il tuo nome glorioso;

e quando la morte sottometterà tutto il mondo,

Il nostro amore vivrà e si rinnoverà alla vita”».

Gli chiedo come è stato dire di questa ricerca libera ai suoi genitori.

«All’inizio erano disorientati. Io sentivo il bisogno di condividere con loro questo mio travaglio. Una sera ho deciso. Sono tornato a casa, ho spento la televisione che stavano vedendo e gli ho detto che volevo parlargli. I mei fratelli sapevano ed erano solidali. Quella sera è stata la chiave di risoluzione della mia vita. La svolta della mia vita emotiva interiore è stata proprio quando ho raccontato a loro come stavano le cose. Per loro non è stato semplice, nelle prime ore, accettare tutto questo, lo capisco. Poi da quel momento sono stati sempre al mio fianco, sempre accoglienti, solidali. Ora Riccardo viene vissuto come il quarto figlio. Oggi due cose mi fanno davvero felice: lo sguardo di Riccardo e la partecipazione serena dei miei genitori a questo momento».

Matano è colpito dall’affetto che la gente che incontra per strada o che scrive sui social gli manifesta. Io penso che sia il prodotto di anni di battaglie, in primo luogo delle donne e della comunità Lgbt. Lotte contro muri duri a morire. Lotta eterna. Ma ora credo che la maggioranza degli italiani, un Paese in cui sono oggi anziani quelli che erano coevi del sessantotto, sia molto più maturo e aperto di prima.

«Forse il messaggio di rifiuto della ghettizzazione e il tentativo di affermare la normalità di ogni scelta sessuale sta passando. Non percepisco attorno alla scelta mia e di Riccardo nessuno stupore, nessuna morbosità. Siamo travolti dall’affetto di persone che capiscono che siamo due anime che si sono cercate e trovate. Due persone che si amano. Tutto qui. Ed è bello. Ti racconto questo. L’altro ieri sera mia madre ha ricevuto una telefonata da una sua vecchia amica, militante sindacale come lei, che le ha detto: “Sono molto colpita perché tuo figlio, con questo gesto, sta continuando le nostre battaglie”. La sua commozione e la mia mi hanno detto che tutto quello che ho fatto nella mia vita, anche questa scelta, è frutto del clima respirato dentro quella famiglia, del rifugio sicuro che ho avuto, dell’esempio avuto a da loro che sono due persone perbene, semplici, sane, aperte e anche coraggiose».

Gli chiedo di ricordare il momento in cui ha deciso, dopo che il blocco della legge Zan era stato salutato in Parlamento da assurde manifestazioni di entusiasmo, di reagire.

«Il giorno dopo ero in auto, stavo andando al lavoro. Chiamo Mirko, che è il mio braccio destro, e gli dico: “Noi oggi non possiamo non parlare della legge Zan, prepariamo un servizio su tutti i casi di omofobia di cui ci siamo occupati. Poi ho sentito dentro di me il bisogno di fare qualcosa, avevo un terremoto dentro. Mi sembrava che l’Italia stesse diventando chiusa come la mia stanza a Catanzaro. Ho deciso di dire delle parole. Ho informato i mei collaboratori che hanno applaudito e questo mi ha commosso. Poi, al termine del servizio, ho chiesto alla regia di inquadrarmi e ho pronunciato, stavolta con rabbia, queste parole: “Vi devo dire che tutto questo mi procura grande sofferenza perché è successo anche a me, l’ho provato sulla mia pelle e so cosa vuol dire. Quindi mi auguro che su un tema così importante ci possa essere un supplemento di riflessione da parte di tutti”. Niente di eroico, sia chiaro. Ma sentivo il dovere civile di farlo. Ed è stato utile».

Gli chiedo di immaginare di voltarsi, durante la cerimonia, e vedere Alberto, ragazzino di un metro e sessanta, tra gli invitati. Cosa gli direbbe?

«Lo abbraccerei e lo ringrazierei. La sua sofferenza e la sua forza sono state la condizione essenziale della mia gioia di oggi».

Da “Chi” l'1 giugno 2022.

Alberto Matano dice sì a zia Mara

A pochi mesi dal suo coming out in diretta tv, Alberto Matano, uno dei volti più amati della Rai, ha deciso di convolare a nozze con il suo compagno di molti anni. 

Per ora si sa che la cerimonia si svolgerà a luglio e a officiarla sarà nientemeno che Mara Venier, una delle amiche più care del giornalista e conduttore. 

Da "DipiùTV" il 7 giugno 2022.

Come riporta il settimanale DipiùTV in edicola, Alberto Matano ha scelto come data di nozze sabato 11 giugno, a Labico, nella campagna laziale, dove ha invitato tanti amici della Rai e colleghi del Tg1. 

Qui, di fronte all’amica del cuore Mara Venier, che officerà la cerimonia, e ospiti come Claudio Santamaria e Francesca Barra, e il cantante Sangiorgi dei Negramaro, il conduttore della "Vita in diretta” si unirà in matrimonio con il suo compagno: l’avvocato cassazionista Riccardo Mannino, cinquantacinque anni, sei più di Alberto, che prima di diventare giornalista si era laureato anche lui in Giurisprudenza.   

Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 9 giugno 2022.

Viva gli sposi, viva gli invitati e viva il ritorno di un rito sociale (e sociologico) dimenticato negli anni della pandemia: il matrimonio vip, quello con le foto degli sposi in copertina e gli invitati in lungo, i buffet stellati e le location da sogno, volti noti a garantire copertura mediatica e fiumi d'inchiostro versati su tanto, tantissimo amore.

Tocca al giornalista Rai Alberto Matano, 49 anni, e allo storico compagno Riccardo Mannino, 55, il compito di rompere il ghiaccio pandemico convolando a nozze sabato 11 giugno come si faceva una volta, ovvero: in grande.

Secondo le prime indiscrezioni (filtra sempre qualcosa, dai matrimoni vip) l'evento si svolgerà a Labico, seimila abitanti a 50 km da Roma, nel resort dello chef Antonello Colonna.

Stella Michelin, 3 forchette Gambero Rosso, volto degli Hotel da incubo del canale Nove (ma a scoprirlo nel 1991 fu la Rai con lo storico programma Più sani, più belli) Colonna ha servito, prima della coppia di sposi, la Regina d'Inghilterra Elisabetta II, Felipe de Borbon, Principe delle Asturie e pure i reali di Svezia. Scelta nel 2019 da Eva Grimaldi e Imma Battaglia per le loro nozze, la struttura, si legge sul sito, ospita riti civili «sia all'esterno, nel parco», che all'interno. Il ricevimento di Matano e Mannino si dovrebbe svolgere nel pomeriggio: a disposizione degli ospiti ci sarà anche una piscina con acqua termale e un centro benessere, oltre alla disponibilità di stanze dove potersi fermare per la notte. 

LA MADRINA Ad officiare il rito non sarà una persona qualunque ma il volto della domenica di Rai 1 Mara Venier, amica stretta di Matano e prima a ricevere le confidenze sentimentali del conduttore, che ieri ha pubblicato sui social un suo scatto avvolta dalla fascia tricolore che indosserà il giorno delle nozze: «Prove generali», ha scritto in un post su Instagram, cui Matano ha risposto dopo poco con un cuoricino.

Con loro, ieri a Labico, c'era anche Vincenzo Spadafora, ex ministro per le politiche giovanili e lo sport nel governo Conte II, che a novembre fu protagonista da Fabio Fazio di un commosso coming out in diretta («Sono cattolico, la mia fede non è in contraddizione con la mia vita») e che per un periodo fu erroneamente indicato, nelle cronache rosa, come il misterioso compagno del conduttore. In diretta tv, del resto, era arrivato anche il coming out dello stesso Matano, che a La vita in diretta, dopo l'affossamento del ddl Zan, aveva parlato del bullismo subito da ragazzo a causa dell'omofobia dei compagni: «Quando ero adolescente è successo anche a me, l'ho provato sulla mia pelle».

Poco dopo era arrivato l'annuncio, in un'intervista, dell'intenzione di sposarsi: «Desideriamo tanto farlo. Quando prenderemo la decisione lo annunceremo e condivideremo la nostra felicità con tutti». Il nome del futuro marito del conduttore, Riccardo Mannino, è emerso con certezza solo ieri, con la pubblicazione di alcuni scatti rubati ai due uomini, che immortalano la coppia nell'ultimo weekend da single, per le strade di Roma, con Matano trincerato dietro agli occhiali da sole e al cappellino, e Mannino in camicia azzurra e pantaloni di lino. 

Al suo fianco da anni, fin dai tempi in cui Matano conduceva il TG1 (2007-2019), Mannino - avvocato cassazionista - è di cinque anni più grande di lui, e con il futuro sposo condivide la passione per la legge (anche Matano si è laureato in giurisprudenza), oltre che l'amore per la discrezione con cui la coppia ha vissuto fino ad oggi la relazione: «Abbiamo aspettato tanto e poi deciso all'improvviso - ha detto Matano - È una scelta d'amore e di vita».

Massimo riserbo su invitati e numero (ma si parla di una lista da 400 nomi): tra i nomi circolati quello di Claudio Santamaria e la compagna Francesca Barra, il cantante Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, Raoul Bova e Rocio Morales, il direttore intrattenimento prime time Rai Stefano Coletta e numerosi colleghi di Matano in Rai, nessuno dei quali potrà - per espressa richiesta degli sposi - fotografare l'evento.

Matrimonio Alberto Matano, chi è il futuro marito Riccardo Mannino. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 9 giugno 2022.

Avvocato della Cassazione, ha 55 anni: ama lo sport e le auto d’epoca ma gira per Roma in bici. Le nozze con il conduttore de “La Vita in Diretta” il’11 giugno.

Chi è Riccardo

Le nozze di Alberto Matano si avvicinano e il conduttore de La Vita in Diretta sta preparando gli ultimi dettagli per il grande giorno in cui dirà sì al compagno Riccardo. I due sono stati fotografati insieme dal settimanale “Chi”: una storia, la loro, avvolta da sempre nella massima privacy e nel massimo riserbo. Il futuro marito di Matano è l’avvocato cassazionista Riccardo Mannino, 55 anni, sei più del giornalista.

Gli studi

Riccardo Mannino si è laureato nel 1990 all'Università La Sapienza. Anche Matano ha studiato Giurisprudenza ma poi ha frequentato la scuola di giornalismo radiotelevisivo di Perugia.

Passione sport

L’avvocato ha una grande passione per lo sport: va in palestra quotidianamente ma non solo. E’ un grande sciatore e in inverno non rinuncia a sciare sulle Dolomiti.

Bici e auto

Due ruote per la città, bici in particolare. Auto d’epoca nel tempo libero: Riccardo nasconde una passione per i motori ma è amante anche dei mezzi green e sostenibili.

Le nozze

Le nozze dell’11 giugno saranno officiate da Mara Venier a Labico alle porte di Roma, nel resort dello chef Antonello Colonna. Tra gli ospiti Claudio Santamaria e Francesca Barra e il cantante Giuliano Sangiorgi dei Negramaro.

Le nozze dell'ex mezzobusto del TG1. Chi è il fidanzato di Alberto Matano, il matrimonio con Riccardo Mannino che sarà il marito del conduttore Rai. Vito Califano su Il Riformista il 9 Giugno 2022. 

Sarò Mara Venier a officiare la cerimonia che sancirà l’unione di Alberto Matano con il fidanzato Riccardo Mannino. La notizia delle nozze imminenti del conduttore de La vita in diretta ed ex giornalista del Tg1 delle 20:00 era diventata piuttosto virale nei giorni scorsi. Il settimanale Chi, in edicola oggi, ha pubblicato le prime foto della coppia.

Il nome del compagno di Matano era stato tenuto nascosto. Il matrimonio si dovrebbe tenere secondo le indiscrezioni del settimanale nel tardo pomeriggio dell’11 giugno a Labico, poco fuori Roma, nel resort della tenuta dello chef Antonello Colonna. Venier officerà la cerimonia nuziale in qualità di grande amica di vecchia data di Matano. Si tratterà di una cerimonia molto intima.

La notizia delle nozze era diventata di dominio pubblico quando nella puntata de La Vita in diretta dello scorso 3 giugno la conduttrice era arrivata in studio a sorpresa. A quel punto Matano aveva annunciato: “Vi devo dire grazie perché vi ho sentito al mio fianco in quello che è stato un anno importante per me, per la mia vita. E quindi voglio dire una cosa molto semplice, anche nella vita l’amore vero vince sempre”.

Matano aveva fatto coming out dopo lo stop del Ddl Zan in Senato e l’esultanza sguaiata di numerosi onorevoli. “È successo anche a me quando ero adolescente – aveva detto in un’intervista a La7 parlando di omofobia e discriminazioni – l’ho provato sulla mia pelle. Ho sempre pensato che la mia vita privata non dovesse essere oggetto di attenzioni morbose e l’ho protetta con determinazione. Ma davanti alla difesa di diritti fondamentali non posso tirarmi indietro, il richiamo è troppo forte”.

Aveva raccontato in quella stessa intervista di avere un compagno. Riccardo Mannino ha 55 anni, è un avvocato cassazionista, si è laureato nel 1990 all’Università La Sapienza a Roma – anche Matano ha studiato Giurisprudenza alla Sapienza, prima di frequentare la scuola di giornalismo di Perugia. Secondo La Repubblica è appassionato di sport, di palestra, nuoto e sci. Appassionato anche di automobili, tanto da possederne una d’epoca. Tra gli ospiti della cerimonia dovrebbero esserci Claudio Santamaria e Francesca Barra e il cantante Giuliano Sangiorgi dei Negramaro. 

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 27 Febbraio 2022.

La recente intervista del Corriere della Sera ad Alberto Matano, ex mezzobusto del Tg1 e conduttore de La Vita in Diretta su Rai1, è stata rilanciatissima da tutte le testate. Intervista è una parola grossa, però, visto che non soltanto mancava la proverbiale "seconda domanda", ma si evidenziava anche la carenza della prima. 

Un fuoco di fila di spietati e implacabili interrogativi quali: "Cosa indossava al debutto al Tg1?", "Sua madre era una mamma tigre o elicottero?", fino al monumentale "Come si diventa Matano?", che avrebbe già fatto sorridere se domandato a fine anni '20 a Greta Garbo o Gloria Swanson.

Ma tant'è, questo e altro per celebrare sul Corrierone il "giornalista, autore e conduttore televisivo, calabrese «naturalizzato» romano, sex symbol, ragazzo della porta accanto, attivista, «gentile con il pugno di ferro». 

Ampio spazio ovviamente dedicato al suo coming out, ma nessun approfondimento sulla discussa concomitanza con quello dell'ex Ministro dello Sport Vincenzo Spadafora, che - ai tempi in cui era molto influente in Rai - lo voleva come Direttore del Tg1.

Nell'intervista apprendiamo però che Alberto è l'uomo degli "ascolti alle stelle" (su Rai1 da qualche tempo a questa parte fanno tutti ascolti alle stelle, ma com'è che poi sempre più spesso vince Canale5?), e che "tutti vogliono andare ospiti nella sua trasmissione".

Sicuramente l'intervistatrice Michela Proietti allude a se stessa, visto che è stata spesso ospite di Matano alla Vita in Diretta. E nel novembre 2021 il conduttore ha finanche presentato a Roma il libro della Proietti La milanese 2.

Un trionfo di autoreferenzialità, insomma: l'ospite ricorrente della trasmissione intervista il conduttore della trasmissione, il quale ha presentato il libro dell'ospite della trasmissione. 

Angelo Branduardi avrebbe prezioso materiale per un sequel della sua Alla fiera dell’Est. Ma non è che ordinaria amministrazione alla "fiera di Rai1", ormai da tempo divenuta salottino autoreferenziale dove tutti sono amici di tutti e s'invitano, si ospitano, si presentano, s'intervistano a vicenda, e prima o poi si faranno perfino la mano morta da soli, come direbbe la Sabrina Ferilli imitata da Francesca Reggiani.

Alberto Matano: «Ho un compagno e vorrei sposarmi, ma per i figli forse è tardi». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2022.

L’ex mezzobusto del Tg1, oggi conduttore de “La vita in diretta”, racconta il proprio impegno in nome dei diritti civili, passato anche dal coming out dopo la bocciatura del ddl Zan, e del fidanzato. «Troppe persone si ergono a giudici delle vite degli altri. Le categorie sono pericolose. I pregiudizi? Come un rumore di fondo costante». 

«Sono sempre coerente con me stesso, sia che si tratti di difendere dei diritti civili o di portare avanti piccole lotte personali. Ad esempio a dieci anni ho deciso che non avrei mai più sciato, e così è stato». Per Alberto Matano, 50 anni il prossimo settembre, l’uomo degli ascolti Rai alle stelle (18 per cento in media con la sua Vita in diretta, pochi giorni fa il record del 22%), è tempo di bilanci. Giornalista, autore e conduttore televisivo, calabrese «naturalizzato» romano, sex symbol, ragazzo della porta accanto, attivista, si definisce un «gentile con il pugno di ferro».

Come quando ha annunciato alla sua famiglia che non li avrebbe più seguiti in montagna?

«Sì sono una creatura marina, quel rito della salopette e degli scarponi mi affliggeva. Non ho più rimesso gli sci».

Un bambino ingestibile?

«Non proprio, forse con le idee chiare. Ho una foto di me piccolissimo che piango perché indosso il costume di Arlecchino. Quel costume non l’ho mai più messo».

«I MIEI GENITORI CI HANNO SPEDITI, ME E MIA SORELLA ADOLESCENTI, NEGLI STATI UNITI SENZA FARE UN PLISSÉ. VOLEVANO CHE FOSSIMO CITTADINI DEL MONDO»

Da che tipo di famiglia proviene?

«Una famiglia incredibile, che mi ha dato sempre il suo appoggio. Mia mamma ha studiato a Roma, dalle Dorotee. Siamo tre figli: mia sorella Maria Luisa vive a Milano, mio fratello Vincenzo a Bruxelles, lavora al Parlamento Europeo».

Una famiglia vincente. Metodo spietato da mamma tigre o accudente, da mamma «elicottero»?

«I miei genitori ci hanno spediti, me e mia sorella adolescenti, negli Stati Uniti senza fare un plissé. Volevano che fossimo cittadini del mondo. Ma senza mai farci mancare la cura e il senso del rincasare tipico delle famiglie del Sud».

Da Catanzaro a Roma, passando per la Scuola di Giornalismo radiotelevisivo di Perugia. Come si diventa Matano?

«È banale dirlo, ma con grande lavoro e dedizione. Sono il tipico professionista cresciuto dentro a un’azienda, ho cominciato da stagista. Poi al Tg1 è arrivato Mario Orfeo che mi ha affidato, dopo quella delle 13.30, la conduzione del tiggì delle 20».

Il primo giorno di telegiornale?

«Ho pensato che c’erano piu di 5 milioni di telespettatori: ho detto “buonasera” e ho dovuto raccogliere tutto il fiato che avevo in corpo per proseguire».

«IL MIO SPECCHIO. PER ME È DECISIVO CAPIRE COSA SI ASPETTA, INTERCETTARLO. AL TELEGIORNALE AVEVO UNA STRUTTURA ALLE SPALLE»

Cosa indossava?

«Un completo blu troppo classico, con una cravatta troppo classica. Cose che oggi non sceglierei più, mi sono “alleggerito”, ho trovato nuovi codici e nuove parole per arrivare al pubblico».

Il rapporto con il pubblico.

«L’elemento fondamentale, il mio specchio. Per me è decisivo capire cosa si aspetta, intercettarlo. Al telegiornale avevo una struttura alle spalle, con La vita in diretta sono uscito allo scoperto: o andava malissimo o benissimo. Per fortuna è accaduta la seconda cosa».

Quale è stata l’intuizione giusta?

«Modellare il programma su di me: ogni giorno va in onda una creatura che ho cresciuto con cura. Sento la responsabilità di un programma storico, di cui però ho modificato il racconto».

«MANTENGO I PIEDI PER TERRA, POI LA RUBRICA DEL TELEFONINO CHE TI RICORDA CHE TU SEI LO STESSO DI SEMPRE, MA QUALCOSA NELLA TUA VITA È CAMBIATO»

Qual è il termometro della notorietà?

«Quando incontro persone che conosco da anni e mostrano un certo imbarazzo. E poi la rubrica del telefonino che ti ricorda che tu sei lo stesso di sempre, ma qualcosa nella tua vita è cambiato».

Che numeri ha in agenda?

«Quelli degli amici, dei colleghi, la chat di famiglia. In mezzo però ci sono gli attori, i politici, gli imprenditori, un messaggio di Laura Pausini, un vocale di Massimo Ranieri. Mi fa sorridere questa commistione».

Gli amici tra i colleghi?

«La mia più cara amica, Ida Colucci, l’ho persa ed è un dolore ancora insopportabile. Ci sono Costanza Crescimbeni, con la quale siamo cresciuti insieme alla redazione del politico, Emma D’Aquino, la mia room-mate al telegiornale e Maria Luisa Busi, con cui ho condiviso tante maratone. Fuori dalla redazione c’è una coppia, lui è un bravo implantologo, lei è una super mamma: sono un prolungamento di famiglia».

Il mestiere di conduttore sminuisce quello di giornalista?

«Mai, pensare a compartimenti stagni è un limite. Ho iniziato a 27 anni facendo l’inviato politico e ritrovandomi davanti al presidente del Consiglio: ho sempre fatto tutto con serietà e professionalità, gli unici veri paletti che un professionista si deve dare».

«DAVANTI ALLA DIFESA DI DIRITTI FONDAMENTALI NON POSSO TIRARMI INDIETRO, IL RICHIAMO È TROPPO FORTE»

Ha usato la sua notorietà in veste di attivista, facendo coming out dopo lo stop del DDL Zan in Senato. E parlando di omofobia ha detto: «È successo anche a me quando ero adolescente, l’ho provato sulla mia pelle».

«Ho sempre pensato che la mia vita privata non dovesse essere oggetto di attenzioni morbose e l’ho protetta con determinazione. Ma davanti alla difesa di diritti fondamentali non posso tirarmi indietro, il richiamo è troppo forte».

Cosa ha provato sulla sua pelle?

«Non sempre certe ferite hanno a che vedere con la sfera sessuale. Io ero un ragazzino molto minuto, questo mi esponeva e da piccolo certi attacchi diventano un magma indistinto».

«NEL CORSO DELLA MIA VITA NON HO AVUTO CONFINI NELLA MIA AFFETTIVITÀ. E L’ULTIMO SANREMO CI HA DATO UNA LEZIONE: NON CI SONO CATEGORIE DOVE ESISTE AMORE»

Perché non ha mai parlato finora della sua vita sentimentale?

«Perché ritengo sia giusto e sano proteggere i propri sentimenti. E poi le etichette mi sono sempre andate strette. Nel corso della mia vita non ho avuto confini nella mia affettività. E l’ultimo Sanremo ci ha dato una lezione: non ci sono categorie dove esiste amore. Se con il mio compagno decideremo di sposarci, allora lo annunceremo e condivideremo la nostra gioia con tutti».

Vorrebbe sposarsi?

«Si e magari senza far passare troppo tempo. Forse è tardi per diventare genitori: si è fatta “una certa” per i figli... »

Il gossip la infastidisce?

«Molto, ma non ci posso fare nulla. A volte leggo delle storie assurde: “Con chi sta Matano?” oppure “Matano via dalla Vita in diretta”».

«LA VITA IN DIRETTA VA AVANTI CON LA FORZA DEI NUMERI. IN 25 ANNI DI RAI POSSO DIRE DI NON AVER MAI VISTO UNA PERSONA DI TALENTO RIMANERE INDIETRO»

O ancora che esiste una potente «lobby» alle sue spalle.

«Ecco, appunto, e io rispondo con i fatti: un programma come La vita in diretta va avanti con la forza dei numeri. In 25 anni di Rai posso dire di non aver mai visto una persona di talento rimanere indietro: è come stare in autostrada, io sono entrato con la mia “Smartina” e di sorpassi qualcuno ne ho visto. Ma ho raggiunto la mia meta: non mi sento più una canna al vento, ma una quercia con le radici ben salde».

Voleva essere dove è oggi?

«Volevo fare il giornalista radiotelevisivo e la televisione vive anche oggi una nuova riscossa nonostante ci siano i social, che frequento con moderazione».

Potrebbe condurre Sanremo.

«Magari il prossimo anno canto, vado in gara... siamo seri... faccio il tifo per Amadeus, professionista straordinario, anche umanamente. Noi del Sud siamo fatti in un certo modo e la gente mi vanto di riconoscerla al primo sguardo».

«SO COSA ASPETTARMI DA UNA PERSONA APPENA LA CONOSCO. CON MARA VENIER È STATO COSÌ: CI SIAMO RICONOSCIUTI ED È DIVENTATA UNA SORELLA»

Istintivo?

«So cosa aspettarmi da una persona appena la conosco. Con Mara Venier è stato così: ci siamo riconosciuti ed è diventata una sorella. Mi ha invitato a Domenica in a cantare Buonasera Dottore . In taxi l’ho provata tutto il tempo, il tassista mi guardava male».

Un tratto del suo carattere?

«Sono un gentile determinato. Se credo in un’idea alzo anche la voce. Ma sono uno Stromboli: le mie eruzioni non fanno quasi mai male».

Si lascia consigliare?

«Il mio è un lavoro di team, ascolto sempre, poi però decido io. Tra le cose che mi rendono più orgoglioso c’è che tanti miei collaboratori stanno prendendo il tesserino da professionisti. Io sono stato un giovane supportato dai “maestri”, da Gianni Riotta a Daria Bignardi a Stefano Coletta, che mi ha guidato nel passaggio all’ infotainment».

Qual è la missione di un giornalista ?

«Scendere in campo per difendere dei diritti. Quando si parla di cose che la gente vive sulla propria pelle, è il momento di intervenire. Troppe persone si ergono a giudici delle vite altrui».

«IN TRASMISSIONE DA ME NON TI ASPETTI LA TRAPPOLA, NON SONO UNO DI QUELLI CHE TI INVITA PER METTERTI IN DIFFICOLTÀ»

L’orientamento sessuale può condizionare una carriera?

«Le categorie sono molto pericolose e certi pregiudizi ci sono sempre, come un rumore di fondo».

Cosa pensa del termine fluido?

«Lo trovo realista e contemporaneo. I giovani lo hanno fatto proprio».

Come ha vissuto il periodo del Covid?

«In modo quasi monacale, lontano dalla mia famiglia. Ai miei genitori abbiamo regalato Alexa e oggi li controlliamo a distanza... loro si dimenticano che “lei” c’è e noi li sentiamo battibeccare. È molto divertente».

«LE PERSONE SI DEBBANO PRIMA DI TUTTO FIDARE DI UN GIORNALISTA. UN CONTO È AVERE AUTOREVOLEZZA, UN CONTO È ESSERE SCORRETTI»

Perché tutti vogliono venire in trasmissione da lei?

«Perché non ti aspetti la trappola, non sono uno di quelli che ti invita per metterti in difficoltà».

Più si è temuti, più si è autorevoli. Non è più così?

«Credo che oggi, per come va il mondo, le persone si debbano prima di tutto fidare. Un conto è avere autorevolezza, un conto è essere scorretti».

Cosa le dicono i suoi genitori dopo la diretta?

«Sono sempre dalla mia parte. Poi quando di domenica ci colleghiamo attraverso Alexa, mi riprendono: sei pallido, hai mangiato?, su fatti la barba ...». 

·        Alda D'Eusanio.

Da leggo.it il 28 febbraio 2022. Alda D'Eusanio ha spiegato in un'intervista al settimanale "Vero" che Laura Pausini le avrebbe chiesto un milione di euro di risarcimento per le parole pronunciate sul suo matrimonio al Grande Fratello Vip. Da allora la carriera della conduttrice sarebbe precipitata e nessuno la chiamerebbe più in uno studio televisivo. Ora la cantante tramite il suo staff smentisce la cifra.  

Durante la sua esperienza nella casa più spiata d'Italia, Alda D'Eusanio aveva parlato del marito di Laura Pausini, Paolo Carta, ritenendolo responsabile di violenze domestiche. Al settimanale "Vero" ha dichiarato: «Non ho accusato o diffamato, ho solo riportato una chiacchiera da bar e non ho avuto la possibilità di scusarmi pubblicamente perché l’editore ha dato ordine a Mediaset di non fare il mio nome.

Nemmeno i miei amici potevano citarmi dalla d’Urso, hanno voluto annientarmi. Ho aspettato due mesi che qualcuno di loro si facesse vivo, poi ho denunciato. La Pausini ha minacciato la querela, cosa che poi ha fatto, chiedendomi un milione di euro di risarcimento. La verità deve venire fuori. Non si possono perdere anni di carriera per uno scivolone. Prima di distruggere e annientare una persona è consigliabile essere più umani». 

Laura Pausini smentisce Alda D'Eusanio

Secondo quanto riporta Fanpage.it lo staff della cantante ha parlato di una cifra nettamente inferiore.   «Troviamo assurdo che sia consentito dire cose così false e gravi nell’ambito pubblico e in questo caso di una trasmissione televisiva. -  avevano sottolineato Pausini e Carta in una nota diffusa dopo le accuse - Nessuno può permettersi di attribuirci cose che sono lontane anni luce dal nostro modo di vivere, di educare e di rapportarci all’interno della nostra famiglia. È una cosa molto grave ed insensata e non possiamo fare altro che affidarci alla giustizia, per tutelarci. I ricavati della denuncia saranno devoluti interamente alle associazioni contro la violenza sulle donne». 

"Un milione di euro di risarcimento?" Bugie: così lo staff di Laura Pausini smonta la versione di Alda D'Eusanio. Francesco Fredella su Il Tempo l'01 marzo 2022.

La richiesta di risarcimento, che la Pausini avrebbe fatto alla D'Eusanio, sarebbe di 1 milione di euro. L'ex giornalista del pomeriggio di Rai2 lo fa sapere tornando a parlare dopo mesi di silenzio e dopo quella spiacevole situazione che l'ha vista coinvolta al Gf vip, lo scorso anno. Alda D’Eusanio ha svelato di non lavorare più in tv da quando è stata squalificata al Grande Fratello Vip per le scioccanti dichiarazioni su Laura Pausini. L'intervista è stata rilasciata al settimanale Vero, la famosa cantante - amata in tutto il mondo - le avrebbe presentato il conto come risarcimento per danni morali e professionali. Ma questa dichiarazione della D'Eusanio sarebbe stata smentita dallo staff della Pausini, infatti a Fanpage alcuni collaboratori della cantante hanno rivelato che la richiesta di risarcimento è reale, ma non uguale alla somma citata dalla D’Eusanio. La Pausini, tra l'altro, ha intenzione di devolvere l'eventuale somma in beneficenza. 

Dopo il terremoto, causato dalle frasi della D'Eusanio (che venne squalificata al Gf vip) Laura Pausini e il compagno Paolo Carta avevano preso le distanze da quelle affermazioni: un'altra brutta pagina di tv all'interno di un programma ormai sempre più pressante dove certe frasi non dovrebbero mai essere pronunciate. Ma lo scivolone della D'Eusanio c'è stato, inutile negarlo. La D'Eusanio, senza prove, aveva accusato Carta, chitarrista e compagno di Laura nonché padre di sua figlia Paola, di violenze domestiche nei confronti della cantante. Tutto senza fondamento, tutto assurdo. Tra l'altro ancora più grave quando un'affermazione simile arriva da una giornalista, che dovrebbe inseguire sempre la verità. La D'Eusanio, poi, si è pentita. Ma è servito a poco: lacrime di coccodrillo. Laura Pausini, subito dopo, disse in una nota: “Nessuno può permettersi di attribuirci cose che sono lontane anni luce dal nostro modo di vivere, di educare e di rapportarci all’interno della nostra famiglia. È una cosa molto grave ed insensata e non possiamo fare altro che affidarci alla giustizia, per tutelarci. I ricavati della denuncia saranno devoluti interamente alle associazioni contro la violenza sulle donne”.

Da liberoquotidiano.it il 21 gennaio 2022.

Accusa Mediaset e Pier Silvio Berlusconi la giornalista Alda D'Eusanio. Dopo la squalifica immediata alla quinta edizione del Grande Fratello Vip la sua carriera e la sua vita infatti sono state rovinate. La giornalista non lavora più, non è più apparsa in tv. Né sulle reti Mediaset né in Rai dove era spesso ospite di vari programmi. Ora la D'Eusanio, in una intervista al settimanale Nuovo, ha raccontato il suo dramma che ha coinvolto sia la sfera privata sia quella professionale.

"Ho fatto causa a Mediaset. Per due mesi ho aspettato che qualcuno mi rispondesse. Ma nessuno mi ha mai più parlato: né Alfonso Signorini né tantomeno l’editore Pier Silvio Berlusconi", tuona la giornalista. "che ha preso la decisione di cacciarmi via con infamia, distruggendo 40 anni di carriera". E ancora attacca la D'Eusanio: "Oltre che in Mediaset non mi chiamano più in Rai: per quale motivo?". 

In realtà la D'Eusanio, quando era una delle concorrenti della Casa ha lanciato una serie di sparate che oltre a costarle caro hanno fatto infuriare le persone coinvolte che si sono rivolte agli avvocati. Il produttore discografico Adriano Aragozzini, per esempio, le ha chiesto un milione di euro di danni per avergli attribuito la “distruzione” artistica e umana di Mia Martini. Laura Pausini, invece, ha denunciato la giornalista per le false accuse di violenza domestica che hanno coinvolto il suo compagno Paolo Carta.

Da ilmessaggero.it il 26 febbraio 2022. 

Dopo l'esperienza al Gf Vip, la vita per Alda D’Eusanio non è stata più la stessa. Nessuna più ospitata né in Rai né in Mediaset. Buttata fuori dal reality in tuta e ciabatte senza possibilità di rientrarci per una frase detta "contro" Laura Pausini, oggi Alda torna a parlare di quei momenti nel settimanale Vero. In principio fu un "negro" a far arrivare la prima ramanzina di Alfonso Signorini alla giornalista, poi la "chiacchiera da bar" (come la definisce lei) riferita alla cantante.

La 70enne aveva accusato  Paolo Carta, compagno di Laura, di violenze domestiche.  «Non ho accusato o diffamato, ho solo riportato una chiacchiera da bar e non ho avuto la possibilità di scusarmi pubblicamente perché l’editore ha dato ordine a Mediaset di non fare il mio nome». .

Alda D'Eusanio, la squalifica immediata dal Gf Vip

Ma Mediaset la pensò diversamente  e per la D'Eusanio la squalifica dal reality è immediata. «L’editore si dissocia completamente dalle reiterate affermazioni inopportune e offensive della concorrente anche riferite a persone non presenti nella casa … Un comportamento grave e imperdonabile soprattutto alla luce del fatto che Alda D’Eusanio non sia una concorrente estranea al mondo della tv ma una professionista adulta ed esperta a cui certe espressioni non possono sfuggire. La signora D’Eusanio si dovrà assumere la completa responsabilità delle sue azioni».

E poi scese in campo anche Endemol Shine: «Endemol Shine Italy si scusa e si dissocia completamente dalle affermazioni pronunciate dalla signora Alda D’Eusanio nella Casa di Grande Fratello Vip in merito alla vita privata di Laura Pausini, affermazioni che hanno violato il regolamento del programma e delle quali sarà chiamata a rispondere personalmente. La produzione del programma procederà all’immediata squalifica della concorrente».

La denuncia della giornalista a Mediaset

Momenti duri per Alda che sottolinea la situazione oggi drammatica: «Nemmeno i miei amici potevano citarmi dalla d’Urso, hanno voluto annientarmi. Ho aspettato due mesi che qualcuno di loro si facesse vivo, poi ho denunciato». 

Alda ha quindi deciso di querelare Mediaset e la produzione del reality per la "terra bruciata" che le hanno fatto attorno. Ma querela che fai, querela che arriva, e quella arrivata alla D'Eusanio da parte della cantante non è stata leggerissima. «La Pausini ha minacciato la querela, cosa che poi ha fatto, chiedendomi un milione di euro di risarcimento. La verità deve venire fuori. Non si possono perdere anni di carriera per uno scivolone. Prima di distruggere e annientare una persona è consigliabile essere più umani». 

Il comunicato di Laura Pausini e Paolo Carta

E la loro verità i diretti interessati l'hanno scritta a chiare lettere. «Troviamo assurdo che sia consentito dire cose così false e gravi nell’ambito pubblico e in questo caso di una trasmissione televisiva», sottolinearono Pausini e Carta in una nota diffusa via social dall’ufficio stampa della cantante dopo le pesanti accuse, mosse da D’Eusanio. «Nessuno può permettersi di attribuirci cose che sono lontane anni luce dal nostro modo di vivere, di educare e di rapportarci all’interno della nostra famiglia. È una cosa molto grave ed insensata e non possiamo fare altro che affidarci alla giustizia, per tutelarci. I ricavati della denuncia saranno devoluti interamente alle associazioni contro la violenza sulle donne». Sulla vicenda non è più tornata la cantante: la Pausini non ha più parlato pubblicamente della D’Eusanio.

Piogge di querele

Non solo Laura Pausini anche Adriano Aragozzini produttore discografico ha chiesto un milione di euro di danni ad Alda. Il motivo? Avergli attribuito la “distruzione” artistica e umana di Mia Martini. Intanto sulla questione Laura Pausini, dopo un post social, non è mai più intervenuta.

I danni economici e psicologici

Tutto troppo forte a detta della giornalista che sottolinea a gran voce di non essere né razzista, né una bestemmiatrice. Alda D’Eusanio è stata espulsa all’improvviso: era in tuta e ciabatte quando gli autori del programma l’hanno chiamata e l’hanno mandata via. Alla presentatrice non è stato permesso neppure di rientrare a prendere le sue cose. Poi il divieto sia nel reality che in qualsiasi rete di nominarla e il silenzio è calato.

La D’Eusanio ci ha tenuto inoltre a sottolineare ancora una volta che sa di aver sbagliato per quelle frasi sulla Pausini ma che da parte sua non c’erano intenti offensivi. Un'esperienza quella del Gf Vip vhe le ha rovinato la carriera e che le ha lasciato danni psicologici, economici e dì immagine. Nè è certa la D'Eusanio che già aveva dimostrato le sue reticenze sulla sua partecipazione al reality. Lei non era convinta e il suo neurologo glielo aveva sconsigliato per via degli effetti del coma di qualche anno fa. Ma poi Alfonso Signorini ha insistito e Alda ha ceduto alle avance del conduttore. E la fine la sappiamo.

·        Aldo Cazzullo.

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 14 novembre 2022.

«Il fascismo non tornerà mai più, ma non tutte le sue idee sono morte. In Europa c'è un nazionalismo xenofobo diffuso e conviene soprattutto alla destra combatterlo. Certi rigurgiti fanno il gioco della sinistra, che li strumentalizza per legittimarsi politicamente». 

Asserragliarsi sulla trincea antifascista e farne il cavallo di battaglia principale della campagna elettorale però non ha portato bene al Pd e a Letta. Perché?

«La religione dell'antifascismo è un'arma politica inutile. Gli italiani non avvertono, giustamente, il rischio di una dittatura e la maggioranza dei cittadini ha, ingiustamente, un giudizio non troppo negativo del regime». 

Com' è possibile?

«Un po' perché la neonata Repubblica riciclò gran parte della classe dirigente fascista.

Non ci furono un'autentica assunzione di responsabilità collettiva né una profonda presa di distanza dal regime. Molto anche per una rimozione di massa. Gli italiani preferirono non processare se stessi e i loro padri, le famiglie perdonarono, o meglio cancellarono tutto dalla coscienza collettiva». 

Come si concilia questo con il fatto che la nostra Costituzione si fonda sull'antifascismo?

«Noi italiani siamo particolari: la storia nazionale ci commuove e ci coinvolge quando coincide con quella delle nostre famiglie. In tanti hanno pensato: era fascista ma era mio padre, quindi non poteva avere torto. Quando poi è risultato evidente che anche i comunisti hanno commesso crimini efferati, si è pensato: hai visto? Gli altri erano peggio».

Il sociologo Luca Ricolfi sostiene che, oltre che da un'incompiuta maturazione democratica, l'indulgenza degli italiani verso il fascismo dipenda da una sorta di imbarazzo collettivo...

«Nell'autoassolverci siamo arrivati a raccontarci che il bilancio del fascismo, fino alle leggi razziali del 1938 e alla guerra, fu in fondo positivo. Invece no, ci furono crimini ed errori tragici fin da subito. 

Il punto è che l'antifascismo è diventato antipatico perché la sinistra se ne è appropriata e ne ha fatto la sua bandiera, così la maggioranza dei cittadini lo equipara al comunismo e allora se ne allontana, non lo rivendica. L'ho vissuto sulla mia pelle: ho scritto il libro "Mussolini, il capobanda", descrivendo le nefandezze del regime, e mi hanno dato del comunista, insultandomi ferocemente, ma io sono un liberale...».

Quando è nata l'antipatia per l'antifascismo?

«Negli anni Settanta, quando la sinistra divenne anche violenta e se compravi il giornale sbagliato rischiavi le botte in strada perché eri un maledetto borghese. Quel clima di intimidazione e brutalità non aveva nulla a che fare con l'antifascismo ma si presentava come tale e il Pci non l'ha sconfessato come avrebbe dovuto». 

La sinistra ha operato una sorta di sequestro della Resistenza, cancellandola dalla memoria comune del Paese e riservandola solo a se stessa?

«La destra dovrebbe rivendicare di aver contribuito alla sconfitta del nazifascismo, battuto da Churchill e De Gaulle, che erano uomini di destra». 

Il libro di Aldo Cazzullo, uscito a settembre, risulta il più venduto in Italia e il successo è tale che ne è subito nato uno spettacolo teatrale, "Il duce delinquente", nel quale il vicedirettore del Corriere della Sera racconta fatti storici e l'attore e scrittore legge testi di Mussolini, il tutto accompagnato da musiche e canzoni del Ventennio.

È una rievocazione spietata, che restituisce il ritratto di «un uomo cattivo», come lo definisce l'autore, «insensibile davanti alle montagne di cadaveri degli alpini, respinti dai greci in Albania, dove il Duce si recò per evitare il tracollo, quasi compiaciuto della tragica fine di chi aveva perso, e capace perfino di chiudere e far morire in manicomio a 25 anni Benitino, il figlio illegittimo avuto da Ida Dasler, pure lei ricoverata a forza, fatto passare per folle perché sosteneva che Mussolini fosse suo padre».

Il lavoro è stato pensato perché uscisse in concomitanza con il centenario della Marcia su Roma e Cazzullo ha scritto quando il governo Draghi era nel pieno dei suoi poteri e si pensava che si sarebbe andati a votare l'anno prossimo. «Nessuna operazione opportunistica o mirata all'incarico di Giorgia Meloni come presidente del Consiglio» precisa il giornalista, per nulla felice che l'arrivo sul mercato del suo libro sia coinciso con l'insediamento del primo esecutivo di destra della Repubblica. 

«Mi infastidisce l'idea che si possa equivocare e pensare che il lavoro sia legato all'attualità politica» confida Cazzullo, che alla premier dà un sentito consiglio: «Non basta la condanna in Aula delle leggi razziali, non è sufficiente dire "non ho mai provato simpatia per il fascismo, come per tutti i regimi", il presidente del Consiglio dovrebbe esprimere una condanna globale e definitiva del regime e celebrare il 25 aprile, approfittandone per ricordare che la Liberazione non fu solo un merito della sinistra ma che molti partigiani erano cattolici, liberali, monarchici e non solo comunisti. Le prime bande partigiane furono composte da alpini reduci dalla Russia che rifiutarono di arruolarsi con la Repubblica di Salò». 

Festeggiare il 25 aprile non significherebbe cedere alla sinistra?

«Non deve farlo per la sinistra ma per se stessa, visto che è lei la principale vittima dei rigurgiti fascistoidi che ogni tanto si manifestano nel Paese». 

Quindi la Meloni dovrebbe anche togliere la Fiamma dal simbolo di Fratelli d'Italia?

«Secondo me le fa perdere più voti di quanti non gliene conservi. Ai giovani della Fiamma non interessa, mentre sono convinto che ci sia un 2% di vecchi liberali e democristiani che alla fine ha votato Berlusconi proprio perché allergico alla Fiamma».

È per la Fiamma che la sinistra sta facendo un'opposizione così dura alla leader di Fdi?

«In verità, la nostra sinistra si scatenò contro Berlusconi molto più di quanto non stia facendo oggi contro la destra; perché l'attuale presidente del Consiglio viene dalla politica, e quindi è meno indigesto e fa meno paura ai partiti dell'opposizione di quanto non la facesse il leader di Forza Italia, padrone delle tv e del Milan, che aveva in mano le anime degli italiani». 

La sinistra chiede alla destra di ripudiare il fascismo, ma perché si inalbera se qualcuno le chiede di ripudiare il comunismo, o semplicemente vuole festeggiare il 9 novembre, giorno della caduta del Muro di Berlino?

«In Italia abbiamo subito il fascismo e non il comunismo».

Questa è la risposta standard, ma non si addice a una sinistra europeista e globalista...

«La nostra sinistra alimenta il falso mito del comunismo buono, quello all'italiana, per intendersi. Io invece in questo la penso come Berlusconi e sono convinto che il 9 novembre andrebbe festeggiato come festa di liberazione dal comunismo, che ha portato ovunque morte e lacrime. Non mi piace quando D'Alema si definisce un vecchio comunista, ma sono convinto che nella nostra storia nazionale siano insite radici fasciste più che comuniste».

Perché dice questo?

«Il fascismo l'abbiamo inventato noi, e poi l'abbiamo esportato in tutto il mondo». 

Chi più, chi meno, tutti gli italiani erano fascisti...

«È falso, anche perché è impossibile misurare il consenso di una dittatura. La maggioranza subì il fascismo, che si impose con la violenza e centinaia di morti: i socialisti di San Lorenzo gettati dalle finestre, il segretario della Camera del Lavoro di Torino legato a un camion e trascinato per le vie della città... Nel 1922 lo Stato liberale era collassato, l'Italia era allo sbando e i fascisti si imposero anche perché erano i più spietati, quindi i più forti».

Però il mito di Mussolini è una realtà ancora oggi...

«Noi italiani non abbiamo un rapporto maturo con il potere. I leader non vengono sostenuti o criticati, ma blanditi o abbattuti. È capitato, in circostanze ovviamente non paragonabili, a Mussolini, Craxi, Moro, Andreotti, un po' anche a Berlusconi. Abbiamo subito troppe dominazioni e perciò diffidiamo dello Stato e della democrazia rappresentativa. Per noi è inconcepibile che qualcuno possa usare il potere per il bene comune e non invece per se stesso e i propri cari». 

Se l'è meritato la Meloni, il potere?

«Sì, lei ha una storia personale bella e da rispettare. Non ha nessun legame con il fascismo, ma semmai tentazioni sovraniste che però non le impediscono di comprendere che con l'Europa è meglio trattare. Per questo non le conviene litigare con la Francia». 

Veramente lei si dice europeista, solamente per un'Europa Confederale...

«Nella Meloni è viva la vecchia anima atlantista, filo-israeliana e liberale del Movimento Sociale, quella di Almirante e di Fini, che ha prevalso su quella filo-islamica, terzomondista e antiamericana che è invece più vicina alla memoria del fascismo».

Quanto durerà il governo?

«Lei è in gamba e ha una forte personalità, ma ha alleati scontenti o che hanno abbassato la testa molto controvoglia, e in Italia i governi non reggono l'intera legislatura. E poi oggi gode del dividendo di non aver mai governato, che presto è destinato a esaurirsi». 

Però manca l'opposizione...

«Il Pd lo vedo meglio di come viene descritto, specie se non tenterà di tornare al governo subito e senza passare dal voto. Certo, ogni volta che si modernizza perde voti. Aveva trovato uno capace di prendere i voti a destra, Renzi, ma l'ha cacciato come un usurpatore. Ora deve recuperare il voto popolare, rendendosi conto che il prezzo dell'immigrazione lo pagano appunto i più poveri».

Estratto dell’intervista di Francesco Melchionda a Aldo Cazzullo pubblicata su perfideinterviste.it il 3 maggio 2022.

I direttori peggiori che ha avuto finora? 

Con Carlo Rossella, sì, devo ammetterlo, non c’è stata molta affinità. Era un personaggio simpatico, anche affascinante, ma poco serio.  

Che scherzo le fatto il buon Carlo? 

Io avevo il sogno di andare a fare il corrispondente a Parigi, città cui sono legato in modo particolare. Ogni anno, in sostituzione del corrispondente che andava in vacanza, seguivo, per un mese, le vicende francesi. Sembrava sempre che non succedesse nulla, poi, all’improvviso, mi trovavo sempre a dover raccontare vicende intense, drammatiche: penso alla morte di Lady Diana, le bombe algerine, o il referendum per il trattato di Maastricht… 

Insomma, quando Rossella mi incrociava nei corridoi della redazione, mi prometteva sempre una sede estera, di solito Parigi. Ma il culmine fu quando si liberò la sede di Bruxelles: propose, l’uno all’insaputa dell’altro, a me, Zatterin e Manacorda, di tenersi pronti. Poi mi disse: Aldo, dovresti imparare un po’ di tedesco, preparati per Bonn. Poi, quando portarono la capitale a Berlino, Berlino. Insomma, tante chiacchiere… Osservandolo da vicino, ho capito che per Rossella dirigere un giornale significava gestire equilibri, favori… Un’idea di giornalismo lontanissima dalla mia. 

E’ rancoroso? 

No, sono permaloso.  

Quanti amici ha nella sua vita? 

Avendo girato molto quand’ero bambino, direi pochi. Il mio più caro amico si chiama Lorenzo, e non fa il giornalista. Con lui condivido la passione per la storia e lo sci. Nel giornalismo, invece, Fabrizio Roncone, con cui ho scritto anche un libro. Ma non posso dimenticare, allo stesso tempo, Filippo Ceccarelli, Pigi Battista, persone che mi hanno insegnato molto. E tra i direttori, invece, Marcello Sorgi e Stefano Folli. Con Mauro, invece, è un po’ più difficile essere amico perché è un uomo asciutto, distanziante.  

Come nasce la sua amicizia con Giampiero Mughini? Perché sentì la necessità di conoscerlo? 

Giampiero Mughini è una delle prime persone che andai a trovare, quando mi trasferii a Roma per lavoro, oltre ventidue anni fa. Aveva scritto un libro sugli anni Settanta che mi era piaciuto molto, «Il grande disordine»; siccome ne stavo scrivendo uno su Lotta Continua, avevo voglia e curiosità di incontrarlo. 

In lui, come nei suoi libri, ho sempre trovato una profonda compassione per le sofferenze degli uomini, e un senso di ammirazione per la grandezza e la nobiltà d’animo che è una delle attitudini che mi ha trasmesso mio padre. Il massimo per me è Albert Sabin che rinuncia a brevettare il vaccino contro la polio perché “non appartiene a me ma all’umanità, è il mio regalo ai bambini di tutto il mondo”. Mi commuovo ogni volta che ci penso. 

C’è qualcosa che non condivide di Mughini? 

Tifiamo la stessa squadra, la Juventus, ma io a differenza di Giampiero ho un giudizio assolutamente negativo su Moggi.  

Scrive, a volte, libri mainstream, risponde tutti i giorni ai lettori del Corriere, viaggia, verga editoriali, ricordi. 

Non mi riconosco come scrittore di libri mainstream. Alcuni sono libri di successo, è vero. Ma spesso vanno controcorrente. Tanto per fare degli esempi: nel 2010 ho pubblicato “Viva l’Italia!” sulla difesa del Risorgimento, che è quanto di più fuori moda rispetto alla vulgata politica corrente; “Possa il mio sangue servire” sulla Resistenza, oggi molto denigrata; “Basta piangere”, contro il piagnisteo che è un po’ il tono medio del nostro tempo.  

E’ drogato di lavoro? E’ compulsivo? 

Sì, vero, lavoro tanto. Ma ho la fortuna di fare una cosa che mi piace, e, quindi, non sento il peso o la fatica di lavorare tanto, nonostante non sia più così giovane. La cosa bella de giornalismo è che un lavoro che coincide con la vita: cosa pretendere di più?  

La sua presenza, così strabordante, non potrebbe essere ancor più apprezzata, con uno po’ di assenza? 

Ci penserò, e terrò conto del suo consiglio. Ma tenga presente che in tv non vado quasi mai, se non a parlare dei miei libri. Quelle poche volte che mi invitano, vedo sempre con sollievo la fine della trasmissione.  

Sovente, nella girandola delle poltrone, il suo nome è spesso associato a qualche poltrona di direttore. Chi è che, al momento opportuno poi, la cassa dalla lista? Se l’è mai chiesto? 

Be’, qualche no l’ho detto. E forse è stato una fortuna. 

Per lei o per i lettori? 

Chi può dirlo? Certo per me. 

In quale giornale, finita l’esperienza al Corriere, vorrebbe andare a lavorare? 

Ho un ricordo bellissimo dei miei quindici anni alla Stampa, ma, in tutta onestà, vorrei chiudere al Corriere, che un po’ è anche casa. Renzo Piano dice che si deve morire nel cantiere. Per un giornalista, vuol dire morire scrivendo o andando in giro per il giornale… 

Andrebbe mai a dirigere La Verità, Libero o il Giornale? Perché no? 

Il problema non si pone perché non me lo chiederebbero…  

E se, invece, glielo chiedessero? 

Ma no, stia tranquillo, non lo faranno… 

E’ più ambizioso o arrivista? Sembra molto feroce… 

Arrivista per niente. Ambizioso sicuramente, e non ci vedo nulla di male. 

Si è mai sentito qualche volta, al mattino, guardandosi un po’ allo specchio, una sorta di Bel Ami del giornalismo italiano? 

Assolutamente no! Nessuno mi ha regalato nulla. Quello che mi sono conquistato non è piovuto dal cielo in cambio di qualcosa. I lettori te li conquisti con il lavoro e la fatica, e scrivendo cose interessanti.  

Quante volte le è capitato di adulare un potente? 

Mai, assolutamente mai! Non ho mai chiesto nulla a nessuno. Al massimo, ho potuto provare stima. Né farò mai politica. 

Chi sono, oggi, secondo lei, i più grandi leccapiedi tra i giornalisti? 

E’ vero che non godiamo di ottima fama in questo periodo, ma non penso ci siano oggi grandi leccapiedi in Italia; sicuramente ci sono giornalisti che, lavorando a stretto contatto con la politica e con il potere economico, a volte hanno la tendenza di mettersi al servizio di qualcuno. 

Nei suoi articoli, raramente si scorge un vero graffio, una scorticatura profonda. Come mai la sua penna è sempre così equilibrata? E’ pavido? Vigliacco? 

Nessuno, dinanzi ad una domanda del genere, le dirà mai, Francesco, sì, sono pavido o vigliacco! Ho scritto tantissimi articoli critici, per ricordare solo una vicenda ho litigato con Marine Le Pen alla vigilia del ballottaggio del 2017, stando sempre attento, però, a non offendere nessuno. Non mi riconosco nel ritratto che mi sta facendo…  

Quale è stata la più grossa topica da che fa il giornalista? Se la ricorda una lavata di capo da parte di uno dei suoi direttori?

Avevo 23 anni e avevo fatto un articolo su una nuova cura promettente contro il cancro. Mi chiamò Gaetano Scardocchia, all’epoca direttore della Stampa, e mi fece una cazziatone terribile, dicendomi che non bisognava mai dare false speranze ai parenti dei malati. Fu una lezione molto utile, vale a dire avere il massimo rispetto dei lettori.

Si piace come uomo? 

Non amo rivedermi, soprattutto quando vado in tivù. 

E’ più fedele agli amici o alle donne? 

Di donne preferisco non parlare. Anzi, le dico una citazione abusata: parlo con le donne, non delle donne. 

Le fa più gola il danaro o una bella donna? 

Nulla può essere più prezioso di una donna. Ho sempre sognato di avere una figlia femmina, ed è un sogno realizzato; anche se amo allo stesso modo, cioè moltissimo, il mio figlio maschio, che si chiama Francesco, come lei.  

Come nacque la sua amicizia con Dalla? 

Andai a intervistarlo poco prima che compisse 60 anni. E andai con l’idea di fargli confessare la sua omosessualità. Ero giovane, portare notizie, creare dibattito, discussione, fare casino. Quando arrivai a casa sua, Lucio mi fa: guardi, non ho nessuna confessione da farle. Poi, nel tempo, diventammo amici, e cominciammo a frequentarci. A distanza di anni – eravamo alle Tremiti – ritornando sul tema dell’omosessualità, Lucio mi disse che rifiutava etichette perché, nel tempo, aveva amato sia gli uomini che le donne. 

Anche lei, come il suo amico Lucio Dalla, è un po’ bugiardo? 

Lucio Dalla non mentiva, colorava: rendeva più bella e attraente la realtà. Tendo a essere una persona sincera, anche perché, oggi, con la rete, verrei subito sbugiardato. Alzi la mano chi non ha mai detto una bugia… 

·        Alessandra De Stefano.

Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2022.

«Ormai nelle dirette sportive le telecamere mostrano quasi tutto. Un giornalista bravo deve raccontare il "quasi" che non si vede, coltivare il silenzio, lasciare il microfono a chi gli sta a fianco senza gelosie quando serve». Alessandra De Stefano è la prima donna a dirigere RaiSport. «Una redazione - ha scritto Aldo Grasso sul Corriere - dove bisogna lavorare con l'elmetto in testa».

Ha l'elmetto, Alessandra?

«Non mi serve. Sono in Rai da trent' anni, mi scelse Gilberto Evangelisti: redattrice, inviata, autrice, cronista, vicedirettore. So di essere scomoda perché rivendico il diritto di scegliere chi va in video in base al merito e di privilegiare chi è bravo favorendo il ricambio: siamo troppo vecchi, a RaiSport». 

Il suo nuovo corso partirà domani dal calcio, in un momento delicato per la Nazionale. «Spoglieremo le partite dalle sovrastrutture. Basta collegamenti con studi che danno la linea ad altri studi: solo tribuna e campo. Bene le due voci di commento, ma quella tecnica non sovrasti mai la giornalistica. Più pause: vorrei che i rigori, ad esempio, venissero ascoltati come in una strada deserta. Silenzio, boati, silenzio, poi gioia o lacrime».

Cambierà uomini.

«Restano Alberto Rimedio e Antonio Di Gennaro, bravi. A bordo campo va Tiziana Alla, voce del calcio femminile, cronista capace a cui il posto spettava da anni. Racconterà cosa succede in panchina, se Mancini si alza, che giocatore abbraccia, perché cambia tono di voce o si slaccia la cravatta. Ciò che in tv non si vede, appunto». 

La mixed zone del calcio è un luogo di tensione.

«In Italia. In Premier League gli allenatori discutono più serenamente. Contano le domande, certo: inutile chiedere al tecnico perché abbiamo perso, meglio capire da lui perché siamo arrivati a giocarci la qualificazione all'ultima gara. Se rappresenti il Paese, però, devi essere disponibile anche nei momenti difficili. Incontrerò Mancini, troveremo un terreno comune: voglio il suo parere». 

Altre novità sul fronte della Nazionale?

«Paola Ferrari non condurrà più i post partita e nemmeno il nuovo 90° Minuto ma un contenitore domenicale assieme ad altre giornaliste». 

Sul ruolo della giornalista donna nel calcio si discute molto.

«Per me l'unico genere che conta è la bravura. Lo sport è maschilista, lo sappiamo. Il primo modo di cambiarlo è cambiare regia: che senso ha inquadrare sempre dal basso le donne per mostrare cosce, caviglie e scarpe? Togliamoci la maschera decorativa della femminilità, quel triste "è carina e anche brava". Per l'abbigliamento, a ciascuno il suo stile: ma certe scollature io le metterei solo al mare». 

La prima telecronista della Nazionale maschile?

«Arriverà». 

Lei viene dal ciclismo

«E quindi dalla strada. Lo rivendico: correndo per anni dietro ai ciclisti ho imparato tantissimo, specie nei 200 metri tra traguardo e podio: è lo spazio in cui prendono corpo emozioni e delusioni. Il ciclismo è duro, spietato e a volte tragico. Grande scuola». 

È anche un modello di racconto sportivo lungo e classico, difficile da rinnovare.

«Bisogna seguire il ritmo della vita di oggi: in quattro ore di diretta la gente si alza dal divano, mangia, fa il caffé, legge il giornale, consulta in telefono. Le telecronache del ciclismo e dell'atletica le vorrei come tavole imbandite dove ciascuno trova ciò che vuole, anche il silenzio delle montagne e il rombo delle moto. 

Due telecronisti, molte voci di contorno che si passano la palla, quel ritmo quasi musicale essenziale in una buona diretta. Basta con frasi come "Che campione!", sì a chi spiega perché è un campione». 

Chi condurrà il Processo alla Tappa.

«Ancora non posso dirlo ma non sarò io». 

Anche per l'atletica leggera ci saranno cambiamenti.

«I mondiali indoor li ha raccontati Luca Di Bella con Stefano Tilli. Qualcuno si è scandalizzato per l'assenza di Franco Bragagna, che però commenterà quelli estivi e altre cose. Di Bella - che ha 46 anni ed è bravo - segue l'atletica da dodici anni: quanto tempo ancora doveva aspettare per avere un'opportunità? E quanti cronisti in Rai sono nelle sue condizioni?». 

Cosa si aspetta dai suoi giornalisti?

«Fame di notizie e voglia di lavorare scomodamente, perché la comodità è una trappola per un cronista. Che siano corretti ma decisi, che non si facciano spaventare dall'aggressività di poteri forti o uffici stampa: se sei preparato e lavori seriamente la tua autorevolezza ti porterà sempre ad essere un interlocutore privilegiato dagli atleti».

Cos' ha sacrificato per raccontare lo sport?

«La mia vita, tutta. Ma ne valeva la pena».

·        Alessandra Sardoni. 

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 31 gennaio 2022.

Alla fine è stato rieletto il presidente Sergio Mattarella, il giusto premio per chi ha seguito ore e ore di tv. Se le cose fossero andate per le lunghe, ci sarebbe stato il rischio di una sovrapposizione con il Festival di Sanremo, con l'incognita di essere sepolti da facili metafore.

Già sono state elezioni piene di riferimenti televisivi: Romanzo Quirinale, Quizrinale, il reality della politica («per fortuna qui non c'è il confessionale», ha precisato Enrico Mentana), il talent dell'elezione del Presidente, l'intrattenimento quirinalizio, i dilettanti allo sbaraglio e via di analogie catodiche.

Se idealmente unissimo tutte le dichiarazioni dei partecipanti alla «chiama» ne verrebbe fuori un talk delirante, una girandola di opinioni campate sul nulla e aridamente guittesche. In effetti, c'è chi ha fatto di tutto perché queste elezioni sembrassero un brutto programma televisivo (mi riferisco in particolare a due «concorrenti», Matteo Salvini e Giuseppe Conte: il primo non ha indovinato un solo quiz, il secondo ha avuto la singolare capacità di esprimere il nulla), ma c'è anche chi si è quasi immolato perché l'inquilino del Colle non fosse l'espressione del condominio «Macerie dei Partiti».

A un certo punto, la sola parola d'ordine che circolava sugli schermi televisivi era «cherchez la femme» («non in quanto donna ma in quanto donna in gamba»), ma bastava seguire le sei maratone in sei giorni di Mentana per scoprire che la più brava di tutti era ed è Alessandra Sardoni.

Sempre puntuale, sempre ricca di informazioni, sempre imperturbabile, sempre gentile. Se deve fare una domanda, la fa in meno di 15 secondi (limite estremo per capire la bravura di un giornalista), se deve esprimere un'opinione la esprime con competenza. Avrà le sue idee ma le tiene per sé o non finge di ripararsi dietro i Travaglio (inteso come categoria). In tv, dopo Mattarella, Alessandra Sardoni. 

·        Alessandro Giuli.

Alessandro Giuli, l’opinionista che si traveste da Roberto Giacobbo. Beatrice Dondi su L'Espresso il 30 maggio 2022.  Il giornalista di Libero con “Vitalia” si immerge nei boschi alla ricerca delle origini del sacro. Perché ogni tanto bisogna pur prendersi una pausa dalla dura vita dei talk show.

È importante diffondere messaggi rassicuranti in questi tempi complicati. Per cui, se nella tarda serata del venerdì, vi fosse sembrato di scorgere una versione sui generis di Alessandro Giuli, sdraiato in un verde prato con uno zufolo in mano, niente paura: è veramente andato in onda.

Quello che può sembrare a una visione distratta solo il frutto di una esperienza psichedelica, è invece il ritorno di “Vitalia, alle origini della festa” (Rai Due), in cui il giornalista di Libero, abituale ospite della destra illuminata in talk show di vario genere e numero, evidentemente stanco di essere chiamato a esprimersi con garbo e cravatte sulle questioni di scottante attualità, con l’avvicinarsi del fine settimana senta l’impellente bisogno di liberarsi dal gioco dell’oggi per immergersi con altrettanto agio nel profondo ieri.

Per farlo ovviamente parte dall’abbigliamento, borsa di tolfa a tracolla, pantaloni con molte tasche, a volte un cappello, scarpe da cammino estremo. E così conciato vaga a voce alta per il Paese in lungo e in largo alla ricerca di un qualcosa.

A dire il vero quale sia l’esatto focus del programma non è chiarissimo, visto che il nostro passa leggiadro da bande di ninfe danzanti in dissolvenza ammantate da fasci di luce abbagliante, a specchi d’acqua (molta acqua), di cui scruta i fondali, immerge mani e braccia, solca a bordo di barchini oscillanti come le inquadrature. E soprattutto si sposta, di bosco in bosco, affronta manti erbosi e oscuri antri come un novello Titiro virgiliano.

Ma quel che è certo è che si parte e si arriva all’antica Roma, attraverso feste e riti simil pagani con parole cadenzate in forma quasi metrica, che restano nell’aria come note di Pan, echi di “oscura potenza generatrice”, “prodigiosa madonna nera”, “ la madre degli dei”, “l’invasore cartaginese”, gli orgiastici colleghi sacerdotali, “i segreti ermetici”, “la sapienza italica”, “il culto definitivo”. In estrema sintesi, come avrebbe detto il maestro Marenco, uto, ato.

Così, lasciati al restante palinsesto le diatribe sul complessismo, le velate accuse di putinismo, il dibattito ucraino, i confronti meloniani e le incursioni sui diritti, Giuli si reincarna in una sorta di Gran Mogol del sacro, non solo mostrandosi perfettamente a suo agio tra morte e rinascita, maschere fuligginose, pelli di pecora e campanacci. Ma soprattutto lasciando intendere che la vita da opinionista sia più dura di quel che appare a uno sguardo superficiale. E se proprio bisogna infilarsi in un pertugio, meglio farlo vestiti da Roberto Giacobbo. 

·        Andrea Scanzi.

Gli insulti di Scanzi. Lo Scanzi piddino rispolvera il pericolo fascista. In una diretta su Facebook, il giornalista del Fatto Quotidiano si scaglia contro Giorgia Meloni e gli elettori di destra. Bianca Leonardi il 22 Luglio 2022 su Nicola Porro .it.

Il Governo è caduto, Draghi ha rassegnato le dimissioni ed ora è corsa alle elezioni con campagne elettorali più o meno improvvisate. In queste ultime ore convulse, a suon di dichiarazioni, ne abbiamo sentite tante e nella maggior parte dei casi tutto il contrario di tutto: comprensibile, considerato il caos politico in virtù del quale i parlamentari, ora, sono alle prese con la grande incognita di chi resterà sulle poltrone e chi, invece, sarà costretto a capire cosa fare da grande.

Ego smisurato

Non è una sorpresa, come non lo è la macchina della propaganda già innescata nei giornali “fedeli alla linea”, o meglio, fedeli a quel centrosinistra che, oltre allo spauracchio del fascismo – trasformato per l’occasione in quello del putinismo – sembra non abbia altre carte da giocare. Ed è proprio su questo che si scaglia la rockstar del giornalismo italiano – come lui stesso si definisce – Andrea Scanzi, che poi per colmare “il suo ego che fa provincia” è anche attore, scrittore, autore, saggista, critico musicale, enologo, critico gastronomico e magari pure incantatore di serpenti.

Siamo abituati alla satira di uno dei volti di Accordi e Disaccordi, siamo abituati alla sua ironia che cela, nemmeno velatamente, giudizi sparati senza il benché minimo rispetto degli altri e della professione – quella del giornalista, tra le tante – che ha scelto.

Disprezzo

Prima era un fan sfegatato dei 5 Stelle, poi con il vento elettorale che ha tirato negli ultimi tempi ha rivisto leggermente la sua posizione, avvicinandosi a quel Pd che, come ha raccontato nell’ultima diretta di ScanziLive sulla sua pagina Facebook, potrebbe votare alle prossime elezioni. Eppure, se c’è una cosa su cui non ha mai cambiato idea è il disprezzo per la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Rispettabilissima opinione, come tutte le altre, se non fosse che il perbenismo e l’altruismo che ogni giorno sfodera in modo ossessivo nei suoi post, con protagonisti anche gatti brutalmente investiti e gabbiani a dieta, si trasforma spesso in violentissimi attacchi verbali contro la leader di FdI.

“Fratelli di ricino”: così a lui piace definire “Fratelli d’Italia”. Un’affermazione tutt’altro che politica, ma maleducata e ignorante nei confronti di quel passato che lui tanto critica. Uno scivolone squallido quello di Scanzi che trasforma quell’arguzia e sagacia – che gli altri gli attribuiscono – in banalissima e bassa cialtroneria social. “L’Italia è un paese di maggioranza destrosa, che non conosce la storia e non ha memoria – ha detto – se la maggioranza (dei votanti) sarà così fascista, imbecille e ignorante da credere che la soluzione siano Meloni, Santanchè, Salvini e Berlusconi, vorrà dire che questo paese si meriterà anche quella gogna lì”.

Una uscita imbarazzante, segno di un’ideologia confusa che tenta di “acchiappare” gli italiani a suon di slogan sentiti e risentiti, triti e ritriti, invocando la correttezza, l’umanità, il progressismo e il rispetto mediante la stigmatizzazione, non poi così lontana da quella usata dai pericolosi antenati che Scanzi non manca mai di ripudiare.

Oggi più che mai Andrea Scanzi ha tutti i requisiti per essere l’uomo del centrosinistra che il Pd, oltre a ciò che rimane dei 5 Stelle, va cercando: chissà che non voglia aggiungere alla sa lista dei mestieri anche quello di politico. Bianca Leonardi, 22 luglio 2022

·        Andrea Vianello.

La carriera e la vita privata, segnata dalla malattia. Chi è Andrea Vianello, il direttore-inviato in Ucraina dei giornali radio Rai: l’ictus e le lacrime di Monica Maggioni. Redazione su Il Riformista il 7 Marzo 2022. 

Da oggi le edizioni principali del giornale radio Rai vengono trasmesse in diretta dall’Ucraina. Una scelta forte e coraggiosa annunciata lo scorso sabato da Andrea Vianello, direttore di Rai Radio1 e dei giornali radio nonché volto storico della Rai, tramite un comunicato. “Abbiamo pensato che fosse importante portare in Ucraina, non solo simbolicamente, il Gr1, il giornale radiofonico del servizio pubblico della Rai, e trasmettere da lì, nonostante le difficoltà, per dare un segno di vicinanza alla popolazione assediata e come ferma scelta di campo a favore della libertà e della democrazia” ha dichiarato. 

Una circostanza di cui si è parlato anche nella puntata di ieri 6 marzo di Domenica In. Vianello infatti è riuscito, dopo un grave ictus che l’ha colpito nel 2019– togliendogli la capacità di esprimersi attraverso e parole–a ricominciare a esercitare appieno la professione di giornalista.

Le lacrime di Monica Maggioni

Durante un servizio andato in onda in uno speciale del Tg1 sempre di ieri, nell’undicesimo giorno di guerra, la direttrice Monica Maggioni non è riuscita a trattenere le lacrime vedendo Andrea Vianello collegato da Leopoli: “Lasciami dire, non da collega ma da amica: l’idea che tu simbolicamente sia voluto andare lì è molto importante, continua a raccontarci Leopoli un secondo, per favore, per darmi una mano, grazie”.

Emozioni che la Maggioni ha poi spiegato a Mara Venier nel corso di Domenica In, dove è stata ospite qualche ora dopo: “Faticavo a trattenere le lacrime per due motivi ben diversi tra loro. Il primo è ovviamente il racconto dei profughi ucraini, di cui testimoniamo il dramma da oltre una settimana” ha raccontato. “Il secondo motivo è più personale: Andrea Vianello è un amico oltre che un collega e mi sono commossa per la sua decisione di andare a fare quello che tutti noi giornalisti vorremmo fare, cioè raccontare ciò che accade direttamente sul campo. E considerando la sua vicenda umana, lo trovo qualcosa di incredibile. Non rivelo nulla, lo ha raccontato lui stesso in un libro, Andrea in questi ultimi anni ha avuto una storia complicata. Ora non solo ha superato la malattia, ma adesso va lui a Leopoli e da domani il GR1 andrà in onda da lì”.

Andrea Vianello ha infatti raccontato la sua malattia nel libro Ogni parola che sapevo, pubblicato per Mondadori nel 2020.

Chi è Andrea Vianello

Nato a Roma il 25 aprile del 1961, laureato in lettere, Andrea Vianello inizia il proprio percorso professionale in Rai nel 1990, entrando al Giornale Radio. Nel 1992 diventa redattore, lavorando nell’ambito della redazione cronaca dove, nel 1994, viene promosso caposervizio. Nel 1997 è vice caporedattore e nel 2002 assume il ruolo di caporedattore.

Tra il 1998 e il 2002 è autore e conduttore del programma Radio Anch’io, su Radio1. Il suo esordio in tv risale al 1999, quando conduce su Rai2 il programma Tele anch’io. Mentre dal 2002 al 2005 è autore e conduttore di numerosi programmi televisivi. Dal 2004, per sei anni, conduce il programma Mi manda Rai3. Dal 2010 al 2013 è autore e conduttore del programma Agorà.

Nel gennaio 2013 viene nominato direttore di Rai3, incarico che svolge per tre anni; mentre nel 2016 lavora al Tg2 come Editorialista per tematiche politiche ed internazionali. Nel luglio 2017 viene assegnato a Rai 1 con l’incarico di Vicedirettore, mentre l’anno successivo alle dirette dipendenze del Direttore di Rai Tre.

Dopo la malattia, torna al lavoro e nell’agosto 2020 viene nominato Direttore della Testata RAI News 24 per la produzione televisiva, della testata Televideo e di Rainews.it. 

Da novembre 2021 ricopre l’attuale incarico di direttore della Testata Rai Giornale Radio – “GR1”, “GR2”, “GR3”, “GR Parlamento” – e Direttore di Radio Uno.

L’annuncio di Vianello di trasmettere il Gr1 dall’Ucraina è arrivato dopo la scelta della Rai di sospendere invece i servizi giornalistici dalla Russia. Una decisione presa “in seguito all’approvazione della normativa che prevede forti pene detentive per la pubblicazione di notizie ritenute false dalle autorità”, ha spiegato la tv di stato in una nota. Una misura necessaria “al fine di tutelare la sicurezza dei giornalisti sul posto e la massima libertà nell’informazione relativa al Paese”. 

L’ictus e la riabilitazione

Nipote del cantante Edoardo, del poeta Alberto e dell’attore Raimondo Vianello (ossia zio, nonno e cugino del padre), Andrea Vianello è sposato con Francesca Romana Ceci, 51 anni, giornalista come lui, e ha tre figli: Goffredo, Maria Carolina e Vittoria.

Quando viene colpito dall’ictus ha 57 anni. È il 2 febbraio 2019, un sabato mattina. “Ero in casa, avevo appena fatto colazione. All’improvviso non mi sono più sentito una mano. – ha raccontato – Sono caduto a terra e ho fatto appena in tempo a chiamare mia moglie. Ricordo il resto come in una nuvola: il pronto soccorso, l’ospedale Umberto I di Roma, la decisione di operarmi d’urgenza, un azzardo. L’intervento andò bene ma io una volta sveglio mi sentii… be’, mi sentii pieno di parole che ristagnavano nella testa e non riuscivano a venire fuori. Una sensazione assurda: conoscevo benissimo quei vocaboli ma non li sapevo più articolare.”

Dopo l’operazione d’urgenza, il giornalista ha dovuto affrontare un lungo percorso di riabilitazione, lottando per recuperare la parola. Un momento molto duro, che Vianello è riuscito a superare grazie alla sua famiglia e soprattutto a sua moglie, che quando si è sentito male ha capito subito la gravità della situazione. Una tempestività che gli ha salvato la vita. “Mia moglie Francesca è stata importantissima nella decisione di non arrendermi, così come lo è stata la comunità degli amici e dei colleghi” ha sottolineato. Oggi è accanto alla popolazione ucraina per raccontare terribili scenari di guerra.

·        Beppe Severgnini.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 27 settembre 2022.

C'è chi viene da Cremona, «Very big cream», e chi semplicemente da Crema. Anzi, dalla piccola frazione dei Mosi: quindi «Very little cream». Dunque, un cremino. Da cui l'espressione «essere la crème de la crème» del giornalismo. Cremino, figlio del notaio della città dal quale eredita scrittura curiale, passione per bicicletta e rimpianto per il buon contado antico la campagna del mais e delle nutrie, l'Italia che suda e lavora e sposato con Ortensia Marazzi, discendente di Fortunato Marazzi, la quale gli porta in dote le nobili virtù della provincia una certa posa snob e irridente, aria da uomo di mondo e breakfast al Reform club, Lamb Cutlets e turtèi - Beppe Severgnini è la miglior espressione italiana del giornalismo inglese e il miglior giornalista italiano per il mondo anglosassone. 

Insomma, un Antonio Caprarica che ce l'ha fatta. Regola delle 5 W. Who is Beppe Severgnini? A sac of things, un sacco di cose. What? Giornalista, saggista, opinionista: «Ciao Lilli!», «Ciao Beppe!», «Lilluzzaaaa!», «Peppuzzoooo!». Where? Ovunque: Corriere della sera, Gazzetta, Economist, facendosi in Sette per La7 che fa quarantanove, come i racconti di Hemingway, un suo collega, ma meno famoso... When? Mah, a leggere le stesse cose, sembra da sempre. Why? Non si sa. The pen is on the table. The pen is over the table. The pen is a stick in the... La penna, Beppe Severgnini comincia a usarla presto.

Dopo la laurea in Giurisprudenza e i primi articoletti per il quotidiano La Provincia di Cremona, sognando il Big Ben all'ombra del Torrazzo, nel 1981 inizia a lavorare per Il Giornale, chiamato da Indro Montanelli su raccomandazione della compagna d'allora, Marisa Rivolta, alla quale a loro volta si erano raccomandati papà e mamma Severgnini. 

Italians! Teniamo tutti famiglia Il tempo di entrare in redazione in via Negri senza attirarsi la simpatia di nessuno - e viene nominato corrispondente dall'Inghilterra. Come sentenziò Enzo Bettiza, il Barone: «Da Crema a Londra senza nemmeno passare da Milano». 

E così, Beppe diventa Joe in meno di trenta righe. Lui è già pronto: sahariana sciancrata, impermeabile da maniaco a Regent' s Park e in curriculum il concerto di David Bowie all'Hammersmith Odeon. Montanelli era il Vecchio, Beppe diventa il figlioccio.

Dopo Londra, il mondo: negli anni della crisi del regime comunista the Severgnin è inviato nell'Europa dell'Est, in Asia, Russia, Cina... A proposito. Aneddotica del giornalismo. Quando il 9 novembre 1989 cade il muro di Berlino, travolgendo l'idea stessa di Comunismo, contro cui Montanelli aveva lottato tutta la vita, il giorno dopo sulla prima pagina del Giornale la notizia titolo: «Crolla il Muro di Berlino: chi vuole ora può espatriare» - è relegata in uno spallone. L'apertura invece è sul leader cinese Deng Xiaoping con un fondo firmato da Beppe Severgnini. «Il suo pezzo non si tocca!», disse Montanelli. Misteri del giornalismo. E anche di Beppe Severgnini. 

Il resto è storia. Berlusconi entra in politica, Montanelli esce dal Giornale, fonda la Voce, che dura un anno, poi torna al Corriere della sera. Tra coloro che porta con sé, c'è anche il fortunato Beppe. Del quale si ricorda la battuta «We are in a ferry boat», «Siamo in una botte di ferro». È già il 1995. Ma per le biografie di Severgnini la sua carriera inizia qui, con l'arrivo in via Solferino. I dodici anni a busta paga di Berlusconi sono rimossi dalla memoria per consolidare il proprio credito progressista. Che da noi, come è noto, conta più della buona penna.

The pen is under the table. The pen is near the table. The pen has broken the penis.

Italiani non si diventa ma si nasce. E giornalisti non si nasce ma si diventa. Severgnini diventa bravissimo. Il più bravo. Il più bravo dei più bravi. È «the Brave». Giannini, Gramellini, Rampini, Fubini, Severgnini Diciamo che la desinenza -ini non garantisce che tu sia un ç@l!òn* ma costituisce un primo indizio. 

Comunque Beppe è inarrestabile. Apre il blog Italians, firma rubriche, collabora con La Gazzetta, commenta per The Sunday Times, è opinion writer per il New York Times, conduce programmi radio, è ospite fisso in tv «Ciao Lilli!!», «Ciao Beppe!!», «Ma sei sempre qui?», «Anche tu» - e tanti libri. Decine di libri. A lot of libri. Su cosa?

 Le solite cose: l'Erasmus, la campagna attorno a Crema, la gita scolastica a Siena, la vespa, i viaggi studio in Inghilterra, i corsi di inglese, i Talking Heads, Everything you know is wrong e soprattutto riflessioni sugli italiani: gli italiani in viaggio, gli italiani all'estero, gli italiani visti dall'estero o l'estero visto dagli italiani... e l'unicità degli italiani, secondo la tesi di fondo diciamo così, un po' reiterata - che siamo un popolo da operetta, cialtroni, geniali, mezzi disonesti, che abbiamo eletto persino Berlusconi, ma alla fine dài - abbastanza simpatici. Quite nice. Che significa, «Tranquillo, bello». 

Montanelli, con affetto e perfidia, lo chiamava «cipria». I suoi pezzi, diceva, erano perfetti per coprire in modo elegante la realtà. Una passata di piumino e via. 

Via Solferino 28, Severgnini benpensante, beneducato, benaltrista, zazzera bianca e cuore rosso dirige il settimanale Sette tra il 2017 e il 2019. Con un considerevole successo si chiama antifrasi... di vendite, raccolta pubblicitaria e prestigio. Punti di domanda, recensioni affidate a casaccio, elenchi insopportabili e un grande flop. Che in inglese si dice... «flop». È agli annali del Corriere la risposta che il neo direttore dava alle Severgnini' s girls Stefania Chiale, Chiara Severgnini, Micol Sarfatti e Irene Soave ogni volta che gli chiedevano «Beppe, come lo vuoi il pezzo?»: «Come se lo scrivessi io».

Vero Chiara? Vero Irene?

Beppe' s Version. Calcisticamente è interista, come tutti i sessantottini milanesi di lotta, di potere e di rigore: Mentana, Michele Serra, Lerner, Paolo Rossi, Gino&Michele, Salvatores Giornalisticamente, auto-agiografico e autobiografico: se scrive di una partita di calcio, prima ti dice da dove la sta vedendo lui; se parla dei giovani e il voto, cita le sue vacanze da ventenne con l'Interrail; se fa un ritratto di Scarlett Johansson, ricorda la volta che dopo l'intervista lei gli chiese: «Stasera a cena ti siedi vicino a me?» (sic). 

E politicamente monarchico: a parte l'aneddoto della regina Elisabetta che prima di spirare sembra abbia detto: «Salutatemi il mio amico Beppe», colpisce di lui l'immaginario-medio che ha del Regno Unito, tutto Mary Poppins, Paddington, tè delle cinque, l'impero tipo un club di amici...

E comunque il suo pezzo sugli splendori della famiglia reale e le glorie del colonialismo era l'equivalente de «il fascismo ha fatto cose buone» declinato all'imperialismo inglese Una vota a servizio di Sua Maestà c'era James Bond, oggi abbiamo Severgnini. Ma lui è fatto così. He is like that. E forse è per questo che gli perdoniamo le previsioni sulla Brexit «Lilli, io gli inglesi li conosco: non voteranno mai l'uscita dalla Ue!» e quella sulle elezioni presidenziali americane - «Lilli, io gli americani li conosco: non voteranno mai Donald Trump!». Perché se c'è una cosa che non gli appartiene, è il conformismo intellettuale. E - luogo comune per luogo comune - That' s All. 

Tommaso Rodano per “il Fatto Quotidiano” l'1 agosto 2022.

Il momento più cringe della settimana è sul Corriere della Sera, dove un impenitente Beppe Severgnini racconta, di quella volta che sprigionò tutto il suo savoir faire sull'incolpevole Scarlett Johansson. Lost in translation incontra via Solferino e ne esce un'autentica gemma, in equilibrio precario tra giornalismo, diario adolescenziale, letteratura minore e mitomania galoppante. 

Il titolo è già leggenda: "E Scarlett Johansson mi chiese: 'Stasera a cena ti siedi vicino a me?". Severgnini, epico, vuol far sapere ai lettori di quando gli toccò di intervistare la Venere in miniatura di Hollywood, convinto che fosse la solita, insopportabile diva piena di sé.

Invece lei, Scarlett, vittima del fascino brizzolato e del sorriso tondo ma virile di Beppe, fece capitolare i pregiudizi del giornalista e si guadagnò la sua simpatia, convincendolo a farle compagnia a cena. Severgnini è conquistatore, ma uomo di valori: alla fine ci fa sapere che rimase fedele alla moglie ("Cosa non si fa per te, Ortensia").

«E Scarlett Johansson mi chiese: “Stasera a cena ti siedi vicino a me?”» Il racconto di Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.

«Mi ha rivelato cosa le sussurra Bill Murray all’orecchio in Lost in Translation. Dicendomi però di non raccontarlo in giro» 

Tengo in mano la confezione del dvd: e questo già dice chi sono, una persona anziana. Nessuno sotto i cinquant’anni maneggia la confezione di un dvd, se non deve schiacciare una zanzara. L’immagine di copertina è singolarmente brutta. C’è un tipo di mezza età seduto sul letto sfatto in una stanza d’albergo. Ha pochi capelli. Indossa una vestaglietta color diarrea. Ai piedi, le pantofole di spugna che offrono negli hotel: sempre troppo corte. In Asia, dove le producono, non hanno ancora capito che europei e americani hanno, in media, i piedi più lunghi. Infatti, il tipo ha i talloni fuori, ma non sembra preoccuparsene. Ha un sorriso un po’ ebete, quello che viene quando si ha molto sonno o si è innamorati. Dietro di lui due lampade e, lontane, le luci colorate di una metropoli. La copertina non dice qual è, ma io lo so: Tokyo. Sul retro, un’altra immagine. Migliore, bisogna dire. Di fianco al tipo in copertina, che nel frattempo si è rivestito, c’è una ragazza bionda. Vent’anni, a occhio. I due sono seduti vicini, appoggiati a una tappezzeria zebrata. La ragazza ha un casco di capelli rosa. Porta un abito nero sbracciato. Tiene le mani sull’orlo della gonna. Guarda l’obiettivo con gli occhi socchiusi. Sorride.

Ok, l’avete capito. Il film è di Sofia Coppola e s’intitola Lost in Translation. In italiano è diventato L’amore tradotto (se esistesse l’Oscar per la Peggior Traduzione di un Titolo, sarebbe già assegnato). Il 50enne con la vestaglia è Bill Murray. La ragazza con i capelli rosa, Scarlett Johansson. Forse è il film che amo di più, uno dei pochi che rivedo regolarmente. Un capolavoro di dolcezza e jet-lag. Da quando è uscito, nel 2003, mi domando perché mi colpisca tanto. Poiché non riuscivo a trovare a una risposta, una decina d’anni fa ho pensato di chiederlo direttamente a Scarlett. Ci siamo incontrati nella Francia del nord. Al settimanale «7» del Corriere era stata offerta la possibilità di un’intervista di copertina. Quando me ne hanno parlato, ero all’aeroporto prima che finissero la frase. Si trattava di una intervista vera: due persone in una stanza, senza fretta. Non una delle micro-interviste a rotazione che precedono l’uscita di un film, quelle che in gergo si chiamano junkets. Attori e registi stanno seduti nello stesso posto — stessa sedia, stesso sorriso, stesso manifesto sullo sfondo — e rispondono meccanicamente. Siccome lavorano nel cinema, certo, sanno recitare. I più bravi, in quei pochi minuti, riescono addirittura a convincerci che gli importa qualcosa di noi.

Be’, con Scarlett non è andata così. Sono arrivato a Parigi, ho trovato l’auto che mi avrebbe portato tra le vigne di Epernay, dove Ms Johansson aveva il quartier generale. Qualche junkets era previsto, certo. I colleghi entravano nella stanza dell’attrice e uscivano poco dopo, quasi mai entusiasti. C’era anche un’italiana che conoscevo. Mi ha visto e ha detto: «Buona fortuna. Simpatica come una cicca nei capelli, la ragazza». «Cicca», in Lombardia, vuol dire gomma, chewing-gum. Quindi avete capito: non simpaticissima, la giovane Johansson, secondo la collega. Quand’è arrivato il mio turno, a metà pomeriggio, non ero emozionato — un giornalista non lo ammetterà mai. Diciamo, contento. Sapevo che avremmo avuto tempo. Ero preparato, conoscevo i suoi film. Non solo Lost in Translation. Scarlett sembrava un’attrice versatile e convincente. E una giovane donna affascinante, certo. Un fascino che non riuscivo a spiegarmi del tutto. Mi ero preparato leggendo ritratti e interviste: quelle dei colleghi maschi erano spesso imbarazzanti. Le domande erano del genere: «Lei è divina, o solo meravigliosa?». Mi sono ripromesso di mantenere un contegno. Finché non sono entrato.

Per cominciare: Scarlett era più piccola di quanto immaginassi. Uno e sessanta scarso. Stava seduta sul divano, le scarpe sul tappeto, le gambe raccolte sotto la gonna a fiori. Le ho chiesto, come prima cosa: possiamo metterci vicino alla finestra? Il mio iPhone è scarico, e mi serve per registrare l’intervista — ho bisogno di una presa di corrente, e c’è solo lì. Mi ha guardato e ho capito, con la rassegnazione degli imputati e degli innamorati, che il destino del nostro incontro si sarebbe deciso nei successivi dieci secondi. Ne sono bastati cinque. Ha sorriso, si è alzata, si è spostata. «Cosa faremmo senza i vecchi, buoni iPhone?», ha scherzato. La conversazione — seduti di fronte, schiacciati contro il muro — è corsa via. Scarlett Johansson era una che rispondeva alle domande, sospetto lo sia ancora. Abbiamo ricordato L’uomo che sussurrava ai cavalli, il suo vero esordio cinematografico, e Robert Redford che diceva, parlando di lei: «She’s thirteen, going thirty», ha tredici anni, va per i trenta. E poi il filotto di ottimi film all’inizio degli anni Duemila: La ragazza con l’orecchino di perla, Una canzone per Bobby Long, Match Point e Scoop, Black Dahlia, Vicky Cristina Barcelona (Scarlett mi piaceva meno nella versione inguainata alla Iron Man, ma non gliel’ho detto).

Le ho chiesto di Lost in Translation , mia deliziosa ossessione. «Mi tolga una curiosità. Il personaggio di Murray era innamorato di lei?». Risposta: «Lo sarebbe stato, se fosse stato un po’ più giovane, o se lei fosse stata un po’ più vecchia. Era un amore platonico. Penso che lei gli abbia mostrato qualcosa, e lui l’abbia guidata, in qualche modo. Lui s’illumina, quando è con lei. E lei pure, quando è con lui. Grazie a questo incontro riesce a transitare verso una nuova fase della propria vita». Scarlett si è accorta che conoscevo bene il suo lavoro, ma ha capito che sapevo poco o nulla della sua vita privata. «Veramente? Non sa neanche con chi sono sposata?». No, le confesso. «You’re my dream interviewer! Lei è il mio intervistatore da sogno! Avanti, parliamo di politica». Rileggendo l’intervista a distanza di anni, mi accorgo di quanto la giovane americana Scarlett J. fosse lucida e, purtroppo, premonitrice. Le ho chiesto se fosse delusa da Obama, allora al primo mandato. «Non delusa. Ancora piena di speranze. Delusa, invece, dalle divisioni della politica americana, dalla polarizzazione della nostra società. La faziosità dei media è ripugnante, davvero. Veramente difficile da mandar giù. Speravo che questo sarebbe cambiato. Ma non è cambiato». Non crede sia anche una questione di mercato? I media hanno capito che il pubblico vuole leggere, ascoltare e vedere chi gli dà ragione. La gente — in America, in Europa, in Italia — non vuole dubbi, con la prima colazione. Ms Johansson sembra d’accordo: «Il pubblico ama lo status quo. Vuole sentirsi dire che tutto è più o meno ok. La gente lavora tantissimo, in America. Si ammazza di lavoro. Non credo abbia tempo e voglia di pensare alla politica, all’ambiente, alla big picture. Non ha tempo e voglia di controllare le notizie. Ha bisogno di cose semplici e accessibili, la mente è affaticata dalla durezza della vita quotidiana».

Verso la fine dell’intervista, a sorpresa, Scarlett mi ha chiesto perché, a mio giudizio, lei piacesse tanto agli uomini. «Ci sono attrici più belle di me», ha aggiunto serissima. Forse è vero, le ho risposto; ma molte intimidiscono. Scarlett è una ragazza americana. La cassiera più carina del supermercato Walmart, di fronte alla quale si forma la coda più lunga. Ho pensato per un attimo che mi cacciasse. Non lo ha fatto, ha sorriso. «Stasera c’è la cena, ci vediamo là». A cena, nelle cantine dell’azienda, mi ha chiesto di sedermi accanto a lei. Ho ringraziato mentalmente il Corriere della Sera. Era un duro lavoro, ma qualcuno doveva pur farlo. Salutandola, le ho chiesto: cosa le ha sussurrato Bill Murray, alla fine di Lost in Translation? Si è avvicinata e me l’ha detto. «Ma non lo racconti in giro!», ha concluso ridendo. Scarlett, tranquilla: sarò una mummia. L’età, ormai, è quella.

Questa storia ha un post scriptum . Qualche mese dopo la pubblicazione dell’intervista, nella primavera 2011, ricevo una telefonata dall’agenzia di Scarlett Johansson. «C’è un grosso evento a Shanghai. Scarlett ha la possibilità di invitare due giornalisti, un americano e un europeo. E ha fatto il suo nome. Ha un bel ricordo del vostro incontro». Deglutisco, rispondo. «Anch’io ho un bel ricordo: insieme a quella con Bruce Springsteen, l’intervista più bella della mia carriera. Ma dovete sapere che, tra qualche mese, festeggio le nozze d’argento. E dove abbiamo prenotato il viaggio dell’anniversario? A Shanghai. Se lo annullo, per andare nella stessa città con Scarlett Johansson, anche il mio solidissimo matrimonio potrebbe vacillare». L’agente ride, rido anch’io. Cos a non si fa per te, Ortensia.

·        Bernardo Valli.

Giulio Gambino per “Tpi - The Post Internazionale” il 29 aprile 2022.  

Qual e stata la tua reazione alla notizia della vendita dell’Espresso?

«Mi e dispiaciuto che sia stato venduto cosi. Era un settimanale con un passato – e un presente anche – nobile che si era tenuto in discosto dal quotidiano col quale esce la domenica. Quindi si annunciano per L’Espresso dei mesi abbastanza difficili, o comunque per ora non ben chiariti, nè dall’acquirente nè dai suoi amici». 

Ritieni che il giornalismo oggi in Italia sia libero?

«In Italia i giornali sono stati sempre, salvo qualche eccezione, semiliberi. Oggi la politica e cambiata, i rapporti con i partiti sono cambiati, gli uomini politici non sono gli stessi: tranne qualcuno, non sono personaggi che esercitano una grande influenza. C’è una classe politica non dico mediocre, ma media. I partiti esercitano come tali un’influenza più disordinata di un tempo». 

E questo e meglio o peggio?

«Secondo me sotto certi aspetti e meglio, perchè i vecchi partiti esercitavano un potere abbastanza diretto ed esplicito. Quelli di oggi sono un po’ confusi, perche non esiste più una differenza netta tra sinistra e destra. Intendo di una sinistra più o meno marxista e di una destra estrema, e con un centro democristiano che mediava e che poi in fin dei conti ha governato il Paese per anni. Adesso la situazione e molto confusa». 

Ci sono stati degli errori da parte di chi negli anni ha governato e controllato i giornali?

«Innanzitutto bisogna tener conto di quello che il giornalismo stampato ha perduto. Se guardiamo le tirature dei quotidiani, dei settimanali, rispetto al passato, sono 10 volte inferiori. Sono pochi i giornali che superano le 100mila copie di vendita oggi». 

Perchè secondo te?

«Perchè la stampa e stata battuta dai nuovi metodi di trasmissione. Il giornale chiude la sera tardi o al mattino prestissimo, esce con notizie vecchie. I giovani seguono i social network perchè sono più svelti e aggiornati più di frequente». 

E questo fa sì che i lettori si accontentino di leggerli solo online?

«No, non e questo. Si leggono anche online, e io sono uno di questi. Ma, vedi, il digitale e solo un mezzo... la stampa e nata con la guerra di Crimea, quando l’inviato del Times di Londra mandava le sue corrispondenze dalla battaglia di Crimea, mentre prima gli articoli arriva- vano per posta». 

Tu come inviavi le tue corrispondenze?

 «Con il telegrafo, che manda gli articoli immediatamente. Per buona parte della mia carriera, agli inizi, mandavo cosi i miei primi articoli... in Argentina mi ricordo che facevo la coda, come gli altri. C’era una tessera per non pagare, una specie di carta di credito, per non portarsi dietro i soldi. La guerra in Vietnam io l’ho fatta con un telescriventista vietnamita che mandava gli articoli per telescrivente».

Pero c’erano anche giornali molto più ricchi che potevano permettersi corrispondenti in giro per il mondo.

«Certo, non c’è dubbio, erano molto più ricchi, il Corriere della Sera ha raggiunto il milione di copie vendute. La Repubblica in un certo periodo vendeva ancora di più del Corriere. I settimanali anche: L’Espresso e stato un giornale fatto da uomini di classe, bravi, di intelligenza e anche di apertura mentale, come Carlo Caracciolo e – sul piano giornalistico – Eugenio Scalfari».

Spesso si dice che altrove nel mondo il giornalismo e meno legato al potere che in Italia, e che svolge la sua vera funzione di watchdog. Da noi invece spesso fa più da cassa di risonanza al potere. E cosi?

«Ci sono ancora quotidiani che sono, come tu dici, dei contraltari, oppure giornali d’opposizione che tengono le distanze dal potere e lo criticano duramente. I grandi giornali – quelli che sono sopravvissuti - oggi sono legati ai grandi gruppi. Prendi la Stampa di Torino, vende 60mila copie. Un tempo era uno dei giornali che avevano un potere e una eco nazionale. A scrivere gli editoriali erano personaggi di rilievo della società politica e culturale. Oggi esistono ancora i grandi commentatori? Me lo chiedo». 

Tu sei uno di quelli.

«Forse esistono, ma non hanno più i veicoli. I giornali sui quali scrivono hanno tirature limitate, toccano un lettorato piuttosto anziano. E’ ridotto rispetto al passato». 

Il giornalismo dunque e morto? Non ha più senso di esistere?

«No, non è così. Il giornalismo contava e conta, anche se oggi meno d’allora». 

Spiegati meglio.

«La stampa scritta, e i giornalisti in generale, avevano un peso diverso. Era dominante, non c’era la televisione, internet, i social network. Nei quotidiani c’erano dei personaggi che avevano un’eco nazionale, oggi sono rari i giornalisti della stampa scritta che ce l’hanno. Se chiedi oggi alla gente chi sono i giornalisti che scrivono per La Stampa, la Repubblica e il Corriere fanno fatica, salvo qualche sparuto lettore. 

La stampa scritta e diventata abbastanza obsoleta. Alcuni giornali sono stati in grado di trasformarsi, per esempio il New York Times ha tante edizioni quotidiane». 

E infatti ha tantissimi abbonati digitali. A riprova del fatto che il giornalismo di qualità può avere successo...

«Il problema e che le copie vendute online vengono pagate poco, quindi non compensano le perdite delle vendite dei quotidiani attraverso la pubblicità o addirittura il prezzo del giornale».

Bene, pensiamo insieme: quale potrebbe essere oggi la ricetta giusta per rilanciare L’Espresso in Italia?

«Credo che L’Espresso, con alti e bassi come tutti i periodici, ha mantenuto un posto onorevole. Se prendi le vendite insieme alla Repubblica, che non e sua amica e – addirittura, cosa strana – non e neppure il suo editore, L’Espresso vende certamente più di 100mila copie insieme al quotidiano. 

Quali sono quelle del settimanale e quali quelle del quotidiano e difficile saperlo. E poi prolunga la vendita per 3-4 giorni ancora almeno, nelle edicole da solo. Sull’Espresso ci leggo ancora delle cose che sono diverse per esempio anche dal quotidiano col quale esce, quindi ha mantenuto una certa autonomia». 

Non ti sembra che Repubblica sia troppo dipendente dagli Elkann e che talvolta sia eccessivamente appiattito sulle posizioni pro-editore, diversamente da quello che e sempre stato?

«Repubblica e stato un grande giornale all’epoca di Scalfari e all’epoca di Ezio Mauro, anche se ha dovuto subire il calo delle vendite della stampa, per le ragioni che abbiamo detto. Poi a mio avviso ha perduto quell’equilibrio che un quotidiano deve avere per essere stimato e venduto». 

Pero permettimi di tornarci: non pensi che ci sia stato un progressivo abbandono della missione fondamentale del giornale?

«Facciamo dei distinguo. L’Espresso si e distinto dal suo editore, addirittura si e distinto dal giornale con cui usciva. Io ho dato le dimissioni da Repubblica per ragioni mie, perchè non condividevo la linea del giornale, ma sono rimasto invece all’Espresso, in cui pensavo di poter essere più a mio agio. Erano due giornali indipendenti uno dall’altro, e dello stesso editore». 

Cosa non ti andava giù di Repubblica?

«Non leggo più Repubblica». 

Chi e stato l’ultimo grande direttore di Repubblica?

 «Ezio Mauro ha dovuto vivere il calo delle vendite, pero nei lunghi anni in cui e stato direttore ha mantenuto una certa dignità. E’ chiaro che se parlo di Eugenio Scalfari e un’altra cosa: lui ne e stato il fondatore, ne era l’anima». 

Dopo Mauro nessuno?

«Bah...io non mi ricordo di loro, insomma». 

Molti ex giornalisti di Repubblica hanno criticato il direttore Maurizio Molinari per aver tradito i valori fondanti del più grande giornale moderato di sinistra?

«Sono andato via pochi mesi dopo il suo arrivo, non ti so dire quale sia stata la sorte di Repubblica e cosa sia adesso. Ci sono dei colleghi che stimo e che continuano a lavorarci, sia delle giornaliste sia dei giornalisti. Io non mi sentivo a mio agio e me ne sono andato». 

E vero che quando scrivevi ancora per Repubblica ti chiamarono per chiederti di cambiare l’attacco - o una riga - di un tuo pezzo?

«Si, mi chiesero di cambiare il lead di un articolo». 

Ma su che tema era?

 «Sulla politica di Israele. Volevano che cambiassi il lead (l’attacco, ndr) del pezzo. Io dissi che non cambiavo assolutamente nulla».

Qual era la motivazione nel cambiare l’attacco dell’articolo?

 «Era un pezzo sul Medio Oriente, di cui mi sono occupato molto, sia di Israele che degli altri Paesi vicini, e volevano che spostassi l’attacco del pezzo in seconda posizione. Ma la persona che poi mi ha succeduto ha scritto le stesse cose che avevo scritto io». 

E come andò a finire?

«Nulla, mi rifiutai, e quindi il direttore mise l’articolo nelle pagine interne. Era una “punizione”, visto come e avvenuta. Siccome non mi e stata data alcuna spiegazione di questo, ho salutato e me ne sono andato. Basta». 

Hai sentito Marco Damilano dopo che è andato via dall’Espresso?

«L’ho salutato quando se n’e andato. Sono rimasto col suo vice, che non conoscevo e che mi sembra faccia un giornale in una fase molto difficile, in cui deve spiegare ogni giorno quale sia la sua posizione tanto rispetto ai passati editori quanto a quelli futuri. Situazione difficile. Pero ha mantenuto un certo equilibrio. Nei limiti in cui la stampa scritta si è salvata, ci sono alcune voci rilevanti». 

Ad esempio?

 «Ad esempio seguo un giornale che prima non leggevo, e invece adesso quando sono in Italia lo compro: Il Manifesto. Una volta era un giornale a suo modo solitario, diciamo. Adesso ci trovo cose interessanti. Il giornale di De Benedetti e tutta un’altra cosa, ma come formula non è sbagliata. Bisogna vedere se ha successo. Mi sembra, correggimi, che faccia un giornale di analisi. E quindi molto probabilmente il ruolo di un giornale con una tiratura inevitabilmente limitata può avere un’influenza notevole». 

Sono tanti i giornalisti, oggi, che hanno dovuto lasciare il gruppo editoriale dell’Espresso: come mai? Non esiste un caso del genere in Francia, in America o nel Regno Unito. Che una leva giornalistica che ha fatto la storia - in massa - prende e se ne va oppure, peggio, e costretta ad andare via.

«Bisognerebbe chiedere a loro. Io me ne sono andato per ragioni mie personali, non ho seguito la vicenda cosi da vicino. Alcuni di coloro che se ne sono andati non li conosco nemmeno personalmente. 

Che sia un esodo grande mi sembra un po’ esagerato, perchè le tirature di Repubblica, che erano arrivate quasi vicino al milione, oggi sono sotto i 100mila. Ma alcuni di questi giornalisti di cui parli sono andati al Corriere, che ha perso tantissime copie a sua volta. E lo stesso Corriere ne ha persi diversi di giornalisti. Pero, certo, forse li hanno Milano, e diverso». 

Ti è dispiaciuto che non si sia mai concretizzata la direzione di Repubblica?

«Per carità. Quando Scalfari venne a Parigi a farmi questa proposta io stavo partendo per l’Algeria, non ricordo per cosa. Gli dissi che nella vita tutto avrei pensato meno che fare il direttore di un giornale. E mi è piaciuto molto fare quello che ho fatto per tutta la vita».

Bernardo Valli e nato a Parma il 15 aprile. Figlio di una crocerossina. Ha girato il mondo come corrispondente di guerra. Il primo servizio l’ha fatto in Venezuela e in America Latina, poi nel Sudafrica, «dove accadevano cose molto importanti per quanto riguarda l’apartheid».  

Poi e cominciata la decolonizzazione del Congo, dove ha trascorso mesi. Simultaneamente e scoppiata la guerra d’Algeria, che ha seguito da vicino. Ha seguito praticamente tutti i conflitti che sono avvenuti in seguito, fino a 6-7 anni fa. Compreso il Vietnam. Tutti. Poi e stato corrispondente a Londra, e in Estremo Oriente per molti anni, infine a Parigi, dove vive oggi, a rue Chaptal, nono arrondissement, dove vissero Baudelaire e Zola. 

«E tanti altri. Questa era la vecchia Parigi». «Se dovessi fare una diagnosi sbrigativa, il mio lavoro e stato un miscuglio di dilettantismo e professionismo. I due aspetti si sono sempre incrociati. Raramente ho fatto dei servizi giornalistici senza conoscere le radici storiche profonde del Paese che raccontavo, ma allo stesso tempo mi sentivo libero dal peso della conoscenza», ha detto una volta.

E ancora, tra le sue più belle citazioni: «Non mi pento di non aver scritto un romanzo. Non dico che non mi sia venuta voglia e qualche volta l’ho anche cominciato. Ma nel giornalismo si e come soldati: quando non si marcia, ci si stende in branda e si dorme». E infine: «La verità del momento non dura più 24 ore, ma un minuto». 

Bernardo, chiudiamo sull’attualità: cosa pensi della guerra in Ucraina?

«E un’aggressione a un Paese vicino, senza dare spiegazioni che abbiano un senso o siano costanti da parte di Putin. La Russia uscita dalla fine dell’Unione sovietica e un mondo in cui si sono divisi i soldi tra i vari oligarchi dei quali Putin e la massima espressione. 

Ciò che mi ha stupito molto e che gli ucraini siano riusciti a fermare l’invasione. Nessuno sa come andrà a finire, ma Putin ha già subito un’umiliazione notevole. La Grande Russia di fronte all’Ucraina, che era una delle sue province, mi sembra un’umiliazione abbastanza forte. Resta il fatto che questo mette in subbuglio tutti gli equilibri mondiali». 

Putin e fuori gioco?

«No. Credo che Putin mirasse al recupero dell’Ucraina, dopo aver fatto la stessa cosa delle altre province, per dare smalto alla Russia e riprendere il peso che aveva, decretando un’umiliazione per l’Europa e l’emarginazione per gli Stati Uniti, che non avrebbero osato intervenire. 

La seconda potenza era quella cinese, alla quale spettava tutta l’Asia eccetera. Era un mondo - diciamo cosi - tripartito, ma l’operazione non è riuscita, perchè al primo passo la Russia, come minimo, e inciampata. Non so quanto lo pagherà. Penso che lo farà, ma io sbaglio spesso i giudizi».

In questo nuovo ordine mondiale l’Europa si deve liberare dall’Atlantismo statunitense, escludendo dalla Nato gli Usa?

 «Ma no, non credo minimamente. Ho conosciuto la Cina che si era appena immersa nella rivoluzione culturale, e oggi e un Paese che ha 10 volte il Pil russo. La Cina e la seconda potenza mondiale e gli Stati Uniti hanno certo un ruolo importante. Non so quanto Biden abbia avuto un polso di ferro, non pensavo minimamente che affrontasse la situazione europea con tanto slancio. 

Quindi non so, bisogna vedere come va a finire. Cosa fai dell’Ucraina, la dividi in due? Non penso che Zelensky l’accetterebbe. Oppure i russi se ne vanno? Mi sembrerebbe un po’ strano. Ma se va via, Putin non reggerà molto. Siamo ancora all’inizio. I sostenitori e gli amici di Putin, cioè gli oligarchi, in queste settimane vivono sulla brace, perchè i loro beni vengono sequestrati. Sono delle ricchezze enormi che l’ex Unione sovietica ha disperso nel mondo col nome di proprietari privati. E questi subiscono le sanzioni e le disavventure di Putin in Ucraina. Ma, ripeto, non e ancora finito».

·        Bianca Berlinguer.

Bianca Berlinguer: «La bellezza mi ha dato sicurezza. Corona? Fin quando ci sarà #Cartabianca, ci sarà lui». Maria Teresa Meli su Il Corriere della Sera il 17 Agosto 2022.  

La giornalista figlia del leader comunista Enrico: «Quando sui social scrivono “tuo padre si sta rigirando nella tomba” penso alla presunzione di chi crede di sapere che cosa una persona morta quasi 40 anni fa penserebbe oggi. Il matrimonio con Luigi Manconi? Il prossimo anno» 

Bianca Berlinguer, 63 anni, dal 1º ottobre 2009 all’8 agosto 2016 è stata direttrice del TG3. Dal 7 novembre 2016 conduce Cartabianca su Rai 3

Bianca Berlinguer, saltiamo qualche preambolo: lei ultimamente si è trovata al centro di molte polemiche, ci ha fatto il callo o le dà fastidio?

«Non posso certo dire che mi faccia piacere, ma sicuramente ormai mi ci sono abituata. Gli ultimi anni al Tg3, quando ero direttrice, sono stati difficili, soprattutto durante il governo Renzi. Ma anche il periodo più recente è stato abbastanza complicato. Mai mi sarei aspettata che si potessero scatenare polemiche così violente nei confronti di #cartabianca per il solo fatto di aver dato voce a tante opinioni diverse, come del resto hanno fatto tutti gli altri talk».

E per quale motivo secondo lei tanto livore proprio nei suoi confronti?

«Potrei risponderle un po’ scherzando è un po’ seriamente che mi capita di assommare tre elementi: sono donna, lavoro per la Rai e sono figlia di Enrico Berlinguer. E pensi che per me si tratta di tre qualità, che spero di meritare».

Bianca Berlinguer con il padre Enrico, nel 1982: è nata il 9 dicembre 1959, suo padre è morto l’11 giugno del 1984, a 62 anni

Lei è una donna forte, si è chiesta perché spesso le donne forti vengono classificate come bisbetiche, zarine, e chi più ne ha più ne metta? Insomma nei loro confronti si applica invariabilmente un cliché molto collaudato.

«È vero, c’è un cliché ancora molto rigido che si applica alle donne che mostrano una certa personalità. Se sanno tener duro e non piegarsi vengono classificate infallibilmente come cattive, zarine, scorbutiche». 

Anche lei infatti è stata definita una zarina.

«Le dirò la verità, quando hanno cominciato a chiamarmi così - e questo è successo ancora prima che diventassi direttrice del Tg3 - davo a quel soprannome un significato esclusivamente negativo. Adesso ho un po’ modificato la mia opinione».

Cioè?

«Se ti trovi a ricoprire un ruolo di direzione è inevitabile doversi assumere la responsabilità di gestire ciò che comporta nel bene e nel male. E di conseguenza di sentirti dare della zarina».

Con il compagno Luigi Manconi, 74 anni

Lei all’inizio della sua carriera ha sofferto il fatto di essere figlia di?

«Io penso che rimarrò per tutta la vita figlia di Enrico Berlinguer. Soprattutto dal punto di vista dell’impatto emotivo che il nome di mio padre ha ancora sull’opinione pubblica. All’inizio è stato difficile perché dovevo affermare la mia identità individuale, come accade a tutti figli di personalità pubbliche. Però non mi piacciono i “figli di” che si lamentano di esserlo perché in realtà questa condizione ti dà più vantaggi che svantaggi, non bisogna essere ipocriti. E poi nel mio caso io ancora oggi sento il fortissimo affetto che c’è nei confronti di papà, e che in parte è stato riversato su di me, e la cosa mi fa indubbiamente piacere. Però ammetto che ci sono dei casi in cui essere figlia di Berlinguer costituisce un peso».

Quando?

«Quando in tv dico o faccio qualcosa che suscita polemiche, ci sono subito quelli che sui social scrivono commenti del tipo “tuo padre si sta rigirando nella tomba”, che è una frase ignobile e doppiamente offensiva: nei confronti di papà perché si ha la presunzione di sapere che cosa una persona morta quasi quaranta anni fa penserebbe oggi. E nei miei confronti perché non si ammette che io possa essere indipendente e che possa avere opinioni diverse da quelle che si presume dovrebbe avere avere mio padre».

È accaduto per Alessandro Orsini?

«Guardi, Orsini ha suscitato molti più commenti positivi che negativi. Del resto c’è una parte degli italiani che la pensa come lui. E io ritengo che sia giusto dare voce a tutti perché è l’unico modo per consentire agli spettatori di formarsi una propria opinione e per alimentare la discussione pubblica».

A proposito di Orsini, e Corona? Continuerà a lavorare con lui?

«Corona ormai fa parte integrante della “famiglia” di #cartabianca . Fin quando ci sarà la trasmissione ci sarà Corona».

Si definirebbe una donna di sinistra?

«Certamente (risata). Nessuno potrebbe mai dire che sono di destra».

Qual è stata la persona più importante della sua vita professionale?

«Sicuramente Sandro Curzi. Per me una figura fondamentale. Se non avessi fatto l’esperienza del Tg3 con lui non sarei stata quella che sono oggi. Ma devo molto anche a Giovanni Minoli, che mi ha insegnato il linguaggio di una tv innovativa. E poi a Michele Santoro. Ecco, queste sono le tre persone importanti della mia storia professionale».

Se lei non avesse fatto la giornalista che avrebbe fatto?

«La psichiatra. E devo dire che per dirigere un telegiornale o un talk show c’è bisogno di avere anche qualche nozione di psicologia».

Lei ha una figlia, Giulia, di 23 anni: è stato difficile, soprattutto nei primi anni, conciliare il ruolo di madre e quello di giornalista?

«Spero di essere riuscita a conciliare le due cose, ma è evidente che sono stata una madre meno presente di altre.

Bianca Berlinguer con la figlia Giulia, all’anteprima del film C’ è Tempo,

Perché comunque fare la giornalista spesso significa lavorare nei week end e finire molto tardi la notte. Però non mi pare che Giulia ne abbia particolarmente risentito. Ora mi capita di scherzare con lei: se avessi avuto una madre troppo invadente, per te sarebbe stato peggio. Ma battute a parte, ormai moltissimi figli sono abituati a mamme che lavorano. Non è, e per fortuna, una situazione eccezionale».

Con il suo compagno, Luigi Manconi, litiga mai parlando di politica?

«Discutiamo, perché siamo tutti e due molto appassionati di politica. E non abbiamo sempre la stessa idea».

Ma lei quando non lavora, nel tempo libero, che fa?

«Cerco di stare il più possibile con mia figlia. Naturalmente sono cambiati i ruoli, prima chiedeva lei di me, adesso sono io che la inseguo, che le chiedo di cenare insieme e lei risponde, come fanno i ragazzi di quell’età: “Cerco di organizzarmi”. E poi amo molto fare sport».

Lei ha due sorelle e un fratello, com’è il rapporto tra di voi?

«Siamo molto uniti. Sento Maria e Laura due, tre volte al giorno, vedo meno mio fratello perché vive in Spagna. La nostra è stata sempre una famiglia in cui si discute molto, spesso litigando, ma abbiamo un rapporto profondissimo che durerà per tutta la vita».

Lei è nata e vissuta a Roma, come ci si trova?

«È la città che amo di più, ma oggi si trova in condizioni disastrose e questo mi fa male. Mi piange il cuore quando vedo un simile stato di degrado».

Poi c’è la Sardegna.

«Ci andavo fin da piccolissima con papà, e ci vado ancora: la considero la mia terra. Mio padre mi ha insegnato ad amarla e io ho fatto lo stesso con Giulia. Peraltro, per un singolare caso della vita, il mio compagno è sassarese».

Lei doveva sposarsi con Manconi, poi questo matrimonio non c’è più stato...

«Avevamo fatto il giuramento, poi abbiamo soprasseduto perché c’era stata una forte ondata di ritorno del Covid. Lo faremo il prossimo anno...».

Lei è una bella donna, quanto ha contato il suo aspetto nel lavoro?

«Ha contato certamente e mi ha dato sicurezza, ma da una certa età in poi ciò che è davvero importante è sapersi accettare così come si è».

Si ha l’immagine di suo padre come di un uomo molto serioso. Era così anche con voi quando eravate piccoli?

«Quell’immagine si deve prima di tutto al fatto che l’intera politica all’epoca era seria e seriosa e non riesco a considerarlo un difetto. Tanto è vero che papà a casa era tutt’altro: disponile e divertente, pronto quando eravamo piccoli a giocare con noi, inventava storie, ci accompagnava al luna park, che era una sua grande passione, ad arrampicare sulle rocce e ad andare in barca».

Vi sgridava?

«Si, ma senza troppo impegno e raramente».

Così, su due piedi: il primo episodio del passato di famiglia che le viene in mente.

«Io avevo sei anni, Maria quattro e Marco tre quando mio padre lo perse a Venezia, intento come era a seguire le figlie che giocavano con i piccioni in piazza San Marco. Disperato, cominciò a correre tutto intorno alla piazza più volte. Fino a quando arrivò mia madre che era andata in farmacia e insieme tornarono al punto dove Marco era scomparso e lo ritrovarono proprio lì seduto su un canale in lacrime. Fu un momento di grande sollievo festeggiato con un grande cornetto ripieno di gelato».

Bianca Berlinguer: «Con Mauro Corona c’è dell’affetto. Le mie sfuriate? Io non urlo ma dico le cose con franchezza». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 17 gennaio 2022. 

La giornalista e conduttrice: «Io e Luigi Manconi aspettiamo una tregua dal Covid per sposarci. Mio papà Enrico Berlinguer era estroso, giocoso». 

Una volta, in tv da Francesca Fagnani, Bianca Berlinguer si è fatta sfuggire che è anche «pacioccona». L’aggettivo non è quello che sarebbe venuto in mente a chi, per 25 anni, l’ha vista condurre, severa e austera, il Tg3, ma forse suona folgorante per chi, a # Cartabianca, l’ha scoperta sorridente, spiritosa, seppure sempre attenta, pronta a scattare, puntualizzare, precisare. «Pacioccona?» dice ora, ridendo, «quando l’ho detto? Non me lo ricordo».

Le era stato chiesto in che animale si riconosceva. Aveva risposto «la leonessa». E aggiunto «ma sono anche pacioccona». Fine. Pacioccona come? Quando? 

«Sono capace di divertirmi, sorridere. Anche spesso».

E la divertì pure la definizione che diede di lei Roberto D’Agostino: l’altra metà del gelo? 

«Io, nel complesso, ricordo la frase come un complimento».

Il resto della citazione è «amara come un Fernet, deliziosa come uno yogurt fuori scadenza, carattere ispido e un sorriso alla Psyco che la rende indomita e invincibile».

«Ecco, indomita e invincibile, vede? Di me, si è sempre detto che ero fredda, distaccata, glaciale: ho imparato a farci i conti. È un’idea nata perché condurre un tg costringe a una certa severità. Invece, il talk consente di mostrare di più le emozioni, il carattere».

Il siparietto di #Cartabianca con Mauro Corona, scrittore e boscaiolo, che la chiama Bianchina, le offre gocce afrodisiache, nasce per scongelarla, come molti hanno scritto?

«Nasce per caso. Piace perché risultiamo così diversi e comunica allegria, bene prezioso di questi tempi. Ormai, abbiamo un rapporto di affetto. Ne abbiamo passate, di vicissitudini».

La più nota è quando, in diretta, le diede della gallina. Il suo direttore Franco di Mare lo bandì dalla Rai. Lei disse che non poteva essere un uomo a decidere quando una donna doveva sentirsi offesa.

«L’espressione era pesante, ma la sanzione non poteva essere l’interdizione a vita».

In coda a quell’incidente, lei accusò di sentirsi «completamente isolata in Rai», come se #Cartabianca fosse «sopportata, non apprezzata». Era il maggio scorso. Ora, come va?

«Mi sentivo senza interlocutori, una situazione che si era verificata quasi mai. Che fossi andata d’accordo o no coi vertici Rai, il dialogo c’era stato sempre. Ora, avendo nel nuovo Ad Carlo Fuortes un interlocutore, mi sento più sicura».

Che bambina è stata Bianca Berlinguer?

«Timida, ma sempre cocciuta. Mamma diceva: se ti metti in testa una cosa, smuovi i monti».

Enrico Berlinguer, prima di diventare il padre nobile della sinistra, ha fatto in tempo a essere solo il suo papà?

«Sì. E l’uomo privato era molto diverso da come veniva descritto».

Intervistato da Giovanni Minoli, confessò che la cosa che più gli dava fastidio che si dicesse di lui è che era triste.

«Pensai: vedi che dà fastidio anche a lui? Era qualcosa che mi disturbava perché invece era estroso, giocoso. A noi figli, da bambini, faceva fare cose divertenti, imprevedibili. Gli piaceva moltissimo il luna park».

Saliva anche lui sulle giostre?

«Partecipava attivamente. La mia prima volta sulle montagne russe fu a Cagliari, a 8 o 9 anni».

Come ha vissuto lei gli anni del terrorismo?

«I miei hanno sempre cercato di farci fare una vita simile a quella dei coetanei. Poi, quando Aldo Moro fu rapito e ci fu la polemica sull’opportunità di trattare coi terroristi per la sua liberazione, papà ci chiamò e disse: se dovessi venire sequestrato, io non voglio trattative».

Una figlia come può accettarlo?

«Ti auguri che non succeda mai e ti dici che è la sua volontà e va rispettata».

Il 3 ottobre ’73, suo padre ebbe uno strano incidente in Bulgaria.

«Poco tempo dopo — c’era stato il colpo di Stato in Cile — avrebbe proposto il compromesso storico e da lì sarebbe arrivato al discorso di Mosca del ’77 sulla democrazia come valore universale, ricevendo l’applauso più corto della storia del Pcus. Insomma, pur scortata dalla polizia bulgara, la sua auto fu centrata in pieno da un camion militare. Si salvò per miracolo. Che fosse un attentato era la sua convinzione profonda».

Come tutti i dirigenti del Pci, versava al partito la quota di stipendio parlamentare eccedente il salario di un metalmeccanico. Come si viveva in sei con quel salario?

«Stavamo attenti a tutto, ma non ci è mai mancato niente».

Quanto fu difficile quel 13 giugno 1984 assistere ai suoi funerali alla presenza di più di un milione di persone?

«Quando hai un padre tanto conosciuto che si sente male durante un comizio ed entra in coma, sei costretta a rinunciare a una parte dell’intimità che ogni lutto esige. Fin da subito, entrò in azione la macchina organizzativa del Pci. E, per quanto bellissima, la grande emozione popolare che ha accompagnato la sua morte ha fatto diventare pubblico e istituzionale quel dolore, rendendo ancora più faticoso elaborarlo».

Davvero sua madre non era comunista?

«Non veniva dal Pci, era cattolica, ma condivideva con papà i valori di fondo della vita. A me e alle mie sorelle, ha insegnato a essere autonome, a non sentirsi mai subalterne ai maschi».

Sua zia Ines la descrisse così: «Letizia si diverte a contraddirci su tutto: Pertini, il papa, la Dc, la Malfa e perfino il Pci».

«Non è che si divertiva a contraddire: se la pensava in un altro modo, lo diceva».

Lei perché ha scelto il giornalismo?

«Ero incerta fra psichiatria e giornalismo. Forse, ho fatto la scelta più facile. Poi, da direttore, ogni tanto, sbottavo e dicevo: ho scelto di fare la giornalista non la psichiatra. Cominciai collaborando al Messaggero, non pensavo alla Tv. Poi, Minoli cercava programmisti registi e scoprii che amavo lavorare con l’immagine».

Quando diresse il Tg3, si narrava che i redattori o l’adoravano o la temevano. Era così? E meglio essere adorati o temuti?

«Ho provocato sentimenti netti. Ed è meglio essere amati, non c’è dubbio. Però, ero un direttore e chi ha quel ruolo a un certo punto deve pur dire: si fa così».

Si favoleggiava di sue sfuriate.

«Una cosa enfatizzata. Ho confronti franchi, ma non urlo, sono una fredda».

Quanto la leggenda è imputabile alla narrazione maschilista del potere femminile?

«Abbastanza. Nella mia famiglia mai è stata fatta differenza fra le tre figlie femmine e il figlio maschio: avevamo tutti gli stessi orari, le stesse regole. Solo nel mondo del lavoro mi sono resa conto di come uomini e donne vengano tuttora percepiti diversamente e della resistenza ad accettare che l’ultima parola sia di una donna».

Il Tg3 in cui fu assunta da Sandro Curzi era detto Telekabul, che effetto le faceva?

«Lo consideravamo motivo di vanto».

Era un vanto anche essere detta La zarina?

«No, ma non lo trovo negativo: condurre o dirigere significa assumersi delle responsabilità».

Nel 2016, fu rimossa dalla direzione perché invisa, si disse, all’allora premier Matteo Renzi. Che aveva fatto per non essergli simpatica?

«Non serbo rancore. Tempo dopo, è ritornato nella mia trasmissione. Tutti i leader politici sono sempre venuti a #Cartabianca, con una sola inspiegabile eccezione: Giuseppe Conte».

Chi è oggi il politico più efficace in tv?

«Nessuno. I partiti sono deboli e il Paese chiede anzitutto rassicurazioni sulla pandemia».

Una previsione e un auspicio per il Colle?

«L’auspicio è che il ruolo di Draghi resti centrale da Palazzo Chigi o dal Quirinale, la previsione è che i giochi di partito creino il caos».

Lei si darà mai alla politica?

«A chi me l’ha proposto ho sempre detto: non devo neanche rifletterci».

Riservata com’è, la infastidì quella stagione, negli anni ’90, in cui voi conduttrici dei tg eravate considerate sex symbol?

«No. Rifletteva l’arrivo delle donne alla conduzione dei tg, un cambiamento importante».

E quando ragazzina finiva su Novella 2000 perché fidanzata con l’attore Saverio Vallone?

«Ma sì... Ci siamo rivisti di recente, ha una bellissima famiglia».

Immagino che Valerio Merola, che rivelò dopo decenni che voleva sposarla e fu rifiutato, non le ispiri lo stesso sorriso.

«Lo frequentai, ventenne, per un solo weekend. La sua fu un’intrusione sgradevole, mirata a farsi pubblicità».

Da quando a dicembre è trapelata la decisione, si è sposata con Luigi Manconi?

«No, aspettiamo una tregua dal Covid».

Perché si decide di dirsi sì, dopo 25 anni?

«All’improvviso, forse per festeggiare virtualmente le nozze d’argento, ma non mi chieda altro. Se un settimanale non avesse notato le pubblicazioni, non l’avremmo mai raccontato».

Il suo futuro marito ha perso la vista nel 2007, come si affronta un evento simile?

«Coinvolge tutta la famiglia, ma Luigi è stato bravo e coraggioso: è riuscito a continuare la vita di prima, scrive libri, editoriali, organizza convegni, presiede la sua Onlus sui diritti».

Le Iene vi hanno fatto credere che vostra figlia Giulia aveva comprato una patente falsa. Davvero eravate pronti a denunciarla?

«Io sì, lui era complice. Non si è visto, ma ho chiamato pure l’avvocato, decisa a denunciare».

Perché il suo unico libro l’ha scritto sull’attivista transessuale Marcella Di Folco?

«È stata una mia carissima amica, ha avuto una vita di dolori e trasmetteva sempre ironia e felicità. Da uomo, fu attore per Fellini; da donna, fece anche la prostituta non sapendo come mantenersi. La sua determinazione a vivere la vita a cui aspirava è stata un esempio per me».

E lei, ha fatto la vita che voleva?

«In parte sì, in parte no. Chi fa la vita che davvero avrebbe voluto?». 

·        Bruno Longhi.

Gianni Minà, un documentario tra incontri e memoria. "Eravamo io, Fidel, De Niro...", ed era tutto vero. Giuseppe Smorto su La Repubblica il 22 Marzo 2022.

In anteprima al Festival di Bari 'Vita da giornalista': gli incontri, la tv, gli scontri tra immagini e ricordi

Gianni Minà riprende l’auto con cui aveva scarrozzato i Beatles: ma quella sera del ‘65 al Piper c’era la folla, si rifugiarono al Club 84, in via Veneto. Alla guida e alla regìa c’è oggi la moglie Loredana Macchietti: per colonna sonora Paolo Conte e Manu Chao, la musica delle ormai scomparse linotype, momenti incredibili di tv: Ungaretti che conversa con Vinicius de Moraes, Fellini chiede di alzare la camera “così sembro più magro”, il set di C’era una volta in America. E’ il docufilm Una vita da giornalista, che sarà presentato venerdì 25 marzo al Festival di Bari, ovvero la capacità di Minà di stare sempre nel posto giusto, con qualche rischio. Dopo una domanda al generale dittatore Lacoste “è vero che qui scompaiono le persone?”, gli consigliano di lasciare l’Argentina, anno dei Mondiali ‘78.

Gianni Minà con Tommie Smith e Lee Evans, primatisti alle Olimpiadi di Mexico 68 e protagonisti del celebre gesto di protesta del pugno alzato col guanto nero  

Macchietti divide in cento minuti la vita di un uomo nato al Nord ma con baricentro al Sud: le case dei ferrovieri nella città “grande coro di persone” (Venditti), la maglia del Grande Torino, l’abbraccio negli spogliatoi con “il gallo” Bellotti. Non c’è la scontata battuta “chi è quel signore vestito di bianco in Vaticano accanto a Minà”: ma il docufilm cerca di spiegare il segreto che ora chiamano empatia, e ieri era amicizia, arte dell’incontro.

C’è lui davanti a Enzo Ferrari che si commuove per Villeneuve, oppure accanto agli splendenti Stefania Sandrelli e Franco Califano, attore di fotoromanzi non ancora diventato “il Califfo”. Lui preso quasi in braccio da Muhammad Ali, forse l’unico a cui stelle ribelli come Mennea, ragazzo del Sud senza pista, e Maradona, campione solo e tormentato, hanno riservato le confidenze più intime e scomode. E poi, gli anni dei grandi concerti e del programma Blitz: i Rolling Stones, la casa dei Beach Boys, una visita a Dizzy Gillespie per una serie sulla storia del jazz. La sua famosa agenda che fa dire a Troisi: “Lo so, sto sotto i Fratelli Taviani, Toquinho e Little Tony”. Quando Robert De Niro sbarca a Roma chiama Minà: e anche se quella di Fiorello sembra una gag (“eravamo io…), c’è una foto in cui a cena ci sono Gabriel Garcia Marquez, Sergio Leone, il divo Bob, Muhammad Ali e naturalmente lui.

Il giornalista tra Bernardo Bertolucci e Martin Scorsese Forse non tutti sanno che la sua è stata una lunga vita da freelance, un rapporto nervoso ma di grande amore con Viale Mazzini, che fa dire a Renzo Arbore: “Siamo stati protagonisti di un rinnovamento della Rai”. Facendo cose che nella tv di oggi accadono solo su mandato dello sponsor: Panatta intervistato a un cambio di campo, in evidente affanno. E dopo la vittoria “Gianni, la gente è buona e mi capisce”.

Passano sullo schermo i giganti portati su Rai 2 la domenica pomeriggio: Gigi Proietti, Vittorio Gassman, Adriano Celentano, Fabrizio De André. E la lezione su Dante di Carmelo Bene a Benigni (“accento sulla sesta!”), sarebbe stata bene in qualche festa per i 700 anni. Loredana Macchietti: “Non è solo il racconto di una vita, ma anche l'evoluzione del giornalismo e del linguaggio televisivo, grazie alle musiche dell'epoca”. Fuori dal docufilm Minà aggiunge: “Eravamo un ponte fra i fatti e la gente. All’inizio ho pensato che i social portassero più democrazia, ora sono pessimista. Il buon giornalismo di approfondimento vivrà nell’incrocio fra il metodo del vecchio mestiere e le nuove forme di comunicazione”.

Il giornalista con Loredana Macchietti, regista del documentario e sua moglie Nemmeno nel film compare la famosa parete della casa alla Camilluccia, in cui ci sono le foto di Minà con i suoi amici celebri. “Quella è zona privata”, per l’elenco non basterebbe una pagina: Gorbaciov, Mina e Monica Bellucci ci sono. E naturalmente si parla dell’intervista a Fidel durata sedici ore, con Castro che esordisce dicendo: “Cercherò di sintetizzare” e risponde sui diritti umani. Venduta in tutto il mondo, finita in una battuta di Natural Born Killers (“voglio un’intervista come quella che ha fatto quell’italiano a Cuba!”) chissà perché tagliata nella edizione italiana, provocò polemiche da prima pagina, ammirazione e invidia. I titoli di coda vanno sulla dedica ai compagni dell’adolescenza e sul premio speciale al Festival di Berlino, molti anni dopo: chissà se in Italia qualcuno ci pensa. 

"Con Battisti lacrime e risate ma che autogol con la Nannini". Massimo M. Veronese il 22 Marzo 2022  su Il Giornale.

Il re dei telecronisti: "Dissi a Gianna: la musica non fa per te, poi ci ridemmo sopra. Per Maradona ero il migliore, per Lucio un amico vero".

Piaceva a Nando Martellini, stesso garbo, stessa educazione, e per Maradona era, insieme a Gianni Minà, «il miglior giornalista del mondo». Bruno Longhi è stato la voce del calcio dal Trap a José Mourinho, il Niccolò Carosio moderno che ha traghettato la telecronaca pallonara da Bruno Pizzul a Fabio Caressa, passando per José Altafini. Confessa di non aver mai esultato per un gol se non per dovere professionale e di non avere mai tifato contro nessuno. Essendo figlio della Musica, avrebbe trovato stonato il farlo.

Bruno, cosa sognavano i suoi genitori per lei?

«Papà faceva il salumiere a Casorate Primo, dov'era sfollato per la guerra. Diceva sempre: tu devi fare il dottore commercialista. C'ho anche provato in Bocconi, ma la matematica non era fatta per me».

E lei cosa sognava?

«Come tutti i bambini di fare il calciatore. Anzi: ero sicuro di diventarlo. Lo scrissi in un tema in quinta elementare: raccontai il mio debutto a San Siro, il mio gol. È lì che ho iniziato a fare il cronista sportivo».

Peccato solo per San Siro...

«Ma io a 11 anni ho veramente debuttato a San Siro».

Scusi?

«In una delle partitelle che ai tempi i ragazzini del Nucleo addestramento Gioco Calcio, giocavano prima dei match di campionato».

E come andò?

«Un disastro. Toccai due palloni».

E poi?

«Passai alle giovanili dell'Inter, ma fu peggio. Andavo alle medie e facevo tre giorni di lezione al pomeriggio e tre giorni alla mattina. Allenamenti a singhiozzo, un giorno sì e uno no. Provai alla Solbiatese...».

Andò meglio?

«Macché. Avevo cominciato a suonare in un complesso musicale: sabato notte facevo le ore piccole e la domenica mattina non stavo in piedi. Suonavamo in centro Milano al Bar del Domm, per tornare a casa prendevo l'ultimo tram, quello dell'1.50, e alle sette e mezzo mi svegliavo per la partita. Mi dissi: meglio fare il Beatles che George Best».

Come si chiamava il gruppo?

«I Trappers, come i ribelli delle strisce di Capitan Miki e Blek Macigno che si battevano contro le giubbe rosse inglesi. Ero innamorato pazzo di quei fumetti».

E chi c'era con lei?

«Mario Lavezzi, mio compagno di scuola, anche se era una schiappa a pallone tanto che alle partite lo portavamo come massaggiatore. E Tonino Cripezzi, poi cantante dei Camaleonti, che faceva l'orefice».

E come mai non siete diventati i Beatles?

«Perché suonavamo molto bene ma ci mancava la voce. O meglio la voce sarebbe stata Tonino se i Camaleonti non ce l'avessero scippato. Quando uno dei loro andò militare ce lo chiesero in prestito. E non ce l'hanno restituito più».

Chi erano i suoi idoli?

«Gilbert O'Sullivan: Alone again fu il primo disco che comprai. Ma soprattutto i Beatles: sono la colonna sonora della mia esistenza».

Ha detto: i Beatles sono meglio del calcio. In che senso?

«Un concerto dei Beatles te lo godi dall'inizio alla fine, una partita di calcio non sempre. Poi quando c'è musica non c'è l'avversario. Sono comunque due amori: io ho vissuto e vivo di musica e calcio».

E allora perché nella suoneria del cellulare ha Elvis Presley?

«Perché Jailhouse Rock mi dà subito la sveglia appena squilla...».

Mai suonato i Beatles?

«Come Trappers avevamo inciso una cover di Yesterday. Si intitolava Ieri lei ma io e Lavezzi ce ne vergogniamo ancora adesso».

Che c'entra la Nannini con lei?

«Sempre con Lavezzi avevamo fondato un altro gruppo: i Flora, Fauna e Cemento. Si presentò questa ragazzina per un provino, suonava i pezzi di Carole King, ma era, come si dice in gergo, completamente squadrata, cioè non andava a tempo. Le dissi: Gianna, dammi retta, è meglio che cambi mestiere».

Vi siete più rivisti?

«Come no, durante un'ospitata alla radio, lei popolare rockstar, io telecronista affermato. Mi disse: ma tu sei quello che mi ha detto di cambiare mestiere? E io ridendo: esatto, ci ho visto proprio lungo...».

Però Mina ha cantato una sua canzone...

«Terre lontane. L'avevo scritta per Mino Reitano, anche se non era proprio il suo cliché, era più stile Crosby, Stills, Nash & Young. Ma Mina se ne innamorò e la riprese».

... e ha scritto canzoni con Mogol.

«Una si intitolava Azzurra e Little Tony la portò a Canzonissima. Non c'era solo Mogol-Battisti ai quei tempi, ma anche Mogol-Longhi...».

Ha detto: Mogol trovava le parole senza conoscere la musica.

«Lui è un poeta, paroliere è poco. Non conosceva la musica come tanti parolieri. Oggi ci sono cantanti che non conoscono la musica».

Non le piace la musica di oggi?

«Sono ancora uno strumentista e la musica è sempre bella a prescindere dal genere. Ma molta della musica che si fa oggi non lo è».

Le è piaciuto Sanremo?

«Brividi mi ha stupito perché bella e cantata bene. Poi mi è piaciuta moltissimo quella di Irama, una canzone vera, con una linea melodica. Altri sono figli dei social, vanno perché hanno followers. Ma siamo lontani dalla musica intesa come arte».

Per tornare a Mogol...

«Ha sempre avuto un intuito pazzesco. Si andava da lui, al Dosso, in Brianza, con quattro o cinque motivi musicali. Uno o due gli davano l'ispirazione e lavorava su quelli».

È vero che fu lei a ispirargli la Nazionale Cantanti di calcio?

«A quei tempi c'era il bar del lunedì, una specie di bar sport, con quelli della casa discografica. Mogol si affacciava alla sua maniera, rubando la sigaretta dalla bocca di uno che stava fumando, e chiedeva ma com'è questo calcio? Bello? Non sapeva nulla, al contrario di suo padre Mariano Rapetti che era un grande milanista. Così gli spiegai, lo portai a San Siro, gli feci da nave scuola».

E poi?

«Inventò un torneo di calcio con tutti quelli della Numero Uno: Battisti faceva il portiere, Mogol il terzino, c'erano Tony Renis, Adriano Pappalardo, la Formula 3. Poi arrivarono Gianni Morandi, Don Backy, Fausto Leali. Una volta contro la nazionale giornalisti finì persino a botte con Sandro Giacobbe e Riccardo Fogli a menare come fabbri».

Abitava a trecento metri da casa di Lucio Battisti...

«Ma il mio rapporto con lui nasce negli uffici della Numero Uno, manco sapevo che abitasse vicino a me».

Ma diventaste amici.

«Era molto geloso della propria privacy e difficilmente ti dava confidenza. La mattina arrivava con la Duetto e il foulard rosso, io salutavo e lui manco mi rispondeva».

E poi?

«Si creò una specie di alchimia tra noi due e tutto cambiò. Ridevamo sempre. Mi chiamava De Longhis. Poi c'era il nostro rito del caffè...».

Cioè?

«Offrivo sempre io. Una volta mi disse: stavolta lascia stare. Pagò il suo caffè ma non il mio».

Simpatico...

«Avevamo anche un codice per sentirci al telefono: uno squillo poi appendi, uno squillo poi appendi e al terzo lui rispondeva. Serviva a seminare gli scocciatori».

A pallone com'era?

«Giocava in porta con cappellino, guanti e ginocchiere. Una volta gli faccio quattro gol, uno glielo infilo sotto le gambe. A De Longhis nun stà a cantà vittoria, mi grida, che se mi metto a fare sul serio divento il numero uno anche qui».

Un giorno Monica Gasparini le telefona e le dice: Lucio è morto.

«Andavo a Parma, mi sono fermato in un'area di parcheggio e mi sono messo a piangere. Fu un pugno nello stomaco. Sapevo che non stava bene ma speravo si riprendesse. Mi capitò la stessa cosa quando sentii alla radio della morte di Scirea».

Racconti...

«In un incidente d'auto in California era morto due giorni prima Kazimierz Deyna, storico capitano della Polonia. Distratto, anche qui in autostrada, sento lo speaker dire il calciatore morto in un incidente stradale in Polonia e penso ma cosa blaterano questi? Deyna è morto in America. Quando dicono Gaetano Scirea mi sento male. Mi vengono i brividi ancora adesso Gaetano era una persona meravigliosa, un essere fuori dal tempo. Vice di Zoff, suo amico e compagno di squadra, una volta gli chiesi un commento e mi disse: devo chiedere a Dino se mi dà il permesso. Tenerissimo».

Fu pioniere delle radio private.

«La mia si chiamava Novaradio Milano, facevamo i primi tempi delle partite di calcio quando Tutto il calcio minuto per minuto si collegava all'inizio dei secondi. Eravamo degli imitatori più che dei creativi, ma è stata una grande palestra che ti faceva capire quale fosse la tua strada».

Ricorda la prima radiocronaca?

«Ottobre 1976, Inter-Cesena 1-1. Gol di Libera e Macchi. La prima telecronaca che ricordo invece fu un disastro: a Lione, finale di Coppa delle Coppe Atletico Madrid-Dinamo Kiev 0-3, andai in onda dopo mezz'ora perché non riuscivano a fare il collegamento audio».

Bruno Longhi comincia a Novaradio e Marco Civoli a Telenova, stesso editore: bella scuola.

«Ma la vera passione di Marco era il ciclismo. Una volta mi disse: il mio sogno è entrare in Gazzetta dello sport e scrivere di bici. E invece è diventato la voce dell'Italia mondiale del 2006».

E i primi anni della tv?

«La vita spesso dipende dagli Sliding Door. Collaboravo con Il Corriere di Informazione e il capo dello Sport Piero Dardanello mi dice: Telemilano 58 vuole un'intervista con Liedholm prima di Juventus-Milan, sei capace di farla? E io: Piero, faccio la radio Il giorno dopo mi arriva una telefonata, mi chiama uno con un accento milanese pesantissimo. E mi dice: mi ha chiamato Berlusconi, le chiede se può andare da lui».

E lei?

«Gli dissi: chi è Berlusconi? E lui: non conosce Berlusconi? Quello che fa le case? E io: senta se lei mi chiede chi è Mazzola e chi è Rivera è un conto, ma questo Berlusconi non so proprio chi sia».

Ha raccontato il Milan di Sacchi, l'EuroJuve di Lippi e l'Inter del Triplete. Un bel filotto.

«Sacchi mi dice sempre: dovevi commentarne di più di partite del Milan, avremmo vinto il doppio».

E Lippi?

«Andavamo in vacanza a Stintino, giocavamo a calcio assieme, c'era complicità. Gli pronosticai la vittoria della Juve in Coppa Campioni».

Allora è vero che porta bene. E com'è che è interista?

«Nella mia famiglia lo erano tutti e tutti sfegatati. Una volta, avevo sei anni, papà mi regala mille lire per comprare un completino di calcio, maglia, calzoncini e calzettoni, in vendita in un negozietto. Ne ha uno della Juventus e io prendo quello. Papà mi mandò a restituirlo subito».

Maradona disse che lei era il Maradona dei giornalisti?

«Diego era duro nei suoi principi ma aveva un'umiltà senza pari. Ha avuto due vite, santo e peccatore. Ma a Napoli ha fatto tanta beneficenza e non voleva che si sapesse».

La ispirò più Ameri o Martellini?

«Ronaldo, il Fenomeno, mi chiamava il Galvão Bueno italiano, il principe dei radiocronisti brasiliani. Mi sono ispirato a loro: davano ritmo al racconto di una partita».

Chi le piace di quelli di oggi?

«Sono tutti più bravi di quelli della mia età e hanno gli strumenti per informarsi che noi non avevamo».

Però?

«Mi piace Maurizio Compagnoni di Sky. Magari è meno tecnico degli altri ma ha una voce che dà importanza all'evento».

Le donne telecroniste?

«Fatico ancora a metabolizzarle. Migliorerò».

E ha inventato un linguaggio.

«Buon calcio a tutti è mio poi lo ha fatto suo Ilaria D'Amico. E anche l'autopalo e il rigore in movimento».

E «non dire gatto se non ce l'hai nel sacco»?

«Quella l'ho fatta dire a Trapattoni ora è un cult. Vede che porto bene?».

·        Bruno Vespa.

Bruno Vespa: «Subii il fascino di Saddam. Mio figlio Federico? Mi spiace che per lui ci sia un tetto di cristallo». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 16 Ottobre 2022.

Il giornalista e i 60 anni in Rai: iniziai in una testate dialettale. Come un idiota lasciai il Tg1 senza chiedere nulla. Io e mia moglie siamo conflittuali ma non potremmo mai fare a meno l’uno dell’altra. 

Sessant’anni di Rai Bruno Vespa li conta dal primo settembre 1962: «Avevo 18 anni: il primo lavoro, durato sei anni, fu trasmettere due volte al giorno alla sede di Pescara le notizie da L’Aquila, dove c’era anche una grande società dei concerti. Allora, con un vecchio Nagra a manovella, registravo anche interviste per la radio nazionale con Arthur Rubinstein, Arturo Benedetti Michelangeli, Svijatoslav Richter, il giovane e promettente Maurizio Pollini... Ho fatto l’abusivo finché, nel 1968, ci fu il concorso, lo vinsi e, nel ‘69, entrai al Tg».

Aveva cominciato a 16 anni come corrispondente del Tempo dell’Aquila, come arriva il sacro fuoco del giornalismo?

«Al Circolo del tennis, avevo 15 anni, un pregevole latinista mi propose di collaborare a un giornale dialettale. Non sapevo scrivere in aquilano e composi noiosissimi articoli sui concittadini che avevano dato i nomi alle strade. L’anno dopo, cominciai col Tempo. L’emozione del primo stipendio fu enorme: cinquemila lire»

Quante erano cinquemila lire nel 1960?

«Per me, un miliardo. Ricordo ancora il cassiere del Banco di Napoli che contava i biglietti da mille: vestito, come usava, da lord, col panciotto e i gemelli d’oro. Quell’anno, c’erano le Olimpiadi a Roma e, all’Aquila, si disputavano gare ultraminori, così iniziai a collaborare gratis con Radio Rai. Ogni mezz’ora, dovevo raggiungere un enorme telefono nero, chiamare quello che sarebbe diventato Tutto il calcio minuto per minuto e dire: Ghana 1-Costa Rica 0».

La direzione del Tgl arrivò nel 1990. Momenti topici della carriera?

«Il battesimo del fuoco già pochi mesi dopo l’assunzione. Il 12 dicembre ‘69, ero a Palermo per la strage mafiosa di Viale Lazio, quando dal Tg mi dissero: torna, hanno messo una bomba a Milano a Piazza Fontana. Da lì, annunciai l’arresto di Pietro Valpreda definendolo “il colpevole”, cosa che giustamente mi è stata rinfacciata per decenni. Però, se lei sui giornali dell’epoca trova un “presunto”, le mando un fascio di rose».

E perché se la presero tanto solo con lei?

«In tutti questi anni, se la sono presa con me per le ragioni più disparate. Lì, comunque, poco prima della diretta, ebbi la notizia dell’arresto dal direttore Villy De Luca, andai dal questore Giuseppe Parlato, che si rincantucciò sotto la scrivania, e dissi con l’arroganza di chi ha 25 anni: o adesso o mai più. Mi rispose: mi faccia parlare col ministro. Uscì e anche lui disse: abbiamo arrestato il colpevole. Mi affidarono anche la politica, fatta senza leggere appunti per renderla più discorsiva. Però, ero piuttosto fumantino e, fino al ‘76, mi fu vietato di avvicinarmi alla Dc per paura di grane».

Proprio lei, che fece scalpore ammettendo che la Dc era il suo editore di riferimento?

«Avevo detto che lo era della prima rete, non era un mistero... Il Psi lo era della seconda e il Pci della terza. lo ero la persona con più titoli per fare il direttore del Tgl, ma se Arnaldo Forlani avesse detto “Vespa no”, non lo sarei diventato. Tenga conto, però, che non ho mai avuto un colloquio privato con Forlani, né la tessera Dc né ho mai partecipato a una riunione politica ».

Dunque, questo carattere «fumantino»?

«Nel ‘72, Giovanni Malagodi è al governo con Giulio Andreotti e io vado al congresso del Pli. Lui chiede di non inquadrare le minoranze e io: appena mi assume al partito, ne riparliamo. Ovviamente, detti alle minoranze uno spazio elevatissimo. Poi diventai quirinalista: m’impose Biagio Agnes. Seguivo i viaggi di Giovanni Leone, al cui staff stavo sullo stomaco e, onestamente, credo che avessero ragione: volevano Claudio Angelini, bravissimo giornalista, che era loro amico. Però, siccome i rapporti fra il segretario di Leone, Nino Valentino, e Agnes erano pessimi, Agnes, per fargli dispetto, mise me. Un giorno, tornando dalla Val d’Aosta, trovo un telegramma rosa di Stato. Finalmente, penso, un ringraziamento. Invece, era un cazziatone micidiale di Valentino. Diceva che il presidente se l’era presa perché avevo tagliato un intervento del governatore della Valle d’Aosta. Mi arrabbio come una scimmia e gli scrivo una lettera di questo tenore: tu fai il tuo mestiere, io faccio il mio. Ci fu un chiarimento al Quirinale. Leone non sapeva niente di questa storia».

Altre reazioni fumantine?

«Mariano Rumor, ministro degli Esteri: torna da un viaggio e il suo portavoce mi dà un foglio con le domande. Dissi no, ma alla fine, lessi le domande fuori campo, tornai alla Rai, le tolsi, unii le risposte e uscì una cosa totalmente priva di senso. Rumor se ne scusò moltissimo. Dal 1976, fu il direttore Emilio Rossi ad affidarmi la Dc. Il lancio vero me lo diede l’omicidio di Aldo Moro, purtroppo».

Annunciò lei sia il sequestro che il ritrovamento del corpo.

«Non ci volevo credere: era impensabile che qualcuno avesse fatto violenza a quell’uomo intangibile e l’avesse ucciso. Rimasi in onda dalle 9,30 del mattino alle due di notte. Anche il Pci ci riconobbe il merito di aver tenuto insieme l’Italia. Ugo La Malfa e Giorgio Almirante volevano la pena di morte per i terroristi, ma demmo la sensazione che il Paese tenesse e invece, purtroppo, al vertice, non teneva affatto».

Chi le aveva dato la linea editoriale?

«Nessuno. Ero solo in studio. Mi venne spontanea, mi presi una responsabilità enorme, poi, condivisa col direttore».

Negli anni di piombo, ha mai temuto per la sua incolumità?

«Non l’ho mai raccontato, ma ci fu un episodio negli anni ‘80... Tornavo a casa, pioveva e lasciai l’auto al portiere per portarla in garage. Molto tempo dopo, lui mi confessò d’aver visto due uomini armati, uno aveva detto: non è lui. Il padreterno mi ha messo mano sulla spalla».

Chi c’è fra i suoi incontri memorabili?

« Gianni Agnelli, incontrato una volta all’anno per vent’anni. Telefonavo: verrei a Torino il tal giorno, se è libero. Andavo e mi faceva mille domande: politica, giustizia, terrorismo, Mani Pulite... Nell’80, dopo la marcia dei 40 mila, mi diede un’intervista nonostante i suoi fossero contrari. Il suo attacco a Enrico Berlinguer fu memorabile. Quando lasciò la presidenza a Cesare Romiti, per la prima volta, sembrò subire le domande. E dovetti fare lo slalom per ignorare il tema successione: il figlio Edoardo era ancora vivo, lui era innamorato del nipote Giovannino».

Fra le sue interviste, Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo.

«Il governo non voleva che la facessi e tentò di non mandarla in onda. Fu un’intervista molto dura, eravamo due Paesi virtualmente in guerra e io subii il grandissimo fascino di Saddam».

Papa Wojtyla le telefonò in diretta nel 1998.

«Non se l’aspettava neanche Navarro Valls che era in studio con me. Avevo conosciuto Wojtyla a Cracovia nel 1977. Lamentava che il regime gli facesse mancare perfino la carta per stampare i giornali cattolici. Non ho mai visto una messa come quella che vidi lì. Ho ripensato a quella concentrazione devota facendo la diretta da Leopoli il Venerdì santo scorso: è stato così che ho capito che gli ucraini non si arrenderanno mai».

Mentre Wojtyla le parlava al telefono, lei sembrò commosso.

«È il mio papa. Nel mio studio, alle mie spalle, ho il suo ritratto. A Cracovia, gli avevo detto: non sarebbe ora di avere un papa polacco? Undici mesi dopo ne annunciavo l’elezione...».

Come arriva Porta a Porta?

«Nel ‘95 avevo lasciato la direzione del Tgl senza chiedere e trattare nulla: un idiota assoluto. Una sera, vedo lo spot di una seconda serata di Carmen Lasorella in onda dal lunedì al venerdì. Vado dalla presidente Letizia Moratti e le dico: vuole che me ne vada? Diede tre serate a Carmen e due a me. Venivamo da Samarcanda di Michele Santoro e “vi piace che hanno ammazzato Lima?”. La politica narrata in modo educato era impensabile, ma funzionò».

Mandò in onda Massimo D’Alema che preparava il risotto. Oggi, i politici sono tutti su Instagram fra pane e salame, pizza: lei, allora, che aveva intuito?

«Che erano finiti i tempi del pudore di Berlinguer. Vidi questo stacco fra Prima e Seconda Repubblica che andava spiegato alla gente. Cominciammo a scavare nelle abitudini dei politici, a intervistare i loro compagni di scuola».

I famosi plastici come le vennero in mente?

«Da sempre, i giornali li facevano in due dimensioni. E, anni prima, li aveva fatti in 3D Corrado Augias senza scandalo».

Giulio Andreotti ribattezzò il programma la Terza Camera del Parlamento.

«Diceva: se dico una cosa in Senato, non la sa nessuno, se la dico da te, la sanno tutti».

Lei da che infanzia e famiglia viene?

«Normale, con una mamma bravissima maestra elementare e un padre rappresentante di commercio. Non mi è mai mancato niente e ho sempre frequentato persone più brave di me, per cui, non ho mai provato l’invidia».

Come conosce sua moglie Augusta lannini?

«Comuni amicizie aquilane maturate a Roma, nel ‘71. Si è insinuata nella mia vita mettendo in ordine i miei ritagli di giornale. Discutiamo tutti i giorni, abbiamo caratteri conflittuali, ma nessuno dei due riuscirebbe a fare meno dell’altro».

Chi dà la linea in casa?

«Lei. E anche nella masseria in Puglia».

A proposito di Puglia, come si vincono Tre Bicchieri col vino, facendo un altro mestiere?

«Scegliendo un bravo enologo come Riccardo Cotarella».

È contento che il più grande dei suoi due figli, Federico, faccia il giornalista?

«Mi spiace che per lui ci sia un tetto di cristallo. Temo sia vero ciò che ha scritto Maurizio Costanzo: usando uno pseudonimo, lavorerebbe di più. Eppure, in Rai, i “figli di” non mancano».

Proprio Federico, ha raccontato che, la sera, davanti alla tv, «le fa i grattini sulla pelata perché anche lei ha bisogno di affetto».

«Nessuno sa che sono romanticissimo, affettuoso e, che, ci mancherebbe altro, anch’io ho bisogno di affetto».

Carlo Cambi per “la Verità” l'11 aprile 2022.

Da «Porta a porta» a «botte a botte» il cambio di scena è sorprendente; Bruno Vespa viticoltore però è più gioviale e degagé del gestore della «terza Camera» - così Giulio Andreotti battezzò il programma - che va in onda da 26 anni e ha scandito l'evoluzione e le contorsioni della politica italiana. Bruno condivide con il divo Giulio la battuta cortesemente tagliente. «Parliamo di vino all'infinito, ma non di politica». Viene da pensare che in effetti è inutile chiedere all'oste se il vino e buono.

E perché?

«Perché c'è differenza tra lavoro e passione anche se la fatica nel coltivare è doppia. Con un'altra differenza: da 40 anni mi occupo di politica, ma non ho mai pensato di fare politica. Anche di vino scrivo da 40 anni e non pensavo che avrei avuto una cantina; invece eccomi qua». 

Cominciamo con il Vinitaly. È partito ieri: è la fiera delle velleità o della speranza?

«Purtroppo, mi viene da dire così, sono un ottimista e per me questo Vinitaly è la fiera della ripartenza. Dopo due anni di lockdown le aziende, pur con tutte le preoccupazioni che ci sono, non hanno perso la spinta a fare, a migliorare. È anche la prima volta che si fa prima del Prowine (fiera tedesca che fa il mercato dell'export, ndr) e anche questo è un segno. Bisogna affidarsi alla speranza che la guerra finisca, che la crisi energetica rientri, che la pandemia sia alle spalle e si possa ricominciare a vivere. Perché il vino ha bisogno della gioia di vivere». 

Perché una cantina in Puglia?

«Prima per caso, poi per fascinazione: è una terra unica e ha dei vitigni autoctoni che danno vini di assoluta forza espressiva.

Con altri tre soci ci fu fatta vedere a Manduria una bellissima masseria dell'Ottocento che era stata la culla del Primitivo. L'intesa non andò avanti e cedemmo tutto a una dei soci. Con mia moglie però abbiamo cominciato a comprare un po' di terra alla volta fino ad arrivare alla nostra masseria Li Reni, tra Manduria e Avetrana, che oggi è anche un resort di lusso, ha il ristorante che abbiamo riaperto proprio adesso con la collaborazione di una nuova brigata, ha 30 ettari di vigna ed è immersa negli ulivi».

Fino al Donna Augusta: il miglior bianco d'Italia in terra di rossi

«Mia moglie non ama i bianchi e con Riccardo Cotarella le abbiamo dedicato questo vino che è sorprendente». 

Riccardo Cotarella, grandissimo enologo. Ma è anche quello di D'Alema!

«Mi verrebbe da rispondere che nessuno è perfetto». 

Bruno Vespa imprenditore è preoccupato per l'inflazione?

«Luca Goldoni a proposito di libri, e io ne ho fatti, diceva: il problema non è scriverli, è venderli. Debbo dire che sui libri c'è una ripresa ed è un buon segno. Sul vino ci sono sì problemi legati ai prezzi. I costi sono fuori controllo e noi dobbiamo essere bravi a non scaricarli tutti sul consumatore finale. Per un'azienda piccola come la mia, comunque, i margini di crescita ci sono. Noi vendiamo in 26 Paesi. Aziende molto più grandi per stare sul mercato con questa inflazione e questi costi fanno più fatica e devono fare molta attenzione».

Siamo tornati al piccolo è bello?

«No, penso che si debba lavorare per integrare, le aziende devono crescere; il mondo del vino però è il trionfo dell'egoismo mentre io sono un sostenitore della squadra. I francesi in questo ci battono: loro magari si odiano, ma sono un sistema coeso. Credo che tutta l'economia italiana abbia bisogno di più coesione. Grazie a Cotarella ho incontrato un vero gentiluomo come Sandro Boscaini e abbiamo prodotto un vino insieme: Veneto e Puglia. Si può, anzi si deve fare». 

Torniamo all'inflazione. Fa la spesa? Crede che la gente possa resistere?

«Sì, qualche volta faccio la spesa: sono affascinato dalle botteghe, ma anche dalla grande distribuzione. Sono stato il primo a presentare un libro in un supermercato. E mi accorgo delle difficoltà crescenti. La prima cosa da fare è raffreddare le bollette: se hanno troppi costi fissi le persone, soprattutto coloro che hanno bassi redditi, non ce la fanno.

Comprano meno e di minor qualità. Ed è un danno per tutti, lì bisogna intervenire». 

Ma qui si parla addirittura di crisi alimentare. Ci crede?

«Ci sono molti Paesi africani che dipendono dal grano dell'Ucraina e della Russia. La crisi alimentare deve esser scongiurata in tutti i modi, dobbiamo produrre di più. Ma deve essere un impegno di tutti. Lo dico a mo' d'esempio: ho un ettaro a grano e ho deciso di raddoppiarlo, è necessario. Abbiamo delegato troppe produzioni, dobbiamo tornare a produrre». 

Errori dell'Italia o dell'Europa?

«Dell'Italia e dell'Europa. Ho scoperto che il 75% dei principi attivi dei nostri farmaci si fanno in Cina o in India. Così vale per il grano, per l'energia, per la tecnologia. Se ci tagliano il tubo noi non siamo più in grado di reagire o di resistere. Si è detto che questa guerra sancisce la fine della globalizzazione, di sicuro deve essere ripensata ed evitata la delocalizzazione. Non deve valere il principio che bisogna per forza produrre là dove costa meno. Anche perché, come si vede, poi questi costi ritornano moltiplicati e in forma di danno. Sul gas ha ragione Mario Draghi: già dal 2014 la Russia stava in guerra nel Donbass e noi comunque abbiamo deciso di aumentare la nostra dipendenza da Mosca dal 30 al 40% del fabbisogno energetico. È irresponsabile dipendere dagli altri in maniera così massiccia nei settori strategici».

L'agricoltura è strategica?

«È decisiva. Noi siamo usciti più tardi di altri Paesi dall'economia agricola, ma lo abbiamo fatto convinti che avere una parte consistente di Pil dipendente dall'agricoltura fosse segno di arretratezza. Oggi invece sarebbe segno di ricchezza. Bisogna fare coltivazioni sempre migliori e più sane. Per dare un futuro ai nostri figli è necessario mettere a coltivazione ogni centimetro quadrato disponibile». 

L'Europa dice il contrario: meno agricoltura più verde

«È una sciocchezza assoluta. Ambiente e agricoltura non sono alternativi e non si può assolutamente rinunciare a produrre di più dalla terra. Penso anch' io di convertire la mia azienda in biologico, ma questo non vuol dire produrre meno. Sento le battaglie contro gli Ogm, ma il mondo va sfamato. Certe volte l'Europa si fa male da sola». 

A proposito, ma l'Europa c'è?

«Durante la pandemia è salito, e giustamente, un sentimento anti-europeo: l'Europa sul Covid è stata latitante. Ora l'Europa è tornata. La Metsola e la von der Leyen che sono andate in Ucraina dimostrano che i valori dell'Europa ci sono e siamo pronti a difenderli». 

Però si parla tanto di armi, di sanzioni e poco di pace. Non trova?

«Mettiamo le cose in chiaro: qui c'è un Paese che è stato aggredito e c'è un aggressore. Zelensky che altro può fare se non difendersi? E noi che altro possiamo fare in nome dei nostri valori se non aiutarlo a difendersi? Va stabilito questo principio. Zelensky a un certo momento ha provato a dire: fermiamoci, ma chi lo ha aggredito ha obbiettivi non raggiunti e non può dire che si è sbagliato. Perciò temo che la guerra non si fermerà presto. Vediamo violenze che non mi sarei mai immaginato. Peraltro i russi già avevano dato prova di queste atrocità con altri bombardamenti. Bisogna impedire a Putin di conquistare anche Odessa, di chiudere l'Ucraina in un'enclave. Il rischio è altissimo». 

Qual è?

«Creare in Ucraina altre due Coree. Se la Finlandia e la Svezia hanno chiesto con urgenza di entrare nella Nato significa che il pericolo è gravissimo, si stanno modificando addirittura gli equilibri del secondo dopoguerra. Bisogna trovare la via del negoziato facendo cessare i bombardamenti e facendo in modo che Zelensky ceda il meno possibile quando si affronteranno le questioni della Crimea e del Donbass. Ma a me pare che Putin non abbia nessuna volontà di mediazione».

Una guerra lunga però finisce per logorare anche noi. Non crede?

«Sì, ma certi principi, certi valori non sono negoziabili. Ho sentito dire che Zelensky si sarebbe dovuto arrendere. Inaccettabile. Si dovrà lavorare per una soluzione perché Putin farà durare la guerra finché non ha raggiunto il suo minimo sindacale. Ma non dobbiamo rinunciare a vivere. In questi giorni vedo Roma di nuovo piena di turisti. Non ci saranno i russi ricchi, ma qualcosa sta cambiando». 

Però per sostenere il turismo non si è fatto molto

«Il turismo è davvero il nostro petrolio. Per il Sud, che però non è esente da colpe, è la vera occasione. Se però non si sa spendere i fondi europei, e guardo anche al Pnrr, poi ci si lamenta un po' a vuoto. È vero che il turismo ha sofferto più di tutti e pesantemente, ma ora abbiamo un bravo ministro, Massimo Garavaglia, finalmente dedicato al turismo che ha anche delle risorse e che si sta dando da fare. L'Italia forse ha capito - e lo dico anche da imprenditore del settore - che il turismo è un suo motore di sviluppo. C'è un terreno enorme da recuperare».

Ma una domanda politica europea l'accetta? Macron o la Le Pen?

«Non lo so e non dico se ho preferenze. La Le Pen ha fatto una conversione a "U", Macron, anche se viene rimproverato per molte cose, ha dalla sua l'orgoglio e la voglia di leadership dei francesi. E comunque il vino che si vende di più è italiano».

·        Camillo Langone.

Da mowmag.com il 23 luglio 2022.  

È forse l'uomo più misantropo d'Italia. Talmente tanto che ha provato a farci desistere dall'idea di intervistarlo più volte. "Detesto lavorare e soprattutto vedere lavorare" ha detto la prima volta. "Ma perché dovete spendere tempo e soldi per venire a parlare con me?" ha rincarato la seconda. Il motivo è semplice: perché Camillo Langone, tutti i giorni che Dio mette in terra, scrive La Preghiera su Il Foglio e la scrive in modo sublime e le cose di cui parla riguardano quasi sempre e soltanto la religione, la filosofia, la pittura e i vini e i ristoranti che frequenta. 

Le cose più belle dell'esistenza insomma e passare una giornata con lui è un inno alla nobile arte dell'ozio. Alla fine quindi accetta. Lo incontriamo nel centro di Fidenza nell'osteria di Andrea Ghiozzi, fratello di Gene Gnocchi e autore, a quanto si dice, della migliore torta fritta del mondo. 

La definizione giornalista non la digerisci...

Sono uno scrittore, giornalista è degradante. 

Però misantropo sì. 

Ho un disprezzo e un fastidio verso l'umanità che mi rende la vita anche un po' difficile. L'umanità è inguardabile, poi in estate è ancora più brutta perché le persone si vestono male e si vestono poco. 

Invece la donna…

Se è leggermente scollata non mi non mi turba più di tanto. 

Beviamo un Fortana, vitigno classico della Bassa padana, vino zuccherino, "ché una volta, i vini, zuccherini lo erano tutti e questo ne testimonia l'antichità, tanto che va bevuto in una scodella, come accadeva nelle osterie del Medioevo".  

Mi hanno detto: stai attento a Camillo Langone perché lui non si ubriaca mai…

Resistenza, DNA, non lo so.

Ed è un conservatore, reazionario, tradizionalista della peggior specie. 

Ignoranti. Oggi io sono soprattutto il più grande lambruschista italiano: cioè il più grande conoscitore, paladino, araldo, ambasciatore di questo meraviglioso mondo che è il Lambrusco. Che una volta faceva schifo ma ora, grazie alla tecnica moderna, ha esemplari molto buoni. E poi è un vino maschile, infatti a molti palati non piace perché oggi c'è un triste ritorno al morbido. 

Spiega meglio.

Ci stiamo femminilizzando. Anche gli uomini adesso sono delle mezze fighe e quindi tutti prendono queste cosine morbidine. Tipo lo spritz.

E secondo te è un problema?

Certo che lo è. È un fatto demografico. Oggi noi ci stanno estinguendo perché non c'è più la differenza sessuale. C’è un'attrazione fra il maschio e la femmina quando sono due cose diverse, quando sono due cose uguali nessuno è interessato all'altro e non si fanno più figli. È molto semplice. E si beve lo spritz. Che fa male, fa schifo e per farlo va bene qualsiasi bianco di merda.   

Il pensiero unico dell'aperitivo.

È una cosa devastante per il commercio, per l'agricoltura, per la viticultura. Devastante.

Quindi è vero, sei un conservatore. E sei stato attaccato per le tue posizioni antifemministe e anti no gender. Hai perculato il vincitore del Premio Strega per aver indossato fazzoletto arcobaleno e collarino fetish. Mentre contro la Pausini e le altre che si sono esibite al Campovolo...

Ho solo detto che il santuario dei concerti di Ligabue, che cantava che la donna è "un po' mamma e un po' porca" è stato profanato dalle cantantesse contro la violenza di genere, che vuol dire contro il genere maschile in realtà, perché in quell'ideologia che è il gender le donne sono vittime e i maschi sono invece i carnefici.   

Emma Marrone ha detto che ti devi vergognare. Ti vergogni?

Ovviamente per nulla. 

Anzi, un po' ci godi.

Sto ricevendo tantissimi messaggi privati ben più pesanti. 

Ma se Emma Marrone fosse qui al tavolo con noi che le diresti?

Di bere. Perché bevendo forse si trova un terreno comune. Secondo me lei beve, cioè ha il fisico della donna che mangia e che beve, ho questa speranza.

Finirebbe in giovialità.

Ma io credo di sì. Non è che lei sia il mio nemico metafisico. Non è il male, Emma Marrone, ma quando dice queste cose è posseduta dal male. Il problema non è lei, è l’onda che la trascina. Comunque ho sempre avuto di questi problemi, di gente che mi augura la morte, che mi dice “aspettiamo che te ne vada”, “devono smettere di farti scrivere”, fondamentalmente sono tutti censori. La libertà d'espressione non è più concepita da un po' di anni, non è più considerata come un valore. Le persone non devono scrivere se non dicendo le cose che dicono tutti gli altri. 

Cos'è la libertà per te?

È una cosa che si sente, che si vive, che si gode, mi sono accorto in questi oltre due anni che la maggior parte della gente non ha nessun interesse per la libertà, non ha avuto alcun scrupolo a chiudersi in casa. Io sono contro le brutture come le file al supermercato o le mascherine, non sono mai stato in casa un giorno, non sono mai stato fermo, utilizzavo l'auto e non i mezzi pubblici. Quello che è successo per me è assolutamente inconcepibile e aver visto le persone adattarsi a queste privazioni mi ha fatto diminuire ancora di più la stima nei confronti dei miei connazionali. 

Ergo sei no vax?

Sono per la libertà di scelta. E guarda che io sono il contrario di omeopatico, cioè allopatico, quindi a me piacciono le medicine, mi piacciono i farmaci, mi piacciono anche i vaccini. Non mi piace l'obbligo. E poi io sono contro lo Stato che vuole farti il vaccino perché il vaccino me lo voglio fare da solo: io so fare le punture, sono un vero uomo, autarchico. Il vero uomo deve saper cucinare, deve saper stirare e voglio essere padrone di me stesso.

Il Superuomo di Nietzsche.

No. Io riconosco la superiorità di Dio ma non quella del controllore, del carabiniere, del burocrate, quello no. Inginocchiarsi davanti a Dio ti dà la libertà di non inginocchiarti davanti a nessun altro. Questa è la grandezza, questa è la mia Fede. Il mio amore per Cristo, per il cristianesimo deriva da questo. Cioè se tu ti inginocchi davanti a una cosa oggettivamente grande, il resto non è niente. Ma chi sono questi qui? In divisa, i politici, chi sono? Loro per me non sono nessuno. 

Anarcocattolico...

Sono contro il masochismo. “Dobbiamo abbassare il condizionatore”, “Dobbiamo abbassare i termosifoni”... E vaffanculo. Sono affari miei cosa faccio io a casa mia, a casa mia non accetto che qualcuno venga a misurare la temperatura, altrimenti siamo in Cina. Io sono anticomunista, non bevo i Lambruschi delle cantine sociali perché sono Lambruschi comunisti e sono contrario al comunismo cinese, che è il grande faro di tutti i governi del mondo. 

E infatti il Lambrusco che arriva sul tavolo non proviene da una cantina sociale. "No, questo è un grandissimo Lambrusco di Sorbara, della bassa modenese ed è fermentato in bottiglia non in autoclave. È un vino artistico, artigianale, secco, con tutti i lieviti ancora dentro. Il colore è simile allo spritz, ma nello spritz c’è dentro la morte, qui c’è dentro la vita". 

Che piatto è Matteo Salvini?

Oddio, Matteo Salvini mangia male, è la pizza che ti arriva a casa nel cartone, cattiva, non cotta, fredda.   

Giorgia Meloni?

Una gricia, l'amatriciana senza il rosso del pomodoro e con il nero del pepe.

Berlusconi?

Un uomo anni 80 meraviglioso, mi viene in mente il risotto con la foglia d'oro di Gualtiero Marchesi. Cose superate ma insuperabili esteticamente.   

Enrico Letta?

Essendo lui l'avanguardia del politicamente corretto, qualche cosa di senza sapore, senza colore, senza storia, qualcosa di vegano che possa non avere problemi con nessuno. 

Conte. 

Lui è del subappennino dauno, luogo a me noto, ma non mi sembra un uomo che si dedichi molto ai lampascioni, mi sembra più uno da scaloppina al marsala di certi alberghetti romani. 

Tu voti?

Non voto perché è volgare votare. Votano tutti. Non posso accettare che il mio voto valga uno. Non esiste, io valgo tantissimo.   

Chi è la donna che scrive meglio in Italia?

Come giornalista? Non le leggo. Come poetessa Patrizia Valduga è ancora oggi la più grande.

Ami la pittura italiana contemporanea. 

Sono capaci tutti di amare Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio. 

Quindi esiste ancora come arte? 

Le accademie sono piene di giovani. Il problema dell'Italia è l'essere un Paese povero, ignorante e vecchio, quindi per vivere un pittore deve fare i salti mortali. E poi l'Italia è troppo legata a un passato glorioso, quindi il povero pittore italiano, al contrario del pittore nigeriano, ha il problema di confrontarsi con Michelangelo, Caravaggio, Leonardo, Raffaello. Ma tu sei vivo ora e noi siamo vivi ora. Se tu rinunci all’arte contemporanea, rinunci a un pezzo di te stesso nella contemporaneità. Fra tre secoli non ci sarà nulla di noi.

Come li cerchi? 

Instagram è importantissimo.  

Dimmi un nome.

Lui. Si gira, indica un quadro alla parete. Enrico Robusti è un parmigiano, uno dei massimi pittori italiani, non ha fatto l'accademia, totalmente autodidatta, laureato in Giurisprudenza. Racconta la vita padana anche dal punto di vista del cibo, infatti spesso si mangia e si beve nei suoi quadri. È un espressionista, i suoi personaggi sono sempre deformati, perché noi siamo un po' mostruosi.

Abbiamo capito che l’essere umano di base ti fa davvero schifo.

Specialmente quando mangiamo e beviamo, c’è l’avidità, la gola, siamo gobbi, sbaviamo, ci sporchiamo.

Le femministe sono completamente fuori di sé, sono pericolose. Emma Marrone è posseduta dal male

Intanto arriva un altro vino. "Questo è l’eccellente lambrusco Maestri, una specificità del comune di Parma, neanche della provincia, proprio del comune. È un rifermentato in bottiglia. Guardate che vita, che voglia e che colore sembra spremuta di uva". 

Dove trovi ispirazione?

Dalla realtà. Ma l’interpretazione della realtà mi viene sicuramente dalla Bibbia, dalla Fede, dalla religione. Io sono un uomo religioso, soprattutto sono un uomo religioso.

Preghi davvero tutti i giorni?

Sì.

Qual è la preghiera più bella, più poetica, più romantica?

Il Salve Regina: avvocata nostra, vita dulcedo spes, nostra salve, noi esuli figli di Eva in questa valle di lacrime... Mi commuove sempre tanto. 

Rileggi spesso la Bibbia?

Sì, la leggo, la rileggo, la sottolineo. Io ne ho vari volumi, varie copie e sono molto rovinate perché continuo a lavorarci sopra. La Bibbia è la vera letteratura, quella cosa che tu riapri e ci trovi qualcos'altro. Ci saranno dei libri della Bibbia che avrò letto 35 volte. C'è una bella definizione, credo di Gomez Davila, “letteratura è tutto ciò che  ti viene voglia di leggere due volte".

Citami il primo passaggio che ti viene in mente.

Leggo molto l'Ecclesiaste: non c'è nulla di nuovo sotto il sole. Se nulla mi indigna perché nulla mi sorprende forse dipende da questa lettura. È una risposta a quelli che dicono che siamo messi male: siamo messi male ma così come siamo sempre stati. 

Invece le femministe si indignano eccome. 

Sono completamente fuori di sé, sono pericolose. Hanno una visione illiberale. Odiano la libertà. E se dici la più banale delle verità sei un sessista.

Inginocchiarsi davanti a Dio ti dà la libertà di non inginocchiarti davanti a nessun altro. Questa è la grandezza, questa è la mia Fede. Il resto non è niente

Cioè?

Un fatto noto presso i sociologi, che la fecondità cala in rapporto all'istruzione femminile. C'è un rapporto diretto. Ci sono anche altri fattori ma quello è certamente il principale.

Insomma, non ritratti ma ci metti il carico.

È un fatto. È statistica. È demografia. Ci stiamo estinguendo.  

Un nome, un commento. McDonald.

Non l'ho mai mangiato, non ho mai mangiato un kebab e quelle robe maomettiane.

Ddl Zan.

Ma perché stiamo bevendo un vino così buono e dobbiamo scadere in questo modo?  

Lobby LGBTQ. Esiste o no? 

Certo che esiste. Ma non sono uno studioso di queste massonerie.  

Quanto hai in banca?

Bisogna avere almeno 3 milioni di liquidi in movimento, escludendo gli immobili. Il denaro serve per essere liberi perché o si è francescani, ovverossia si fa voto di povertà così puoi essere veramente libero, oppure devi essere ricco, benestante. 

E tu sei lontano o vicino a quella cifra?

Forse neanche lontanissimo, ma i 3 milioni a me non servono per comprare champagne, io non compro champagne. Il mio è un vino che costa abbastanza poco.

Sei favorevole alla riapertura delle case chiuse?

Durante il Papato c'era la prostituzione legale nello Stato della Chiesa. Cioè non è che sia una novità.

E perché la destra e i cattolici spesso sono contrari? 

Non c'è più la morale ma c'è tanto moralismo. Io sono realista, sono un cattolico estremamente realista e quindi sono sempre per il male minore. Sulla legalizzazione delle droghe ad esempio, per me il male minore è la cannabis in tabaccheria. 

Quale personaggio storico ti sarebbe piaciuto essere?

Diceva Baudelaire: volevo essere Papa, ma un Papa militare. Anche lui viveva in un periodo in cui il papato era un po' mollaccione, oggi non ne parliamo. Ci fu invece un periodo in cui i Papa Borgia erano papi che facevano le orge, avevano figli da varie donne ed erano condottieri.

Mi sembra di capire che Papa Francesco non ti stia molto simpatico.

Diciamo che ci sarebbe bisogno di un Papa più cattolico.

A cosa vale la pena brindare?

Al vino. A questo vino. Al lambrusco e a tutti quelli che gli vogliono male. 

Nel corso di questa intervista ti sei definito: scrittore, esteta, misantropo, conservatore, il più grande lambruschista italiano, allopatico, vero uomo autarchico, anticomunista, uomo religioso e cattolico estremamente realista. Alla fine chi sei e cosa sei più di ogni altra cosa? 

Che fastidio autodefinirsi, che fastidio l’Io, meglio Dio. 

·        Carlo De Benedetti.

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 16 marzo 2022.

Il tribunale di Cuneo ha assolto Carlo De Benedetti dall'accusa di diffamazione nei confronti di Matteo Salvini. I fatti oggetto del processo risalgono al maggio 2018. L'editore partecipò a un dibattito tenutosi a Dogliani, nel Cuneese, al Festival della Tv e dei Nuovi Media. 

Commentando la situazione politica del momento, De Benedetti parlò anche del leader leghista definendolo così: «Il peggio. Antisemita e xenofobo», nonché «antieuropeo e finanziato da Putin». Salvini si sentì diffamato da questi giudizi e presentò denuncia. Dopo quasi quattro anni è arrivata la sentenza di assoluzione per De Benedetti.

Il sostituto procuratore Attilio Offman nella sua requisitoria aveva definito le affermazioni dell'editore «un giudizio di valore senza dubbio infamante», e aveva chiesto la condanna dell'imputato a 800 euro di multa. 

Il legale di Salvini Claudia Eccher aveva parlato invece di affermazioni «fuorvianti, e danneggianti, soprattutto perché provenienti da uno dei principali editori italiani» e aveva chiesto un risarcimento del danno di 100mila euro. Di tutt' altro avviso la difesa dell'imputato, rappresentata dagli avvocati Marco Ivaldi e Elisabetta Rubini. Secondo i legali l'oggetto del processo «non era una critica a Salvini come persona, ma come politico» e quindi De Benedetti doveva essere «libero di esercitare quella critica politica a un esponente politico».

Una ricostruzione condivisa dal giudice Emanuela Dufour che ha assolto l'ingegnere perché il fatto non costituisce reato. «Dare dell'antisemita a Salvini è una infamia inaccettabile, come peraltro condiviso anche dal pm, visto che la locuzione ha un significato preciso e non è equivocabile», dichiara il legale di Salvini. 

«La sentenza meriterà, e lo diciamo fin da ora, appello. È una sentenza politica», prosegue l'avvocato Claudia Eccher, «ed è potenzialmente pericolosa: può indurre chiunque ad adottare i medesimi comportamenti emulatori e diffamatori nei confronti di un qualsivoglia esponente politico tenuto conto che un tribunale italiano non ha ritenuto l'episodio grave e diffamatorio».

 Sempre ieri si è venuto a sapere che lo stesso Salvini andrà a processo il prossimo 9 giugno, accusato di diffamazione aggravata nei confronti di Carola Rackete, l'ex comandante della Sea Watch 3, perché, tra giugno e luglio del 2019, avrebbe offeso «la reputazione» della giovane, attraverso dirette Facebook e post su Twitter, con frasi come «quella sbruffoncella di questa comandante che fa politica sulla pelle di qualche decina di migranti», «criminale tedesca», «ricca tedesca fuorilegge», «ricca e viziata comunista».

La Procura di Milano, dopo aver disposto la citazione diretta a giudizio per l'ex ministro dell'Interno, difeso sempre dall'avvocato Eccher, ha da poco notificato la data di inizio del processo, davanti alla quarta sezione penale, nel quale Rackete è parte civile, a seguito della denuncia, rappresentata dall'avvocato Alessandro Gamberini.

Nei mesi scorsi, il gip di Milano Sara Cipolla, accogliendo la richiesta del pm Giancarla Serafini, aveva disposto, invece, l'archiviazione dell'accusa di istigazione a delinquere contestata sempre a Salvini dopo la denuncia della giovane. Non è finita. Perché il capitano è finito anche in un articolo fake, girato sui social, dove inviterebbe a investire su presunti fondi in bitcoin. Una vera e propria truffa rilanciata da profili hackerati. Sulla vicenda lo staff del leader della Lega ha fatto sapere di aver messo al lavoro i propri legali per tutelare l'immagine salviniana.

L'Annuncio termina tra 15s. Se non è reato dire "Salvini antisemita". Vittorio Macioce il 16 Marzo 2022 su Il Giornale.

La dignità di una persona non vale neppure 800 euro. Se ti chiamano antisemita, e non lo sei, non sei stato soltanto diffamato, ma ti disegnano sulla coscienza una meschinità, un marchio infame, che non ti appartiene.  

La dignità di una persona non vale neppure 800 euro. Se ti chiamano antisemita, e non lo sei, non sei stato soltanto diffamato, ma ti disegnano sulla coscienza una meschinità, un marchio infame, che non ti appartiene. Ti deformano. Ti cancellano. Non sei più tu. Non importa chi sei o cosa fai, ma prima di sputare una sentenza del genere dovresti avere una prova inconfutabile, una certezza pressoché assoluta. È qualcosa che va oltre l'insulto. È una condanna pubblica che si basa sul nulla. Se ti danno dell'antisemita e non lo sei chi lo fa ne paga le conseguenze. Questo non vale se chi subisce l'infamia si chiama Matteo Salvini.

La storia è questa. È il maggio 2018. Carlo De Benedetti è ospita del Festival della Tv di Dogliani, nella Langhe, in provincia di Cuneo. Lo intervista Lilli Gruber. Il discorso cade su Salvini e l'imprenditore piemontese non si limita a un giudizio politico, ma è un fiume in piena di livore e disprezzo. Non si ferma e passa il limite. «Salvini? È il peggio. Antisemita, xenofobo e antieuropeo». Non ha dubbi. Non spreca un forse. Non c'è un ragionamento. È l'invettiva di chi sa che in fondo colpire Salvini non è reato. La platea applaude.

Si va in tribunale. L'accusa è diffamazione. Gli avvocati di Salvini chiedono un risarcimento di 100mila euro. Le ingiurie arrivano da uno dei più noti editori italiani. Non è questo comunque il punto. Non sono i soldi. È che si possono dire tante cose di Salvini, ma che sia antisemita davvero no. È uno che è andato al confine con il Libano per manifestare contro Hezbollah e ha più volte denunciato il ritorno dell'odio verso gli ebrei che si respira anche in Europa. La sua politica estera è stata sempre filo israeliana. Non è possibile trovare una sola parola contro gli ebrei. Quella di De Benedetti è un'esplosione di odio, ma non è un buon alibi per non riconoscere la diffamazione. La pena oltretutto è simbolica. Il pubblico ministero chiede un risarcimento di 800 euro.

Il tribunale di Cuneo invece ieri lo ha assolto. Non c'è diffamazione. Non si conoscono ancora le motivazioni della sentenza, ma è stata presa per buona la tesi della difesa. De Benedetti non ha insultato Salvini in quanto uomo, ma come politico. Non c'è nulla di personale. È simbolico. È una critica alla sua politica. È come dire di Draghi che è un anti atlantista, solo che l'infamia è comunque più grave. Non è vero, ma è politica. Solo che la sentenza di Cuneo ha dal punto di vista logico delle conseguenze non da poco. Se definire Salvini antisemita non è diffamante, allora significa che il capo di un partito di maggioranza è antisemita. La Lega è antisemita. Il governo è antisemita. Abbiamo un problema. Ce lo dice un giudice di Cuneo.

Giulio Gambino per “TPI - The Post Internazionale” il 28 aprile 2022.

Il 24 febbraio 2022, con l’invasione dell’Ucraina, e iniziato un nuovo secolo. Cosa succede ora?

«La prima conseguenza e la de-globalizzazione. Abbiamo vissuto gli ultimi 25-30 anni in qualche modo “ubriacati” dalla globalizzazione, di cui hanno beneficiato i Paesi consumatori, ma soprattutto quelli esportatori. 

Abbiamo visto il boom della Cina, della Corea del Sud, del Vietnam come conseguenza del fatto che le imprese dell’Occidente inseguivano solamente una strategia di breve termine, cioè i costi. 

Si delocalizzava in Vietnam non avendo in mente alcuna idea strategica, se non quella di quanto si potesse risparmiare sui componenti della catena del valore. Ecco, noi siamo entrati in una fase di de-globalizzazione perchè la prima pulsione a cui assistiamo e nazionalistica». 

Quanto male farà?

«In Europa mascheriamo questa pulsione dietro l’unita comunitaria del Vecchio continente ma in realtà ogni nazione bada principalmente ai propri problemi, anche in relazione alle conseguenze della guerra in Ucraina. Pero e certamente una svolta clamorosa, si apre proprio una nuova epoca». 

La de-globalizzazione porterà anche alla fine dell’egemonia Usa sul mondo?

«Sul piano geopolitico e chiaro che esiste un dibattito tra chi non riconosce la democrazia come adatta a governare i tempi che viviamo e chi invece crede nella democrazia. Nel ricercare le cause e le colpe di questa condizione, il comportamento imperialista degli Stati Uniti negli ultimi 50 anni ha avuto un suo ruolo, con guerre sconsiderate come l’Iraq, o di impulso, come l’Afghanistan, che hanno determinato un rifiuto sicuro verso un’unica potenza che ti diceva cosa potevi e cosa non potevi fare.

Il che ha innescato a sua volta il dibattito sulla democrazia come l’abbiamo conosciuta e amata. Per cui oggi l’alleanza Cina-Russia riguarda due Paesi che, al di là della guerra in Ucraina, non condividono il futuro della democrazia». 

A questo, quindi, si riduce la guerra in Ucraina: una sfida globale tra chi e a favore della democrazia e chi invece preferisce i regimi autoritari?

«Si tratta dell’evento, in termini geopolitici, più rilevante di quello che stiamo vivendo e vivremo. Le offro un esempio plastico della caduta della leadership americana nei confronti del resto del mondo: quando Biden e stato eletto presidente, Mohammed bin Salman non gli ha telefonato, e questo e stato considerato dalla Casa Bianca un incredibile sgarbo. 

Successivamente, Biden ha chiamato il sovrano dell’Arabia Saudita, che è il più grande sgarbo che si può fare a bin Salman. E il messaggio tra le righe era: “Ci parliamo tra chi comanda”. Sembra quasi un episodio tra zitelle dispettose, ma ci sono delle conseguenze. 

Quando Biden ha chiamato bin Salman, lui non ha più preso il telefono. Ma soprattutto, ha accettato di vendere il petrolio alla Cina in renminbi: per la prima volta da quando esiste, il petrolio non viene trattato in dollari. Il popolo forse non lo capisce neppure, ma e una cosa storica».

Questa guerra ha già trasformato l’economia globale in un’economia di guerra...

«Stiamo già vivendo due fenomeni. Il primo e la spirale vorticosa dei prezzi dei fertilizzanti nel mondo: negli ultimi due mesi sono aumentati del 50-60 per cento. Questo perchè l’Ucraina, la Bielorussia e la Russia costituiscono forse il 70 per cento della produzione di fertilizzante nel mondo. 

Ci sono Paesi, come il Brasile, che non sono in grado di fertilizzare i propri campi e che potrebbero a breve termine andare incontro a una carestia. Il secondo tema e quello del grano, di cui l’Ucraina e un grande produttore a livello mondiale.

La semina avviene tra marzo e aprile, e quest’anno non si potrà seminare, sia perchè i campi sono percorsi dai carri armati, sia perchè gli uomini sono impegnati in guerra. In Egitto, il più grande Paese importatore di grano al mondo, sono molto preoccupati perchè non sapranno cosa dare da mangiare a decine di milioni di egiziani. E insieme all’Egitto anche altri Paesi si trovano in questa situazione». 

C’è mai stato nella storia recente un periodo così drammaticamente di svolta?

«Io credo di no. Ho vissuto la seconda guerra mondiale, che per me e un ricordo indelebile nella memoria, nel mio modo di pensare, nelle mie aspirazioni, nelle mie priorità. E’ evidente che, anche dal punto di vista emotivo, fa effetto rivedere i bombardamenti, che ho subito nel novembre del 1942 da parte dei cacciabombardieri inglesi a Torino, e vedere la gente sfollata.

Quella e stata l’esperienza più importante che ho vissuto e che ha coinvolto non solo me, direi quasi l’intera umanità. Ma noi in questo momento stiamo assistendo alla decadenza e alla ritirata degli Stati Uniti. Che e un fatto drammaticamente epocale». 

Ed e per questo che nel conflitto in Ucraina che ridisegnerà gli equilibri mondiali gli Usa, forse più di tutti gli altri Paesi coinvolti, hanno moltissimo da perdere?

«In questa specifica occasione dell’Ucraina, noi vediamo gli Usa fare una guerra che non li tocca per nulla, ed e una guerra quasi fatta per procura. Chiaramente l’America sta traendo solo dei benefici da questa guerra.

Pensa di indebolire Putin – cosa molto discutibile – carica tutto il peso migratorio (e i costi relativi) sull’Europa, vende a noi il gas liquido con un enorme guadagno – un grande affare a cui noi non possiamo rinunciare per ovvi motivi, ma che noi certamente andiamo a pagare caro.

E poi, soprattutto, c’è un fatto rivoluzionario: gli Stati Uniti hanno perso il Medio Oriente. La contropartita che la Cina da' all’Arabia Saudita per il petrolio che compra in renmimbi e la garanzia di tenere un occhio sull’Iran».

Quindi?

«La conseguenza principale e che i vuoti si riempiono: basti pensare a come Pechino ha conquistato la parte orientale dell’Africa: senza arroganza. I cinesi hanno per loro natura un approccio che non è imperialista. Deriva dalla priorità del commercio. E poi la Cina ha sempre sostenuto – e devo dire mantenuto – l’impegno a non invadere Paesi con la loro storia e la loro indipendenza».

Il realismo che prevale sull’idealismo occidentale...

«Noi siamo figli del colonialismo, come Europa non ci salviamo. Prendiamo il caso dell’approccio all’Africa. L’America si e tenuta fuori, ma l’Europa ha avuto un approccio di stampo colonialista, mentre la Cina ha avuto un approccio utilitaristico e commerciale, dando anche molto. 

Faccio un esempio: la Cina ha il controllo di alcuni giacimenti in Mozambico, ha realizzato una ferrovia di 2mila chilometri nel Paese, che unisce la costa alla Capitale. Questa ferrovia e stata realizzata in tempi record dai detenuti nelle carceri cinesi. A costo zero, con velocita, e soprattutto riconoscenza da parte del Mozambico».

Questo vuol dire anche che il nostro modello politico, la liberal-democrazia, va riconsiderata?

«Questo e quello che sostengono nei loro scritti, nei loro discorsi e proclami sia Xi, che forse è il più grande leader al mondo, sia Putin. Io constato che una delle conseguenze macro-politiche della guerra e che si schierano da una parte i Paesi che considerano la democrazia un sistema di governo obsoleto, e dall’altra quelli che pensano che l’unico modo di gestire grandi masse e rapporti geopolitici siano gli autoritarismi.

Questi hanno anche una loro giustificazione che chiamerei quasi tecnica: la velocità. Il mondo ha preso velocita in tutto, favorita dall’informatica, dal web, dall’elettronica, insomma dal 2.0. E questa velocita di eventi mette in crisi la democrazia, perchè essa richiede dei tempi: le proposte devono essere porta- te e discusse in Parlamento, trasformate in legge e poi applicate».

Dunque democrazia e progresso tecnologico non vanno a braccetto?

«Be il processo stesso dei funzionamenti di una democrazia e inevitabilmente e saggiamente lungo, che era l’ideale in società a velocita ridotta, come quelle in cui abbiamo vissuto nell’Ottocento e nel Novecento, o a velocita limitatissima, come all’epoca della Rivoluzione Francese.

Adesso sia la popolazione sia la competizione tra Stati richiede una velocita tra un’idea e la sua realizzazione che certamente trova la democrazia più lenta. Sia chiaro, con questo non intendo dire che sostengo l’autocrazia al posto della democrazia, pero e un dato di fatto. 

Noi Occidente abbiamo fatto dei passi colossali, impensabili, verso la modernizzazione delle nostre società, verso la diminuzione – e quasi l’annullamento – dello sforzo fisico dei lavoratori, nella qualità della vita in termini molto materiali. Siamo stati bravissimi. Ma a ciò e corrisposto sul piano politico una oppressione del mondo».

Dovremo rivedere il modo in cui applichiamo la democrazia?

«La scienza non può essere fermata. La velocita di trasformazione della scienza in tecnologia, e della tecnologia in riduzione del tempo, e una conquista dell’umanità, non un handicap. Il problema e che bisogna – e credo che questo non sia ancora stato fatto e non ho idea di quando e come potrà essere fatto – adattare i nostri sistemi politici ai progressi che la scienza ha portato nella nostra vita». 

Quindi si può dire che la democrazia così com’e, constatato tutto quello cui siamo di fronte, non basta più?

«Si, ha dei seri problemi».

A lei pare normale che sulla guerra in Ucraina il dibattito italiano venga iper-semplificato e che chiunque abbia qualcosa da obiettare venga immediatamente tacciato come filo-putiniano?

«E' la destra a farlo. Noi siamo il Paese che ha avuto la massima quantità e qualità di artigiani diventati artisti. Raffaello, Michelangelo, Leonardo, erano artigiani sublimi. Noi siamo quella cosa li. 

Poi c’era chi gli commissionava di fare quelle opere e chi le guardava. Non voglio ridurre questo a una sintesi dell’Italia, ma questa e la nostra origine e il nostro Dna. Siamo stati internazionalisti l’ultima volta con i romani. 

Abbiamo conquistato il mondo che allora si conosceva. Confrontando la cartina del mondo all’epoca conosciuto e quella dell’Impero romano, si nota che quello era il più grande impero relativamente riconosciuto che sia mai esistito. 

E poi ci siamo persi nel nostro caratteristico individualismo, nella nostra soggezione al dominio straniero. Siamo stati succubi, abbiamo accettato la supremazia politica e sociale del regno austro-ungarico – per saltare a tempi molto più recenti – non avendo altro da imparare da loro se non la disciplina. Ma siccome noi la disciplina la rifiutiamo, non l’abbiamo neanche imparata. Siamo un Paese fondamentalmente provinciale».

E oggi?

«Oggi abbiamo un presidente del Consiglio che e l’esempio di quello che l’Italia non è: una persona straordinaria, che ha fatto un percorso professionale straordinario, e che e stato esposto anche a decisioni straordinarie nella gestione di ciò che gli e stato affidato. 

E, infatti, a questo Parlamento non e passato neanche per la testa di mandarlo al Quirinale. E questo è, se lei vuole, un dettaglio ma e la dimostrazione che noi rifiutiamo le eccellenze, perchè queste ci dimostrano la nostra ignoranza. Il nostro e un Paese che non vuole essere fiero di sè, lo e in modo molto provinciale».

Ritiene che la guerra in Ucraina sia stata un pretesto per riarmare l’intero continente europeo?

«Secondo me cosi come è stato programmato, cioè che le nazioni singolarmente si riarmino, e molto discutibile. Personalmente sono contrario. Mentre sarei molto favorevole a una semplificazione e unificazione delle nostre forze di Difesa e – perchè no – anche di controllo del nostro territorio, attraverso quello che chiamiamo esercito europeo. Questo significa prima di tutto unificazione delle tecnologie.

Abbiamo quattro tipi di carri armati in Europa, potremmo investire molto meno se investissimo in maniera razionale. Un’unica forza europea vuol dire minori costi, ma non abbiamo sistemi d’arma compatibili, non è solo una mancanza di volontà politica». 

Questo e il simbolo del fallimento dell’Europa?

«L’Europa si può guardare da molti punti di vista. Il progetto finanziario dell’Europa ha funzionato, come anche il progetto di europeizzazione delle nazioni, in termini di movimento di persone e di merci. Quando ero giovane comprare una macchina tedesca era una novità, invece io stesso ho comprato ultimamente un’auto coreana.

Abbiamo per fortuna perso delle caratteristiche provinciali, nazionaliste, e abbiamo acquisito una certa mentalità per cui dei discorsi che oggi si fanno in chiave europea sarebbe stato impossibile immaginarli 50 anni fa. Quindi su questo l’Europa e avanzata fortemente. 

Il punto chiave e sempre il potere: abbiamo creato dei nuovi poteri, ma non sostitutivi di quelli che esistevano. La presidente della Commissione europea e il presidente del Consiglio europeo sono delle autorità, ma non e che i presidenti del Consiglio dei singoli Paesi abbiano mollato un centimetro dei loro poteri. Per cui e una sovrapposizione.

Se fossimo in America si direbbe che abbiamo steso un layer europeo sopra l’Europa, ma sotto ci sono le nazioni». 

Nato si o Nato no?

«La Nato e stata istituita durante la guerra fredda e aveva una ragione validissima di nascere. Oggi penso che l’alleanza atlantica dovrebbe essere sostituita dall’esercito europeo. 

La Nato non dovrebbe includere gli Stati Uniti, perchè questo e un retaggio della Seconda Guerra Mondiale e della guerra fredda. Per quale motivo gli Stati Uniti devono comandare sulle decisioni dell’unica arma comune che abbiamo con molti Paesi europei, cioè la Nato? Mi sembra che faccia parte del passato». 

Le Big tech oggi hanno accumulato troppo potere?

 «Certamente sono state lasciate crescere al punto che non potevano più essere controllate, e un dato di fatto. Ci sono degli aspetti per cui è un bene. Amazon ha creato probabilmente più posti di lavoro nel mondo di quanti ne abbia distrutti. Ha ridotto il prezzo al consumatore di quasi tutto». 

Non ha anche ucciso le piccole imprese?

«Il problema è vedere se le piccole imprese che sono morte erano un patrimonio dell’umanità o se invece erano un costo per l’umanità. C’è anche molto silenzio sul fatto che Amazon da molto lavoro alle piccole imprese. 

Poi lei mi potrà dire che il padrone e sempre padrone del cliente, e il padrone del cliente e Amazon, e non la piccola impresa. Pero li ha fatti lavorare». 

Io, nelle Big Tech, ci vedo quasi unicamente un problema di monopolio.

«In questo ha ragione, ma tenga presente che erano cose in qualche modo mutuabili. Alibaba era esattamente l’Amazon cinese. 

L’Europa, per esempio, che è stata forte negli anni Settanta e Ottanta per la grande distribuzione, avrebbe avuto la possibilità di creare, come hanno fatto i cinesi, l’Alibaba. Non l’abbiamo fatto, punto». 

Oggi lavoriamo troppo secondo lei?

«Vedo i giovani privilegiare il tempo libero piuttosto che il tempo occupato». 

Fanno bene?

«Secondo me sì. Dico una banalità: la vita e una sola, viverla totalmente immersi in un’unica ossessione, cioè il lavoro, e limitativo. Potremmo avere imparato altre cose se avessimo avuto più tempo, interesse, voglia, forse anche un po’ più di benessere. Perchè il tempo libero è una cosa per la quale bisogna anche stare economicamente bene».

Lei si è mai pentito di aver lavorato troppo?

«Ognuno ha vissuto la vita che le circostanze, le caratteristiche e la famiglia lo hanno portato ad avere. Io non ho nessun rimpianto. Ovviamente ho rimpianti di singole cose, ma si riferiscono sempre molto a fatti di lavoro, tanta è la mia ossessione del lavoro». 

Un esempio che le ha lasciato l’amaro in bocca?

«Sicuramente le decisioni di Roberto Colaninno di comprare Telecom anzichè sviluppare Omnitel».

Cosa pensa della vendita de L’Espresso?

«Il mio pensiero lo conoscete tutti. Non c’è bisogno che io lo esprima. E chiaro che e associato a un grande dispiacere, legato alla storia del nostro Paese del dopoguerra. L’Espresso ha raccontato l’Italia repubblicana, quindi e un grande patrimonio del Paese. 

L’ha raccontato con colori vivaci, talvolta anche un po’ urticanti, pero se uno guardasse l’archivio dell’Espresso ci troverebbe la storia degli ultimi 70 anni».

Ritiene che oggi il rapporto tra media e potere sia malato?

«Sul fatto che oggi non esistano, o esistano rari esempi di stampa libera, mi pare evidente, non lo metterei neanche in discussione. Forse il gruppo editoriale più indipendente è quello tedesco di Axel Springer. 

Vedo che in Francia si sta creando una concentrazione intorno a Bollorè. Credo che la nascita di iniziative come la sua – lei e stato un antesignano in questo – e come Domani, siano delle mosche bianche, diciamoci la verità».

Bene, e grazie, ma quindi?

«Quindi diamoci dentro, facciamo tutto il possibile per far sì che volino». 

Chiaro, ma da editore con grande esperienza non ritiene che oggi nella società che viviamo esista un serio problema di rapporto tra media e affari?

«Per me c’è, bisognerebbe che non fosse consentito di fare l’editore a chi ha dei prevalenti interessi economici in altri settori. E tutto lì». 

In passato, quando era editore del gruppo Espresso, lei aveva anche altri interessi al di fuori dell’informazione.

«Io sono stato un editore con prevalenti interessi in altri campi, non c’è dubbio. La mia è stata una scelta individuale: quella di rispettare il giornale. Infatti questo viene riconosciuto da quelli che hanno lavorato in quel giornale. Ma sulla carta la collusione c’era».

Lei sente qualche responsabilità personale per quanto accaduto all’Espresso? «Assolutamente no». 

Rizzo, Rampini e molti altri sono stati allontanati da Gedi dall’oggi al domani

«Rampini non avrebbe mai lasciato Repubblica, se fossi stato io il presidente. Non ci avrebbe neanche pensato...». 

E Rizzo?

«Non lo so, non lo conosco». 

·        Cecilia Sala.

Chi è Cecilia Sala: giornalista e reporter di guerra. Da newsmondo.it il 21 aprile 2022.

Cecilia Sala è la giovanissima giornalista italiana inviata di guerra, che si trova in territorio ucraino da dove racconta il conflitto con la Russia.

Sulla scia di Oriana Fallaci e Christian Amanpoor, ancora giovanissima Cecilia Sala è sul fronte di guerra in più occasioni. Da studentessa di economia si specializza in politica estera e diventa giornalista e reporter inviata. Noto volto televisivo appare spesso sugli schermi di La7 e in collegamento con Radio Deejay, ma è particolarmente conosciuta per la sua capacità di fare quel “nuovo giornalismo”, che spazia dai social media, ai podcast, alla televisione.

Cecilia Sala: la biografia

Cecilia Sala, romana di nascita e nomade per lavoro, nasce a Roma in un caldo giorno estivo, il 26 Luglio del 1995. Studia al liceo Scientifico Cavour di Roma e fin da ragazzina lavora ad un progetto editoriale aprendo un blog personale chiamato cogito ergo sum Leone. Ha lavorato ad un progetto sul sistema culturale mafioso con Baba’s Mood. Tra il 2014 e il 2018 studia Economia Internazionale alla Bocconi di Milano.

Cecilia Sala: carriera professionale

Già durante il percorso universitario Cecilia Sala inizia a collaborare come inviata e reporter per Vice Italia e nel 2016 lavora al fianco di Michele Santoro a Servizio Pubblico su La7. Negli anni aumenta le sue collaborazioni giornalistiche facendosi conoscere nell’ambiente, realizza reportage e si specializza in politica estera muovendosi tra l’America Latina e il Medio Oriente. Inizia a scrivere per Wired, Vanity Fair e l‘Espresso.

Cecilia Sala in diretta da Kiev:

Dal 2019, occupandosi sempre di esteri, inizia a scrivere per Il Foglio, per cui lavora tutt’ora e collabora con Will Media. Per circa un anno e mezzo lavora anche nella redazione di Otto e Mezzo, il programma di Lilli Gruber su La7.

è stata inviata sul campo in Afghanistan allo scoppiare della crisi tra agosto e settembre 2021 e ha raccontato il lavoro svolto sia tramite i social che con reportage di campo. Nel 2022 si trova in Ucraina e giorno per giorno racconta le voci dal campo e la situazione del conflitto russo-ucraino.

Altri progetti

A settembre 2020 crea un podcast che esce sull’Huffington Post Italia chiamato Polvere, prodotto insieme a Chiara Lalli. Sono 8 puntate di inchiesta sull’omicidio di Marta Russo e diventa uno dei podcast più ascoltati in pochissimo tempo. Qualche mese dopo il caso diventa anche un libro, Polvere. Il Caso Marta Russo, edito da Mondadori.

Sempre nel 2021 nasce Fuori dalla bolla, una rassegna stampa live che crea insieme a Guido Canali, diffusa su Twitter.

A partire da gennaio 2022 lancia un podcast su spotify chiamato Stories, prodotto da Chora Media, in cui racconta una storia dal mondo ogni giorno. Si tratta di brevi racconti di circa dici minuti in cui Cecilia Sala racconta storie di vita che incontra sul campo.

Cecilia Sala: vita privata e social media

Sulla vita privata di Cecilia Sala non si conosce molto, nonostante il suo essere molto attiva sui social media, sembra molto riservata evitando di pubblicare contenuti personali. I suoi spazi social sono colmi delle sue attività professionali e li utilizza principalmente per lavoro. Molto attiva su Instagram dove tramite le IgStories pubblica costantemente aggiornamenti dal campo, su Twitter e meno su Facebook dove però è presente. Inoltre, il suo profilo LinkedIn è ricco di informazioni sul suo percorso professionale.

Curiosità su Cecilia Sala

In un’intervista su Giornalisti al microfono, Cecilia Sala svela i suoi libri preferiti, quelli che hanno ispirato il suo lavoro giornalistico che sono: “lo scandalo del secolo. Scritti giornalistici 1950-1984 di Gabriel García Márquez”; L’inviato speciale di Evelyn Waugh; Niente e così sia e Gli antipatici di Oriana Fallaci.

·        Cesara Buonamici.

Cesara Buonamici sposa in estate: «Ho sentito l’affetto di tutti gli amici e del Tg5». Maria Volpe su Il Corriere del Giorno il 7 Maggio 2022.

La giornalista sposerà il suo storico fidanzato Joshua Kalman di religione ebraica: «Sono felice che lui abbia acconsentito ad avere la benedizione del mio sacerdote. 

«Non immaginavo che la notizia del mio matrimonio colpisse così tanto l’opinione pubblica. Io l’ho tenuta riservata, non volevo tanto rumore, ma le tante dimostrazioni di affetto mi hanno fatto davvero piacere. Sono stata sommersa di messaggi e non l’avevo messo in conto». Cesara Buonamici, classe’57, volto amato, conduttrice storica e ora anche vicedirettrice del Tg5, in estate sposerà il suo storico fidanzato, il medico israeliano Joshua Kalman, 71 anni.

Cesara dopo 24 anni di fidanzamento vi direte sì.

«Io e Joshua stiamo insieme dal 14 settembre 1997 e in questi lunghi anni ci abbiamo pensato più volte ma poi il matrimonio non si è mai celebrato. In fondo, non avevamo necessità, anche perché non avendo figli, non c’erano motivi reali. Qualche volta abbiamo pensato di organizzare il matrimonio presso l’ambasciata italiana in Israele, oppure durante qualche viaggio all’estero. E invece dopo tanto girovagare ci sposeremo a Fiesole, il mio paese natìo, dove ho le mie radici».

E’ scattato un bisogno di ufficializzare l’unione?

«Non so esattamente. So che un giorno ci siamo detti, “Perché no?”. Non c’è stato dibattito o approfondimento, l’idea ci è piaciuta all’unisono, come un riconoscimento per noi stessi. Credo sia un bel gesto reciproco e ci ha fatto piacere che tutti gli amici abbiano accolto la notizia con tanto affetto. Sono commossa dalla reazione del mio direttore, Clemente Mimun, di tutti i miei colleghi di oggi e di tanti anni fa, come Enrico Mentana e Cristina Parodi».

Non cambierà nulla nella vostra vita di tutti giorni, immagino

«Non cambierà assolutamente nulla nelle nostre vite. Però sarà bello condividere la nostra unione con le persone che amiamo».

Lei è cattolica osservante, il suo futuro marito è di religione ebraica. Come avete vissuto questa realtà?

«Tra noi c’è sempre stato tanto rispetto, per noi le diverse religioni sono state motivo di arricchimento. Andiamo spesso in Israele dove c’è suo fratello e le sue radici .Nei nostri anni di convivenza abbiamo vissuto insieme tutte le feste: il Natale e la Festa delle Luci, la nostra Pasqua e quella ebraica. Ci vogliamo bene anche in questo».

E per il matrimonio cosa avete deciso di fare?

«Ci sposiamo con rito civile nella mia Fiesole. Poi io desideravo molto avere una benedizione dal mio sacerdote e Joshua si è detto d’accordo. Il suo gesto mi ha riempito di gioia. E’ un segno di grande rispetto e di grande amore. Lui sapeva che per me era davvero importante e ha acconsentito alla benedizione. Sarà perchè - dice ridendo - io sono una donna di grandi qualità, affettuosa, pacifica, conciliante..».

Cosa la affascina della cultura israeliana?

«La forza e l’energia di un popolo molto giovane e interessante, composto dalla mescolanza di tante nazionalità».

Dove vi siete conosciuti?

«Ci siamo conosciuti a un matrimonio di una ma collega, a Roma. Cosa mi ha colpito di lui? Era attraente, affascinante. Mi ha colpito il suo modo di parlare, il fatto che non è mai scontato, mai banale. Joshua è una persona molto interessante, di origine ungherese. La sua famiglia è scampata all’Olocausto e i suoi genitori si sono ritrovati soli con Joshua piccolino e hanno dovuto lasciare l’Ungheria e scappare in Israele e reinventarsi una vita lì. Coraggiosi e forti. Lui è proprio un cittadino del mondo che mi ha conquistato per questo, mi ha aperto una nuova visione del mondo. Perchè io sono invece sono una formica legata al mio mondo d’orogine, legatissima alla Toscana».

E lui da cosa è rimasto affascinato?

«Credo che siamo due diversi che si sono trovati».

Una passione che vi unisce?

«In assoluto quella dei viaggi. Tanti momenti indimenticabili: Yemen, Libia, Cina, Birmania, India volte, Kenia, Tanzania. Ci ha fermato il covid ma ora speriamo di ripatire».

Non avere figli. E’ stata una scelta?

«No, non è stata una scelta. Ma abbiamo metabolizzato anche questo».

Lei è proprio una fedele, una stanziale. A gennaio ha festeggiato 30 anni al Tg5

«E’ vero. Negli anni ho avuto offerte dal mondo Rai e dalla vecchia La7, ma io sono sempre stata fedele, non ho mai avuto dubbi, perché io con Mediaset mi sono sempre trovata benissimo. Il senso di libertà che si respira a Mediaset non credo ci sia ovunque, almeno stando al racconto di alcuni colleghi della Rai. La Rai è una grande azienda, ma in alcuni momenti non deve essere facile. Io sono molto felice e molto grata a Mediaset fin dal giorno in cui Fedele Confalonieri mi scelse per entrare nell’allora Fininvest. E poi ho avuto la grande fortuna di avere grandi direttori: Arrigo Levi, Enrico Mentana, Carlo Rossella, Clemente Mimun».

Racconti i suoi colleghi storici e oggi amici, con i quali avete condiviso la nascita del Tg5 nel ‘92. Cominciamo con Mentana

«E’ un vulcano. Ricordo che quando non era contento della scaletta e riaggiornava la riunione eravamo tutti terrorizzati. Ci ha dato molto, ma ci ha terrorizzato. Ho un bellissimo ricordo dello scoop in occasione del referendum del 18 aprile 1999 (sull’abolizione della quota proporzionale nelle elezioni della Camera dei deputati), quando a tarda notte ho interrotto Mentana in studio, annunciando il mancato raggiungimento del quorum, dato per scontato. Ricordo che lui mi chiese: “Sei sicura,sicura Cesara?”».

Cristina Parodi?

«L’amica di sempre, anche quando allora c’erano voci di rivalità tra noi due. Nulla di più falso. Noi ci siamo sempre aiutate, sempre volute bene, io sono stata la sua testimone di nozze. Non ci siamo mai perse. Ora lei è felice con la sua linea di moda, Crida, fa cose bellissime e non ha ripianti. Ed io sono felice per la sua nuova avventura. Certo la nostra galoppata al Tg5 è stata meravigliosa».

Clemente Mimun?

«Mimun è famiglia. E’ un grande direttore, uno che ha un entusiasmo e una curiosità da ragazzo , si occupa di tutto».

Lamberto Sposini?

«E’ il dolore di tutti noi, è la ferita. Ci è caro a tutti , abbiamo sempre sue notizie. E’ con noi nel cuore».

Lei ormai da anni è il volto rassicurante del telegiornale della sera. E’ vissuta come una di famiglia, c’è stima e affetto verso di lei. Lo percepisce?

«E’ importante non fare di noi stessi la notizia e rendere un servizio al telespettatore. Ci vuole chiarezza, senza avere un linguaggio povero. Credo che la gente questo lo capisca e mi voglia bene per questo».

I talk show di oggi hanno toni sempre più alti. Che ne pensa?

«C’è di tutto e c’è posto e spazio per tutti. Ognuno sceglie quello che vuole. Certo non è la mia cifra».

·        Claudio Cerasa.

Concetto Vecchio per “il Venerdì di Repubblica” il 30 Agosto 2022.

Dalla sua scrivania Claudio Cerasa, 40 anni, direttore del Foglio, può osservare le bottiglie di vino rosso allineate nella libreria di fronte. Il corriere gli ha appena portato un gioco comprato per il figlio su Amazon, Among Us. «Si svolge su un'astronave e consiste nel riconoscere gli impostori senza pietà. È perfetto per capire il futuro della destra italiana: senza riconoscere gli impostori della libertà, il Paese rischia di finire male». Le catene della destra, Rizzoli, è il titolo del suo nuovo libro. Un'inchiesta su un mondo destinato a governare l'Italia. 

Che cosa ha capito?

«Che non è il fascismo il vero pericolo, ma il complottismo. Lo strizzare l'occhio ai no Vax e ai no Euro, strillare che le ong sono pagate da Soros. Vedere dittature ovunque. Il complottismo è questo: difendere non la libertà in assoluto, ma la libertà di essere estremisti». 

La destra è estremista?

«Nella gestione della pandemia la destra sovranista è stata parte del problema, più che parte delle soluzioni. Ma è estremista anche sul resto».

Cioè?

«È estremista e complottista in economia. Ha il terrore della concorrenza, non riesce ad accettare la competizione del mercato. Ed è garantista soltanto a parole. Se tocchi le carceri riemerge la logica dello scalpo, sintetizzabile nella frase "bisogna buttare via la chiave"». 

Vi coglie una doppiezza?

«Le parole d'ordine dei suprematisti bianchi le ritrovi nei testi della destra estremista. Se un islamico fa una strage saltano su, si interrogano su quali sono le radici di quel gesto; se una strage la compie un suprematista bianco la destra lo derubrica a pazzo. E poi non hanno mai condannato con parole chiare e definitive l'assalto a Capitol Hill. Il trumpismo non rinnegato della destra mi pare più pericoloso del fascismo rinnegato». 

In Italia la destra non si è messa la cipria?

 «Lo ha fatto. Ma in Europa e nel mondo coltiva relazioni con i soliti: Orbán e Le Pen per Salvini, Vox e Trump per Meloni. Sono atlantisti, ma non europeisti».

Giorgia Meloni si è fatta più cauta?

«Ancora nel 2016 diceva che tra Putin e Renzi fosse preferibile il primo». 

Putin oggi è l'amico di cui vergognarsi?

«Era l'algoritmo per scardinare l'europeismo e porre le basi per la distruzione della democrazia liberale: il putinismo della destra è stato questo, una triangolazione tra un dittatore e i suoi utili idioti». 

Perché scrive che i populisti sono i peggiori nemici dei giovani?

«La destra non si fa scrupoli nell'aumentare il debito pubblico, l'attenzione principale è rivolta ai pensionati, le proposte più importanti della destra sono figlie di quota 100. Dopodiché i giovani si sono vaccinati più di tutti». 

Come lo spiega?

 «Hanno capito da tempo che la politica ha un impatto sulle loro vite. E forse hanno iniziato a capire che i populisti non fanno né l'interesse del popolo né quello dei giovani». 

Rino Formica dice che rischiamo di finire come in Ungheria.

«Vedo che Giorgia Meloni non si fa più vedere in giro con Orbán, Salvini sì. Lei in Europa sta con i conservatori polacchi, che vedono gli ungheresi come fumo negli occhi per la loro contiguità a Putin. Però sui diritti siamo sempre lì: Meloni la pensa come il premier ungherese». 

Che farà Meloni una volta a palazzo Chigi?

«Potrà gestire il potere e dare un contentino al suo mondo. Oppure diventare la Tsipras di destra». 

Cos' è più probabile?

«La seconda. Meloni non è una marziana a Roma. Tutti la conoscono nei palazzi del potere, la chiamano per nome, Giorgia. E il suo essere romana non è più un tratto di debolezza. È un punto di forza. È un argine all'estremismo degli stessi barbari che si trovano nella sua coalizione». 

Letta come lo vede?

«Ha le doti del cacciavite, però non gli occhi del vincitore. Più occhi del cuore, modello Boris, che occhi di tigre. Gli manca la cazzimma». 

Quando è diventato direttore scrisse: "Il mio Foglio tiferà sempre per Renzi e Berlusconi. La coppia più bella del mondo". Lo pensa ancora?

«All'epoca ne ero convinto. Non era un inciucio, ma un compromesso. Una caratteristica che è diventata il filo conduttore necessario nell'Italia di questi anni. L'Italia è così: compromesso contro l'estremismo. Meglio il primo che il secondo, no?». 

Quando ha scritto il primo pezzo?

«A 14 anni. Per il giornale della Provincia di Palermo. Un articolo su un paesino dove andavo d'estate con i miei genitori, Chiusa Sclafani. Lo buttai giù con la macchina da scrivere. Venne titolato così: "Un paese dove si piantano patate e crescono musicisti"». 

Quando è entrato in un giornale?

«All'Università realizzai Comuniversity, un magazine patinato totalmente autofinanziato. A vent' anni collaborai con Radio Capital e La Gazzetta dello sport. Per la rosea mi occupavo, per le pagine romane, delle primavere di Roma e Lazio, seguivo il calcio a 5, il nuoto, il canottaggio». 

Il primo scoop?

«Un giorno, prima di un Roma-Lazio, scovai Roberto Mancini, all'epoca allenatore dei biancocelesti, che giocava al calciotto al circolo Due Ponti. Lo rincorsi, gli feci delle domande sulle formazioni, incredibilmente mi rispose. Il pezzo finì in prima pagina». 

Com' è arrivato al Foglio?

«Grazie a Giuseppe Sottile che mi offrì uno stage nel 2005. La Gazzetta era lì lì per assumermi, ma io non me la sentivo di fare solo il giornalista sportivo per tutta la vita». 

Che mito professionale aveva?

«Vittorio Zucconi. Ritagliavo i suoi pezzi, li studiavo e li riscrivevo». 

E perché è diventato giornalista?

«Mio padre, Giuseppe Cerasa, è stato caporedattore a Repubblica. Da bambino mi portava alle sue riunioni di redazione. Mi mettevo in un angolino e prendevo appunti. Ho respirato giornalismo da sempre». 

Che educazione ha avuto per diventare direttore del Foglio a 32 anni?

«Più che un'educazione, ho avuto un grande direttore come Giuliano Ferrara. Un privilegio unico». 

Che doti deve avere un direttore?

 «Essere appassionato. Fare un passo sopra la superficie delle notizie. Indicare una direzione. Dare il buon esempio. Non aver paura delle proprie idee. Investire sulle ossessioni dei colleghi. Sperimentare. E trattare il suo giornale come se fosse parte della sua famiglia». 

A un giovane che vuol fare il giornalista cosa consiglia?

«Di essere curioso. Senza curiosità, per i giornali, non esiste futuro».

Claudio Cerasa: «Il populismo rischia di incatenare la destra italiana». Esce oggi il saggio del direttore del «Foglio», «Le catene della destra». Michele De Feudis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Agosto 2022.

«Le catene della destra» (editore Rizzoli, pp. 304, euro 18) è il nuovo libro di Claudio Cerasa. Il saggio-inchiesta del direttore del “Foglio” è da oggi in libreria. Un testo sulla destra italiana di cui il giornalista parla in questa intervista alla “Gazzetta”. A poche settimane dal voto il nuovo saggio di Claudio Cerasa, direttore de “Il Foglio”, propone una radiografia delle suggestioni populiste presenti nel fronte conservatore a un passo dalla conquista di Palazzo Chigi.

Cerasa, chi sono gli impostori sulla scena politica italiana?

«Sono le due destre: quella rappresentata da Matteo Salvini e quella di Giorgia Meloni che presentano agli elettori un imbroglio mascherato da difesa della libertà: in realtà sono intrappolati nella retorica del complottismo».

«La destra può vincere, ma può governare?». La domanda è ricorrente nelle cancellerie internazionali e sui media mainstream. È anche il punto di partenza del suo volume.

«La destra dopo le elezioni sarà a un bivio: o decide di liberarsi dei propri scheletri nell’armadio e cambiare, come ha fatto Alexis Tsipras in Grecia, o sceglie di assecondare il suo armamentario tra lepenismo e orbanismo, trasformando così l’Italia nel laboratorio del nazionalpopulismo contemporaneo. Questa seconda strada rappresenta un orizzonte di corto respiro, che troverebbe presto un muro chiamato realtà».

Le riflessioni sulla globalizzazione che arretra avanzano ora anche sulle pagine del Sole24Ore. Lei, invece, ne tesse l’elogio, con tesi sovrapponibili a quelle espresse da Franco Cassano, sociologo amato da Giuliano Ferrara, nel saggio «Senza il vento della storia» (Laterza). E’ la linea dell’ottimismo del mondo libero e globale, nonché una delle cifre dell’eredità di Draghi?

«Assolutamente sì, Draghi ha mostrato una combinazione efficace tra Stato e mercato, e una capacità di mettere in luce le virtù dell’Italia. All’opposto il populismo tende a diffidare della concorrenza e descrive la globalizzazione come un nemico: assomiglia alle vecchie elaborazioni della sinistra sovranista. Non a caso assistiamo ad una connessione tra vecchi no global e nuovi populisti di destra, Dalla lezione di Franco Cassano bisogna recuperare la capacità di costruire un percorso macroeconomico sull’ottimismo non irresponsabile».

Nel saggio non fa sconti a Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Della destra di governo ha già scritto in passato nel saggio «La presa di Roma» su Gianni Alemanno. Ora la leader è nell’Aspen, ha un dialogo quasi quotidiano con Mario Draghi, è pro Ucraina. Con una sintesi estrema: ha scelto il modello «più Marcello Pera e meno Marcello Veneziani»?

«La Meloni, più di Salvini, è consapevole delle coordinate necessarie della destra che fa un passo avanti nella stagione della “post impresentabilità”. È molto sensibile alla agenda dei doveri, ma su troppi temi resta ambigua».

Su quali?

«Su Ue, immigrazione, giustizia, globalizzazione, “cultura dello scalpo”. La destra attuale ha un profilo diverso rispetto ai tempi prima della guerra nell’Est Europa, ma ogni tanto rappresenta una parte più estremista. Non combatte il populismo, pur avendo capito che le catene vanno rotte».

Salvini ora usa toni reazionari per recuperare voti, ma non è più «no-Euro».

«È un’altra cosa rispetto a quello che ha fatto negli ultimi anni. Anche la Lega è altro. Le battaglie antisistema le ha trasferite su vaccini o antieuropeismo sull’immigrazione. Poi c’è il Carroccio dei governatori che è pro Ue e ora fa fatica a riconoscersi nella leadership del segretario. Questi presidenti di Regione hanno più sintonia con la Meloni che con Matteo».

La guerra in Ucraina rivoluziona schemi nazionali ed europei. Fdi è atlantista, la Lega pacifista. In altri scenari sarà richiesta maggiore elasticità diplomatica, come in Libia. In questo assortimento non c’è anche la tendenza tutta italiana ad «annacare» negli scenari internazionali?

«La questione è chiara: loro sono stati corretti a cambiare rotta. E a nascondere le proprie idee, come è stato per Salvini. I partiti che cambiano così repentinamente, senza spiegarne le ragioni, però possono ricambiare posizione in fretta: seguono l’algoritmo del consenso. Del resto il cambio di passo della Meloni sulla Russia è determinato dalla adesione ai conservatori europei, gruppo egemonizzato dai polacchi, fortemente anti-Mosca. Salvini e Meloni sono atlantisti, Giorgia di più, ma continuano a difendere la libertà a metà».

Addio giustizialismo per i sovranisti. Una volta la destra di Fini non ricandidava il deputato Alberto Simeone autore di una legge di civiltà «troppo garantista». Che succede adesso?

«La destra estremista ha compreso che il garantismo porta consenso. Si è avvicinata a persone garantiste come Carlo Nordio, difende i diritti quando si parla di diritto penale, ma sulle carceri resta per il “buttare la chiave”. E le carceri sono una termometro della civiltà. Permane la punta di un iceberg giustizialista che si è andato ad assopire con Trump e cova sotto la cenere: potrebbe rinascere e avere l’Italia come testa di ariete e laboratorio in caso di vittoria di Salvini e Meloni il 25 settembre».

Il dilemma tra «leadership» o «followship»: auspica un ritorno alla politica che guidi i processi contemporanei?

«La followship asseconda i pensieri di chi urla di più, mentre la bravura di un leader sta nell’educare e formare i cittadini verso una stagione di pragmatismo, come è avvenuto con Draghi… Si ascolta ma si decide per l’interesse nazionale, mentre il sovranismo al fondo è contro l’Italia».

Ultima domanda: la Puglia come Emiliano e il Lazio con Zingaretti sono le regioni dove si sperimenta il governo Pd-5S, tra No-Tap, No-Triv e il mantra utopista della decarbonizzazione. Questo asse è seppellito per sempre dalle politiche?

«Le ragioni di dem e grillini si potrebbero riannodare dopo le elezioni, per una campagna congressuale contro Enrico Letta, se perde nelle urne. I riformisti gli rinfacciano già il mancato accordo con Calenda, la sinistra attaccherà per la rottura con Conte…».

·        Corrado Formigli.

Maurizio Caverzan per “La Verità” il 15 maggio 2022.

Non indossando l'elmetto, Corrado Formigli si attira le critiche e le ironie dei media più atlantisti, ma il suo Piazzapulita su La7 è uno dei talk più problematici del panorama televisivo nostrano. Ospita voci diverse e innesta il dibattito in studio con immagini e reportage dal fronte, «40 o 50 minuti ogni puntata», sottolinea: «è il nostro marchio di fabbrica». 

Come vanno gli ascolti dall'inizio della guerra?

«Fino a prima dell'invasione dell'Ucraina la nostra media era del 5,7% di share. Dal 24 febbraio a oggi si è assestata sul 6,3%, per noi un risultato eccellente». 

Questa crescita ha un motivo preciso?

«Intanto, la mia passione personale per il tema. Fin dai tempi dei programmi di Michele Santoro ho sempre fatto l'inviato di guerra. Per Piazzapulita ho realizzato reportage su Kobane, in Siria, su Falluja e Mosul, in Iraq... Poi, ma non certo in secondo luogo, la passione, l'esperienza e le capacità di Gabriele Micalizzi, Alessio Lasta e Luciana Colluccello sono stati un altro nostro punto di forza. Siamo l'unico talk che propone reportage sul campo».

Però la guerra non si vede moltissimo.

«Non è proprio così, raramente si sono visti tanti cadaveri per le strade e missili schiantarsi sugli edifici. A Kramatorsk un pezzo di missile ha sfiorato la macchina sulla quale viaggiava Luciana Colluccello. È una guerra che si combatte con ordigni lanciati a distanza. Stare in prima linea con la fanteria vorrebbe dire rischiare la vita. Ma il nostro primo problema è un altro».

Quale?

«Evitare le fake news. I canali Telegram mostrano il conflitto girato dai soldati e bisogna sminare la propaganda per far affiorare i fatti. L'esempio dell'immagine della donna con il ventre marchiato da una svastica è significativo. Micalizzi aveva trovato quella foto a Mariupol, perciò si è pensato fosse opera del battaglione Azov. Qualche giorno dopo la stessa immagine è ricomparsa vicino a Kiev, collegata alle torture di Bucha, quindi gli autori potevano essere russi. Alla fine, non sappiamo chi ha commesso quella violenza, ma solo che quella donna è stata uccisa e mutilata».

Come scegliete gli ospiti delle puntate?

«Distinguiamo tra competenza e battaglia delle idee. In tema di diplomazia, di geopolitica o di strategia militare cerchiamo ospiti che abbiano esperienza sul campo. Alberto Negri è uno dei più importanti inviati di guerra degli ultimi 30 anni, il generale Vincenzo Camporini è stato capo di Stato maggiore della Difesa, Riccardo Sessa è stato ambasciatore in Cina e in Iran, per citarne alcuni. Sul piano delle idee, quando Michele Santoro e Paolo Mieli si confrontano esprimono visioni diverse, ma il loro dibattito è utile al telespettatore, oggi senza bussola».

Le capita di pagare qualche ospite?

«La stragrande maggioranza viene a titolo gratuito, altri te li assicuri in esclusiva per un certo tempo. È come un patto di fedeltà che anche il pubblico apprezza. Ma si tratta sempre di cifre modeste, corrisposte in cambio di una competenza e di un tempo che ti danno». 

Sono mai stati contestati dal pubblico o da qualche esponente politico?

«La reazione più violenta l'ho registrata riguardo al professor Alessandro Orsini. Il giorno dopo, il mio telefono era intasato da commenti alla sua partecipazione provenienti da alti livelli della politica, della cultura e del mondo universitario. Perché fai parlare Orsini? Non sai chi è? Erano supposizioni ipotetiche, mai circostanziate».

Una volta invitato qualcuno ha mai avuto la sensazione che potesse trattarsi di un agente segreto?

«Macché. Orsini no di certo, lo conosco da diversi anni. Ma secondo lei un agente sotto copertura usa i talk show per fare propaganda? Perché accada ci vorrebbero un conduttore imbecille, un pubblico privo di capacità di discernimento e che gli altri ospiti fossero sotto anestetico».

Qualche telespettatore le ha contestato l'invito a Steve Bannon.

«L'ho trovato surreale. Stiamo parlando dell'ex capo stratega del presidente americano Donald Trump. Io non scelgo tra buoni e cattivi. Se fosse utile a comprendere ciò che c'è nella mente di Vladimir Putin inviterei pure il diavolo».

C'è qualcuno che vorrebbe intervistare e non le è ancora riuscito?

«Dmitrij Peskov, portavoce del Cremlino, ci ha già detto no due volte, mentre ho apprezzato l'intervista che gli ha fatto Christiane Amanpour sulla Cnn. Un altro che sto cercando di invitare è Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e direttore della Novaja Gazeta, il giornale dove scriveva Anna Politkovskaja».

L'amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes ha detto alla commissione di Vigilanza che i talk show non sono più adatti a una corretta informazione: cosa ne pensa?

«Penso che quelli fatti bene lo siano e quelli fatti male non lo siano. Trovo che usare la parola talk show in generale come metro di ogni nequizia sia sbagliato». 

Che opinione ha dell'interesse del Copasir e della Vigilanza riguardo ai meccanismi dell'informazione?

«Per conto mio la Vigilanza andrebbe abolita. In tutto l'Occidente è un unicum che una commissione di politici indichi i criteri di fattura di un programma televisivo, di invito degli ospiti e se vadano pagati o meno. La ritengo una realtà di sapore sovietico».

In guerra si demonizza il nemico, nell'informazione si demonizza o ridicolizza il dissenso?

«Il rischio lo vedo molto forte. Non sto dicendo che chi dissente non abbia spazio perché ne ha. Il problema è ciò che avviene dopo: l'attacco concentrico dei soliti politici che guardano troppo la tv anziché fare cose più utili e del plotoncino dei social che si erge a tribunale dei talk. Quando questo attacco viene amplificato dai giornali si crea un clima avvelenato».

Piazzapulita mette di fronte bellicisti e pacifisti: può dire quali si dimostrano più intolleranti verso le posizioni altrui?

«Mi sono stupito quando Nathalie Tocci, direttrice dell'Istituto Affari internazionali, con la quale avevo un accordo di partecipazione a quattro puntate, ha criticato su un giornale il fatto che avessi invitato il professor Carlo Rovelli, un grande intellettuale nonché uno dei maggiori fisici mondiali, su posizioni pacifiste». 

Il Foglio ha scritto che Urbano Cairo appare un editore bifronte: governativo e bellicista con il Corriere della Sera, problematico o polifonico con La7. Cosa ne pensa?

«Se un editore è polifonico tanto di cappello, Cairo non ha bisogno che Il Foglio gli insegni il mestiere. L'articolo al quale si riferisce mi descriveva come putiniano dopo una puntata con Roberto Saviano e la figlia di Anna Politkovskaja. È il solito tentativo di etichettare qualcuno come serve a chi scrive.

Quell'articolo citava un sondaggio sulla popolarità di Putin all'82% tra gli italiani, mentre si trattava di un rilevamento del suo gradimento presso i russi fatto dal Levada Center, un istituto di ricerche non governativo, di cui ho intervistato il direttore, Denis Volkov. Rifiuto la riduzione in burletta dei talk show. Non capisco perché invitare una sera Santoro è un crimine, ma delle sei puntate in cui ho mostrato la distruzione di Mariupol nessuno ha scritto una riga.

Quelli che sostenevano il potere del telecomando e sminuivano la capacità della televisione di orientare i consensi ai tempi di Berlusconi premier oggi fanno esattamente il contrario». 

Oltre a riproporre Santoro ha scoperto Orsini e la professoressa Donatella Di Cesare, invitato Bannon, ospitato il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio.

«Orsini l'ho lanciato perché ne avevo colto la forza dirompente, ma l'ho lasciato ad altri perché non amo costruire il programma su un solo ospite. Come detto, si citano solo gli ospiti che servono a costruire lo schema senza ricordare gli altri, Paolo Mieli, Mario Calabresi, Stefano Cappellini, Maurizio Molinari, la lista è lunga. Se invito Evgeniy Popov, deputato russo e, insieme con Vladimir Solovev, uno degli anchorman più influenti, mi serve per far capire come funziona la propaganda russa. Non conosco altre vie per capire cosa c'è nella testa di Putin se non parlare con le persone che gli sono vicine. Credo che il pubblico italiano comprenda questa operazione».

Che cosa pensa di #Cartabianca e della pressione cui è sottoposta Bianca Berlinguer?

«Penso che un editore abbia il diritto di cambiare o spostare nel palinsesto un programma sulla base di una sua valutazione. Vale sia nel pubblico che nel privato. Ma se il cambiamento, come mi pare stia avvenendo per #Cartabianca di Bianca Berlinguer, segue l'attacco proveniente da una parte politica, da un esponente del governo, da qualche componente della Vigilanza, a quel punto l'odore di censura è molto forte». 

L'ha convinta Enrico Letta che ha intervistato giovedì sera?

«Ho colto la sua posizione gelida nei confronti di Giuseppe Conte, il quale pone un problema di unità della maggioranza. E, in secondo luogo, mi pare abbia iniziato un percorso di riallineamento alla nuova strategia del premier Draghi, meno schiacciata su Washington».

Per tornare alla domanda?

«Credo che Letta colga la nuova posizione più macroniana di Draghi con un certo sollievo perché agevola il rapporto con un pezzo importante della base del partito, contraria all'invio di armi in Ucraina». 

Che cosa pensa della conversione atlantica del Pd?

«Credo che si fosse allineato a Draghi anche a scapito del necessario dibattito interno.

Ha conquistato nuovi consensi ma spostandosi verso il centro, trascura temi come lo ius soli e i diritti civili che, personalmente, condivido».

Qual è la sua lettura della visita del premier alla Casa Bianca?

«Penso sia un uomo capace di comprendere la posta in gioco. Parla con Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Ursula von der Leyen. Credo abbia tentato di far capire che il negoziato è una condizione vitale per la sopravvivenza dell’Europa». 

Alcuni osservatori vedono nelle sue mosse l'ambizione alla carica di segretario generale della Nato.

«Secondo me vuole rimanere abbastanza a lungo dov’è». 

Si candiderà?

«No. Nel 2023 potrà coagularsi una coalizione di forze e Draghi potrebbe essere candidato a guidarla». 

Così la politica continuerà a delegare la guida del Paese?

«Se Giorgia Meloni otterrà una grande maggioranza deciderà il centrodestra, se invece si concretizzerà una situazione più complessa Draghi sarà ancora un'opzione. L'alternativa è tra Meloni e Draghi, non vedo terze possibilità».

·        Davìd Parenzo.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 4 luglio 2022.

Istrione e istriano è di Padova ma discende da famiglia ebraica originaria della città omonima di Parenzo, costa occidentale della penisola istriana, che in croato si dice «Porec», in tedesco «Parenz», in veneto «Parenso, Bàsime i durèi» - Davìd Parenzo, con l'accento sulla «è» di «il prediletto di Jahvè», è simpaticissimo come persona. Ma come personaggio È il côté moralistico, perbenista per finta e servile per davvero, che lo rende insopportabile. Hai presente il compagno sfigo del liceo - leccaculo, spione, ruffiano - al quale spalmavi la sedia con la colla Pritt, e che oggi ti diverte alla cena di classe, ma poi non vorresti più averci niente a che fare per il resto della vita? Ecco. 

Ecco: la vita di Parenzo Davìd con la P e la D, come Pd ha un paio di prima e un paio di dopo.

Dal punto di vista professionale il primo Parenzo è un enfant-quasi-prodige della tivù, emittenti locali e ambizione globale: Odeon (esordio a 22 anni con una rubrica sulla mostra del cinema di Venezia, Tutto quello che avreste voluto sapere sul Festival ma non avete mai osato chiedere, dove già si capisce che gli piace più fare spettacolo che informazione), poi Telenuovo - Prima Pagina, polenta e sarde in saòr e Telelombardia, rete controllata da Sandro Parenzo, ma naturalmente è solo un'omonimia, dove Davìd conduce trasmissioni di approfondimento politico: prima serata, Iceberg e un'innegabile predisposizione a tenere la scena. 

Cisalpino e patavino, figlio disconosciuto del Nordest, il puteo - cervello svelto e occhio aguzzo - ha buona cultura generale, tempi perfetti, velocità e talento da cabaret: è ciò che serve per uscire dalla provincia in pochi anni: due, tre, quattro, cinque, sei, La7

 È il secondo Parenzo, il mezzobusto arrivato che però non vuole smettere di fare il primattore, il giornalista composto che poi si esalta nelle performance alla Zanzara, il conduttore affermato di talk che non dimentica la vocazione naturale allo show. Un po' polemista e un po' paraculo, Parenzo è come l'omosessuale non confesso: si sente mattatore, ma deve farsi vedere giornalista. 

E dal punto di vista confessionale, è lo stesso. Il primo Parenzo figlio del rabbino capo della comunità ebraica di Padova è un ultralaico che racconta le barzellette sugli ebrei e la cui soglia di osservanza è abbondantemente sopra il consumo della luganega trevisana. È il Parenzo eternamente fuori corso, le domeniche pomeriggio al «Wag», i concerti al «Banale», le birre al «Lucifer Young», i panini da «Giovanni l'onto» Torà, Menorah, trasgressione (moderata però: è un ragazzo molto borghese, urbanocentrico, piazze, pizze e Ztl oriented).

Poi la conversione, in un Amen.

Da Padova a Roma: qui conosce Nathania Zevi, giornalista e nipote di Tullia Zevi. Cognome illustre e schierato (il fratello, Tobia Zevi, già candidato sindaco del Pd a Roma, ora è assessore al Patrimonio e alle politiche abitative). Comunque, col suo lato giullaresco il primo Parenzo riesce a sedurre l'impegnativa Nathania, la quale lo trasforma nel secondo Parenzo: gli fa coltivare relazioni mondane, gli insegna a stare a tavola e gli rifà il guardaroba: dalle giacche fuori taglia da studio televisivo di provincia agli abiti su misura della bottega napoletana «Imperatrice Sartoriale». Una nuova vita, due matrimoni, tre figli. Ma aprirsi all'alta società significa chiudersi in una caserma precettistica, ed ecco il Davìd osservante rigido e metodico.

È il Parenzo che durante lo Shabbàt non può scrivere, non risponde al telefono, non cucina, non accende la luce «Davìd, domani sei di turno alla 7!». «Non posso, è lo Yom Kippur». «Ma va' in móna!». E così Parenzo riscopre un'identità che pensa di aver avuto da sempre. Dentro resta uno scamiciato che alla Zanzara litiga con Cruciani e si insulta con gli ascoltatori, ma al compleanno di Nathania, compostissimo, invita Mieli e Ferrara, ospiti d'onore. «Yom hu' ledet sameach». 

La stella di David, ormai, brilla altissima.

Sempre in parte ma di parte, osservante del detto ebraico «Mezza verità è una menzogna intera», da cui le sue fake news, fazioso (ma non ideologico: mai fatta una battaglia politica in vita sua), lucidissimo, ben allineato e coperto dal mainstream progressista, europeista, atlantista, draghista, Parenzo è un ex Fgci, già radicale diventato ortodosso e radical Pèsach. Politicamente confuso, ma corretto. E dietro il commentatore monotono c'è sempre il capocomico da varietà. Il suo punto forte è inzigare gli ospiti, aizzare i fanatici, irrigidire le posizioni, fomentare... da cui il detto «Parenzo lo strenzo».

Battutista l'insopprimibile witz ebraico - sarcastico, cinico, dispettoso (qualcuno ha detto «cattivo inconsapevole»), Parenzo vorrebbe essere Theodor Herzl. Resta solo un buon imitatore, dai tempi in cui faceva gli scherzi telefonici fingendosi Umberto Bossi: ora mima Feltri, e gli viene anche male.

Condurre da solo, non ce la fa. Ma come telespalla, è perfetto.

Banale, venale (adora le querele: Ti porto via tutto!!), una carriera sempre In onda, tra qualche alto (i trashissimi pas de deux con Cruciani) e molti bassi (La guerra dei mondi, chiuso dopo quattro puntate; Radio Belva, sospeso dopo la prima), Parenzo è un incassatore formidabile - «Una volta un tassista di Roma mi ha tirato su.

Ho chiesto: a Montecitorio, grazie. 

E lui: Ahò, ma lei non è quer cojone comunista de Parenzo? Scenda subito!. Mi danno anche del giudeo. Eppure eccomi qua, ancora vivo» - e un improvvisatore magistrale. Gli annali di Matrix, sotto l'egida di Luca Telese, ricordano quando da inviato organizzò un collegamento esterno in cui faceva incontrare, dopo settimane di atti violentissimi di intolleranza razziale, una comunità rom e un gruppo di Casa Pound. Una diretta che doveva passare alla storia.

Ci passò. L'appuntamento è all'ultimo blocco della trasmissione. 

L'attesa è febbrile. Al momento fatidico i rom non si presentano, mentre i militanti di Casa Pound, innervositi, se ne vanno subito.

Parte il collegamento. Parenzo, rimasto improvvisamene solo, nel cuore della notte, nel mezzo di una rotonda deserta, estrema periferia romana, non demorde. Non c'è nessuno, ma lui si attacca a una rete a bordo strada e inizia a gridare nel buio, al vuoto: «Non andate via! Dialoghiamo! Parlatevi. Siamo tutti umani! Voi cosa volete da loro?! Discutiamo: stasera sarà per tutti una riconciliazione!». Un one man show da antologia, per mezz' ora di diretta, che è un monumento all'ostinazione giornalistica. Il giorno dopo il suo servizio segna il 9% di share. A suo modo, un trionfo. 

Ma a pensarci Parenzo, che trasforma ogni pezzo giornalistico in un colpo di teatro, ha anche fatto di meglio. Gennaio 2015, Giorno della memoria: servizio per Matrix dentro il campo di Auschwitz.

Le cose vanno per le lunghe e quando si chiude il collegamento, dentro il campo non c'è più nessuno. I guardiani chiudono i cancelli e Parenzo e il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici restano bloccati dentro il lager. Dopo ore, abbandonati da tutti, rompono una finestra, suona l'allarme, interviene la polizia polacca, interrogatori, accusa di effrazione, notte che si conclude grazie all'intervento dell'unità di crisi della Farnesina. Il giorno dopo The Jerusalem Post titola: «Due ebrei rinchiusi ad Auschwitz per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale». Parenzo è un eroe.

Una Golda Meir patavina. «Eravamo dietro il cancello con il famoso motto Arbeit macht frei dichiarò -. Non fu una bella esperienza».

Attento Parenzo, c'è di peggio. 

Come recita un noto proverbio Yiddish, «Sulla porta del successo le scritte sono due: ENTRATA e USCITA». Ti aspettiamo fuori.

·        Diego Bianchi in arte Zoro.

Diego Bianchi in arte Zoro, dall’origine dello pseudonimo a quando fece il console in un film: 7 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'8 Settembre 2022. 

Venerdì 9 settembre (in prima serata su La7) il giornalista e conduttore torna insieme alla squadra di Propaganda Live

Perché Zoro

«All’epoca, e prima di Maradona, l’unico Diego famoso era don Diego De La Vega. Poi sapete: a Roma si va per sottrazione ed è nato Zoro». Diego Bianchi raccontava così le origini del suo pseudonimo. Venerdì 9 settembre tornerà alla guida di Propaganda Live — in prima serata su La7 — insieme alla sua squadra composta dal fumettista e disegnatore Marco Makkox Dambrosio, dalla Propaganda Orkestra, dai giornalisti Francesca Schianchi e Paolo Celata e dagli altri ospiti ricorrenti, da Memo Remigi alla giornalista tedesca Constanze Reuscher. In attesa che inizi il programma, seguito e commentato come sempre da molti affezionati propaganders sui social, ecco alcune curiosità poco note sul giornalista e conduttore.

La band

Zoro partecipò a Musicultura nel 1996 con il gruppo musicale in cui era percussionista: l’Original Slammer Band. Uno dei brani della formazione, «Mentalità Skizzata», è stato adottato come inno dei tifosi del Sora Calcio (che si fanno chiamare «gli skizzati»).

Tolleranza Zoro

Laureato in Scienze Politiche nel 2000 Bianchi ha iniziato a lavorare per Excite come content manager. Nel 2003 ha fondato il suo blog, La Z di Zoro, all’interno del quale teneva una rubrica video: «Tolleranza Zoro». Qualche anno dopo, nel 2008, gli episodi di «Tolleranza Zoro» sono approdati prima a Matrix su Canale 5 poi a Parla con me (Rai 3, fino al 2011) e The Show Must Go Off (La7, nel 2012). Il format «Tolleranza Zoro» è stato poi rispolverato nel corso dell’edizione 2020 di Propaganda, dato che a causa della pandemia e del lockdown non era possibile realizzare reportage in esterna.

Arance & martello

«Arance & martello» (2014) è il titolo della prima prova registica di Diego Bianchi: il film — da lui scritto, diretto e interpretato — è stato presentato in anteprima come evento speciale fuori concorso nella sezione Settimana della Critica della 71ma Mostra del Cinema di Venezia.

Console in un film

Ha recitato la parte del console nella pellicola «Il sole dentro» (2012) diretta da Paolo Bianchini e tratta dalla vera storia di due adolescenti guineani, Yaguine Koita e Fodè Tounkara. Il film è stato presentato e premiato al Giffoni Film Festival.

 Svaccato, perbene e perbenista. "Zoro", l'elitarismo in t-shirt. Luigi Mascheroni il 28 Giugno 2021 su Il Giornale. Propaganda Live è uno dei pochi programmi per cui vale la pena guardare la tv. Ma anche di spegnerla. E poi c'è il conduttore: Diego Bianchi, in arte Zoro. Propaganda Live è uno dei pochi programmi per cui vale la pena guardare la tv. Ma anche di spegnerla. E poi c'è il conduttore: Diego Bianchi, in arte Zoro. C'è chi lo adora, e sono molti. E chi cambia canale appena lo vede, e sono anche di più. La distanza fra un maestro e un maestrino è tutta in uno zapping. Del resto, Propaganda Live è l'unico programma dove ti puoi ritrovare a ridere e a piangere nella stessa serata. E non è detto sia una cosa positiva. Positivo nei confronti della vita, sempre il primo a essere dalla parte degli ultimi, ossessionato dagli oppressi, vendicatore degli oppressori, intollerante con gli intolleranti e tollerante con i compagni: paladino dei diritti, che a volte legge a rovescio, conformista, perbenista e di sinistra, Diego Zoro Bianchi, romano del quartiere più romano di Roma, San Giovanni, così antico che parlano l'appio-latino - Veni, Vidi, Daje e Aridaje è uno dei personaggi più divisivi della televisione italiana. La sinistra di scherno e di governo lo vorrebbe ministro della Propaganda, la destra gira dopo la sigla d'inizio. La prima lo trova irresistibile, la seconda insopportabile. Per capire quanto, si può fare un esempio. A un elettore del centrodestra Zoro è simpatico quanto Gasparri a uno di estrema sinistra. Daje, eddaje, daje tutta, e daje forte! Così di sinistra da permettersi di laurearsi alla Sapienza con Domenico Fisichella, poi ministro del governo Berlusconi; così romano da concedersi di suonare in una band di Sora, capitale culturale dell'Impero; così militante da personificare il detto della nonna, la famosa nonna Zora («Mia nonna diceva che la politica si fa pure in bagno». Appunto), Zoro, un giornalismo tra il gonzo e Gazebo, è un indiscusso professionista. Una solida carriera alle spalle e un futuro da Pif. Prima blogger, poi youtuber, passaggi nel mondo della radio e del cinema, e ora conduttore intelligente, ironico, sensibile, fazioso, stucchevole. Che ha inventato a suo modo uno stile. In inglese si dice understatement. Da noi: svaccato. Ahò, Appiccicà, Cojonà, Inquartasse, Intuzzà, Svortà, Stacce, Fattela pijà bene, Sto a schiumà, Magnatela na cosetta, Sto' a rota, zagajà, Fàmose a capì', e Rula Jebreal... E dajé! Jeans largo, posizioni rigide, magliettine stazzonate - er mejo majettaro de Roma, brand da migliaia di euro, si compra tutto online, o da Zoro Home - Diego Bianchi è stropicciato, indolente, umile ma restando sempre migliore degli altri. Come i vacanzieri intellettuali ultra chic - piedi nudi da giugno a settembre, capanno sul mare a Marina del Chiarone ma con il cuore a Coccia di morto - trasandato, controvoglia, provinciale, Damilano al mondo, da Roma Sud alla Curva nord «Forza Roma, daje lupi!» - tra Mostacciano e Spinaceto. Si chiama autoreferenzialità, facendo finta di parlare a tutti. Quelli di Propaganda Live - televisivamente bravissimi, ideologicamente insopportabili - sono così. Forti nei palazzi del potere e delle tv, deboli nel Paese e tra la gente. Come il Pd. Che ha governato per 11 anni negli ultimi 15, ma l'ultima volta che ha vinto le elezioni è stato nel 2006. La si può definire una prova di notevole abilità. Ma alla lunga risulta surreale. Daje ar fascio! Gigante in una rete di L7 nani, Zoro voce di autentica rottura, in qualsiasi senso lo si intenda - ha dalla sua il privilegio di condurre l'unica trasmissione del panorama televisivo italiano che ha sul mondo un punto di vista diverso. Il suo. Show, tweet e T-Shirt, in realtà Diego Bianchi - share medio 5,2 per cento, Zoro in condotta è rimasto un conduttore alla mano, nonostante l'indiscusso successo. Sempre gentile e disponibile, non ha mai ceduto al fascino tentatore della prima donna, lui che è l'esempio televisivamente migliore di maschio femminista. L'Italia lo malsopporta, ma Roma lui l'ha conquistata. Potrebbe candidarsi anche sindaco. La Giunta è già fatta: Makkox alla Cultura, Missouri 4 ai Trasporti, Roberto Angelini - il chitarrista ricercato dalla Guardia di Finanza - alla Legalità e trasparenza, Marco Damilano al Pluralismo dell'informazione. Capalbio e caparbi. È la bellissima Sinistra velleitaria e supponente, ecologica e accogliente, presuntuosa e narcisista. L'Italia però è migliore di così...Che poi. Su Propaganda Live, non si può dire nulla. Criticare la trasmissione significherebbe ammettere di essere invidiosi. Ottimo programma di informazione, un format che ci guadagnerebbe se fosse più snello, loro sono battutari micidiali, cazzoni, sempre obiettivi, sempre sul pezzo, sempre a dar voce a chi non ne ha, un non-lieu del palinsesto dove lottare per avere più diritti. Per gli altri e per sé. Ecco sì, magari un po' più d'attenzione al casting delle quote rosa... Comunque «Grazie per esserci stati ogni venerdì, viva Diego, viva Makkox, viva il Pojana, viva Propaganda Live». Come diremmo a Busto Arsizio: Mecojoni! E comunque chi li critica non li conosce abbastanza. Reportage a Rozsko e pipponi, la «jungle» di Calais e Porta Metronia, servizi di qualità e spaccati toccanti di vite perdute, palestinesi, Val di Susa, migranti, tanti migranti, migranti dappertutto, prima e dopo ogni blocco pubblicitario, rider, migranti, Ilva, terremoti, migranti, disagio per lo sfruttamento del lavoro nero, spiegoni, migranti, l'agricoltura chimica e il glisofato, ipocrisia, principi etici, collette alimentari, élitarismo intellettuale, migranti e qualche ammiccamento adolescenziale di troppo. Zoro e i suoi lo scriviamo senza ironia sono fantastici. E chi non lo pensa è un salviniano ignorante populista sovranista sessista bianco omofobo meloniano neocolonialista e potenziale stupratore. Sbeffeggiando&ridacchiando, Zoro&Co sanno informare, divertire e farci compagnia. Certo, fra nepotismo artistico e familismo ideologico, quella simpatica comitiva di borgatari da bar dell'Appio-Tuscolano che è Propaganda Live sa troppo di amichettismo che rischia di sfociare nel cameratismo. Che, a pensarci, è una cosa di destra. Ma in fondo - da mamma Zoro al Ricciolo, tassinari compresi - è tutto molto leggero, con quell'aria tipica da Sinistra dell'Aventino di un gruppo di vecchi amici che hanno capito come va il mondo, e te lo spiegano. Di peggio, a sinistra, in questo senso, c'è solo Michele Serra. Dajeeeeee a tutti! Di suo, Diego Bianchi, che è solo un po' più coatto di Formigli, un po' meno radical chic della Gruber, sarà anche eticamente superiore a tutti noi «Io so' io e voi non siete un...», non mi ricordo cosa - ma intanto ha capito benissimo che la satira è la forma di politica più efficace che esista. Purtroppo, però, non che il sarcasmo è solo una arguzia più vile. La statura di un comico - si sa - si misura con quella di coloro che prende in giro. Tirata d'orecchi al compagno che sbaglia, e la gogna a tutti gli altri. Poi, certo, il caso Angelini poteva essere gestito meglio. Come iniziare con una trasmissione alternativa per poi finire sulle riviste di gossip a un euro, Cairo editore. A Roma si dice «Tocca abbozzà». Per il resto, un saluto a tutt*, e arrivederci a settembre. «Che manco ce fai ride!».

·        Elisa Anzaldo.

Elisa Anzaldo, la moglie del magistrato che mette le mani sul Tg1: tam-tam in Rai, cosa c'è dietro la promozione.  Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 18 gennaio 2022.

Saranno le quote rosa o le quote rosse. Fatto sta che nell'edizione delle 20 del Tg1, quella regina, da ieri è apparso un nuovo volto femminile, oltre a quelli dei quattro moschettieri che finora si sono alternati. Si tratta di Elisa Anzaldo, giornalista Rai da oltre un ventennio e già alla conduzione del Tg1 prima nell'edizione della notte, poi in quella delle 17, infine in quella delle 13, lasciata nel 2017. La sua promozione, rivelata da un'indiscrezione via Twitter del giornalista Giuseppe Candela, notizia poi ripresa anche da Dagospia, rientra in quel cambio di rotta, di forma e sostanza e quindi anche di nomi voluto dal nuovo direttore del Tg1 Monica Maggioni.

La Anzaldo, sposata con il magistrato Fabrizio Gandini, conosciuto quando entrambi si occupavano, nei rispettivi ambiti professionali, del delitto di Cogne, è nota per essersi scontrata nel 2011 con l'allora direttore del Tg1 Augusto Minzolini, al punto da aver lasciato temporaneamente la testata in polemica con la sua linea editoriale-politica, giudicata troppo filo-berlusconiana. E più di recente è entrata in rotta di collisione anche con il predecessore della Maggioni alla guida del Tg1, il filo-grillino Giuseppe Carboni. Tanto che (non pare un caso) non la si era più vista in video dal 2018 in poi, pur mantenendo il ruolo di caporedattore. Il suo ritorno alla conduzione, peraltro nell'edizione principale del Tg, è il segnale di una nuova direzione, sicuramente meno vicina ai 5 Stelle o al centrodestra, che la nuova direzione Maggioni intende dare. Oltre a rappresentare un trionfo delle quote rosa, con un rapporto uomini-donne nell'edizione delle 20 sbilanciato a favore di queste ultime: d'ora in poi esse saranno tre (oltre all'Anzaldo, le consolidate Laura Chimenti ed Emma D'Aquino) a fronte di due maschietti (Francesco Giorgino e Alessio Zucchini).

C'è anche chi azzarda con ironia la tesi delle toghe rosa: essendo lei consorte di un magistrato, sposa non per procura (come la protagonista de La sposa, nuova serie di Rai 1) ma di uno che ha a che fare con le procure, la nomina voluta dalla Maggioni significherebbe la vittoria del partito dei giudici. Con una "magistrata" a condurre l'edizione centrale del Tg1. Ma si tratta, appunto, di una boutade. C'è invece poi chi legge, un po' più seriamente, l'investitura della Anzaldo come un'esortazione implicita a Giorgino a lasciare la conduzione, essendo il suo ruolo di vicedirettore (assunto a fine dicembre) in teoria non compatibile con la presenza in video. Che sia stato il tipico caso di promoveatur ut amoveatur? Chissà. Ma, stando alle nostre fonti, sarebbero tutti e quattro gli attuali conduttori dell'edizione regina non proprio contentissimi, per usare un eufemismo, della nuova nomina.

Non per ragioni personali o divergenze professionali, ma banalmente per il motivo comprensibile che la presenza della Anzaldo- salvo il collocamento di Giorgino in un ruolo solo di vicedirezione - farà comparire meno in video gli altri quattro, essendoci ora una collega in più ad alternarsi con loro, una settimana a testa. Insomma, se prima erano in 4 a condurre alle 20, adesso sono in 5 a condurre alle 20. Da ultimo, c'è chi azzarda la lettura emotivo-sentimentale, altrettanto rispettabile. Il discorso commosso e commovente della Anzaldo in occasione dei funerali di David Sassoli ha strappato non pochi applausi e lacrime agli astanti e ai vertici del Tg1.

Le sue parole, pronunciate anche a nome dei colleghi, su David che «ha sfondato i muri di gomma con la tenacia della gentilezza, con la fermezza dell'educazione, con la dirompenza della mitezza» ne hanno confermato la capacità di toccare il cuore e non solo la testa degli spettatori. E la Maggioni, persona sensibile anche agli aspetti emotivi, non può non averne tenuto conto. Continua così la sua rivoluzione gentile, cominciata con un cambio radicale di contenuti (niente più pastoni politici e molto più respiro agli Esteri, meno Palazzo e più mondo, insomma) e approdata all'introduzione di nuovi nomi. Ma siamo solo all'inizio, assicurano dai corridoi di Viale Mazzini.

·        Emilio Fede.

Marco Menduni per “Specchio – La Stampa” il 20 giugno 2022.

Racconta Emilio Fede che uno dei suoi più cari amici gli ricorda sempre: «La vita è un minutino». Per lui è un minutino lungo novant'anni «ma è pur sempre un minutino in cui si mescola tutto, i momenti migliori e quelli peggiori, ma l'importante è non gettare mai la spugna». 

Dei momenti brutti, quelli che hanno attraversato i tempi più recenti della sua vita, ha deciso di non parlare più. Rimane così da raccontare come trascorre le sue giornate un personaggio entrato nelle case di tutti gli italiani. 

«Un giornalista - dice di sé - che non ha mai smesso di esserlo, nemmeno per un giorno». La novità più recente è il ritorno sul piccolo schermo.

La trasmissione si chiama "Punti di vista" e va in onda su Go Tv: «È una piccola emittente fatta da ragazzi giovani e per bene, che si occupa della gente: per questo ho detto subito sì». 

È felice: «Non sapete quanta gente si è fatta viva, contenta per questo mio ritorno». Registra da casa? «Macché, vado in studio». Così si svela un dettaglio di come scorra la sua esistenza quotidiana. «Molto tempo - racconta - lo trascorro con gli amici che mi chiamano al telefono e che io chiamo. Sono felice di sentirli». Ginnastica e cyclette per mantenersi in forma. 

Dove vive oggi? «In un bel residence a Milano 2, che era di Silvio Berlusconi». Si commuove: «Mia moglie ha avuto il tempo di arredarlo». Diana de Feo è mancata un anno fa e ora gli tocca mantenere un impegno, «se ci sarò».

Il 24 giugno leggerà il suo testamento: «Mi complicherà la vita, c'è di tutto. Ma a me interessa una cosa soltanto: avevamo una bellissima casa ad Anacapri. Io dirò agli altri eredi: mi tengo Anacapri, voi fate quello che volete». 

Una villa «che io e Diana abbiamo comprato e che abbiamo messo insieme in piedi.

Anzi, più lei di me». 

Poi ci sono i social network. La scoperta di Instagram: «Ogni giorno confeziono tre edizioni del mio personale Tg. Ho già raggiunto quota 60 mila follower e la cosa mi riempie di gioia». 

Racconta ancora: «Sento sempre l'affetto di tantissime persone. È vero: le forze dell'ordine sono intervenute perché alcune persone mi hanno insultato e minacciato e io le ho ovviamente denunciate. Ma sono state pochissime. Pochissime. La maggior parte è felice di potermi rivedere e seguire attraverso i social».

E poi scorrono i ricordi di una vita. «I primi servizi per i quotidiani, quando venivo pagato a riga. Ero un giornalista squattrinato e a Diana lo ripetevo sempre. Lei proveniva da una famiglia famosa e abbiente, io le chiedevo: ma perché hai voluto sposare un giornalista squattrinato?». 

Poi la carriera si impenna. Inviato in Africa per otto anni. Un periodo della sua vita che, da tempo, vorrebbe raccogliere in un documentario. Poi conduttore, e direttore, del Tg1. L'incontro con Silvio Berlusconi e il passaggio alla direzione del Tg4: "E fu un successo clamoroso». 

Scorrono i ricordi di una carriera giornalistica lunghissima: «Sono saltato su una mina in Angola, mi sono salvato dall'esplosione di un aereo a Nairobi, mi hanno arrestato, sono stato ferito».

E poi? Poi ci ride ancora su, su quella frase pronunciata in un fuorionda nel 2003. «È la famosa esclamazione "che figura di m". Ho visto che "Striscia" l'ha utilizzata ancora qualche sera fa. È diventata iconica!». 

Come venne fuori spontanea, l'ha raccontato in passato: «Catturano Saddam Hussein, vado in studio per un'edizione straordinaria e annuncio con enfasi un fatto di cronaca straordinario. Cosa viene mandato in onda come immagine? La foto di Berlusconi. Ma che figura di m...». 

Ha scritto anche un libro («uno dei miei 16») con quel titolo. Ora ne ha un altro pronto nel cassetto. Ogni tanto lo rilegge, lo aggiorna, lo rifila: «Quando trovo il tempo, io lavoro sempre». Il titolo: Morire ridendo. Scritto con una consapevolezza di fondo: «Alla mia età sai che accadrà. Il modo migliore di farlo? Appunto ridendo».

·        Ennio Simeone.

Un amore non è amore quando non vede altro fuori di sé. Storia e geografia del giornalismo dei nostri tempi, intervista a Ennio Simeone. PAOLO OROFINO su Il Quotidiano del Sud il 30 Gennaio 2022.

Schivo e riservato, complicato trovare sue foto, ha accettato di farsi intervistare per rievocare la storia del Quotidiano della Calabria e le trasformazioni del giornalismo contemporanei.

Ennio Simeone che ha formato grandi giornalisti italiani (Antonio Polito e Marco De Marco tanto per citarne qualcuno) è stato dopo il fondatore Pantaleone Sergi nel 1995, il secondo direttore del Quotidiano. Con lui il Quotidiano della Calabria, decollò e cominciò a volare.

Diresse il giornale per 10 anni dal 1997 al 2007. Un decennio indimenticabile per chi lo ha vissuto, anche per l’autore di questa intervista. Simeone ci racconta dell’entusiasmo che trovò in Calabria, frequentando giovani cronisti e nuovi editori.

Ma il primo ad aver ancora tanto entusiasmo per questo nostro mestiere ed a trasmetterlo ai suoi redattori e corrispondenti calabresi, era proprio lui, giornalista sessantenne e in pensione solo sulla carta. Tuttora, Simeone continua a scrivere e informare i cittadini, per sola passione civile e giornalistica dirigendo l’Altro quotidiano.  

Direttore che ricordo ha della sua esperienza al Quotidiano della Calabria?

«Il ricordo di una singolare ma sempre più entusiasmante avventura. Singolare perché propostami dall’editore Carlo Caracciolo, appena un mese dopo che ero andato in pensione (traguardo raggiunto avendo compiuto 60 anni da direttore del Tirreno, edito dal suo Gruppo editoriale), dopo 42 anni di una attività giornalistica iniziata come corrispondente dell’Unità (organo del Partito comunista) dalla mia città di origine, Avellino, e proseguita in altre regioni con altre testate.

Entusiasmante perché il compito affidatomi era quello di rispondere alla richiesta di un gruppo di giovani che in Calabria avevano avviato da alcuni mesi una iniziativa editoriale, appunto: Il Quotidiano della Calabria, ma, trovatisi in difficoltà anche per inesperienza, avevano lanciato un Sos al grande editore di Repubblica e di una catena di giornali regionali, per avere un aiuto nel proseguire nell’impresa, magari partecipandovi.

Insomma il mio era un compito “esplorativo” di 4 o 5 mesi per valutare le effettive potenzialità di quella impresa, magari individuando anche qualche figura di imprenditore locale interessato a parteciparvi.

“L’esperienza al Quotidiano della Calabria? Una singolare ma sempre più entusiasmante avventura…”

Mi mossi con entrambi gli obiettivi ricalibrando progressivamente il giornale nella forma (liberandolo dalla patina di settarismo politico che un po’ l’offuscava) e nella sostanza, ma facendo leva sulla passione della squadra di giovani giornalisti e di tenaci e bravi corrispondenti dai territori oltre che sui giovani ed entusiasti gestori del settore editoriale. 

Inoltre, individuai l’imprenditore che potenzialmente potesse diventare il braccio operativo dell’editore Caracciolo, incoraggiando a lanciarsi nell’impresa la persona che con entusiasmo mi si era proposto per questo tipo di ruolo: Francesco Dodaro. 

Nel mio lavoro profusi le esperienze professionali che avevo accumulato negli oltre 40 anni di lavoro in varie regioni italiana: dalla mia Campania (come corrispondente provinciale da Avellino, prima, e come cronista e poi capocronista a Napoli, e ancora come vice direttore del Giornale di Napoli), all’Abruzzo (come inviato regionale), a Roma (come caposervizio Attualità interni ed esteri, poi caporedattore, fino a vice direttore di Paese Sera), e poi in Toscana (come direttore del Tirreno) e in Alto Adige (come direttore dell’omonima testata) e in Veneto (direttore del Corriere delle Alpi, con sede a Belluno).

Nel mio lavoro profusi le esperienze professionali che avevo accumulato negli oltre 40 anni di lavoro in varie regioni italiana:

E così i 4 o 5 mesi propostimi da Caracciolo per “agganciare” il Quotidiano della Calabria diventarono… 10 anni, fino a quando l’avventura… avventata del lancio di un “Quotidiano della sera” a Roma  (“un bel giornale”, dico con rammarico quando ne sfoglio ancora oggi qualche copia che ho in libreria, ma venduto solo con gli strilloni quando ve ne erano altri – persino Il Sole 24 ore” serale – distribuiti gratis dagli stessi strilloni) mi ha riportato, nel 2007, stabilmente a Roma, nella mia casa a Roma, dove continuo a gestire il giornale on line l’Altro quotidiano, unica testata prodotta, con un gruppetto di altri giornalisti, a titolo assolutamente gratuito perché, per scelta, non ospita pubblicità e quindi non ha introiti».

In ogni giornale che ha messo piede come direttore (Paese Sera, Alto Adige, Tirreno, Quotidiano, ecc) le vendite poi sono lievitate. Qual è stato il suo ingrediente segreto?

«A questa seconda domanda rispondo sinteticamente. Non credo di avere alcun merito se le varie testate che ho diretto hanno ottenuto buoni risultati di vendita, perché il periodo della mia attività di direttore è coinciso con quello della crescita degli indici di lettura dell’informazione stampata, soprattutto quella con radici nei territori. In ogni caso il “segreto” era (ed è) quello di dare al lettore garanzia di correttezza nel fornire le informazioni. E questo, per i giornali cosiddetti “locali”, è verificabile dai lettori, che spesso sono testimoni dei fatti che vengono raccontati. Perciò io ho sempre raccomandato ai miei collaboratori di avere come bussola, nel raccontare un fatto di cronaca, la risposta corretta alle 5 domande del manuale del giornalismo inglese: Chi? Che cosa? Dove? Come? Quando? La risposta alla sesta (Perché?), se non si è sicuri, meglio rinviarla a dopo aver fatto un rigoroso accertamento». 

Un giorno ad un suo corrispondente, che nella bozza d’articolo inviato in redazione, aveva commesso alcuni errori grammaticali, ha detto: “non fa nulla correggo io, è meglio una notizia scritta con qualche errore, ma data prima degli altri, che una notizia scritta in italiano correttissimo, ma data assieme agli altri”. Questa era la sua filosofia?

«Confermo. Naturalmente dando per scontato che in redazione ci sia chi corregge l’errore». 

I giornali in edicola hanno ancora qualche possibilità di competere con le testate on-line? Ci dia qualche consiglio.  

«È dura. Ormai l’edizione cartacea di un giornale sta assumendo la funzione di “attestato di garanzia” di quella on line: scripta manent. Seguendo questa intuizione, quando nel 2008 ho progettato il giornale on line l’Altro quotidiano, nell’ultima colonna a destra della home page avevo collocato una striscia contenente in miniatura 24 pagine di una versione cartacea formato A4 (quello della carta delle stampanti) contenente gli articoli (con relative foto) più importanti, in modo che il lettore potesse stamparsi rapidamente quella o quelle pagine che riteneva di conservarsi. Non lo stiamo facendo più perché – avendo rinunciato a pubblicare pubblicità a pagamento – non possiamo sopportare i costi per almeno 2 redattori fissi che dovrebbero dedicarsi ogni giorno a questo compito. Ma era un bel mix: una singolare fusione tra web e cartaceo. Chissà se potrà ancora avere un futuro».

L’edizione cartacea di un giornale sta assumendo la funzione di “attestato di garanzia” di quella on line: scripta manent.

Cosa si sente di dire ai tanti giovani che oggi hanno la passione del giornalismo?

«Che il giornalismo non morirà mai: dagli Annales ad oggi ha subìto nei secoli radicali trasformazioni, ma il bisogno di comunicare e il bisogno di essere informati correttamente e tempestivamente non si spegnerà con la frenetica evoluzione dei mezzi di comunicazione. L’importante è che non venga confuso con la spettacolarizzazione, come sta accadendo con quasi tutti i talk show televisivi e persino con quelli radiofonici. Perciò un giovane deve attrezzarsi culturalmente per intraprendere questa professione, se ha voglia di cimentarsi. E per verificare se davvero ne avevano voglia, a coloro che mi si proponevano rivolgevo a bruciapelo una domanda semplicissima: “Se ti trovi a passare – a piedi, in bici, in motorino o in auto – davanti a un assembramento di gente perché magari c’è un incidente stradale, che cosa fai? Ti fermi e vai a domandare che cosa è accaduto, o prosegui per la tua strada?” Se mi rispondeva che avrebbe proseguito gli rispondevo di rinunciare al proposito di voler fare il giornalista. Perché è un mestiere che richiede una dote indispensabile: la curiosità. Tutto il resto (bella scrittura, cultura, tecnica espositiva, eccetera) si acquisisce. Ma la curiosità è una dote che nessuno ti potrà trasmettere».

Cosa pensa della riforma Cartabia, ricordando i tanti scoop giudiziari fatti grazie alle soffiate di una fonte buona e attendibile?

«Della riforma Cartabia mi preoccupa la norma sulla prescrizione, che potrebbe avere un fondamento solo se davvero riuscissimo a snellire radicalmente i tempi della Giustizia. Il rischio che la facciano franca coloro che usano le lungaggini procedurali insopportabili per sottrarsi alla espiazione della giusta pena è insopportabile.

Anche noi giornalisti non possiamo, in nome dello scoop e della trasparenza, rischiare di dare per condannata una persona che riceve un avviso di garanzia, oppure darne notizia come se si trattasse di una sentenza di condanna.

Quanto alla segretezza delle indagini il discorso è più complesso. Tuttavia, anche noi giornalisti non possiamo, in nome dello scoop e della trasparenza, rischiare di dare per condannata una persona che riceve un avviso di garanzia, oppure darne notizia come se si trattasse di una sentenza di condanna. Soprattutto, se si mantiene in vigore l’obbligatorietà dell’azione penale in seguito a una semplice denuncia presentata da una persona che si è visto negare un appalto (magari giustamente)».

·        Enrico Mentana.

Enrico Mentana, la sua personalità come valore aggiunto. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 14 Giugno 2022.

Il giornalista ha rotto il teatrino delle opinioni contrapposte e travagliate proponendo sempre un parterre di ospiti qualificati: lui sa come si conduce una trasmissione. 

Partiamo da un dettaglio. Il corrispondente da Genova di Enrico Mentana voleva spiegare la prudenza scaramantica del sindaco Marco Bucci nel dichiarare la sua rielezione: «Non dimentichiamoci che questa è la città del “maniman”». «Perché ad Albenga non sono scaramantici?» è l’interrogativo che arriva subito dallo studio. Per la cronaca «maniman» significa «non si sa mai» ed è un tratto distintivo del carattere ligure.Questi siparietti, queste divagazioni non fanno altro che rafforzare la forte personalità di Enrico Mentana nel gestire i suoi programmi. Lunedì pomeriggio bastava seguire un po’ le varie trasmissioni dedicate al commento delle elezioni per accorgersi della marcata differenza: Mentana era quello che più di ogni altro (maschile sovraesteso) meritava di essere seguito. Come già succede nel raccontare la guerra in Ucraina. I motivi? Perché Mentana ha rotto il teatrino delle opinioni contrapposte e travagliate; perché ha sempre un parterre di ospiti qualificati, perché sa come si conduce una trasmissione. Anche scherzando, anche divagando.

A proposito di divagazioni, quando è mancato Gianni Clerici, qualcuno ha scritto che il suo soprannome era «Dottor Divago». In realtà, la definizione è di Marcello Marchesi e si riferiva ad Aldo Moro, per via del suo eloquio colto, forbito ma soprattutto prolisso. Oggi la definizione sarebbe perfetta per Giuseppe Conte e per il suo suggeritore principe. Nel talk, la divagazione, il far finta di parlare d’altro, l’excursus, il motteggio sono modalità fondamentali per cogliere il cuore dei problemi: servono ad alleggerire, a rompere il politichese, a eludere i luoghi comuni per poi centrare l’obiettivo. Una qualità che manca a molti suoi colleghi (maschile sovraesteso) che si prendono troppo sul serio, mancano d’ironia e d’autoironia. Già parlare di politica è noioso, figuriamoci se sono sussiegosi anche quelli che ne parlano…

Anticipazione dell’articolo di Maria Elena Barnabi per “Gente” il 10 febbraio 2022.  

Una volta chiese a una sua ospite: “Che domanda si aspetta?”. Ora giriamo lo stesso quesito a lei...

«La domanda che arriva sempre è quella che vorrei che non mi fosse mai fatta: quella su Enrico (il giornalista Mentana, suo compagno da anni, ndr)». 

Perché? Le dà fastidio parlare della sua vita privata?

«Non sono mondana e non cerco visibilità sulla coppia. E poi a lui nessuno chiederebbe mai di me. Vede la differenza di trattamento tra uomo e donna?».

Allora prometto di fare la stessa domanda a lui in caso lo intervistassi. Come siete a casa? Vi si immagina sempre lì a discutere dei fatti del giorno...

«Magari: io lo farei, ma lui dopo il lavoro risponde a monosillabi. Diventa muto».

E la quarantena con Mentana (qualche settimana fa era risultato positivo al Covid, ndr) come è andata?

«Le rispondo così: per fortuna la casa è grande. E ho detto tutto».

Enrico Mentana sospeso dall'ordine dei giornalisti: ecco la sua "colpa", robe da matti. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 04 marzo 2022.

Apprendo solo ora (non sono del giro) che l'ordine fascista dei giornalisti ha sospeso alcuni affiliati perché non si sono dotati della posta elettronica certificata. Si tratta di nomi prominenti: Mentana, di Telecinquestelle, Purgatori (idem), quello che i russi che invadono e bombardano l'Ucraina si stanno impegnando «a non spaventare la gente», e altri di spicco. 

Non so per quale motivo questi influencer della cosiddetta informazione si siano sottratti all'obbligo, gravante su pressoché tutti i professionisti, di dotarsi di un account di posta elettronica certificata: certo, se non ce l'hai eviti di ricevere notifiche delle citazioni per danni fatte da chi si sente danneggiato dalle cose che pubblichi, e il danneggiato è costretto a ricorrere alle scartoffie recapitate dal postino, che chissà quando arrivano e se arrivano. Ma magari la ragione non è quella. Quel che mi domando però riguarda altro, e cioè il fatto che quelle star del giornalismo continuano a fare esattamente quel che facevano prima di ricevere il provvedimento di sospensione: e allora sospensione da cosa? In pratica, da quel che si capisce, funziona così: se vuoi fare il giornalista devi essere iscritto all'ordine fascista dei giornalisti; se però sei sospeso, chissenefrega e continui come prima. 

E allora viene la seconda domanda: ma l'ordine fascista dei giornalisti che sospende un affiliato, e poi assiste alla perseveranza giornalistica del sospeso, non dice nulla? Se un avvocato, un medico, un architetto, chiunque, è sospeso, non è che continua a fare arringhe, a mettere giù progetti di ristrutturazione, a cavare denti o a maneggiare il bisturi. Invece il giornalista va avanti, bello come il sole, con le sue maratone, con i suoi speciali, con i suoi ettari di editoriali. Una sospensione per modo di dire, tipo il secondo mandato-bis degli schedatori della Casaleggio Associati. In un Paese decente dovrebbero farsi la Pec, e con quella dovrebbero scrivere un bel messaggio con cui comunicano la dimissione dall'ordine fascista dei giornalisti. E invece no, stanno senza, e l'ordine fascista se li legge e se li guarda dopo averli sospesi. È mica male, il sistema del giornalismo italiano. 

·        Enrico Varriale.

(ANSA il 18 gennaio 2022) E' stato aggiornato al prossimo 9 maggio il processo che vede imputato per stalking ai danni della sua ex compagna, il giornalista televisivo Enrico Varriale. Il procedimento si è formalmente aperto oggi davanti al giudice monocratico dopo che la procura di Roma ha chiesto ed ottenuto il rito immediato per Varriale. 

Nella prossima udienza, che si svolgerà a porte chiuse, verrà ascoltata la vittima. Presentate anche le liste testi: tra quelli ammessi, nell'elenco presentato dai difensori dell'imputato, anche la giornalista Rai, Paola Ferrari che verrà ascoltata in aula limitatamente ai fatti oggetto del processo.

Valentina Lupia Andrea Ossino per “la Repubblica” il 18 febbraio 2022.  

Un processo alle porte e uno all'orizzonte. La strada è in salita per Enrico Varriale. Oggi infatti inizia il processo in cui l'ex vicedirettore di Raisport proverà a difendersi dalle accuse di violenza nei confronti dell'ex compagna, che la scorsa estate lo ha denunciato dopo essere stata aggredita. 

Nel frattempo il giornalista è stato indagato per un'altra vicenda. E la polizia lo ha segnalato per due diversi reati: stalking e violenza privata. Il processo che inizierà oggi nasce dal rapporto tra Varriale e l'ex compagna, una relazione nata nell'ottobre del 2020 e, aveva raccontato la donna in un'intervista esclusiva a Repubblica, intervallata da alti e bassi. Poi, il 6 agosto, l'ex vicedirettore di Rai Sport, - si legge nel decreto che dispone il giudizio immediato - «durante un alterco per motivi di gelosia, la sbatteva violentemente al muro scuotendole e percuotendole le braccia, sferrandole violentemente dei calci».

E non sarebbe finita qui, perché avrebbe anche cercato di entrare in contatto con la vittima, minacciando anche di poter incidere su una collaborazione giornalistica della donna. Per questi fatti oggi inizierà il processo in cui l'accusa punta su un referto medico, tre diverse testimonianze, la denuncia della vittima e l'informativa in cui sono racchiuse telefonate e messaggi che il giornalista ha inviato assiduamente alla sua ex compagna. Il processo, però, si andrà a incastrare con una seconda vicenda che ha visto Varriale come protagonista: l'aggressione a un'altra donna, quella che aveva cominciato a frequentare dopo aver rotto con l'ex compagna. 

Tutto è cominciato l'8 dicembre del 2021, quando nel cuore della notte era arrivata una telefonata al 112. La nuova fiamma di Varriale, non riuscendo ad entrare in contatto con l'uomo, sarebbe andata nel suo appartamento sorprendendo il giornalista con un'altra donna. Ne sarebbe nata una discussione, terminata con un ceffone alla donna, che cadendo avrebbe sbattuto la testa, come conferma il trauma cranico refertato all'ospedale Gemelli. La donna ha detto di non ricordare molto, di aver perso i sensi e di essersi poi risvegliata con gli occhi arrossati e una strana puzza d'aceto.

Si è alzata, è andata in bagno e ha poi cercato di uscire di casa. Ma la porta era chiusa a chiave. Quindi ha chiamato il 112 scendendo poi in strada. Dopo essere stata soccorsa, ha denunciato. La donna ha poi ha integrato la querela dichiarando che Varriale avrebbe cercato di contattarla. Anche per interposta persona.

Da qui la nuova indagine. Il nome di Varriale ancora una volta è stato iscritto sul registro degli indagati: cosa che sulle spalle del giornalista pesa e non poco, visto che la seconda donna è stata ascoltata dalla polizia in tre occasioni. E in ognuna ha arricchito la denuncia con nuovi particolari e sviluppi che hanno portato gli agenti a segnalare il giornalista indicando due diversi reati. Inizialmente era stato segnalato solo per violenza privata. Poi anche per stalking. E adesso sarà la procura a indicare la strada investigativa da percorrere. 

Michela Allegri per "il Messaggero" il 19 gennaio 2022.

Prima udienza del processo a carico dell'ex vicedirettore di Rai Sport, Enrico Varriale, accusato di stalking e lesioni nei confronti della ex compagna. Ieri, in aula, il giornalista ha depositato la lista dei testimoni chiamati a difenderlo. Tra loro, c'è la giornalista ed ex collega Paola Ferrari. Ma la prossima udienza, che sarà il 9 maggio, si annuncia esplosiva: nel corso del processo, che si terrà a porte chiuse, verrà sentita la vittima. Nel frattempo, per Varriale la situazione si complica: nelle scorse settimane è stato segnalato dalla Polizia anche per un'altra vicenda, con le ipotesi di stalking e violenza privata.

Al centro del processo iniziato ieri, le presunte vessazioni alla ex compagna. Il giornalista è finito sul banco degli imputati con rito immediato, saltando la fase dell'udienza preliminare, ed è anche stato sottoposto alla misura del divieto di avvicinamento alla donna.

Il rapporto, iniziato nell'ottobre 2020, sarebbe degenerato per motivi di gelosia. Il 6 agosto scorso, come si legge negli atti, l'ex vicedirettore di Rai Sport, durante una lite, avrebbe sbattuto la vittima contro al muro con violenza, «scuotendole e percuotendole le braccia, sferrandole dei calci». Nel capo di imputazione si legge anche che alla donna sarebbe stato sottratto il cellulare e che, mentre lei cercava di recuperarlo, il giornalista l'avrebbe afferrata per il collo, procurandole lesioni. 

Agli atti, oltre a un referto medico e alla denuncia della donna, ci sono anche tre testimonianze - il portiere dell'appartamento in cui si svolse la lite, un amico e un'amica d'infanzia della vittima - e una collezione di messaggi inviati con insistenza e con toni rabbiosi. 

La donna, nella denuncia, ha parlato di atteggiamenti persecutori, insulti, minacce e botte. La versione di lei è che Varriale non accettasse la fine della relazione. Mentre lui sostiene che la donna fosse gelosissima. Dopo l'episodio del 6 agosto, però, il giornalista avrebbe continuato a cercare la ex, tempestandola di telefonate e messaggi e presentandosi anche a casa sua.

LA SECONDA LITE

La seconda inchiesta, invece, riguarda un'altra donna e un'altra presunta aggressione. In questo caso i fatti risalgono all'8 dicembre scorso. La nuova compagna di Varriale, non riuscendo a entrare in contatto con l'uomo, sarebbe andata nel suo appartamento sorprendendo il giornalista con un'amica. 

Ne sarebbe nata una lite furibonda: l'ex vicedirettore di Rai Sport avrebbe schiaffeggiato la donna che, cadendo, si sarebbe fatta male alla testa. Al policlinico Gemelli le è stato diagnosticato un trauma cranico non commotivo, con una prognosi di 4 giorni. Lei ha raccontato di avere perso i sensi e di essersi risvegliata con gli occhi arrossati e sentendo uno strano odore di aceto. Ha detto di avere chiamato il 112 e di essere andata in ospedale.

Nei giorni successivi ha aggiunto che Varriale avrebbe cercato di contattarla. La versione dell'uomo, difeso dall'avvocato Fabio Lattanzi, è diversa. Ha nuovamente sostenuto di essere vittima di una gelosia folle: «Alle 22.30 la donna con cui ho una relazione ha citofonato insistentemente. Successivamente ha cominciato a bussare alla porta di casa. Alla fine ho ceduto e le ho aperto.

È entrata e come una furia e, in preda a un raptus di gelosia, ha iniziato a distruggere tutto. Piatti, bicchieri, soprammobili, qualunque cosa le capitava sotto mano mi veniva tirata addosso e distrutta. Ho provato a bloccarla e ha cominciato a urlare: Non mi toccare, ti denuncio». Il cronista sportivo sostiene che la donna abbia poi afferrato il telefono e abbia chiamato la polizia e l'ambulanza.

Botta e risposta in aula sulle accuse nel processo per stalking a Enrico Varriale. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Maggio 2022.  

Secondo l'accusa il giornalista Varriale , «con condotte reiterate, ha molestato e minacciato la donna cagionandole un perdurante stato di ansia e paura e un fondato timore per la propria incolumità costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita».

La donna che lo scorso agosto ha denunciato il giornalista televisivo ed ex vicedirettore di Raisport Enrico Varriale finito a processo per stalking e lesioni, assistita dall’avvocato Teresa Manente, ha confermato le accuse davanti al giudice monocratico di Roma , è stata ascoltata oggi in aula nel corso di un’udienza a porte chiuse in cui ha ripercorso i fatti vissuti e denunciati nelle tre querele presentate contro il giornalista presente in aula.

La vittima sin dall’inizio della relazione, avrebbe riferito che il giornalista aveva un atteggiamento «controllante» che sfociava anche in aggressioni verbali fino poi alla violenza fisica denunciata ad agosto del 2021. La procura aveva chiesto e ottenuto il processo con rito immediato per l’ex vicedirettore di Raisport, sottoposto alla misura cautelare del «divieto di avvicinamento a meno di 300 metri dai luoghi frequentati dalla persona offesa» e di «non comunicare con lei neppure per interposta persona».

Nel capo di imputazione viene riportato l’episodio riferito allo scorso 6 agosto quando «durante un alterco per motivi di gelosia» ha aggredito la donna causandole lesioni con una prognosi di 5 giorni. Secondo l’accusa il giornalista Varriale , «con condotte reiterate, ha molestato e minacciato la donna cagionandole un perdurante stato di ansia e paura e un fondato timore per la propria incolumità costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita».

Dopo l’interruzione della relazione all’aggressione erano seguiti messaggi e telefonate, arrivando fino a «stazionare» sotto casa della vittima citofonando ripetutamente. «La mia assistita è stata estremamente attendibile perché precisa, circostanziata e chiara su tutti i fatti che ha denunciato di persecuzione e lesione – afferma l’avvocato Manente – Le sue dichiarazioni trovano conferma in tutti i numerosi messaggi ricevuti da parte di Varriale ad agosto e depositati al momento della querela». La donna è stata seguita dal Centro antiviolenza ‘Differenza donna’ la cui responsabile verra’ a testimoniare in una delle prossime udienze.

«Ritengo che la persona offesa abbia confermato quanto ha sempre affermato il mio assistito». Così ha affermato l’avvocato Fabio Lattanzi, difensore di Enrico Varriale in merito alla testimonianza resa dalla donna che ha denunciato il giornalista Rai per stalking e lesioni. «La narrazione» della parte offesa «ha evidenziato che c’è stato un solo episodio di violenza, refertato con soli cinque giorni di prognosi», ha aggiunto il difensore. «Nessuno stalking invece, tanto che la signora ha confermato di non avere mai chiesto di non cercarla più e di non mandarle messaggi. Devo inoltre dire che vi sono stati passaggi della deposizione, nei quali la persona offesa è apparsa davvero poco credibile e mi sono sembrate, infine, un po’ eccessive le cautele adottate: aula a porte chiuse e paravento».

Val.DiC. per “il Messaggero” il 10 maggio 2022.

Dopo aver convissuto insieme per mesi, si sono ritrovati in un aula di tribunale, separati da un paravento, per evitare ogni contatto: lui sul banco degli imputati accusato di stalking e lesioni personali, lei sul banco dei testimoni a raccontare delle presunte violenze verbali e fisiche subite. «Mi faceva paura, era irascibile», avrebbe dichiarato ieri davanti al giudice monocratico la ex del giornalista Enrico Varriale, confermando quanto riportato nelle tre denunce depositate in Procura. L'udienza si è svolta a porte chiuse, proprio per tutelare la vittima.

Secondo la ricostruzione del pm Maria Gabriella Fazi, l'ex vicedirettore di RaiSport avrebbe tormentato la donna con centinaia di telefonate e di messaggi, insultandola e minacciandola. In un'occasione risalente ad agosto del 2021, nell'appartamento di Varriale, in zona Ponte Milvio, l'avrebbe anche colpita con uno schiaffo poderoso, facendola cadere in terra priva di sensi.

«Se mi denunci ti ammazzo», le avrebbe urlato contro il giornalista. Lei racconta di essersi poi risvegliata, dopo quel mancamento, con gli occhi arrossati e una strana puzza d'aceto. Si è alzata, è andata in bagno e ha cercato di uscire di casa. Ma la porta era chiusa a chiave. È a questo punto che avrebbe chiamato il 112, lanciando l'allarme tra le urla e le minacce del compagno. Lo scorso settembre il giudice per le indagini preliminari Monica Ciancio ha ravvisato i reati e stabilito, per lui, il divieto di avvicinamento. Lui, a sua volta, si è difeso e in un'intervista dichiarando: «Lo so che ho fatto qualcosa che non dovevo fare. Ma so anche che non sono il mostro di Milwaukee... Mai le ho messo le mani al collo».

Ammessa fra i testi anche Paola Ferrari, conduttrice televisiva e collega di Varriale. «La mia assistita è stata estremamente attendibile perché precisa, circostanziata e chiara su tutti i fatti che ha denunciato di persecuzione e lesione - ha spiegato l'avvocato Teresa Manente - Le sue dichiarazioni trovano conferma in tutti i numerosi messaggi ricevuti da parte di Varriale ad agosto e depositati al momento della querela». 

Secondo la vittima lui non accettava di essere lasciato. Secondo Varriale invece è che lei era gelosissima. Nei confronti del giornalista la Procura di Roma aveva chiesto e ottenuto il giudizio immediato, e ieri si è tenuta la prima udienza.

«Ritengo che la persona offesa abbia confermato quanto ha sempre affermato il mio assistito», ha commentato l'avvocato Fabio Lattanzi, difensore di Enrico Varriale in merito alla testimonianza resa dalla donna. «La narrazione» della parte offesa «ha evidenziato che c'è stato un solo episodio di violenza, refertato con soli cinque giorni di prognosi», ha aggiunto il legale.

«Nessuno stalking invece, tanto che la signora ha confermato di non avere mai chiesto di non cercarla più e di non mandarle messaggi. Devo inoltre dire che vi sono stati passaggi della deposizione, nei quali la persona offesa è apparsa davvero poco credibile e mi sono sembrate, infine, un po' eccessive le cautele adottate: aula a porte chiuse e paravento».

·        Enzo Biagi.

Biagi Enzo da Pianaccio. Scomodo, commosso e vero. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 31 ottobre 2022.

Prima i lettori, poi i politici. Nella sua carriera grandi interviste e scoop si legavano a grandi “cacciate” da giornali e tv. Ultimo fu l’editto bulgaro. Pur avendo girato il mondo, nella sua Pianaccio, dove era nato, ritrovava sempre se stesso, fra amici e locande 

Per spiegare in breve e con un’immagine Enzo Biagi basta pensare a Pianaccio, paese di 40 anime scarse affogato nei boschi dell’Appenino emiliano. «Ho girato il mondo da cronista ma in fondo non sono mai andato via da Pianaccio» ripeteva, e ora sta scritto sulla facciata della casa delle visite del paese dove sono raccolti i ricordi del giornalista. Da Pianaccio ogni anno, da quando era bambino se ne usciva alla fine di agosto con distacco intatto e doloroso alla Promessi Sposi, Addio, monti… E poi, con una routine ritornante per tutta la vita, si buttava nel mondo goloso di notizie e di successo e ogni estate lì tornava a rigenerarsi, fra amici, famiglia e locande. Già da piccolo sapeva che avrebbe fatto il giornalista, un mestiere che, scrisse in un tema, era vendicatore di torti e ingiustizie, anche delle sue origini molto semplici. E in quel mestiere ha galoppato, cominciando al Resto del Carlino, conquistando a 30 anni la direzione di Epoca. Grande successo, formula innovativa – tanta cronaca per raccontare l’Italia del boom in accelerata trasformazione – ma ecco il primo intoppo, un articolo sugli scontri di Genova e Reggio Emilia nel 1960 contro il governo Tambroni e Biagi deve lasciare, su input del governo.

Libero pensatore

Altro giro altra corsa: in tv. Biagi diventa direttore del Tg1 e applica la sua formula: interviste, inchieste. Continuano le pressioni politiche. Si dimette nel 1963: «Ero l’uomo sbagliato al posto sbagliato: non sapevo tenere gli equilibri politici, anzi proprio non mi interessavano. Volevo fare un telegiornale al servizio del pubblico, non al servizio dei politici». Vicino alla gente, dalla parte dei lettori: meglio essere l’uomo sbagliato al posto sbagliato, che uomo per ogni stagione. Da direttore del Resto del Carlino durò un battito d’ali: non aveva soddisfatto abbastanza il ministro delle Finanze Preti. Trova casa al Corriere e collabora in Rai dove fa grandi interviste: Michele Sindona, Alberto Franceschini, Mu’ammar Gheddafi, ma anche Osho Rajneesh, Silvio Berlusconi, Mikhail Gorbaciov, Tommaso Buscetta, Antonio Di Pietro. Oltre 12 milioni di libri venduti, «con prosa regolarmente rapida, sapida, spesso tagliente, sempre incisiva. Si tratti anche del figuro più efferato, la sua capacità d’immedesimazione è tale da suscitare sempre in lui una commossa partecipazione, cui teme di cedere e di concedere. Mescolata all’inchiostro c’è sempre, nella penna di Biagi, una lacrima accuratamente nascosta» (Montanelli). Compassionevole ma capace di annunciare la mutazione antropologica che, da Craxi in poi, si stava abbattendo su Milano e l’Italia. Dal 1995 conduce il Fatto, striscia innovativa dopo il Tg1 sui fatti del giorno. Osannato dalla critica, osteggiato dalla politica. Fino all’editto bulgaro berlusconiano che denunciava «un uso criminoso della tv pubblica», per il quale Biagi chiuderà gradatamente con la Rai. Si consolava con gli amici al ristorante, ma ai sabati a colazione da Prospero, con Indro Montanelli, l’avvocato Vittorio D’Aiello, Lamberto Sechi, Ferruccio de Bortoli, era sempre più malinconico. Nel 2007 torna in tv con Rt Rotocalco televisivo, Rai3. Per poco. Morirà il 6 novembre a Milano. E torna a Pianaccio, stavolta in autunno.

·        Ettore Mo.

Ettore Mo, 90 incredibili anni: gli esordi come barista, i viaggi, i reportage di guerra. GIAN ANTONIO STELLA su Il Corriere della Sera il 31 marzo 2022. 

Dai primi pezzi scritti per gli spettacoli alle leggendarie corrispondenze dai fronti caldi: ritratto di un inviato speciale, in un giorno altrettanto speciale, quello del suo compleanno, che cade il primo aprile.

«Ciao Fo». «Ciao Mo». Quando si trovò tra le mani la fulminante chiusa dell’intervista, ci fu chi sollevò il sopracciglio e andò diritto dal direttore sbuffando come il poeta Carlo Porta in uno dei suoi endecasillabi: «Se pò nò, se pò nò!», non si può! Al che Piero Ottone, dice la leggenda, scoppiò a ridere: «Lo so che vige la regola di evitare i personalismi, ma quando ci ricapita?». Aveva ragione. Era un incontro più unico che raro. Di qua c’era un formidabile teatrante, attore e scrittore che anni dopo avrebbe vinto il Nobel per la letteratura. Di là un cronista in ascesa degli spettacoli (memorabile l’intervista ad Arthur Rubinstein cui chiese quale fosse il segreto dei suoi successi con le donne e lui rispose: «Le adoravo, semplicemente: e le donne adorano essere adorate») che di lì a poco sarebbe diventato forse il più grande inviato di guerra (e non solo) degli ultimi decenni.

Dicono tutto certi straordinari incipit dei suoi reportage. Come il primo dall’Afghanistan, dopo cinquecento chilometri a piedi coi mujaheddin in guerra coi russi: «Mawli Bismilha passava per uno dalla mira infallibile, dicevano che avrebbe fulminato un passero a trecento metri: ma i tre soldati russi che montavano di sentinella, quella sera, sul ponte di Jalalabad, non lo sapevano, e quando sono risuonati i tre colpi sono andati giù come birilli, dietro il parapetto». O la denuncia dell’immonda strage israeliana nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila dov’era riuscito a arrivare per primo: «La bambina (tre o quattro anni) è come accartocciata sopra una pietra, la testa nella terra, uno squarcio nel braccio sinistro da cui esce una materia nera, strisce di sangue non ancora seccato sulle gambe nude e sui piedini. Accanto alla testa c’è un piede di donna, con le unghie smaltate di rosso...». O ancora il primo impatto con l’Iran dopo la rivoluzione khomeinista: «L’ayatollah imperversa, non dà scampo in questi giorni. Ti aspetta alla frontiera e, appena dentro, ti viene incontro dal muro, con le sue pupille nere folgoranti. Vuol subito sapere — è chiaro — da che parte stai o stavi. E guai alle bugie, non le tollera. Se poi giri le spalle credendo di liberartene, ne scorgi immediatamente un altro sulla parete opposta, più minaccioso e arcigno...».

Per capire come Ettore Mo passò dai set cinematografici con Lisa Gastoni agli incontri nella giungla colombiana col capo dei guerriglieri delle Farc Manuel «Tirofijo» Vélez, dagli annuali appuntamenti al Festival wagneriano di Bayreuth ai bui rifugi sotterranei zeppi di topi del ceceno Džochar Dudaev accusato di «aver fatto di Grozny la capitale dei gangster», per poi sfociare in strepitosi reportage come quello sui fiumi più solenni del pianeta o la sfida grandiosa tra il condor e il toro sulle vette del Perù, occorre però partire dall’inizio. Quando Ettorino, figlio di un falegname, prese una sbandata per i libri d’avventura e gli idrovolanti che si levavano dalla spiaggia «per raggiungere un’altra parte del mondo, sconosciuta a noi bambini».

Giusto il tempo di prender il diploma di maestro elementare e tirar su qualche soldo come supplente e si iscrisse a Ca’ Foscari, a Venezia: Lingue e letterature straniere. Ma come mantenersi? Trovò un lavoro part time in un istituto padovano per ragazzi non vedenti («Uno cieco dalla nascita mi chiese: «Profesor, come xè un treno?») dei quali cercava di alleviare l’infelicità animando partite a calcio sul cortile di cemento con un barattolo di latta («lo rincorrevano seguendo il deng-deng e tra una zuccata e l’altra si divertivano da matti») e portandoli una sera, dopo un concerto, a fare visita a certe signorine allegre e pie che incoraggiavano i timidi in un coro di «toca, toca!».

Non si laureò, ma le lingue le imparò davvero. E dopo aver passato più estati a fare il barista al Tartar Bar sull’isola di Jersey, decise di ripetere l’esperienza facendo pratica anche col francese come sguattero-cameriere «in un ristorante di place de La Sorbonne che si chiamava Saint-Bernard per via di un cagnone dal manto bianco pezzato che scodinzolava fra i tavoli». Ma quelli furono solo i primi lavori. Proseguì infatti facendo, tra gli altri, il bibliotecario ad Amburgo, il maestro di francese per i bambini del collegio «Nuestra Señora de las meravillas» a Madrid, il «cantante napoletano» a Stoccolma («Avevo studiato lirica per qualche anno e “messo in gola“, come si dice in gergo, due o tre spartiti del repertorio lirico leggero») e ancora più a nord a Piteå, a duecento chilometri dal circolo polare artico. Per tornare infine in Inghilterra, a fare l’inserviente al Royal Hospital di Putney Hillin, un ospedale per incurabili: «Chi c’era aspettava solo di morire. Dovevo rifargli il letto, imboccarlo, mettergli il catetere. Ci restai quattro mesi, aspettando il momento di partire per girare il mondo. Volevo vedere, conoscere, scrivere. Insomma, volevo fare il Conrad».

Fu così che finalmente riuscì a imbarcarsi come cameriere di prima classe («scrivi stuart») sul transatlantico «Orsova». «L’itinerario era fantastico: Gibilterra, il Canale di Suez, l’India, Ceylon; e poi l’Australia, la Nuova Zelanda, le Fiji, e su su, nel Pacifico, fino a Hong Kong, il Giappone, le Hawaii; quindi giù giù la California, il Messico, l’istmo fatato di Panama, il Mar dei Caraibi e di nuovo l’Atlantico, fino a Londra».

Quanto rientrava sul Tamigi portava dei racconti di viaggio a Piero Ottone, allora corrispondente del «Corriere». Ripartiva e aspettava. Finché un giorno gli arrivò la risposta. Indimenticabile: «Caro Mo, ho letto i suoi reportage. Credo che lei sia persona atta a fare questo mestiere». Atta. L’ultima notte da marinaio, dopo avere smaltito una sbornia colossale con l’equipaggio sulla panchina di un commissariato con un Bobby che sarebbe diventato suo grande amico, si mise il vestito buono e si presentò. Era il 10 giugno 1962: «Il capo, nella scia di Ottone, era Alfredo Pieroni, sotto c’era Pietro Sormani e poi c’ero io: il vice del vice del vice. I miei pezzetti non venivano neanche siglati. Ci mettevano sotto una V maiuscola, col punto: “V.” Per cinque anni sono stato il milite ignoto del “Corriere”».

Rientrato in Italia per gli esami da professionista, si beccò altri cinque anni da milite ignoto in uno stanzino del «Messaggero»: «Cinque anni senza scrivere una riga. Non ci facevamo la guerra, anzi: ero lì solo per tappare i buchi e leggere ai colleghi di via Solferino i titoli che pubblicava il giornale di Roma». Un giorno, timidissimo, chiese all’allora direttore Giovanni Spadolini se per favore, dato che aveva fatto per anni il «terzo» a Londra e conosceva varie lingue, potesse essere utile a «fare qualche didascalia agli esteri». Fu gelato: «Mo, un po’ di umiltà». Lui, il futuro presidente del Senato, aveva una stazza fisica e culturale immensa, Ettore era un metro e 57 e uscì con il morale a pezzi. Pochi anni e sarebbe diventato nelle sue eccellenze («Il “Corriere” toglie e dà», ha sempre detto legatissimo al suo giornale) il più bravo di tutti. Amatissimo. Oggi, primo aprile, compie novant’anni. Grazie.

·        Fabio Caressa.

Candida Morvillo per il Corriere della Sera il 10 novembre 2022.

Fabio Caressa e Benedetta Parodi sono appena tornati da un «weekend» in Franciacorta fatto di lunedì e martedì. A casa loro, i «weekend» sono infrasettimanali perché la domenica lui ha sempre le telecronache delle partite su Sky; in più, a qualunque ora del giorno, anche alle quattro del pomeriggio, si può trovare la tavola imbandita con stinco alle mele o tacchino ripieno perché lei le ricette per i suoi libri, venduti in tre milioni di copie, le prepara nella cucina di famiglia. In questo periodo, però, «si mangia in modo altalenante», confessa Benedetta, «quando conduco Bake Off, sto sul set fino a sera e a casa non cucino». Marito e tre figli vedono i suoi manicaretti giusto su Real Time il venerdì sera. 

Quest' estate, mentre scoppiavano coppie storiche come Totti e Blasi, Amendola e Neri, Marcuzzi e Calabresi Marconi, Benedetta e Fabio festeggiavano i 23 anni di matrimonio. 

Primo incontro alla mensa di Telepiù, che poi diventerà Sky, anno 1997, 29 anni lui, che cominciava a essere la voce del calcio, 25 lei che iniziava da giornalista di cinema e, oggi, quando qualcosa l'annoia a morte, dice «mi annoia come una partita di calcio».

Nessuno dei due resta colpito dall'altro. Lui: «Benedetta aveva i capelli nerissimi, le unghie blu con le stelle, mi sembrò un po' dark». Lei: «Io vivevo un periodo di allegria, non volevo una storia». Poi, Benedetta cominciò a far doppiare a Fabio le interviste degli attori americani (lei: «Avevano tutti la stessa voce e la erre moscia»). 

Primo passo avanti?

Fabio: «L'ho invitata al cinema».

Benedetta: «Ma no: lo invitai io, ma solo perché avevo sempre bisogno di persone che mi accompagnassero a vedere i film su cui lavoravo. Il film era Romeo e Giulietta con DiCaprio, Fabio venne solo perché aveva altre mire».

Fabio: «Ressi solo perché venivamo da tre ore di aperitivo, ero quasi svenuto. Ci abbiamo messo un mesetto per capire cosa volevamo e, dopo 10 giorni, vivevamo insieme».

Benedetta: «In realtà, andai ad abitare da lui solo perché vivevo con due studentesse, era estate, dovevamo lasciare la casa, dissi: mi fermo un paio di mesi da te».

Fabio: «Ho chiuso la porta e non l'ho fatta più uscire». 

Che cosa l'aveva conquistata?

«Benedetta ha un'aura di luce bianca che la circonda e che trovo irresistibile. Ce l'ha ancora, è impossibile non vederla».

Benedetta: «Siamo diversi, lui tumultuoso, impulsivo, vulcanico, io tranquilla, più pacata: ci compensiamo, ci siamo trovati come due pezzi di un puzzle». 

Fabio: «È appena uscito per Sperling & Kupfer il mio libro Grazie Signore che ci hai dato il calcio, dove c'è anche il racconto del mio trentesimo compleanno: avevo preso due aerei per fare la telecronaca di Borussia Dortmund-Bayern Monaco, presi il terzo per cenare con Bene e all'indomani alle sei dovevo riprendere un aereo. 

Erano i nostri primissimi tempi, lei non era ancora convinta, io speravo nei fuochi d'artificio dopo cinema e cena all'indiano. Invece, l'accompagno a casa alle tre di notte e mi fa vedere Pinocchio della Disney». 

Il momento di svolta?

Fabio: «Quando abbiamo comprato casa, a novembre 1998. A capodanno, abbiamo fatto una festa spettacolare nelle stanze vuote, che ha dato l'impronta al tipo di famiglia che saremmo stati: da noi, è un porto di mare». 

Benedetta: «I ragazzi portano amici in continuazione, è una casa piena di scambi, gioia, energia. L'altro giorno ne abbiamo avuti a dormire undici? Quattordici?».

Fabio: «Hai fatto tre turni di colazione: chi ordinava i pancake, chi scrambled eggs. Di figli ne volevamo tanti, veniamo dallo stesso tipo di famiglia: tutti i nostri fratelli hanno tre figli. Comunque, in quel Natale 1998, le avevo regalato anche l'anello di fidanzamento». 

Come fu la proposta di matrimonio?

Benedetta: «Una cosa pragmatica. Vivevamo insieme, lui diceva sempre "dai, sposiamoci" e io "ma no". Poi un giorno, ho risposto: Ok, dai».

Quanto poco siete romantici?

Fabio: «Meno di me è impossibile, ma sono l'unico che può battere Benedetta. Non siamo quelli che guardano il tramonto e si dicono "amore", siamo quelli che guardiamo il tramonto facendo l'aperitivo con 25 amici». 

Chi dice più spesso «ti amo»?

Fabio: «Questa è facile: io, uno a zero. Non è una partita impegnativa».

Benedetta: «Tutto il nostro romanticismo l'abbiamo consumato alle Maldive: tre anni fa, per il ventesimo anniversario, abbiamo rinnovato la promessa di matrimonio insieme ai figli. È stato bello rivedere il nostro sì attraverso gli occhi dei ragazzi. Eravamo partiti prendendola a ridere, invece, là, eravamo tutti commossi, i ragazzi piangevano, ridevano, è stata un'emozione fortissima». 

Un altro momento indimenticabile?

Fabio: «Quando io divento talmente disordinato che rendo la vita impossibile a tutti. Ci sono momenti in cui posso lasciare gli Ipod in frigo. Beppe Bergomi, con cui condivido tante trasferte, se in albergo lo invito in camera, risponde: per carità, avrai fatto esplodere la valigia. Sono un disordinato patologico. Benedetta non si arrabbia, s' infuria. Ed è pure gelosa delle sue cose, se le tocco un caricabatterie, rischio la vita, potrebbe assoldare un killer».

Per cos' altro litigate?

Benedetta: «Non abbiamo mai avuto grandi crisi e non siamo neanche gelosi. Magari discutiamo perché sui figli io sono più permissiva». Fabio: «La chiamiamo la mamma di carta. Il poliziotto cattivo sono io».

Benedetta: «Però, abbiamo cresciuto figli bravissimi, più consapevoli dei pericoli di quanto lo fossimo noi e le due ragazze grandi, Matilde ed Eleonora, sono molto indipendenti e con la testa sulle spalle». Diego, 13 anni, si chiama come Armando Maradona? Fabio: «Ovvio». Benedetta: «Come Don Diego de la Vega di Zorro».

Fabio «Comunque, se litighiamo, magari lei mi tiene il muso, io non ne sono capace. Per me, funziona così: hai problemi, ti arrabbi, se necessario urli e, dopo cinque minuti, è finito tutto». 

Su che cosa, invece, andate d'accordo?

«Benedetta: «Nel tenerci l'un l'altro coi piedi per terra: l'abbiamo fatto dopo i suoi Mondiali o quando, per me, dopo aver lasciato la conduzione di Studio Aperto, è arrivato il successo di Cotto e Mangiato».

Fabio: «La parola chiave era: sgasati. Se uno tende al divismo, l'altro lo tira subito giù». 

Alla fine, qual è il segreto per durare felici 25 anni?

Fabio: «Accettare gli spazi di libertà dell'altro, rispettare le sue passioni, condividere problemi e valori. Le coppie vanno avanti se riescono a parlarsi e affrontare subito i problemi, altrimenti una cosa piccola diventa un mostro. In questo, io sono cintura nera».

Regole di casa Caressa?

Fabio: «Abbiamo fatto il patto del pigiama, mai stare in pigiama o in tuta. Ora, lei la tuta la mette. Allora, la metto anche io, poi mi guardo, mi faccio schifo, la tolgo e la abbandono per terra».

Da derbyderbyderby.it il 2 settembre 2022.

Il racconto shock di Fabio Caressa: “Chi vive a Roma sa benissimo quanto vale il derby. Dico solo che io ero presente al derby che è stato sospeso e ho detto tutto, quella sera mi sentivo in un film tipo Apocalypse Now. C’erano i tifosi in campo e girava la voce che era morto un bambino, una notizia falsissima, io e Beppe non dicemmo nulla perché così si fa in quelle occasioni. Mi hanno pure menato a un derby quando lavoravo per TeleRoma56, mi hanno gonfiato di botte".

Era il primo derby dopo il ritorno della Lazio in Serie A, fine anni ’80, ero con una troupe e girava voce tra i tifosi che la polizia girasse con delle telecamere per riprendere i tifosi. Gli ultras andavano in giro con le parrucche. Io ero fuori dallo stadio e arriva un omone enorme con parrucca e occhialoni per non farsi riconoscere che urlava “Siete spie!”. Io ho provato a dirgli che stavo facendo solo il mio lavoro, ma mi hanno gonfiato. Adesso rido ma all’epoca mica tanto“.

Fabio Caressa: «Prima delle telecronache caffè e fichi secchi. Parodi? La conobbi alla mensa Sky». Giovanna Cavalli su Il Corriere della Sera il 12 Agosto 2022.

Il giornalista torna in tv con il suo «Sky Calcio Club», in onda da domenica 14 agosto. «Bergomi è un fratello, gli affiderei la mia vita» 

Una figuraccia in diretta l’avrà pur fatta.

«Urca. Derby Roma-Lazio. Corner per i giallorossi. Rete. Grido come un pazzo nel microfono: “Bà-ptista! Juuulio Baptistaaaa, Baptista goool!”. Il guaio è che quel giorno avevo una postazione troppo bassa e dei giocatori, in quel momento vedevo soltanto le gambe. Non era il brasiliano ad aver segnato, ma Mirko Vucinic in calzamaglia nera, volevo sprofondare».

Però un secondo dopo sarà tornato carico a pallettoni, Fabio Caressa, 55 anni, conduttore e telecronista di punta, insomma «The Voice» di Sky Sport — in coppia di fatto da 23 anni con “Zio” Giuseppe Bergomi — quello della gioia mondiale di Berlino 2006 («Abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene») e delle lacrime piante per l’Italia che con i rigori espugna Wembley a Euro 2020. Domenica 14 agosto, alle 22.45, primo weekend lungo di campionato, torna con il suo Sky Calcio Club . «E dopo un anno di pausa, perché per l’entusiasmo rischi di andare sopra le righe, riprendo le telecronache di Champions o Europa League». Nel frattempo è sempre più social: 391 mila follower su Instagram, 150 mila iscritti in 7 mesi al canale YouTube, a botte di 10 milioni di visualizzazioni, roba da correre a prendersi un tè caldo (o freddo, semmai), come nel più classico dei suoi tormentoni.

E a volte le si sarà intrecciata la lingua.

«Eh. C’era un giocatore tedesco del Friburgo: tal Schwarzenopfeker, impronunciabile. Mi imballai alle prime sillabe: “Schwaz…Schwanz… Schwap…”. Ripresi fiato. “Beh, diciamo che quando questo qui smetterà di giocare noi telecronisti saremo più contenti”, conclusi».

A 5 anni, sulle spalle di papà, sbirciava dalla finestra di casa, verso lo stadio Olimpico.

«Per leggere sul tabellone i risultati dei primi tempi. Per Roma e Lazio si capiva già dalle urla».

Prime prove di telecronaca?

«Ore davanti al Subbuteo, con mio fratello Maurizio e il mio amico Pietro. Il calcio è sempre stata la mia passione. Si giocava per strada, ai giardinetti. A scuola scambiavo le figurine».

Caressa: «La telecronaca è pura emozione»

«Grazie ragazzi, è stato bellissimo»: le lacrime di Caressa dopo la finale degli Europei

Ruolo prescelto in partitella?

«Laterale alla tedesca. Tecnica scarsa, gran corsa».

Prometteva bene?

«Un pippone. Non posso nemmeno dire che purtroppo mi sono fatto male al ginocchio, perché il ginocchio era sanissimo, non ero proprio bono, manco in eccellenza».

A scuola invece un super-secchione.

«Ho preso tutti 10, ottimo, poi 60 e 110. Pretendevo il massimo da me stesso».

Dava ripetizioni di latino e greco ai compagni di liceo.

«Ed ero più piccolo di due anni. “Non vi insegnerò le lingue, ma vi farò prendere dei bei voti”, promettevo. Funzionava, alle interrogazioni facevano la loro figura».

Primo lavoretto a 16 anni: collaboratore della rivista «Cioè», un cult tra gli adolescenti.

«Scrivevo interviste con personaggi famosi, descrivendo l’incontro, che so, con Tony Hadley degli Spandau Ballet o con Simon Le Bon dei Duran Duran, ovviamente tutto inventato, però mi pagavano 50 mila lire, buttale via».

Soldi spesi per...?

«Per portare le ragazze a cena al ristorante, invece che in pizzeria, spesso con scarsi risultati».

Rimorchione?

«No, sono di tendenza monogamo, un po’ per evidenti limiti fisici, un po’ per timidezza. Ho avuto solo fidanzamenti lunghi, tranne nel periodo prima di mettermi con Bene».

Benedetta Parodi, l’Angelo dei Fornelli, conosciuta nel 1997 e sposata 23 anni fa, l’11 luglio del 1999. Disse: «Incontrarla è stata la mia più grande fortuna». Lo pensa ancora?

«Alla grandissima, mi ha cambiato la vita». 

Primo impatto?

«Alla mensa di Sky. Aveva lo smalto blu alle mani, era simpatica, matta quanto basta. Poco tempo dopo la invitai al cinema. Rispose che voleva giusto vedere Romeo e Giulietta con Leonardo DiCaprio, mi sarei ammazzato. Andai, dopo un lungo aperitivo alcolico. All’intervallo volevo già morire, però giurai che era il film più bello che avessi mai visto».

Com’era la sua vita prima di lei?

«Io vedevo il buio, Bene mi ha fatto vedere la luce, ero convinto di dover sempre combattere e lottare, invece lei mi ha insegnato a sorridere, a essere persino ottimista».

In cosa invece non è riuscito a cambiarla?

«Ero e resto l’uomo più disordinato del mondo, vincerei la Champions del caos. In albergo secondo Beppe faccio brillare la valigia al centro della stanza, che diventa invivibile per chiunque tranne che per me. Quasi ogni giorno mi presento da mia moglie disperato: “Bene, aiuto, ho perso il portafoglio”. “Tranquillo, l’avrai messo chissà dove”. Una volta lo ritrovai nel frigo».

Su, Benedetta avrà un difetto anche lei.

«Non sopporta che si tocchino le sue cose. Se le sposti il caricabatterie, si arrabbia da matti».

Su Instagram ballate i Gipsy Kings.

«Anni fa mi trascinò ad un corso di latino-americano, con esiti così così, perché voleva condurre anche lì, come nella vita».

Disordinato pure sul lavoro?

«Nooo, precisissimo, svizzero. Mi porto dietro trenta pagine di appunti sui giocatori in doppia copia, poi magari non le leggo. E sono puntuale, una rarità, per un romano».

Qualcosa può sempre andare storto.

«A una partita di Coppa America in Argentina, due ore prima del fischio di inizio, in postazione non c’erano né cuffie né microfono. Alla fine arriva il tecnico, con una scatola di legno, due pulsanti e un’antenna, collegata a un’altra su un camioncino. Ovviamente non funzionava. Abbiamo fatto la telecronaca con un telefono».

O ancora?

«A volte è saltato il monitor, per cui commentavamo le immagini senza vedere quale replay stavano mostrando».

Debutto in telecronaca?

«Cesena-Lazio nel 1987 per TeleRoma56. Devo dire sempre grazie a mio padre che mi iscrisse al corso di Michele Plastino».

Prima di andare in onda digiuna sette ore.

«Solo caffè zuccherati a bomba. Acqua, poca. E qualche fico secco per la glicemia, come mi consigliò Josè Altafini».

Non mangia nemmeno all’intervallo?

«Scherza? La cosa che controlli di più è la posizione del bagno, hai quattro minuti al massimo o sei finito, io e Beppe studiamo logistica e percorsi. Se scappa durante il match, te la tieni».

E se fa freddo?

«Come un anziano spesso mi metto il plaid di pile sulle gambe, tanto non si vede».

Lei e Bergomi siete inseparabili.

«Una fratellanza assoluta. Lui molto lombardo, io il tipico romano, eppure tra noi c’è comunanza di anime. Ci conosciamo come nessuno. Io so che lui odia il formaggio e al ristorante avviso il cameriere, lui mi toglie le briciole dal maglione. Quando lavoriamo c’è simbiosi totale, stiamo incollati anche per 40 giorni, ma fuori ci vediamo pochissimo. Beppe è l’uomo migliore al mondo, gli affiderei la mia vita». 

Ve ne sono capitate di tutti i colori, tant’è che ci sta scrivendo un libro.

«In Germania, nel 2006, Beppe non so come si ritrovò in un albergaccio. Il tizio alla reception gli chiese: ”Lei è davvero Beppe Bergomi? Allora non è possibile che le abbiano prenotato questo posto, lo guardi bene”. Lui si girò: c’erano persone che cucinavano con i fornelletti fuori dalla stanza. Scappò via come un razzo».

Ti credo.

«In Sudafrica, il taxi che ci accompagnava in hotel uscì da Port Elizabeth e imboccò una strada di campagna. Ci lasciò davanti a una catapecchia con la piscina rotta. Salimmo in stanza. La porta sbatteva contro il letto, tanto era piccola, per aprire la finestra occorreva montare sul materasso. E non c’era il bagno. Vidi Beppe che attraversava la sala della colazione: nudo, con l’asciugamano in vita, sacramentando, mentre cercava i bagni comuni per fare la doccia».

Che ricorda di quella notte magica del 9 luglio 2006?

«Tutta la partita, minuto per minuto. Dopo, mentre aspettavamo il pullman per Duisburg, 12 ore di viaggio, mi imbucai a un party e rubavo bottiglie di champagne da portare ai miei amici. Mi fermarono: “Lei che ci fa qui?” Risposi: “Sono campione del Mondo e non mi frega niente”».

Colleziona mug, le tazzone da caffè.

«Oltre 200. Quella che se si rompe faccio una tragedia è di Dart Fener, Guerre Stellari».

Benedetta la lascia cucinare, ogni tanto?

«Sì, ma mi sorveglia. Sono bravo con amatriciana e carbonara, i dolci invece non mi vengono mai, bisogna essere troppo precisi».

Ha una fissa per i capelli.

«Balsamo tanto, sempre, li asciugo all’aria, pure d’inverno, li pettino con cura».

E la passione del cachemire.

«Mi indottrinò Gianluca Vialli: meglio un capo solo, ma bello, anziché tre modesti».

I suoi veri amici, nel calcio?

«Lui, Ale Del Piero, Buffon, Allegri, Gattuso, Gasperini, Spalletti, con cui pure ho discusso.

Tre figli, Matilde, Eleonora e Diego.

«Cerco di lasciarli liberi, però mi piace averli intorno. Sono bravi. Gli abbiamo insegnato il bello della famiglia, l’unità, la voglia di aiutarsi, il rispetto per il prossimo, anzi, tante cose le imparo ogni giorno io da loro».

Diego come Maradona?

«Per me. Per Bene invece come don Diego de la Vega, Zorro».

·        Fabio Fazio.

Da liberoquotidiano.it il 20 ottobre 2022.

"Ci posizionarono nel weekend, alle 20.10, contro il Tg 1. Quasi una punizione. Ci siamo conquistati tutto": Fabio Fazio si confida col settimanale diretto da Carlo Verdelli, Oggi. Il conduttore, in particolare, parla della sua trasmissione, Che tempo che fa, che quest'anno spegne ben venti candeline. "Non ci pensi mai a quanto durerà", spiega il giornalista. 

Fazio, poi, ripercorre le interviste e gli ospiti più importanti del programma, quelli da lui definiti i più "deliziosi, empatici, generosi", come Lady Gaga. Ma non solo. Ci sono stati anche gli ospiti più gelidi, come Madonna. A chi lo accusa di non fare troppe domande, lui replica: "Una vecchia accusa… Di solito arriva da giornalisti che quando scrivono le interviste cambiano la domanda fatta per farla apparire più tosta". Poi aggiunge: "La tv è cambiata. È cambiato il mondo. Bisogna ripensare la tv generalista. Dovrebbe fare aggregazione, rappresentare l’identità di un Paese".

Parlando degli attacchi politici, il conduttore dice: "Il fatto di essere liberi lo si vede in quelle circostanze, perché non sei difeso da nessuno". Poi, riferendosi ai dirigenti Rai: "Quando la politica è aggressiva è difficile che qualcuno si schieri dalla tua parte, sarebbe ingenuo aspettarselo. C’è solitudine". A seguire un esempio: "L’intervista di Macron all’Eliseo. L’Italia era in crisi con la Francia, Di Maio era andato dai Gilet Gialli, la Rai era schierata. Pareva che avessi parlato con un nemico del popolo. Credo che quell’incontro mi sia costato la fine della permanenza su Rai 1". Infine: "Non ho più l’ansia del domani. C’è questa stagione, poi finisce il mio contratto, vedremo".

Il sorriso (infido) del potere. Quello che la tv è "roba" mia. Luigi Mascheroni il 29 Agosto 2021 su Il Giornale. Intelligente, astuto, mellifluo: è il simbolo della "medietà". Né caldo, né freddo, è il tiepido di cui tutti hanno bisogno. Provate a vivere in una casa che ha sempre e solo acqua calda. O sempre e solo acqua fredda. Alla fine sarete disposti a qualsiasi cosa pur di avere l'acqua tiepida. Ed ecco spiegato lo straordinario successo di Fabio Fazio. Mai troppo caldo, mai troppo freddo, sempre gradevolmente moderato, sobrio, cioè tiepido - diminutivo: tiepidino, peggiorativo: tiepidastro, sinonimi: democristiano Fabio Fazio non sopporta i sensazionalismi. Mai un «di più», mai un «di meno». La somma è sempre zero. Ma in televisione il risultato è un'eccellente carriera. Carriera eccellente, lunga quarant'anni, debutto nel 1982, su Radio Vecchia Savona, per dire la sua predestinazione al nuovo, e 50 programmi televisivi tondi tondi e di successo - da Pronto, Raffaella?, Rai 1, 1983, alla nuova edizione di Che tempo che fa, su Rai 3, si riparte tra qualche settimana, speriamo che piova... - Fabio Fazio, 57 anni e la sindrome di Benjamin Button, ogni anno che passa dimostra una puntata di meno, è il meteorologo della tv. Nel senso che fa il bello e il cattivo tempo. Conduttore così così ma produttore formidabile, con una smania di potere inversamente proporzionale ai modi suadenti, «FazioFabio» decide tutto: programmi, reti, fasce orarie, ospiti, e soprattutto i contratti, fedele al detto: «Peggio di un brutto programma c'è solo un agente mediocre». Cast, cash e Caschetto. Del resto, l'uomo di spettacolo medio è di sinistra. Almeno crede. Il problema (per noi) e la fortuna (per lui) è che la televisione italiana è su misura di Fabio Fazio. Alla domanda: «Cosa ti aspetti da un programma di prima serata», la risposta è mediocritas. Termine latino che non ha il valore dispregiativo dell'italiano «mediocrità», ma significa semmai «stare in una posizione intermedia» tra l'ottimo e il pessimo, tra il massimo e il minimo, tra Belén e la Littizzetto, rifiutando qualsiasi eccesso, sempre inseguendo il «giusto mezzo». Da cui l'espressione «mezzo televisivo», appunto. Campione assoluto della medietà meglio di una polemica c'è solo una mezza polemica, piuttosto che fare domande meglio aspettare le risposte - Fazio Fabio, educatamente, garbatamente, qualunquemente, all'infotainment ha sempre preferito il gentlemen agreement. Che bisogno c'è di litigare? Regola numero uno del bravo conduttore: «Entrare nelle case degli italiani in punta di piedi». Che se poi s'accorgono che sei nel loro salotto, ti prendono a calci nel culo. Fortunato, professionale, gentile, intelligente (molto intelligente) e astuto (molto astuto), Fabio Fazio falsi sorrisi e autentico figlio della propria terra - è un ligure e un savonese perfetto. Dei primi ha l'oculatezza, l'insofferenza per lo spreco (se il ticket della sosta scade tra un euro, piuttosto aspetta in macchina) e la brama di accumulo (vero latifondista della televisione, dove tutto è «roba» sua, tra Savona, Celle, Varazze e Milano negli anni ha accatastato terreni, uliveti, case di pregio, ville, garage e un petit appartement a place Vendôme a Parigi). Dei secondi la predisposizione alla doppiezza, l'inganno, la dissimulazione. Non per caso Fabio Fazio toni suadenti in onda, pugno di ferro dietro le quinte ha debuttato nel mondo dello spettacolo, ben prima di infilare la corrente ideologica che lo avrebbe portato ai massimi picchi dello share, come imitatore. Era già allora bravissimo a fare Bruno Vespa. E infatti non si sono mai sopportati. Considerato insopportabile dal 50 per cento dell'Auditel e insostituibile dal 100 per cento dei direttori di rete, Fabio Fazio - dal lat. factiosus, der. di factio-factionis, «fazione», in part. politica - ha colonizzato la televisione degli anni Ottanta, Novanta, Duemila e Duemiladieci senza mai cambiare neppure quelle strisce di liquirizia che mette al posto delle cravatte, al massimo facendo crescere un pizzico di barbetta. Da cui il detto ligure A barba canua, a fantinetta a ghe sta dua, «Da chi ha la barba bianca, la fanciulla stia in guardia». Fedele al video ancor più che a Nostra Signora della Consolazione di Celle Ligure, sua parrocchia di riferimento, Fazio è più presente in televisione del monoscopio. Che non c'è più, peraltro. Ma lui c'è sempre, da sempre: televisioni locali è suo, ben prima delle note antipatie berlusconiane, il programma sportivo stracult Forza Italia su Odeon TV, stagioni 1987-1990 da Montecarlo a La7, mai un piede in Mediaset - il suo main sponsor, il Pd, non avrebbe gradito - ma in compenso tutte e tre le reti Rai e persino quattro edizioni del Festival di Sanremo. Che, a riprova dell'eccellenza del suo low profile, nessuno si ricorda che ha condotto. Ma neppure questo è un problema, poiché gli ascolti gli danno ragione. Fabio Fazio in carriera ha avuto più Telegatti che ospiti in studio. Soft speaking, prime time e secondi fini. Aldo Grasso una volta sentenziò: «In tutti i programmi a cui ha preso parte, ha confermato di avere la rara capacità di trasformare in meglio le persone a contatto con lui». Ha ragione. A discapito della propria, fa sempre fare a tutti una splendida figura. Fugassa, gobeletti di Rapallo, Baci di Alassio (buoni!) e Brandacujùn. Piatto tipico fabiofaziano: coniglio alla ligure. Non ha mai brillato per coraggio. Ma per veltronismo sì. Quello che «la tv sul calcio l'ho inventata io». Quello che dicevano che non ha la padronanza del giornalista consumato. Quello che «Tirchio sarai tu». Quello che ha dieci autori a programma, lavora dodici ore al giorno, prepara ogni scaletta al millesimo di battuta e poi ripassa le domande con l'ospite in camerino. Quello che Milano è la sua città, ma Parigi è sempre Parigi. Quello che se chiami dieci suoi colleghi chiedendo qualcosa su Fabio Fazio, è difficile trovare uno spunto benevolo. Quello che, al netto delle malignità preconcette, non sbaglia un programma: è riuscito a fare boom anche con Saviano. Quello che se cita un libro in prima serata, il giorno dopo è un bestseller, anche se lui, da bibliofilo, preferisce i piccoli editori. Quello che quando fa le interviste sembra perennemente in confessionale, perché le sue non sono interviste, sono mono-viste, parla solo con se stesso: che abbia di fronte Berlusconi o De Niro è uguale, da casa continui a chiederti: ma adesso gliela farà la domanda... ora gliela fa... adesso sta per fargliela... allora gliela fa o no? E non gliela fa mai... Quello che è la dimostrazione che il buonismo, in tv, paga, e molto: nessuno ha avuto contratti così alti nella storia della Rai. Quello che non si è mai visto un radical chic fare così tanti programmi nazional-popolari. Quello che la presunzione peggiore non è quella esibita ma quella che hai dentro. Quello che anche la nostalgia è politica...Politicamente ambiguo (non si è mai sbilanciato fra Partito democratico e Sinistra italiana), tradizionalista catodico (ligio all'alternanza scrupolosa degli ospiti: una sera un regista della sinistra moderata, una sera un giornalista della sinistra estrema, una sera uno scrittore della sinistra da salotto), calcisticamente doriano, come tutti i grandi liguri di ieri e di oggi, da Villaggio a Crozza, #FabioFazio uno di noi! - Fabio Fazio se non ci fosse, bisognerebbe sintonizzarlo. Come disse non molto tempo fa a Che tempo che fa un Nanni Moretti in stato di grazia di fronte all'ennesima servile liturgia televisiva di Fazio, mortificandone la mielosa ipocrisia: «Lo dici a tutti quelli che vengono da te, che sono il tuo mito! Lo dici sei volte la settimana!». E il settimo giorno, si riposò.

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010); "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021).

Fabio Fazio salva dalla chiusura un’azienda di cioccolato. Fabio Fazio salva dalla chiusura un’azienda di cioccolato. Il Corriere della Sera il 17 settembre 2022.

Nella riviera ligure di Ponente, a Varazze, la storica fabbrica di cioccolato Lavoratti 1938 riparte, col marchio e l’azienda acquisita da “Dolcezze di Riviera” ed è una storia a lieto fine per 15 artigiani del gusto che tornano a lavorare tra praline, creme e tavolette da ‘sfogliare’ in confezioni ecosostenibili d’antan che evocano libri, portamatite, scatole di latte; i compagni dell’infanzia delle generazioni over 50. La seconda vita di Fabio Fazio è un ritorno nella natìa Liguria di Ponente, a Varazze, dove insieme all’imprenditore Davide Petrini, già campione europeo di apnea, ristoratore e produttore di mascherine Ffp2, essenzialmente un amico di infanzia del conduttore televisivo, ha rilevato un laboratorio di cioccolato, Lavoratti 1938. “Questa azienda e questa nuova attività è una pausa di felicità dopo i 55 anni - ha detto Fazio in una conferenza stampa a Portofino presso il ristorante di Carlo Cracco - un modo di riassaporare l’infanzia e la magia di quelle uova di cioccolata che i nonni mi donavano a Pasqua. E poi ridare vita a un laboratorio di cioccolato mette buon umore, che è un po il mio mestiere di sempre”. “Questa avventura - ha precisato Fazio - non nasce con volontà speculative, di mero business, ma per creare una oasi di pace”. Da Noto, in Sicilia, arriva il maestro pasticcere Corrado Assenza che ha selezionato ingredienti, firmato le ricette a base di cacao al 60%, e avviato un laboratorio parallelo per produrre in loco polveri naturali di frutta attraverso la disidratazione.

Da repubblica.it il 14 settembre 2022.

Il countdown sui social per "una nuova avventura" che Fabio Fazio ha promesso di svelare domani sta per finire ma oggi il conduttore ha rivelato un importante indizio con un video su Instagram. Fazio ha svelato di aver salvato dalla chiusura una piccola azienda di Varazze che produce cioccolato. 

"Domani svelo tutto ma, nel frattempo, qualche piccolo indizio - ha detto il conduttore - questa storia comincia come tutte le storie con 'c'era una volta'. C'era una volta un piccolo laboratorio di cioccolato molto significativo per tutti i bambini nati a Varazze o cresciuti a Varazze come me, perché lì c'erano i miei nonni, che a ogni Pasqua e Natale ricevevano un prodotto di questa piccola azienda. Questa piccola azienda due anni fa stava per chiudere per le difficoltà del covid, che hanno coinvolto molte aziende. Mi è sembrato che si potesse e si dovesse fare qualcosa. E insieme ad un mio socio ci abbiamo provato".

"Occuparsi di cioccolato - ha concluso Fazio -  è la cosa forse più bella e più divertente che ci possa essere. Certamente è un modo per tornare indietro, per tornare bambini".

Fabio Fazio e la fabbrica di cioccolato: “L’ho salvata per tornare bambino”. Marco Preve Da repubblica.it il 15 settembre 2022.

Fazio in visita alla Lavoratti a luglio con l'assessore regionale Benveduti i soci e il dipendenti. La Lavoratti di Varazze rischiava la chiusura causa Covid. La nuova società si chiama Dolcezze di Riviera, fra i soci la moglie del conduttore

 Fabio Fazio è da qualche tempo presidente di una società. Niente a che fare però con spettacoli o produzioni tv. Il conduttore savonese è a capo del cda della srl Dolcezze di Riviera, e trattandosi di un’azienda che produce cioccolato, sembra proprio che Fazio voglia ripercorrere le orme del celebre Willy Wonka di Roald Dahl.

Qui, però, c’è poca fantasia e molta concretezza. Con la società che presiede e di cui detiene il 5% di quote (capitale sociale 30 mila euro) Fazio e i suoi soci hanno voluto salvare uno storico marchio di Varazze, cittadina balneare del levante savonese dove il giovane Fabio trascorreva le sue estati in casa dei nonni. 

Il marchio si chiama Lavoratti e un paio di anni fa, a causa del Covid era sull’orlo della chiusura. L’idea, condivisa con la moglie Gioia Selis, che della società detiene il 45% di quote, si è sviluppata coinvolgendo l’amico Davide Petrini. Quest’ultimo è un ristoratore di Varazze che all’inizio della pandemia ha deciso di diversificare rapidamente parte delle sue attività producendo mascherine anti Covid. La sua storia l’aveva anche raccontata a Che tempo che fa. E così, Fazio, la moglie Gioia, Petrini (45% di quote) e Alessia Parodi (5%) due anni fa hanno rilevato la Lavoratti.

Ma è proprio in questi giorni che la fabbrica di cioccolato verrà formalmente inaugurata. E si parla di una campagna pubblicitaria che potrebbe coinvolgere anche alcuni volti noti televisivi, frequentatori dei salotti del conduttore-cioccolatiere. Fazio sui suoi canali social lo ha annunciato ieri con un primo video clip — cui ne seguirà uno oggi — in cui racconta: «C’era una volta un piccolo laboratorio di cioccolato molto significativo per tutti i bambini nati a Varazze o cresciuti a Varazze come me, perché lì c’erano i miei nonni, che a ogni Pasqua e Natale ricevevano un prodotto di questa piccola azienda, che due anni fa stava per chiudere per le difficoltà del Covid. Mi è sembrato che si potesse e si dovesse fare qualcosa. E insieme a un mio socio ci abbiamo provato. Occuparsi di cioccolato è la cosa forse più bella e più divertente che ci possa essere. Certamente è un modo per tornare indietro, per tornare bambini».

Le dolcezze di Fabio Fazio: "Ecco come sarà il mio cioccolato". Eleonora Cozzella su repubblica.it il 15 settembre 2022.

Il conduttore racconta la sua iniziativa: l'acquisizione della storica fabbrica di cioccolato Lavoratti, omaggio ai suoi ricordi d'infanzia. E ha presentato il suo consulente, il grande pasticciere siciliano Corrado Assenza, che curerà la produzione

Nelle foto degli anni Trenta i fratelli della ditta Lavoratti sorridono sulla spiaggia con in mano i vassoi su cui d’estate tra gli ombrelloni vendono i bomboloni (merenda tipica dei bagnanti sulla costa ligure e toscana). Di lì a poco l’attività di Aliberto si fa stanziale e apre la sua bottega a Varazze tutta dedicata al cioccolato, con notevole successo. Ancora a distanza di decenni per i bambini di Varazze e dintorni quella bottega era il paese dei balocchi. Loro fiore all’occhiello l’uovo di Pasqua. Che adesso Fabio Fazio ricorda con affetto: “Me lo regalavano ogni anno i miei nonni e ne andavo pazzo”, racconta alla presentazione della sua nuova avventura. 

Quell’azienda oggi infatti è di sua proprietà, rilevata insieme alla moglie e a un piccolo gruppo di amici ora soci. Ci sono luoghi e cibi che ti entrano nel cuore, a volte in modo inconsapevole, ma poi quando rischi di perderli te ne rendi conto. Soprattutto quando riguarda il cioccolato, “perfetto perché investe tutti i 5 sensi per crearne un sesto: la memoria” sottolinea Fazio. Per questo, il popolare giornalista e conduttore, che non aveva mai pensato prima di dedicarsi al business nel mondo del cibo, ha voluto reagire quando ha saputo che Lavoratti stava per chiudere, in seguito alle difficoltà aumentate dalla pandemia.  

“Parlando con un caro amico e adesso mio socio nella “Dolcezze di Riviera srl”, Davide Petrini, di Varazze – spiega – ci siamo guardati ed è stato spontaneo pensare di rilevarla. Non ci sono stati calcoli o business plan, semplicemente un moto spontaneo per preservare un pezzo dei nostri ricordi di bambini. Ci siamo resi conto che non volevamo rinunciare alla dolcezza di quei momenti impressi nella memoria”. 

Una volta presa la decisione, però, poi bisognava guardare in faccia la realtà: “Non sapevamo proprio nulla di cioccolato, se non che ci piace”, ammettono. Quindi eccoli alla ricerca delle persone più adatte a sposare il loro sogno e svilupparne il progetto. Così entra in ballo, suggerito anche da Massimo Bottura e Carlo Cracco, cui i novelli Willy Wonka avevano chiesto suggerimenti, il siciliano Corrado Assenza, pasticcere sulla carta e poeta e filosofo della dolcezza per vocazione.

“Ho detto sì perché amo le sfide (e questa non è una novità), perché mi piace l’idea che gli ingredienti lontani attraverso il mare siano nei secoli arrivati ovunque (il cioccolato come lo zucchero e il caffè) ma soprattutto perché io adoro raccontare le storie delle persone. E dietro questa nuova impresa - sottolinea lo chef e pasticcere di Noto - c’è la storia di grande affetto per un pezzo di memoria di un paese. Ci sono persone che non avevano fatto i calcoli per un ritorno economico, ma si erano tuffati con moto emotivo in una prova difficile”. E quindi, coerente con la sua filosofia in cui i cibi si intrecciano agli esseri umani, Assenza dice che in questo progetto si trova davvero l’eccellenza e che “Se vuoi il massimo della qualità, la chiave di volta sono le persona di qualità”. 

La caccia alla qualità è continuata con la ricerca dei frutti e degli ingredienti migliori da sposare al cacao: tutta la frutta è selezionata da Assenza in aziende siciliane, essiccata e/o trasformata in un laboratorio creato ad hoc nella cioccolateria rinnovata. E il cacao arriva dalle piantagioni dell’Hacienda San Josè in Ecuador, certificata Smeta per il commercio etico, il cui titolare era orgogliosamente presente all’evento di lancio delle nuove tavolette e praline.

Ma Fazio non si definisce un produttore bensì un editore di cioccolato, perché tutta la linea ora sul mercato richiama una linea di libri nel packaging. Nei cofanetti di otto tavolette giustapposte come volumi in una libreria (con tanto di segnalibro) tutto è un richiamo alle linee essenziali. A partire dalla scelta di non usare coloranti alimentari “sia pur buoni e belli”. Come distinguere allora nell’assortimento i ripieni? “Con i numeri – spiega Fazio – ogni cioccolatino ha un numero e con la legenda si può risalire a che gusto equivale”. A firmare ogni pezzo, il Nautilus disegnato sulla superficie lucida. Il logo Nautilus richiama appunto la sezione aurea (o costante di Fidia o proporzione divina) e infatti ogni tavoletta e ogni pralina mantiene la proporzione di 1,618. 

Della linea fanno parte anche le matite (bastoncini ripieni di frutta) e le creme di nocciola e di pistacchio. Per Natale già annunciano un libro “un volume monografico” in cui ogni cioccolatino avrà un ripieno che richiama i sapori tipici del Natale. E soprattutto con affetto Fazio ricorda l’elemento da cui tutto è nato: l’uovo di Pasqua. In questo caso, però la sorpresa sarà fuori con le “uova futuriste in ceramica della celebre Mazzotti d’Albisola”.

·        Federica Sciarelli.

Roberto Faben per “La Verità” il 6 ottobre 2022.

Federica Sciarelli, dal 2004 conduttrice di Chi l'ha visto?, in onda il mercoledì su Rai 3, s'appella al senso civico dei molti italiani che intendono favorire il ritrovamento di persone svanite nel nulla. 

Tuttavia, certa di contare sul coinvolgimento, talvolta risolutivo, dei telespettatori, si confronta anche con l'altro volto, quello inquietante e macabro del Paese. Nella prima puntata della nuova stagione, quella del 14 settembre 2022, ha ricordato: «La nostra è una trasmissione dura». Infatti, se alcune storie si sbrogliano in un felice epilogo, altre rivelano decorsi sanguinosi e diabolici, come nei più torvi racconti di Edgar Allan Poe.

Quando la trasmissione è in pausa, nel periodo estivo, si può contare sulla vostra presenza?

«In redazione abbiamo persone che si danno i turni, anche il sabato e la domenica, compresi Natale e Ferragosto. Cerchiamo di garantire un servizio pubblico continuo, in modo che, se scompare qualcuno, possiamo subito mettere la fotografia sul sito». 

I casi di persone che scompaiono aumentano o diminuiscono?

«Siamo un Paese più vecchio. Ci sono alcune malattie, come l'Alzheimer, che quando ti prendono, ti dimentichi dove abiti. La dimensione del fenomeno è la stessa, ma l'attenzione, dopo il lavoro fatto da Chi l'ha visto? è diversa. Prima c'eravamo solo noi, poi è venuta l'associazione Penelope, poi il commissario straordinario per gli scomparsi». 

La frequenza è maggiore in alcune aree italiane o strati sociali?

«No, scompaiono dal Nord al Sud alle isole, possono essere di destra e di sinistra (sorride), diciamo che il fenomeno è trasversale. Ma si devono fare distinzioni. Se c'è una forte crisi economica, ad esempio.

Alcuni papà sono scomparsi lasciando un biglietto alla moglie, "non riesco a comprare i regali per Natale, mi vergogno e me ne vado". In questi casi speriamo che non abbiano fatto il gesto estremo. Altri li ritroviamo a vivere come barboni, e poi sono contenti di tornare a casa. 

Noi diciamo: "Torna a casa, che tutto si risolve insieme". Il problema non solo è legato a quanti soldi hai, al tuo conto in banca, ma a fattori diversi. Ad esempio le patologie psichiatriche. Capitano molti casi di bipolari, che prendono e se ne vanno. Alcune scomparse sono omicidi con occultamento di cadavere».

Si può ipotizzare un diritto a scomparire. Non sarebbe più logico motivare responsabilmente questa scelta alle persone vicine?

«Il diritto a scomparire ovvio che c'è, nel senso che uno può fare della sua vita quel che vuole e se è una scomparsa volontaria non la facciamo. Chiediamo ai familiari se hanno fatto una denuncia, valutando caso per caso. Però c'è anche il diritto dei familiari a non morire di paura. Se uno se ne va lasciando un biglietto, "me ne vado perché non vi riconosco come famiglia", non deve avere bambini piccoli da mantenere, ci sono responsabilità che ognuno di noi ha. Se c'è una volontà manifesta, va benissimo.

La madre di Marisa Golinucci, con una figlia, Cristina, scomparsa da 30 anni, mi ha detto: "Se è volontaria lo scopri solo quando trovi la persona". Se una ragazza è andata via e non la trovi, non c'è un biglietto, che ne sai? È stata uccisa? Quando c'è un biglietto di volontà, potrebbe essere un momento di fragilità. Ai familiari diciamo: "Non cerchiamo persone che hanno dichiarato la propria volontà Se però volete, fate un appello"». 

È accaduto, talvolta, che una persona ritrovata attraverso Chi l'ha visto? sia scomparsa nuovamente?

«Assolutamente sì. Casimiro ci chiama sempre per il fratello che piglia le buste e, da Roma, con le sue cose, se ne va. Una volta lo trovano a Firenze, poi se lo riportano a casa. Ci richiama un'altra volta e facciamo l'appello, lo ritrovano sempre. Poi un ragazzo, Federico. 

Più volte se n'è andato, il papà è disperato ci dice che è molto fragile, i nostri telespettatori lo trovano addirittura in Portogallo. Una volta Giovanna Botteri (inviata Rai, ndr.) lo trovò a Parigi perché stava ricoverato, fece un giro di ospedali, quindi anche lei ha risolto un caso».

Gli elementi raccolti dagli inviati hanno spesso rilievo giudiziario. Forze dell'ordine e magistrati seguono con regolarità la trasmissione?

«Una volta un generale dei carabinieri ci fece ridere La moglie guardava Chi l'ha visto?, e poi lo svegliava, dicendogli: "Senti! Perché non stanno facendo niente per quello? Avverti i tuoi nella caserma!" e così lui telefonava alle 11 di sera. Noi dunque contiamo molto anche sulle mogli. Ci sono casi in cui avvertiamo gli inquirenti. Il nostro lavoro può diventare decisivo.

Per Elisa Claps, la ragazza trovata nella chiesa della Santissima Trinità (a Potenza, scomparsa nel 1993, uccisa, corpo ritrovato il 17 marzo 2010, ndr.) tutte le testimonianze da noi raccolte sono andate a processo. Cerchiamo di veicolare la solidarietà, che spesso arriva. Poi c'è chi ci scrive: "Ah io vi guardo sempre, ma non riesco mai a trova' nessuno" (ride) Per cui la gente proprio s'impegna».

Il lato inquietante del Paese. Nella prima puntata della nuova stagione, commentando il caso di una donna forse investita in strada e occultata a Torello del Sannio, ha detto: «Se è davvero così, siamo in un Paese di mostri». Siamo in un Paese di mostri?

«Assolutamente sì. C'è da dire che noi raccontiamo le eccezioni, però quel caso mi ha fatto riflettere perché lì può darsi che qualcuno abbia investito questa donna e poi, per non aver problemi…Ma uno deve avere il pensiero che quella potrebbe essere tua madre, tua nonna Come si può occultare un cadavere? Quindi dico che siamo un Paese di mostri, anche quando vedo cose che succedono nelle famiglie».

Gassman e Tognazzi lo furono, ma quella era una commedia. Che idea si è fatta su quello di Firenze? S' ipotizza il coinvolgimento, oltre Pacciani e i «compagni di merende», di livelli superiori e insospettabili.

«È chiaro che quando alcuni casi vanno avanti e non si scopre il colpevole pensi sempre a un livello superiore o comunque che ci sia qualcuno che protegga questa persona.

Caso complicato». 

Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, sostiene che il Vaticano conoscerebbe la verità. Non sarebbe rivoluzionario se la Santa Sede dicesse di più?

«Il Vaticano ha detto che non c'entra niente. Però spesso erge un muro, e questo ti può far pensare male. La verità su Emanuela Orlandi è ancora tutta da scrivere. Dopo anni qualcuno si mette la mano sulla coscienza perché ha paura dell'inferno. Quando ci arrivò la telefonata su De Pedis, sepolto alla basilica di Sant' Apollinare, si scatenò un putiferio. Sentii il capo della Mobile, il Vaticano disse di aprire tutte le tombe perché la basilica era loro e lei da lì scomparve, dove, all'istituto "Ludovico da Victoria", faceva lezioni di flauto. De Pedis fu spostato al Verano, com' era giusto. Chiaro che se il Vaticano sa qualcosa lo deve dire.

Anche la magistratura si è divisa. Abbiamo seguito tutte le piste e sarà rivoluzionario se qualcuno si metterà una mano sulla coscienza. Non è detto che sia stato qualcuno all'interno del Vaticano. Nell'ambiente di Vergari, ex-rettore della basilica (don Pietro Vergari, ndr.) non è uscito un aspetto edificante Forse la verità è nelle carte delle inchieste». 

Simonetta Cesaroni. Delitto di via Poma, 7 agosto 1990. Tre processi, nessun colpevole. Il gruppo sanguigno dell'assassino è di tipo A.

«Caso pazzesco, assurdo. La commissione antimafia ha tirato fuori una nostra intervista. Il mio inviato ha chiesto a un abitante del palazzo "che gruppo hai?". Quello ha detto "gruppo A" Non perché sia l'assassino... Ma non sono stati presi i gruppi sanguigni a tutti quelli che, in qualche modo, potevano essere stati in quel palazzo. All'antimafia hanno detto che bisogna riprendere le indagini partendo da questo gruppo A».

Per l'assassinio di Yara Gambirasio il colpevole fu individuato attraverso test sul Dna su quasi 26.000 persone

«Alcuni familiari si lamentano dicendo: "Perché per Yara Gambirasio hanno fatto il Dna a tutta la valle e invece per il mio caso niente"? Ogni Procura lavora come vuole, ma i casi vanno risolti, come quello di Denise Pipitone». 

I bambini spariti. E per il caso di Ylenia Carrisi giunge qualche segnalazione?

«Sì, per tutti capita. Anche per le gemelline Schepp, ad esempio. La cosa più difficile per noi è che spesso ci danno fotografie e ci dicono: "Assomiglia alla persona cercata".

Le facciamo vedere ai familiari. Andiamo all'estero. Come nel caso di Celeste, che poteva essere Angela Celentano. Ci disse: "Mi dispiace per i genitori, ma non sono Angela". Verifichiamo tutto». 

Nel 1998 Ferdinando Carretta, latitante a Londra, confessò a Chi l'ha visto? l'uccisione di padre, madre e fratello a Parma nel 1989. Protagonismo mediatico?

«Due bravissimi inviati, Pino Rinaldi e Gianlorenzo Gregoretti, andarono a Londra e lo trovarono. Riuscirono a conquistare la sua fiducia e lui confessò a loro. Chiamarono gli inquirenti e dissero: "Ha fiducia di noi, ve lo portiamo in Italia". Fu un momento molto duro. Registrarono la confessione e fu mandata in televisione. Lui stava così male che era contento di togliersi questo peso».

Le è accaduto di ricevere minacce?

«Di minacce ne ho avute tante. A un certo punto mi misero quella che si chiama scorta vigilata, che però io non ho mai usato. Quando facciamo le inchieste, gli inquirenti sentono dire: "Ahò, a quella stronza gliela dobbiamo far paga'", o cose del genere. Ma io lo metto in conto, nel senso che immagino se qualcuno va poi a finire in carcere per colpa nostra, certo mica mi manda i fiori...». 

·        Filippo Ceccarelli.

Antonio D' Orrico per “La Lettura – Corriere della Sera” il 6 giugno 2022.

Donato il suo favoloso archivio personale (tutto quello che avreste voluto sapere sulla politica italiana, ma non avete mai osato chiedere) alla Biblioteca della Camera dei deputati, Filippo Ceccarelli, collega per cui nutro una antica stima anche se non ci conosciamo, si sentì come i calciatori di una volta che, appese le scarpette al chiodo, non sapevano cosa fare (ora lo sanno: fanno gli opinionisti, i talent).

Dopo decenni di scintillanti cronache dal Palazzo, Ceccarelli era diventato un beccamorto. Gli chiedevano di scrivere necrologi, commosse orazioni funebri su onorevoli cadaveri ancora caldi e, spesso, si portavano avanti commissionandogli coccodrilli in anticipo se un onorevole non si sentiva tanto bene e in redazione volevano avere il pezzo pronto in ghiacciaia.

Uno sporco mestiere, ma qualcuno deve pur farlo. Una roba da menagramo? No, anzi: «Indicata fra le opere di misericordia sia corporale ("Seppellire i morti") che spirituale ("Consolare gli afflitti"), sono convinto che la stesura compassionevole del necrologio porti fortuna allungando la vita del coccodrillato». 

Però la paura di essere ormai obsoleto restava, di venir trascinato alla deriva (funerale vichingo?) assieme ai suoi amati giornali di carta, al suo vizio di ritagliarne le notizie e di classificarle come Nabokov con le farfalle. Ci voleva un colpo di reni. Così Filippo Ceccarelli, per decenni antropologo massimo della politica italiana, si è trasformato nel Claude Lévi-Strauss del mondo social alla ricerca del nuovo tipo italiano che ha preso il posto di quello portato alla luce dall'altro grande antropologo Alberto Sordi. 

E poi, a spingere Ceccarelli, c'era anche una curiosità più terra terra: che avranno questi da dirsi e da mostrarsi H24 su Instagram, Facebook, TikTok? Riciclatosi nel web, Ceccarelli ha scritto un libro straordinario, una Divina Commedia 2.0, un Inferno digitale. Si intitola Lì dentro . E merita un'altra puntata.

Antonio D' Orrico per “La Lettura – Corriere della Sera” il 13 giugno 2022.  

Tra le cose che hanno colpito Filippo Ceccarelli nel suo viaggio nell'Italia social ci sono Giorgia Meloni diventata «un giovane diafano e un po' ipertiroideo, tipo attore americano nevrotico», Luigi Di Maio «un'intrigante coniglietta» e Matteo Renzi «una discreta morettina», grazie all'app russa che muta i maschi in femmine e viceversa.

Lo ha illuminato, poi, la scritta su una saracinesca («Il karma ti farà il culo»), fatto ridere il menu di una rosticceria («L'Asagna 4,80 apporzione»), impensierito le ragazze di MySecretCase, sponsorizzatrici di sex-toys in questi termini: «Non raggiungeremo la vera ugulianza (sic, ndr ) finché non si parlerà dei ditalini a secco quanto si parla dei pompini coi denti». 

Infine, il punto di non ritorno è stato quando, in una diretta Facebook del premier Conte dal Parlamento, ha letto tra i commenti che scorrevano: «Laura, ti prego perdonami. TE LO CHIEDO DAVANTI A TUTTA L'ITALIA. Io non volevo andare con tua sorella ma lei ha insistito e ho ceduto». Allora Ceccarelli si è ricordato di quando Radio Radicale diventò Radio Parolaccia, della vecchia goliardia. E, poi, Funari, le televendite, Blob, Paperissima, i cinepanettoni, Alan Ford, Il Giudizio Universale di «Cuore», tutto riciclato via web in un pastone indifferenziato.

Dice Carlo Verdone e sembra Pasolini: «Tutti i caratteri si sono appiattiti, omologati. Oggi tutti vestono e parlano allo stesso modo, hanno gli stessi tatuaggi, le stesse scarpe, lo stesso taglio di capelli e usano i pensieri che escono dal Far West di internet». C'è speranza in questo Far West? Forse nel tipo che dice: «Se stai guardando questo video voglio dirti che ti amo. Probabilmente stai pensando: be', ma tu non mi conosci. Se molte persone riescono a odiare senza un motivo, anch' io riesco ad amare, senza un motivo».

Ma forse no. Miliardi di persone «non meritavano la conformazione antropologica di Mark Zuckerberg, un nerd col problema di rimorchiare al campus». Ha detto Zadie Smith. Parole sante.

·        Filippo Facci.

Filippo Facci e Antonio Di Pietro, lo scontro nel bagno del Tribunale: "Che caz***o fai" Libero Quotidiano il 31 maggio 2022

Mezz'ora di intervista per raccontare Filippo Facci. "Non sono dannunziano, sono wagneriano". La penna di Libero si confessa a Mowmag sul filo dei ricordi, del sarcasmo, dell'imperscrutabilità. E tanti aneddoti, tra il commovente e l'esilarante. Lo spunto è il suo ultimo libro, Odio tutti. Odio questa epoca, con occhiello che è tutto un programma: "Il giornalista più rissoso e pericoloso d'Italia".

Sigaretta in bocca, sguardo ora spiritato ora sornione, regala giudizi tranchant sui colleghi, da Nicola Porro ("Mi ha fatto uno sgarro imperdonabile") a Luca Telese ("Per me non è mai stato niente"). Parla di dolore, senza schermi (dalla mamma morta al padre malato e andatosene per eutanasia). E snocciola un paio di incontri mozzafiato con due personalità che, a modo loro, hanno segnato la storia dell'Italia.  

Il primo è Antonio Di Pietro, la toga-simbolo di Tantentopoli e Mani Pulite, una degenerazione manettara che Facci considera una pagina nera nella storia d'Italia. "Nel processo a Brescia, durato nove ore, ci incrociamo in bagno. E succede che per uscire uno doveva cedere il passo all'altro perché il passaggio era troppo stretto. Entrambi acceleriamo, io di più, gli tiro una spallata e lo schianto contro una porta di vetro. Lui urla: 'Che caz***o fai'. Io gli rispondo: 'Che caz***o, non mi toccare". L'altro, ovviamente, è Silvio Berlusconi: "Mi avevano detto tutti che fosse molto formale, che non gli piacevano le barbe, di andare ben vestito... Tutte caz***e. Ero in una delle sue ville ad aspettarlo, a un certo punto vedo una figura bianca avvicinarsi e penso: chi è questo... Si avvicina, si avvicina ed era lui! Scaz***to, senza presentazioni e convenevoli, la prima cosa che mi dice è: 'Facci Facci, non mi tira più l'uccello'". 

Filippo Facci: «Ho picchiato uomini e pure donne. Ho ucciso mio padre. Ho assunto cocaina. Sono ebbro di me stesso». Moreno Pisto su Mowmag il 31 maggio 2022.

In libreria c’è La guerra dei trent’anni, il suo ultimo (ottimo) tomo sugli anni di Mani Pulite, anni che lo hanno cresciuto e fatto diventare ciò che è: un adorabile stronzo. Intervista al giornalista di Libero, Filippo Facci, il più rissoso e pericoloso in circolazione. Rissoso perché ha litigato con tanti se non tutti: Scanzi, la Lucarelli, Feltri, Fedez, Telese. Pericoloso perché l’ultima volta che ha picchiato un uomo è stato pochi giorni fa. E poi i ceffoni alle donne, la spinta ad Antonio Di Pietro, la morte della madre quando aveva 9 anni, l’eutanasia al padre, la droga, la relazione mai raccontata prima con la collega del Corriere Maria Grazia Cutuli, uccisa in Afghanistan. E il sesso: «Mai avuto una storia omo, ma…»

È completamente nero. Giacca, abiti, stivali per la pioggia. È incazzato. «Per due motivi: uno, mi son svegliato poco fa». Nota bene: sono le 3 di pomeriggio. «Due, quando piove gli automobilisti vengono colpiti dal morbo della mongolite e guidano come coglioni». Poi, giusto per alleggerire la tensione, sentenzia: «Dai, facciamo questa intervista inutile». Filippo Facci ti guarda con occhi spiritati e fuma. Digrigna i denti e fuma. Smascella e fuma. Ti parla del giornale per cui scrive, Libero, e fuma. Filippo Facci soprattutto fuma. Ha scritto La guerra dei trent’anni, dove racconta gli anni di Mani Pulite, vissuti da giovane cronista de L’Avanti, il giornale del partito socialista, i cosiddetti ladri, i lacché del potere. Anni che lo hanno traumatizzato ed esaltato, nei quali ha frequentato i meandri del potere fatto di politici, industriali, giornalisti, magistrati, tutti con atteggiamenti ambigui, tutti opportunisti. Anni che lo hanno formato e reso ciò che è. Per questo nel libro storia giudiziaria italiana e vita personale di Facci sono collegate e narrano di un passato che non passa, come recita il sottotitolo, e continua a far parte di una e dell’altra cosa. (Qui sottto l'intervista in versione video). 

Per incoerenza e tradimento maledetta quest’epoca che non ti posso sfidare a duello. Invece di querelarmi vieni fuori, dimostrami il tuo coraggio

La guerra dei trent’anni si apre e si chiude con la frase «Poi non è successo più niente». A tratti è struggente e malinconico…

«No. Corrisponde al filo del discorso che io tengo per la maledizione di queste 572 pagine e cioè che dopo quei tre anni, dopo Mani Pulite, in Italia non è successo più niente. Sembrava fossimo in attesa di chissà quali ristrutturazioni politico-morali che invece non ci sono state».

Ma ci sono ancora le tangenti?

«Ci sono ancora le unghie sporche? C’è ancora l’animo umano? C’è ancora questa specie di degenerazione di scimmia antropomorfa che siamo noi? Siamo migliorati moralmente negli ultimi ventimila anni come ci illudiamo che sia? No. Siamo migliorati tecnologicamente. Ma non è che nostro nonno fosse peggiore di noi o Pitagora fosse peggiore di noi». 

A livello personale però un bel po’ di cose sono successe… Hai avuto due figli, due mogli...

«No, una. Vedi che non sai un cazzo».

Che padre sei?

«Un padre separato. Adesso non è una buona fase. Ma penso di essere un ottimo padre nella misura in cui mi sia concesso. Indovina chi non direbbe altrettanto».

Tu hai perso la mamma a nove anni...

«Ha avuto un tumore e non è stata curata bene. Ma qual è il link?»

Be’ l’educazione, la crescita. Posso chiederti… 

«Lo stai già facendo».

… Com’è stato perdere la madre per Filippo Facci?

«Non so come sarebbe andata altrimenti». 

Quanto manca una madre?

«Non lo so, per la stessa ragione. Ma sicuramente facilita delle cose immaginabili da chiunque: una crescita accelerata, impari prima, capisci prima, ti culli nell’illusione che il dolore ti renderà anche iper sensibile e più intelligente, ti spalanca gli occhi perché ti bruciano dalle lacrime e però non sai se questo ti porti dei danni o no».

Quando ti hanno comunicato che tua mamma era morta come hai reagito?

«Come se mi dicessero che c’è un marziano alla porta. Era una cosa che non contemplavo minimamente, quindi ho reagito in maniera surreale. Non ho neanche pianto per un po’, quando l’ho fatto ho quasi dovuto sforzarmi. Poi vai a misurare quanto il tuo pianto si diluisca nel tuo futuro magari per decenni interi». 

A proposito di affetti, tra le pagine più belle del libro ci sono quelle in cui descrivi la relazione con la giornalista Maria Grazia Cutuli, inviata del Corriere della Sera e morta in Afghanistan. Non ne avevi mai parlato…

«Nessuno lo sa, quasi nessuno. Non era una relazione, perché una relazione si basa sulla continuità. Abbiamo avuto un rapporto fisico ma anche basato su una qualche misteriosa intesa mentale o sentimentale».

Racconti delle litigate furibonde che facevi con lei…

«Sì, sembrava inevitabile, sembrava parte del suo carattere e anche l’atto sessuale sembrava solo un epilogo di queste litigate, come se ne facesse parte sadomasochisticamente». 

Hai litigato con tanti, non solo con lei. Con Nicola Porro per esempio…

«Porro mi ha fatto uno sgarro imperdonabile di cui non voglio parlare».

Con Luca Telese.

«Lui per me non è mai stato niente e non è niente, non so neanche perché esista»

Con Vittorio Feltri.

«L’ho odiato perché ha simboleggiato il giornale più forcaiolo d’Italia negli anni di Tangentopoli. Quando dirigeva L’Indipendente cavalcava il peggio del bassoventre umano, ma dopo essere passati per querele che mi ha fatto, cose orribili che gli ho detto in tv e anche di persona e una più che decente amicizia che mantengo con suo figlio - c’era questa strana cosa che odiavo il padre ma avevo l’amicizia del figlio - ho trovato una senile resipiscienza in lui, credibile, che ci ha fatto incontrare e trovare umanamente in simbiosi e simpatici di pelle, nel cinismo se non altro».

A La Zanzara hai parlato malissimo del condirettore di Libero, Pietro Senaldi.

«Dopo quello che ho detto ci sono stati dei provvedimenti disciplinari contro di me. L’unica cosa che posso dire è che non ho alcuna stima di Senaldi, punto».

Hai litigato con Fedez.

«Mi ha querelato e ha vinto. Un giorno l’ho chiamato, lui era tutto timoroso e gli ho detto: sono Facci, volevo dirti bravo. Aveva appena fatto la donazione al San Raffaele. Di Fedez comunque non me ne importa niente».

Scanzi…

«Un caso di ego sfuggito di mano». 

Ma non lo invidi un po? Sui social è il giornalista più famoso d’Italia… 

«Ma per favore! Non è neanche un giornalista, ma ti pare che uno come me invidia qualcuno? Sono troppo ebbro di me stesso e sono riuscito a diventare me stesso, cazzo non è poco nella vita. Anche di Scanzi non me ne importa niente». 

Selvaggia Lucarelli.

«Ha osato dire a me quello che dice a tutti quelli che la attaccano».

Ti querelo?

«Anche. Mi ha già querelato due volte e ho vinto. Mi riferivo al fatto di quando lei ha raccontato che ci avevo provato con lei ma non era vero, anzi è vero il contrario e io le ho detto di no. E ho le prove scritte».

Cioè?

«Mi è entrata in casa si è messa a cucinare la pasta al pomodoro, mi ha fatto il caffè, ha aspettato che io facessi il mio dovere da cavernicolo e dopo di che non so se ci sarebbe stata come desiderava sua madre. Perché lei mi diceva che sua madre voleva che mi sposassi con lei, oppure me lo diceva soltanto perché voleva che io ci provassi per poi avere la soddisfazione di dirmi di no. Non so quale delle due… Fatto sta che a casa mia ci è venuta lei, di notte, sapendo la nomea che avevo. Anzi, ho anche una mail in cui mi dice: “Sei l’unico che non ci ha ancora provato”. Ma è successo tanto tempo fa, acqua passata».

È successo più di una volta che io abbia picchiato delle donne, scrivilo pure: ma è perché a loro piaceva

A 16 anni hai frequentato Piersilvio Berlusconi.

«Abitando a Monza e stando nel giro pseudo paninaro del centro conobbi anche lui, anche se io proprio paninaro non ero, in realtà ero uno sfruttatore di paninari: non avevo né i soldi né una famiglia altolocata alle spalle, ma tra di loro giravano le ragazze migliori. Tra le prime cose professionali che feci fu scrivere sul Paninaro, che arrivò a vendere 200mila copie, dove io facevo lo scrittore di articoli e pure il fotomodello. Mi divertivo a rubare i vestiti durante gli shooting fotografici».

Anni dopo hai conosciuto anche Silvio e il vostro primo incontro è surreale…

«Mi avevano detto tutti che fosse molto formale, che non gli piacevano le barbe, di andare ben vestito… Tutte cazzate. Ero in una delle sue ville ad aspettarlo, a un certo punto vedo una figura bianca avvicinarsi e penso: chi è questo… Si avvicina, si avvicina ed era lui! Scazzato, senza presentazioni e convenevoli, la prima cosa che mi dice è: “Facci Facci, non mi tira più l’uccello”».

Ti sarebbe piaciuto come Presidente della Repubblica?

«Mi sarebbe piaciuto per due o tre giorni, per vedere la faccia degli altri…»

Ti manca Craxi?

«Certo».

Sei amico di Giorgia Meloni, hai parlato alla Convention di Fratelli d’Italia. Voterai FdI?

«No».

Perché?

«Le battaglie a cui tengo di più sono quelle bioetiche, quelle civili, l’eutanasia, il fine vita. Nasco radicale e rimango radicale».

Nel tuo libro racconti anche l’ascesa della Lega Nord. Allora era un partito secessionista, oggi Matteo Salvini cerca voti in Sicilia. Che effetto ti fa?

«Ho un vizio, un pregio/difetto, una maledizione che è una memoria straordinaria di tipo fotografico e musicale, che fa sì che l’incoerenza per me sia un grave peccato. In politica è la cosa più normale del mondo, come il tradimento. Per me incoerenza e tradimento sono le cose per cui maledetta quest’epoca che non ti posso portare fuori e sfidarti a duello, quanto mi piacerebbe.. Invece oggi ti fanno la querela… Ma vieni fuori a fare a cazzotti, dimostrami il tuo coraggio». 

Faresti davvero a cazzotti?

«Mamma mia quante volte l’ho fatto».

L’ultima volta?

«È stata per strada, qualche giorno fa. Uno mi ha fatto un brutto gesto dall’automobile, allora come un buzzurro qualsiasi l’ho superato, l’ho chiuso, sono sceso e ho fatto quello che lui non si aspettava che facessi. L’ho picchiato e poi sono andato via».

Ma perché fai così?

«Perché non c’è più senso dell’onore. Tu credi di potermi dire questa cosa? Anche se via social. Io sono uno che se tu abiti a Viterbo e mi fai girare i coglioni io prendo la macchina, vengo a Viterbo e ti spacco la faccia. Ma non perché sono uno spaccone, ma perché internet ha moltiplicato anche la vigliaccheria, l’incoerenza, l’incapacità di essere dignitosi».

Tu picchieresti anche per tradimento? Picchieresti l’uomo con cui la tua donna ti tradisce?

«Perché, non è successo mai?».

Quante volte?

«Due».

A lui e a lei?

«A lui. A lei magari un ceffone simbolico».

Sai che questa cosa è gravissima e che potrebbero lapidarti sui social? 

«Mettiamola così: in vita mia è successo più di una volta che io abbia picchiato delle donne, scrivilo pure: ma è perché a loro piaceva. Sessualmente, dico. Poi se un giorno una si svegliasse e dicesse “non mi piaceva” sarei fregato».

Siamo nei giorni tra gli anniversari degli attentati a Falcone e Borsellino. Nel libro lo ripeti più volte: sono prematuramente scomparsi perché…

«Chi li ha uccisi ha voluto impedire che si scoprisse che al sud il tavolino delle tangenti aveva tre gambe: imprenditoria, politica e mafia. E mentre al nord ti mettevano in galera e finché non parlavi non ti facevano uscire, al sud non parlavi perché non volevi uscire, visto che all’uscita ti aspettava la pallottola. E poi al sud un arrestato che si trova davanti a Di Pietro che sbatte il pugno sulla sua scrivania e a Davigo che fa il figo gli avrebbe riso in faccia. Ecco perché Mani Pulite si ferma in un punto preciso. Un conto era parlare con gli imprenditori e i politici corrotti. Un’altra con la mafia».

Ho preso cocaina dall’inizio del 2003 alla fine del 2006. Io ho smesso da solo ma per smettere basta andare in Colombia, provare la cocaina lì, poi tornare indietro: smetti

C’è sempre la mafia?

«No».

È diventata altro. 

«Tutto diventa altro, la mafia intesa come Cosa nostra non esiste più. È stata battuta e sconfitta, tanto che i grandi processi di oggi sono solo archeologia giudiziaria e si occupano di cose di 30 anni fa o si occupano di piccoli affari».

Nel libro parli malissimo di Antonio Di Pietro..

«Mi aveva querelato per calunnia dopo che io avevo fatto un articolo raccontando tutte le sue ambiguità. Nel processo a Brescia, durato nove ore, ci incrociamo in bagno. E succede che per uscire uno doveva cedere il passo all’altro perché il passaggio era troppo stretto. Entrambi acceleriamo, io di più, gli tiro una spallata e lo schianto contro una porta di vetro. Lui urla: “Che cazzo fai”. Io gli rispondo: che cazzo, non mi toccare.. Tutto qua».

L’ultima volta che hai fatto l'amore ?

«Ieri».

Sei bravo a letto?

«Penso di sì, ma ho dei problemi fisici al momento».

Di erezione? 

«No, per via dell’alpinismo ho avuto dei problemi e ho fatto una operazione alla schiena ed essendo l’attività sessuale anche una performance aerobica la mia prestazione è peggiorata».

Vai in alta montagna da solo. Sei un pazzo.

«Ho fatto anche dei video, su YouTube se ne trova uno di quando sono caduto per 70 metri e sono sopravvissuto per miracolo. Era il giorno in cui dalla Russia arrivò il Burian, sul Resegone c’era una temperatura di meno 20, era bellissimo scalarlo con le picche».

Hai mai avuto una relazione omosessuale?

«Purtroppo no, ma mi dispiace».

Prendi ansiolitici?

«In effetti per come mi sto comportando in questa intervista anche io mi sarei fatto questa domanda».

Ti sei mai drogato?

«Ho preso cocaina dall’inizio del 2003 alla fine del 2006. Io ho smesso da solo ma per smettere basterebbe anche solo andare in Colombia, provare la cocaina lì, poi tornare indietro: smetti subito». 

Come vorresti morire? «Spero su una montagna, che non mi trovi nessuno

Quanto guadagni adesso ?

«Bene per essere un giornalista, però non abbastanza per la vita in cui sono incastrato, ovvero la vita di un uomo che comunque vive in affitto, che ha perso due abitazioni che si era guadagnato partendo da zero, date allo Stato per via di insolvenze, e che deve mantenere soprattutto una ex famiglia… Non posso lamentarmi del mio stipendio, ma non mi basta»

E quanto hai in banca? 

«In banca non ho più niente». 

Sei un po’ dannunziano.

«La dicitura che mi da più soddisfazione è wagneriano, ma è molto più complessa. Non chiedermi di spiegarla».

Be’, però la devi spiegare…

«No, non devo un cazzo. E sai perché?»

No.

«Perché sono un wagneriano».

Perché sei così stronzo?

«Perché mi viene bene. E perché non essere capito mi permette automaticamente di escludere una certa parte di persone dalla sfera dei miei interessi. Che poi tutte le volte che ho provato a piacere mi è venuto malissimo, ho ottenuto sempre il contrario. Quindi tanto vale cercare qualcuno a cui io piaccia così. Ho trovato pure una fidanzata di 23 anni più giovane, pensa».

La definizione più giusta te l’ha data Giuliano Ferrara: sembri uno della Hitler Jugend, la gioventù hitleriana.

«Non ho mai capito se fosse un complimento».

Cosa pensi della morte?

«Sono molto relativista, ma proprio molto. Voglio ammetterlo qui, anche se lo faccio capire anche nel libro: l’eutanasia io l’ho praticata, io l’ho fatta con mio padre, anche se non si può. Ed è quello che succede nella maggior parte dei casi, e si chiamano casi di morte assistita non dichiarata. Esiste già, ma esiste questa cazzo di ipocrisia italiana per cui non si deve dire. Pensa cosa posso pensarne del fine vita. Che schifo l’idea che giochicchino con il mio corpo, debbano gestirlo, è roba mia, appartiene a me». 

E quindi, come vorresti morire?

«Spero su una montagna, che non mi trovi nessuno».

Perché sono stronzo? Perché mi viene bene. Fine.

·        Fiorenza Sarzanini.

Dal “Corriere della Sera” il 17 marzo 2022.  

Esce oggi nelle librerie per Solferino «Affamati d'amore». Il libro, del quale pubblichiamo qui uno stralcio, è scritto da Fiorenza Sarzanini, vicedirettrice del «Corriere della Sera». L'autrice racconta il disturbo alimentare di cui ha sofferto quando aveva 23 anni e come ne è uscita. Sarzanini - insieme con la giornalista Francesca Milano - raccoglie anche le confessioni di ragazzi malati (nei box qui sotto sono riassunte tre delle loro storie), lo sfogo dei genitori, l'impegno dei medici che ogni giorno combattono contro quella che è una vera e propria malattia del nostro tempo. Il libro sarà presentato mercoledì 23 marzo alle 18 alla Feltrinelli di Roma in Galleria Alberto Sordi con la ministra per le Pari opportunità e per la Famiglia Elena Bonetti e con il vicedirettore del «Corriere» Aldo Cazzullo. Il 7 aprile alle 18.30 la presentazione a Milano alla Feltrinelli di piazza Piemonte.

«Sono io, è vero. Sono proprio io. Ma come posso essere arrivata a questo punto? Mi specchio dieci volte al giorno, controllo sempre le gambe, le braccia, la pancia. Non mi sono mai accorta di essere così magra, mi sento bene. Mi vedo bene». «Quando sei malata non lo capisci. Arrivi al fondo dell'abisso e non te ne rendi conto. L'immagine che vedi riflessa nello specchio è un'altra. Una te che non corrisponde alla realtà. Si chiama «dispercezione», adesso lo so. All'epoca non ne avevo idea. In realtà trent' anni fa i disturbi alimentari erano quasi sconosciuti. Non se ne parlava, non si affrontava il problema. 

E allora ognuno doveva cercare una strada per uscirne, per guarire. Nei casi più gravi scattava il ricovero in ospedale, per gli altri non si parlava di cure, di assistenza. Dovevi smetterla, quasi fosse un capriccio, una debolezza. A me è successo proprio così. All'improvviso, dopo circa un anno, tutto mi è apparso chiaro. È bastata quella foto, quell'immagine di un'altra me che non ho riconosciuto. Ma arrivarci è stato difficile e anche la risalita è stata faticosa. Perché è vero che ti senti invincibile, sembri fragile ma sei fortissima, sembri stremata ma sei combattiva.

E quando decidi di guarire sei costretta a fare i conti con quello che è successo, a ricostruire ogni dettaglio, ogni pezzetto della tua giornata, della tua vita, per metterli insieme e ricominciare. Perché la chiave giusta è una sola: decidere di guarire». (...) «Avevo ventitré anni e facevo già la giornalista. Dopo quattro anni di lavoro precario ero riuscita ad avere un contratto da praticante al «Messaggero» e certo, essendo così giovane, lavorare nel più grande quotidiano di Roma, la mia città, era uno dei motivi per essere orgogliosa di quello che avevo fatto, fiera per quello che avrei potuto continuare a fare. La mia vita era piena di soddisfazioni, di amici, di affetto.

Avevo realizzato il sogno coltivato fin da bambina: diventare giornalista. Per me è sempre stato il traguardo da raggiungere. Nessuna alternativa, nessun'altra opzione. Giornalista come mio papà. All'epoca ero soltanto una principiante, ma aver ottenuto quel posto era una soddisfazione immensa. Non avevo problemi economici o esistenziali, non ero assillata da pensieri negativi o ansie. Giocavo a tennis, sciavo, nuotavo, ero sportiva. Ero felice. E allora perché mangiavo poco e vomitavo tutto? Perché continuavo a dimagrire e pensavo di essere grassa? Perché facevo finta di stare bene ma il mio pensiero fisso era quello di svuotare il mio corpo dal cibo? Tante volte, ancora oggi, ripenso a quei dodici mesi, a quello che facevo, a come riuscivo a essere in realtà due persone diverse.

Sdoppiata, ero così. Tante volte, quando parlo con le adolescenti che soffrono di anoressia o di bulimia, quando vedo queste ragazze che potrebbero essere spensierate e invece diventano tristi, cupe, ossessionate, torno a quei mesi. Metto in fila i ricordi delle mie giornate. Provo a capire che cosa si fosse rotto dentro di me. Non c'è un inizio, non lo ricordo e non ho mai fatto niente per trovarlo. Non c'è stata una causa scatenante. È successo e basta, e io non sono riuscita a comprendere che il disturbo si era impossessato della mia testa». (...) Ci sono famiglie sconvolte da questa «pandemia nella pandemia», numeri impressionanti, oltre tre milioni di persone malate e almeno quattromila vittime, persone che questa battaglia non riescono a vincerla. Ecco perché bisogna impegnarsi, trattare questo fenomeno come si tratta una vera emergenza. (...)

Sembra strano, ma ci sono parole che non andrebbero mai pronunciate, domande che non dovrebbero mai essere poste. Dire «mangia» a una persona che ha un disturbo alimentare suona come una presa in giro. Chiedere «quanto pesi?» a chi soffre di anoressia ha l'effetto di un insulto. Cercare di sapere se chi soffre di bulimia fa le abbuffate di giorno o di notte, quante calorie ingerisce, se preferisce il dolce o il salato, diventa curiosità perversa. E poi ci sono gli sguardi, i sorrisi ironici, gli apprezzamenti pesanti. Ci sono i giudizi apparentemente innocui che invece in un attimo possono farti ripiombare nell'incubo. Ecco perché bisogna stare attenti, misurare ogni gesto.

Francesco Musolino per “il Messaggero” il 17 marzo 2022.  

«Io so come ci si sente. A me è successo quando avevo ventitré anni». Comincia così, con una spiazzante confessione e al contempo, un'importante presa di posizione, Affamati d'amore, il saggio firmato da Fiorenza Sarzanini, da oggi in libreria, edito da Solferino libri (pp.144 16). Firma di primo piano del giornalismo italiano, vicedirettrice de Il Corriere della Sera, in queste pagine rivela la propria esperienza con l'anoressia - «quando sei malata non lo capisci, arrivi al fondo dell'abisso e non te ne rendi conto» - e dopo circa un anno di sofferenza, un'improvvisa presa di coscienza e la lotta per venirne fuori, aiutata dalla passione per il proprio mestiere, seguendo l'esempio del primo maestro, suo padre Mario, storica voce dell'Ansa.

Sarzanini racconta il proprio calvario e rompe i consueti cliché: «Avevo ventitré anni e facevo già la giornalista (...) dopo quattro anni di lavoro precario ero riuscita ad avere un contratto da praticante al Messaggero (...) non avevo problemi, ero felice. E allora perché mangiavo poco e vomitavo tutto? Perché continuavo a dimagrire e pensavo di essere grassa?». 

IL PODCAST Un libro nato dal successo riscontrato lo scorso settembre, dopo aver realizzato - con Francesca Milano - Specchio, un podcast composto da sei storie e prodotto da Chora, cogliendo l'emergenza dei disturbi alimentari, un dramma sepolto nella vergogna, scambiato per un capriccio, condannato dallo stigma sociale. I numeri raccolti da Sarzanini sono spaventosi - «oltre tre milioni di persone malate e quattromila vittime» - che con il lockdown che ha visto il moltiplicarsi di casi di autolesionismo, una vera «pandemia nella pandemia».

IL FENOMENO Ecco la presa di coscienza necessaria di un fenomeno allarmante che ha spinto la giornalista a raccogliere in queste pagine altre storie reali e forti, lanciando un monito a tutti i lettori sul rischio che si corre nel voler ricercare a tutti i costi la perfezione dei corpi, quella fatale dispercezione del sé, alimentata dal tranello di un inafferrabile canone estetico imposto dai social.

Sarzanini che presenterà il libro il 23 marzo a Roma, ore 18 presso la Galleria Alberto Sordi, dialogando con il Ministro per le pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti e il giornalista Aldo Cazzullo comincia questo viaggio compiendo un balzo all'indietro, raccontando i primi anni alla cronaca del Messaggero mentre la passione per il mestiere coesisteva con il disturbo anoressico, «tanto che ancora oggi - spiega - la bilancia per me è diventata una compagna di vita, è come la coperta di Linus», accettando di mettersi dalla parte di chi viene considerato difettato.

E poi ecco le storie di Simona, Paolo, Marilù, Vanessa, Bianca, Matteo ed Ylenia, con cui l'autrice parla alla pari. Così facendo racconta esperienze di bulimia e binge eating che drammaticamente si sommano e sovrappongono, conducendo all'autoisolamento, al rifiuto del proprio corpo, ad un drammatico distacco dalla realtà; e ancora, il fenomeno dei blog pro-ana in cui si recluta un esercito di ragazzine, istruite ai precetti dell'anoressia, ingannando gli adulti, sorde agli allarmi sempre più insistenti lanciati dal proprio corpo.

LE STRUTTURE Infine, nell'ultimo capitolo, Sarzanini ci mostra le strutture specializzate per accogliere e curare, incontrando a Todi la psichiatra Laura Dalla Ragione e poi, la psicoterapeuta Monica Felisi che opera alla residenza Villa Miralago di Cuasso al Monte e infine, la psicologa Benedetta Spaccini che lavora alla Madre Cabrini di Pontremoli, riflettendo sulle cause che innescano la malattia, sulle strategie per aprire gli occhi ai pazienti e dar vita al percorso di guarigione. Ma l'autrice chiarisce che il necessario punto di partenza per affrontare questa fragilità è la presa d'atto, l'ammissione del problema, «la volontà di guarire», imparando a cambiare lo sguardo sul proprio corpo, ricominciandosi ad amare. Sì, anche davanti allo specchio.

Adolescenti e anoressia, il libro di Fiorenza Sarzanini: «Quella mia disperazione ancora senza un perché». Manuela Croci su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2022.

Fiorenza Sarzanini racconta la sua esperienza con i disturbi alimentari, che la pandemia ha trasformato in un’emergenza diffusa. «Sono passati 30 anni, sono guarita. Ma quando viaggio porto la bilancia». Dialogo con la psicoterapeuta Stefania Andreoli per fare il punto su tutto quello che sappiamo. 

In Italia, il 36,2% dei pazienti con disturbi alimentari soffrono di anoressia nervosa, il 17,9% ha una bulimia nervosa, il 12,4% il bing eating e il 33,5% altri disturbi

Questo articolo sarà pubblicato sul numero di «7» in edicola venerdì 8 aprile, insieme ad un altro servizio sugli adolescenti italiani a firma di Alessandro D’Avenia. Lo anticipiamo online per i lettori di Corriere.it

«Quando sei malata non lo capisci. Arrivi al fondo e non te ne rendi conto. L’immagine che vedi riflessa nello specchio è un’altra. Una te che non corrisponde alla realtà. Si chiama “dispercezione”, adesso lo so. All’epoca non ne avevo idea. In realtà trent’anni fa i disturbi alimentari erano quasi sconosciuti ». Fiorenza Sarzanini, vicedirettrice del Corriere della Sera, parla così nel suo libro Affamati d’amore (Solferino) dell’anoressia di cui è stata vittima quando aveva ventitré anni. «La mia vita era piena di soddisfazioni, di amici, di affetto», continua qualche pagina dopo. «Avevo realizzato il sogno coltivato fin da bambina: diventare giornalista». Ma qualcosa non andava, quell’apparente perfezione nascondeva un senso di inadeguatezza, un perché ben nascosto nel profondo.

«Alla fine non ho più cercato una spiegazione, il motivo scatenante che mi ha portato all’anoressia. Sicuramente c’era qualcosa che non andava in quella vita apparentemente perfetta. Forse aver raggiunto a soli 23 anni l’obiettivo che mi ero prefissata — diventare giornalista e soddisfare mio padre — è stato quasi troppo. Non sono riuscita allora a capire la causa e non ci riesco adesso. E forse non è neanche importante capirlo. Se ti concentri solo su questo rimani avvitato nel problema. Credo che l’importante non sia individuare la causa, ma cercare il rimedio. Rovesciare il problema », spiega Sarzanini. «Le cause sono spesso più di una, intrecciate e multifattoriali», aggiunge Stefania Andreoli, psicologa, psicoterapeuta e analista che lavora da sempre con gli adolescenti. «Per la mia esperienza, il cuore pulsante sta sempre dentro ad una matrice affettiva che riguarda il valore, l’uso e il significato simbolico e affettivo che si attribuisce al cibo. Ovvero: non si tratta di pazienti che non sanno mangiare. Lo sanno benissimo, spesso sono nutrizionisti honoris causa . Ma non lo fanno. In questo modo, comunicano un messaggio che va tradotto, da persona a persona, a sé stessi e al loro mondo degli affetti».

ANDREOLI: «IO SUGGERISCO DI NON ASPETTARE. DIMOSTRIAMO DI AVER VISTO LA SOFFERENZA E DI ESSERE DAVVERO PREOCCUPATI»

Ammettere che si ha un problema e lasciarsi aiutare può essere un primo passo, anche se a volte non è sufficiente. «Si tratta di faccende raffinate e complesse che non basta pensare e razionalizzare, ma occorre incontrare nella loro profonda e dolorosa dignità», precisa la psicologa. «Per questo il mio suggerimento in questi casi è di mostrare al ragazzo o alla ragazza in questione che li abbiamo visti, che ci siamo accorti di loro. E che siamo sinceramente preoccupati». La difficoltà in più è che il disturbo alimentare ti dà una forza inaspettata. All’esterno sembri fragilissimo, ma dentro ti fa trovare un vigore pazzesco. «È la forza del controllo maniacale del tuo corpo», prosegue la scrittrice. «Ai ragazzi dico: quando vi scatta questa cosa, ammettete con voi stessi che non è una forza, ma che in realtà rischia di indebolirvi troppo. Cercate vicino a voi una persona, un amico, un familiare, qualcuno che vi possa aiutare a uscirne fuori. Privarsi del cibo non è controllare il proprio corpo, ma distruggerlo ».

IL 36,2% DEI PAZIENTI SOFFRONO DI ANORESSIA NERVOSA, IL 17,9% HA UNA BULIMIA NERVOSA, IL 12,4% IL BING EATING E IL 33,5% HA ALTRI DISTURBI ALIMENTARI (FONTE: ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ). L’IMPORTANZA DI SAPER COGLIERE I SEGNALI

Spesso i segnali non sono improvvisi e dobbiamo saperli cogliere, leggerli per quelli che realmente sono costruendo uno sguardo attento. «Non si ha un disturbo alimentare solo se è la bilancia a dirlo: ben prima di un drastico dimagrimento o di un “effetto yo-yo” i segnali sono una sistematica selezione del cibo, l’intensificarsi della attività fisica, l’annullamento delle situazioni sociali e famigliari in cui si mangia, un’alterazione dell’umore », precisa la psicologa. «Per i più piccoli, saltare ripetutamente la merenda a scuola, dire che si ha mal di testa per non stare a tavola durante il pasto, reagire ai litigi e alle tensioni dicendo “allora non mangio” sono campanelli d’allarme». In questi anni l’attenzione per questo tipo di disturbi è certamente cresciuta, in Italia coinvolge circa 2,4 milioni di persone. È la seconda causa di morte tra gli adolescenti, preceduta solo dagli incidenti stradali. «Trent’anni fa quasi ci si vergognava a dire “mia figlia soffre di un disturbo alimentare”, per i genitori o facevi i capricci e quindi dovevi finirla e sederti a tavola oppure eri matta», continua Sarzanini. «In entrambi i casi c’era una sottovalutazione del problema, ora c’è più consapevolezza. Ai genitori dico: “Tuo figlio non è matto, è malato. E non c’è niente di male”. Se si rompe un braccio, lo fai curare. E senza vergognarti. Lo stesso vale se soffre di anoressia o bulimia».

Genitori disarmati e disorientati

Non bisogna quindi nascondere ma affrontare il problema senza lasciar trascorrere troppo tempo. La conferma arriva anche nelle parole di Andreoli. «Trovo che la cura d’elezione sia la terapia psicologica - non solo per il paziente, ma anche per i suoi genitori: spesso, le mamme e i papà sono disarmati e disorientati e aiutarli a stare con il figlio o la figlia malati è parte fondamentale della cura. A seconda della severità della situazione, poi, un approccio combinato che affianchi il medico e il nutrizionista è imprescindibile e può fare la qualità diversa. Il mio suggerimento comunque è di non aspettare ». E di parlarne sempre di più, come si sta facendo con Affamati d’amore, con il podcast Specchio - sempre della stessa autrice - e come è stato fatto lo scorso 15 marzo in occasione della Giornata del fiocchetto lilla, nata proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica sui disturbi dell’alimentazione e della nutrizione. Disturbi che - a differenza di quanto siamo abituati a pensare - non coinvolgono solo giovani ragazze che “vogliono fare le modelle”, come si diceva semplificando fino a qualche anno fa.

«I CASI RIGUARDANO ANCHE GLI ADULTI». SONO 2,4 MILIONI I PAZIENTI IN TRATTAMENTO IN ITALIA NEL 2020. SI RITIENE PERO’ CHE IL DATO SIA SOTTOSTIMATO PERCHÉ UN’IMPORTANTE QUOTA DI PERSONE NON CHIEDE AIUTO E NON ACCEDE ALLE CURE

«I casi sono molto più trasversali di quanto si creda e riguardano anche gli adulti, nonché forme senili », precisa Andreoli. Il 90% delle persone che ne soffrono sono donne, ma ci sono anche tanti uomini che hanno questi disturbi. Nel libro di Sarzanini si raccontano le storie di Paolo e Matteo: uno 290 kg, l’altro tutto muscoli. «Tanti ragazzi si vergognano o faticano a comprendere. La vigoressia, che è un vero, gravissimo disturbo perché somma la fatica fisica alla privazione del cibo, è quasi tipicamente maschile. Però quello che tu vedi spesso sono giovani muscolosi che è difficile riescano ad ammettere che hanno un problema, perché lo pensano come un segno di cedimento rispetto al proprio culto del corpo». Proprio per questo ci vuole molta attenzione nei confronti di chi ci sta vicino.

Il cibo partner d’elezione a discapito di altri affetti

Spiega Stefania Andreoli: «La perdita o l’aumento di peso sono esclusivamente quanto si osserva in superficie. I movimenti profondi della mente dietro ad un disturbo alimentare parlano di dipendenza e controllo, di regolazione del pieno e del vuoto emotivi, di relazione con il cibo che viene scelto come partner d’elezione a discapito del legame con le altre figure affettive di riferimento, che in questo modo finiscono sotto ricatto: nessuna madre la spunta con una persona anoressica chiedendole di sforzarsi a mangiare e nessun fidanzato ha la meglio su una con un binge eating disorder, proponendole di provare a trattenersi. Si scoprirà, al contrario, che sia controproducente: per chi è affetto da un disturbo del comportamento alimentare, prima viene sempre il pensiero del cibo». E un periodo complesso come quello della pandemia ha acuito la situazione, si stima che i casi siano aumentati anche del 40%. Stare tutti in casa ha evidenziato le tensioni familiari e soprattutto i bambini hanno risentito del distanziamento con i loro pari, della mancanza di dialogo e gioco con gli amici.

L’AUMENTO DEI DISTURBI IN PANDEMIA E I CENTRI DI CURA IN ITALIA SONO 108 LE STRUTTURE ACCREDITATE (101 DEL SSN E 7 DEL PRIVATO ACCREDITATO): 55 CENTRI AL NORD (DI CUI 19 IN EMILIA-ROMAGNA), 18 AL CENTRO ITALIA E 35 TRA SUD E ISOLE

«Sono passati da andare a scuola, magari anche il pomeriggio, e fare poi attività sportiva, musicale, uscite con gli amici a restare chiusi con mamma e papà. Circondati da tensioni, e non mi riferisco necessariamente a liti. Così, purtroppo, in molti casi hanno spostato l’attenzione: guardate me, occupatevi di me, vi do io un problema. E hanno iniziato a non mangiare o a mangiare male. C’è sempre un rapporto con i genitori alla base, nel bene o nel male», riflette Fiorenza Sarzanini. A lei abbiamo chiesto un ultimo commento: sono trascorsi 30 anni da quella foto in cui ha capito di avere un problema, si guarisce completamente o quel disagio avuto resta latente nella testa e un cambiamento come la pandemia o un lutto possono risvegliarlo? « Il rapporto con il cibo, anche per le persone che non hanno avuto nessun disturbo o malattia, è sempre la spia dello stato d’animo: chi ha un pensiero o nervosismo non mangia o mangia tanto. Le persone sfogano nel cibo le proprie emozioni. Quando vai oltre, allora si crea uno scompenso. Posso dire che si guarisce, perché si guarisce e io sono guarita, ma in fondo una spia, un allarme resta. Io viaggio con la bilancia, è la mia coperta di Linus».

·        Franca Leosini.

Franca Leosini compie 88 anni , il quadernone e le frasi cult, la volta che pianse un quarto d’ora: sette cose che non sapete su di lei. Renato Franco su Il Corriere della Sera il 16 Marzo 2022.

La conduttrice: I miei interlocutori non sono mai professionisti del crimine, ma persone come me che a un certo punto cadono nel vuoto di una maledetta storia.

La passione per il noir

Rigorosa lettura delle carte processuali, domande chirurgiche che non eludono questioni scomode, cifra lessicale unica: Franca Leosini è da tempo una popstar televisiva con tanto di groupie (i leosiners). Nostra Signora dei delitti, versione 16:9 del Truman Capote «a sangue freddo» oggi compie 88 anni (anche se sull’età spesso ha aleggiato il mistero) . Franca Lando, coniugata Leosini, è nata dunque a Napoli. Dopo la laurea in Lettere Moderne, inizia a lavorare per la carta stampata all’Espresso, la tv arriva senza che lei la chiedesse nel 1988. «Ero al Tempo e seguivo il processo sull’omicidio di Anna Parlato Grimaldi discendente della notissima famiglia di armatori. I miei resoconti piacquero e fui chiamata direttamente dalla Rai come autore per Telefono Giallo di Augias. A quel tempo mi resi conto che nel noir sono racchiuse tutte le grandi passioni umane, da lì cominciò tutto»

Il fascino per la mente umana

Sono passati 27 anni dalla prima puntata di Storie maledette (era il 1994) e il suo registro non è cambiato: un racconto ipnotico, psichedelico, non alieno dal barocco con una cifra stilistica (brand Leosini) che alterna espressioni come «fulgore ustionante» a «persona di merda», perché il basso lo può toccare solo chi conosce anche l’alto. Scrive di suo pugno i comunicati stampa del programma, non vuole repliche (che sarebbero per lei remunerative) «perché le persone in carcere cambiano e sarebbe una violenza». Quello che la affascina è la mente umana: «Mi piace indagare il percorso psicologico, umano, ambientale che porta una persona a commettere un gesto da cui fino a quel momento era lontana. I miei interlocutori non sono mai professionisti del crimine, ma persone come me che a un certo punto della loro vita cadono nel vuoto di una maledetta storia»

Quindici minuti di lacrime

Quando ripercorre un delitto Franca Leosini sembra fredda con chi l’ha commesso, non risparmia domande urticanti, è diretta, non lascia trasparire il suo pensiero. «Sono come un chirurgo che deve fare un’operazione. Rispetto le persone che ho di fronte perché scendono con me nell’inferno del loro passato, negli abissi dei loro ricordi, ma non risparmio loro nulla. Cerco di capire cosa ha cambiato la traiettoria della loro vita, ma le storie che racconto le vivo e mi attraversano: dopo la puntata con Mary Patrizio che aveva ucciso il figlioletto di 5 mesi affogandolo nella vasca da bagno ho pianto per un quarto d’ora»

Le tre regole del suo lavoro

Le regole del suo lavoro sono tre. «E inderogabili. Non anticipo mai le domande. Devo incontrare una volta i condannati per studiarne la prossemica e il passato, ma non prendo appunti davanti a loro. Valuto il tasso di sincerità, non strumentalizzo nessuno ma non mi faccio strumentalizzare: se ho la sensazione che succeda, lascio perdere». Dalle sue storie maledette esclude la pedofilia e le vicende nelle quali il movente del delitto è esclusivamente economico: «Quelle che a me interessano sono le grandi passioni umane, che sono l’asse portante delle nostre vite»

Il quadernone cult

Il quadernone con i suoi appunti scritti a mano è un cult. «È il mio spartito musicale, conta non solo il contenuto della domanda ma anche il tono: si possono usare parole dolci e toni duri e viceversa». Il suo è un lessico alto, molto ricercato. «Non è ricercato. È diverso: io le parole le possiedo e le metto al servizio del racconto». Questione di talento o studio? «Il talento è come l’erba: va coltivata e curata. Ho delle doti naturali che coltivo con la lettura». Per realizzare ogni puntata ci mette tre mesi: «Leggere migliaia di pagine di documenti, scrivere i testi e fare il montaggio è un lavoro certosino, quasi come scrivere un episodio di Montalbano. A ogni puntata scrivo l’equivalente di un romanzo»

Le frasi da circoletto rosso

Metafore azzeccate, un vocabolario che si sofferma su lemmi spesso ricoperti di polvere, negli anni ha regalato frasi che sono frecce dritte al cuore. «Olindo e Rosa, due pastori scesi da un presepe sbagliato». «Il cervello non è una polpetta piazzata al centro della testa». «Ma chi era Wanna Marchi? Una perfida calcolatrice o un’emerita deficiente?». «Pestava la vittima come una cotoletta». «Lei non è nato ricco perché la cicogna è un animale sbadato». «Quel ditino birichino aveva la sua ragione d’essere in quel momento intimo»

Il vizio, il vezzo e il marciapiede

Icona gay, lettrice onnivora («tranne che di gialli»), ha un unico vizio: «Non fumo, non bevo. Ma la cioccolata al latte è una droga». Signora si nasce: «Tutto quello che vedete in video lo acquisto io e la prima volta lo indosso sempre in tv». Ma signora non le piace essere chiamata: «Sono Franca. E basta. Le signore stanno nei salotti, le giornaliste sui marciapiedi»

Da "I Lunatici" su "Rai Radio2" il 9 marzo 2022.

Franca Leosini è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", programma condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 più o meno tra l'una e le due e un quarto.

La celebre giornalista ha parlato di parità di genere: "Non credo che il Covid l'abbia allontanata. Il Covid non c'entra. È un percorso, questo, che praticamente continua a essere lento ma costante. 

Io onestamente parlo da persona che un mestiere da tanti anni. Parliamo di giornalismo. Di giornaliste ce ne sono tante. Queste lamentazioni continue mi sembrano esagerate. Siamo sulla strada giusta.

Restano settori che sono più preclusi alle donne rispetto ad altri, però onestamente il percorso noi donne lo stiamo facendo. Non amo le lamentazioni. Non lamentiamoci sempre troppo, altrimenti poi diventa quasi uno slogan". 

Sui suoi esordi: "Ho iniziato da un giornale di moda che però aveva anche pagine letterarie. C'erano dei redattori bravissimi. È successo a Capri. C'erano questi redattori e il vicedirettore che a un certo punto mi commissionarono un pezzo. Io l'ho scritto ed ebbe un tale riscontro che loro immediatamente mi hanno fatto un contratto.

L'arrivo in Rai? Il primo giorno fu un'ospitata. Tante volte le circostanze aiutano i nostri percorsi. Parlo in generale, logicamente bisogna avere una capacità e la prontezza di cogliere l'occasione che ti viene offerta dal destino. Il destino qualche volta ti apre delle strade, poi spetta a noi saperle cogliere".

Franca Leosini poi ha parlato un po' di se: "Il mio primo amore? È stato con un uomo molto più grande di me. Avevo una sorella, che purtroppo è morta in un incidente, che aveva dodici anni più di me. Grazie a lei le mie prime frequentazioni sono state con persone molto più grandi di me. Il mio primo amore aveva 34 anni, io ne avevo 17. Era un ingegnere. Mi diceva che quando mi teneva tra le braccia era come stringere tra le mani le palline di un albero di Natale".

Ancora Franca Leosini: "Di notte, quando sono sveglia, di solito leggo. Riesco ad esorcizzare così i pensieri negativi che sono presenti nella vita di ciascuno di noi. Cosa mi fa paura? Mi spaventa l'idea che persone della mia famiglia possano non stare bene. È una cosa che mi crea ansie". 

Sul suo rapporto con Napoli, città che le ha dato i natali: "Con Napoli ho un rapporto meraviglioso. Non si può non amare Napoli, non si possono non amare i napoletani. Il napoletano ti stende sempre una mano se hai bisogno di aiuto. Vivo quasi più a Roma che a Napoli, però quando posso cerco di tornare a Napoli".

Sulla popolarità: "È una cosa che mi gratifica molto. Non amo particolarmente le persone pubbliche che a un certo punto hanno la spocchia di lamentarsi della gente che li ferma. Io quando vado al supermercato so quando entro e non so quando esco. Vengo fermata in continuazione, ma sono felice di questo. 

Lavoriamo per gli altri, quando siamo circondati da affetto dobbiamo restituire ciò che ci viene dato. Non apprezzo chi fa il nostro mestiere e a un certo punto mostra fastidio verso il pubblico. Più che stupirmi, quasi mi indigno. Quando mi chiedono di fare una foto, sono felicissima".

·        Francesca Fagnani.

Maria Volpe per il “Corriere della Sera” il 30 ottobre 2022.

Adora lavorare tanto. Ammette che deve moltissimo a Michele Santoro. Rivendica la sua totale indipendenza professionale dal compagno Enrico Mentana. Sottolinea con fierezza la sua lunga gavetta. Francesca Fagnani, 45 anni portati molto bene, si sveglia presto la mattina, si allena quattro volte a settimana, più yoga. Inchieste, libri, programmi tv. 

Perché lei ha «la furia dentro, faccio tante cose per scaricare l'adrenalina». Il primo novembre parte la terza stagione di «Belve» su Rai2 in seconda serata. Non si sentiva la necessità di altre interviste in tv, visto che da mattina a sera tutti intervistano tutti, ma lei è stata capace di dare un taglio speciale agli incontri. Ne sono nati momenti virali molto gustosi perché ai social il programma piace molto. Anche i social come la giornalista pensano che «Belve» non sia un sostantivo, ma un complimento che disegna una «donna non gregaria, forte, determinata».

Francesca, il 25 novembre compie 46 anni.

«Sì, ma per ora ne ho 45. Scusi ma sono molto scaramantica» 

Lei scaramantica?

«Sì molto. Non metto il viola - che pure mi piace - e la mattina devo scendere dal letto prima con il piede destro. Diciamo che faccio mia la frase di De Filippo: esser e scaramantici è da ignoranti, ma non esserlo porta male ».

Lei non è la compagna di Enrico Mentana, ma una giornalista legata sentimentalmente a Mentana. Il quale è un direttore, legato sentimentalmente a lei. Sulla premessa siamo d'accordo?

«Certamente sì, anche perché io non ho fatto mai nulla per mostrarmi in coppia. Neanche una foto insieme». 

Vero, non ha mai usato nemmeno una briciola della fama del suo compagno.

«Ho fatto tutto da sola, nel bene e nel male».

Ma io volevo parlare dei vostri due cani, i due splendidi cavalier king, Nina e Bice, loro sì molto fotografati.

«Nina l'ha scelta Enrico e sembra una principessa, Bice l'ho scelta io e dovrebbe chiamarsi Scampia. Quel che mi fa rabbia è che sono entrambe pazze di Enrico. Io cucino per loro, ma niente: si buttano solo su di lui». 

Nel 2015 ha perso la sua mamma, ne parla spesso ancora con dolore e rimpianto.

«Mi manca ancora tanto. Non le ho dato le soddisfazioni che si meritava in vita. Quando perdi la mamma sei più sola al mondo, non c'è più nessuno che ti chiede: "Come stai, hai mangiato?". Sembrano sciocchezze, ma non lo sono. Non c'è giorno che non la pensi. Ho capito tutto troppo tardi».

Laureata alla Sapienza in Lettere con dottorato in filologia dantesca. Poi un anno a studiare a New York ed è li 11 settembre 2001, quando vengono abbattute le Torri gemelle. A 24 anni, si trova al posto giusto nel momento giusto.

«Nella disgrazia, un vero colpo di fortuna. Ho cominciato a fare la stagista, lì, con Giovanni Floris. Una grande esperienza e la certezza che avrei fatto la giornalista»

Perché è tornata?

«Perche noi romani torniamo sempre. I milanesi sono rimasti tutti là. Io senza la pizza bianca non ci so stare».

 Torna e ha il secondo colpo di fortuna: l'incontro con Giovanni Minoli.

«Mi ha insegnato che l'intervista non deve fare piacere all'ospite e che l'intreccio tra il registro privato e quello pubblico è vincente. E che condurre è l'ultimo aspetto. L'importante sono la preparazione, lo studio, la scenografia». 

Non c'è due senza tre: lavora con Michele Santoro ad «Annozero», un programma da 30% di share. Più di così...

«La mia vera università televisiva è stata Santoro. Mi ha insegnato tutto: si sedeva di fianco a me, per cambiarmi la punteggiatura dei pezzi.

Quanto ho imparato da lui!» 

Per esempio?

«Non subire la fascinazione del potere. Mi ha sgridato terribilmente perché in un servizio davo del tu a un operaio. E aggiunse: "Se lui piange disperato per il lavoro, non devi consolarlo, devi farlo incazzare"». 

Santoro era ed è molto esposto politicamente, lei no.

«Io sono di un'altra generazione, non ho posizioni precostituite. Contano le cause per me». 

La sua causa?

«Le carceri. Ho fatto un reportage su Rai3, nel carcere minorile di Nisida. Poi ho visitato molte altre carceri: si pensa che il male chiuso là faccia bene a noi. Ma non è così». 

Lei è di quelle magre che mangiano tutto e non ingrassano mai?

«Sì». 

Chi è la sua migliore amica?

«Carlotta, compagna del liceo». 

Parliamo di «Belve». Primi problemi di questa terza edizione?

«Intervista registrata con Massimo Ferrero, ex presidente della Sampdoria. Alla fine mi chiede di tagliare una domanda e dico no. Diventa una furia, mi viene quasi addosso e si nasconde la liberatoria dentro la camicia, scappando».

Quindi come accadde per Elettra Lamborghini, anche questa intervista non la vedremo mai in onda?

«Io mi auguro che questa volta la Rai tenga il punto e la mandi in onda. Bisogna smettere di subire la prepotenza dell'ospite. Dobbiamo recuperare il senso di dignità del nostro mestiere. Tagli e altre richieste non si accettano» 

Le chiedono di avere le domande prima?

«È successo, ma dico sempre no. De Laurentiis non è venuto per questo. Noemi Letizia invece è sparita. Tutto già organizzato, poi dopo i risultati elettorali non si è presentata, senza dare spiegazioni». 

Nel 2018 ha realizzato una lunga intervista a Giorgia Meloni. Cosa la colpì allora?

«La sua umanità. Ebbe la generosità di aprirsi, e non era forte come oggi. Aveva solo il 5%. Non fu mai banale». 

Se la intervistasse oggi, che domanda in più le farebbe?

«Non è ricattabile, perché? Chi ha tentato di farlo e su cosa?» 

Qualche no imprevisto?

«Due donne: Sabina Guzzanti che prese proprio male l'invito (mi disse: "le piacerebbe se la chiamassero belva"? ). E Daria Bignardi: da una che ha fatto Le Invasioni barbariche non me l'aspettavo». 

Simpatiche impreviste?

«Bianca Berlinguer, Annamaria Bernardini De Pace, Paola Ferrari». 

Lei non rinuncia alle domande più dure. Chiese ad Alessandra Mussolini se avesse perdonato il marito che fu coinvolto nel caso di prostituzione minorile.

«Io faccio tutte le domande che devo fare, sempre. E la Mussolini fu bravissima. Disse: "Perdonare chi, cosa? Si va avanti per i figli"...» 

È vero che vorrebbe tanto avere Francesca Pascale a «Belve», ma lei non viene?

«Vero. La vorrei tanto. Io la intervistai mentre si stava lasciando con Berlusconi, per Il Fatto . E lei lì fece capire la sua omosessualità. In seguito a quell'intervista, la notò Paola Turci e poi nacque l'amore. Quanto mi piace questa storia! Poi sono diventata molto amica di Paola». 

«Belve» è una boccata d'ossigeno rispetto alle sue inchieste su mafia e camorra?

«Mi sa che è il contrario... Almeno la malavita è organizzata. A Belve è sempre complicatissimo, tra casini, ospiti che si arrabbiano (Asia Argento, Monica Guerritore, Morgan), richieste di tagli (Renzi). 

La verità è che ho una grande passione giornalistica per le storie di mafia e camorra. Ci sto scrivendo anche due libri». 

Nel 2012 è riuscita a infiltrarsi nel blitz della polizia dentro casa dei Casamonica.

«Sì, ho filmato tutto, un video cliccatissimo. Dopo di allora ho ricevuto minacce di morte da tutta la loro famiglia». 

«Belve» di fatto è giornalismo, non intrattenimento. Lo farebbe se no?

«No. Ho ricevuto per questa stagione televisiva due proposte molto allettanti e ben retribuite per l'intrattenimento, ma ho detto no. Non è snobismo: è che si allontanerebbe troppo da me. Non ce la farei più, dopo , a fare inchieste». 

Vincenzo De Lucia fa una sua imitazione strepitosa.

«Mi fa molto ridere». 

Lei e Mentana siete legati dal 2013, quasi 10 anni. Un bilancio?

«L'amore è come il Giro d'Italia, si vince a tappe». 

Parlate di lavoro a casa?

«Lui non vuole». 

Lui ha quattro figli (da tre donne diverse). È molto complicato?

«Per lui sì! Scherzi a parte, ho un ottimo rapporto con tutti loro. Sono simpatici. Non è che siamo una famiglia allargata, però» 

Ha scelto lei di non avere figli?

«Diciamo che non sono venuti e non me la sono mai sentita di insistere. Evidentemente non era un'esigenza così pressante per me. Deve essere una grande gioia, ma non penso sia l'unico modo per realizzarsi». 

Quindi nessun rimpianto?

«Nessuno. Dopo la Dad poi..» 

È molto ironica e molto romana lei.

«È vero». 

Ora con il nuovo governo, ha paura per le donne? Possiamo perdere diritti acquisiti?

«Giorgia Meloni è troppo intelligente per tornare indietro. Lei è più aperta del partito di cui è leader». 

Nessuna perplessità?

«La scelta di Lorenzo Fontana, presidente della Camera e Eugenia Roccella, Ministro per le pari opportunità e la famiglia. Quelle sì. Ma seguire una certa china sarebbe la fine per Meloni. E io mi voglio fidare della sua intelligenza». 

Ha mai pensato di sposarsi?

«Mi angoscia l'idea del "per sempre". Giurare mi sembra un azzardo».

Francesca Fagnani. Rita Vecchio per leggo.it il 7 settembre 2022.

«L'Inferno, per quanto la compagnia sia allegra, mi pare troppo. Per il Paradiso non son degna. L'onestà intellettuale porterebbe a piazzarmi nel Purgatorio». Risponde divertita Francesca Fagnani per la quale tutto ha inizio - «Pensa te!» - con la filologia dantesca. Romana, classe 1978, nella vita privata compagna da dieci anni di Enrico Mentana. Il viaggio nel girone giornalisti comincia con un dottorato a New York che l'ha catapultata nell'attentato alle Torri Gemelle. 

«Ero dentro la notizia. Ho visto implodere la seconda torre. Mi presentai nella sede di Rai Corporation. L'attentato è stato un acceleratore emotivo e lavorativo». Oggi è la conduttrice del programma che ha ideato e scritto, Belve, sul Nove prima di traslocare in seconda serata su Rai2 da dove ripartirà il 1 novembre con tre appuntamenti settimanali.

Così da Dante a Belve il passaggio è dovuto.

«Mica ci trovi le gatte morte all'Inferno». 

Gatte morte, no. Ma belve, sì. Il Sommo Poeta incontra lonza, lupa e leone. Lei quali ostacoli ha incontrato?

«Nessuno (ride, ndr)». 

A rispondere così, sò boni tutti, ribatterebbe Fagnani.

«Dichiarare di essere stata ostacolata sarebbe ingeneroso. C'è competizione e la credibilità va conquistata. Ho avuto due maestri del giornalismo tv che mi hanno messo un mestiere nelle mani: Giovanni Minoli e Michele Santoro». 

Fortunata?

«Sì. Mi sono conquistata tutto centimetro per centimetro, gradualmente. In Rai ho iniziato sistemando cassette. Belve è arrivato dopo 20 anni di lavoro, nessuno me lo ha regalato. Documentari e cronaca, dalla criminalità organizzata al racconto delle piazze di spaccio di Roma e Napoli, passando per Seconda Linea (talk su Rai2, ndr), programma che hanno fatto bene a chiudere. Non rinnego nulla. La mia forza è stato il lavoro, senza cercare altri tipi di appoggi. È la via più lunga, ma è la più solida». 

Una donna dell'universo dantesco in cui si identifica?

«O sono troppo dannate o troppo eteree per me. Mi appassiona l'amore struggente di Paolo e Francesca. È una figura carismatica, anche perché parla solo lei (ride, ndr). Lui, poveretto, viene trascinato».

A casa sua funziona pure così?

«Conoscendo me e Mentana, ciò è marcatamente smentito». 

È una maratona a due?

«Ma quale maratona. Io parlerei di lavoro tutto il giorno, lui arriva a casa e stacca. Io guarderei solo programmi di informazione, lui film». 

Si è detta gelosa e prepotente.

«Prepotente sempre (non solo in amore). Gelosa all'inizio, poi mi passa». 

La belva è uomo o donna?

«Più donna. Ma gli uomini se ben pungolati tirano fuori aspetti originali. Alfonso Signorini è una delle belve che ho amato di più».

Perché?

«Per la libertà con cui ha raccontato. Ma anche Morgan. O Matteo Renzi, che se ne stava per andare: ha confessato di essere stato arrogante, di avere sbagliato a non dimettersi. Nelle interviste il contraddittorio non è un problema se è aperto e accogliente». 

Chi sono le sue belve?

«Persone per cui nutro curiosità. Se te la sai giocare, esce fuori un aspetto umano dove predomina, tra ombre e luci, l'effetto simpatia».

Elettra Lamborghini non fu dello stesso parere e ha vietato di mandare in onda l'intervista.

«Non ho capito perché. È stato un peccato per lei». 

Il video di Ilary Blasi a Belve ha spopolato su TikTok. La prossima belva sarà Totti?

«No, non lo farei La baruffa era nell'aria e lei se l'è giocata bene». 

Più di 50 ospiti: risposte che l'hanno messa in imbarazzo?

«Nessuna. Mi sono divertita pure con la pornostar Malena».

E quelle che l'hanno spiazzata?

«Tante. Il racconto dell'ex brigatista Adriana Faranda (coinvolta nel rapimento di Aldo Moro, ndr) o di Cristina Pinto (ex camorrista, non pentita ma dissociata, ndr), per esempio. Mi spiazza cercare di capire le scelte tragiche delle persone che hanno vissuto mondi lontani dal mio». 

Nella nuova stagione ci saranno politici?

«Sì. Ma i nomi li decido dopo le elezioni». 

Su Twitter li ha accusati di non interessarsi alla situazione delle carceri.

«Certo, non porta voti. Il carcere deve avere una funzione punitiva, ma le condizioni devono essere tali da far uscire i detenuti migliori di come sono entrati. Se non per umanità, per sicurezza personale. La sinistra potrebbe far proprio un tema che invece ignora. I radicali per fortuna ci sono, ma hanno poca forza».

Chi ammira in politica?

«Emma Bonino. Mai gregaria e cooptata. Ha lottato in prima fila, coerente con la sua storia». 

Nel suo documentario, Agnese Borsellino le disse: «Di fronte al coraggio io mi inchino».

«Una donna dall'eleganza d'animo e nell'eloquio. Fu un'intervista inedita. Era il racconto su chi aveva sacrificato la vita per difendere il marito. Non c'è giustizia senza verità. Dopo 30 anni dalla strage, capisco la scelta dei familiari di Paolo Borsellino di non partecipare alle cerimonie pubbliche». 

Tra i momenti brutti, ricorda la morte di sua madre.

«Perché c'è un prima. E c'è un dopo. La forza di carattere e la reattività sono l'eredità che mi ha lasciato».

Ha detto che si può vivere senza figli. È sempre della stessa idea?

«Faccio un programma per rivendicare la libertà femminile. I figli vanno fatti senza condizionamento sociale. Pregi per gli uomini, sono difetti per la donna. Come l'ambizione, il carrierismo e il gap salariale. È uno stato culturale arretrato. Nei centri antiviolenza ho conosciuto donne che hanno subito per anni perché prive di indipendenza economica. Non mi piace raccontare la donna come vittima. Ho chiamato il programma Belve proprio per dare voce al ruolo forte delle donne, che costruiscono il proprio futuro».

Domanda stile Fagnani: una belvata che ha fatto?

«Un po' mi pento, ma ancora oggi rido. Ho una sorella gemella che non mi somiglia. Avevo sparso voce che fosse stata adottata e un giorno chiesero ai miei genitori da quale paese provenisse. Sono stata ribaltata. Mi sento compiaciuta. Ero geniale, no? (ride, ndr)». 

Sempre sicura di volersi piazzare nel Purgatorio?

«È una situazione comoda. Da lì poi si decide se salire all'etereo o scendere negli inferi. Ovviamente, sempre e solo con personalità».

Elettra Lamborghini, la bordata di Francesca Fagnani: "Perché le ho detto no. Voleva ritoccare l'intervista...". Francesca D'Angelo su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022

Francesca Fagnani, possiamo parlare da Belva a Belva?

«Ma certo».

Stasera ricomincia Belve, in seconda serata su RaiDue, ma non vedremo la puntata con Elettra Lamborghini. Cos' è successo?

«La Lamborghini ha chiesto di poter rivedere il montato, forse si è pentita di qualche dichiarazione, ma è una richiesta che non potevo accogliere. A nessun ospite concedo di fare l'editing dell'intervista: trovo sia una prepotenza. Dobbiamo smettere di viziare gli ospiti! Ormai vogliono scegliere il parterre nei talk, o da chi essere intervistati... ma le pare? Io non invito mai artisti che devono promuovere un libro o un film: non mi interessano le interviste markette, che sono tutte uguali».

Mi aspettavo di vedere un virologo o una virologa tra le sue "pantere". Invece niente. Come mai?

«Beh, direi che li abbiamo già visti abbastanza...».

Se è per questo abbiamo già visto abbastanza anche Morgan, eppure è il suo primo ospite maschile.

«Beh, ma è diverso! I medici mi interessa ascoltarli quando fanno i medici, non quando cantano le canzoncine. Quanto a Morgan, farò emergere un suo lato inedito».

Ne è rimasto ancora uno?

«Eccome. È stata un'intervista un po' tesa ma in senso positivo: come quando si cerca la guerra per fare pace. Poi spero che nelle prossime puntate arrivi Salvini».

Precisi il tasso di probabilità.

«Non mi ha detto no, quindi spero che la sua risposta ufficiale, che attendo a breve, sia affermativa».

Visto l'andazzo, Sigfrido Ranucci potrebbe diventare la sua prossima belva?

«La domanda è maliziosa e, per questo, mi piace. Quindi le rispondo: perché no? Mi ha appena dato una bella idea! Però non chiedetemi di commentare nel merito la polemica su Report: non ne so abbastanza per esprimere un giudizio».

Come vanno i rapporti con Lilli Gruber dopo il suo monologo a Le iene, dove si lamentava di una celebre collega che non la voleva nel suo parterre?

«Non ho mai detto che fosse la Gruber».

Ma si capiva. E non è proprio da vera Belva gettare il sasso e nascondere la mano.

«Mi creda, io non sarei così certa che si tratti della Gruber... Non ho fatto il nome perché non volevo che il dibattito si fermasse al gossip della persona chiamata in causa. Il mio scopo era sfatare il mito della solidarietà al femminile in un mondo come il giornalismo che fa grandi proclami ma poi è il primo a pagare meno le donne. E parlo per esperienza».

Ma la persona che ha tirato in causa si è fatta viva? In fondo, tutti sbagliamo e sarebbe stato un bel gesto di solidarietà femminile...

«...O di auto-denuncia! (ride, ndr) Comunque no, nessuno mi ha chiamata».

A proposito, negli ultimi mesi si è cercato "una donna" per il Colle, poi "una donna" per Sanremo. Cosa ne pensa?

«Mi dà fastidio che si cerchi "una", di nome, e "donna", di cognome, quasi per gentile concessione degli uomini. È una questione mal posta: dobbiamo rivendicare la nostra forza e il nostro merito, quando però ci sono. La vera sfida è la meritocrazia, non la presenza di "una donna", a prescindere».

Quindi, quale nome avrebbe fatto per il Colle?

«Elisabetta Belloni era un profilo molto qualificato, così come Marta Cartabia».

La riconferma di Mattarella è stata una vittoria della politica, come ci hanno fatto credere?

«No, è una sconfitta dei partiti e dei loro leader. Allo stesso modo, il ricorso ai referendum non deve diventare una scorciatoia perché il parlamento non fa le riforme».

Posso finire con una domanda da Belva?

«Certo».

I suoi ospiti accettano di parlare di tutto e non vedono le domande prima. Però, quando è il suo turno vieta domande sul suo compagno Enrico Mentana. Non è da vera Belva, lo sa?

«Ma non è così! Lei mi può chiedere di Mentana a patto però che, quando intervista lui, lo interpelli su di me. Invece non accade mai». 

·        Francesco Giorgino.

Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2022.

Francesco Giorgino lascia il Tg1. La notizia viene diffusa nella giornata di ieri. Una mail interna del comitato di redazione recita: «La direttrice Maggioni ci ha comunicato che dal 14 luglio il vicedirettore Francesco Giorgino andrà alla Direzione editoriale per l'offerta informativa». 

Sono passati trent' anni da quando Giorgino è entrato per la prima volta a Saxa Rubra negli studi del Tg1. Inizialmente come precario, dal 1996 come redattore ordinario. Gli anni di gavetta a Unomattina, poi la redazione società e cronaca anche con ruoli di vertice, la guida della redazione politica, fino a diventare vicedirettore e uno dei volti più conosciuti del Tg delle 20.

«Il Tg1 è la mia seconda famiglia», ripeteva sempre. La conduzione lo ha reso popolare. Succede tutto nel 2000. «Ci fu una reazione a catena che mi favorì. Sposini conduceva le 20 e tornò al Tg5. Sassoli dalle 13.30 andò alle 20. E io presi il suo posto all'ora di pranzo», racconterà in un'intervista alla Verità. Inizialmente si era prima vociferato che avrebbe potuto condurre un programma su Rai 2. 

Solo voci, però, nulla di concreto. Approderà invece alla direzione creata per coordinare i giornalisti delle diverse testate, e sarà così il vice di Giuseppina Paterniti, ex direttore del Tg3. Sull'addio avrà pesato la riorganizzazione decisa da Monica Maggioni, che prevedeva una rotazione alla conduzione della rassegna stampa delle 6.30 del mattino anche per i volti del Tg delle 20. Tre conduttori su 4 si rifiutano e fra questi c'è Giorgino. 

«Non voleva fare le albe», lamentano tanti nella palazzina del Tg1. In realtà lui farà sapere che, prima ancora di essere selezionato per la rassegna del mattino, aveva chiesto una riduzione del carico di lavoro per motivi di salute, presentando un certificato medico. «Non sono autorizzato a parlare, la vicenda è oggetto di valutazione dei legali» dirà all'Adnkronos nelle ore dello scontro. 

Eppure, stando a quanto si vocifera nei corridoi di Saxa Rubra, non c'è solo il dossier «alba» ad accelerare la fine della liaison tra Giorgino e il Tg1. Si racconta di un rapporto logorato con la direzione Maggioni per ragioni editoriali e politiche. Queste sono anche le ore dei veleni. «La verità è che avrebbe voluto fare il vicedirettore delle edizioni principali», teorizzano i suoi detrattori.

Carmelo Caruso per “Il Foglio” il 21 giugno 2022.

È il vero grande giallo dell'estate. Si chiama il "Caso Giorgino" e non si capisce perché Rai Eri (esiste pure la casa editrice della Rai) non l'abbia ancora pubblicato. Lasciate perdere il protagonista. Togliete il nome, Francesco Giorgino, e avrete ugualmente, un "tipo", una "categoria" Rai, che spiega perché questa azienda non funziona. 

È la storia di un conduttore che sta passando per "fannullone" ma che riesce a svolgere sei lavori, si dice sei, a "negoziare" una trasmissione in seconda serata con la Lega e a "trattare" anche la direzione del Tg1 (con il M5s) restando ovviamente berlusconiano nel profondo, democristiano nelle radici, disponibile se occorre.

Se la Rai facesse servizio pubblico, come ha garantito l'ad Carlo Fuortes, dovrebbe sceneggiare questo racconto per spiegarci come questo "mezzobusto", come questo giornalista, che lamenta "l'ingiusto" allontanamento dal Tg1 delle 20 (starebbe saturando le chat di tutti i politici a cui Giorgino crede di aver offerto un servizio) sia stato capace di accumulare quasi 400 giorni di ferie arretrate.

È un enigma che dovrebbe scatenare la sete di sapere, oltre che quella dei capi del personale Rai, e incitare gli epigoni di Graham Greene. In redazione Greene non c'era. Accontentavi del minore. 

In Rai un numero così consistente di ferie arretrate riguarda solo direttori e inviati all'estero e viene ritenuto un'anomalia se si tiene conto dell'altra vita intensa di Giorgino. Ci sono almeno sei Giorgino: giornalista, tennista, candidato, autore, professore universitario (doppio) organizzatore di tornei e divo televisivo.

Nel tempo, non si sa quale libero, Giorgino è istruttore della Federazione italiana tennis, e in qualità di istruttore si è perfino candidato al Consiglio elettivo del Coni (corrente Angelo Binaghi, l'anti Malagò). È docente universitario di Newsmaking alla Luiss, ma anche di Content Marketing Brand Storytelling della Luiss School of Government che è lo spin off politico dell'ateneo. 

Giorgino è la voce narrante del prezioso audiobook "I silenzi di Federer" e opinionista del sito Super Tennis. Tra i suoi articoli, sotto la rubrica "L'angolo dell'insegnante", da segnalare è "Il corpo che parla". È infaticabile malgrado gli allenamenti che (come rivelato in un'altra fondamentale intervista a Tennis Circus) sono costanti: "Tre a settimana e per due ore al giorno". È riuscito pure a organizzare la "Salento Padel Cup". L'avrebbe addirittura inventata.

La notizia non è tanto questa famigerata decisione della direttrice del Tg1, Monica Maggioni, di sollevare Giorgino, e altri due giornalisti (Emma D'Aquino, Laura Chimenti) dalla conduzione delle 20 per la mancata disponibilità nel condurre la rassegna stampa delle 6,30. 

Il "Caso Giorgino" non è solo un problema di Cdr, di sindacato (a proposito, dove sono finiti?) ma un metodo, la piccola storia che racconta la grande.

Siamo di fronte a qualcosa che sta a metà tra gli assenteisti dell'Ama e la commedia di Dino Risi. Se è vero come ha dichiarato Giorgino che i suoi problemi di stress gli impediscono i turni difficili dell'alba, non si capisce come lo stesso stress non lo colpisca durante la diretta delle 20 a cui non vuole rinunciare. Sarebbe il primo caso di adrenalina variabile.

Ancora più singolare è quanto accaduto la sera dell'addio del suo "ciao, ciao" alla Ruggero Orlando. Il video che ha spopolato sul web lo conoscono tutti, ma quello che non tutti sanno è che la mattina del giorno dopo, in azienda, come raccontano in Rai, arriva un certificato medico di Giorgino per problemi di salute.

Nei corridoi di Viale Mazzini assicurano che Giorgino avesse "offerto la sua disponibilità alla nuova riorganizzazione della Maggioni salvo ritirarla successivamente quando ha capito che non bastava solo metterci la faccia ma preparare l'edizione". 

Democristiano con Enzo Carra, berlusconiano con Berlusconi (portavoce di Giuliano Urbani) entrato per chiamata diretta, Giorgino è la prova che la Rai è la bestia da soma da montare per attraversare il fiume del tempo.

Si dice che in tutta questa storia l'unica a perderci è la Rai, ma con Giorgino da quanto tempo ci perde? Oltre che per quest'ultimo dissenso, Giorgino ha litigato in passato con l'ex direttore del Tg1 Clemente Mimun (aveva rilasciato una intervista dove diceva che la sua idea di giornalismo non era quella del direttore. Sarebbe interessante sapere cosa accadrebbe in un giornale se un redattore dicesse questo del suo direttore). 

Mario Orfeo, altro ex direttore del Tg1, lo aveva sollevato da capo del politico perché gli stava scappando una redazione a causa sua. C'è un elenco di angherie di Giorgino che qualcuno ha catalogato.

A Giuseppe Carboni, ex direttore del Tg1, a cui deve "il grande spolvero", stava invece soffiando il ruolo grazie alla racchetta: uno dei compagni di gioco di Giorgino, come garantiscono in Rai, sarebbe Giuseppe Conte. 

E si ripete davvero, non è tanto Giorgino. Lo abbiamo definito il "giallo Giorgino" ma qui, e ancora, l'unico corpo morto è il telespettatore italiano. Ogni giorno in Rai viene "assassinato" il contribuente.

Francesco Giorgino? Ecco da chi è stato fatto fuori: Rai, una oscura verità. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 23 giugno 2022

Siccome in Italia chi perde ha sempre torto, voglio unirmi al linciaggio di Francesco Giorgino, almeno fino a questa mattina vicedirettore del Tg1, presso il quale è in forza più o meno da trent' anni. Negli ultimi due giorni, la libera e democratica stampa gli ha rinfacciato di tutto. Gli hanno rimproverato di giocare tre volte la settimana a tennis, di insegnare giornalismo alla Luiss, di fare poche ferie, perfino di cotonarsi i capelli e di non declamare le ultime della sera con l'enfasi di un dj. Lo hanno accusato anche di telefonare ai politici, come se per i direttori del servizio pubblico non fosse la regola. Un esperto del tubo catodico ha ricordato che, vent' anni fa, condusse un Dopofestival con Simona Ventura e lei si rivelò molto più spigliata. Insomma, al povero Giorgino è stato detto di tutto, per preparare la sua giubilazione definitiva; e ogni critica era puntuale e pertinente.

Mi aggiungo ai prodi specializzati nella pratica del calcio dell'asino con osservazioni dello stesso tenore e affermo che i completini beige che sfodera non gli donano, non è mai stato avvistato a un gay pride ed è meno social di Fedez. 

La sua vicenda nella tv pubblica è invero particolare. Poiché fu portavoce del ministro Urbani agli albori di Forza Italia e suo fratello è stato sindaco azzurro della natia Andria per una decina d'anni, è considerato un giornalista di centrodestra, ultimamente un po' più d'area Lega, visto il recente riposizionamento del consanguineo. Questo, a detta dei colleghi della parrocchia sinistra, ha fatto sì che facesse carriera rapidamente ma in pratica restasse per oltre vent' anni un enfant prodige, senza mai riuscire a dispiegare le ali del tutto.

UMILIAZIONE

Pareva avercela fatta sei mesi fa, quando la nuova direttrice del tg, Monica Maggioni, lo aveva promosso a vicedirettore. Invece è stato l'inizio della fine. Giorgino è stato rimosso bruscamente dalla conduzione dell'edizione serale del notiziario e umiliato di fronte alla redazione che dovrebbe gestire. L'intenzione era confinarlo alla rassegna stampa dell'alba ed escluderlo dal palinsesto nelle ore che contano. Lui ha fatto resistenza, prodotto qualche certificato medico, forse anche sbagliato qualcosa, tradito dall'ansia e dal rammarico, e si è guadagnato la lapidazione sulla pubblica piazza.

Personalmente, del destino del collega mi importa poco, e sono in buona compagnia, visto che non si è alzato un dito in sua difesa, tantomeno dalla parte politica che dovrebbe averlo a cuore. Però mi chiedo: se Giorgino è così imbarazzante come ce lo descrivono da che il nuovo corso monocolore Pd in Rai ha deciso di liberarsene per gestire senza voci dissonanti l'anno pre-elettorale, perché il nostro servizio pubblico di informazione ce l'ha proposto per trent' anni come se fosse uno che la sa lunga? E che senso ha, a livello aziendale, aver insistito così tanto per costruire un volto noto e caro al pubblico per poi chiuderlo nello stanzino delle scope? Non insegno alla Luiss, ma non mi pare una scelta di marketing da manuale.

IL SILENZIO DEL CENTRODESTRA

Quanto al silenzio del centrodestra, avrebbe senso se il sacrificio di Giorgino fosse una tassa da pagare per incassare qualcosa da un'altra parte, ma non c'è da illudersi. Due o tre settimane fa a viale Mazzini c'è stata la rivoluzione, però l'unico risultato prodotto è stato rafforzare ancora di più il Pd e dividere ulteriormente il centrodestra, dove Fratelli d'Italia lamenta di non toccare palla e viene invece contestualmente accusato dagli alleati di piazzare solo uomini suoi. Va tutto bene, a patto che poi non ci si lamenti perché l'informazione pubblica è monopolizzata dalla sinistra, i rivali del Pd vengono criminalizzati nei tiggì e i giornalisti di fede salviniana o meloniana sono confinati in spazi senza potenzialità d'ascolti, condannati in partenza al fallimento. Oggi o domani il vicedirettore, colpevole peraltro di aver rifiutato un programma in tarda serata il lunedì, quando non sono davanti alla tv neppure i portieri di notte degli alberghi, dovrà trattare con l'azienda un parcheggio dove svernare in attesa di tempi migliori. Gli faccio gli auguri, ma il treno del centrodestra in Rai va al contrario dei suoi desideri; anzi, è fermo in stazione. Coraggio Francesco, sei solo ma non sei il solo. 

·        Gennaro Sangiuliano.

"Renderò grande la cultura italiana". Chi è il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. Insegnante, giornalista e scrittore, Gennaro Sangiuliano fa parte della squadra di governo scelta da Giorgia Meloni per il suo esecutivo. Francesca Galici il 21 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Giorgia Meloni per il ministero della Cultura ha scelto il giornalista Gennaro Sangiuliano. Classe 1962, è da sempre vicini agli ambienti di destra, come testimonia la sua storia politica. Dal 2018 ha assunto la direzione del Tg2 ed è stato vicedirettore del quotidiano Libero e del TG1 dal 2009 al 2018.

"La cultura è sempre stato il mio alimento. Sono orgoglioso di possedere una biblioteca di 15.000 libri nella mia casa e di aver condiviso la mia conoscenza con molti studenti nei 20 anni di insegnamento all'università", ha dichiarato alle agenzie poco dopo l'annuncio del nuovo premier. Intercettato all'uscita dagli uffici, ha affermato: "Sono onorato di prestare questo servizio e sono grato a Giorgia Meloni. Renderò grande la cultura italiana".

Governo Meloni, ecco la lista dei ministri

La carriera accademica di Gennaro Sangiuliano

Gennaro Sangiuliano si è laureato in Giurisprudenza, ed è stato per 20 anni docente esterno a contratto di Diritto dell'informazione presso l'università Lumsa e di Economia degli intermediari finanziari alla Sapienza di Roma. La sua carriera universitaria si è arricchita nel 2016 con la cattedra di Storia dell'economia e dell'impresa alla Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli. Dal 2015, invece, è direttore della scuola di Giornalismo dell'università degli Studi di Salerno.

La carriera giornalistica di Gennaro Sangiuliano

Un curriculum professionale degno di nota in ambito accademico per Gennaro Sangiuliano, che ha saputo farsi strada anche in ambito giornalistico. Dopo una lunga carriera tra la carta stampata, nel 2003 arriva in Rai come inviato del TgR, di cui Sangiuliano diviene capo-redattore, per poi passare al TG1. In Rai è stato spesso inviato in scenari "caldi" di guerra, come Bosnia, Kosovo e in Afghanistan. Nel 2009 è nominato vice direttore del TG1 durante la direzione di Augusto Minzolini. Il 31 ottobre 2018 viene nominato dal Cda della Rai, su proposta dell'amministratore delegato Fabrizio Salini, nuovo direttore del Tg2.

La carriera letteraria di Gennaro Sangiuliano

Durante lo svolgimento della professione accademica e di quella giornalistica, Gennaro Sangiuliano ha avuto anche occasione di scrivere alcuni libri, principalmente incentrati sulle tematiche di insegnamento delle sue cattedre. Tuttavia, ha spaziato tra diversi generi, scrivendo anche una biografia sul fondatore della Voce, Giuseppe Prezzolini, l'anarchico conservatore. Grazie a questo volume, apprezzato da lettori e critica, è stato finalista del Premio Acqui Storia. Nel 2012, per Mondadori ha pubblicato il saggio storico Scacco allo zar. 1908-1910: Lenin a Capri, genesi della rivoluzione, incentrato sui due soggiorni del futuro leader sovietico sull'isola campana, in seguito fondamentali per gli esiti della Rivoluzione russa.Per questo libro ha vinto il premio Capalbio per la saggistica storica.

La carriera politica di Gennaro Sangiuliano

Fin da giovanissimo, Gennaro Sangiuliano è stato attratto dagli ambienti di destra, come testimoniano i primi passi mossi nel Fronte della gioventù quand'era ancora ragazzino. L'esperienza politica ha sempre affascinato Gennaro Sangiuliano, che poco più che ventenne, dal 1983 al 1987, è stato consigliere circoscrizionale del Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale nel quartiere Soccavo di Napoli. Dopo l'esperienza nella politica locale, nel 2001 prova a fare il grande passo candidandosi alla Camera dei deputati nella lista Casa delle Libertà nel collegio Chiaia-Vomero-Posillipo, ma non ricevette abbastanza voti per essere eletto.

Gli auguri per Gennaro Sangiuliano

Tra i primi a congratularsi con Gennaro Sangiuliano c'è il ministro della Cultura uscente, Dario Franceschini, che per 7 anni ha occupato la poltrona del dicastero di via del Collegio Romano: "Un onore e una gioia avere servito per sette anni il mio Paese come ministro della Cultura. In tanti in giro per il mondo mi hanno detto: non esiste mestiere più bello che occuparsi di cultura in Italia. Avevano ragione. Ora buon lavoro a Gennaro Sangiuliano".

i complimenti sono giunti anche dall'università Lumsa, dove il neo-ministro insegna da anni. "Al neo ministro formuliamo i migliori auguri di buon lavoro al servizio del Paese", ha commentato l'università a nome del rettore, professor Francesco Bonini, e di tutta la comunità accademica dell'Università Lumsa.

Attuale direttore del Tg2. Chi è Gennaro Sangiuliano, il nuovo ministro della Cultura del governo Meloni. Redazione su Il Riformista il 21 Ottobre 2022

Gennaro Sangiuliano è il nuovo Ministro della Cultura del Governo guidato da Giorgia Meloni. Il suo nome era circolato in queste ore prima della formazione del nuovo governo di destra-centro. L’attuale direttore del Tg2 è da sempre vicino agli ambienti di centrodestra come conferma la sua partecipazione alla convention milanese di Fratelli d’Italia e alla festa della Lega.

Sangiuliano ha superato nei gradimenti il nome di Giordano Bruno Guerri come successore del ministro uscente Dario Franceschini. Il profilo del giornalista è gradito sia a Fratelli d’Italia sia alla Lega anche se Salvini l’avrebbe voluto al vertice del Tg1 in Rai.

Classe 1962, Sangiuliano si è laureato in Giurisprudenza all’università Federico II di Napoli. Come giornalista ha avuto incarichi di rilievo come la vice direzione del quotidiano Libero, oltre a varie collaborazioni con Il Foglio, l’Espresso e il Sole 24 Ore. È stato anche Direttore della scuola di giornalismo dell’università di Salerno e docente di Storia dell’Economia alla Luiss Guido Carli. Dopo l’assunzione in Rai come inviato in Bosnia, Kosovo e in Afghanistan, arriva la nomina a vicedirettore del Tg1, mentre nel 2018 assume la carica di direttore del Tg2.

Negli ultimi mesi Sangiuliano è stato attaccato per la sua vicinanza a Fratelli d’Italia, emersa da un’intervista al senatore Ignazio La Russa, il quale ha detto che il direttore del Tg2 sarebbe disposto “a sottoscrivere con noi, a preparare con noi un programma di governo”.

Michele Anzaldi, il segretario della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai, ha fatto capire che l’impegno politico di Sangiuliano è incompatibile con il suo ruolo di direttore di uno dei telegiornali pubblici più seguiti d’Italia. L’Usigrai ha alla fine diffuso una nota in cui spiega di aver “chiesto ai vertici di prendere posizione per difendere l’autonomia e l’indipendenza del Tg2, il cui direttore durante la campagna elettorale estende la sua responsabilità anche sugli approfondimenti giornalistici di Raidue”. Non ha ottenuto risposta né è arrivata una smentita da Sangiuliano.

Chi è Gennaro Sangiuliano, il ministro della Cultura del governo Meloni. Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2022.

«La cultura è sempre stato il mio alimento. Sono orgoglioso di possedere una biblioteca di 15.000 libri nella mia casa e di aver condiviso la mia conoscenza con molti studenti nei 20 anni di insegnamento all’università». Sono le prime parole del neoministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, intervistato dall’Adnkronos poco dopo la lettura del nuovo esecutivo da parte di Giorgia Meloni.

Sangiuliano, direttore del Tg2 in carica, annuncia che «stasera saluterà i colleghi in redazione» per poi passare il testimone ad interim al vicedirettore anziano Carlo Pilieci. «Il passaggio da Saxa Rubra al Collegio Romano? Una grande responsabilità in cui metterò tutto il mio impegno e la mia concentrazione», aggiunge. E conclude: «Il mio motto sarà la canzone civile ‘All’Italia’ di Giacomo Leopardi che inizia così: ‘O patria mia,, vedo le mura e gli archi e le colonne e i simulacri e l’erme torri degli avi nostri, ma la gloria non vedo’».

La storia di Gennaro Sangiuliano, nuovo ministro della Cultura e attuale direttore del Tg2, affonda le sue radici a Napoli, dov’è nato nel 1962, e nel Fronte della Gioventù e nel Movimento Sociale Italiano. Il suo esordio nella politica è da consigliere circoscrizionale, proprio a Napoli, nel quartiere Soccavo.

In parallelo, dopo la laurea in Giurisprudenza alla Federico II e il dottorato di ricerca in Diritto ed Economia, comincia la sua carriera giornalistica: «Canale 8», «L’Opinione del Mezzogiorno». Quindi «l’Indipendente» e la direzione del quotidiano «Roma» dal 1996 al 2001. Poi collabora per diverse testate, tra cui «l’Espresso», «il Sole 24 ore», «il Foglio» ai tempi della direzione di Giuliano Ferrara, «il Giornale».

Alle elezioni del 2001 si candida alla Camera per la Casa delle Libertà ma non viene eletto.

Approda poi alla Rai nel 2003 e comincia la sua carriera alla Tgr, diventa caporedattore e passa al Tg1. E lì comincia una stagione che lo rende molto popolare col grande pubblico come inviato in Bosnia, in Kosovo e in Afghanistan. Molti gli riconoscono sintesi e capacità di analisi del contesto politico internazionale. Nel 2009 diventa vicedirettore del Tg1, con la direzione di Augusto Minzolini, e dall’ottobre 2018 è direttore del Tg2. Ora, dopo la nomina a ministro della Cultura, la testata giornalista del secondo canale Rai

Da tempo scrive libri legati ai suoi interessi culturali. Nel 2008 pubblica per Mursia una biografia di Giuseppe Prezzolini, finalista al Premio Acqui Storia. Nel 2012 scrive per Mondadori « Scacco allo zar: 1908-1910: Lenin a Capri, genesi della rivoluzione» che piace molto a Raffale La capria che ne scrive sul Corriere della Sera. Sempre per Mondadori realizza una trilogia di biografie di Vladimir Putin, Hillary Clinton e Donald Trump. In particolare la biografia di Putin resta a lungo in classifica nella saggistica nel 2013. L’ultimo libro, nel 2019, è dedicato al presidente cinese Xi Jinping. Nel 2020 riceve il premio internazionale Ischia Giornalismo.

Manuela Moreno: «Vi racconto Sangiuliano, i giorni al Tg2 e quel “chiamami Gennaro”…» Gianluca Corrente su Il Secolo d'Italia il 22 ottobre 2022.

«A Saxa Rubra i corridoi erano deserti e tutte le tv accese sulla diretta dal Quirinale. Quando la voce di Giorgia Meloni ha pronunciato il nome del direttore come ministro della Cultura, da alcune delle redazioni è partito un applauso». A raccontare all’Adnkronos come al Tg2 è stata accolta la nomina del direttore Gennaro Sangiuliano a ministro della Cultura è Manuela Moreno, inviata speciale della testata. Da 3 anni è curatrice e conduttrice dell’approfondimento “Tg2Post”. «Erano giorni che ci si interrogava: diventerà direttore del Tg1 o ministro? Lui dissimulava. Una settimana fa gli ho chiesto: ”Insomma come devo chiamarti?”. Lui ridendo ha risposto: “chiamami Gennaro!”».

Manuela Moreno: mi chiedevano notizie sul suo futuro

Sull’incarico al governo, Sangiuliano ha tenuto fino all’ultimo massimo riserbo. «Visto che stiamo tutti i giorni insieme per ‘Tg2Post”, molti colleghi venivano a chiedermi notizie sul suo futuro. Mi aveva detto che sarebbe andato ma poi ha iniziato a scherzare e non si capiva fino a dove arrivava lo scherzo. Da buon napoletano, è scaramantico. Mentre ascoltavamo un servizio al tg sulla ricerca del nuovo James Bond, gli ho detto: “Vai tu! Sei candidato a tutto…”. Mi ha risposto sorridendo: “Non ho il fisico!”. Ora lo sappiamo a Palazzo Chigi e al Collegio Romano».

Quella passione per Giuseppe Prezzolini

«Il ministero della Cultura sicuramente gli si addice», aggiunge Manuela Moreno. «Ha sempre avuto un’attenzione particolare ai temi culturali sia umanamente che nel telegiornale. Farà bene. È preciso, serio ma non serioso. In studio riuscivo sempre a strappargli un sorriso», racconta la giornalista che proprio a “Tg2Post” ha lavorato fianco a fianco con Sangiuliano. Tanto da aver sperimentato nei fatti anche la “vera passione” di Sangiuliano per Giuseppe Prezzolini: «Ne citava spessissimo gli aforismi, sia in onda che dietro le quinte. Immagino che anche da ministro non mancherà di farlo». E rivela anche il motto fino a ieri appeso dietro la scrivania di Sangiuliano al Tg2. Un cartello con scritto: “Non smetto di lavorare quando sono stanco, ma quando ho finito”.

Manuela Moreno: il Tg2Post è stata una sua scommessa

Quanto al futuro, Manuela Moreno ammette: “«Ieri in studio la situazione era strana. Faceva un certo effetto sapere che non sarebbe più stato con noi. Ma solo da direttore, perché spero di averlo presto ospite in studio come Ministro: un’anteprima ce la meritiamo!», sottolinea divertita. Poi, più seria, conclude: «L’ho salutato e ringraziato perché “Tg2Post” è stata una sua scommessa. Una scommessa fatta anche su di me. E abbiamo vinto insieme».

Perché Sangiuliano alla Cultura è una scelta giusta. Conosco da molto tempo Gennaro Sangiuliano, che ha esattamente dieci anni meno di me, e che è stato consigliere Msi a Napoli, giornalista all'Indipendente e al Roma, di cui è stato anche direttore, per poi diventare vicedirettore di Libero. Vittorio Sgarbi il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Devo ringraziare i tanti amici che mi hanno scritto con amarezza perché aspettavano che fossi chiamato a fare il ministro della Cultura. Non è accaduto e me ne dispiace, ma so che la premier conosce la mia attività e non trascurerà di trarre beneficio dalla mia esperienza. D'altra parte, la nuova definizione di quello che fu il ministero «per» i Beni culturali come «ministero della Cultura» ha esteso i confini della tutela del patrimonio a una visione ideale o ideologica che la Meloni ha voluto gelosamente per sé, come identificazione della propria condizione culturale e politica. Insomma, una cosa è la Kultur, che è mondo delle idee, civiltà, visione, un'altra è il patrimonio culturale materiale e immateriale, i cui confini sono definiti dall'Unesco: io non ho una posizione filosofica che rappresenti una parte politica, ma ho una formazione che mi orienta alla difesa del patrimonio artistico e all'idea di bellezza e avevo quindi compreso la scelta di puntare su nomi portatori di un pensiero più vicino alla Meloni.

Conosco da molto tempo Gennaro Sangiuliano, che ha esattamente dieci anni meno di me, e che è stato consigliere Msi a Napoli, giornalista all'Indipendente e al Roma, di cui è stato anche direttore, per poi diventare vicedirettore di Libero sotto la direzione di Vittorio Feltri. Ma quel che ci ha unito è l'amicizia con Lino Jannuzzi, grande giornalista che diresse il Giornale di Napoli e con cui passammo giornate indimenticabili a Sorrento, in quella Villa Astor dove aveva vissuto anche Benedetto Croce. Tra i ricordi più lontani c'è la presentazione di un primo libro di Sangiuliano su Giuseppe Prezzolini a San Severino Marche: un giovane timido e determinato, come ai nostri giorni si è mostrato Francesco Giubilei scrivendo di Leo Longanesi. Un'altra occasione fu la presentazione di Il paradiso: viaggio nel profondo Nord, in risposta a L'inferno di Giorgio Bocca, presentato con felice rumore a Napoli, insieme a Ciro Paglia, di Sangiuliano amico e maestro, scomparso nel 2013. Paglia, autore nel 1980 di una serie di articoli in cui denunciava la violenza della camorra, fu per Sangiuliano come un padre. E quando nell'81 la compagna di Paglia fu ammazzata, grande fu l'impressione per il giovane Sangiuliano. Con tale formazione, ha affrontato la direzione del Tg2 con grande ragionevolezza ed equilibrio. E, nei miei confronti, con grande complicità per tutte le mostre che gli ho proposto.

Capisco dunque, per l'impegno e la coerenza, la nomina che oggi lo premia. Ne soffro per la lunghissima esperienza e l'impegno a tutelare i monumenti dell'arte italiana, dal vincolo del Porto vecchio di Trieste alla ricostruzione del Teatro Petruzzelli di Bari, passando dall'esperienza come Sottosegretario ai Beni Culturali, ormai vent'anni fa.

Oggi si apre una nuova stagione, ma voglio ricordare un episodio, che dimostra una certa preveggenza. Nell'estate del 2021, a Castellabate, come direttore artistico della Fondazione Pio Alferano, attribuii il premio annuale a Gennaro Sangiuliano, con la seguente motivazione: «Cultura e gentilezza sono le caratteristiche di Gennaro Sangiuliano che cresce e assume incarichi, senza perdere semplicità e attenzione per i problemi e per gli uomini. Il suo maggior diletto è fare bene il suo lavoro di scrittore, di giornalista, di direttore. È stato educato alla civiltà e alla lezione della storia, nella tradizione napoletana che va da Vico a Cuoco, da Filangeri a Croce, trovando nei maestri più vicini, come Galasso e Isotta, una incorrotta lezione di stile. Alla quale non può sottrarsi. Sangiuliano scrive bene e chiaro per un dovere di dire la verità, come chiede il rispetto della storia anche quando è contemporanea». Questo era il mio pensiero e lo è ancora oggi, senza alcuna suggestione. Con gli auguri di buon lavoro.

Il miracolo di Sangiuliano. Storia dell’agiografo di Putin (e di Trump) che Meloni ha fatto ministro della Cultura. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 22 Ottobre 2022

«Meglio una faziosità limpida ed esibita di una subdola terzietà» è il motto del direttore del tg2, il quale dopo aver seguito tutte le campagne sovraniste ora andrà al governo

Un autore di biografie è andato al ministero della Cultura nel governo più a destra della storia d’Italia. Ma non Giordano Bruno Guerri, il biografo di tanti personaggi del fascismo, ma anche del cattolico del dissenso Ernesto Buonaiuti, di Santa Maria Goretti in una chiave che fece arrabbiare la Chiesa, di un Gabriele D’Annunzio letto in chiave libertaria, e soprattutto con idee a proposito di religione e morale piuttosto in linea col personaggio storico di cui gli hanno dato il nome. Sarebbe stato un perfetto bilanciamento del cattolicesimo ultratradizionalista dell’«inpiegato» diventato presidente della Camera; ma sarebbe stato troppo per le caratteristiche della nuova maggioranza.

Così hanno preferito un altro biografo, Gennaro Sangiuliano, oggi direttore del tg2 e biografo, anzi agiografo, di Vladimir Putin. La cosa, in questo momento, fa ovviamente una sua impressione. Specie con il leader di uno dei partiti di maggioranza che si scambia con l’invasore dell’Ucraina vodka contro lambrusco, insiste di essere uno dei suoi migliori amici, e spiega che la sua unica colpa è stata quella di aver voluto sostituire un personaggio su cui «è meglio non dire niente» come Zelensky con «persone perbene». E con un altro partito della maggioranza che mantiene un rapporto di alleanza e «scambio di informazioni» con il partito di Putin.

In realtà, va subito ricordato, Gennaro Sangiuliano non ha fatto solo la biografia di Putin. «Le biografie dei personaggi contemporanei ci aiutano a capire i grandi fatti del mondo» ha spiegato, e lui ha scritto anche quelle di Hillary Clinton, Trump, Xi Jinping e Reagan, oltre a quella di Giuseppe Prezzolini. E il suo ritratto del leader cinese, ad esempio, è durissimo. Dedica molte pagine ai tratti autoritari del suo regime, e indicative sono ad esempio quelle sul caso Bo Xilai, il capitolo sulla persecuzione degli editori, o il racconto della protesta di Hong Kong. Scritto subito prima che la Cina di Xi esportasse nel mondo il Covid, il libro ricordava anche come le celebrazioni per i 70 anni della Repubblica Popolare fossero state uno sfoggio di potenza militare, e la strategia della Via della Seta apparisse sempre più come un progetto espansionista di fronte al quale il libro consiglia di fare estrema attenzione. L’opera gli valse nel 2020 il Gran Premio Internazionale «Casinò di Sanremo 1905»: uno dei ben 18 premi ricevuti da questo giornalista nato il 6 giugno 1962. A Napoli, come suggerirebbe da subito il nome. 

Fu un indubbio prezzo di bravura, perché costruito con le sole scarne notizie che, nel tempo, gli apparati ufficiali di Pechino hanno fatto filtrare. Però, è la sua idea, la biografia «può essere definita con sufficiente chiarezza unendo i punti di un’immaginaria mappa». Sangiuliano ha così dedicato molto spazio al contesto, ricostruendo un’ampia storia della Cina del Novecento. Ma è riuscito a trovare anche più di quel tipo di aneddoti in apparenza minori ma che, come insegnava già Plutarco, aiutano a decifrare un personaggio. 

Quattordicesimo dei 18 volumi da lui firmati, Putin. Vita di uno zar, è però il primo dei cinque profili di protagonisti della Storia di oggi, e viene nel 2015 l’anno dopo un Quarto Reich, come la Germania ha sottomesso l’Europa il cui titolo già basta a rappresenta0re un eloquente manifesto sovranista. Maturità Classica all’Adolfo Pansini di Napoli, laurea in Giurisprudenza alla Federico II, master in Diritto privato europeo presso la Sapienza e cum laude il dottorato di ricerca in Diritto ed Economia ancora presso la Federico II, Sangiuliano ha anche un profilo di professore: docente esterno a contratto di Diritto dell’informazione presso la Lumsa e di Economia degli intermediari finanziari alla Sapienza; titolare del corso di Storia dell’economia e dell’impresa alla Luiss; direttore della scuola di Giornalismo dell’Università degli Studi di Salerno; docente del Master in Giornalismo e Comunicazione della Università telematica “Pegaso”. 

È anche un giornalista di lunghissimo corso. Direttore dal 1996 al 2001 del Roma, capo della redazione romana e poi vicedirettore di Libero, dal 2003 inviato Rai anche in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, dal 2009 vice direttore del Tg1, dopo la vittoria del Partito delle libertà, dal 31 dicembre 2018 direttore del Tg2 dell’era giallo-verde, Sangiuliano ha ad esempio collaborato anche con L’Espresso, con il Sole-24 ore e con Il Foglio. Insomma, è stato capace di farsi apprezzare da varie parti. Ma le sue origini sono sicuramente a destra. Giovanissimo nel Fronte della Gioventù, tra 1983 e 1987 fu consigliere circoscrizionale del Movimento sociale italiano, e sulla libreria dello studio di casa ha una foto insieme a Giorgio Almirante, mentre sul suo account Twitter esibisce Francesco Baracca, la Divina Commedia, i tramonti su Paestum, la tomba di Leonardo Da Vinci, Giuseppe Mazzini. Nelle interviste cita Heidegger, Dostoevskij, Pirandello, Prezzolini, Spengler, Confucio, ma anche Bobbio e Weber.

Fu poi attivo in giornali considerati vicini all’allora leader dei Pli napoletano Francesco De Lorenzo, mediatico ministro della Sanità poi travolto da Tangentopoli. Ma il Roma di Giuseppe Tatarella segna poi un sicuro rientro nell’alveolo di An, e nel 2001 è pure candidato alla Camera per la Casa delle Libertà nel collegio Chiaia-Vomero-Posillipo. Non eletto. Nel 2010 al Tg1 è regista dei servizi sulla casa di Montecarlo, con cui Gianfranco Fini mè screditato dopo la rottura con Berlusconi. «Quale occasione migliore per far vedere a tutto l’ambiente politico che le vesti da finiano erano state stracciate per indossare quelle del gasparriano doc?», commenterà un ritratto a lui dedicato. 

E poi arriva appunto a Putin. Il profilo che ne fa è largamente simpatetico, anche se con un minimo di circospezione. «Vladimir Vladimirovič Putin è un protagonista chiave del nostro tempo, di quelli che, nel bene e nel male, saranno ricordati per aver segnato un’epoca della politica internazionale». Certo, «un personaggio enigmatico e complesso, spesso criticabile per manifestazioni di autocrazia, la cui vicenda, mai narrata compiutamente, appare degna di un romanzo di John Le Carré, dove fitti misteri si fondono con elementi d’introspezione psicologica». Ma, secondo lui, «la narrazione giornalistica del leader russo ha spesso risentito di stereotipi, di valutazioni superficiali, prive di riscontri sul piano storiografico. Il personaggio Putin, invece, non può essere disgiunto dalla storia passata e recente della Russia, dai settant’anni di comunismo sovietico, dalla caotica fase di dissoluzione dell’Impero, dai gravi pericoli che lo sfaldamento dello Stato genererà con il riemergere di antichi nazionalismi etnici». 

Insomma, «la fine degli anni Novanta, gli ultimi della stagione di Boris Eltsin, sono segnati dal caos, dalla frantumazione del potere nelle mani di ambiziosi oligarchi locali, dalla pericolosa divisione dell’arsenale atomico, dalla catastrofe sociale e morale. Eltsin è in preda all’alcolismo, a una salute precaria, manipolato da un famelico clan famigliare». 

Dunque, «la Russia ha bisogno di un leader forte, qualcuno ipotizza un čekista, in grado di riprendere il controllo dello Stato. L’ascesa di Vladimir Vladimirovič Putin, ex colonnello del servizio segreto diventato vicesindaco di Leningrado, sconosciuto alle cronache interne e internazionali, è rapida quanto sorprendente. Direttore dell’FSB, il servizio erede del KGB, primo ministro della Federazione Russa, quindi nel marzo del 2000 eletto per la prima volta presidente. In quindici anni di potere, a Putin vengono ascritti successi come la crescita economica e la riappropriazione delle risorse energetiche da parte dello Stato». Vero che gli «viene contestato uno stile di governo autocratico, lontano da una democrazia liberale. Alla sua gestione del potere vengono anche ricondotti fatti di straordinaria gravità». Ma subito Sangiuliano aggiunge: «con responsabilità peraltro mai provate».

Per chi non le voleva provare, si potrebbe chiosare. «Solo il tempo e la storia ci diranno chi è stato davvero Putin», ammetteva. Ma poi, giù tutti commenti positivi. «Per lo scrittore e filosofo Aleksandr Zinov’ev rappresenta il “primo serio tentativo della Russia di resistere all’americanizzazione e alla globalizzazione”, per il liberale Sergej Kovalëv “un’alternativa alla restaurazione comunista e all’incompetenza dei democratici”. Aleksandr Isaevič Solženicyn, gigante della letteratura mondiale che con la sua vita ha testimoniato il valore della libertà, ebbe ad affermare: “Quando dicono che da noi è minacciata la libertà di stampa, io manifesto tutto il mio dissenso”. 

E, ovviamente, Sangiuliano ricorda: «La Russia non è stata soltanto il comunismo e non è oggi solo una terra di autocrati. È la patria di immensi romanzieri, di una delle più importanti letterature, di matematici, di fisici, di economisti, di una profonda spiritualità religiosa. Capire il personaggio Putin, penetrarne la vicenda umana e politica, raccontarne dettagli poco noti, significa fare i conti con una delle dimensioni fondamentali del nostro tempo». 

Insomma, «radicato nell’anima profonda della Russia e nelle sue peculiarità sociopolitiche, in realtà il successo di Putin deriva dalla sua capacità, di fronte a sfide impegnative e drammatiche (la guerra in Cecenia, un sistema economico da riconvertire al capitalismo, la diffusa crisi sociale e morale), di riplasmare un’identità nella quale tanti cittadini russi si riconoscono volentieri: un bagaglio di memorie, storie e ideali a cui è stato dato il nome di «rinascimento nazionale e tradizionale». 

«Putin è riuscito a riplasmare un’identità in cui molti possono ritrovarsi: essa tiene insieme lo stemma e il nastrino zarista, l’inno sovietico con la vecchia musica e nuove parole, la bandiera che ricorda un breve periodo democratico. Pezzi di storia, una volta antitetici, messi insieme. Un’operazione alla quale i politologi russi hanno dato il nome di “rinascimento nazionale e tradizionale”».

Intendiamoci, non siamo dalle parti degli scambi di bottiglie di Berlusconi, o delle magliette di Salvini. Più che un putiniano, Sangiuliano è Putinversteher: uno che giudica necessario capire le ragioni di Putin. Un modo più soft per restare comunque in armonia con gli umori di un centrodestra italiano che è furibondo sia col centrodestra europeo per quella che viene considerata la pugnalata alle spalle di Sarkozy e Angela Merkel al Cav; sia più in generale con Usa e Nato per il modo in cui le Primavere Arabe appaiono aver scatenato una valanga di chiedenti asilo sull’Italia e sull’Europa. Soprattutto l’ascesa dell’Isis induce in molti a considerare Putin un baluardo indispensabile contro i tagliateste e tagliagole jihadisti. Comunque in un periodo di crisi economica in cui i fondi vengono tagliati un po’ dappertutto la Russia di Putin è invece un soggetto che grazie a gas e petrolio può distribuire risorse con larghezza. Il raffronto col successivo libro su Xi chiarisce anche come Sangiuliano sia tra coloro secondo i quali il pericolo vero è quello cinese, e lo “zar” – come lui stesso lo chiama – sarebbe meglio tirarlo dalla parte nostra. 

Da direttore, con un governo imperniato su un asse tra i filo-russi della Lega e i filo-russi del Movimento Cinque Stelle e con presidente della Rai il commentatore di Russia Today Marcello Foa, viene spesso accusato di essere passato dalla «comprensione per Putin» al putinismo tout court. Il giorno del via libera per la nomina di Sangiuliano da parte del consiglio di amministrazione della Rai, il sito di Eurasian Press Agency esalta l’«attento conoscitore della società russa», riportando sue citazioni, «Putin non piace alle élite occidentali che hanno tolto la sovranità ai popoli», e inviti a rileggersi il discorso di Dostoevskij su Puškin. «Anche gli americani avevano avuto accesso a quel tipo di gas, e poi che interesse avrebbe Putin a sollevare questo polverone?», ha detto da vicedirettore sul caso Skripal. «Storicamente è russa», dice della Crimea. Il Tg2 segue con attenzione le conferenze stampa di fine anno di Putin, trasmette servizi in quantità sul Natale ortodosso a Mosca, insiste sui successi della Russia di oggi, ricorda le ricorrenze di quella di ieri. 

Lo accusano inoltre di effettuare un’opera di fiancheggiamento politico incompatibile col suo incarico. Nel periodo giallo-verde si dichiara «caro amico» di Salvini, ma è ben visto anche da Di Maio, e pompa a tutto spiano i Gilet Gialli. In seguito torna ad avvicinarsi a Fratelli d’Italia e partecipa alla loro Convention, anche se va pure alla festa della Lega. Però è anche un direttore che fa volare il suo prodotto negli share. Impone grandi approfondimenti storici e un nuovo Tg Storia, in tono con la sua produzione saggistica. Rafforza il Tg con un’altra edizione 8,30-8,40, puntando molto anche su soft-news, dossier, speciali. Come spiega nelle interviste, «il portiere del mio palazzo è per me un interlocutore importante per capire il quartiere. Se posso, impiego volentieri un’ora con un operaio o un sottoproletario ad esempio di Napoli, la mia città di origine. Lo stesso all’università: a lezione finita, mi fermo con gli studenti. Voglio sapere cosa fanno, come passano il tempo, cosa leggono, le serie tv che vedono». «Meglio una faziosità limpida ed esibita di una subdola terzietà», è il suo manifesto.

Tuttavia, dopo l’attacco all’Ucraina sembra avere un tipo di ripensamenti che lo accostano appunto più alla Meloni che a Salvini o al Cavalere. Già dopo l’attacco russo, quando a uno speciale del Tg2 sulla crisi il corrispondente da Mosca Marc Innaro dice che la colpa è l’allargamento della Nato, lo stessso Sangiuliano, dopo avere per tanto tempo dato corda a questo tipo di linea, lo rimprovera. «Per dirimere questioni diplomatiche come quelle che Putin pone, giuste o sbagliate che siano, c’è il diritto internazionale. È a quello che si dovrebbe ricorrere, e non certo ai carri armati», spiega. E non manca di rilasciare interviste in cui appunto da biografo prende le distanze da Putin. «Attacca perché ha la sindrome dell’assedio», spiega. «Mi ha sorpreso, pensavo a operazioni militari più limitate», ammette. Anche se poi, di fronte a immagini che «ci riportano a scenari da seconda guerra mondiale», prova a spiegare che «alla radice della psicologia di Putin c’è proprio il retaggio di quello che è accaduto in quella guerra». «Quando lui è nato, nel 1952, Leningrado, l’odierna San Pietroburgo, era ancora in macerie. È la città che ha subito il più orrendo assedio della guerra, un milione di cittadini morti in 900 giorni. I suoi genitori sono sopravvissuti a stento, suo fratello Viktor, 9 anni, è morto. La sindrome dell’assedio e dell’attacco dal mondo esterno ha condizionato tutta la sua psicologia».

Secondo lui, è vero, Putin «negli ultimi anni è peggiorato, si è molto isolato, vive in suo universo, ha perso i contatti con la realtà. Negli anni Novanta, vicesindaco di Leningrado, ha fatto un viaggio in Italia in camper, con moglie e figli. Un’altra estate è andato a Biarritz, sull’Atlantico. Faceva la classica vita da russo in pantaloncini, che lo teneva in contatto con la realtà e con la gente comune. Adesso invece vive isolato nella cerchia dei Siloviki, quelli che vengono dai servizi segreti e che sono la sua cerchia politica». Dopo aver detto quello che ha detto su responsabilità non dimostrate e su Skripal che non c’era interesse ad avvelenarlo, Sangiuliano conviene ormai che Putin è «un uomo glaciale. Agli inizi degli anni Duemila convoca gli oligarchi che negli anni Novanta si sono impossessati delle grandi ricchezze energetiche della Russia. Putin dice: li restituite allo Stato e ve li paghiamo. Ma aggiunge: se non accettate c’è sempre il rischio che qualcuno di voi scivoli nella vasca da bagno o cada dal quinto piano». 

·        Giacinto Pinto.

Chi è Giacinto Pinto, l’inviato di Rai 1 in Ucraina. Da newsmondo.it il 25 aprile 2022.

Il volto di Rai 1 in collegamento ogni sera al Tg1 è quello di Giacinto Pinto, l’inviato sul campo in Ucraina.

Giacinto Pinto è il giornalista inviato di Rai 1, il cui nome viene pronunciato ad ogni servizio del tg1, opera nel mondo della cronaca televisiva e produce reportage giornalistici. Attualmente si trova sul fronte di guerra in Ucraina e ci racconta il conflitto con la Russia, giorno dopo giorno.

Lavori del Futuro: le 20 professioni più richieste

Giacinto Pinto: la biografia

Giacinto Pinto è nato il 9 Aprile del 1977 a Lucera, in provincia di Foggia. Ha frequentato il Liceo Classico V. Lanza a Foggia diplomandosi nel 1996. Si sposta poi a Roma dove frequenta l’Università “La Sapienza”. Nel 2006 diventa giornalista professionista e consegue il tesserino per svolgere la professione. Attualmente vive a Roma.

Giacinto Pinto: carriera professionale

Giacinto è un giornalista professionista che lavora attualmente per la Rete Nazionale Rai. Precedentemente ha lavorato per altri programmi come Teleblu, Teleradioerre, TeleNorba, per cui è stato anche inviato in Cina, Colombia e Iraq. Nei programmi Rai ha lavorato anche come come inviato per la trasmissione La vita in diretta, e poi per il Tg Lombardia.

Ha svolto molti lavori sul campo come inviato, correndo in Abruzzo al tempo del terremoto, alla Campania per seguire l‘inchiesta sull’emergenza rifiuti. Ha raccontato la cronaca nera del delitto di Avetrana e ha viaggiato in territori ostili raccontando i conflitti di inizio anni 2000 fino ad arrivare ad oggi. Attualmente, come altri giornalisti Rai, si trova In Ucraina da dove racconta il conflitto con la Russia.

Nel 2009 ha ricevuto una “menzione speciale” al Premio Giornalistico Nazionale Maria Grazia Cutuli.

Giacinto Pinto: vita privata

Riguardo la vita privata di Giacinto Pinto non si conosce molto, come tanti altri giornalisti la sua attività pubblica è scarna di informazioni personali ma ricca di professionalità.

Curiosità e social media

Giacinto Pinto è attivo sui social Twitter e Facebook che utilizza principalmente per uso lavorativo e diffusione di notizie e informazioni, molto meno per la vita privata.

·        Gian Paolo Ormezzano.

Gian Paolo Ormezzano: «Due anni con il Long Covid, 5 ospedalizzazioni e di notte canto in francese». Gian Paolo Ormezzano  il 24 agosto 2022 su Il Corriere della Sera

Scrivere della scia lunga e perfida del Covid comporta, per i lungodegenti fra i quali c’è chi picchietta sul computer queste e le righe che seguono, due rischi: 1) lo snobistico sovraesporre e drammatizzare le sue esperienze personali, su tutte quella di avere perso il gusto divino ancorché costoso delle ostriche; 2) il dover usare la presuntuosa prima persona singolare, come il vecchio giornalista, che non si ferma e qui si firma, vietò a se stesso e non solo in anni e anni di professione (agonizzante) dell’andare-vedere-raccontare.

Essì, io sono una vittima grossa e comunque grassa della superscia del covid. Il coronavirus (allora lo chiamavamo soprattutto così, era più letterario e scientifico e timorato) mi ha aggredito nei polmoni con veemenza mortifera, dal 31/10/2020 mi ha inflitto in un mese cinque diverse ospedalizzazioni, con appendice in Francia (timore di trombosi letale, alla fine — delusione — solo linfodrenaggio) proprio il giorno in cui a Torino mi moriva Giampiero Boniperti, mio amico infinito anche perché (o ancorché, nel gioco tutto sommato bello degli opposti sentimentali) juventino.

La scia balorda e cattiva del covid, addosso e dentro a me, dura, perdura e si indura da tempo, sono quasi due anni. Ogni giorno trovo compagni di sventura i quali mi chiedono di dettagliare le mie pene in cambio (!) del dettaglio delle loro. Molti avevano letto la paginona che il Corriere Torino mi fece scrivere quando finii con i tormenti classici, gaglioffi e diretti del covid e cominciai a collezionare quelli talora più sottili ma sempre più crudeli della scia.

Più volte ho cercato di riassumere, con distacco diciamo professionale e con serenità critica, certi mali speciali, e sempre elencandomeli dentro ne scopro e aggancio di nuovi, che sovente si impongono per zozza crudezza. L’immonda infame vigliacca scia, che sta preoccupando e coinvolgendo anche tanta scienza medica perplessa intanto che affascinata dal mistero, sicuramente varia da individuo a individuo, con però alcune costanti feroci per tutte le vittime: sonno ridotto eccome, incubi difficili da classificare per inquadrarli, combatterli o dribblarli almeno un poco (uno tanto mio: temevo che Milinkovic non fosse un portiere vero per il Toro, ho sostato sul problema ore e ore di notti postcovidiane, mi sto ricredendo), fantasie balorde che non si sa quando nascono e come muoiono, sempre mischiandosi al presente e usando come spunti personaggi soprattutto dell’attualità.

Fisicamente perdita di alcuni sensi primari: gusto delle ostriche già detto, snobismo da clienti costasmeraldini di Briatore e pazienza, però anche ciao cioccolato (quello amarissimo ha ora per me lo stesso non gusto di quello al latte), e ciao carni monosapore cioè con sempre lo stesso non gusto, che è poi quello del pollo lesso, il volatile la cui farina nutre anche i pesci di allevamento, che infatti mi sanno di pollo: gamberetti e salmoni, polipi e sardine.

E poi c’è tutto quello che percepisco ma non so bene esporre, e magari chi mi sta vicino comprende ma esita a dirmi. Una mia nipotina che venne a dormire da me appena deospedalizzato, per farmi affettuosa e vigile compagnia, giura che intorno alle 3 di notte ho sempre cantato, il più spesso in francese, e ho pure lavato i piatti.

Doveva fermarsi una settimana, è tornata presto da sua mamma (mia figlia, il medico che mi ha salvato la vita comandandomi l’ospedalizzazione). Un giorno mi sono ascoltato mentre trasformavo in canzonetta il «Davanti San Guido» del Carducci. Un mattino anzi un’alba mi svegliai da un non sonno agonistico, intorno al letto un tappeto di oggetti buttati e talora rotti, avevo sognato/vissuto uno scontro fisico con un celebre omuncolo politico che non amo, mi sono stupito che non giacesse schiantato in un angolo della stanza.

In auto mi accade di scoprirmi lì quando dovrei essere ancora là, eppure mai ho perso il controllo di me stesso e della vettura. Vivo e risolvo grandi rebus della quotidianità casalinga in tema di ordine maniacale delle cose, e mi angoscio se devo cambiare una lampadina. Forse accadeva da sempre, il dopocovid ha snidato ed acuito le mie magagne. Potrei masochisticamente continuare, ma non ne ho tanta voglia, e credo che nessuno ne abbia. Un amen, in attesa di un requiem.

·        Gianluigi Nuzzi.

Chi è Gianluigi Nuzzi, saggista e conduttore di Quarto Grado. Da newsmondo.it il 13 maggio 2022.

Cosa si sa sul milanese Gianluigi Nuzzi, conduttore di Quarto Grado, giornalista, autore televisivo e anche saggista.

Personaggio noto al pubblico sia nel panorama televisivo e anche nel mondo del giornalismo italiano e non, essendo autore di diversi libri inchiesta e saggi, Gianluigi Nuzzi comincia il suo percorso quale giornalista professionista. Dal 2014 è alla conduzione del programma talk show Quarto Grado. Scopriamo cosa c’è da sapere sulla sua attività lavorativa e anche in merito alla sua vita privata, più qualche curiosità.

Gianluigi Nuzzi: biografia e carriera

Nuzzi nasce nella città lombarda di Milano, il 3 giugno del 1969. La sua attività all’interno del mondo del giornalismo italiano comincia con diverse collaborazioni, sia per quotidiani sia per riviste, tra cui anche Espansione, L’Europeo e il Corriere della Sera. Nel luglio del 1996 diviene giornalista professionista e in seguito instaura una lunga cooperazione con Panorama e con Il Giornale. Ricopre anche il ruolo di inviato per Libero.

Realizza nel 2009 il libro inchiesta Vaticano S.p.a., un successo che viene tradotto in ben quattordici lingue. L’anno successivo pubblico il suo secondo libro inchiesta in merito alla ‘Ndrangheta, Metastasi. Sempre nello stesso periodo collabora come autore televisivo per la realizzazione della trasmissione L’Infedele. Nel luglio del 2013 Mediaset gli affida la conduzione del programma televisivo Quarto Grado in onda su Rete 4. Dal 2018 collabora anche con il quotidiano La Verità.

La vita privata di Gianluigi Nuzzi

Il giornalista e conduttore televisivo sembra essere sposato con Valentina Fontana, giornalista freelance e amministratrice delegata della VisVerbi s.r.l. Assieme la coppia ha avuto due figli: Edoardo nel 2007 e Giovanni nel 2010.

3 curiosità su Nuzzi

Ha sul viso delle cicatrici risalenti ad un incidente avvenuto nel 1998 tra il suo motorino ed una Jeep.

Nuzzi sembra molto attivo ed è anche molto seguito su Instagram.

Nel 2014 conduce il programma Segreti e Delitti, in onda su Canale 5 per sette venerdì.

·        Gianni Minà.

Gianni Minà: «Maradona mi obbligò a filmare le sedute dallo psicologo, ma ho distrutto tutto. Rimpiango le interviste mancate a Mandela e McCartney». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 24 Luglio 2022.

Il giornalista Gianni Minà si racconta: l’incontro con i Beatles, l’amicizia con Fidel Castro 

Che cosa c’è da dire ancora sulla vita di Gianni Minà, oggi 84 anni, che non sia stato magistralmente riassunto nella battuta di Fiorello «Eravamo io, Bob De Niro, Fidel Castro e Gabo Márquez»? Ben poco. O forse no. Perché giornalisti come Minà hanno il dono di trasformare ogni racconto in una piccola epica del quotidiano, illuminando ogni volta un particolare decisivo, come sapevano fare gli impressionisti. Suoi sono programmi storici come Blitz o Alta Classe, suoi documentari su personaggi come Che Guevara, Muhammad Ali, Fidel Castro. 

Marquez, Leone, Ali, De Niro e Minà 

Certo, quella foto memorabile che la ritrae assieme a Sergio Leone, Robert De Niro, Muhammad Ali e Gabriel García Márquez sta lì a dimostrare una vita-carosello di incontri straordinari. Può dirsi felice a questo punto della sua carriera? E che cosa vuol dire per lei la felicità?

«C’è un uso improprio, anzi un abuso della parola “felicità”. Implica uno stato di grazia che quasi mai si raggiunge. Possono esserci degli attimi, la nascita di una figlia, lo scoop inarrivabile, lo sconcerto di pensare “è successo proprio a me”. Ma se uno si sofferma troppo sulla propria felicità perde di vista gli altri, il mondo. La nostra identità si esprime attraverso di loro, in un rapporto virtuoso. Invece da troppi decenni ci hanno voluto inculcare la balla che la felicità si raggiungere consumando tutto. Se guardo indietro posso dirmi soddisfatto della mia carriera. Ma non l’ho mai considerata “carriera”. È stata, lo è tutt’ora, parte importante della mia vita, un atteggiamento interiorizzato da quando sono un adolescente, sempre alla ricerca di persone da conoscere, da ascoltare, sempre alla ricerca di fatti cui valga la pena raccontare». 

Nato a Torino, nella sua bella autobiografia, Storia di un boxeur latino (minimum fax), lei rievoca l’esperienza di sfollato a Brusasco.

«Non ho molti ricordi, perché ero piccolo. Ma ho imparato a ricordarli soprattutto attraverso mio fratello, poco più grande di me, il cui breve sequestro di mia madre lo ha ferito nel profondo. Mi è rimasta la paura, l’orrore per i gesti violenti. Non so gestirli, né ho mai reagito ad attacchi verbali. Non riesco, mi blocco. Ma sono immune dal risentimento. Se dovessi pensare all’unica qualità che ho, è proprio questa, non provare risentimento. Ho visto troppe persone consumarsi dalle amarezze».

Poi Roma, la carriera giornalistica, la Rai. Le trasmissioni di successo. Ma non tutti sanno che per un breve periodo della sua giovinezza lei ha lavorato con il generale De Lorenzo, quello del Piano Solo del 1964, secondo molti un tentativo di colpo di Stato (anche se questa finalità è stata esclusa dalle indagini). Che clima si respirava all’epoca?

«Io ero molto giovane, già preso dal lavoro, facevo i servizi al telegiornale, avevo la percezione di essere già arrivato, così giovane. Sapevo però che incombeva su di me l’obbligo della leva, mio padre era scomparso, mio fratello l’aveva schivata, io forse no. Ma tutti in Rai mi dicevano che se fossi partito militare sarebbe sceso il diluvio. E infatti, partii. Fu una delle rare esperienze spiacevoli della mia vita, il generale De Lorenzo, era un uomo sfuggente, non ti guardava mai in faccia, godeva a umiliare i ragazzi e io non ero escluso dal trattamento. Mi misero nell’Ufficio Stampa del Ministero della Difesa. Andavo alle sei del mattino, a lavorare, come mi aveva insegnato Ghirelli. Compilavo la rassegna stampa e gliela portavo. Lui alzava appena la testa, sistemava tutto sulla sua scrivania e ogni mattina, mi redarguiva: “Hai la cravatta fuori posto”, “Gli scarponi non sono lucidi”, e così via». 

E vennero i formidabili anni Sessanta.

«In una taverna romana, eravamo io, Toquinho, Ungaretti e Vinícius de Moraes. Ungaretti recitava poesie con la sua voce di cartavetrata. Poi continuava Vinícius, in portoghese. Erano cene interminabili. Ungaretti era già vecchio ma, accanto, aveva sempre belle donne. João Gilberto, invece, lo avevo visto suonare per la prima volta al tendone della Bussola. Tra gli spettatori fissi che ogni sera venivano a osannarlo c’era anche Gianni Agnelli, l’avvocato. D’estate si finiva in Versilia perché da lì passavano i più grandi campioni della nuova musica, dal rock’n’roll al samba, ma si viveva anche delle trovate estemporanee di Franco Califano, er Califfo, pronto a dare lezioni sul come conquistare una donna attraverso i versi di una canzone e non solo». 

Lei ha vissuto i concerti epici.

«Mi ero perso Woodstock, non potevo perdermi Wight (edizione 1970, ndr). Il biglietto d’entrata costava solo tre sterline. Solo tre sterline per Joni Mitchell, Miles Davis, Jethro Tull, Leonard Cohen... Nella notte avevo visto l’esibizione dei Doors e sentito Jimi Hendrix interpretare prima If 6 Was 9 e poi stravolgere con la sua chitarra l’inno americano. La sera dopo l’intervento di Jimi Hendrix, Georgina (la prima moglie di Minà, ndr) era venuta trafelata a dirmi: “Dietro le quinte c’è un nero che si sente male. Cercano un’automobile, possiamo prestargli quella che abbiamo affittato noi?” Era proprio Jimi Hendrix. Sia per lui che per Jim Morrison sarebbe stata l’ultima esibizione». 

Lei ha incontrato molti dei protagonisti del Novecento. Da Fidel Castro a Maradona. Ma vorrei un ricordo dei Beatles.

«Eravamo ragazzini, tutti quanti. Io avevo più feeling con Paul Mc Cartney e il legame con lui mi permise di incontrarlo nell’89, in occasione del suo tour da solista perché avrei voluto imbastire un documentario su di lui prodotto da Mimmo D’Alessandro (con cui poi anni dopo avrei fatto, insieme a Sergio Bernardini, il programma registrato alla Bussoladomani “Alta Classe”). Ma i rispettivi impegni ce lo impedirono. Questo errore ancora lo rimpiango». 

Una carriera è fatta anche di occasioni mancate, passi falsi.

«Ancor più rimpiango la mancata intervista a Nelson Mandela, dove ci rincorremmo per due anni e poi non se ne fece più nulla». 

Mina è ancora una sua grande amica?

«È una persona amabile, adorabile. Con una personalità e sensibilità fuori dagli schemi. Ci conosciamo dal ’61, non ci frequentiamo più da tempo e fino a prima della pandemia ci sentivamo al telefono, ma l’affetto e la stima rimangono immutabili. Un’artista, a parer mio, inarrivabile. Si è ritirata molto presto, ma ha saputo rimanere nell’immaginario collettivo degli italiani, vestita solo dell’interpretazione dei suoi brani che periodicamente ci regala. Solo di Mina, di Chico Buarque de Hollanda e di Joan Manuel Serrat ho tutti i dischi. In questo periodo sto riscoprendo le loro meravigliose sonorità e la mia collezione di più di duemila lp che non ho mai avuto il tempo di ascoltare». 

Com’era Pasolini? Lei ha raccontato che nel calcio picchiava duro.

«Pier Paolo era appassionato di calcio, giocava con passione senza risparmiare o risparmiarsi nulla, come ha sempre fatto vivendo la sua vita. Io lo considero più di uno scrittore, un poeta che ha scritto testi profetici, sulla società e il ruolo della televisione. Mi colpì profondamente lo scempio del suo corpo, le foto mostrate. Mi ricordarono subito quelle del Che Guevara, che, come un moderno Cristo, fu fotografato subito dopo la sua uccisione con intorno i suoi assassini soddisfatti dell’esibizione del loro trofeo». 

Che idea si è fatta della sua morte?

«Ricordo bene che ci obbligarono a pensare che fosse stato un omicidio a scopo sessuale, ma in quel periodo, in un’Italia turbolenta, che aveva e avrebbe subito stragi di cui ancora non sappiamo i mandanti, questa spiegazione mi è sempre risultata offensiva. Pasolini è un altro, ennesimo buco nero della storia della nostra disgraziata Repubblica».

Qual è stata la più grande lezione che lei ha tratto dalla vita e dalla sua amicizia con Muhammad Alì?

«La sto vivendo sulla mia pelle: sono vecchio e con acciacchi più o meno seri che mi hanno complicato la vita. Non vedo più tanto bene, faccio molta fatica a leggere, ma continuo a farlo, a studiare, a scrivere. Mi sono fermato psicologicamente durante la pandemia, pensavo fosse una disgrazia insopportabile accaduta proprio a me. Poi semplicemente, mia moglie Loredana mi ha fatto ricordare la lezione di Muhammad Alì, che quando passava a Roma ci veniva sempre a trovare con la sua Lonnie. Lui, “the greatest”, il più grande, colpito proprio nella parola che aveva usato così mirabilmente per difendere i diritti civili della sua gente diceva spesso: “Ho ricevuto così tanto dal mio Dio che neanche questa malattia può minimamente pareggiare quello che ho ricevuto da Lui”. In fondo, è così pure per me. Sono state quindi le parole di Muhammad Alì a farmi trovare un modo altro, diverso per continuare la mia professione di giornalista. Anzi, ora ho imparato ad ascoltare di più e meglio». 

E dall’amicizia con Gabo? Secondo lei Gabriel García Márquez era consapevole di essere uno scrittore immenso?

«Sicuramente è stato lui a farmi scalare la lunga fila di giornalisti che anelavano un’intervista a Fidel Castro. Io da tempo mi ero preparato con Saverio Tutino e con il suo aiuto pensai a più di cento domande da fare al Comandante. Pura follia. Nel frattempo, nel corso degli anni, avevo incontrato e tessuto la mia amicizia con il Premio Nobel varie volte. Lo avevo incontrato inizialmente a Città del Messico, dove viveva e dove lo avevo aiutato ad avere un incontro tra lui e il nostro presidente Pertini e poi a Cuba, dove aveva fondato la Scuola di Cinema a pochi km dall’Avana. L’aveva intitolata a Zavattini, perché con gli altri registi cubani, avevano tutti frequentato la Scuola sperimentale di cinematografica a Roma. Mi raccontava spesso, divertito, che quando parlava agli italiani dell’orgoglio di aver conosciuto Zavattini, questi spesso rispondevano: “Zavattini chi?”. In quella Scuola dava lezioni di scrittura creativa e di giornalismo; poi più tardi aveva creato una Scuola di giornalismo in Colombia. Era un uomo molto colto e molto divertente. Più che scrittore immenso, lui aveva l’urgenza di essere utile socialmente, perché – sosteneva convinto - è questa la funzione sentita dagli intellettuali in America Latina». 

Maradona. Se dovesse riassumere questo personaggio senza confini in poche parole?

«Insieme a Pietro Mennea è stato un dolore immenso la notizia della sua morte. Mi ha concesso il privilegio di attraversare ombre e luci della sua vita. Non l’ho mai giudicato, perché non è questo il compito che ci si deve aspettare da un giornalista. Ho tentato di raccontarlo nella maniera più aderente possibile. Con mia moglie Loredana abbiamo deciso di distruggere parte del materiale filmico riguardante le sue sedute dallo psicologo che mi aveva fatto filmare a forza».

Me lo racconta un errore giornalistico? O, come diciamo noi, un “buco”?

«L’ho detto prima, due: la mancata intervista a Nelson Mandela e a Paul Mc Cartney. Un altro “buco” è stato l’intervista a Barack Obama. Subito dopo il mio documentario “Cuba nell’epoca di Obama” del 2011, come avevo fatto con Fidel Castro, ho chiesto l’intervista al Presidente nordamericano. Ho seguito le solite procedure burocratiche che si fanno per le interviste ai capi di stato, la richiesta all’Ambasciata di appartenenza. Mi hanno fatto produrre una montagna di documenti: sulla mia società, su tutti i miei documentari, la mia biografia, le mie domande, addirittura la lettera di accompagnamento di un membro del Partito Democratico e poi mi risposero dopo un bel po’ di tempo che per quel tipo di intervista non erano ancora maturi i tempi. Succede». 

Ci parla del progetto Minà’s Rewind?

«Da circa dieci anni, con Loredana, stiamo lavorando alla conservazione della memoria di tutto quello che ho fatto come giornalista. Abbiamo privilegiato inizialmente i libri, poi un documentario “Minà, una vita da giornalista” che presenteremo a ottobre e infine questo meraviglioso progetto, “Minà s Rewind”, il più poetico di tutti, quello a cui tengo di più: la condivisione con chi ne vorrà sapere di più, delle interviste che ho fatto nel corso della mia vita professionale e che non hanno mai visto la luce, per svariati motivi. Questa nuova idea l’ho potuta intraprendere grazie alla sagacia di Loredana che ha messo su un gruppetto di collaboratori: la più giovane, la mascotte, Ludovica Piccialuti, 21 anni che si occupa di grafica e dei contatti con la stampa insieme a Bruno Martirani che gestisce materialmente i miei profili, Dario Caregnato, un vero genio delle strategie dei social; dopo 15 anni di lezioni semplificative di questo che per me era un mondo inconcepibile, mi ha fatto capire che potevo arrivare ai miei lettori anche senza giornali o tv; Eugenio Baldassarri Hernandez, il mio iperattivo figlioccio che sa tutto su tecniche di montaggio e riversamenti e infine Andrea Conforti, che supervisiona tutti e tutto con l’amore e l’amicizia che mi riserva da molto tempo». 

Un nuovo modo di fare giornalismo?

«Per me, vecchio ultraottantenne, è la rinascita ad un nuovo modo di vivere il mio mestiere, ma soprattutto la mia vita. Non è vero che i due modi di fare giornalismo, il mio, quello investigativo tradizionale e quello fatto sui social sono inconciliabili. Minà’s Rewind vuole essere proprio questo anello di congiunzione: mettere nel mio sito e sul mio canale You Tube informazione verificata senza dipendere economicamente da nessuno, dove chi vuole può fermarsi a leggere un mio articolo o un libro o un numero della rivista “Latinoamerica” o vedere un’intervista filmata. Con produzionidalbasso.it abbiamo iniziato una raccolta fondi che ci ha permesso di iniziare questo lavoro. È per me sconvolgente quanta gente mi legge, gli attestati di affetto. Sono onorato, e anche felice di aver trovato un nuovo modo di condivisione con gli altri. È questo il sale della vita».

Giuseppe Smorto per “la Repubblica” il 23 marzo 2022.

Gianni Minà riprende l'auto con cui aveva scarrozzato i Beatles: ma quella sera del '65 al Piper c'era la folla, si rifugiarono al Club 84, in via Veneto. Alla guida e alla regìa c'è oggi la moglie Loredana Macchietti: per colonna sonora Paolo Conte e Manu Chao, la musica delle ormai scomparse linotype, momenti incredibili di tv: Ungaretti che conversa con Vinicius de Moraes, Fellini chiede di alzare la camera "così sembro più magro", il set di C'era una volta in America.

È il docufilm Una vita da giornalista che sarà presentato venerdì 25 al Festival di Bari, ovvero la capacità di Minà di stare sempre nel posto giusto, con qualche rischio. Dopo una domanda al generale dittatore Lacoste "è vero che qui scompaiono le persone?", gli consigliano di lasciare l'Argentina, anno dei Mondiali '78. 

Macchietti divide in cento minuti la vita di un uomo nato al Nord ma con baricentro al Sud: le case dei ferrovieri nella città "grande coro di persone" (Venditti), la maglia del Grande Torino, l'abbraccio negli spogliatoi con "il gallo" Belotti. Non c'è la scontata battuta "chi è quel signore vestito di bianco in Vaticano accanto a Minà", ma il doc cerca di spiegare il segreto che ora chiamano empatia, e ieri era amicizia, arte dell'incontro. C'è lui davanti a Enzo Ferrari che si commuove per Villeneuve, oppure accanto agli splendenti Stefania Sandrelli e Franco Califano, attore di fotoromanzi non ancora diventato "il Califfo".

Lui preso quasi in braccio da Muhammad Ali, forse l'unico a cui stelle ribelli come Mennea ragazzo del Sud senza pista e Maradona campione solo e tormentato hanno riservato le confidenze più intime e scomode. E poi, gli anni dei grandi concerti e del programma Blitz: i Rolling Stones, la casa dei Beach Boys, una visita a Dizzy Gillespie per una serie sulla storia del jazz.

La sua famosa agenda che fa dire a Troisi: «Lo so, sto sotto i Fratelli Taviani, Toquinho e Little Tony». Quando De Niro sbarca a Roma chiama Minà: e anche se quella di Fiorello sembra una gag ("eravamo io"), c'è una foto in cui a cena ci sono Gabriel García Márquez, Sergio Leone, il divo Bob, Muhammad Ali e naturalmente lui. Forse non tutti sanno che la sua è stata una lunga vita da freelance, un rapporto nervoso ma di grande amore con viale Mazzini, che fa dire a Renzo Arbore: «Siamo stati protagonisti di un rinnovamento della Rai».

Facendo cose che nella tv di oggi accadono solo su mandato dello sponsor: Panatta intervistato a un cambio di campo, in evidente affanno. E dopo la vittoria «Gianni, la gente è buona e mi capisce». Passano sullo schermo i giganti portati su Rai 2 la domenica pomeriggio: Proietti, Gassman, Celentano, De André. 

E la lezione su Dante di Carmelo Bene a Benigni ("accento sulla sesta!"), sarebbe stata bene in qualche festa per i 700 anni. Loredana Macchietti: «Non è solo il racconto di una vita, ma anche l'evoluzione del giornalismo e del linguaggio televisivo, grazie alle musiche dell'epoca». Fuori dal docufilm Minà aggiunge: «Eravamo un ponte tra i fatti e la gente. All'inizio ho pensato che i social portassero più democrazia, ora sono pessimista. Il buon giornalismo di approfondimento vivrà nell'incrocio tra il metodo del vecchio mestiere e le nuove forme di comunicazione».

Nemmeno nel film compare la famosa parete della casa romana in cui ci sono le foto di Minà con i suoi amici celebri. «Quella è zona privata », per l'elenco non basterebbe una pagina: Gorbaciov, Mina e Monica Bellucci ci sono. E naturalmente si parla dell'intervista a Fidel durata sedici ore, con Castro che esordisce dicendo: "Cercherò di sintetizzare" e risponde sui diritti umani. Venduta in tutto il mondo, finita in una battuta di Natural Born Killers ("voglio un'intervista come quella che ha fatto quell'italiano a Cuba!") chissà perché tagliata nell'edizione italiana, provocò polemiche da prima pagina, ammirazione e invidia. I titoli di coda vanno sulla dedica ai compagni dell'adolescenza e sul premio speciale al Festival di Berlino, molti anni dopo: chissà se in Italia qualcuno ci pensa

Gianni Minà: «Nato a Torino grazie a un colpo di fulmine dentro la Mole. L’Avvocato disse no a Celentano per Yuppi Du 2». Paolo Coccorese su Il Corriere della Sera il 20 marzo 2022.

Lo scrittore si racconta in vista dell’uscita del documentario sulla sua «vita da giornalista» 

Gianni Minà, lei ha scritto di essere nato per merito di una «gita a Torino». Perché?

«Mia mamma, maestra elementare, era andata in gita a Torino con la sua classe e incontrò mio padre al Museo della Storia patria, all’interno della Mole Antonelliana. Fu un colpo di fulmine, mio padre scrisse la sua dichiarazione d’amore attraverso la spedizione di alcune cartoline, tutte con la stessa immagine, la Mole di Torino. Si sposarono subito dopo».

Che rapporto ha con la città? Era troppo stretta per un giramondo come lei?

«No, in realtà quando ero un ragazzo ci siamo trasferiti a Roma con la mia famiglia, per motivi di lavoro di mio padre; non sono andato via perché mi stava stretta».

Suo padre era un avvocato della Reale Mutua e della Figc. È stato un gerarca fascista, ma ha anche salvato un partigiano dai rastrellamenti. Questo suo passato gli pesava?

«Come la maggior parte degli italiani era fascista, ma dopo le leggi razziali prese le distanze. Aiutò molti ragazzi antifascisti, rischiando la sua vita, ma non aveva, non l’ha mai avuta, un’aria da eroe. Era, al contrario, un uomo a cui piaceva far sorridere la gente. Purtroppo, è scomparso troppo giovane, per un ictus, improvvisamente».

Ha perso suo nonno per colpa di un bombardamento. Oggi accendiamo la tv e vediamo le immagini della guerra, abbiamo dimenticato quanto è terribile?

«Sì, è così. Era un ferroviere e stava in ufficio. Lo uccise una bomba, insieme ai suoi colleghi. Ormai nelle guerre muore sempre di più la povera gente ed è terribile constatare la follia umana».

Ha studiato al liceo D’Azeglio. Cosa ricorda di quegli anni?

«Mio padre mi aveva iscritto al leggendario liceo D’Azeglio e mi ricordo che il nostro preside non dimenticava di ricordare sempre: “Questo è stato il Liceo di Cesare Pavese… Ma anche degli Agnelli”. Ma al mitico D’Azeglio, sono passati da Vittorio Foa a Pavese stesso, da Giulio Einaudi e Norberto Bobbio a Giancarlo Pajetta, da Primo Levi a Fernanda Pivano. Ma l’elenco è ancora lunghissimo…».

È vero che è rimasto in contatto con i suoi amici di infanzia delle case di corso Orbassano?

«Si, siamo rimasti uniti, legati dalla stessa amicizia che ci saldava, grazie anche a Giovanni Pische. Era un eroe di guerra, un aviatore, rimasto paralizzato, perché fu ferito durante un’escursione area nella battaglia di Pantelleria. Giovanni aveva una decina d’anni più di noi e ci unì tutti. In quegli anni, infatti, i padri lavoravano molto e spesso erano lontani e in qualche modo assunse su di sé un ruolo genitoriale, o almeno di fratello maggiore».

Che rapporto aveva con Gianni Agnelli? Vi siete mai scontrati? Ha raccontato che condividevate la passione per la musica. Questo non servì a convincerlo quando gli portò Celentano che voleva fare il sequel di Yuppi du.

«E perché avrei dovuto scontrarmi con lui? Avevo rapporti cordiali, e quella volta con Adriano, anche se l’Avvocato non finanziò il suo film, ci divertimmo molto».

Dal tifo per il Grande Torino, agli scontri con l’ex presidente Gianmarco Calleri quando lei era alla direzione di Tuttosport. Quali caratteristiche deve avere il «perfetto» tifoso del Toro?

«Non lo so. Io sono di fede granata, lo sono sempre stato e lo sarò sempre. Più che un tifo è una fede, mi lega al ricordo di mio padre che mi portava, insieme a mio fratello, fin da piccolo a vedere la nostra squadra del cuore al Filadelfia».

La Juventus ha fatto meglio ad acquistare Cristiano Ronaldo o a rivenderlo?

«Non lo so e non mi interessa il calcio da parecchio tempo. A malapena vedo le partite del mio Toro».

Accompagnò Muhammad Alì a Torino nel 1991? All’hotel Sitea, uno dei più importanti alberghi della città, conservano la sua dedica sul diario degli ospiti come una reliquia. Ha dormito in città tre giorni, si dice, per evitare pressioni. Cosa ricorda di quel periodo in compagnia del grande campione?

«Nel ’91 in occasione del Telethon invitai Muhammad Alì. Già aveva il linguaggio rallentato, ma il ricordo più forte fu alla Moschea di Milano, dove, di fronte ai fedeli, fece uno sforzo enorme per parlare davanti a loro».

Per anni ha iniziato gli incontri pubblici chiedendo: «C’è qualcuno in sala che mi può smentire?». Oggi nell’era delle fake news e della velocità quanti colleghi potrebbero sfidare il pubblico come faceva lei?

«Oggi non è più possibile controllare la veridicità della notizia, sono troppe, troppe tutte insieme e con poco tempo per la verifica. È un problema serio: nei quotidiani spesso si decide di pubblicare la notizia dando un’occhiata ai social, ma i social sono dettati dagli algoritmi, per cui a parte le fastidiose prime pagine fotocopia, la scelta delle notizie è anche dettata dall’urgenza di arrivare primi sacrificando l’approfondimento. È l’evoluzione (o involuzione?) di un giornalismo che non mi appartiene».

Con Loredana Macchietti, sua moglie e autrice del lungometraggio, sta lavorando al documentario sulla sua «vita da giornalista». A chi vuole dedicarlo?

«Alle mie figlie e alle nuove generazioni, a cui hanno tolto il gusto di sognare un loro futuro».

PS: l’unica domanda a cui Minà non ha voluto rispondere riguardava Maradona. Gli avevamo chiesto se la vita del calciatore sarebbe stata diversa se avesse giocato alla Juve come voleva Agnelli. Parafrasando il titolo deli libro che il giornalista gli ha de

·        Giorgia Cardinaletti.

Giorgia Cardinaletti: il Tg1, il carattere e il senso della notizia. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 21 Giugno 2022.  

In una non memorabile edizione de «La domenica sportiva» l’unica piacevole novità era una giovane giornalista ai primi passi. 

Lunedì 20 giugno, alla conduzione del Tg1 delle 20, il più seguito e popolare telegiornale della Rai, ha fatto il suo esordio Giorgia Cardinaletti (riusciremo mai a consolarci della perdita di Francesco Giorgino?). Un esordio caratterizzato anche dall’annuncio bomba sul Festival di Sanremo 2023, con Amadeus che ha anticipato che tra le co-conduttrici ci sarà Chiara Ferragni, «la nota imprenditrice digitale». Tempo fa, correva l’anno 2016, in una non memorabile edizione de «La domenica sportiva» (c’erano, fra gli altri Marco Tardelli e Ivan Zazzaroni), l’unica piacevole novità era una giovane giornalista ai primi passi che dimostrava però carattere e senso della notizia. Giornata piena per Cardinaletti che alle 23,20 (sempre su Rai1) ci ha portato in una clinica della memoria a discutere del nostro organo più importante, il cervello, di cui conosciamo ben poco (illustri conoscitori dell’animo umano, come Robert Musil, Carlo M. Cipolla, Fruttero & Lucentini, hanno sostenuto che ne facciamo scarso uso; e c’è da crederci).

Gli studiosi interpellati sono convinti che il cervello umano sia la più complicata organizzazione della materia di cui abbiamo conoscenza. Sarà anche vero, ma ricordo sempre quella scena ne «Il mago di Oz» in cui Doroty (Judy Garland) si rivolge allo spaventapasseri e gli dice: «Come fai a parlare se non hai il cervello?». Risposta: «Ah, non ne ho idea... ma c’è un mucchio di gente senza cervello che chiacchiera sempre...» (l’idea degli spaventapasseri dei talk non è male!). La perdita della memoria è bel guaio (se non ci fosse san Google, a volte non saprei come fare). Ne ha parlato in studio il direttore di Rai Radio1 e del Gr1 Andrea Vianello che per via di un ictus non riusciva più a parlare. Ritrovare quelle «parole che sapeva» è stato un calvario ma anche un esempio della forza del nostro cervello.

·        Giovanna Botteri.

Striscia la Notizia e il caso Giovanna Botteri. "Perché in tv c'era lei?" Il servizio che imbarazza la Rai. Il Tempo il 14 febbraio 2022

La corrispondente Rai Giovanna Botteri torna in cima alle attenzioni di Striscia notizia. Il tg satirico di Antonio Ricci non è mai stato tenero con la giornalista inviata prima negli Stati Uniti, poi in Cina nei mesi più caldi del Covid e oggi corrispondente da Parigi per il servizio pubblico. Ma se la Botteri è di stanza in Francia, perché le è stata affidata la copertura del tragico caso del bambino caduto nel pozzo in Marocco?  

Da questo parte il servizio di Striscia in onda lunedì 14 febbraio della serie "Rai Scoglio 24" a cura di Pinuccio. "Nonostante la presenza di tre inviati Rai in Africa, il recente servizio del Tg3 sulla tragedia del bambino caduto nel pozzo in Marocco è stato affidato a Giovanna Botteri, attuale corrispondente da Parigi" ricorda il tg satirico di Mediaset in un comunicato. "Si vede che la Botteri ha un contratto particolare. E si occupa dei posti in cui si parla francese" è il  commento dell’"inviato" Pinuccio che ricorda che non è un caso isolato.  

L'ultimo precedente è quello della liberazione di Patrik Zaki, il giovane egiziano che studiava in Italia a processo al Cairo. I principali tg della tv di Stato avevano riutilizzato immagini e interviste del Corriere della Sera e la Repubblica. "Insomma, sui corrispondenti c’è tanta confusione: tanto che durante l’ultima audizione dell’ad Carlo Fuortes in Vigilanza Rai, Massimiliano Capitanio, citando proprio le inchieste di Pinuccio, ha chiesto nuovamente che fine abbia fatto il famoso report sugli sprechi delle sedi estere" è il commento al curaro di Striscia.

Striscia la Notizia, bomba su Giovanna Botteri: "Che contratto ha?". Africa e Rai, un clamoroso sospetto. su Libero Quotidiano il 14 febbraio 2022

Non è una novità, nel mirino di Striscia la Notizia ci finisce la Rai. In questo caso uno dei bersagli preferiti del tg satirico di Canale 5: Giovanna Botteri. Già, perché proprio a lei è dedicata l'ultima puntata di Rai Scoglio 24, la rubrica curata da Pinuccio e tutta dedicata agli sprechi di Viale Mazzini. 

E Striscia, a poche ore dalla messa in onda della puntata, diffonde un comunicato stampa in cui anticipa parte dei contenuti del servizio. "Nonostante la presenza di tre inviati Rai in Africa, il recente servizio del Tg3 sulla tragedia del bambino caduto nel pozzo in Marocco è stato affidato a Giovanna Botteri, attuale corrispondente da Parigi", fanno notare da Striscia. E Pinuccio, sarcastico, commenta: "Si vede che la Botteri ha un contratto particolare. E si occupa dei posti in cui si parla francese". 

La redazione del tg satirico fa poi notare che già in occasione della liberazione di Patrick Zaki, nella puntata del 9 dicembre 2021, Striscia la Notizia aveva "denunciato che i principali tg della tv di Stato avevano riutilizzato immagini e interviste del Corriere della Sera e la Repubblica. Insomma, sui corrispondenti c’è tanta confusione: tanto che durante l’ultima audizione dell’ad Carlo Fuortes in Vigilanza Rai, Massimiliano Capitanio, citando proprio le inchieste di Pinuccio, ha chiesto nuovamente che fine abbia fatto il famoso report sugli sprechi delle sedi estere", conclude il comunicato stampa, rinnovando l'appuntamento alla puntata in access prime-time su Canale 5.

Arianna Ascione per corriere.it il 24 gennaio 2022.

Nel 2020 tutti i dettagli della nascita della pandemia in Cina sono stati raccontati in Italia dalla corrispondente della Rai Giovanna Botteri, che proprio ieri a Domenica In ha rivelato di aver contratto il Covid-19 qualche settimana fa, in Francia: «In una situazione come quella della Francia, che fino a pochi giorni fa faceva registrare 500mila nuovi casi al giorno, con Omicron così contagiosa è inevitabile pensare di prenderlo».

«Non è stata una passeggiata»

La giornalista, che avrebbe dovuto fare la terza dose alla fine di questo mese, ha raccontato di essere affetta da problemi polmonari e di aver avuto una pesante sintomatologia. Fortunatamente le altre due dosi di vaccino - ricevute nei mesi scorsi - l’hanno protetta da gravi conseguenze: «Non ho avuto il Covid in forma lieve, ma credo di essere stata salvata dal vaccino. Non ho fatto il vaccino in Cina, ma qui, con la seconda dose fatta a ottobre.

Avrei dovuto fare la terza a fine gennaio, ma poi ho avuto contatti con positivi, colleghi e persone che ho intervistato, e dopo il tampone ho scoperto di essere positiva. Soffro di alcune patologie polmonari, ho avuto febbre molto alta e tosse forte, se non fossi stata vaccinata sarebbe andata molto peggio». In serata, in collegamento con Che tempo che fa, Botteri ha ulteriormente rassicurato i telespettatori sulle sue condizioni di salute: «Sto abbastanza bene, i vaccini mi hanno protetto, mi hanno salvata, anche se non è stata assolutamente una passeggiata. È stato abbastanza pesante, non voglio neanche pensare cosa sarebbe successo se non fossi stata vaccinata».

·        Giovanni Floris.

Giovanni Floris? Clamoroso: chi è Marta Collot, la donna per cui 'ha perso la testa'. Libero Quotidiano il 06 settembre 2022

Tutti pazzi per Marta Collot. Ai più sconosciuta, la ragazza è stata citata da Giovanni Floris in una lunga intervista ed ecco che la Rete si è mossa: in tanti sul web hanno digitato il suo nome per capire di chi si trattasse. Risultato? Marta, 26enne di Treviso, è la più giovane candidata alla carica di governatore dell’Emilia Romagna, nonché leader di Potere al Popolo.

Il suo carisma, come detto, è stato apprezzato dal conduttore di DiMartedì che al Corriere della Sera ha ammesso: "Cerco sempre di valutare le persone oltre al personaggio. È una donna che crede nella politica, e che quando ha un turno di lavoro rinuncia a venire in trasmissione. Mi ha colpito. Non è certo usuale". 

Lei stessa, sulla pagina di Potere al Popolo, si descrive così: "Nel 2013 entro a far parte del neocostituito gruppo giovanile Noi Restiamo. Insieme a loro sperimentiamo un’avanzata intersezione tra questione giovanile e lotta per il diritto all’abitare. Oltre a ciò, quest’esperienza mi permette di coltivare il valore dell’internazionalismo: organizzo gli incontri del Forum to Fight per due anni (forum europeo di organizzazioni politiche giovanili), mi reco spesso in Paesi Baschi e in Catalogna, seguendo da vicino la vicenda del referendum per l’indipendenza, ho visto cos’è la guerra a Kobane, nelle settimane in cui infuriava la battaglia tra Isis e combattenti curdi". E chissà se l'endorsement di Floris la aiuterà in campagna elettorale.

Dagospia il 31 gennaio 2022. Stefano Bonaga - da Facebook 

Siamo un gruppo di fedeli e affezionati spettatori di 'Di martedì' su La7. 

Fin dalle prime puntate ormai lontane della trasmissione abbiamo apprezzato l'intelligenza, la cultura e lo spirito dinamico di Giovanni Floris. Questa premessa è doverosa al fine di far percepire questo appello come una espressione affettuosa di una critica che riguarda l'ormai affermatosi nuovo stile di conduzione del programma in questione. 

Accade infatti, ormai da molto tempo, che lo spettacolo che ci viene offerto rasenti il grottesco espressivo e comunicativo. Floris sembra animato da una ossessione compulsiva diretta alla presenza e al manifestarsi della moltitudine. Decine e decine di ospiti, in presenza e da remoto, cui Floris concede la parola, contemporaneamente alla quale vengono annunciati in serie gli altri interventi, programmati dunque indipendentemente dall'adeguatezza del tema e dalle specifiche competenze, parola che mediamente è concessa per quindici secondi, peraltro inevitabilmente seguiti da un riassunto temporalmente equivalente dello stesso Floris, anche quando gli enunciati sono chiarissimi. 

La voracità del presentatore appare simile a quella che caratterizza le gare a chi mangia più hamburger nel tempo dato. Con qualche eccezione, quali le lunghe e raffinate disquisizioni scientifiche della straordinaria Barbara Gallavotti e poco altro, l'effetto di apprendimento e riflessione sullo spettatore pur attento del programma, va dalla irrilevanza al nervosismo con esiti di insofferenza generalizzata. 

La pazienza degli ospiti peraltro, oltre a risultare ammirevole per determinazione oppure miserevole per esibizionismo rassegnato, risulta comunque triste e sconcertante. 

Il tempo non è infatti irrilevante per l'esercizio della ragione, e per l'espressione delle sue ragioni. Dunque questo appello ha come scopo arrogante di ottenere un cambiamento di rotta di una trasmissione, che pur in mano ad un professionista intelligente, sempre meno consente di intelligere. Con rispetto ed affetto. Stefano Bonaga 

p.s: 

primi firmatari: Stefano Bonaga, Giancarlo Vitali, Giovanni Pintori, Leonardo Piccinini, Silvia Pagnotta e tanti altri

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 14 maggio 2022. 

Giovanni Floris, è giusto dare voce in tv ieri ai No Vax, oggi ai Pro Putin?

«In linea di principio, sì. Ogni voce va ascoltata. I talk esistono proprio per questo: mettere a confronto idee diverse». 

Ha notato che a volte sono le stesse persone?

«Certo; e la cosa non deve stupire. Il no ai vaccini e il tifo spesso inconfessato per Putin sono il frutto del medesimo fenomeno culturale e politico: l'opposizione al sistema. E come chiudere gli occhi di fronte a questo fenomeno? Come si fa a non raccontarlo?». 

Non trova insopportabile il narcisismo da talk?

«Non confonda l'effetto con la causa. Quelli che lei chiama narcisi sono il prodotto della trasformazione del Paese; non l'origine».

Alcuni sono assurti al rango di personaggi di culto.

«Ci sono due filoni. Gli antisistema, che alla razionalità e alla sua banale semplicità oppongono l'idea del complotto. E allora c'è il complotto della scienza, che vuole imporci il vaccino; e c'è il complotto dell'Occidente, che vuole alimentare la guerra». 

E l'altro filone?

«Mi pare ancora più interessante, anche perché finora se n'è parlato poco. È il filone iper-realista, o della convenienza».

Mi faccia un esempio dello spirito di convenienza applicato al vaccino.

«A me, che sono giovane, vaccinarmi non conviene, perché il Covid non mi fa nulla. L'idea che serva alla società, agli altri, non viene scartata; non viene proprio presa in considerazione». 

E applicato alla guerra?

«Gli ucraini devono difendere o no il proprio Paese? Non gli conviene. Meglio far entrare Putin. Perderebbero la libertà? Pazienza; resterebbero vivi: è più conveniente. Non sto parlando di strategie per la pace, non voglio dire se sia giusto o sbagliato armare gli ucraini...».

Me lo dica invece: è giusto?

«Certo che è giusto armare i resistenti ucraini. Così come è giusto portare Putin al tavolo delle trattative, a costo di chiamarlo venti volte al giorno, come ha spiegato Macron nell'intervista al Corriere ; altrimenti, se non lo chiamano i leader democratici, lo chiameranno gli asiatici. Bisogna contrastare la dinamica dell'escalation. La colpa dell'Europa è non aver disinnescato Putin prima che agisse incontrastato; ora sarebbe giusto che qualcuno dei tanti suoi amici che ho visto sfilare in questi anni gli telefonasse... Ma quel che a me interessa, come giornalista, è riflettere su un modo di pensare». 

Cioè?

«La logica del conviene o non conviene sta prendendo sempre più il posto di giusto o sbagliato. Se ci fosse un equilibrio tra le due logiche sarebbe una buona cosa; se passa solo la prima, si salva il singolo, ma si trasforma il suo mondo. Diventa accettabile un mondo in cui muore il vecchietto, in cui si può cedere la libertà, in cui la convenienza decide chi e che cosa resta in piedi. La responsabilità collettiva, la libertà stessa diventano un limite; e abbatterlo apre le porte a un mondo che non è detto ci piacerà».

Che mondo sarebbe?

«Appunto: non avere più alcuna empatia per il partigiano morto per la libertà, a cosa porta? Fare il Covid in forma leggera, infischiandosene se intanto muoiono un po' di vecchietti, a cosa porta? Forse alla salvezza di diversi singoli; ma probabilmente alla perdizione di molti. Di sicuro, alla dissoluzione dei soggetti collettivi: i sindacati, i partiti, in prospettiva i popoli. Tutto può diventare conveniente, anche far decidere della propria vita ad altri. Magari al dittatore, all'invasore. Dipende cosa offre in cambio. Ad esempio, la vita in cambio della libertà». 

Non è sempre stato così?

«No. Noi da piccoli facevamo le file a scuola, o al militare, per farci vaccinare. I nostri figli, cui stiamo oggi dando l'esempio, si metterebbero nella stessa fila? Qualcuno di noi si è fatto ammonire per il bene della squadra, ed evitare un gol dell'attaccante avversario. I nostri figli lo farebbero? Lascerebbero l'ultima fetta di dolce alla madre? E di cosa sa il dolce, se te lo mangi tutto tu, e alla tua famiglia non lasci nulla?». 

 I politici che lei invita da anni al suo talk non hanno sempre avuto come bussola la propria convenienza personale? 

«Certo; ma in un quadro generale. Ora si sta proprio perdendo il quadro».  

Lei però ha i suoi ospiti preferiti. Ad esempio Bersani. 

«Bersani possiede la chiave di Calvino: ti spiega con leggerezza le cose difficili».  

Lei ha pure una passione per la Fornero.

 «Una donna che si è messa in gioco, e a differenza di altri ministri di Monti non è sparita». 

E poi Ilaria Capua. 

«Lei, come Barbara Gallavotti, ha saputo spiegare la scienza con umanità».  

Ma non trova che nei talk funzionino soprattutto le maschere, meglio se introdotte da una musica circense? Il garantista, il giustizialista, e domani perché no il domatore o la donna barbuta?

 «È vero il contrario. Una puntata fatta di sole maschere andrà di sicuro male: come quei film dove capisci subito chi è l'assassino. L'ospite ideale è quello di cui non sai mai cosa potrà dire; e magari alla fine scopri che l'assassino è il detective. Non mi interessa la maschera; mi interessa il sincero. Puoi essere goffo, imbranato; ma se sei sincero il pubblico ti ascolterà». 

Il suo pubblico è di sinistra? 

«Fin dai tempi di Ballarò , ci hanno sempre seguito di qua e di là. Ora è meglio, perché non c'è più la divisione in due campi; lo studio è diventato ovale o poligonale, e possiamo leggere la realtà nelle sue varie sfaccettature. Perché i talk, al di là delle malevolenze, sono un luogo di approfondimento culturale». 

La destra guarda Mediaset? 

«Non solo la destra. Nicola Porro credo abbia un pubblico di moderati, di liberali. Ma sia Mario Giordano sia Paolo Del Debbio hanno molti spettatori di sinistra, o che una volta votavano a sinistra. Classi popolari. Tenga a mente che alcuni sondaggisti danno la Lega come il primo partito operaio d'Italia, molto sostenuto anche da chi fa volontariato».  

La destra vincerà le prossime elezioni? 

«È probabile; ma non so se riuscirà a governare. Dipenderà da Berlusconi. E tutte le volte che Berlusconi ha dovuto scegliere - da Monti a Draghi, dai vaccini alla guerra - ha scelto di stare con il sistema, contro i populisti». 

 Come va il suo duello personale con Bianca Berlinguer?

«I sardi non duellano. Ricorda il grido di guerra della brigata Sassari? Forza paris!». E cosa vuol dire? «Forza insieme». 

·        Giovanni Minoli.

Giovanni Minoli e Matilde Bernabei, sposati dal ’74: «Dopo le nozze lei tornò a casa con un francese».  Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 27 luglio 2022.

Il creatore di Mixer e la presidente di Lux Vide: «Abbiamo avuto altre storie e sofferto di gelosia. Ma il nostro amore è più forte»

I campanelli sono due. Uno per Giovanni Minoli. Uno per Matilde Bernabei. Sarei in questa piazza di Roma da Grande Bellezza per una delle interviste della serie sui grandi amori e non so a chi citofonare. Scoprirò che anche gli appartamenti sono due. «C’è una porta comunicante», m’informa lei. «Non c’è: è chiusa, sbarrata», protesta lui. Lei: «Venga che gliela faccio vedere». Lui: «Eh no! È importante che la veda anche dal mio lato». Se la porta c’è o non c’è, lo saprò solo alla fine. I Minoli sono sposati da 48 anni, hanno una figlia, tre nipoti. Lui è l’uomo che ha inventato molto della nostra tv, Mixer, La Storia siamo noi, Quelli della notte di Renzo Arbore, Soldi, soldi di Arrigo Levi, Un Posto al sole, Rai Storia, Rai Educational… Lei, cavaliere del Lavoro, è la donna che, con suo padre Ettore, ha fondato la Lux Vide e ha portato le serie italiane nel mondo producendo il Progetto Bibbia, I Medici, Don Matteo, Doc, Diavoli...

Le case sono sempre state due o lo diventano a un certo punto?

Giovanni: «Prima, era una. Quando nostra figlia Giulia si è sposata, io sono andato a vivere per un po’ da solo in via di Monserrato, poi, abbiamo diviso quest’appartamento e sono tornato. Abbiamo scoperto che stare in due case vicine è il modo sicuro per mantenere un rapporto».

Perché se n’era andato?

«Avevo bisogno di vivere senza dire alcuna bugia. Mi è capitato di dirne e, dentro di me, mi sono costate carissime. Dopo, quando ho conosciuto la libertà della verità, non l’ho più lasciata. Io amo Matilde, ma tutti gli altri ammennicoli sulla coppia non so cosa sono».

Matilde: «Domenica scorsa, eravamo a un matrimonio: io mi commuovo ancora quando vedo sposarsi due che si amano. Perché quando dici “ti amerò nella buona e nella cattiva sorte, nella gioia e nel dolore”, è fortissimo, ma sei giovane e non ti rendi conto di cosa significherà».

Giovanni: «Ma dici anche “per sempre”: è quello che cambia i connotati a tutto. Io non so dare il “per sempre” per scontato. Penso che devi risceglierlo giorno per giorno. La vita offre esperienze nuove, ma soprattutto, noi cambiamo e io ho orrore dell’ipocrisia: voglio essere sincero e assumermene le conseguenze».

E ora il vostro è un matrimonio senza ipocrisia, senza bugie?

«Io so che mi sono messo con Matilde perché sono stato rapito dalla sua anima e avevo bisogno della sua anima per vivere. Non sono mai riuscito a togliermela di dosso neanche quando ci ho provato. Era il senso e la linfa della mia vita. Non mi sembra pochissimo. Poi, che cosa c’è in mezzo lo sa Dio. Io sono passionale, tutto quello che ho inventato l’ho fatto sotto emozione, lavorando con persone con cui c’erano stima e amicizia ma, piano piano, amicizia e amore possono diventare una cosa sola, un motore della vita con tutte le sue varianti, casini, complicazioni e, in questa dinamica, mi è capitato di innamorarmi di altre donne».

Anche a lei, Matilde è successo di innamorarsi di qualcun altro?

Giovanni: «Ti ha chiesto se ti è capitato non solo di essere amata, ma d’innamorarti. Rispondi, perché la giri sempre che sei stata tanto corteggiata».

Matilde: «Io partirei dagli inizi».

Giovanni: «Ottimo: eravamo sposati da quattro giorni, sei andata a un convegno, sei tornata a casa con un francese. Ma dico! Mi fa: ti dispiace? E io: ma no».

Matilde: «Ma io col francese non ho fatto niente»

Giovanni: «Che c’entra?».

Scusate, chi è il francese?

Matilde: «Ma nessuno. Le spiego dall’inizio: incontro Giovanni sapendo già da suo fratello che, della loro grande famiglia, lui era il più intelligente, creativo e straordinario e che non si sarebbe mai sposato e non avrebbe mai avuto figli. L’ho visto ed era anche molto figo, speciale — vogliamo usare un’espressione desueta? — ho visto il principe azzurro. Ho pensato: potrà essere solo un’avventura, pazienza. Ho poi verificato la sua intelligenza, Giovanni capisce la realtà e perciò prevede il futuro, non ci stanchiamo mai di parlare».

Giovanni: «Noi non ci siamo mai stufati di parlare anche quando le cose andavano

malissimo».

Matilde: «Comunque, lui aveva 29 anni e io venti, era tanta differenza».

Giovanni: «Ti ha chiesto se sei stata innamorata di altri, non hai risposto».

Vuole partire dall’inizio. Matilde, lei credeva nel matrimonio?

«Io sì. Avevo 14 anni nel 1968 e questo lega noi due nell’essere aspiranti cristiani di sinistra. La nostra prima uscita l’abbiamo fatta a messa da Don Franzoni, in un garage sull’Ostiense, era un abate sospeso a divinis. Avevamo entrambi l’idea che un pizzico volevamo cambiare il mondo. Da sposati, la nostra casa è diventata un centro di pensiero, musica, parole, progettazione del futuro. Io lavoravo con una Ong, facevo l’università e cucinavo per tutti».

Se lui non si voleva sposare, come siete finiti all’altare in pochi mesi?

Matilde: «Mio padre dice: so che vedi Giovanni Minoli, che è molto più grande di te, quindi non starete a parlare di Napoleone; o lo sposi o non lo vedi più. Io pensai: faremo solo finta di non vederci».

Giovanni: «Invece, le ho detto: sposiamoci. Conoscendo suo padre, sapevo che il “vediamoci di nascosto” sarebbe stato impossibile». Guarda la moglie: «Io avevo già sentito l’importanza di te nella mia vita, ma non ti avrei sposato mai. Forse adesso, sì, adesso, ti sposerei. Una dichiarazione così buttala via».

Matilde: «Tu sei quello delle uscite inattese. Quel giorno, fu una gioia immensa».

Giovanni. «Io non ero felice di sposarmi però ero felice che fosse con te».

Matilde: «Proprio in virtù del suo punto di partenza, del suo “non mi sposerò mai”, un giorno, sulla spiaggia di Punta Ala, gli ho detto: tu mi hai amato più di quanto ti ho amato io».

Giovanni: «È una cosa importante perché è la verità. Non ero stato amato da mia madre, che amava il marito, non tanto i figli. Non credevo nella famiglia».

Matilde: «Vivevi l’impossibilità di lasciarti andare all’amore, eppure l’hai fatto. Perciò ti ho detto così, pur amandoti tantissimo. Tuttavia, mi è successo di innamorarmi di altri. Incredibilmente, ho avuto molti corteggiatori».

Giovanni: «“Molti corteggiatori” è vago. Dilla tutta».

Matilde: «Fra questi corteggiatori, qualcuno particolarmente straordinario, ma non ho mai smesso di amare Giovanni e quindi lo ho sempre riscelto».

Giovanni, bofonchia: è geloso?

«Io sono arrivato a difendere Matilde da suo padre, perché era fuggita per una vacanza nei fiordi con un suo fidanzato. L’ho difesa perché l’ho capita. L’ho capita perché volevo essere capito anche io. E non volevo una libertà che lei non poteva avere. Io la libertà gliel’ho sempre riconosciuta, mentre lei a me meno».

Lei ha mai avuto paura che Matilde se ne andasse?

«Sì e soffrivo. Ho avuto anche reazioni forti. Un rivale l’ho affrontato».

E lei Matilde, ha avuto paura?

«Ricordo una sera che non tornava e ho pensato: non tornerà. Ero disperata».

Quando arrivava un altro o un’altra, ve lo raccontavate?

Giovanni: «Mica tanto. Lo intuivamo. Poi, ci riscoprivamo sempre. Nostra figlia Giulia ha avuto un ruolo fondamentale: nei momenti di vera distanza, era una cucitrice di amore spaventosa».

Matilde: «Da quando lui è tornato e abbiamo diviso gli appartamenti, ridiamo moltissimo insieme, più di prima».

Giovanni: «Proprio perché è una scelta quotidiana».

Alla fine, la porta comunicante non si apre. Dal lato di Minoli, finisce in un armadio. Però Matilde ha la chiave di casa di Giovanni: «L’ho usata quando lui ha avuto l’infarto. Per dire la connessione che c’è: da un grammo della voce che aveva la sera, ho capito che qualcosa non andava. Sa? Noi la sera ceniamo quasi sempre insieme». Giovanni: «Ma se tu esci sempre e io mai». Matilde protesta, lui insiste. Io vado e loro ancora discutono. Sento lui dire: «Ma hai sentito che ho detto che, adesso, ti risposerei?».

·        Giovanni Tizian.

Tizian, il giornalista sotto scorta e le stragi del 1992. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 26 maggio 2022.

«Agli anniversari ci sarebbero stati tutti, in posa e col sorriso smagliante di chi non ha preoccupazioni che l’assillano. Il Paese delle parate in cui la commemorazione è il momento della concordia nazionale. Amici e nemici si stringono le mani, fanno il loro discorsetto e poi tornano nelle loro case avvolti con il mantello delle ipocrisie».

Giovanni Tizian “Il silenzio. Italia. 1992-2022″. (Laterza)

Nel profluvio di pubblicazioni dedicato alle stragi del 1992 si fa notare per incisività di tesi e buona scrittura il pamphlet di Giovanni Tizian giornalista affermato per inchieste sul campo e libri che gli sono valsi autorevoli premi nazionali.

Aveva 10 anni al tempo del botto di Capaci. Quelle immagini televisive gli riportano alla memoria il tempo in cui la nonna lo aveva portato sul luogo in cui avevano ucciso il papà Peppe nella piazza di Locri, Calabria, terra di ‘ndrangheta. Nella memoria c’era anche incasellata l’incendio del mobilificio di famiglia. Il personale che si lega al collettivo. Una perdita di innocenza la morte di Falcone e Borsellino che induce al trasferimento a Modena in Emilia. In un luogo ben diverso Giovanni trova il suo romanzo di formazione.

Si laurea e diventa giornalista. Giornalista-giornalista alla Siani. Con conseguenze ben diverse. Il 13 gennaio 2012 la sua foto da cronista campeggia su tutti i giornali d’Italia. Hanno scoperto minacce serie della ‘ndrangheta del Nord. Tizian inizia la sua vita sotto scorta. Il Corriere della Sera aggiunge un dettaglio di non poco conto nel suo titolo: “Pagato 4 euro ad articolo”.

Altro dettaglio alla Siani che muore ucciso dalla camorra con il ruolo di abusivo. Il giornalista resta interdetto dalla notorietà. Lo intervistano colleghi internazionali, tutti i politici si mostrano solidali. La sua carriera cambia. Diventerà inviato dell’Espresso, realizza lo scoop sulla Lega noto come “Russiagate”, oggi è vicedirettore del quotidiano “Il Domani”.

A 40 anni offre un bilancio di vita associandolo alla morte di Giovanni Falcone. Con quattro stagioni segnate dai suoi sentimenti per decenni: la paura, la rimozione, la resistenza. Quella che continua oggi con un’informazione fuori dagli schemi. Infatti l’autore ricorda con orgoglio il titolo del suo giornale per il recente trentennale di Mani Pulite: “1992, l’anno che non ha cambiato l’Italia”.

Esponente dell’Italia pulita che combatte la vecchia sporca nazione denunciata da Pasolini, Tizian spiazza col suo prendere posizione. Contro la mafia, ma attento a non sponsorizzare l’antimafia autoritaria a prescindere. Scrivendo a chiare lettere di essere contrario al regime del 41 bis: “l’accanimento sui diritti umani è indegno sempre”. Strumento inutile che impedisce ai bambini figli dell’ala militare, l’unica che arrestano, di abbracciare i loro padri trasformando il Diritto in vendetta”. Il libro di Tizian con lettura piana e agevole intreccia la sua storia personale con quella del Paese in cui la corruzione è diventata “un fatto normale”.

C’è molta Calabria nella sua storia grazie alla sua tragedia contestuale. Da Andreotti che prende il caffè con il capomafia di Gioia Tauro alla grande bolla della stagione dei sequestri con i servizi che trattano i clan spacciando tutto come brillante operazione. E i poveri cristi, come quelli della sua famiglia, che non avranno mai giustizia nella Calabria strabica con le priorità giudiziarie.

E’ la storia di un giovane che si forma guardando “Samarcanda” di Michele Santoro, quella piazza televisiva sdegnata dalle stragi e che ricorda il tragico sequestro in Calabria di Lollò Cartisano, fotografo e amico del padre. Un ragazzo che ha coltivato la solitudine spezzata dal progressismo di una nonna impegnata e attenta al nipote. Giovanni troverà le lacrime a 20 anni in una notte di Natale trovandosi a singhiozzare tra le braccia della mamma ed evocando il nome del papà ucciso. Dalla rimozione alla resistenza. Non ci sarà mai giustizia per suo padre Peppe, bancario, con una storia giudiziaria che s’inceppa su un presunto adulterio che l’autore sviscera con molto onestà. A fronte di Lunardi, Andreotti, Matteo Messina Denaro e la ‘ndrangheta che diventa questione nazionale dopo la strage di Duisburg che sfugge a chi preferiva restare inabissato.

Una fotografia italiana quella di Tizian. Con molti dettagli calabresi. Un selfie editoriale che diventa panoramico. Da leggere per chi è interessato a comprendere un Paese che non riesce ad essere normale.

·        Giuliano Ferrara.

Giuliano Ferrara per ilfoglio.it l'8 gennaio 2022. Oggi ho settant’anni e il privilegio di non ricordare quasi niente. Vivo ascoltando musica su Channel 3 e dalla Digital Concert Hall dei Berliner, leggo buoni libri, scrivo per il giornale quasi tutti i giorni, parlo al telefono con il direttore più bravo e più allegro del mondo, Mariarosa Mancuso mi ha introdotto al vecchio circuito di piccola mafia dei “Sopranos”, e li ho aggiunti a film e serie di varia natura, seguo incantato lo sport, calcio e tennis, passeggio con i cani e s’accoppia la mia cucciola nei giochi a un clamoroso fidanzato residente dai miei vicini Marcenaro, passo l’aspirapolvere e lo straccio, solo perché al momento la servitù mi ha mollato per ferie, molto isolamento né penoso né splendido, poca mascherina, niente tamponi, paesaggi che mi sono congeniali, com’era per Dorothea Brooke dei dintorni di Middlemarch; un matrimonio di trentaquattro anni e l’amore, che è il suo bel complemento, qualche amico, messaggini e la consolazione delle giornate corte, con il buio che raccoglie come un fumo purgatoriale e aiuta nella campagna a distinguere le luci dei paesi collinari, e naturalmente obbliga a trattare le nuvole annottate come cose salde, sicché si danteggia scherzosi e ispirati, e considero le aurore quando mi sveglio presto, quasi sempre, e sì, bisogna confessarlo, anche le stelle. Non pensavo di finire nella normalità, nel gusto del dettaglio, nella natura di stagione con rapide incursioni nella mia città di lunga durata, percorrendo ogni giorno la strada di ieri come un elegiaco in ritardo sugli appuntamenti, pieno di tempo da dissipare. Non pensavo che l’evaporazione delle passioni e della bella energia, dell’ala della tristezza giovanile, non pensavo potessero approdare alla tranquillità dell’animo, a una moralità di gregge che nelle polemiche del giorno consiglio agli interpreti titanici del mondo, gli emmerdeur. Al Partito comunista avevo strappato, in osservanza a una buona e cara educazione famigliare, la sua carica di errore, di violenza, di trascinamento e onore, “difendere il partito da ogni attacco” era l’articolo dello statuto stampato sul retro della tessera che più mi inquietava e piaceva, breve, definitivo, ardente e chiaro come la luce del sole. Poi venne l’impudenza di tramare contro la mia gioventù, perfino di disprezzarla un poco e dimenticarla, e sono cose assurde ma appartengono al possibile e le consiglio con calore a tutti. Certi complotti riescono al fine che si danno, e il congiurato ne esce perfino vivo. Ovviamente sono circondato dai morti. Me ne curo e dolgo, spesso ne scrivo per onorarli, amarli, ma non era in preventivo l’alluvione delle eulogie, quando fondammo un giornalino vitale che invecchia bene. Però vivo in compagnia di Orazio, quel vile fuggitivo di Filippi, nel mio cenotafio di provincia, monumento picciolo ma sepoltura ancora vuota, e ne sono stolidamente e insensibilmente contento. Quando Röselein abbaia con il suo vocione di baritono basso so che il suo Lied è per ricordarmi che ho una specie di vitalità ancora da spendere, e la vecchietta Monkey, rauca, di rincalzo. Un paio di volte a settimana gioco a scopa via computer con i compagni d’avventura di ieri, loro nello schermo vedono le francesi, io prediligo le napoletane, ciò che è tecnicamente possibile perché ciascuno adopera l’illusione che si è scelto.

Da unionesarda.it il 29 gennaio 2022.

E’ ancora in prognosi riservata ma fortunatamente fuori pericolo Giuliano Ferrara, il fondatore del Foglio ricoverato all'ospedale di Grosseto dopo un infarto avuto giovedì sera, nella sua proprietà in Maremma, a Scansano. 

A quanto si apprende il giornalista è arrivato in ospedale in ambulanza: qui è stato sottoposto a un intervento di angioplastica. Ora è ricoverato sotto sedazione nella terapia intensiva cardiologica. Le sue condizioni sono stabili.

"Giuliano Ferrara è ricoverato ma non è grave", ha rassicurato anche il direttore del Foglio Claudio Cerasa, durante la “Maratona Mentana” su La7. 

Sono state decine e bipartisan gli auguri di pronta guarigione dei politici impegnati in queste ore per l’elezione del presidente della Repubblica. "Forza Giuliano, grande amico mio!", l'augurio del presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 29 gennaio 2022.  

Giuliano Ferrara, che ha settant' anni da due settimane, è stato male: giovedì sera ha avuto un infarto e se l'è vista brutta, ma ora la sua situazione è stabilizzata e non c'è motivo di temere che peggiori.

Era nel suo casolare nelle campagne di Scansano- in Maremma, provincia di Grosseto, dove lui vive con la moglie Selma e hanno un'azienda agricola- e verso le 23 ha cominciato ad accusare il malore senza un motivo apparente, senza quell'intensa emozione che il luogo comune porta spesso ad associare all'infarto del miocardio: in ogni caso è riuscito ad allertare l'amico di una vita, Andrea Marcenaro, che vive lì vicino, il quale ha chiamato un'ambulanza - ce n'era una zona, per fortuna - e insieme ci sono saliti sino a giungere all'ospedale Misericordia di Grosseto in circa mezz' ora. 

Ferrara è stato messo immediatamente in terapia intensiva - o rianimazione cardiologica, per dirla alla vecchia maniera- senza mai levargli il respiratore: aveva il respiro corto e questo autorizzava a pensare che un edema polmonare - tipica conseguenza dell'infarto - stesse complicando le cose.

Nella notte gli hanno praticato un'angioplastica (sorta di palloncino che viene iniettato e poi gonfiato per ripristinare il diametro di un vaso sanguigno ostruito) e sino a ieri pomeriggio il quadro generale, e la scarsità di informazioni, hanno autorizzato qualche testata online a scrivere che il caso fosse «gravissimo», mentre invece sta migliorando progressivamente sino a stabilizzarsi: già dopopranzo gli avevano tolto il respiratore e lui faceva tranquillamente da solo, insomma era tra noi, cosciente.

A cercare le cause di un infarto si rischia di avvitarsi in girandole senza fine: si sa che Giuliano Ferrara di recente era stato dal dentista, e che in previsione di questo aveva smesso di assumere un classico anticoagulante che serve a fluidificare il sangue per esempio negli ipertesi (il più noto è la cardioaspirina) ma questo, nel caso, non significa niente: a sentire i cardiologi in generale, essere vivi è già un buon motivo di predisposizione all'infarto, che talvolta colpisce senza preavviso anche chi pratichi il più salubre degli stili di vita.

Poi è noto che, dotazioni genetiche parte, ci sono delle predisposizioni che pare non aiutino: tra questi il solito fumare (la nicotina è un vasocostrittore), l'avere il diabete, la pressione alta, un eccesso di lipidi (colesterolo, trigliceridi) e infine una condizione di sovrappeso. 

Il rispetto della privacy impedisce di valutare se Giuliano Ferrara abbia qualche predisposizione in tal senso. 

Lo spazio residuo dell'articolo, detto questo, pone lo scrivente di fronte a un bivio: da una parte metterla su un piano personale, essendo lo scrivente molto affettivamente legato a Giuliano Ferrara; 

dall'altra, prodigarsi più professionalmente nel cercar di spiegare chi sia Giuliano Ferrara anche a chi ieri su internet - lo si rilevava, ieri, nel cercare aggiornamenti sulla sua condizione - si chiedeva per esempio «chi è Giuliano Ferrara?», «che mestiere fa Giuliano Ferrara?», «perché è sparito Giuliano Ferrara?» e altri quesiti da tredicenni o analfabeti non solo funzionali.

Qui si sceglie, ovviamente, la seconda strada, perché per quella personale c'è tutto il tempo del mondo. 

Pronti via: Giuliano Ferrara è una vera e propria istituzione nel campo del giornalismo, tipicamente amato oppure odiato, sempre rispettato da tutti per l'eloquio impeccabile, la capacità di sintesi, la veemenza passionale e l'assenza di ipocrisia delle sue posizioni, che ovviamente possono piacere oppure no.

È stato un politico comunista che aderì al movimento studentesco e fece attività politica nel Pci sinché mollò tutto per studiare per due o tre anni, e, pur necessitando di un lavoro, si dedicò invece al giornalismo collaborando anche al Corriere della sera con la rubrica «Bretelle rosse» e simpatizzando in seguito per Bettino Craxi (ricambiato) che gli diede una spintarella televisiva di cui poi non ebbe più bisogno e inventandosi talkshow spettacolari e provocatori (Linea rovente nel 1987;

Il testimone nel 1988) prima di anticipare i concetti di tv spazzatura (Il gatto, 1989) e di processi televisivi (L'istruttoria, 1991) passando infine alle tv di Berlusconi per un pacco di soldi e poi (abbiamo dimenticato la parentesi in Europarlamento per il Psi) smettendo per un po' con la tv per aderire a Forza Italia e fare il ministro per i rapporti col Parlamento nel governo Berlusconi, mischiando l'aplomb del diplomatico a vaghe posture da rottweiler (anche se il molossoide non è il suo genere di cane). 

Nel 1996 fondò l'amatissimo quotidiano Il Foglio, apprezzato un po' da tutti per la formula innovativa (sprezzante dei lettori in termini quantitativi) che vendette poche copie ma per un certo periodo ebbe uno status elevato soprattutto in certi ambienti politici e intellettuali e giornalistici: indipendente come nessuno, guascone ma serio, un po' rive gauche con venature di destra, comunque arciconvinto della superiorità collettiva dei suoi elzeviristi vecchi e nuovi (soprattutto ex eretici di sinistra) che brillavano alla corte del Re Sole, cioè lui. 

Partecipò con passione al dibattito sullo scontro di civiltà seguito all'11 settembre 2001, si inventò la trasmissione «8 e mezzo» su La7 prima di lasciarla degradare (stiamo volutamente omettendo la sua sbandata da «ateo devoto» che lo portò a fondare la lista «Aborto? No grazie», che non superò la soglia di sbarramento alle elezioni) dopodiché si allontanò da ogni visibilità mediatica con diretta proporzionalità con quanto l'ormai antiquato concetto di «politica» intesa come legibus soluta fosse ormai stata sostituita dalle macerie, dai tecnocrati e dai personaggetti che sono sotto gli occhi di tutti. 

Ha ancora un sacco di cose da dire, e talvolta le dice e le scrive, basterebbe leggerle: ma sovente sono più lunghe di cinque righe e sul web magari non si trovano, allora il neo-demente figlio dell'antipolitica ecco che pone la domanda: «Chi è Giuliano Ferrara?». 

·        Giuseppe Cruciani.

"Ecco perché le donne di sinistra impazziscono". Annarita Digiorgio il 17 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Le elezioni politiche italiane viste da Giuseppe Cruciani, il conduttore del programma cult di Radio24 che dà spazio ai personaggi del Paese reale contro il politically correct

La Zanzara punge tutti: le donne di sinistra, gli artisti, Calenda, Salvini, Pasquale Lino Romano, Meloni e Speranza. E di puntura in puntura assaggia il paese reale, che è un po' il segreto del suo successo. Trasmissione radio fastidiosa e vera, abbiamo intervistato il suo protagonista, Giuseppe Cruciani.

Ministro della Cultura tu o Sgarbi?

"Sgarbi tutta la vita. È difficile ma sarebbe il profilo migliore. Se qualcuno pensa che Sgarbi si farebbe trascinare via dai commessi della Camera come l’altra volta sbaglia, perché Sgarbi è più che bifronte. Lui è uno e centomila, senza nessuno. Io non saprei nemmeno aprire un fascicolo del Ministero e mettere la firma sui documenti, Sgarbi sarebbe il Ministro della Cultura migliore di tutti".

Con la Zanzara secondo alcuni hai preparato la base culturale per la vittoria di Giorgia Meloni...

"Chiunque avesse ascoltato La Zanzara negli ultimi mesi si sarebbe accorto che i voti di Salvini erano passati alla Meloni. Io ho fotografato la situazione. Come alla Zanzara ho registrato che i 5 stelle avrebbero tenuto e Conte stava facendo una campagna elettorale buona, ovviamente per quello che pensa lui".

Ti riferisci a Pasquale Lino Romano, l’ascoltatore che prende il reddito di cittadinanza?

"Anche. I pentastellati sono stati bravi a far passare Conte come un descamisado dalla parte dei poveri mentre ha firmato tutti i provvedimenti del governo Draghi".

La vittoria della Meloni è stata un giorno triste per l’Italia, come dice Damiano dei Maneskin?

"È un giorno triste per Damiano dei Maneskin, ma è un giorno felice per la democrazia. Per la prima volta una che ha vinto le elezioni avrà l’incarico di formare il governo. Non era successo nemmeno con Conte, perché le elezioni le avevano vinte Grillo e Di Maio e poi hanno scelto uno che la campagna elettorale manco l’aveva fatta. Per la prima volta abbiamo una che ha vinto e governa: è il trionfo della democrazia!".

Quindi era giusto andare a votare?

"Una volta che un governo perde la sua base elettorale è giusto andare a votare. Non capisco questa cosa di accusare chi ha fatto cadere Draghi. Il Parlamento è fatto perché le forze politiche danno un mandato e a un certo punto lo possono ritirare. Hanno parlato di “attacco all’Italia” tutte cose senza senso. Ed è uno dei motivi per cui secondo me Calenda non ha fatto il 10%".

Perché non si erano accorti che Draghi non sfondava nell’elettorato?

"Perché la politica è sangue e merda. Non puoi fare finta che non esistano gli slogan, le promesse, le cazzate. Quando fai la campagna elettorale devi far sognare. Questi hanno usato due slogan: la serietà e Draghi. Capisci che la campagna elettorale non è che si fa sulla serietà. Da che mondo è mondo la campagna elettorale è fatta anche di cazzate, promesse e semplificazioni. Questi hanno proposto la serietà e Draghi che a un certo punto ha detto che non sarebbe stato più Presidente del Consiglio e poi, l’altra cosa assurda, è che due leder importanti, che io stimo, come Calenda e Renzi, non si propongono loro propongono un terzo. Ma perché non ti proponi tu, perché pensi di non essere in grado? Cioè tu fai una forza politica che si chiama Azione e poi proponi un altro come Presidente del Consiglio? Per me Calenda politicamente è molto più bravo di Draghi".

E poi Calenda è l’unico che ha detto che si faceva le canne?

"Mentre tutti dicono 'io sono a favore della legalizzazione ma non me le faccio', lui ha detto il contrario. Ma questo purtroppo non è un tema da campagna elettorale e di cui non si occupano i governi italiani".

Se in campagna elettorale contano i sogni perché gli artisti di sinistra non tirano più?

"Perché si pensa che la parola di un’artista o di un influencer possano incidere. Ma un like su Instagram non è un voto. Tipo la Ferragni che dall’alto del suo elicottero ha fatto campagna contro il centrodestra e quello ha vinto lo stesso".

C’è rischio che si torni indietro sui diritti?

"No, anzi, potremo avere sorprese. Cappato ha pubblicato un sondaggio secondo cui l’80% degli elettori del nordest di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia è favorevole all’eutanasia. Non succederà, ma sarebbe straordinario se un governo di centrodestra facesse ciò che quelli di centrosinistra non hanno mai fatto: la legalizzazione della prostituzione, della droga leggera, eutanasia".

Sono troppo bigotti?

"Gli elettori no, i leader sbagliando pensano che i loro elettori non siano aperti su questi temi. Anche Salvini prima di andare ai comizi con il rosario era un libertario, e veniva da un mondo lontano da quello che ha abbracciato dopo in modo anche controproducente dal punto di vista elettorale. Io ho firmato il suo referendum per la legalizzazione della prostituzione, poi lui ha preso in mano le madonne"

Tu sei uno dei pochi che in questi anno ha dato spazio al paese reale. Possiamo dire che la sinistra perde perché non ascolta la Zanzara?

"Non esageriamo, però bastava ascoltare la Zanzara per capire la discesa della Lega, la salita della Meloni e la tenuta dei 5 stelle. Che poi non è che bisogna per forza rispondere al paese reale, però la sinistra pur governando, e potendo fare le cose, ha perso il contatto con i bisogni delle persone. Ma non è detto che la Meloni sia capace di dare risposte da questo punto di vista".

Sul green pass e politiche covid Meloni è stata molto più vicina all’ascoltatore medio della Zanzara?

Sì, infatti oggi quel mondo teme un ministro della salute che non abbia quell’approccio lì, e che invece abbracci la politica vaccinale dei due governi. Non vogliono un simil Speranza. E sicuramente per questo da una parte del suo elettorato verrà giudicata".

E le donne di sinistra quanto rosicano che la prima presidente del Consiglio donna è di destra?

"Impazziscono perché per la prima volta una donna che non è cooptata da nessuno, perché è capace di prendere voti sia con le preferenze che con le liste bloccate, che non parla ogni giorno di diritti, gay, schwa, quote rose, ce l’abbia fatta. Non una di loro, ma una che ha delle idee diverse dalle loro, che si possono anche combattere. Io alcune le combattono. Mi accusano di essere uno che ha tirato la volata alla Meloni ma io sono a favore del matrimonio gay, dell’adozione da parte dei gay, della legalizzazione delle droghe leggere e in parte pure di quelle pesanti, sono a favore delle stanze del buco ma sono allo stesso tempo a favore del blocco navale e della legittima difesa il più ampia possibile. Ma ho visto sfilare le facce sinistre che gridano al fascismo e ho goduto perché invece questo è il trionfo della democrazia".

Che dici dei presidenti di Camera e Senato?

"Per far impazzire definitivamente i sinistri la cosa più forte sarebbe stata Berlusconi Presidente del Senato. Anche solo per uno due mesi".

Grazia Sambruna per mowmag.com il 5 maggio 2022.

Giuseppe Cruciani ha avuto un ruolo nello svolgersi della telerissa dell'anno: ha fatto da paciere tra un Gampiero Mughini "come Will Smith agli Oscar" e il sempre pacioso Vittorio Sgarbi. Anzi, di più: il conduttore della Zanzara rivela a MOW che sarebbe stato proprio lui a impedire che il pestaggio continuasse. 

"Non è vero che non ho fatto un cazzo, mi sono goduto quella scena straordinaria, certo. Ma poi gli ho detto 'Giampero, basta: stai facendo una cazzata' e così Mughini ha desistito, rinunciando a un secondo attacco che stava per sferrare ai danni di Sgarbi".

Da qui, impossibile non allargare il discorso alla "mafia gay" citata da un contestatissimo Barbareschi (che Cruciani, invece, difende), al Ddl Zan proprio in queste ore riproposto in Senato e che per il pungente conduttore "non passerà. Perché Zan rappresenta solo se stesso". 

Cruciani paciere di bieche botte da orbi geriatriche e mediatiche, Cruciani "superabortista", "ma l'America, come anche l'Italia può e deve contestare il diritto all'aborto quando vuole". Tanto a Cruciani, storicamente, "non frega un cazzo". La versione della Zanzara, senza censure, è su MOW. 

Allora, Marco Salvati ci ha detto che lei durante la telerissa tra Sgarbi e Mughini al Maurizio Costanzo Show "non ha fatto un cazzo" per sedare la lite. È vero?

Ma no! Certo, sono stato preso alla sprovvista dalla situazione che è esplosa all'improvviso perché Mughini al primo attacco verbale, al primo "Imbecille" di Sgarbi non ha risposto: è scattato come un serpente, passando subito alle mani. Siamo rimasti tutti stupiti. 

E insomma, stupefatto, si è goduto la scena...

Certo! Come non goderne? È stata una scena reale, vera, fantastica. 

Però a La Zanzara ha detto di aver fatto da paciere. In che senso?

Io sono uno che appartiene alla scuola "sgarbiana" della massima violenza verbale senza alcuna violenza fisica. Perché agli insulti si risponde con gli insulti, non con le mani. Di conseguenza, quando ho visto che Mughini stava per tornare all'attacco fisico una seconda volta, l'ho fermato. 

Una seconda volta? Come l'ha fermato?

Durante la pubblicità - che, lo preciso, non è stata un'interruzione forzata, semplicemente si era arrivati alla fine del minutaggio di quel blocco di registrazione -  gli ho detto: "Giampiero, basta. Stai facendo una cazzata".

Così, lui ha desistito. Il mio intervento non si è sentito in puntata perché, appunto, in quel momento le telecamere non stavano riprendendo. Quindi che non ho fatto un cazzo non proprio vero. Comunque, in questa vicenda c'è chiaramente un aggressore e un aggredito, se la vogliamo mettere su questo piano. 

E per lei chi dei due sarebbe l'aggressore?

Mughini, non c'è dubbio. 

Come si spiega una reazione così violenta?

Nulla giustifica la violenza fisica. La reazione di Mughini non viene certo da un singolo insulto, ma è figlia di quanto già successo in passato tra i due: si erano scontrati più volte e forse mai chiariti fino in fondo. Infatti, ancora prima della registrazione, avevo chiesto a Mughini se si fossero riappacificati. 

E cosa le ha risposto?

Che si erano incontrati una sola volta, senza aggiungere altro. 

Dopo la trasmissione ha parlato con Mughini?

No. Perché è scappato via subito. Credo che si sia reso conto fin dal primo momento di aver sbagliato. 

Si è reso conto della figura di merda, insomma...

Ma che figura di merda? È stata una cosa televisivamente straordinaria. E la telerissa è straordinaria solo quando è vera perché nasce da pure animosità e disistima reciproche, senza niente di costruito ad arte. Come in questo caso. Solo che la situazione è andata troppo in là: Mughini voleva veramente fargli male, era evidente.

Quindi Mughini è il nostro Will Smith?

Sì. Sicuramente si è comportato allo stesso modo. E pensa il paradosso: poco dopo essersi reso protagonista di questa scena violenta, quando Costanzo ha mandato in onda delle clip di diversi storici "Uno contro tutti" con Umberto Bossi, lo stesso Sgarbi e Carmelo Bene, Mughini si è messo a criticare definendo quegli altissimi momenti di televisione come "roba beduina" perché a lui le telerisse non piacciono. Ma se cinque minuti prima era appena saltato addosso a Sgarbi perché gli aveva dato dell'imbecille, ma dai!

Beh, sempre cinque minuti prima, Sgarbi gli aveva dato più volte anche del "coglione" e del "fascista"...

Sì, ma quello dopo. E tutto si può dire. Però il punto è che all'aggressione verbale si risponde sempre e comunque con l'aggressione verbale. Non esiste che vai là e lo prendi a calci in culo. 

Chiaro. Più avanti nella trasmissione, lei ha difeso Luca Barbareschi di recente ha parlato di una certa "mafia dei froci". E durante la trasmissione l'ha inserito tra i "Buoni" della settimana...

Allora, la lavagnetta su cui faccio la suddivisione dei buoni e dei cattivi della settimana è un momento televisivo che nasce per creare dibattito in studio. Non devo essere necessariamente d'accordo, a livello personale, con chi metto nell'una o nell'altra categoria. 

Quindi non è d'accordo con Barbareschi sull'esistenza di questa "mafia dei froci"?

Barbareschi è stato molto criticato dalle associazioni gay per l'utilizzo della parola "froci" e perfino da Sgarbi per quello di "mafia". Per me se avesse detto "lobby" al posto di "mafia", non avrei avuto nulla da eccepire. Sono totalmente a favore del termine "froci" quando non è offensivo. E in questo caso non lo era.

Perché non le era?

Perché Barbareschi l'ha usato per riferirsi a una lobby che nella sua opinione fa preferire, sul lavoro e in particolare nel campo dello spettacolo e delle arti, una persona omosessuale a una competente. Sono perfettamente d'accordo: le conoscenze e i legami sono anche di questo tipo, può succedere. Ed è normale che capiti. Esattamente come può accadere che uno piazzi l'amante (donna) in un ruolo lavorativo a discapito di sconosciuti magari più competenti. Negare che esista questa cosa è assurdo. Barbareschi non ha detto nulla di "omofobo": la lobby gay è realmente molto forte.

Intanto il Ddl Zan è stato ripresentato giusto ieri in Senato...

Era inevitabile. Continuo e continuerò a batteremici contro come ho sempre fatto perché penso che, così come è stato scritto, sia un disegno di legge illiberale, limitante della libertà d'espressione. Se il Ddl Zan fosse stato già approvato, Barbareschi in questo momento sarebbe in galera solo per aver detto "froci". 

E sarebbe in galera insieme a lei e Donatella Rettore che tenete tanto alla parola "froci"...

Esatto. Capisci l'assurdità? 

Una previsione: secondo lei questa volta il Ddl Zan passerà?

No. Il Ddl Zan è solo un'operazione di bandiera che torna a esistere solo perché si avvicinano le elezioni. È pura campagna elettorale, oramai mancano circa 10 mesi e si scaldano i motori. È evidente: se con questa legislatura il disegno di legge non è andato a buon fine la prima volta, risulta impossbile che sotto la medesima legislatura, verrà approvato. 

Mentre da noi si riaccende il dibattito su queste tematiche, in America si sta mettendo in discussione il diritto all'aborto...

La corrente antiabortista negli Stati Uniti è molto forte e legittimimamente sta scendendo in piazza per manifestare il proprio pensiero. Poi io sono un superabortista. Anzi, la legge italiana sull'aborto secondo me presenta fin troppi limiti. 

Sarei per allargare ulterioramente le maglie anche qui da noi. Però mi sta bene che chi ritiene, pure gli antiabortisti, manifesti contro eventuali decisioni della Corte Suprema che, in ogni caso, ancora non sono state prese. Non è la prima volta che succede, le proteste contro l'aborto sono qualcosa di ciclico in America... 

Quindi, sì, fanno casino ma poi alla fine nella realtà dei fatti non cambierà niente?

Ma sì, secondo me non cambierà un cazzo. Anche se ho un'opinione diametralmente opposta sul tema, quella contro l'aborto la considero comunque una battaglia legittima, tanto quanto tutte quelle che non arrivano alla violenza fisica per manifestare le proprie opinioni. 

Da noi c'è stato un referendum, quindi il popolo ha già deciso ma se se ne volesse fare un altro, non ci sarebbe problema per me: gli antiabortisti non sono mica dei criminali di guerra, hanno semplicemente un pensiero diverso dal mio. Certo, mi dovrebbero spiegare quale sarebbe l'alternativa all'aborto. 

Perché una volta che dovesse essere vietato, poi cosa accadrebbe? Una donna dovrà tenersi un figlio contro la sua volontà? Si ritorna all'aborto clandestino? Non è che basti dare "scopate col preservativo" per evitare gravidanze indesiderate. Senza contare che gli antiabortisti spesso sono pure contro i contraccettivi quando non direttamente contro al sesso che non sia a scopo procreativo. Cose fuori dalla realtà.

Diceva che per lei ogni battaglia, se civile e non violenta, è legittima. Quindi lo sarebbe anche una battaglia contro questa "lobby gay"?

No. Ma che c'entra? 

Beh, io la provoco. Poi faccia lei...

Non avrebbe senso una "battaglia" contro la "lobby gay" prima di tutto perché, in generale, stiamo parlando di una comunità che non fa alcun tipo di danno. Una cosa è Zan, un'altra sono tutte le variopinte sfaccettature di pensiero e opinione che per fortuna gli omosesssuali hanno come indiviidui.

 C'è come la pretesa che Zan rappresenti il mondo gay, quando invece Zan rappresenta se stesso e forse qualche associazione che a lui fa riferimento. Conosco omosessuali che sono inferociti contro Zan e il suo Ddl.

Con quali motivazioni?

Con le stesse motivazioni che ho sempre supportato anche io: sanno che tu sei Giovanni, non sei Giovanni "Gay". Sei Giovanni e con chi scopi sono cazzi tuoi. Per questo, non vogliono venire considerati una categoria da proteggere, come se essere omosessuali sia in qualche modo una fragilità. Inoltre, sono ben consapevoli che esistano già, per legge, aggravanti per quanto riguarda insulti e pestaggi.

Sanno bene che l'omofobia non si cancella certo con una legge, quella è solo una favoletta nonché un modo per creare qualche conflitto gudiziario in più. Sanno anche che non c'è bisogno del Ddl Zan perché la nostra società tutela già in maniera molto chiara i diritti delle persone che sono colpite da atti di violenza, diffamazione, hater o cose di questo tipo.

Pensi se dovessero essere messi in gattabuia gli hater di Cruciani...

I miei hater possono stare tranquilli: non ho mai querelato nessuno. A me non me ne frega un cazzo.

·        Guido Meda.

Guido Meda: «La morte di Simoncelli durissima da commentare. Il naufragio? Paura, ma ora navigo». La voce del motociclismo si racconta: «Il ritiro di Valentino Rossi ha lasciato un vuoto nel paddock. Bastianini? C’è e di brutto. La telecronaca più bella? Catalogna 2009». Antonino Padovese su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2022.

Guido Meda, 56 anni, è la voce del motociclismo in Italia.

Con i piloti non è amico ma il legame che si crea nel paddock e nelle trasferte è qualcosa di molto simile all’amicizia. Guido Meda, 56 anni di Milano, è la voce e il volto dei motori. Vicedirettore di Sky Sport, è stato ospite dello stand del Prosecco Doc al Vinitaly di Verona.

Com’è la prima MotoGp senza Valentino Rossi in pista?

«Meno traumatica del previsto. Avendolo accompagnato per così tanti anni, compresi gli ultimi due di grandissima difficoltà, vedendo lui molto sereno nel ritiro, ha contagiato anche noi con la serenità. Abbiamo capito che per lui era il momento giusto. Avendo un legame molto bello, nel paddock è una presenza che manca. Ma se guardo il mio lavoro, che è quello di raccontare le corse e quello che ci sta intorno stiamo andando avanti anche senza Valentino. Bisognerebbe essere grati per il passato e quello che la vita ci ha dato ed essere sempre pronti a guardare all’oggi e al domani. E oggi, ci sono un sacco di spunti, dall’Aprilia a Bastianini, dalle vittorie Vietti Migno e Foggia nelle categorie minori. Anche fuori dall’Italia, pensiamo a Marquez, all’impresa che ha fatto domenica scorsa partendo ultimo e rimontando fino a ridosso delle prime posizioni, è stata una cosa bellissima».

Quindi non è d’accordo con chi dice che Valentino avrebbe dovuto ritirarsi diversi anni fa?

«Non ho mai capito che cosa vuol dire questa cosa qui, sembrano cose che passano di bocca in bocca. Il primo magari l’ha detta e motivata, poi dopo s’è persa la motivazione e un buon numero di persone l’ha ripetuta. Io dico questo, se uno si diverte e lui si divertiva, gli danno la moto e gliela davano, ti pagano per farlo, sei realizzato in quel modo lì e accetti il fatto che con l’invecchiamento o il deterioramento tecnico della moto arrivi secondo, terzo o quarto e sei felice così e rendi felice chi ti guarda ma perché dovevi smettere prima. Uno smette quando non ci sono più le condizioni fuori di sé e dentro di sé».

Nell’ultimo mese ha urlato due volte «Bastianini c’è». C’è veramente il nome di Bastianini tra i protagonisti in gara per la vittoria finale?

«Bastianini c’è. E di brutto. Sta dando dimostrazioni di maturità e di completezza. È uno che ha 20 anni e sembra che corra da dieci. Ha velocità e talento naturale e questa è l’unica cosa che sapevo di lui. Ci ha aggiunto la capacità di mettere a punto la moto, che non è una cosa banale. Ma significa assimilare competenze per poterti confrontare con i tuoi ingegneri. Ha l’intelligenza di gestire la gomma e la performance».

Si è mai chiesto come mai la storia della moto abbia avuto e abbia così tanti talenti provenienti dalla Romagna?

«Io credo che qui ci sia semplicemente un numero maggiore di appassionati e praticanti e un numero maggiore di piste, piccole e grandi, così i papà appassionati portano più bambini di quello che succede nelle altre regioni. Poi siccome il motociclismo costa meno è più facile riuscire rispetto all’automobilismo».

La telecronaca più emozionante?

«La follia di Rossi a Catalunya nel 2009, con quel sorpasso all’ultima curva dove non era passato nessuno, Valentino ha reso epica quella corsa. Mi sono divertito molto a Laguna Seca 2008, in una gara fondamentale per Valentino nei rapporti con Stoner, gli ha fatto un terribile sorpasso al Cavatappi. Da lì in poi Stoner non fu più performante e vinse Valentino».

La telecronaca che non avrebbe mai voluto fare?

«Senza dubbio la gara in cui morì Marco Simoncelli. Non la auguro al mio peggior nemico. Abbiamo perso un grandissimo pilota, un ragazzo cui volevamo bene, aveva una empatia e carica umana naturali e irripetibili. Essere in diretta, non poter chiudere quando ti è molto chiaro che Marco è morto …è sicuramente il peggior ricordo della mia carriera in assoluto, non solo della mia carriera di telecronista delle gare di motori».

Ha parlato prima di paddock, lei è amico dei piloti?

«Forse amici non è mai troppo giusto esserlo, devo potermi sentire libero se ti devo criticare perché fai una boiata. E devo dirtelo senza paura di offenderti o di dover fare i conti con la mia amicizia in confronto alla tua. Se di amicizia non è corretto parlare, spesso ci si va molto vicino. Poi io non sono uno distaccato, a volte ci casco, ma non ho rimpianti. Ci sono dei piloti di cui sono o sono stato amico con i quali probabilmente sono stato indulgente, ma va bene così. Non ho fatto male a nessuno. Noi passiamo fra le 100 e le 120 giornate l’anno sugli stessi aerei, nello stesso paddock, parlando dello stesso argomento, che poi è sempre la moto. È anche un po’ inevitabile che i legami si creino».

Siamo al Vinitaly, un calice di Prosecco lo beve prima o dopo la telecronaca?

«Un calice di Prosecco me lo posso anche fare prima della gara. Non sono un grande bevitore, sono un centellinatore e un assaggiatore. So contenermi, non corro il rischio di avvicinare il limite perché mi fermo prima. Dovendo commentare di norma alle due del pomeriggio, a mezzogiorno e mezzo pasteggio leggero con un calice di Prosecco, un altro calice me lo faccio prima di cena, che di norma è nel paddock con prodotti italiani».

È più tornato in mare dopo il naufragio dello yacht mentre a bordo c’era lei e la sua famiglia davanti all’isola del Giglio?

«Sìììì, mille volte da quel giorno. Lì per lì è stata una paura ma è come quando cadi dalla moto o da cavallo, devi tornare subito in sella. Non abbiamo neanche fatto tanta fatica a tornarci sopra. Ho come la sensazione che io, mia moglie e i nostri tre figli ci siamo educati reciprocamente all’ottimismo. Per cui rispettiamo le misure di sicurezza ma se ci è capitata una volta è proprio difficile che ce ne ricapiti una seconda. Rinunciare alla passione per il mare e alla barca perché una volta ci è andata buca non sarebbe giusto».

Prima dei motori, all’epoca di un certo Alberto Tomba, lei faceva le telecronache dello sci. Quanto manca al movimento degli sport invernali uno come lui?

«Forse uno così esuberante nel carattere come Tomba non ce l’abbiamo. Ma non ci possiamo lamentare, basta solo pensare allo sci femminile. Oggi, rispetto ad allora, ci sono mille fonti di informazione, miliardi di contenuti video che ti arrivano addosso, per cui è un po’ più difficile appassionarsi visceralmente a qualcosa. Quando c’era una gara di Tomba si fermava l’Italia perché in televisione c’era solo quello. Oggi non si ferma nulla se la Goggia vince le Olimpiadi, non è detto che i miei figli la guardano perché magari nello stesso momento c’è lo youtuber preferito che è uscito con un contenuto nuovo che loro vogliono vedere».

·        Ivan Zazzaroni.

Da ilnapolista.it il 17 ottobre 2022.

Su Il Fatto Quotidiano una lunga intervista al direttore del Corriere dello Sport, Ivan Zazzaroni. Racconta quando è diventato un personaggio televisivo. 

«Dal 1991 convocato da Aldo Biscardi per Il processo del lunedì: cercava visi giovani e mi assegnò uno spazio dal titolo “Segretissimo”; in teoria mi occupavo di calciomercato. In realtà non gliene importava nulla, non ascoltava nulla, non sapeva quasi nulla: si presentava in trasmissione con in mano un foglio gigante, quasi un cartellone, con sopra le frasi scritte a caratteri enormi; poi si sedeva e aveva davanti a sé una serie di televisori collegati tutti sulla concorrenza: quando gli altri andavano in pubblicità, Aldo fomentava la discussione, ci incitava alla lite; le prime volte mica capivo».

La vera fama, però, è arrivata con Ballando con le stelle.

«Neanche volevo accettare, ero spaventato. Ero già nel mirino di molti, in particolare colleghi che a volte mi trattano come uno che pensa solo a fare il fenomeno». 

Zazzaroni risulta antipatico?

«No, sto proprio sulle palle, soprattutto a chi non mi conosce». 

Si definisce un gran lavoratore.

«Lavoro tanto, altrimenti uno non va da nessuna parte». 

La prendono per un bluff.

«L’aspetto esteriore è un limite nella percezione delle persone».

A scuola andava bene, ma «senza massacrarmi». Racconta la Bologna degli anni 70.

«Bellissima; i miei genitori, con sacrificio, avevano deciso di iscrivermi a una scuola privata, la migliore di allora: le mie compagne erano le più belle della città, scarrozzate da macchinoni con autista; io per emergere divenni rappresentante d’istituto». 

Ha giocato a pallone in Brasile.

«Prima mediano poi ala. Ero bravo, da ragazzo ho provato pure per Roma, Sambenedettese ed Empoli. Con il calcio sono arrivato fino alla Serie D con il San Lazzaro: sul campo mi sono rotto di tutto, dalla tibia al tendine d’Achille».

Zazzaroni racconta del Brasile.

«Nel 1979-80 studiavo Lingue e volevo diventare interprete parlamentare e per il Comune di Bologna andai in Brasile: c’era un congresso; lì ho conosciuto una ragazza brasiliana e mi sono trasferito. I miei genitori mi diedero 700 dollari. Quando sono nato mamma aveva 17 anni e papà 18, e da adolescente l’estate pretendevano che lavorassi. A me giravano le palle, invece è stato utile. Con mio padre avevo un rapporto particolare, per anni non ho capito il motivo di dover cenare alle cinque del pomeriggio. Un giorno ho trovato la risposta: alle 8 aveva la seconda cena con la sua seconda famiglia». 

Dal Brasile, comunque, tornò con più soldi di quando era partito.

«In Brasile vivevo a Ribeirão Preto, la città dove è nato Socrates e siccome avevo ancora il chiodo nella gamba mi inventai giornalista sportivo, ma al pallone non ci rinunciavo. L’allenatore del Botafogo era Antoninho, ex della Fiorentina, e mi permetteva di prepararmi con la squadra. Io felice. Mi divertivo come un matto e nel frattempo ero pure riuscito a intervistare proprio Socrates per Stadio». 

A Zazzaroni viene chiesto come sono i calciatori a fine carriera. Risponde:

«Quelli che non si sono strutturati per il dopo entrano in depressione; poi ingrassano e vanno in tv a toglierci il lavoro e questo mi fa incazzare tantissimo anche perché spesso non conoscono l’italiano; l’altra sera Del Piero, in tv con Agnelli, è stato eccessivamente remissivo». 

Su Mourinho:

«È il mio idolo. È pazzesco, mi ricorda Brian Clough. Clough l’ho conosciuto tanti anni fa per un torneo e sembra una sorta di zio di Mourinho, anche lui polemista, intelligentissimo, percezioni incredibili e nessuna paura». 

Continua:

«Allegri l’avrò sentito cento volte, Ancelotti lo chiamo sempre, anche alla fine dell’ultima partita di Champions. L’allenatore più intelligente è Mourinho. Ancelotti è spaziale, raffinato, uno che ha vissuto e sa stare al mondo». 

Da professionista legato allo sport, è ancora tifoso?

«Non di una squadra ma delle persone». 

Ci sono i gay nel calcio?

«Certo, e finalmente è il momento di rompere questo tabù».

Francesco Melchionda per perfideinterviste.it il 23 maggio 2022.

(...)

Zazzaroni, lei è bolognese di nascita. Ma, negli anni della tarda adolescenza, finisce addirittura in Brasile. Aveva già le tasche piene di Bologna e della sua famiglia

No, tutt’altro. Volevo viaggiare, conoscere. Quand’ero ragazzo, la voglia di viaggiare era talmente forte che decisi addirittura di fare l’esame per diventare steward per voli intercontinentali… Insomma, come avrà capito, l’idea di poter conoscere mondi nuovi mi affascinava tanto, troppo… 

Di che campava in Brasile? Bighellonava…?

Ero stato a San Paolo per un congresso internazionale dei mercati all’ingrosso, come interprete per conto del comune di Bologna. Conobbi una ragazza di nome Carmen, occhi azzurri, capelli biondi… Nacque un flirt, per fortuna o per sfiga, chissà, e ci tornai qualche mese dopo a vivere. Ma, dopo quattro giorni, la mollai… Mi misi a fare di tutto pur di stare in Brasile; non volevo tornare a casa senza un soldo. E, quando potevo, mi allenavo con il Botafogo di Ribeirao Preto, allenatore Antoninho, che aveva giocato nella Fiorentina, e frequentavo l’università. Insomma, non facevo un cazzo.

Come sempre… 

No, son passato dal non fare un cazzo a cazzaro, che è diverso…! 

(...)

 Quale fu il suo primo impatto con il sesso? Disastroso, immagino…

Sì, decisamente! Baciai una ragazza che, poco prima del nostro incontro, aveva mangiato cipolla! Grazia. Me la ricordo ancora e l’ho rammemorato a tutte le donne con le quali ho avuto, poi, una frequentazione. Avevo 15 anni, volevo provare e questo bacio, ahimé, non l’ho mai più dimenticato!

Il Brasile è sempre stata la patria della sensualità e del piacere: le capitò di perdersi?

No, mai! Ero troppo giovane per perdermi e, con una famiglia solida alle spalle, troppo strutturato per annegare nei piaceri o in qualche altro vizio. Ho fatto una vita bella, ma regolarissima. 

Come nacque l’intervista al grande Socrates?

Abitava a Ribeirão Preto, a 500 metri da casa mia. Il Botafogo lo aveva appena venduto al Corinthians di San Paolo (la squadra famosa non solo per il livello tecnico, ma anche per quella sorta di esperimento di uguaglianza, la ‘democracia corinthiana’, decisioni prese di comune accordo tra giocatori e allenatore). 

Lo incontrai in una birreria famosa in tutto il Brasile, si chiamava Pinguim, all’epoca molto frequentata dai ragazzi universitari. Socrates, che amava molto bere, era spesso lì. Gli feci l’intervista e la inviai a Stadio, il giornale di Bologna. La sfiga volle che mandai la foto con Wilson Roveri e Socrates, perché non avevo con me la macchina per scattare. Quando uscì, ricordo ancora adesso la didascalia: “Socrates durante l’intervista”. Non rimasi benissimo perché nella foto non ero io, ma Roveri, allora cinquantenne…

Ma aveva già gli strumenti giornalistici per saper scrivere? O si è buttato giusto per vedere cosa succedeva o, peggio ancora, se qualcuno abboccava?

Ho sempre sognato di fare il giornalista sportivo. Avevo passione, curiosità, l’ambizione, che era sfrenata, e, soprattutto, un bagaglio di letture non indifferente. E la conoscenza delle lingue, il portoghese fu la chiave che aprì le porte giuste. 

Perché ha specificato che voleva fare il giornalista sportivo, e non politico, ad esempio.

Perché l’unica esperienza politica che ho avuto – una campagna elettorale per la Dc –  quand’ero ragazzo, è stata di una noia mortale! 

(...) 

Se avesse tra le mani uno scoop che coinvolge un suo amico, cosa farebbe? Lo cestinerebbe o lo pubblicherebbe senza troppi scrupoli? La notizia, dice qualcuno, è sacra…

Non lo dica a me! Questa sua riflessione, maliziosa, mi fa tornare alla mente una vicenda che ho pagato pesantemente. Tre anni fa, come tutti sanno, ci fu il caso di Mihajlovic…

Ecco, cosa ha combinato?

Mi arriva la notizia, dal nostro corrispondente, che Sinisa da tre giorni non si sta allenando. Da premettere che il Bologna, per Stadio è la squadra di riferimento. Chiamo Sinisa, e non mi risponde. A questo punto, contatto la moglie, Arianna. E lei mi fa: fattelo dire da lui, per favore. Chiamo, allora, il medico del Bologna, con il quale ho un rapporto quarantennale, e lui, con molte riserve, mi dice: non posso dirti niente, però Sinisa non sta bene.

Parlo, allora, con Sabatini, all’epoca direttore sportivo della società. Walter mi dice, senza troppi giri di parole, che Sinisa non gradisce che la notizia esca sui giornali. Un giorno tormentatissimo; la domanda che mi ponevo era sempre la stessa: lo scrivo, non lo scrivo… Feci l’articolo e poi dissi ai ragazzi della redazione di cestinarlo, ci ripensai, e la redazione, tutta, mi spronò a pubblicare quello che sapevamo. Scrissi l’editoriale, ma senza fare cenno alle parole leucemia e malattia… Sfiga volle che Sinisa non avesse informato i suoi figli maschi della malattia, cosa che io, ovviamente, non potevo prevedere. 

Sapendo che Mijailovic avrebbe fatto l’indomani la conferenza stampa, mi sentivo libero e legittimato a scriverne. L’indomani esce il giornale e i due figli maschi, ignari di tutto, vengono subissati di messaggi. A quel punto, Sinisa matura la decisione di massacrarmi in conferenza stampa. Mi sono, poi, beccato di tutto, in particolar modo da due persone, i cui nomi difficilmente dimenticherò. 

Chi sono, Direttore? I nomi…

Luisella Costamagna, che scrisse delle cose volgarissime, e Sonia Bruganelli, la moglie di Paolo Bonolis. Si fidarono dei social.

Riuscì a chiarire con il serbo?

Per fortuna, sì, subito… Ho tuttora un bellissimo rapporto con lui. 

Altri scoop?

Mancini alla Lazio, oppure quando Roberto Baggio fu costretto a lasciare la Juventus. Ricordo che Roby mi fece una telefonata, lunga e molto amareggiata. Non voleva che ne scrivessi. Io, però, il giorno dopo, uscii con una lunga intervista. Fu contento, alla fine, della pubblicazione. 

Perché? 

Perché uscì la sua verità, molto diversa da quella della Juve. Baggio, la sua amicizia, la cosa migliore che ho avuto dal calcio. 

A proposito di Mihajlovic: non pensa sia un allenatore sopravvalutato e ben protetto dalla stampa… Lei mi dirà: ha salvato il Bologna da una retrocessione sicura. E io le rispondo: un po’ poco…

«Sinisa è la salvezza, la fortuna di un Bologna condannato a non spendere».

Fonda un quotidiano che si chiama Dieci: dura pochissimi mesi, se non erro tre. Cosa ha fatto di disastroso? 

Esattamente 76 giorni. E, pensa, 76 fu il titolo del primo numero, dedicato ai nati in quell’anno, Ronaldo il Fenomeno, ad esempio. Io, di disastroso, non ho fatto niente, anzi. Visto che me lo chiede, le racconto com’è andata: mi chiama Sconcerti e mi fa: Ivan, ho detto a quest’editore che tu sei l’unico che può fare questo giornale nuovo. L’editore erano i Caso. La persona, però, con cui parlai era Donati, ed direttore della Rcs e uomo di fiducia della Fieg. Vado all’appuntamento, in Corso Venezia, in una sede che, francamente, mi lascia molto perplesso. Alle sue lusinghe, gli rispondo che non ho più voglia di fare il direttore di carta stampata. 

Al che, lui mi chiede: quanto vuole? Io gli sparo la cifra più alta e lui accetta. Favoleggiano 50 milioni di euro di budget, e la possibilità di scegliere tutti i giornalisti. Un sogno che si realizza! Al primo mese, tutto procede per il meglio (80 mila, le copie vendute). Al secondo, iniziano i problemi: non pagano i giornalisti. Mi stranisco e chiedo agli editori un confronto. Arrivo a Roma, in una sede assurda, sulla porta leggo Kuban Bank, e aspetto, aspetto… Per settimane garantiscono l’arrivo dei pagamenti… Niente. A quel punto, mollo tutto, e me ne vado. Mi dimetto, prendono un altro direttore, ma il giornale non esce più in edicola… Detto ciò, è stata comunque un’esperienza pazzesca, molto formativa, nonostante tutto.

(...) 

Quali merde ha pestato?

Quando avvenne il trasferimento di Ronaldo alla Juventus. Pensavo fosse una boutade, uno scherzo di Mendes, il suo agente. Quando gira, tra le redazioni, la notizia del possibile arrivo, faccio fatica a crederci. E, nonostante la mia reale diffidenza sull’acquisto del portoghese, per scrupolo, faccio delle telefonate per capirci meglio. Chi stava facendo realmente la trattativa, non mi disse la verità, e io abboccai al depistamento. Arrivai tardi e perdemmo un bello scoop da prima pagina. Tuttosport, ad esempio, fu più bravo di noi… 

Chi la faceva, la trattativa?

Oltre a Mendes? Non lo posso dire… 

E altre merde pestate?

Ti diverti? Questa è più recente; è quando Allegri mi disse che non sarebbe tornato alla Juventus. Io gli credetti, anche perché stava chiudendo con il  Real Madrid. Era tutto fatto: mancava solo la firma che sarebbe stata siglata nello studio di Giovanni Branchini. Arriva la telefonata, improvvisa, di Agnelli, e Max cambia idea. Tante, però, ne ho fatte pestare…

Addirittura? Racconti…

Beh, Baggio al Milan, e, più recente e più grossa, la vicenda legata alla Superlega. 

Ancora Baggio? Sempre lui… Cosa successe con il Divin Codino? 

Tutti dicevano Inter, la Juve l’aveva promesso a Moratti. Roby non si faceva trovare, il suo agente Petrone pure, lavorai su un’indicazione di un dirigente di Diadora e lavorai bene.

Mi parli, ora, della tavolata imbandita dai boss del calcio mondiale…

Scrissi della nascita della Superlega il giorno in cui la stavano per annunciare. Ebbi l’imbeccata grazie ad un politico, di cui non farò di certo il nome. 

Lo faccia, ormai è passata la bufera…

Non glielo dico neanche sotto tortura. Roma, sabato, verso le 13.30, finito il programma alla radio, Caressa mi dà uno strappo fino all’hotel. A un tratto il politico in questione mi chiama e mi dice: ma lo sai che sta per nascere la Superlega? Al che gli rispondo: ma dài, storia finita. E lui, serio: sì, sì, Ivan, sta per nascere la Superlega, fidati. E proprio in queste ore, cento per cento. 

Nel pomeriggio faccio un paio di telefonate ad alto livello senza trovare riscontri. Quando mi arriva la segnalazione che mi auguravo passo tutto a Ramazzotti e pubblico la notizia in prima pagina, sbagliando solo una cosa: scriviamo che era coinvolto anche Dazn. La domenica sera l’annuncio, uno scoop mondiale. A tal proposito, Vialli mi dice sempre: tu le notizie non le dai, le crei…

Come si fa a dirigere un giornale sportivo, con grande risalto al calcio, in una città così corrotta, malata, antisportiva e faziosa come Roma?

E’ più difficile e divertente. Più semplice fare un giornale a Milano, dove tutto funziona e Inter e Milan vincono. Roma è sanguigna, faziosa, molto, e ha due anime.  

Chi sono i presidenti di calcio più liberticidi che ha conosciuto in tutti questi anni? Fuori i nomi, direttore…

Ora non chiamano più, però ci sono quelli di cui senti maggiormente la presenza e sono Lotito e De Laurentiis; Aurelio, però, ultimamente si è un po’ defilato.  

Cosa le scrive il varesotto? Messaggi sibillini?

Ti chiamo tra poco. 

E’ una grande volpe, Marotta…

E’ uno che sa stare al mondo, di un mondo, però, che ha perso in qualità e personalità.

Non è uno sprovveduto…

Tutt’altro, e poi ha grandi rapporti e relazioni politiche. Devo riconoscergli grandi capacità di movimento.

E’ un democristiano…

Un Dc della Prima Repubblica…  

Cosa vuol dire quando dice “di un mondo ormai superato”?

La crisi finanziaria di molti club ha demolito rapporti, certezze, regole. Gerarchie. Il calcio è come il Paese, incapace di fare sistema. 

Cosa pensa della gestione Moratti? Era un incapace, come sostengono in tanti, compresi non pochi tifosi interisti?

Aveva il portafoglio troppo vicino al cuore. Troppo. 

Come reagisce ad una telefonata di protesta? Rabbonendo, promettendo, intortando o urlando?

Mai promesso nulla a nessuno! 

Si è mai sentito usato da qualcuno? 

Ci sono dei momenti in cui ti rendi conto che l’essere usato ti fa comodo perché poi puoi scriverne. E diventa, indirettamente, un’ottima collaborazione. 

Due juventini doc – Mughini e Cazzullo – hanno una visione diversa su Moggi; l’uno, Mughini, positiva; l’altro, Cazzullo, molto negativa. Lei cosa pensa, invece, di big Luciano? Tanti giornalisti facevano a gara per essere nelle sue grazie…

Che non era peggio di tanti altri. Luciano è cresciuto in un mondo fatto di potere, relazioni, influenze, amicizie. Tanta gente andava ad abbeverarsi da Moggi, anche famosa. Diciamo che sono a metà fra Cazzullo e Mughini, perché l’ex dg della Juventus era un sofisticato millantatore, ma anche un profondo conoscitore degli uomini e delle loro debolezze. Probabilmente, quando arrivò alla Juventus si è sentito tanto, troppo, potente, intoccabile, e lì è iniziato, paradossalmente, il suo lento declino, culminato, poi, con lo scandalo di Calciopoli. 

E’ stata tutta una farsa Calciopoli?

No, c’erano dei fondi di verità assoluta, tipo i rapporti, ambigui e intollerabili, tra direttori di gara, designatori e società. Era un calcio troppo leggero e maleducato. Tutti cercavano un favore… 

Anche l’Inter?

Per quello che io so, l’Inter di Moratti cercò, attraverso un arbitro che si era speso con Facchetti, di denunciare la cosa, cosa che non avvenne… Hanno provato a sporcare l’immagine di Giacinto, una sconcezza. 

(..)

Chi ha ucciso Pantani? La sua debolezza? Lei l’ha capito?

No. Ho capito, però, che a Madonna di Campiglio una parte di lui, la più importante, l’orgoglio, la dignità, erano stati azzerati. 

Finisce a Ballando con le Stelle perché aveva bisogno di denaro, riconoscimento? Non mi dica che era anche un ballerino… Non ha proprio le physique du role del danzatore…

Io ho un grande fisico, Francesco! Finisco a Ballando con le Stelle perché Bibi Ballandi, che è di Bologna, mi chiama e mi fa: sei un bell’uomo, devi partecipare al programma. Ti faccio chiamare da Milly. Bibi, gli faccio, tu sei matto! Quando la Carlucci mi chiama, resto sulle mie posizioni e la butto lì: al massimo faccio il giurato. Va bene, risponde. L’anno dopo, mi richiama Bibi e quasi mi ordina di partecipare al programma, ma, questa volta, come ballerino. Mi danno quello che chiedo e, mettendomi alla prova, come mai avevo fatto nella mia vita, inizia un’esperienza magica.

Rimorchia tanto, quindi…

Certo, ho un pubblico fantastico: meravigliose sessantenni, settantenni,  ottantenni e novantenni… 

Però non è un uomo fedele, direttore…

Certo che lo sono! 

Ma va! Non la bevo…

Assolutamente! 

Non ci credo…

Fa bene… 

Mi ha detto che la sua casa è a Monza; che ci fa lei in una città così brutta? 

Brutta?

Beh, rispetto a Bologna, non c’è paragone…

Perché Monica, la mia compagna, il mio equilibrio, un riferimento costante, che tra l’altro è bresciana, abitava lì. Quando ci siamo messi insieme, abbiamo deciso di prendere casa a Monza… E ci sto bene! 

Come mai finisce alla corte di Chiambretti?

Questione di feeling. E di attenzione. Sua. Lui fede tutto. Ci siamo trovati subito, per me è stato come ricevere un complimento. 

Come sono stati questi due anni con lui?

Divertenti e formativi, ho imparato molte cose da Piero, che ha una visione complessiva del programma. Lui è un pezzo unico della televisione. 

Su di lei abbondano giudizi, molti dei quali poco lusinghieri: piacione, vanitoso, egocentrico, arrogante, presuntuoso… In quale si riconosce?

Arrogante e presuntuoso, per niente; sicuramente, mi riconosco negli altri giudizi. 

Quanto tempo dedica alla cura del suo corpo? 

Poco. 

Si è mai sentito fatuo?

Superficiale, sì; insignificante mai. 

Quale difetto peggiore si riconosce?

Sto talmente bene con me stesso… 

Non avevo dubbi, sa… 

Immagino. Forse, se ci penso, l’istinto e l’eccessiva tolleranza. L’istinto è spesso un nemico e troppa tolleranza produce errori. 

In che senso? Si spieghi…

Sono uno che perdona, che si pone un sacco di problemi, che non sa odiare per più di quindici minuti.

E’ schiavo di qualcosa? Del potere che esercita, delle donne, del denaro, del piacere?

Del complesso di colpa! 

(...) 

Nel 2002 ero direttore di due giornali, e guadagnavo cifre altissime; ma,  improvvisamente, chiusi quel rapporto. Mi trovai in mezzo ad una strada, con una famiglia da mantenere. Ho avuto la fortuna, perché non dirlo?, di essere stato chiamato da Simona Ventura e. Paolo Beldì a Quelli che il Calcio, pensando e sperando di guadagnare tantissimo… Ricordo che ero in vacanza, nel Salento, a Santa Cesarea Terme…

Mi chiama la Rai, prontissimo a sentire cifre alte, altissime. Un funzionario mi fa: allora, Zazzaroni, abbiamo parlato con Simona Ventura e la cifra che le proponiamo è di 700 euro lordi a puntata… Consideri che io guadagnavo 10mila euro al mese circa. Chiamai Simona, lamentandomi; il compenso divenne di 4000 mila euro lordi al mese. Cominciai, partendo dalla televisione, a fare tutto, e tutte le marchette possibili e immaginabili per guadagnare… 

E’ stato il grande marchettaro di sé stesso?

Assolutamente sì! Ma più bravo di me, da questo punto di vista, c’è solo Pierluigi Pardo…

Perché? 

È un fatto, anzi un fatturato. 

Perché chiuse quel rapporto con quei due giornali? Cosa combinò?

Un rapporto fino a quel momento meraviglioso con l’editore conobbe un’incrinatura per via di alcuni tagli che non accettavo, in particolare di un inviato di Autosprint, e capii che era il momento di andare via. Ci siamo ritrovati sedici anni dopo. 

Che ruolo ha avuto la musica, per lei, essendo nato in una città come Bologna?

Fondamentale, direi. Io cresco con Battisti, Cat Stevens, Elton John, e, negli anni Ottanta, disco-music e Neil Rodgers, che, per me, è Dio… Poi Prefab Sprout, Talk Talk, A-ha, Michael Jackson. Una musica che, ancor oggi, mi tiene vivo e giovane, come dico sempre al mio amico Linus. 

Direttore, non vorrei farla tornare con i piedi per terra, ma di Dio ce n’è uno solo, ed è Eric Clapton…

A proposito di Clapton, ho dei flash… Ha presente Layla, la versione elettrica…? Avevo dodici anni, camminavo per le strade di Bologna, estrema periferia. Via Alfieri, ora ricordo, solo, in una giornata d’estate…Si apre una finestra, e parte il riff di Slowhand. Una cosa che non dimenticherò mai; se ci ripenso, mi vengono i brividi…

È malinconico?

Moltissimo… E anche nostalgico di quei tempi, delle figure, degli affetti. Non c’è un giorno, ad esempio, in cui non pensi a mio padre. E più vado avanti con gli anni, più mi rendo conto di quanto mi amasse. E quanto fosse diverso da me.

Il dolore più grande?

Oltre alla morte di Beppe, mio padre, quella di mio nonno, Marino… Ricordo che poco prima che morisse (ce lo portò via una fottuta leucemia), lui in una stanza dell’ospedale Maggiore di Bologna, lo beccai a vedere la registrazione di una mia puntata di non so quale programma. Nei suoi occhi intravvidi l’orgoglio e la gioia, eppure stava morendo… Era del ’12, per lui chi andava in tv era arrivato e importante. Io avevo appena cominciato…

·        Julian Assange.

L’Australia contro gli USA per il suo cittadino Assange: “Quando è troppo è troppo”. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 5 dicembre 2022.

Il primo ministro dell’Australia, Anthony Albanese, si è schierato per la prima volta pubblicamente a favore del giornalista e cittadino australiano – fondatore di Wikileaks – Julian Assange, accusato di avere diffuso in rete nel 2010 migliaia di documenti classificati riguardanti informazioni riservate su crimini di guerra del governo americano. Albanese ha chiesto all’amministrazione americana di porre fine alle «azioni legali» a carico di Assange, dichiarando che «quando è troppo è troppo» e che «è giunta l’ora che questa questione giunga a una conclusione». Il primo ministro australiano si è espresso sulla vicenda qualche giorno fa in un’informativa parlamentare, dopo essere stato esortato ripetutamente al riguardo dagli esponenti di entrambi gli schieramenti. Albanese ha fatto sapere di non sostenere le azioni del fondatore di Wikileaks di diffondere in Internet informazioni riservate ma ha anche sostenuto che l’“accanimento” legale contro Assange è ingiustificato: «Qual è il senso di continuare questa azione legale che può durare ancora per molti anni?», ha chiesto. «La mia posizione è chiara ed è stata messa in chiaro con l’amministrazione Usa. Continuerò a sollevarla, come ho fatto di recente in incontri che ho avuto», ha asserito, anche se non è ancora chiaro se abbia sollevato la questione direttamente con Joe Biden. In ogni caso, i due leader hanno avuto recentemente diversi incontri di persona.

La notizia è di particolare rilievo, non solo perché Assange è cittadino australiano, ma soprattutto perché l’Australia è uno dei principali alleati politici e militari degli Stati Uniti: il che rende l’iniziativa di Albanese ancora più indicativa della vessazione giudiziaria che gli USA esercitano – ormai da anni – ai danni del giornalista diventato simbolo in tutto il mondo di un’informazione indipendente che sfida il potere piuttosto che servirlo. Inoltre, la vicenda di Assange sta ottenendo una solidarietà a livello politico e mediatico che non si era mai registrata prima a livello globale: nelle ultime settimane, il neo presidente del Brasile, Lula, ha lanciato un appello alla comunità internazionale per la sua liberazione, dopo avere incontrato i vertici di Wikileaks; mentre il presidente della Colombia, Gustavo Petro, si è impegnato a “fare pressione” sul capo dello Stato americano Joe Biden affinché metta fine alle accuse al giornalista, in carcere in Gran Bretagna dal 2019 e in attesa di essere estradato negli USA, dove potrebbe attenderlo una pena che prevede fino a 175 anni di carcere.

Oltre ai capi politici, anche dal mondo del giornalismo si sono finalmente sollevate le prime voci a favore di Julian Assange: a fine novembre, il Guardian, il New York Times, Le Monde, Der Spiegel e El Pais hanno pubblicato una lettera congiunta in cui chiedono la liberazione di Assange. Si tratta degli stessi giornali che, nel 2010, hanno pubblicato estratti dei documenti diffusi da Wikileaks. Nella lettera, i firmatari hanno sostenuto che «la pubblicazione non è un crimine: il governo degli Stati Uniti dovrebbe porre fine al processo contro Julian Assange per la diffusione di documenti riservati». Pare, dunque, che Julian Assange non sia più solo e che stia finalmente ricevendo dai media, dalla politica internazionale e dagli stessi rappresentanti della sua nazione l’attenzione e la giustizia che merita. [di Giorgia Audiello]

Finalmente si schierano: i maggiori giornali al mondo per la libertà di Assange. L'Indipendente il 30 novembre 2022.

Le più importanti testate giornalistiche di Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Germania e Francia scrivono una formale lettera di protesta al governo degli Stati Uniti d’America per chiedere la fine delle persecuzioni giudiziarie contro Julian Assange. Si tratta di New York Times, Le Monde, The Guardian, Der Spiegel ed El País, che il 28 novembre 2010 pubblicarono i cablogrammi secretati delle ambasciate americane diffusi da WikiLeaks. "Ottenere e divulgare informazioni sensibili quando è necessario nell’interesse pubblico è una parte fondamentale del lavoro quotidiano dei giornalisti. Se questo lavoro viene criminalizzato, il nostro discorso pubblico e le nostre democrazie sono resi significativamente più deboli" scrivono le cinque testate. Gli editori e le redazioni delle testate chiedono quindi che il governo USA "ponga fine alla causa contro Julian Assange" e che ne permetta finalmente la liberazione. Nel novero dei giornali che si sono finalmente schierati spicca l’assenza di due importanti testate italiane, La Repubblica e L’Espresso, che – al pari delle testate sopracitate – pubblicarono i cablogrammi di Wikileaks in esclusiva per l’Italia.

Di seguito il testo completo della lettera inviata dai quotidiani al governo statunitense:

"La pubblicazione non è un crimine: il governo degli Stati Uniti dovrebbe porre fine al processo contro Julian Assange per la diffusione di documenti riservati.

Dodici anni fa, il 28 novembre 2010, i nostri cinque media internazionali – il New York Times , il Guardian, Le Monde, El País e Der Spiegel – pubblicarono una serie di rivelazioni in collaborazione con WikiLeaks che fecero scalpore in tutto il mondo.

"Cablegate", un insieme di 251.000 dispacci confidenziali del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti , ha rivelato corruzione, scandali diplomatici e affari di spionaggio su scala internazionale.

Nelle parole del New York Times, i documenti raccontavano "la storia nuda e cruda di come il governo prende le sue decisioni più importanti, le decisioni che costano di più al Paese in termini di vite e denaro". Anche ora, nel 2022, giornalisti e storici continuano a pubblicare nuove rivelazioni, utilizzando il tesoro unico dei documenti.

Per Julian Assange, editore di WikiLeaks, la pubblicazione di "Cablegate" e molte altre fughe di notizie correlate hanno avuto le conseguenze più gravi. L’11 aprile 2019, Assange è stato arrestato a Londra con un mandato d’arresto statunitense e ora è detenuto da tre anni e mezzo in una prigione britannica ad alta sicurezza solitamente utilizzata per terroristi e membri di gruppi di criminalità organizzata. Rischia l’estradizione negli Stati Uniti e una condanna fino a 175 anni in un carcere di massima sicurezza americano.

Questo gruppo di redattori ed editori, che avevano tutti lavorato con Assange, ha sentito il bisogno di criticare pubblicamente la sua condotta nel 2011, quando sono state rilasciate copie non redatte dei dispacci, e alcuni di noi sono preoccupati per le accuse contenute nell’accusa secondo cui avrebbe tentato di facilitare l’intrusione informatica in un database classificato. Ma ora ci riuniamo per esprimere le nostre gravi preoccupazioni per la continua persecuzione che Julian Assange subisce per aver ottenuto e pubblicato materiale riservato.

L’amministrazione Obama-Biden, in carica durante la pubblicazione di WikiLeaks nel 2010, si è astenuta dall’incriminare Assange, spiegando che avrebbe dovuto incriminare anche i giornalisti delle principali testate giornalistiche. La loro posizione premiava la libertà di stampa, nonostante le sue spiacevoli conseguenze. Sotto Donald Trump, tuttavia, la posizione è cambiata. L’azione degli USA contro Assange si basa su una vecchia legge, l’Espionage Act del 1917 (creata per perseguire potenziali spie durante la prima guerra mondiale), che non è mai stata usata per incriminare un editore o un giornalista.

Questa accusa costituisce un pericoloso precedente e minaccia di minare il primo emendamento americano e la libertà di stampa.

Ottenere e divulgare informazioni sensibili quando necessario nell’interesse pubblico è una parte fondamentale del lavoro quotidiano dei giornalisti. Se quel lavoro viene criminalizzato, il nostro discorso pubblico e le nostre democrazie si indeboliscono notevolmente.

Dodici anni dopo la pubblicazione di "Cablegate", è giunto il momento per il governo degli Stati Uniti di porre fine al processo contro Julian Assange per la pubblicazione di segreti.

Pubblicare non è reato".

12 anni fa il ‘cablegate’: le rivelazioni per le quali Assange è ancora nel mirino USA. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 28 novembre 2022.

Accadde oggi, dodici anni fa: il sito di WikiLeaks pubblicava oltre 250 mila documenti segreti, che le ambasciate americane avevano inviato al governo centrale, contenenti informazioni “sensibili” sulle operazioni statunitensi e sui rapporti con i governi esteri. È l’inizio del cablegate, che causerà non poco imbarazzo all’amministrazione statunitense, allora guidata da Barak Obama e già messa a dura prova nei mesi precedenti dalla diffusione, sempre da parte di WikiLeaks, di decine di migliaia di documenti (incluso un video di 17 minuti divenuto celebre col nome di Collateral Murder) che dimostrano come la lotta al terrorismo condotta dagli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan fosse per lo più portata avanti con uccisioni indiscriminate, torture e crimini di guerra di vario genere. La maggior parte dei documenti è allora piuttosto recente (2008-2010) e contiene informazioni riguardo i rapporti dei diplomatici americani con i leader nel mondo, non esenti da opinioni personali anche piuttosto taglienti, e commenti su eventuali minacce nucleari e terroristiche. Le rivelazioni di Julian Assange gli costeranno anni di persecuzioni da parte del governo statunitense, che lo accusa di spionaggio e intrusione informatica. Attualmente, il giornalista australiano è in attesa di essere estradato negli Stati Uniti, dove rischia fino a 175 anni di carcere duro.

Principali contenuti dei cablogrammi diffusi

Il numero di documenti è enorme e le questioni che ne emergono sono molteplici. Tra le principali, si può citare lo stallo tra Pakistan e Stati Uniti per il combustibile nucleare: da quanto emerge, infatti, risulta che sin dal 2007 gli USA avevano messo in atto un tentativo segretissimo (e fallimentare) di rimuovere l’uranio arricchito da un reattore di ricerca pakistano, che secondo gli americani avrebbe potuto essere usato per creare un ordigno illecito. Nel maggio 2009 l’ambasciatrice statunitense in Pakistan ha riferito che il Paese rifiutava l’ingerenza americana, che stava tentando di programmare una visita di esperti tecnici, perché “se i media locali venissero a conoscenza della rimozione del combustibile, ‘lo dipingerebbero come gli Stati Uniti che si impossessano delle armi nucleari pakistane'”.

Nel 2009 il presidente Obama aveva firmato un ordine esecutivo che stabiliva la chiusura della prigione di Guantanamo entro 12 mesi, cosa tuttavia mai effettivamente avvenuta. Tra i documenti resi pubblici da WikiLeaks nel novembre dell’anno successivo ve ne erano diversi che dimostravano come gli Stati Uniti avessero esercitato pressioni sui governi esteri affinché si facessero carico del reinsediamento di alcuni detenuti. Alla Slovenia, per esempio, venne detto che avrebbe dovuto farsi carico di un detenuto se le autorità avessero voluto incontrare il presidente americano. Allo Stato del Kiribati, poi, vennero offerti incentivi di milioni di dollari per accogliere i i detenuti musulmani cinesi, mentre al Belgio venne riferito che accettare un buon numero di prigionieri sarebbe stato un “modo a basso costo” per “raggiungere una posizione di rilievo in Europa”.

Tra i documenti diffusi compare anche l’Italia: nel 2009, i diplomatici americani a Roma riferirono di una relazione “straordinariamente stretta” tra l’allora primo ministro russo Vladimir Putin e il premier italiano dell’epoca, Silvio Berlusconi (“incapace, vanitoso e inefficace come moderno leader europeo”), tra i quali intercorreva uno scambio di “doni sontuosi” e contratti lucrativi per l’energia. Berlusconi venne addirittura definito “il principale portavoce di Putin in Europa”.

Rimanendo in Europa, i documenti rivelarono anche delle tensioni tra Stati Uniti e Germania per via delle pressioni esercitate dai funzionari americani sul governo tedesco nel 2007, dopo che la CIA aveva rapito un cittadino tedesco con lo stesso nome di un sospetto militante e lo aveva erroneamente trattenuto per mesi in Afghanistan. I funzionari americani chiesero quindi alla Germania di non eseguire i mandati di arresto contro gli agenti della CIA che avevano commesso l’errore: al riguardo, un alto diplomatico statunitense riferì a un funzionario tedesco che “la nostra intenzione non era quella di minacciare la Germania, ma piuttosto di sollecitare il governo tedesco a valutare attentamente, in ogni fase del processo, le implicazioni per le relazioni con gli Stati Uniti”.

I documenti rivelavano anche come la lotta al terrorismo strenuamente portata avanti dagli Stati Uniti non stesse dando il risultato sperato: l’Arabia Saudita costituiva infatti uno dei principali finanziatori di al-Qaeda, mentre lo Stato del Qatar, il quale per anni aveva ospitato le truppe statunitensi, non stava compiendo alcuno sforzo nella lotta ai gruppi terroristici “per timore di apparire allineato con gli Stati Uniti e provocare rappresaglie”. Era fallita anche la lotta degli americani per impedire alla Siria di fornire armi a Hezbollah in Libano: ad appena una settimana di distanza dalle promesse del presidente siriano Bashar al-Assad ad un alto funzionario del Dipartimento di Stato USA di non inviare ulteriori armi a Hezbollah, gli Stati Uniti riferivano di avere informazioni sul fatto che stesse accadendo esattamente il contrario.

Nel nome della lotta al terrorismo tutto è lecito

Il mondo si trovava allora nel pieno della lotta al terrorismo post 11 settembre, dove la condizione di “guerra permanente” funzionale al contenimento della minaccia terroristica di al-Qaeda legittima interventi bellicosi, seppur circoscritti, in contesti quali l’Afghanistan e l’Iraq, con la conseguenza di causare un altissimo numero di vittime anche tra la popolazione civile. Il presidente Obama, che l’anno precedente alle rivelazioni di WikiLeaks era stato insignito del premio Nobel per la pace, sarà infatti il primo presidente a formalizzare la “guerra al terrorismo” come nessuno dei suoi predecessori aveva fatto.

Dei 251.287 cablogrammi resi noti (inizialmente ne vennero pubblicati qualche centinaio, il resto fu diffuso nei mesi seguenti), 11 mila erano classificati come “segreti”, 9 mila come “noforn” (una dicitura che indica documenti troppo delicati per essere condivisi con i governi stranieri) e 4 mila erano identificati con entrambe le diciture. Nessuno era “top secret” o classificato. Quotidiani del calibro New York Times (tra i primi a rendere nota la vicenda) decidono perciò di adottare un atteggiamento alquanto prudente nel trattare la vicenda: la stessa prestigiosa testata riferisce infatti di pubblicare il materiale diffuso previa consultazione con il Dipartimento di Stato statunitense e omettendo passaggi delicati, la cui diffusione potrebbe “compromettere gli sforzi dell’intelligence americana”.

Nei mesi precedenti WikiLeaks aveva già messo parecchio in difficoltà l’amministrazione americana con la diffusione, a luglio, di oltre 90 mila file militari riguardanti il completo fallimento della guerra in Afghanistan e della strategia del presidente Obama. I documenti avevano rivelato anche come alcune forze speciali fossero incaricate di stanare i leader talebani per ucciderli senza processo e come si contasse tra le vittime un altissimo numero di civili. Nell’aprile dello stesso anno, inoltre, grazie ai file trafugati da Chelsea Manning e consegnati a WikiLeaks, il sito aveva diffuso il video di 17 minuti divenuto noto col titolo di Collateral Murder il quale aveva profondamente scosso l’opinione pubblica. Il video, che risaliva al 2007, era stato registrato a bordo di uno dei due elicotteri Apache americani che sorvolavano Baghdad in cerca di ribelli. Dopo aver individuato un gruppo di una dozzina di individui, grossolanamente scambiati per un gruppo armato di combattenti, i militari aprirono il fuoco, uccidendo gli uomini e ferendo gravemente due bambini. Nell’attacco moriranno anche un fotografo di Reuters, Namir Noor-Eldeen, di 22 anni, e il suo autista, Saeed Chmagh. Le risate dei militari fanno da sottofondo alla crudezza delle immagini, mentre il tutto si svolge in un’inquietante atmosfera da videogame. A causare ulteriore imbarazzo all’amministrazione americana vi era il fatto che il video era stato diffuso poco dopo che l’esercito USA aveva ammesso il tentativo di insabbiamento dell’omicidio, da parte delle proprie forze speciali, di tre donne afghane, avvenuto nel febbraio 2010, dopo che erano stati estratti i proiettili dai loro corpi.

“Democrazia senza trasparenza è una parola vuota” aveva dichiarato nel 2010 Kristin Hrafnsson, oggi caporedattore di WikiLeaks. Ma dell’immenso sforzo di mettere in atto questo principio oggi non rimane che la vita fatta a pezzi dell’uomo che ha agito in nome di questo scopo. Julian Assange, infatti, dopo anni trascorsi nel tentativo di sfuggire all’arresto degli Stati Uniti e ai tentativi dei servizi segreti di porre fine alla sua vita, si trova ora nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, nel Regno Unito, in attesa di essere estradato negli USA. Qui, il suo sforzo per la trasparenza gli varrà, con tutta probabilità, 175 anni di carcere. [di Valeria Casolaro]

Giorgio Ferrari per “Avvenire” il 22 ottobre 2022.

Julian Assange ha un handicap mediatico fin troppo evidente: non è simpatico, non buca lo schermo. In compenso senza di lui, senza la piattaforma WikiLeaks, senza la mole immane di documenti che quel blindatissimo vaso di Pandora contiene, tutti noi sapremmo molte meno cose sui governi, sulle banche, sugli apparati militari e soprattutto su quel mondo sotterraneo dove si consumano misfatti, ricatti, scambi e malversazioni all'ombra di un perbenismo ufficiale che non risparmia quasi nessuna nazione.

Senza WikiLeaks non sapremmo nulla della repressione cinese in Tibet, delle esecuzioni sommarie in Kenya, di certi maneggi americani in Afghanistan e in Iraq e soprattutto difficilmente avremmo conosciuto i segreti inconfessabili della prigione di Guantanamo. 

Il merito - o il demerito secondo molti e secondo le varie Corti che lo hanno messo sotto accusa - è principalmente dovuto a questo cinquantunenne australiano, padre putativo del giornalismo investigativo contemporaneo (quello storico ha più di un secolo e il new-journalism, quello di Gay Talese, Norman Mailer e Tom Wolfe almeno cinquant' anni) e vera e propria spina nel fianco dei potenti.

Anarcoide, sovversivo, senza alcuna disciplina, Assange - autentico mad dog dell'informazione - ha accumulato in vent' anni nell'immenso antro digitale del suo archivio segreto una mole immane di informazioni riservate, che di volta in volta ha offerto senza fini di lucro alla stampa internazionale. 

Dodici anni fa Assange viene arrestato a Londra su mandato di cattura emesso dalla Svezia, in base a un'imputazione di stupro, ma è rilasciato pochi giorni più tardi. Troverà rifugio due anni dopo nell'ambasciata ecuadoregna, mentre anche gli Stati Uniti lo reclamano: la sua attività e soprattutto la diffusione di 251mila documenti diplomatici del Dipartimento di Stato gli procurano una richiesta di estradizione per il reato di spionaggio.

Per sette anni Assange resterà domiciliato fra quelle mura con lo status di rifugiato politico concessogli dal presidente Rafael Correa. Se pensassimo che Julian Assange sia l'emblema della persecuzione nei confronti della libera stampa dovremmo tuttavia soffermarci non tanto sulla sua personale situazione (esecrabile sul piano dei diritti civili quella sorta di lungo arresto domiciliare sotto l'ala dell'Ecuador a Londra), quanto sull'uso che delle informazioni riservate di cui è venuto via via in possesso si è fatto. 

Già nel 2013 si segnalava come collaboratore assiduo di RussiaToday, l'emittente internazionale strettamente legata a Vladimir Putin, utilizzando la quale nel 2016 diede il via a una campagna denigratoria nei confronti di Hillary Clinton (che di per sé aveva vari scheletri nell'armadio e un'imbarazzante utilizzo della sua mail privata) che in parte spianò la strada al trionfo di Donald Trump, assai più gradito al Cremlino della concorrente democratica.

Il che gli alienò molte delle simpatie internazionali: il giornalista ribelle che dialogava con Noam Chomsky e Varufakis e portava in video l'inafferrabile sceicco Nasrallah, il capo degli hezbollah libanesi, stava trasformandosi in un ambiguo strumento delle interferenze russe nelle elezioni dei Paesi democratici. 

Alla fine è stato Boris Johnson a consegnarlo definitivamente in mani americane, controfirmando il decreto di estradizione a Washington. Secondo l'Espionage Act, una volta estradato in America l'imputazione di spionaggio potrebbe costargli 175 anni di carcere, senza escludere la possibilità dell'esecuzione capitale.

Come poco sopra si è detto, Julian Assange non è un mostro di simpatia e nemmeno di trasparenza. Ma il calderone che ha scoperchiato - la relazione e la definizione fra libertà di stampa e poteri, fra informazione e rispetto delle regole - riguarda non più soltanto lui e nemmeno le centinaia, a volte migliaia di giornalisti rinchiusi nelle buie celle dagli autocrati di tutto il mondo, ma tutti noi. Per questo a vario titolo gli si vuole chiudere la bocca. Perché informare è cosa diversa dall'ossequio ai poteri. In questo, con i suoi eccessi e le sue personali derive, Assange è un autentico eroe dei nostri tempi.

Il caso del giornalista. “Assange torturato dall’occidente libero e civile”, la protesta solitaria per il giornalista perseguitato dagli USA. Susanna Schimperna su Il Riformista il 20 Agosto 2022.

Per il terzo sabato consecutivo chi si trovi a passare in piazza Verdi, Como, vedrà una ragazza dai lunghi capelli neri e una tuta arancione seduta per terra, in un piccolo rettangolo delimitato da strisce di scotch bianco. Vicino a sé, come in una piccola stanza, ha tutto quello che le occorre: quadernone e penna per gli appunti, cellulare, un thermos. E poi un cartellone con la foto di Julian Assange e la scritta “Assange libero. Il giornalismo non è un crimine”.

Lei si chiama Lorena Corrias, lo spazio che occupa è ricalcato su quello in cui è costretto a vivere Assange nella prigione di Belmarsh nel Regno Unito (per violazione dei termini della libertà su cauzione conseguente alle accuse di stupro poi archiviate e per la richiesta di estradizione fatta in seguito dagli Stati Uniti), la tuta che indossa è la divisa dei prigionieri di Guantanamo. Perché è guardando il video che Assange diffuse su Guantanamo, che Lorena si è, per usare la sua stessa espressione, «svegliata dallo stato di sonno profondo in cui troppi di noi si trovano», e ha cominciato a impegnarsi per una causa che riteneva e ritiene importantissima – la liberazione del giornalista –, ben consapevole che non potrà fermarsi qui, che la vicenda coinvolge temi come il sistema carcerario e il carcere stesso come istituzione, la libertà di espressione, il diritto all’integrità personale, gli abusi del potere e dei suoi emissari, e quindi, non ultimo, il tema della nonviolenza. La protesta che Corrias sta portando avanti rientra infatti in una delle più tradizionali forme di lotta nonviolenta. Anche se lei non ne è del tutto consapevole.

Il tuo sit in pacifico a scadenza fissa, il tuo testimoniare col tuo corpo un’ingiustizia valendoti di semplici ma suggestivi elementi come la divisa dei carcerati di Guantanamo e il disegno della cella angusta di Assange avrebbero ottenuto il plauso dei grandi della nonviolenza.

Di cui io, e me ne dispiace, so poco o nulla. Potrei dire di essere una nonviolenta inconsapevole, istintiva. Ma molto appassionata. E mi riprometto di studiarli, questi grandi. In un mondo come il nostro, il loro insegnamento è un’ottima guida.

Ti sei ispirata a qualcuno?

A una ragazza di Berlino con cui sono tuttora in contatto, Raja Valeska, che scendeva in strada ogni giorno per protestare contro la detenzione di Assange.

Chi è Assange per te e quali aspetti di lui e di quello che ha fatto ti hanno colpito di più, ti hanno… svegliato dal sonno profondo?

Tutto è nato guardando una puntata di «Presa diretta», il programma di Riccardo Iacona, che era dedicata a lui. Sono rimasta sconvolta dallo scoprire tutto quello che gli era stato fatto, a partire dalle accuse di stupro e da quanti ancora oggi pensino che sia davvero uno stupratore. Mi ha colpito il suo essere riuscito a tradurre in realtà un progetto che sembrava impossibile, da pazzi: svelare il marcio e le ingiustizie, dare voce a chi non ce l’ha. Lui non si è limitato a declamare dei principii sacrosanti ma che tutti ripetono solo per farsi belli con le parole. Ha documentato, mostrato. Nel video girato il 12 luglio 2007 e che diffuse un paio d’anni dopo grazie all’ex militare Chelsea Manning, «Collateral Murder», si vedono soldati americani che da un aereo si divertono a sparare a civili per le strade di Baghdad, divertendosi come se stessero giocando con la playstation mentre i loro proiettili da 30 mm. uccidono, lasciano la gente urlante per terra. E poi la lista dei detenuti di Guantanamo. Persone che stanno lì perché hanno ricevuto una chiamata al cellulare da un terrorista o hanno lo stesso nome di un terrorista. Persone che anche se riconosciute del tutto estranee ai fatti loro imputati continuano a essere chiuse in carcere per mesi e anni. Che vengono torturate. C’è una scena in cui si vedono questi poveretti all’aperto, inginocchiati e legati, con occhiali tipo da saldatore neri, la mascherina, sotto il sole cocente. E poi il waterboarding, pratica orrenda: il prigioniero viene legato a una tavola inclinata con la testa in basso e le gambe in alto, e portato in mare oppure colpito con secchiate d’acqua in modo che abbia la sensazione di annegare. Mi si è aperto un mondo. Non possiamo più fare finta di non sapere. Io dopo l’università (Scienze del Turismo) avevo letto poco, da quel momento ho cominciato a leggere, documentarmi, approfondire.

Probabilmente è dopo la diffusione di «Collateral Murder» che sono iniziati i veri guai per Assange… i tempi coincidono.

Assolutamente sì. Prima era considerato come una rock star, inseguito, richiesto ovunque, poi di colpo è diventato un criminale, uno stupratore. È stata attuta una campagna diffamatoria e adesso che degli stupri è risultato innocente la stampa è in silenzio, imbarazzata. L’hanno condannato a 175 anni di carcere, e se lo estraderanno in America non vedrà mai più la sua famiglia e dovrà decidere da chi ricevere una sola telefonata al mese di 30 minuti, se dalle persone care o dal suo avvocato.

Così tu diventi un’attivista. Cerchi gruppi a cui associarti, trovi il Comitato per la Liberazione di Assange Italia e Free Assange Italia. Lanciate una raccolta fondi, portate la questione in varie città italiane, mettete cartelloni. Però il 6 agosto, primo giorno di sit in a Como, scendi in piazza da sola…

In realtà mi accompagna in macchina mia madre, insieme a me in questa battaglia, e una mia amica, conosciuta a un’altra manifestazione. Prendo col metro le misure per terra, disegno un rettangolo di 2 m. x 3 con lo scotch da imbianchino e mi ci piazzo dentro. Ho con me molti volantini. Ci sono cartelli che invitano a firmare la petizione, e due cartelli a seguire su cui sopra ho scritto: “Io sono certa che le nostre singole azioni possano fare la differenza, e voi? Volete stare a guardare in silenzio questo uomo innocente mentre lo uccidono lentamente e lo torturano continuamente?”. Firmano non più di cinque persone.

Ma il sabato successivo, 13 agosto, va meglio?

Sì, forse perché con me c’erano anche altri tre ragazzi, del comitato di Milano, venuti apposta per distribuire volantini. Allora i passanti si sono sentiti meno… straniti. Io sono sempre da sola nella mia finta cella, ma vedere altre persone intorno ha fatto la differenza. Una persona addirittura mi ha detto «grazie per quello che fai», e abbiamo raccolto venti firme.

Cosa ti auguri che accada oggi? Cento firme, magari?

No, come Assange vorrei qualcosa di apparentemente impossibile: la sua liberazione.

Quanto andrai avanti?

Naturalmente ho dovuto chiedere i permessi per occupazione di suolo pubblico, e li ho chiesti fino al 25 marzo. Scaramanticamente. Spero che per allora non ci sia più bisogno di sit in.

Con i gruppi a cui appartieni avete in mente altre iniziative?

Stiamo organizzando la “24 ore per Assange” che si svolgerà il 15 ottobre. Un evento a livello planetario dove chi vuole può avere a disposizione 5 minuti per cantare, parlare, fare un flashmob. Tra gli organizzatori ci sono Olivier Turquet e Patrick Boylan, e al momento ancora raccogliamo proposte. Prima, però, un’iniziativa anche questa non solo italiana: l’8 ottobre circonderemo il parlamento inglese e il parlamenti di Washington DC, Ottawa, Canberra in Australia, Wellington in Nuova Zelanda. Gli stati interessati. Hanno già aderito 1520 persone, per la manifestazione a Londra.

Ti sei riproposta di portare ogni sabato a piazza Verdi qualcosa di nuovo. Che sarà questa volta?

Con Raja Valeska e un ragazzo australiano diremo una frase divisa in tre parti e ciascuno scriverà la sua parte su un cartello e la pronuncerà, unendo tutto insieme per far vedere che la protesta è a livello mondiale. In questo la tecnologia per fortuna ci aiuta.

Una curiosità sulla tua vita: che lavoro fai e come stanno prendendo il tuo impegno le persone intorno?

Lavoro in una concessionaria di auto. Mi vedono come una tipa strana che fa cose strane, e c’è un collega che è certo che Assange sia “il cattivo”. Però il mio titolare mi appoggia. Dice che apprezza molto che io impieghi il mio tempo libero dedicandomi a cose in cui credo fermamente. Susanna Schimperna

(ANSA il 16 agosto 2022) - Gli avvocati americani del fondatore di Wikileaks, Julian Assange, hanno annunciato oggi una causa contro la Cia e il suo ex capo Mike Pompeo, accusandoli di aver registrato le loro conversazioni e copiato i contenuti dei loro telefoni e pc. I legali e due giornalisti che si sono uniti all'azione legale, tutti americani, affermano che l'agenzia di intelligence ha violato il loro diritto costituzionale alla protezione delle conversazioni private, in questo caso con Assange, che è australiano.

A loro avviso, la Cia ha lavorato con una società di sicurezza ingaggiata dall'ambasciata dell'Equador a Londra, dove Assange aveva trovato rifugio, per spiare il fondatore di Wikileaks, i suoi difensori, giornalisti e altre persone che incontrava. Come noto, Assange rischia l'estradizione dalla Gran Bretagna agli Usa, dove è accusato di aver pubblicato nel 2010 cable diplomatici classificati, in particolare sulla guerra in Afghanistan e in Irak.

Caterina Soffici per “La Stampa” il 23 giugno 2022.

 Se questo è un uomo, noi non possiamo dimenticarci di Julian Assange. Noi che abbiamo una certa tendenza a distrarci. Sì, lo sappiamo. 

Ci sono tanti altri problemi. C'è stata la pandemia, poi la guerra, ora la crisi energetica, la fame e la siccità. E arriveranno anche le cavallette (anzi, ci sono già, in Sardegna).

Ma noi occidentali, che ci siamo spesi con nobili parole in difesa dei valori e dei diritti umani minacciati in Ucraina, che chiediamo la verità per Giulio Regeni e la libertà per Patrick Zaki, che abbiamo denunciato la morte di Anna Politkovskaja e che temiamo per la vita del grande oppositore di Putin Alexei Navalny, che invochiamo la libertà di stampa in Turchia e in Cina e in tutti i paesi dove è negata, che condanniamo la censura e i cattivi che incarcerano i giornalisti, non possiamo girarci dall'altra parte se viene concessa l'estradizione negli Stati Uniti di un uomo - un giornalista per l'appunto - reo di aver fatto il suo mestiere, cioè di aver pubblicato notizie vere.

Siamo davvero distratti a tal punto? Cosa ha fatto Julian Assange? Breve riassunto per sommi capi, per i più distratti: Wikileaks, il sito da lui diretto e fondato con un gruppo di giornalisti investigativi e attivisti, nel 2010 ha pubblicato i cable segreti della diplomazia americana sui reati compiuti dai militari in Iraq e Afghanistan. Sono 700mila file che dimostrano le atrocità, le bugie e le torture. 

E sbugiardano il governo Bush sulle verità distorte raccontate su quelle guerre, le falsità usate per giustificare la guerra in Iraq. Assange non è un hacker, non ha rubato quelle notizie, ha semplicemente deciso di rendere pubbliche informazioni molto scomode che gli sono state passate da fonti anonime. 

Decidere di pubblicarle, ha detto era un «dovere per la storia e per i cittadini dei paesi in questione», un dovere più importante della sua sicurezza. 

Non è più un uomo libero dal 7 dicembre 2010, quando si è presentato spontaneamente a Scotland Yard per un mandato di cattura internazionale per non aver indossato un preservativo. 

Un anno e mezzo di arresti domiciliari, poi 7 anni da rifugiato politico (in realtà di carcere senza neppure l'ora d'aria concessa ai peggiori criminali) in una stanza dell'Ambasciata dell'Ecuador a Londra. Asilo politico poi revocato per pressioni facilmente intuibili.

Oggi Julian Assange è rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarch, alle porte di Londra. Un luogo lugubre - non a caso lo chiamano la Guantanamo inglese - dove di sbattono i terroristi e gli omicidi. 

Nel frattempo, ha sposato Stella Moris, ex avvocato della sua difesa e attivista per i diritti umani, e da lei ha avuto due figli. Il tentativo di dare un senso a una vita che gli è stata tolta senza un reale processo, la volontà di aggrapparsi a un barlume di speranza nel futuro. Non facile, ma l'ha fatto. Dicono che è sempre stato una testa dura, un irregolare, un nomade che girava il mondo con lo zaino in spalla e il computer.

Anche la madre, in Australia, aveva capito che era un ragazzino diverso e aveva scelto per lui un percorso di studi non accademico. Ha ricevuto un'istruzione poco formale e poi ha all'università ha frequentato corsi di fisica e matematica. Genietto dei computer e della rete e della criptografia, è uno che non si piega, dicono gli attivisti che lo sostengono. Ma adesso è arrivato l'ultimo capitolo. 

Le condizioni di salute di Assange sono precarie. Ha 51 anni, è dietro le sbarre da quando ne ha 39, ha già avuto un ictus. Lo psichiatra Michael Kopelman, professore del King' s College, che ha fatto le perizie parla di perdita di sonno, dimagrimento, difficoltà a concentrarsi, uno stato di agitazione continua, pensieri di suicidio e di autolesionismo. Si tira pugni in testa, batte la testa contro le pareti e nel suo armadietto, nascosta tra le mutande, è stata trovata una lametta da rasoio.

Quando la settimana scorsa Priti Patel, la orribile ministra dell'Interno del già pessimo governo Johnson, una donna visceralmente razzista e tendenzialmente fascista, ha firmato l'ordine di estradizione, Assange ha dichiarato che si suiciderà piuttosto che passare i prossimi 175 anni in un carcere americano. 

Chi lo conosce dice che troverà il modo di farlo. Julian Assange non è un personaggio simpatico. Nel senso che non genera quella istintiva onda empatica come capita ad altri perseguitati dal potere. Per gli americani è un criminale. Per noi cosa è? Fare giornalismo è un crimine? È un atto sovversivo? È un atto terroristico? Alcuni sostengono che negli Stati Uniti avrà un processo equo. Ma processarlo per cosa? Non esiste in Usa una legge che vieta la pubblicazione di file segreti (lo dice il Primo Emendamento).

E inoltre lui è un cittadino australiano, quindi non c'è neppure un caso di alto tradimento. Alice Walker, vincitrice del Premio Pulitzer (da notare che i Pulitzer in America li vincono sempre giornalisti che pubblicano notizie scomode) ha definito un «abominio voler imprigionare per 175 anni una persona che ha pubblicato informazioni vere nell'interesse pubblico».

I suoi sostenitori manifestano e indossano magliette con una sua frase: «Se le guerre possono essere avviate dalle bugie, possono essere fermate dalla verità». Censurare e imprigionare lo fanno le autocrazie. Lo fanno i dittatori. Le democrazie non dovrebbero farlo e dovrebbero impedire che altri lo facciano 

Julian Assange estradato negli Usa. Verrà processato per spionaggio. Come reagisce la moglie Stella. Il Tempo il 17 giugno 2022

Il governo britannico ha approvato l’estradizione negli Stati Uniti del fondatore di WikiLeaks Julian Assange per affrontare le accuse di spionaggio. La ministra dell’Interno Priti Patel ha firmato l’ordine di estradizione. La firma è arrivata dopo la sentenza di un tribunale britannico che ha dato il via libera all’estradizione. Assange ha 14 giorni per presentare ricorso.

Il ministero dell’Interno ha affermato che «i tribunali del Regno Unito non hanno ritenuto che sarebbe oppressivo, ingiusto o un abuso processuale estradare Assange. Né hanno ritenuto che l’estradizione sarebbe incompatibile con i suoi diritti umani, compreso il suo diritto a un processo equo e alla libertà di espressione e che mentre si trova negli Stati Uniti sarà trattato in modo appropriato, anche in relazione alla sua salute».

Gli Stati Uniti hanno chiesto alle autorità britanniche di estradare Assange in modo che possa essere processato per 17 accuse di spionaggio e un’accusa di uso improprio del computer. I pubblici ministeri statunitensi affermano che Assange ha aiutato illegalmente l’analista dell’intelligence dell’esercito americano Chelsea Manning a rubare documenti diplomatici riservati e file militari che WikiLeaks ha successivamente pubblicato. Gli avvocati di Assange affermano che potrebbe rischiare fino a 175 anni di carcere se fosse condannato negli Stati Uniti, anche se le autorità statunitensi ritengono che la condanna sarebbe inferiore.

La decisione del governo britannico di approvare l’estradizione negli Stati Uniti di Julian Assange «non è la fine del cammino». Lo ha dichiarato in conferenza stampa la moglie del fondatore di Wikileaks, Stella Assange, che ha promesso di «lottare fino alla fine». Stella Assange ha assicurato che utilizzerà «ogni ora del giorno per lottare perché sia fatta giustizia». I legali dell’attivista australiano hanno 14 giorni per presentare appello.

L’estradizione di Assange e la battaglia della moglie Stella Moris: «Perseguitano Julian ma questa non è la fine». Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 17 Giugno 2022.

L’accusa dei familiari dopo la notizia che il fondatore di WikiLeaks potrebbe essere consegnato agli Stati Uniti: da Washington rassicurazioni farsa

Ha l’espressione sconvolta e la voce rotta dall’emozione Stella Moris, la moglie di Julian Assange: appena poco più di un’ora dopo l’annuncio delle decisione del governo di Londra sull’estradizione del fondatore di WikiLeaks, lei si presenta di fonte ai giornalisti della capitale britannica, affiancata dall’avvocatessa Jennifer Robinson.

Anche Stella era la legale di Assange e i due intrecciarono una relazione nei lunghi mesi in cui lui era rifugiato nel’ambasciata ecuadoriana a Londra: una relazione da cui sono nati due figli e che è culminata nelle nozze lo scorso marzo, nonostante lui sia rinchiuso da tre anni nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh. «Questa non è la fine della storia — annuncia Stella — ci batteremo, useremo ogni via legale, passerò ogni ora da sveglia combattendo finché Julian non sarà libero, finché giustizia non sarà fatta».

L’avvocatessa Jennifer Robinson spiega che non solo continueranno a fare appello, nei tribunali britannici e di fonte alla Corte europea di giustizia, ma chiederanno all’amministrazione Biden di lasciar cadere il caso e al governo australiano di intervenire (Assange è infatti cittadino di quel Paese).

Stella denuncia il fatto che la decisione del governo britannico si è fondata sulle assicurazioni, fornite dagli Stati Uniti sul trattamento di Assange, definite «una farsa» da Amnesty International: e che la loro battaglia si baserà sulle rivelazioni successive relative ai tentativi della Cia di assassinare Assange.

«La nostra determinazione è raddoppiata di fronte a una decisione che è una farsa — dice Stella —. Non ho parole per esprimere cosa sia vedere il processo britannico usato in modo da prolungare le sofferenze di Julian. E’ la persecuzione da parte di una potenza straniera che cerca vendetta, una potenza straniera che ha commesso crimini che Julian ha portato alla luce. Lui non ha fatto nulla di male, ha fatto ciò che ogni giornalista che si rispetti dovrebbe fare».

La moglie si aspetta che il nuovo governo australiano a guida laburista intervenga: «Questo è un caso politico — afferma — che deve essere risolto al più alto livello. Smettiamo di far finta, non c’è nessuna legalità , c’è solo illegalità da parte di attori potenti».

Ma c’è la speranza che il caso, lanciato dall’amministrazione Trump, sia lasciato cadere da Biden: «Non è una amministrazione monolitica — commenta Stella — c’è chi comprende le implicazioni per la libertà di stampa». Infatti, secondo la moglie, «dobbiamo smettere di trattare il suo come un caso sui generis: riguarda la libertà di stampa, non solo Assange, ma tutti i giornalisti».

Ed è un caso che ha per Stella immense ripercussioni private: «Non vedo il punto di rivelarlo ai nostri figli — confessa — quando andiamo a visitarlo cerchiamo di trarne il massimo, ci godiamo quel tempo». Ma i timori sono forti: «La sua salute si deteriora di giorno in giorno. Julian vuole vivere, con me e i suoi figli: ma se venisse estradato, le condizioni in cui si troverebbe sarebbero così opprimenti che lo spingerebbero al suicidio. Non è solo una questione di salute mentale, stanno portando una persona al suicidio».

Vincenzo Vita per blitzquotidiano.it il 31 maggio 2022.

Milano non vuole Assange e diviene periferia degli Stati Uniti: Milàn l’è un gran Milàn, dice un antico motto: a significare la natura di (presunta) capitale morale dell’Italia. E il sindaco Sala è uno dei più blasonati primi cittadini del paese, al punto che si vocifera da tempo di un suo futuro ruolo politico sulla scena nazionale. 

Tuttavia, quello che è successo nel consiglio comunale meneghino provoca l’indignazione di Vincenzo Vita, che la esprime in questo articolo, pubblicato anche sul Manifesto. Nel consiglio comunale di Milano, la maggioranza ha respinto una ragionevolissima mozione del gruppo di Europa verde in cui si proponeva di conferire la cittadinanza onoraria a Julian Assange è abnorme.

Del resto, Milano ha fortissime tradizioni democratiche e la sede del comune è sempre stata un riferimento per le lotte di libertà. Dalla Resistenza in poi. E ora?

Invece no. La proposta è stata stravolta dalla maggioranza, attraverso due emendamenti del partito democratico. Un paio di ritocchi d’autore, volti ad annullare il senso del testo. Da una parte si cancellava il punto simbolicamente importante della cittadinanza onoraria; dall’altra, si toglieva l’accenno qualificante alla necessità di contrastare l’estradizione del giornalista fondatore di WikiLeaks negli Stati Uniti. E là lo attende, com’è noto, una condanna a 175 anni di carcere in base ad una legge del 1917 sullo spionaggio.

Ma tutto questo non ha toccato, verosimilmente, alcuna corda degli esponenti del Pd, nato con tutt’altro spirito e adesso in aperta concorrenza con la destra nei richiami d’ordine. Naturalmente, la parte di popolazione orientata verso la sponda conservatrice o reazionaria rimarrà lì e non sposterà simpatie (e voti) verso una fotocopia improvvisata. 

Non a caso Lega e Fratelli d’Italia hanno assistito con piacere alla divisione dell’area di sostegno del sindaco. Peraltro, i due consiglieri della lista Sala hanno appoggiato la mozione della verde Francesca Cucchiara, non accettando le linee prevalenti.

Le motivazioni addotte appaiono gravi e persino assurde. Si è sostenuto che non è giusto premiare chi ha divulgato documenti segretati. Attenzione. Qui si entra in una zona ad alto rischio autoritario. Il ruolo del giornalismo di inchiesta è proprio quello di tutelare il diritto alla conoscenza delle cittadine e dei cittadini, svelando i misfatti coperti dalla strategia dell’occultamento. 

Anzi. Rompere il sipario che nasconde i misfatti delle guerre – ecco la colpa di WikiLeaks– è un obbligo deontologico, non un atto eversivo. 

Tant’è vero che quando a Milano si manifestava copiosamente contro la guerra del Vietnam, il primo emendamento della costituzione di Washington fece scudo contro il tentativo di bloccare la pubblicazione di ben 7.000 pagine dei cosiddetti Pentagon papers, resi noti mentre la guerra era in corso.

Non ci fu verso: la libertà di informazione prevaleva su ogni considerazione e i tentativi repressivi del segretario della difesa Robert McNamara furono respinti. I redattori del Washington Post e del New York Times non vennero perseguiti. E neppure lo fu l’analista che passò il materiale, Daniel Ellsberg. 

Ecco il punto. Gli appelli promossi al riguardo dal senatore del Pd Gianni Marilotti e dal premio Nobel argentino Pérez Esquivel hanno avuto centinaia di adesioni, chiedendo proprio di bloccare l’estradizione e non accettando il ricorso improprio e strumentale all’Espionage Act varato durante la prima guerra mondiale.

L’accusa contro Assange sostenuta nel tribunale speciale di Londra e premessa per l’estradizione si regge su una non-verità. Assange non sarebbe un giornalista. Peccato, però, che così sia considerato nella sua patria australiana, governata ora da Anthony Albanese ben schierato sull’argomento. 

La gravità della vicenda accaduta a palazzo Marino va letta in tale contesto. Mentre cresce, finalmente, l’attenzione internazionale su di un caso così doloroso (la commissaria per i diritti umani del consiglio d’Europa Dunja Mijatovic si è espressa con chiarezza), un pronunciamento negativo di una significativa assemblea elettiva è assai sgradevole e foriero di conseguenze. 

Come mai il partito democratico, storicamente attivo sui temi dei diritti, si è collocato sugli spalti dei forcaioli? Si mette contro non solo Sinistra italiana, i Verdi e Rifondazione comunista, bensì pure la Federazione della stampa e l’omologa organizzazione internazionale.

Si tratta di un capitolo da chiudere subito, con una pronta correzione operosa. A meno che i documenti ufficiali sulla materia dell’informazione siano già stati buttati in cantina. Perseverare sarebbe diabolico.

WIKILEAKS. Tutte le tappe del processo su Julian Assange. Il Domani il 22 aprile 2022 • 13:03

Il 20 aprile i giudici di Londra hanno approvato l’estradizione del giornalista australiano negli Usa dove rischia 175 anni di carcere. Fondatore di Wikileaks, il celebre whistle-blower è accusato dagli Usa di aver messo a repentaglio la sicurezza nazionale pubblicando oltre 500mila documenti segreti

La Westminster Magistrates’ Court di Londra lo scorso 20 aprile ha approvato formalmente l’estradizione di Julian Assange, il whistle-blower australiano, negli Stati Uniti per accuse di spionaggio. La decisione finale spetta alla ministra dell’Interno britannica, Priti Patel, ma il fondatore di Wikileaks ha ancora a disposizione le vie legali: gli avvocati della difesa possono presentare osservazioni alla ministra e ricorrere all’Alta corte entro quattro settimane. 

Sono 18 i capi di accusa a carico di Assange relativi alla pubblicazione di oltre 500mila documenti riservati riguardanti le operazioni degli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq e rischia una condanna di 175 anni. Da tre anni il fondatore di Wikileaks si trova nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh dopo essere stato per sette anni nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, che gli aveva garantito asilo politico. 

Il giornalista e attivista australiano ha fondato Wikileaks nel 2006 e, garantendo alle fonti la massima sicurezza, riesce a pubblicare sul sito dieci milioni di documenti con fuga di notizie, svelando segreti dei governi di tutto il mondo.

GLI INIZI E WIKILEAKS

Figlio di due produttori teatrali, Assange fin da piccolo ha girato il mondo con i genitori, sviluppando una sensibilità per temi sociali e politici e, a soli 16 anni, era in grado di scrivere programmi informatici. Si definisce un cypherpunk dalla vena libertaria, ossia un attivista che attraverso l’uso della crittografia informatica contribuisce a un cambiamento sociale e politico. Già con la sua attività di hackeraggio per il gruppo International Subversives inizia ad avere problemi con la giustizia e a 20 anni, nel 1991, viene accusato di essersi introdotto nel sistema informatico del Dipartimento della difesa Usa, ma torna il libero per buona condotta e dopo aver pagato una multa.

Nel 2006 fonda Wikileaks, un sito che entra in funzione l’anno successivo, insieme ad attivisti e giornalisti. È un archivio documentale online dove vengono pubblicati file sensibili riguardo a pratiche e attitudini non etiche di governi, personaggi politici, banche e multinazionali.

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Tra questi, i documenti sulla prigione di massima sicurezza di Guantanamo, svelando le condizioni dei detenuti e pubblicando il manuale per le guardie carcerarie. Sono poi stati rivelati documenti sulla durissima repressione cinese della rivolta tibetana, migliaia di mail di Hillary Clinton a ridosso delle elezioni presidenziali del 2016, 70mila documenti riservati sulle operazioni in Afghanistan e 400mila carte secretate sull’invasione dell’Iraq, con cui sono state rivelate le violenze dei militari statunitensi sui civili. Emergono poi i rapporti tra Iran e Pakistan a sostegno dei talebani e la copertura di condotte dei soldati statunitensi dagli apparati militari.

Inizia così la collaborazione tra Wikileaks e alcune tra le più grandi testate, come El Pais, il New York Times, il Guardian, lo Spiegel e Le Monde, per permettere l’elaborazione e la divulgazione dei documenti rivelati dall’archivio. 

Nel 2010, con la pubblicazione dei leak sulle attività militari statunitensi in Afghanistan e Iraq e la diffusione di 250mila cablogrammi diplomatici da cui emergono gli abusi perpetrati dai soldati statunitensi e le uccisioni dei civili. La fuga di notizie è stata permessa dall’ex militare Chelsea Manning, che invia 700mila documenti classificati. 

L’ASILO POLITICO E I PROCESSI

Nel mirino della giustizia statunitense e di molti altri paesi, nel 2010 Assange viene accusato dalla magistratura svedese di stupro, denunciato da due donne per alcuni fatti avvenuti nel 2010. La Svezia emette un mandato di cattura europeo e il giornalista, che si trovava a Londra, si consegna alla polizia e dichiara che si trattava di rapporti consenzienti. Agli occhi di attivisti e difensori della libertà di stampa il mandato di arresto internazionale della Svezia è visto come un pretesto per estradare Assange negli Stati Uniti.

Assange teme che la Svezia possa estradarlo negli Stati Uniti e nel 2012 chiede asilo politico all’ambasciata dell’Ecuador nel Regno Unito. L’ex presidente ecuadoriano socialista Rafael Correa concede lo status di rifugiato per motivi politici ma non riesce a permettere il trasferimento del giornalista – che nel frattempo continua la sua attività – a Quito, per l’impedimento da parte delle autorità britanniche. La sua permanenza in ambasciata è stata considerata dalle Nazioni Unite come una detenzione arbitraria e illegale.

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Le accuse di molestie sessuali sono state archiviate per mancanza di prove, ma negli Stati Uniti il giornalista è accusato dal 2019 di aver violato l’Espionage Act e di aver messo a repentaglio la sicurezza nazionale pubblicando oltre 500mila documenti segreti.

Il 24 febbraio 2020 inizia l’esame della richiesta di estradizione statunitense da parte dei giudici londinesi. La difesa sostiene le motivazioni politiche della richiesta e in tutto il mondo iniziano le proteste per chiedere la liberazione del giornalista. Il 4 gennaio 2021, la giudice Vanessa Baraitser rigetta la richiesta per il rischio di suicidio, date le sue condizioni di salute psicologica causate dalla detenzione. 

Contro il rifiuto dell’estradizione, gli Stati Uniti presentano appello il 10 dicembre 2021 e l’Alta Corte di Londra ribalta la decisione, sostenendo che le garanzie fornite dal governo Usa sulle cure siano sufficienti. La difesa ricorre così alla Corte suprema che, però, non ha rilevato nessuna questione di diritto che possa riaprire il caso. FRANCESCA DE BENEDETTI

Alberto Simoni per “La Stampa” il 21 aprile 2022.  

L'America è più vicina, ma per Assange più che un sogno sarà un incubo se la ministra degli Interni britannica Priti Patel apporrà il timbro sulla sua estradizione dopo che ieri il Tribunale di Westminster Magistrates ha deciso che il 50enne fondatore di WikiLeaks può essere consegnato agli Stati Uniti.

Gli americani lo ricercano da oltre dieci anni, da quando nel 2010 Assange diffuse tramite il suo sito migliaia di documenti secretati e cablo diplomatici sulla guerra in Iraq e in Afghanistan grazie alla «talpa», un ex analista militare dell'Esercito Chelsea Manning.

Per questo è stata condannata nel 2013 a 35 anni di reclusione. Il 17 gennaio del 2017, pochi giorni prima di terminare il suo mandato, Barack Obama ha commutato la sentenza in sette anni. Ma partendo il conteggio degli anni di detenzione dal 2010, Manning è stata rilasciata.

Pubblicando il materiale sensibile, Assange ha messo a rischio la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi soldati e funzionari secondo gli americani. Per questo sarà processato in base all'Espionage Act. Sulla sua testa pendono 18 accuse e rischia 175 anni di carcere.

Assange ha ascoltato il verdetto collegato in video dalla prigione di Belmarsh a Londra dove è detenuto dal 2019 dopo aver trascorso oltre sette anni nell'ambasciata ecuadoregna a Londra - che gli aveva dato rifugio e asilo - nel tentativo di evitare l'arresto e l'estradizione in Svezia dove era accusato di molestie sessuali e stupro. Entrambe - una nel 2015, l'altra nel 2019 - sono state archiviate dalla procura di Stoccolma.

L'11 aprile del 2019 la polizia britannica ha arrestato Assange accusandolo di aver violato i termini della cauzione del 2012 per non essersi presentato allora dal giudice ed essersi invece rifugiato nell'ambasciata di Quito.

La sentenza di ieri è un passo decisivo, tuttavia la parola fine alla vicenda non è ancora scritta anche se da un punto di vista giuridico il 50enne australiano ha esaurito gli appelli.

Nel gennaio del 2021 un magistrato aveva dapprima sentenziato che Assange non poteva essere estradato poiché la detenzione negli Stati Uniti sarebbe stata «dannosa» per il suo «precario stato mentale». 

Decisione che era stata rovesciata nel dicembre scorso: la Corte suprema aveva motivato il via libera all'estradizione sostenendo la necessità di aver garanzie che Assange non sarebbe stato oggetto di «trattamenti amministrativi speciali» e «non sarebbe stato detenuto in un carcere di massima sicurezza prima e dopo il processo» americano. Quindi aveva rimandato il caso a una corte minore che ieri appunto si è espressa.

La ministra Priti Patel ha due mesi di tempo per decidere. Entro il 18 maggio, gli avvocati di Assange potranno fare appello direttamente a lei e solo dopo il suo pronunciamento chiamare in causa l'Alta Corte inglese. «Presenteremo al ministro nuovi sviluppi», ha promesso alla fine dell'udienza l'avvocato Mark Summers. 

Il Ministero dell'Interno britannico ha detto che Patel può bloccare l'estradizione solo in limitati casi e molto specifici: se il condannato rischia la pena di morte o il trasferimento in un Paese terzo che la applica; oppure se dovessero spuntare nuove accuse. In mancanza di queste condizioni, il ministro è obbligato a controfirmare la richiesta.

I difensori del fondatore di WikiLeaks hanno sempre tentato di presentare il suo caso come una questione legata alla libertà di stampa.

Secondo alcuni esperti la sua probabile estradizione negli States potrebbe sollevare questioni sul Primo Emendamento della Costituzione. Il segretario generale di Amnesty International, Agnés Callamard, ha detto che la consegna di Assange agli Stati Uniti «sarebbe devastante per la libertà di stampa e per il pubblico che ha il diritto di sapere cosa i governi fanno in loro nome». 

Jeremy Corbyn, ex leader laburista, è schierato con Assange: «Deve essere ringraziato per aver rivelato gli orrori della guerra». Quindi ha rivolto un monito a Patel: «Dovrà decidere se difendere il giornalismo e la democrazia o condannare un uomo all'ergastolo per aver detto la verità sulla guerra al terrorismo». Per Mosca invece il verdetto è «una farsa della giustizia britannica». A Washington invece bocche cucite.

Assange, la giustizia britannica dice sì all'estradizione. L'ultima parola al ministro dell'Interno. Orlando Sacchelli il 20 Aprile 2022 su Il Giornale.

La magistratura britannica ha formalmente autorizzato l'estradizione negli Usa del fondatore di Wikileaks, Julian Assange. Tra le accuse c'è quella di spionaggio e pubblicazione di documenti secretati. L'ultima parola spetta al ministro dell'Interno britannico.

Giorni contati per Julian Assange. Il fondatore di Wikileaks dovrebbe essere estradato negli Stati Uniti, dove deve essere processato per aver pubblicato alcuni documenti segreti sulle guerre in Iraq e Afghanistan. La Westminster Magistrates Court, a Londra, ha emesso l’ordine di estradizione tramite il giudice Paul Goldspring. La parola ora passa al ministro dell’Interno britannico, Priti Patel: sarà lei a dover approvare o meno l’estradizione chiesta dagli Usa. Per farlo ha due mesi di tempo.

La difesa di Assange ha fatto sapere che presenterà ricorso entro il termine previsto del 18 maggio. A metà marzo il massimo organo giudiziario del Regno Unito, la Corte Suprema, aveva dato il via libera all’estradizione respingendo il ricorso dei legali dell'australiano.

Cinquantuno anni, Assange era balzato alle cronache di tutto il mondo alla fine del novembre 2010, dopo che aveva pubblicato, su internet, una mole impressionante di documenti secretati (251mila), rubati da un ex militare americano, concernenti alcune condotte militari controverse, con gravi accuse di crimini di guerra nei confronti di alcuni soldati Usa. Tra i file diffusi in rete anche le identità di diverse persone sotto copertura in paesi a rischio. Assange ricevette premi e apprezzamenti per la sua "battaglia" in nome della trasparenza e della verità, ma al contempo fu perseguito dalla legge, non solo quella a stelle e strisce.

I primi guai in Svezia, dove nei suoi confronti spiccano un mandato di arresto in contumacia (in seguito recepito dall'Interpol) con l'accusa di stupro e molestie di due donne. Lui si difende asserendo che è tutta una macchinazione per estradarlo negli Usa. Il 7 dicembre 2010 l'australiano si reca negli uffici londinesi di Scotland Yard e viene arrestato. Nove giorni dopo esce su cauzione. L'Alta corte di Londra si pronuncia il 2 novembre e accoglie la richiesta di estradizione presentata dalla Svezia. La battaglia legale, durissima, va avanti. Quando nel giugno 2012 la Corte Suprema britannica rigetta il ricorso contro il via libera all'estradizione, Assange si rifugia nell'ambasciata dell'Ecuador a Londra, dove chiede asilo politico dichiarandosi perseguitato. Vi resta per quasi sette anni.

Assange finisce dietro le sbarre l'11 aprile 2019. Le autorità dell'Ecuador di fatto revocano l'asilo politico e fanno entrare nella propria sede diplomatica gli agenti di Sua Maestà, che portano via Assange pur essendo, questi, in possesso della cittadinanza ecuadoriana (che Quito stranamente considera sospesa). L'attivista australiano viene rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh (da alcuni definito la Guantanamo britannica) con l'accusa di aver violato i termini della libertà su cauzione (relative alle accuse, poi archiviate, della giustizia svedese) e per la richiesta di estradizione avanzata dagli Usa per cospirazione e spionaggio. La battaglia legale va avanti e, nel gennaio 2021, la giustizia britannica nega la richiesta di estradizione fatta dagli Usa appellandosi alle fragili condizioni mentali, che non avrebbero retto a un possibile isolamento all'interno di un carcere americano.

Negli Stati Uniti Assange rischia 175 anni di carcere. Il suo caso viene denunciato da diverse organizzazioni per i diritti umani come un grave attacco alla libertà di stampa.

Chi è Julian Assange. Andrea Muratore su Inside Over il 23 dicembre 2021. Eroe o traditore? “Gola profonda” degli apparati Usa o spia? Protagonista della storia contemporanea o criminale? Julian Assange è una figura su cui i giudizi si polarizzano agli estremi opposti dello spettro. Un uomo che ha contribuito, con la nascita di WikiLeaks, a portare il giornalismo investigativo in una nuova dimensione, mettendo alla berlina governi di tutto il mondo, Assange è diventato famoso dapprima per le rivelazioni scottanti contenute in diverse tranche di documenti pubblicati e in seguito per la sua tortuosa vicenda giudiziaria che pare essere arrivata, negli utlimi tempi, a una conclusione dopo che l’altolà imposto da una corte inglese alla sua estradizione negli Usa è stato ribaltato nel dicembre 2021.

Assange, attivista e cyberpunk

Nato nel 1971 nello Stato australiano del Queensland da una coppia che si era conosciuta durante una protesta contro la guerra in Vietnam, Assange si è formato fin da giovane nel pioneristico settore dell’informatica Anni Ottanta. Tra i primi, attivi “cyberpunk”, attivisti digitali intenti a utilizzare il web e i suoi strumenti per fini libertari e di informazione sociale, Assange fin dalla fine degli Anni Ottanta divenne membro di un gruppo di hacker noto come International Subversives (“Sovversivi internazionali”) e lungo tutti gli Anni Novanta ha, al contempo, vagato come uno dei primi “nomadi digitali” tra città e centri diversi del suo Paese, lavorato come sviluppatore di sofrware e attraversato una serie di vicissitudini giudiziarie legate alle sue attività di intrusione in server istituzionali australiani e stranieri. Promodiche a ciò che porterà avanti dopo la costituzione della piattaforma a cui è stato da sempre associato: WikiLeaks, nata nel 2006.

I colpi di WikiLeaks

Unendo le capacità di promozione e infiltrazione dell’hacker alle potenzialità libertarie offerte da Internet Assange costruì WikiLeaks e divenne suo caporedattore sul modello dell’enciclopedia online Wikipedia, come un portale comune ove far provenire rivelazioni sottobanco (leaks) di ogni provenienza.

Dopo diversi colpi legati, ad esempio, alla repressione cinese in Tibet e alle esecuzione extragiudiziarie della polizia in Paesi come il Kenya WikiLeaks si è fatta conoscere agli occhi di diversi whistleblower interessati, riuscendo nel 2010 a piazzare il suo colpo più grosso conquistando la fiducia di Bradley Manning, ex soldato statunitense (oggi donna con il nome di Chelsea) classe 1987 che ha trafugato decine di migliaia di documenti riservati mentre svolgeva il suo incarico di analista di intelligence durante le operazioni militari in Iraq. Assange è diventato noto al pubblico  quando WikiLeaks ha rilasciato una serie di informazioni fornite da Manning nel contesto del cosiddetto Cablegate. Nel novembre di quell’anno, WikiLeaks ha rilasciato più di 250.000 documenti diplomatici degli USA, datati tra il dicembre 1966 e il febbraio 2010. La mossa di WikiLeaks causò un vero e proprio tourbillon politico e mediatico sia in campo politico, portando tutte le testate del mondo ad interessarvisi. 

I media e Assange

Bill Keller, editorialista di lungo corso del New York Times, ha di recente scritto in un articolo ripreso da Internazionale di come sia entrato in contatto per la prima volta con il mondo WikiLeaks, ricordando come Assange, dal CableGate in avanti, avesse offerto complessivamente al quotidiano britannico Guardian mezzo milione di dispacci militari provenienti dai campi di battaglia dell’Afghanistan e dell’Iraq.

Alan Rusbridger, il direttore del Guardian, contattò Keller sottolineando, scrive Keller, che “forse ne sarebbero seguiti altri, tra cui un’enorme mole di cablogrammi diplomatici strettamente confidenziali. Il Guardian suggeriva, per amplificare l’impatto e al tempo stesso distribuire l’onere di maneggiare un simile tesoro, di invitare a questo banchetto esclusivo anche il New York Times. La fonte aveva accettato” e sia sul fronte britannico che su quello americano attente indagini contribuirono a sottolineare come la documentazione portata da Assange fosse vera e realistica.

“Con il tempo i giornalisti”, contatto dopo contatto, “si sono fatti l’idea che Assange era un tipo intelligente e istruito, con enormi competenze tecnologiche, ma anche arrogante, permaloso, paranoico e stranamente ingenuo”, ricorda Keller. “Assange disprezzava apertamente il governo statunitense e si sentiva braccato. In vista di un possibile disastro, si era tutelato distribuendo copie criptate del suo archivio segreto ai suoi sostenitori. Se Wikileaks fosse stato chiuso, o lui fosse stato arrestato, avrebbe divulgato la chiave per decifrare quelle informazioni”. Segno di una precauzione che lasciava intendere che anche in campo politico ci sarebbero state conseguenze. Le quali non avrebbero tardato a manifestarsi.

L'uomo nel mirino

La guerra politico-giudiziaria contro Assange non ha tardato a scatenarsi: sulla scia di accuse puntuali come una bomba a orologeria, a dicembre 2010 l’attivista è stato arrestato a Londra in seguito a un mandato di cattura internazionale per stupro e molestie emesso da un tribunale svedese e rilasciato qualche giorno più tardi.

Stati Uniti e Regno Unito sono stati in prima linea nel dare la caccia all’attivista informatico australiano, che nel settembre 2011 ha annunciato di avere reso consultabile in rete, attraverso l’immissione di una parola-chiave, l’intero archivio dei cablogrammi contenenti informazioni confidenziali inviate dalle ambasciate statunitensi al Dipartimento di Stato e pochi mesi dopo, nel maggio 2012, ha trovato asilo nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra dopo che la Corte Suprema di Sua Maestà aveva bloccato l’ultimo tentativo di Assange di evitare l’estradizione in Svezia.

Rafael Correa, presidente ecuadoregno, e il ministro degli Esteri del governo socialista di Quito, Ricardo Patiño, concessero ad Assange lo status di rifugiato politico nell’agosto 2012, dando vita a una permanenza dell’attivista più celebre al mondo nella legazione diplomatica destinata a durare ben sette anni. Nel frattempo, le controverse questioni giudiziarie di Assange iniziarono a trovare compensazione altrove, dato che nel 2015 il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria ha concluso che tutta la serie di vicende iniziate il 7 dicembre 2010 con l’arresto di Assange, compresa la fuga di questi nell’ambasciata ecuadoregna e la sua permanenza forzata che lo stesso dichiarò fonte di elevato stress psicologico, sono da configurare come un atto sproporzionato e come una sostanziale detenzione arbitraria e illegale da parte di Gran Bretagna e Svezia. Londra e Stoccolma hanno rigettato al mittente queste accuse. 

La guerra a Hillary Clinton e l'asse con Russia Today

Mano a mano che le relazioni tra Russia e Stati Uniti continuavano a deteriorarsi, dal 2013 in avanti, il governo di Vladimir Putin ha iniziato a vedere all’opera di Assange come a uno strumento politico e di soft power da sfruttare attentamente per depotenziare la presa di Washington e denunciare i problemi dell’amministrazione di Barack Obama.

Dal 2012 collaboratore di Russia Today con la serie di video The World Tomorrow, talk-show che Assange conduceva dall’abitazione in cui si trova agli arresti domiciliari nel Regno Unito prima e dall’ambasciata equadoregna poi, tutt’altro che lontana dal mainstream tanto da essere ripresa in Italia da Repubblica, Assange si trovò sostanzialmente a convergere con Putin quando nel 2016 Hillary Clinton scalò il Partito Democratico fino alla nomination presidenziale, sconfiggendo alle primarie Bernie Sanders prima della disfatta contro Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. A pochi mesi dalle elezioni WikiLeaks pubblicò una serie di mail di Hillary Clinton inviate dal suo server di e-mail privato quando era Segretario di stato dimostrando tra l’altro il coinvolgimento dell’Arabia Saudita e del Qatar in varie azioni di supporto alla formazione dello Stato Islamico della Siria e dell’Iraq (ISIS) e denunciando una vera e propria “follia maccartista”, a detta di Assange, contro la Russia. 

In particolare, fu accertato che il server personale dell’ex first lady aveva ospitato 113 messaggi contenenti informazioni riservate, tra cui 22 documenti classificati top secret; lo scandalo che ne seguì contribuì non poco a favorire la vittoria di Trump screditando la Clinton, ma ebbe due effetti come conseguenza. In primo luogo, alimentò la teoria del Russiagate, che vedeva come sottofondo l’idea di una regia russa per favorire Trump in cui Assange sarebbe stato, a detta di alcuni addirittura consapevolmente, complice per vendicarsi del Partito Democratico al governo negli anni delle rivelazioni; in secondo luogo, alienò le simpatie della stampa progressista europea e nordamericana nei confronti dell’attivista a lungo celebrato come un eroe della libertà, in grado di dialogare attivamente con personalità del calibro di Noam Chomsky e di essere anche un vero e proprio “guru” per figure come Yannis Varoufakis e il suo movimento Diem25. 

Il secondo arresto

Il passaggio del govenro ecuadoregno nelle mani di Lenin Moreno e la fine dell’era Correa ha portato nel 2019 alla fine della protezione di Quito a Julian Assange, che pertanto è stato arrestato nell’aprile dello stesso anno all’uscita dell’ambasciata londinese. Un mese dopo è stato condannato per violazione della custodia cautelare a cinquanta settimane di carcere da scontare nel carcere di massima sicurezza HM Prison Belmarsh (detto “la Guantánamo britannica”), al termine della prima metà delle quali gli è stata negata la libertà condizionata. Riapertasi e subito chiusa per assenza di prove l’inchiesta di indagine contro Assange da parte delle autorità svedesi risalente al 2010, si sono prospettate per l’attivista e hacker accuse di spionaggio e intrusione informatica ad opera degli Stati Uniti, che dal 2019 indagano sul fondatore di WikiLeaks e ne chiedono l’estradizione.

Il relatore dell’Onu sulla Tortura, lo svizzero Nils Meltzer, ha criticato questa ipotesi che sottoporrebbe Assange al rischio di imputazione per diversi reati tra cui quello di spionaggio, perseguibile secondo l’Espionage Act, oltre che a pene complessive dai 175 anni di carcere fino alla pena capitale. Melzer nel maggio 2019 ha sottolineato le sue preoccupazioni in merito alla criminalizzazione del giornalismo investigativo in violazione dei principi costituzionali statunitensi e dei diritti umani. Denunciava inoltre il trattamento dedicato al giornalista Assange (con tesserino presso la Federazione Internazionale dei Giornalisti) come una “persecuzione collettiva”.

Melzer ha più volte presentato appelli per la liberazione di Assange, sottolineando il suo grave deperimento psicofisico dovuto alle condizioni di detenzione. In questo contesto il 4 gennaio 2021 la giudice Vanessa Baraitser, della corte penale londinese di Old Bailey, ha negato l’estradizione in quanto le “condizioni mentali di Julian Assange sono tali che sarebbe inappropriato estradarlo negli Stati Uniti” e potrebbero portarlo al suicidio, rendendolo inoltre incapace di affrontare un processo, anche se come sottolineato dal giornalista investigativo Glenn Greenwald, “il giudice ha detto chiaramente di credere che ci siano motivi per perseguire Assange per la pubblicazione dei documenti”.

Il verdetto è stato ribaltato il 10 dicembre successivo dalla Royal Court of Justice. Due giudici dell’Alta corte hanno ribaltato la sentenza di primo grado emessa lo scorso gennaio, che negava l’estradizione del fondatore di WikiLeaks, accogliendo quindi il ricorso del team legale di Washington. Assange si trova dunque ora in un limbo legale, più vicino però a un’estradizione che in ogni caso potrebbe metterci anni a diventare concreta. Nel frattempo, la battaglia mediatica e politica su WikiLeaks e il suo fondatore continua. Assange polarizza perché oggigiorno la stessa idea di informazione, tra poteri, autorità e freelance indipendenti, è oggetto del contendere sul quadro della definizione concreta. E mano a mano che la battaglia su Assange continuerà c’è da pensare che i giudizi si faranno sempre più netti.

·        Hoara Borselli.

Da adnkronos.com il 28 giugno 2022.

Un tweet su giovani e lavoro e Hoara Borselli finisce nella bufera social. L'opinionista, entrando nella discussione sulla mancanza di personale lamentata dai ristoratori, ha infatti raccontato la sua personale esperienza da 15enne quando, più o meno a titolo gratuito, avrebbe lavorato saltuariamente in un bar. 

"A 15 anni in estate - scriveva Borselli il 25 giugno scorso - alcuni giorni lavoravo in un bar mentre i miei amici andavano al mare. Poche ore, dalle 12 alle 16. Finito il turno mi regalavano un gelato e se andava bene delle patatine". Poi il passaggio 'incriminato' finito al centro delle polemiche: "Si parte sempre dal basso ragazzi. Sacrificio e 'fame'. Credo sia ciò che manca oggi", le parole dell'opinionista. Troppo per gli utenti che da subito hanno iniziato ad attaccare "il predicozzo sulla gavetta" via Twitter.

"Non ci tengo a fare la schiava", "a 15 ho cominciato a fare le stagioni estive, avevo regolare contratto (perché allora si poteva) di formazione-lavoro, tutele assicurative, contributi versati e soprattutto un regolare salario con cui mi ci sono comprata il motorino. Mi sa che ti hanno rifilato una sola", "quindi l'attuale politica sul lavoro rasenta la perfezione e sono i giovani che non hanno voglia di sacrifici... tutto chiaro..", "quello che ha fatto lei si chiama 'volontariato' non lavoro", alcuni dei tantissimi - circa 1.000, molti dei quali in opposizione - commenti al tweet.

E, tra le centinaia di commentatori agli articoli sulle parole di Borselli, spunta anche Paola, presunta ex compagna di classe della giornalista: "Ma quando mai ha fatto la barista? Non è che lo dico così per dire... eravamo in classe insieme. Ha iniziato con concorsi e programmi Tv da ragazzina. La barista", scrive, chiudendo il commento con una raffica di grasse risate formato emoji.

Ma Borselli non ci sta e si difende in altri due tweet. "Scrivere che per divertimento a 15 anni lavoravo in un piccolo bar sulla spiaggia, senza obblighi, impegno, ma solo voglia di imparare qualcosa in cambio di gelati ha sollevato clamore. Ragazzi se è per questo ho fatto pure 2 anni di radio a rimborso spese. Così vi scatenate", la prima replica, seguita da una seconda quando il caso è quindi esploso definitivamente sul social: "Essere fra i primi in tendenza per aver scritto che a 15 anni ho fatto esperienza in un piccolo bar sulla spiaggia in cambio di gelati e patatine e vissuta con enorme gioia e ottimi ricordi fa riflettere. Anche imparare un mestiere ha un valore. Lo sapevate?", chiede, incassando tuttavia risposte decisamente piccate.

Valentina Baldisserri per corriere.it il 28 giugno 2022.

Toccare l’argomento lavoro sui social, invitare i giovani ai sacrifici, citare le proprie esperienze «a titolo gratuito» , può essere esercizio molto pericoloso. Soprattutto se è un personaggio noto a farlo. 

Hoara Borselli (ex modella e attrice, ex fidanzata di Walter Zenga, oggi opinionista nei talk di Mediaset) è finita nel tritacarne social, massacrata dagli utenti di Twitter per aver pubblicato la seguente riflessione: «A 15 anni in estate alcuni giorni lavoravo in un bar mentre i miei amici andavano al mare. Poche ore, dalle 12 alle 16. Finito il turno mi regalavano un gelato e se andava bene delle patatine. Si parte sempre dal basso ragazzi. Sacrificio e “fame”. Credo sia ciò che manca oggi».

Centinaia le reazioni. C’è chi ha ironizzato: «Hoara vieni a pulirmi casa ti do una pizzetta», «Gli straordinari venivano pagati a granite?», e chi si è molto arrabbiato: «Il problema non è lei che pagano per dire queste p..., il problema sono i c... che pensano che dica cose giuste».

C’è chi ha rinfacciato a Hoara il passato di fidanzata di Zenga che «di sacrifici non ne ha fatti troppi», chi ha resuscitato i suoi calendari o i film di scarso successo. 

Scrive Filippo Rossi, barman: «L’Italia è quel fantastico paese, dove la morale sui giovani che “non lavorano” viene fatta da una che può permettersi di stare a scrivere minch... su twitter, perché ha fatto un calendario ed è stata la ex di Zenga. Mentre io a 24 anni faccio due lavori».

Duro l’intervento del presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini: «Un conto è sacrificio e umiltà, che aiutano sempre, ma se la sua proposta è lavorare gratis, solo perché si è giovani, allora siamo proprio messi male. Roba da matti». 

Reazione polemica anche del giornalista Rai Riccardo Cucchi: « Il lavoro si paga, a 15 anni o a 60, per due ore o per otto. La schiavitù è stata abolita. E anche il “pane e acqua”, o se preferisce, “gelato e patatine”».

Attaccata, Hoara Borselli si è vista costretta a intervenire con un secondo tweet: «Scrivere che per divertimento a 15 anni lavoravo in un piccolo bar sulla spiaggia, senza obblighi, impegno, ma solo voglia di imparare qualcosa in cambio di gelati ha sollevato clamore. Ragazzi se è per questo ho fatto pure 2 anni di radio a rimborso spese. Così vi scatenate». Detto, fatto. Borselli è diventata di tendenza su Twitter (cosi come il suo ex Zenga).

La provocazione e lo shit storm. Hoara Borselli, il tweet sul gelato e gli attacchi sessisti: “I giovani devono mettersi in gioco non lavorare gratis”. Redazione su Il Riformista il 28 Giugno 2022. 

“I giovani non devono lavorare gratis ma dimostrare di avere voglia di mettersi in gioco”. Dopo giorni di polemiche e attacchi ricevuti per un tweet sul mondo del lavoro, Hoara Borselli, opinionista e giornalista del Riformista Tv, torna sull’argomento e, insieme ai direttori Piero Sansonetti e Paolo Liguori, analizza lo shit storm che haters, colleghi, compagni di scuola e personaggio del mondo dello spettacolo le hanno riservato per aver espresso un’opinione.

Nel corso di ‘Fatela Finita’ sulla piattaforma televisiva del Riformista, Paolo Liguori subito prova a rompere il ghiaccio: “Non aspettavo altro per chiederti di questa bagarre che si sta scatenando su di te (e sulle patatine…). Noi che siamo garantisti con tutti, soprattutto con te che sei un punto di forza nella nostra redazione, vogliamo sapere di te, della vera Hoara”. Che spiega come è nato tutto: “La vera Hoara una sera pensa di fare un tweet. Un tweet nato da un discorso fatto con un ristoratore che mi ha raccontato di aver difficoltà a reperire dipendenti. Lui – chiarisce – offre un contratto in regola a 1700 euro al mese ma non riesce a trovare nessuno; si sono presentati due ragazzi, hanno chiesto se si lavora ad agosto, se avevano la domenica libera e poi se ne sono andati. Allora io mi sono ricordata di quello che facevo quando avevo 15 anni e andavo al mare con mia madre. All’epoca c’era un chioschetto gestito da un signore e io, quando in spiaggia mi annoiavo, mi recavo lì, una, due ore, davo una mano a fare i caffè, mi divertivo, imparavo anche un mestiere, senza obblighi e orari. Quando poi mi stancavo prendevo un gelato, delle patatine e tornavo in spiaggia. So di aver lanciato un messaggio forte, provocatorio, mi è tornato questo tsunami indietro. Ho detto: bisogna partire dal basso, bisogna avere fame anche di imparare qualcosa. Io, evidentemente a 15 anni avevo voglia di imparare. Questo è bastato per farmi dire che sono stata schiavizzata e che lanciando questo messaggio sono una schiavista”. Poi precisa: “Quando nel tweet dico “bisogna partire dal basso”, in realtà intendo che dovrebbe ritornare quella fame di imparare un lavoro prima della pretesa economica”.

Sulla vicenda interviene poi il direttore Sansonetti: “Credo che ci sia una questione molto seria, che riguarda un problema molto serio quello dei diritti dei lavoratori, che però non mi sembra che tu abbia poi voluto toccare, perché tu raccontavi un ricordo giovanile. Una questione è quella dei diritti dei lavoratori, l’altra questione probabilmente sei tu, che poni delle questioni provocatoriamente, perché hai la tua personalità, tutto questo forse genera un odio che, effettivamente, leggendo quei

messaggi, è impressionante. E’ possibile parlare pubblicamente di questioni molto serie senza cadere nell’odio, nella rabbia? Io ieri ho difeso Hoara con un tweet, definendo leoni chi l’attaccava, perché io non ricordo le loro battaglie per i raccoglitori di pomodoro, e non ricordo nemmeno voi giornalisti quando i vostri editori vi pagavano 4 centesimi a riga. E invece vedete Hoara e l’attaccate. Detto ciò, hai fatto una stronzata o no?” chiede senza mezzi termini.

““No – replica la giornalista – io rivendico quello che ho detto perché secondo me è importante. L’unica cosa che mi ha dato fastidio è essere stata fraintesa. ‘Hoara dice che i ragazzi devono lavorare gratis’, no, assolutamente non è quello che intendevo. Quindi può essermi dispiaciuto che sia arrivato un messaggio diverso rispetto a quello che volevo io” aggiunge. “Noi non lanciamo messaggi – interviene Liguori – noi diamo la nostra opinione. Sei una donna bella, di cui compaiono immagini belle, che eccitano i sessisti di tutta Italia. Sei anche diventata famosa, quindi se tu lanci un determinato messaggio ti ritorna indietro come artiglieria”.

Dopo il chiarimento, si entra nel vivo della questione con la domanda di Sansonetti: “Parliamo di cose serie. Sei favorevole al salario minimo?”.

“Piero – risponde Borselli – io ritengo sacrosanto che una persona che lavora debba essere retribuita in maniera congrua. Ed è vero anche che oggi poniamo la discussione sul salario minimo ma poco su chi da’ il lavoro. Dobbiamo mettere il datore di lavoro nella condizione, anche economica, di poter dare di più. Perché, quando diciamo che al dipendente diamo 1300 euro, quanto costa però quel lavoratore al dipendente?”

Poi Sansonetti chiude: “Mi dispiace quando a fare la voce grossa sono i giornalisti, che magari devono dimostrare di avere le palle, poi in realtà non è vero. Comunque dietro a questa vicenda c’è un problema molto serio, è quello sui salari. In Italia sono i più bassi d’Europa, ci sono i lavoratori poveri e questa è una questione enorme. C’è anche una questione di sindacati, sindacati che sono sempre più deboli. Non si può e non si devono mischiare le due cose”.

E Liguori puntualizza: “Poi in Italia c’è moltissimo sessismo: una donna che non si fa pagare è una cretina che teorizza che bisogna farsi sfruttare. Una donna si fa pagare “eh quella si fa pagare”…Insomma, c’è del sessismo brutale. E’ inutile fare le leggi se poi i social ti dimostrano che c’è una componente popolare che va al di là di tutto”.

·        Lamberto Sposini.

Da oggi.it il 20 febbraio 2022.  

Lamberto Sposini compie 70 anni il 18 febbraio. Il celebre volto del Tg5 prima e poi de La vita in diretta è lontano dagli schermi da undici anni, quando un ictus lo colpì poco prima di andare in onda. 

Ma amici e colleghi non lo hanno mai lasciato solo. Così come tanti affezionati telespettatori, che continuano a seguirlo su Instagram, dove (nonostante un account privato) conta quasi 120 mila follower. 

GLI AUGURI DI MASSIMO GILETTI

E anche quest’anno il primo a fargli gli auguri è un amico di vecchia data, Massimo Giletti, che ha raccontato: “Andrò a Milano per il suo compleanno, andrò ad abbracciarlo, a vivere una giornata con lui. Mi aspetta ogni volta, lo sento. Un’amicizia che si è consolidata nel tempo. Ci lega la passione per la Juventus, l’amore per l’arte contemporanea. Una volta andammo insieme a Londra alla Tate Gallery per visitare mostre ed esposizioni”.

Un’amicizia consolidatasi “dopo un momento difficile nella sua lunga carriera in Rai. Era stato allontanato ed io intervenni con l’allora direttore Fabrizio del Noce. Ritornò alla conduzione de La vita in diretta”. 

L’ICTUS DEL 2011

Vi rimase dal 2008 e il 2011, dopo una vita passata al Tg5. Nell’ultimo anno c’era al suo fianco Mara Venier. Ma proprio il 29 aprile 2011, il giorno del matrimonio tra William d’Inghilterra e Kate Middleton, poco prima di andare in onda il giornalista fu colpito da un ictus che provocò una vasta emorragia cerebrale.

Si rese necessaria un’operazione al cervello. Mara, che ignorava le sue reali condizioni, era rimasta in tv per proseguire la trasmissione: “Lamberto ha avuto un leggero malessere. Ora sembra che tutto stia andando bene e che si stia riprendendo”. 

LA LUNGA RIABILITAZIONE

Invece rimase in ospedale tre mesi, prima di andare in riabilitazione alla clinica romana Santa Lucia e poi in Svizzera. Dopo essersi trasferito a Roma per un periodo, si è stabilito definitivamente alle porte di Milano, per stare vicino alla figlia Francesca e all’ex compagna Sabina Donadio. 

Fu proprio lei a spiegare a Vanity Fair, nel 2015: “Lamberto è lucidissimo, ma non parla. Un grumo di sangue del diametro di sette centimetri ha premuto quattro ore sull’area del linguaggio. Conseguenza: lui capisce tutto ed è in grado di legare, nella sua testa, il significato alla parola, però la parola non esce. Né a voce, dalla bocca viene fuori solo un suono, né in scrittura. Tecnicamente si chiama afasia. Fortunatamente ha una mimica facciale notevole: con gli occhi esprime tutto”.

I PRESUNTI RITARDI NEI SOCCORSI

Francesca e Sabina lamentarono presunti ritardi nei soccorsi e nel 2014 promossero un’azione legale. Il legale spiegò al Corriere della Sera: “Il 118 nel centro cittadino garantisce l’intervento in otto minuti. Nel caso di Sposini, ne sono passati quasi 50. 

Non sono state date indicazioni corrette circa le sue condizioni, tanto che all’inizio si era parlato di infarto, pur avendo sintomi completamente differenti. Al punto che poi è stato portato in un ospedale non attrezzato per fare l’intervento a cui è stato sottoposto solo quattro ore e mezzo dopo. Tutta la letteratura medica spiega che la tempestività in casi come il suo è fondamentale”.

Ma nel 2019, benchè i giudici spingessero per un accordo, la famiglia non aveva ancora ricevuto offerte di risarcimento. E Sabina puntualizzò: “Vorrei fosse chiaro che per noi non è una questione economica. Lamberto ha bisogno di cure costanti, ma il punto non è questo. Ci piacerebbe che, umanamente, la Rai fosse un interlocutore diverso, perché non si può liquidare così quello che è successo”.

GLI AMICI DI UNA VITA

Ogni anno gli amici e i colleghi gli tributano un saluto, facendogli gli auguri di buon compleanno in diretta televisiva. Come Alberto Matano, o Mara Venier, che lo chiama affettuosamente “Lambertone mio”. 

Vanno spesso a trovarlo Barbara D’Urso, Simona e Carolyn Smith, con cui fu in giuria a Ballando con le stelle dal 2007 al 2011. E ovviamente, gli amici storici del Tg5: Enrico Mentana e Cesara Buonamici.

Mara Venier al compleanno di Lamberto Sposini: lite con la figlia. Alice Coppa il 23/02/2022 su Notizie.it.

Alla festa di compleanno di Lamberto Sposini Mara Venier avrebbe discusso con la figlia del celebre giornalista. 

Secondo indiscrezioni Mara Venier avrebbe avuto una discussione con la figlia di Lamberto Sposini, Matilde, alla cena dedicata al compleanno del celebre giornalista.

Mara Venier: lite con la figlia di Lamberto Sposini

Secondo indiscrezioni la conduttrice Mara Venier avrebbe avuto una discussione con la figlia di Lamberto Sposini, Matilde, quando il 18 febbraio scorso si sarebbe recata alla festa di compleanno del celebre giornalista (da tempo lontano dal piccolo schermo a causa dei suoi problemi di salute).

Sempre secondo il rumor, la conduttrice avrebbe finito per infastidire la figlia di Sposini presentandosi all’evento con la responsabile casting di Domenica In (mentre alla festa sarebbero stati invitati solo gli amici più intimi del giornalista) e inoltre avrebbe preteso di dedicare uno spazio della sua trasmissione al celebre giornalista (mentre la figlia non sarebbe stata d’accordo).

Il messaggio sui social

Secondo i rumor in circolazione i toni tra la conduttrice e la figlia di Sposini si sarebbero accesi e la conduttrice si sarebbe allontanata dalla festa senza salutare nessuno.

Più tardi sui social ha dedicato un messaggio al giornalista scrivendo in un post sui social: “Caro Lamberto, è stato bello rivederti a Milano ieri anche se solo per poco tempo…..i tuoi occhi …le tue carezze…e il nostro abbraccio nessuno potrà cancellarlo mai.!!!!!!!! ti voglio bene e ancora buon compleanno amore mio .. #chivuolcapirecapisca”. Il suo “chi vuol capire capisca” sarà stato in riferimento alla lite avuta con la figlia del giornalista?

Alla festa di compleanno di Lamberto Sposini sarebbero stati presenti anche i suoi amici di lunga data Enrico Mentana e Massimo Giletti.

·        Laura Laurenzi.

Aldo Cazzullo per il "Corriere della Sera" il 14 febbraio 2022.

Laura Laurenzi, lei fa la giornalista da più di mezzo secolo.

«Cominciai da abusiva a Momento sera . Lavoravo gratis, quando arrivava l'amministratore dovevo nascondermi, eppure mi sentivo una privilegiata: prima o poi mi avrebbero assunta». 

A Repubblica i redattori elessero a voto segreto la più bella: vinse lei.

«Non ero l'unica vincitrice e comunque nessuno me lo disse. Lo scoprii solo quando Franco Recanatesi, il caporedattore centrale, lo scrisse nel suo libro. Era passato troppo tempo perché potessi arrabbiarmi». 

Vicedirettore era Giampaolo Pansa.

«Leggeva tutti i pezzi dalla prima all'ultima riga e ci urlava dietro: analfabeti, somari, ignoranti! Si placava a tarda sera, quando telefonava in Piemonte alla moglie, al figlio e al cane Muso». 

Al cane?

«Con i familiari era di poche parole, ripeteva sempre: "Dai, passami Muso!"». 

Com' era Scalfari come direttore?

«Fantastico. Mi affidava i servizi che non voleva fare nessuno: matrimoni e grandi amori. Il primo fu la storia tra Togliatti e la Iotti, di cui allora si parlava solo sottovoce. Mi spedì a bordo della Vespucci, fece lui il titolo: Una giornalista e quattrocento marinai».

E la mandò a raccontare le perversioni di New York.

«I locali sadomaso mi fecero una certa impressione. Un ragazzo mi chiese: posso leccarle la suola degli stivali?». 

Com' erano i rapporti tra Montanelli e Scalfari?

«Montanelli lo prendeva un po' in giro. Mi chiedeva: "Ma davvero Eugenio apre la riunione stringendo la mano al caporedattore, come il direttore d'orchestra con il primo violino? Io non sarei capace di fare queste cose"».

 In «Mai in prima persona», il suo nuovo libro, lei racconta che la vita di Montanelli era divisa tra due donne.

«A Roma con la moglie, Colette Rosselli, e a Milano con un'altra signora, di cui non si sapeva quasi nulla». Colette però sapeva. 

Non era gelosa?

«Certo. Diceva che non si può amare senza gelosia; tutto sta in come la si gestisce. Lei non era tipo da scenate: "Sono alta un metro e ottanta, se mi agitassi sembrerei un mulino a vento" sorrideva. Gli incontri con Indro le apparivano viaggi all'estero, di quelli che ogni tanto è bello fare».

Vivevano in piazza Navona.

«Con le portefinestre chiuse, come se fossero stanchi di quel meraviglioso panorama. Si cenava molto presto, poi si saliva a bere un bicchierino di vin santo: alle dieci, dieci e un quarto al massimo, tutti a casa, con grande sollievo di Indro. In quella casa viveva spesso anche la sorella di Colette, Jolanda, la pittrice: ma stava sempre chiusa in camera, nessuno l'ha mai vista». 

Colette si firmava Donna Letizia. Era un'arbitra di eleganza.

«Mi rivolsi a lei quando Pietro Barilla mi regalò una collana d'oro massiccio di Bulgari, con un biglietto terribile: "Cara Laura, con questa catena preferirei strozzartici"».

Perché?

«Avevo raccontato la storia di Barilla in un libro, Vita da ricchi. Erano 32 interviste a nababbi. Pietro ne usciva benissimo: aveva venduto l'azienda e si era trasferito ai Caraibi, ma dopo venti giorni si era già stancato. Non ne poteva più di aragoste, le avrebbe tirate contro il muro, aveva nostalgia della polenta. Soprattutto, sentiva di non contare più nulla. 

Così ricomprò la fabbrica, nonostante Cuccia gli avesse consigliato di lasciar perdere. E inventò il Mulino bianco. Mai conosciuto un uomo così generoso: un giorno a Cortina vide Marta Marzotto in gioielleria che provava un paio di orecchini da 170 milioni di lire. Lui entrò e declamò: gli orecchini sono della contessa, è il mio regalo di Natale».

Perché allora Barilla voleva strozzarla?

«Nel libro la sua storia veniva subito prima quella di Saro Balsamo, intitolata "fronte del porno": Balsamo era diventato ricco con le riviste a luci rosse. Barilla si offese e mi manifestò in quel modo il suo disappunto. Allora telefonai a Colette: cosa dovevo fare?».

Risposta?

«Attimo di esitazione. Pensavo fosse caduta la linea. Poi arrivò la sentenza: "Restituzione immediata!". Colette sapeva come comportarsi. Una volta le avevano regalato un'aragosta: lei la liberò nella fontana del Bernini».

Colette non amava Fellini.

«Lui la chiamava Colettona. E le propose un cameo ne La dolce vita : la parte di un'aristocratica libidinosa. Lei ovviamente rifiutò». 

Neppure Anita Ekberg amava Fellini.

«Ne parlava come di un predatore sessuale. Leggendaria la sua massima: "Io non è interessata a pompetto"». 

Che ricordo ha di Marta Marzotto?

«Diede una festa da 1.600 invitati per la figlia Diamante nel castello Odescalchi di Bracciano illuminato a giorno dalle fiaccole. Era il 7 luglio 1981. Infuriava il terrorismo, due giorni prima le Br avevano ammazzato Giuseppe Taliercio, il capo del Petrolchimico di Marghera. Marta fu molto criticata. Lei disse: ho avuto un'infanzia senza favole, e ho voluto regalare una favola a mia figlia». 

Lei fu tra i primi ad arrivare in via Fani

«Salii sulla berlina di Moro, mi sedetti nel posto dietro a quello di guida, accanto a dove era seduto lui. C'era una pila di carte, le sfogliai: erano le tesi dei suoi studenti di procedura penale. Arrivarono i carabinieri a farmi scendere. Contai i bossoli. Un rigagnolo di sangue continuava a scorrere sul marciapiedi».

E parlò con Alfredino Rampi, prigioniero nel pozzo.

«C'era un vigile del fuoco, Nando Broglio, che con il microfono e la cuffia conversava con il bambino, per tenerlo sveglio. La mattina del secondo giorno, distrutto per la notte insonne, si tolse la cuffia e me la passò: "Ci parli un po' lei, che almeno è una donna"».

Cosa disse ad Alfredino?

«Di non avere paura, che tutto sarebbe finito presto, che sarebbe arrivata la mamma. Erano davvero convinti di salvarlo. Lui si lamentava per il freddo, per il buio. È un ricordo terribile. Vorrei tanto averlo dimenticato». 

Altro suo direttore: Gaetano Afeltra.

«Celebre per le desinenze creative. Mi chiamava Lille e non ho mai capito perché. Dovevo scrivere un articolo sui comunicati delle Brigate Rosse, e lui telefonava: "Lille, sfume". Ma direttore cosa sfumo, sono testi scritti, mica posso cambiarli "Lille, ti ho detto: sfume!"». 

Memorabile la sua intervista a Silvana Pampanini.

«Disse: tanti mal di testa, pochi uomini. Lasciò intendere di essere ancora vergine; non ho mai capito se stesse scherzando o se fosse seria». 

Lei si imbucò al matrimonio di Maradona.

«Era stato papa Wojtyla a convincerlo a sposarsi: aveva già due bambine. Fece il volo di andata con un cartello al collo: "Io sono single, è mia moglie che si sposa". 

Alla cerimonia civile ero l'unica giornalista, e lui mi fece cacciare. Non è vero che tutti gli argentini lo amavano, anzi, la sua auto passò tra due ali di folla che la prendevano a calci e sputavano sui finestrini; anche perché era una Rolls-Royce Phantom del 1938 appartenuta a Goebbels, il gerarca nazista. Il giorno dopo ci fu il matrimonio religioso. Il banchetto andò avanti sino alle otto del mattino». 

Si imbucò pure a una festa di Berlusconi

«Mi chiese se il lifting era venuto bene. Lui non era soddisfatto, e in effetti l'occhio destro era più gonfio e meno mobile del sinistro».

E alle nozze di Pavarotti.

«Con la mia collega e complice Maria Corbi ci dicemmo che per passare da musiciste dovevamo indossare qualcosa di eccentrico. Maria aveva un enorme colbacco rosa, io una spilla di Vandea in simil diamanti con la croce conficcata nel cuore. Ci fecero entrare. Finimmo al tavolo con un tizio dall'aria familiare, con gli stivaletti e la basetta feroce. Quando Pavarotti chiamò i suoi amici artisti per cantare, il tizio si alzò. Era Bono degli U2».

Poi ci sono i matrimoni reali.

«Tra Carlo e Camilla fu vero matrimonio d'amore. Felipe di Spagna ha sposato una repubblicana divorziata; Haakon Magnus di Norvegia una ragazza madre che aveva avuto un bambino da un trafficante di droga; Guglielmo d'Olanda la figlia di un ministro del sanguinario dittatore argentino Videla; Victoria di Svezia il suo personal trainer». 

Non ci sono più i matrimoni di una volta.

«A Diana non spiegarono che una regina non è predestinata a una vita felice, anzi dovrà affrontare crudeli infedeltà. Kate mi sembra meglio preparata. Charlene di Monaco decisamente no». 

E Meghan Markle?

«Mai vista tra due sposi tanta attrazione fisica come tra Meghan e Harry. Ma è lei che comanda».

Nel libro parla di molte storie tranne la sua: con Enzo Bettiza, amico e collega di suo papà Carlo Laurenzi. È vero che suo padre si arrabbiò?

«All'inizio un po' sì, ma poi lo accettò; anche perché ero incinta. E papà stimava molto Enzo». 

Come vi conosceste?

«A Bruxelles. All'inizio non credevo che potessimo avere un futuro. Ma lui mi seguiva dappertutto. Il giornale mi mandava in Svezia a raccontare come si fa un Nobel, e lui era là. Mi diceva: una coppia non è una coppia senza un bambino, e ne abbiamo avuti due, Sofia e Pietro; una casa non è una casa senza un gatto, e ne abbiamo presi tre. Per trent' anni è stato totalizzante. Mi sono sentita amata in un modo spropositato».

·        Lilli Gruber.

Da Un Giorno da Pecora il 15 giugno 2022.

“Ho preso la variante Omicron 4 o 5, quella super aggressiva, dopo aver vissuto come una monaca per due anni e mezzo. Una sera di due settimane e mezzo fa eravamo a cena con una quindicina di amici, c'era un'americana, che conosco, e che proveniva da Davos e siamo stati contagiati praticamente tutti ad eccezione di chi aveva avuto il virus pochi mesi prima”. 

A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Lilli Gruber, giornalista e conduttrice di 'Otto e Mezzo', che oggi è intervenuta nel programma di Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Ha capito come vi siete contagiati? “Alla fine della cena ci siamo, purtroppo, abbracciati. Io sono sempre stata iper attenta, sono arrabbiata con me stessa e con la leggerezza di tutti gli altri perché il Covid non è affatto sparito”.

Che tipo di sintomi ha avuto? “Tutti: febbre a 38 e mezzo, tosse, mal di gola, mal di testa, anche la perdita del gusto che per fortuna ho riacquistato. E' stata una brutta esperienza, sento ancora molta stanchezza e molta fiacca”. Ha perso anche peso? “Ero arrivata a 44 kg, ora mi sono rimessa 'all'ingrasso’”. Al suo posto 'Otto e Mezzo' è stato condotto da Giovanni Floris. “Che voglio ringraziare perché gentile, preparato e solidale come sempre, oltre che bravissimo. Devo dire che i primi giorni di Covid non sono riuscita a guardare nulla, ero a letto ammalata, poi l'ho visto e ho apprezzato il suo garbo e la sua professionalità”.

Al suo ritorno in conduzione, seppur da casa, ieri ha ricevuto molte critiche, specie dal c.destra... “Si vede che la campagna elettorale è in pieno svolgimento. Noi facciamo i giornalisti, gli ospiti esprimono le loro opinioni, per il resto noi critichiamo e non manganelliamo nessuno”. Fin quando andrà in onda 'Otto e Mezzo'? “Fino al primo luglio”. Ormai è positiva da circa due settimane: quando farà il prossimo tampone, che se sarà positivo le consentirà di tornare in studio? “Direi che il prossimo tampone molecolare lo farò sabato. Appena sarà negativa tornerò in studio”.

Niccolò Dainelli per leggo.it il 15 giugno 2022.  

Guido Crosetto ha attaccato Lilli Gruber, giornalista e conduttrice di Otto e Mezzo, paragondola a Erode. Questo il twitter del cofondatore dei Fratelli d'Italia: «La Gruber sta al giornalismo come Erode al rispetto dell’infanzia». 

In molti su Twitter si stanno chiedendo il perché di questo paragone. E la spiegazione sta nella puntata di Otto e Mezzo di  martedì 14 giugno. Lilli Gruber ha mandato in onda un estratto dell'intervento di Giorgia Meloni al comizio di Vox, partito di estrema destra spagnolo, a Marbella. La Meloni si è dichiarata contro le lobby lgbt, ma a favore della famiglia tradizionale, contro l'immigrazione incontrollata, ma favorevole all'apertura delle frontiere, favorevole alla "vita", e contraria alle ideologie del "fine vita". Un discorso in crescendo che ha fatto breccia tra i militanti del partito di estrema destra spagnolo. 

Una clip che non è piaciuta a Guido Crosetto, visti i toni che la Meloni ha tenuto durante il comizio. E per questo, dunque, secondo il deputato, la Gruber sta al giornalismo come Erode al rispetto dell'infanzia. Crosetto fa riferimento alla Strage degli innocenti raccontato nel Vangelo secondo Matteo, in cui Erode il Grande, re della Giudea, ordinò un massacro di bambini allo scopo di uccidere Gesù, della cui nascita a Betlemme era stato informato dai Magi.  

Il tweet di Crosetto è diventato subito virale scatenando le ire di chi sta dalla parte dell'informazione e l'ilarità, invece, di chi sostiene il deputato di Fratelli d'Italia. C'è chi infatti risponde con la stessa ironia «O come la Meloni ai diritti umani», e chi invece «Chi ha detto infatti che la Gruber è una giornalista?». In molti, adesso, si chiedono se Lilly Gruber risponderà.

Otto e Mezzo, Lilli Gruber: "Omicron aggressiva. Cosa è successo a quella cena". Libero Quotidiano il 15 giugno 2022

A causa del Covid continuerà a condurre da casa per tutta la settimana Lilli Gruber, che lunedì 13 giugno è tornata al comando di Otto e Mezzo, seppur da remoto. La giornalista di La7 è stata sostituita da Giovanni Floris, dato che per una decina di giorni non è stata in grado di portare avanti il suo lavoro, neanche da casa. Intervenuta ai microfoni di Un giorno da pecora su Rai Radio1, la Gruber ha ricostruito l’intera vicenda. 

“Ho perso questa variante di Omicron super aggressiva - ha spiegato - la 4 o la 5, forse lo saprò a breve con precisione. Io e mio marito viviamo come i monaci da due anni e mezzo, ma una sera eravamo a cena da amici ed è arrivata un’americana che tornava da Davos. Siamo stati contagiati praticamente tutti, purtroppo con lei ci siamo anche abbracciati. Abbiamo tutti allentato troppo la guardia, ma queste nuove varianti non sono affatto uno scherzo”. 

A testimonianza di ciò, la Gruber ha raccontato le quasi due settimane difficili che ha dovuto fronteggiare: “Ho avuto tutti i sintomi. Sono stata male, dalla febbre alla tosse, passando per mal di testa, diarrea, perdita del gusto. Anche mio marito è stato male. Io sono positiva da due settimane. Mi sono arrabbiata con me stessa per questa leggerezza, dobbiamo tener presente che quest’estate sta accadendo il contrario della scorsa, quando eravamo tutti più tranquilli: adesso i contagi sono più che duplicati e stiamo dismettendo tutti gli accorgimenti”. Ma il ritorno in studio? Non prima della settimana prossima: “Farò il tampone molecolare sabato”.

·        Lina Sotis.

Lina Sotis: «I Moratti mi cacciarono quando mi innamorai di un playboy». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 20 Agosto 2022.

La giornalista Lina Sotis si racconta: «Craxi? Lui e Anna all’inizio erano snobbati. La più affascinante? Gioia Falck, che mi ha dato un tetto quando mi sono separata. I Moratti mi cacciarono, ma fu Gian Marco Moratti a salvarmi la vita. Letizia? Sono stata gelosa, ma siamo due vere amiche»

«A volte sono stata cattiva e me ne sono pentita». Penna raffinata, colta, implacabile: un sì o un no di Lina Sotis sul Corriere della Sera sono stati spesso una promozione sul campo o una sentenza di morte (almeno civile). «Un signore ansioso di essere conosciuto in città si fece scrivere dieci righe da me: alla fine chiusi con la frase “ma in fondo, chi è questo qui?”». Per essere un «milanese» bisognava dimostrare di saper fare, più che di avere.

Come Gae Aulenti, «che anche quando non era nessuno era una protagonista, perché aveva curiosità». O proprio come lei, Lina Sotis, giornalista e scrittrice, nata nel 1944 a Roma e diventata la regina di Milano, «armata solo di grande pazienza, qualità senza la quale non avrei potuto cambiare tante vite: prima orfana di mamma, poi snob della Roma bene, moglie dell’industriale e infine prima cronista donna del Corriere». Inventrice delle note di costume, teorica del bon ton, le sue Bagatelle , il nome lo inventò per lei il mentore Roberto Calasso) facevano tremare i polsi ai milanesi. «Il successo fu immediato: tutti volevano esserci, il direttore di allora Franco Di Bella mi diceva: "Lina, mettici più nomi possibili". E io rispondevo: “No direttore, al massimo tre, quelli che ci sono devono sentirsi i prescelti”».

Più che note di stile, delle regole, diventate poi un libro di fenomenale successo, «Bon Ton», caldeggiato da Giuseppe Turani e scoraggiato da Eugenio Scalfari: «Non avrai mai successo, andiamo verso tempi in cui le etichette non contano». Un nome che arrivava dal collegio, quando la contessa Palmieri insegnava a Lina Sotis proprio il bon ton. «Ho trascorso la mia infanzia nei collegi: mia mamma è morta dandomi alla luce, sono la terza di tre sorelle, Donatella e Viviana, figlie di Gino Sotis, l’avvocato rotale per eccellenza che riuscì a cancellare le nozze di Claretta Petacci».

Che tipo di famiglia era la sua?

«Borghesi illuminati. Mio nonno Emilio Storoni aveva fondato con Malagodi il Partito Liberale. Mio padre si risposò con Maria Bassino, avvocato penalista lesbica. Avevo 13 anni e lei mi insegnò cosa era il Pci e il mondo gay».

Il collegio era la seconda casa.

«Al Mary Mount scoprirono che la borghese Sotis aveva più portamento di Cunegonda Patrizi. Poi a Cortina, dalle Orsoline, conobbi il mio futuro marito, Gian Marco Moratti».

Anche lui in collegio?

«No, era in vacanza e aveva otto anni più di me. La cosa più folle per lui e i suoi amici era conoscere le ragazze delle Orsoline: venivano una volta a settimana in collegio dove si facevano dei balletti, sorvegliati dalle suore».

Un colpo di fulmine?

«Sì, mi diceva che avevo delle belle mani. Quando tornai a Roma mi telefonava da Milano, anche due volte al giorno. Arrivavano queste interurbane annunciate dalla cameriera. Ci siamo conosciuti nel 1960, sposati nel 1962».

Un ottimo partito.

«All’epoca non c’era questa fascinazione per Milano e sposare un industriale del Nord non era un punto di vantaggio. Non avevamo capito il miracolo a Milano, noi vivevamo quello romano, fatto di principi. Milano era vista come un posto orrendo».

Si è sposata incinta di Angelo.

«Un disonore. Andammo dallo zio, il mio tutore, a chiedere il permesso per sposarci: “Ci pensi bene, avete avuto una educazione diversa”, disse lo zio. Intervenni: “Sono incinta”. Ci sposammo in San Pietro e Paolo».

I suoi suoceri come l’accolsero?

«Benissimo. Suo padre era un signore straordinario che aveva verso di me un’aria protettiva. Piacqui anche alla madre, che però mi domandò: “Ma perché cammini così dritta?”. Ero arrivata con tre pellicce, dote delle ragazze bene: un visone, un castorino e un Breitschwanz. Mia suocera disse: “Questo visone è piccolo”».

La vita da signora Moratti.

«Mi chiesero di chiamarli mamma e papà. Mi sono vestita per cinque anni di nero e di azzurro e con l’Inter abbiamo vinto tutto. Dopo Angelo arrivò Francesca. Poi mi innamorai di un playboy e fui cacciata di casa. I miei suoceri volevano che accettassi denaro da loro ma non lo feci: era il mio modo per dirgli che li amavo».

E si è messa a lavorare.

«Andai a Vogue, dove volevo firmare con il mio cognome, perché è solo con il proprio che si fa fortuna. Poi chiesi a Giulia Maria Crespi: “Aiutami a trovare un impiego per diventare giornalista professionista”».

Il «Corriere della Sera».

«Angelo Rizzoli comperò il Corriere, gli dissi: “Angelo vorrei scrivere in un quotidiano”. E lui: “Certo, però te lo devi meritare. Che ne dici di lavorare alle 6 al Corriere d’Informazione, il giornale del mattino?”. Risposi: “Dico che non potremo andare a ballare la sera. Accetto”».

Come cambiò la sua vita?

«Ero agli Spettacoli, era l’epoca in cui nasceva il Piccolo Teatro, Paolo Grassi mi chiamava la Caval(Lina) imbizzarrita. Arrivò un ragazzo in redazione. “Sono Lina e tu? “. “Ferruccio”».

Ferruccio de Bortoli.

«Aveva otto anni meno di me e un’aria vispa. Pranzavamo da Oreste anche se non avevamo una lira. Poi il Corinf chiuse e il direttore ci volle al Corriere. Mi sentivo baciata da Dio».

La prima donna cronista al «Corriere».

«Andai a fare salti di gioia da Giulia Maria e lei disse: “Ti hanno preso perché sei brava”».

Il suo ex marito non l’ha mai aiutata?

«Nel lavoro no, lo fece quando mi ammalai. A 34 anni, siccome avevo poco cervello e ne avevo usato troppo, mi venne un tumore alla testa. Mi diedero per spacciata, Gian Marco mi portò a Roma con un volo privato e venni operata da un luminare. Mi salvai, ma tornai al lavoro senza campo visivo. I ragazzi della cronaca mi aiutavano: Biancaneve con 24 nani».

E sono nate le fulminanti dieci righe di Lina.

«Le milanesi le accettavano perché ero come loro: anche a Roma una certa società non si levava mai le calze».

La più affascinante della città?

«Gioia Falck, di una generosità esplosiva: mi ha dato un tetto quando mi sono separata. Poi Silvia Tofanelli: Goffredo Parise diceva che nessun uomo le poteva resistere».

Un simbolo della Prima della Scala.

«La veletta nera di Wally Toscanini. Ma la più bella non era mai milanese: spesso era qualche attrice che arrivava da fuori, con un volo privato e un abito imprestato».

Era la Milano di Craxi.

«All’inizio lui e Anna erano un poco snobbati. Facevano di domenica delle cene a cui partecipavamo tutti, però senza scapicollarci. Ma lui era un politico sopraffino».

L’uomo più elegante?

«Guido Venosta, dirigente alla Pirelli e presidente dell’Airc e anche del Clubino: era tradizionale ma chic. Indossava il rosso scuro».

Tra i politici?

«Pannella era mica male, esagerato. Ora direi Mario Monti e Mario Draghi, ma anche Enrico Letta, che ha quel nonsoché da Sorbona».

Uno stiloso di oggi.

«Ci sono tanti casual sopportabili, di elegante nessuno, a parte Carlo Mazzoni, che sa persino stare ben seduto in Chiesa».

Una donna chic.

«Cecilia Pirelli, semplice e indossa bene il bianco. O Camilla Baresani: una brava scrittrice che non lo fa pesare. Milano è troppo piena di fighette: tacchi alti, gonna corta e sguardo sfrontato. Non è così che si prendono i soldi dei pochi uomini rimasti. Perché non vestire di nuovo da collegiali?».

Le milanesi vere e quelle acquisite.

«Milano è inclusiva e premia chi merita: Marva Griffin è la regina del design con il Fuorisalone. Invece un’altra non milanese, con la pelle scura, ex ben sposata, poteva avere il mondo ai suoi piedi, ma ha deluso tutti...».

Letizia Moratti, seconda moglie del suo ex marito. Ne è stata gelosa?

«Molto! Però sono madrina di suo figlio Gabriele e le sono vicinissima. Ci siamo scambiate mille gesti di amicizia, anche da poco».

Quando è stata eletta sindaca di Milano si è sentita sorpassata?

«No, poteva fare comodo anche a me».

I suoi figli Angelo e Francesca.

«Angelo è protettivo, è un qualcosa in più. Lavora per Warren Buffet, ha due bambini con Nadia e una ex moglie meravigliosa, Roberta. Francesca è straordinaria: somiglia al padre».

Gli uomini più seducenti.

«Francesco Saverio Borrelli, da farci due pensierini: ma era quel genere di uomo che voleva sudditanza. O Franco Angeli, bello e buono: mi disegnò un cuore per la mia collezione. Riccardo Muti? Troppo piacione».

Il suo secondo marito, Marco Romano?

«Un uomo coltissimo, un buon marito che ora non sta bene. L’ho conosciuto a 48 anni».

E poi suo cognato, Massimo Moratti.

«Mi manda sempre l’uovo a Pasqua. Da giovane sembrava Celentano: è spiritoso».

Il salotto più ambito di Milano?

«Oggi non saprei: prima piacevano le donne e i soldi, più ce n’erano, meglio era».

Il mix perfetto per un salotto ben riuscito.

«Non deve mai mancare un gay, una bella donna, una donna intelligente anche se bruttissima, una così così che s’accontenta di tutto e sa solo ascoltare. Poi una volgarità da guardare, meglio maschile che femminile, perché ti dà un’ebbrezza momentanea e puoi sempre parlarne male».

Il salotto sbagliato.

«Quello di soli borghesi, di soli intellettuali, di soli gay. Bisogna mischiare, sempre».

Una cosa cafona non più perdonabile?

«Chi ti dice “cara” e non ti conosce, come nei pronti soccorsi americani : “dear”...».

Qual è il bon ton oggi?

«Sorridere, non usare i monopattini, chiedere scusa se suona il cellulare a tavola».

Lei aiuta gli altri con Quartieri Tranquilli.

«Mio figlio mi ha detto: “Devi guadagnarti la pensione”. Prima del Covid distribuivamo 4.500 quintali di cibo dove serviva».

La vecchiaia.

«Sono stata giovane così a lungo che avere dei capelli bianchi in testa mi fa allegria».

Milano le piace ancora?

«Sì, ma non ci sono più elefanti con le zanne, i bracconieri li hanno fatti fuori. È un mondo senza zanne, irriconoscibile, ma facendo del bene le faremo ricrescere».

·        Lucio Caracciolo.

Luca Telese per “TPI – The Post Internazionale” il 27 maggio 2022. 

Come vanno i numeri di Limes sulla guerra?

«Non posso nascondere una certa soddisfazione». 

Cioè?

«L’ultimo rilevato, il numero scorso fissa il nostro record: 150mila copie». 

Come spieghi il risultato?

«Tra i cittadini e tra i lettori – al contrario di quel che si dice – c’è enorme desiderio di leggere e di conoscere. E soprattutto: di capire».

E poi?

«Faccio una constatazione che può sembrare scontata, ma non lo è: questa guerra viene percepita come vicinissima a noi. Molto più dell’Iraq, che aveva fissato il nostro record precedente, più della ex Jugoslavia». 

E poi? Cosa c’era in particolare in quel numero?

«È andato esaurito due volte, ma – ad esser sincero – è un numero che mi pare bello esattamente come il precedente e il successivo».

E allora?

«Ci sono momenti in cui si raccoglie in un solo giorno quello che si è seminato in venti anni». 

Molti onori, e anche critiche. Ti arrabbi perché ti definiscono «amico di Putin»?

«Posso essere sincero? 

Devi.

«La risposta è: zero». 

Non ti senti offeso?

«L’accusa non mi tocca. Proprio il successo del lavoro, in questi mesi, ci dice che il nostro approccio non ideologico agli eventi è parte della formula segreta di Limes». 

Segreta perché non la riveli a nessuno?

(Ride). «Segreta perché chi ci attacca evidentemente non la conosce. La racconteremo solo ai lettori di questa intervista». 

Incontro Lucio Caracciolo nella sede di Limes, nel grande Palazzone di Largo Fochetti a Roma. I numeri della rivista, accatastati dietro la sua scrivania, costituiscono, con le annate impilate, una montagna di carta.

Chiedo a Caracciolo quando ha immaginato una rivista grande come un almanacco e corposa come un libro. Lui sorride con il suo leggendario understatement, estrae un numero del 1996, sorride: «Infatti il modello non l’ho immaginato io. L’ho copiato, dai francesi di Hérodote. E poi ci abbiamo aggiunto del nostro». 

Per mezzo secolo ti hanno detto che era troppo facile diventare direttore nel gruppo editoriale di tuo zio.

«La cosa mi ha sempre divertito: come sai, non ho nessuna parentela con il mio editore Carlo Caracciolo». 

Non sei nobile?

«Mio padre rinunciò al predicato. A Napoli, con una sintesi geniale, si dice: “Ci sono più Caracciolo della monnezza”. La mia era una normalissima famiglia di intellettuali agiati e di estrema sinistra».

Cosa facevano i tuoi?

«Entrambi professori universitari: papà storico dell’economia e mamma storica del diritto». 

Dove hai studiato?

«Le medie in una scuola svizzera, a Roma». 

E poi?

«Il classico al Tasso, dove ho avuto la fortuna di entrare nell’indimenticabile biennio 1967-1968». 

Molti di quella generazione sono diventati politici e giornalisti.

«Mi ricordo bene Paolo Gentiloni, che stava nel movimento studentesco, e un giovane monarchico, che poi era Antonio Tajani».

E tu?

«Ero un normalissimo “figiciotto”, ovvero un giovane comunista italiano, insieme al mio amico Marco Magnani e molti altri. Nella nostra cellula c’era anche un giovane Walter Veltroni, solo un anno più piccolo di me. Nel movimento degli studenti c’era una splendida e brillante ragazza: Lucrezia Reichlin». 

Lo dici con un entusiasmo da ex corteggiatore?

«Casomai con il rammarico di non esserlo stato: eravamo coetanei, ma purtroppo con lei non avevo speranze».

Che bambino eri?

«Un figlio di professori che mi tormentavano con continui inviti alla lettura. Quando hanno smesso ho iniziato a leggere davvero, con enorme piacere personale». 

Cosa immaginavi del tuo futuro da ragazzo?

«Non avevo la più pallida idea di che avrei fatto». 

Fratelli?

«Uno, più piccolo». 

Come e perché sei diventato giornalista?

«Nella Fgci di Renzo Imbeni, che mi distaccò a Nuova Generazione, il nostro settimanale, con regolare stipendio».

Era il 1975: quanto guadagnavi?

«Non poco: 300mila lire. Più l’indimenticabile buono alimentare natalizio da spendere alla cooperativa La Proletaria». 

Non si scherzava.

«È tecnicamente giusto dire di me: “pagato da Mosca”». 

Attento che di questi tempi ti prendono alla lettera.

«È la verità!». 

Poi hai l’onore di partecipare alla fondazione di la Repubblica

«Raccomandato». 

Che dici?

«La verità. Sono amico di Enrica, la figlia di Eugenio Scalfari, che mi segnalò a suo padre». 

Che ricordo hai di quei giorni?

«Una indimenticabile e febbrile atmosfera: avventurosa, direi». 

Detto così sembra un romanzo salgariano.

«Non si potrebbe raccontare quel giornale senza il carisma dominante, elegante, trascinante, assoluto, di Eugenio».

Tu stavi al cosiddetto “Rotor”.

«Un servizio fatto tutto da giovani, guidato da quel gentiluomo di Gianluigi Melega. Eravamo tutti più o meno di sinistra, ma ciascuno pensava con la propria testa. Pensavano quel giornale gente come Miriam Mafai, Carlo Rivolta, Giorgio Rossi, Mario Pirani. Io ero l’ultima rotella». 

Cos’hai imparato da Melega?

«Tutto: lavorare veloce, usare la scrittura giornalistica». 

Fai carriera nella macchina. A 30 anni caposervizio al politico.

«Ho seguito ogni spiffero del Palazzo, passando giornate a compulsare fonti e comunicati: poi ho voluto cambiare».

Nel 1985 passi a MicroMega, guidato da Paolo Flores D’Arcais e Giorgio Ruffolo.

«Altra scuola, arricchita dalla differenza di idee e formazione dei due. Me ne vado nel 1993». 

E chiedi a Caracciolo di fondare una rivista.

«Ero affascinato dal modello di Hérodote. E dalla figura di Michel Korinman, che mi propose di lanciare quell’impresa». 

Che tu però hai contaminato.

«Con l’esperienza di MicroMega. Un doppio credito». 

Era il 1993: dopo la caduta del Muro, il mondo si era rimesso in moto.

«Era scoppiata la guerra in Jugoslavia. L’urgenza degli eventi, come spesso accade, ci fece crescere molto velocemente. Il primo numero fu ristampato». 

E tu cosa pensasti quel giorno?

«Che se fossimo nati dieci anni prima avremmo chiuso subito». 

Ah ah ah.

«Nel 1989 finiva un racconto cartesiano della storia, segnato dalle dicotomia della guerra fredda, bianco-nero, bene-male. Per passare al caos». 

Da bimestrale diventate mensile. Siete stati i padri della geopolitica in Italia.

«L’influenza più grande, su di me, l’ha avuta uno straordinario intellettuale francese, Yves Lacoste. Il geografo eclettico che ha inventato la nuova disciplina».

Tutti oggi abusano della parola, ma cos’è la geopolitica?

«Una scienza che si basa sull’analisi di conflitti in spazi definiti, e sulla capacità di interpretare i sentimenti e le idee che animano i protagonisti». 

Vi accusano di relativismo.

«Bene. La geopolitica si basa proprio su punti di vista diversi: sulla capacità di entrare nelle scarpe e nella testa degli attori per capire come si comportano in base alle loro convinzioni». 

Anche in questo conflitto?

«Soprattutto. Tutti, a partire da Putin e da Zelensky, cercano di legittimarsi sulla base della storia. Il nuovo nazionalismo in Europa orientale nasce da questa febbre». 

In Europa occidentale no?

«Noi siamo stati educati a dimenticare la storia». 

Perché?

«Eravamo gli sconfitti della Seconda Guerra Mondiale. Abbiamo fatto così tanti disastri, in due guerre, che la stessa Unione europea è un tentativo di ricominciare da capo, patrocinato dagli americani».

Fammi un esempio di perseveranza di memoria?

«In Polonia, quando parli di Ucraina, prova a nominare Leopoli! Nel 1919 si sono massacrati su quelle frontiere: lì è come se fosse ieri». 

Oppure?

«A Budapest trovi le carte della “Grande Ungheria” nei bar. In Russia usano la cartografia sovietica e zarista come strumento di lotta politica».

Per non dire dei Balcani.

«La guerra jugoslava era basata sul fatto che gli jugoslavi non esistevano più. C’erano solo la grande Croazia, la Grande Serbia, la grande Albania…». 

E noi?

«La nostra Costituzione materiale è il trattato di pace del 1947. Ci siamo illusi, attraverso la Resistenza, di avere ottenuto un ruolo nel campo dei vincitori. Ma dopo la guerra perdiamo tutte le colonie e anche qualche pezzettino di Italia. Noi per il mondo siamo quelli dell’armistizio e della capitolazione».

Faresti contento un nostalgico dell’impero mussoliniano…

«È un fatto. L’Italia, fino all’entrata in guerra del 1940, era una potenza. Poi, da sconfitti, siamo diventati uno Stato a sovranità limitata. E questo spiega anche l’Italia delle stragi». 

Esiste oggi un rischio di revisionismo?

«Dal punto di vista tecnico il revisionismo è il sale della storia. Ma da noi se ne fa un uso politico e strumentale. Mettere i fascisti sullo stesso piano dei partigiani è inaccettabile».

Come si trova un punto di equilibrio?

«Per me è fondamentale sapere che non c’è una verità definitiva. Scorretto è usare la storia per usi politici».

 Fammi un esempio.

«Che si arrivi a parlare del fascismo e del nazismo come di fenomeni accettabili». 

Anche in questo conflitto.

«Pensa: il neonazismo ucraino era fondamentalmente nazionalista e anti-russo. Con effetti paradossali».

Quali?

«Per i nazisti la conquista dell’Ucraina era l’assoggettamento di una specie inferiore. Erano ideologicamente razzisti. E trattarono gli ucraini da subumani». 

Questo Limes adulto quanto è diverso dal Limes bambino?

«Era già una bella rivista. Oggi, forse, la parte storica è più approfondita». 

A cosa serve Limes, se devi spiegarlo ad un ragazzo?

«Se guardi solo la televisione questa guerra è una orribile serie di fatti di cronaca. Invece affonda in un passato secolare. Una radice che è la disintegrazione dell’impero russo, iniziata dopo la Prima Guerra Mondiale, e ancora in atto».

E il caso Putin?

«Una sfida: mi obbliga a riflettere su un limite del nostro modo di ragionare». 

Cioè?

«Nella pubblicistica contemporanea si dà troppo rilievo ai capricci di singole personalità». 

Quindi è una guerra russa e non solo di Putin.

«Vero. Ma ci sono anche le personalità, figlie di una storia, che talvolta hanno il potere di deviare il suo corso. Putin ha avuto la possibilità di decidere da solo. Per questo nell’ultimo di Limes raccontiamo alcuni caratteri della biografia di Putin decisivi per capire cosa sta accadendo».

Che intendi?

«Ho solo una certezza: di questa guerra, oggi, sappiamo ancora troppo poco». 

Ovvero?

«Putin ha fatto degli errori madornali: non ha compreso i rapporti di forza in campo: il che, per un’ex spia, è un errore gravissimo». 

Anche lui impelagato nella memoria.

«Vedi che si torna lì? Per lui la storia dell’Ucraina e della Russia comincia con il battesimo del principe Vladimiro nel 988 a Kiev. E poi l’orgoglio imperiale. Ha portato i russi dentro una guerra che pensava di risolvere rapidamente e che minaccia di portare il suo Paese alla caduta».

E la Nato?

«Questa guerra per gli americani deve finire solo con il crollo di Putin. Ma c’è un rischio enorme». 

Quale?

«In Russia, quando un regime crolla, crolla anche lo Stato».

E Biden?

«Servirebbe un leader con un respiro più grande del voto di mid-term».

Il discorso di Putin dei 50 minuti sembrava scritto per voi di Limes.

«Putin vede Lenin come uno che ha tradito, un agente tedesco che ha fatto un colpo di Stato». 

Torniamo al segreto di Limes.

«C’è un piccolo nucleo efficientissimo di collaboratori, molti dei quali miei ex studenti. E poi una formidabile rete di esperti, in tutto il mondo». 

Perché Limes non ha un concorrente “di destra”?

«Non credo che sia una rivista di sinistra. Io sono “di sinistra”, personalmente, ma il nostro giornale non ha un punto di vista politico». 

Perché?

«La geopolitica non è politica, e non deve mai diventarlo. Devi capire le ragioni e le motivazioni di tutti i contendenti».

Quindi non puoi avere un concorrente di destra?

«Se ne avessi cinque sarei felice. Pensa che quando siamo nati alcuni teorizzarono che la geopolitica fosse una disciplina fascista». 

Come mai?

«Il fascismo creò una mitologia della geopolitica. E una rivista, con questo nome, voluta da Bottai». 

Un’operazione culturale.

«Era diretta da Massi e Roletto: e voleva dare una giustificazione geopolitica al fascismo».

Hai incontrato l’ex direttore.

«E mi ha detto una cosa del tipo: “Un complotto giudaico-pluto-massonico governa il mondo”». 

Due anni fa avete aperto anche una scuola!

«Devo dire grazie ai 200 iscritti e agli ex alunni che ci continuano a seguire». 

Quale potrebbe essere il vostro motto ideale?

«“Ama il tuo nemico”, dal Vangelo di Matteo».

·        Luigi Contu.

Ida Bozzi per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2022.

Le generazioni passano, i nonni e i padri lasciano dietro di sé case e stanze che i nipoti o i figli devono svuotare, sistemando i ricordi in qualche scatolone: è un momento doloroso della vita dei giovani, in cui riaffiorano memorie e rimpianti, e il senso della perdita rimane irrimediabile. 

Ma può succedere di trovare una traccia, un messaggio immateriale che sembra rivolto proprio a noi, una voce che non ha smesso di parlarci soltanto perché si è spenta. E se quella traccia è un libro, o una fotografia, o una poesia scritta a penna su un foglio, il viaggio non è finito: è appena cominciato.

Lo racconta un memoir romanzesco pieno di scoperte, I libri si sentono soli, del direttore dell'agenzia Ansa, il giornalista Luigi Contu, in uscita per La nave di Teseo. E lo racconta la mostra omonima, che si apre oggi a Fano (Pesaro-Urbino) nell'ambito di Passaggi Festival, e che presenta molte delle scoperte di Contu nella biblioteca di famiglia, raccontate nel libro (la presentazione del volume sarà sempre a Passaggi, il 24 giugno). 

Le scoperte sono tante: il libro ripercorre lo stupore del giornalista, entrato in possesso della biblioteca dopo la morte del padre Ignazio (1930-2011), nello scoprire che in quei volumi, migliaia e migliaia, c'è un intero mondo. Durante il trasloco che alla fine si rende necessario per svuotare la casa, nel 2020 del primo lockdown , dalla libreria emerge la sorpresa: se chiusi e allineati negli scaffali «i libri si sentono soli», come avvertiva il nonno Rafaele, appena aperti svelano tesori.

Dagli scaffali e dalla cassapanca sarda di famiglia spunta la copia dell'Ulisse di James Joyce, acquistata appunto da Rafaele Contu (1895-1952) nel 1929, ben prima che fosse edito in Italia (nel 1960). Emerge la storia del bisnonno sindaco di Tortolì, in Sardegna, e l'assalto dei briganti in paese, raccontato anche dal «Corriere», spuntano i molti libri di autori sardi, poeti, scrittori, scrittrici: dalla copia della raccolta. 

Nell'azzurro scivola fuori un biglietto che l'autrice, Grazia Deledda, aveva scritto poco dopo il Nobel. Rivive la Grande guerra, con l'immagine del nonno eroe soldato ma anche i libelli di Luigi Cadorna (conservati, ma non sottolineati come altri libri) che con le loro rigide regole porteranno al disastro di Caporetto. Dagli scatoloni affiorano poesie e lettere: aperta un'edizione di Zang Tumb Tumb si scopre la dedica di Filippo Tommaso Marinetti, sfogliato un libretto spunta un inedito di Giuseppe Ungaretti, Inno.

Corrono fuori dagli scatoloni i messaggi del poeta francese Paul Valéry, entusiasta di una traduzione di Rafaele, emergono le corrispondenze con Umberto Saba, con Eugenio Montale, con Corrado Alvaro, e ancora prime edizioni, collezioni di riviste spesso fondate e dirette dagli avi: molte saranno visibili in mostra.

La sorpresa di Contu via via diventa curiosità, poi entusiasmo, il nipote si appassiona ai libri del nonno, traduttore di Einstein e Valéry e direttore dell'«Unione Sarda», agli articoli del padre Ignazio Contu, già direttore editoriale Rusconi, poi giornalista parlamentare e portavoce di Amintore Fanfani al Senato: si abbandona a mesi di letture, di percorsi silenziosamente indicati dai libri che lo conducono ad addentrarsi in amicizie letterarie, vicende editoriali, eventi storici. 

«È stato impressionante - racconta Luigi Contu al "Corriere" - perché è come se fossi riuscito pian piano a entrare nella testa di mio nonno, che non ho mai conosciuto, a penetrare nella vita della famiglia, e nella storia d'Italia, tutto insieme. Non voglio essere enfatico ma ho immaginato, alla fine, di riparlare con loro, di rivederli. Un viaggio a tre dimensioni: nella cultura del Novecento, nella storia del Novecento, e nei sentimenti personali».

C'è un altro viaggio che emerge dal memoir di Contu: la riscoperta della profondità del libro, della sua dimensione umana. «Il libro - prosegue il giornalista - ti parla, ti manda dei messaggi. Ho ritrovato e ho capito cose che avevo vissuto, ma non avevo messo a fuoco: i consigli di lettura di mio padre, quasi una recensione dei libri importanti per capire la vita; o il volume che mi aveva regalato Enzo Tortora sul carcere prima di essere arrestato. 

La frase di mio nonno, "i libri si sentono soli", è vera. Attraverso i libri, ti tornano accanto le persone. E ti fanno questo regalo: ti costringono a prenderti del tempo per loro. L'uso dei libri che ho fatto in questi anni, da giornalista, è un consumo per lavoro, i dati, le analisi; ma con la "costrizione" del trasloco, mi sono ripreso la poesia, la letteratura.

Tempo fa dicevo agli amici: i romanzi non li leggo più, ho letto tanto da ragazzo, fino ai 25-26 anni, poi sono stato travolto dal lavoro... In realtà è un errore enorme: quando hai i libri e ti metti a leggerli, è un ristoro del tuo tempo, della tua mente, dell'anima». Il messaggio silenzioso dei libri passa di generazione in generazione, conclude Contu: «Mi sono riappropriato dell'affetto di mio padre, ho conosciuto il nonno che non avevo mai visto. E ho avuto la fortuna di farlo insieme ai miei figli, Ludovica, Francesco e Ignazio, che si sono appassionati. Questi libri, nelle loro mani, continueranno a vivere: se i miei figli avranno i libri, non saranno soli. E non li lasceranno soli».

·        Luisella Costamagna.

Luisella Costamagna, dal telegiornale a “Ballando”. Le curiosità sulla giornalista. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 12 Novembre 2022.

Dagli inizi in una tv locale fino alla danza in prima serata su Rai1 il sabato sera. La conduttrice è laureata in filosofia: ama il mare e gli animali. E ha appena perso un gatto

Gli esordi

Luisella Costamagna è uno dei volti più noti (e più amati) dell’edizione di quest’anno di “Ballando con le Stelle”. Piacciono e convincono le sue esibizioni del sabato sera con Pasquale La Rocca. Laureata in Filosofia, giornalista professionista dal 2000, ha iniziato la sua carriera lavorando per una televisione locale, Teletime. Ha collaborato per tre anni per la trasmissione Moby Dick, condotta da Michele Santoro e ha poi condotto Studio Aperto dal 1999 al 2000.

La danza fin da bambina

Fin da bambina ha dimostrato di essere appassionata di scrittura e di giornalismo ma ha sempre nutrito un forte interesse anche nei confronti del ballo. Ha, infatti, studiato danza classica per alcuni anni.

Vita privata

Luisella Costamagna, 53 anni, è legata sentimentalmente allo scrittore Dario Buzzolan, figlio del critico televisivo Ugo Buzzolan. La coppia ha un figlio di nome Davide.

Passione mare

La giornalista non ha mai nascosto la sua passione per il mare: spesso sui social infatti pubblica scatti e foto (anche senza make up) intenta a prendere il sole o a fare il bagno insieme alla famiglia.

L’addio al gatto

“Ciao Elisa, tesoro mio. Ci hai amati, ti abbiamo amata, non c’è altro che conti nella vita”: così a fine ottobre Luisella ha dato l’addio social al suo gatto. Una compagna fidata per tanti anni per la conduttrice.

L’infortunio

La giornalista ex conduttrice di Agorà si è infortunata durante le prove a inizio stagione di Ballando con le Stelle ed è stata costretta a portare un tutore.. Nella serata di esordio del programma si era cimentata in un tango che è stato tra i più apprezzati della serata.

·        Marcello Foa.

Foa: «Così funziona la trappola del potere». «Il Sistema (in)visibile», nuovo saggio dell’ex presidente Rai. Domani alle 18 la presentazione nella libreria Roma a Bari con Paolo Petrecca, direttore RaiNews 24, e Oscar Iarussi, direttore della «Gazzetta». Leonardo Petrocelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Novembre 2022.

Domani pomeriggio (ore 18), negli spazi della Libreria Roma di Bari, si presenta il volume «Il Sistema (in)visibile» (Guerini e associati, pp. 251, euro 19) del giornalista Marcello Foa. Dialogano con l’autore il direttore della «Gazzetta», Oscar Iarussi, e il direttore di Rai News 24, Paolo Petrecca.

È una radiografia ragionata del potere quella realizzata da Marcello Foa, giornalista ed ex presidente Rai dal 2018 al 2021, nella sua ultima fatica Il Sistema (in)visibile. Un «disvelamento» documentato dei meccanismi di costruzione e diffusione della cosiddetta «agenda globale» che tira in ballo governi, fondazioni, giornalisti, intellettuali. E che ci restituisce il ritratto di una cittadinanza priva di controllo sui propri destini.

Foa, in questa storia prima del «chi» e del «come» conta il «quando». Qual è il punto di rottura?

«Finché si trattava di combattere il comunismo l’Occidente aveva interesse a dimostrare la piena corrispondenza tra valori democratici, benessere e propaganda. Un modo per esercitare una forte influenza sui Paesi della sfera sovietica».

Poi crolla il Muro e che succede?

«Succede che la corrispondenza si perde, diventa superflua. S’impone un nuovo criterio generale, la globalizzazione, che non prevede coincidenza. Valori, realtà dei fatti e comunicazione prendono strade diverse e non sempre allineate».

Il potere tira dritto nel costruire il mondo globale. Ma come funzionano le cose?

«Soffriamo di una dissonanza perché pensiamo ancora nei termini di destra e sinistra, di bagarre politica. Ma il potere funziona diversamente e soprattutto è altrove. Non c’è una Spectre che decide, ovvio, ma esiste una gestione da parte di attori pubblici e privati che remano tutti nella stessa direzione. L’input parte da Washington e poi si allarga».

E come si allarga?

«La commistione tra pubblico e privato è legata al sistema delle porte girevoli e del moltiplicarsi dei ruoli ricoperti da una stessa persona che possiamo vedere dappertutto. Prima in un’università, poi in una azienda, poi in una fondazione, poi in politica. Mantenendo, ovviamente tutti i legami intatti e un’agenda coerente in ognuno di questi passaggi».

Conflitto di interessi?

«Direi coincidenza di interessi. Nel libro ci sono molti esempi su come funziona l’agenda globale, da chi viene pensata e come viene imposta. Il Forum di Davos, per dirne una, non è un mero luogo di discussione ma una realtà attiva nel definire le priorità tematiche ed attuarle. Non solo, è anche una scuola che fa crescere le élite tramite il Forum of Young Global leaders».

Quest’ultimo è meno noto. Chi ne fa parte?

«I nomi sono tanti e reperibili pubblicamente: Macron, Renzi, Zuckerberg, la finlandese Sanna Marin e, caso singolare, la cofondatrice di Black Lives Matter (BLM) Alicia Garza».

Che ci fa un’attivista tra i rampolli del mondo globale?

«Ecco, BLM è un esempio interessante di come l’attivismo possa essere incanalato per motivi politici. Sotto Obama era un movimento estremista e disdicevole. Poi arriva l’odiato Trump e diventa un riferimento globale. Non è un giudizio politico, è una constatazione. Non sembra un po’ strano?».

In questo schema un ruolo notevole lo giocano la stampa e gli intellettuali. Va bene il mainstream ma a cosa si deve tanta uniformità?

«Mi fanno ridere quelli che dicono che tutti i giornalisti sono venduti. È una ipotesi suggestiva ma irrealistica».

Quindi?

«È successo che durante la Guerra Fredda il Kgb mise in atto dei raffinatissimi meccanismi di condizionamento della stampa e del mondo culturale che, infatti, si spostarono decisamente a sinistra. Oggi, questa stessa impostazione è stata messa al servizio della globalizzazione».

Ma come si fa a spostare giornalisti e intellettuali da tesi marxiste al liberal-liberismo attuale?

«Non è difficile. Si parte da un elemento comune, cioè l’internazionalismo. Da qui, il problema è stato fornire alla sinistra un appiglio, qualcosa che la rassicurasse nella sua funzione etica e cioè le battaglie umanitarie ed ecologiste. E, infine, un riferimento concreto: la sinistra americana. L’idea ha funzionato. Oggi la sinistra è diventata iperliberista ma si compensa con l’umanitarismo».

Conosce l’obiezione: tutto questo è puro complottismo.

«Quella del complottismo è una tecnica sperimentata con successo negli Usa per screditare chi confutava l’operato della Commissione Warren sull’omicidio di Kennedy. Si comprese che si tratta di un meccanismo efficacissimo per screditare l’interlocutore, costretto a ripiegare e difendersi».

Lei è stato presidente della Rai. Non poteva far nulla per contrastare il conformismo dell’informazione?

«Ero presidente, non amministratore delegato. Quindi il mio potere era limitato. Ma sul servizio pubblico mi lasci dire una cosa: può avere un ruolo vitale a tutela della democrazia solo se indipendente e pluralista, libero cioè dal condizionamento della politica. E dunque, anche, dell’agenda di cui sopra».

Il quadro non è positivo. Ma ammette di conservarsi pasolinianamente ottimista. Questo slancio a cosa si deve?

«Allo svilupparsi di una coscienza democratica trasversale dopo le recenti crisi, dal Covid all’Ucraina. Il numero di persone che non si accontenta delle verità formali è più alto di quanto si possa immaginare».

·        Marco Damilano.

Caso Damilano. L'ultimo amico di mamma Rai. Luigi Mascheroni il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

Da settembre Rai3 manderà in onda una nuova striscia quotidiana di informazione. Comincerà alle 20.35 e durerà dieci minuti.

Da settembre Rai3 manderà in onda una nuova striscia quotidiana di informazione. Comincerà alle 20.35 e durerà dieci minuti. Brevità farà rima con qualità? È un dubbio. Di sicuro sarà curata e condotta da Marco Damilano, appena fatto fuori dall'Espresso. I sindacati e un pezzo della politica - riassumendo - hanno commentato: «Ma come? In un momento in cui l'ad della Rai Carlo Fuortes chiede sacrifici ai giornalisti interni, come si fa a pagare qualcuno che viene da fuori? Perché stato chiamato Damilano?». La risposta, pensando a tanti altri casi di firme note della Sinistra rimaste a spasso e riassunte velocemente in Rai, è nella storia recente della nostra televisione pubblica. Damilano a viale Mazzini la fila dei riposizionati è lunga. La Rai è la più grande azienda culturale del Paese. È vero. Ma anche un efficientissimo Ufficio di collocamento. Per l'intellighenzia che fallisce nella carta, la televisione di Stato è un paracadute. C'è gente che cade sempre in piedi... Rai: «Di tutto, di più». A Concita De Gregorio, rimasta a casa dall'Unità, dal 2013 al 2016 Rai3 affidò la trasmissione di libri «Pane quotidiano». Mario Calabresi, che mentre dirigeva la Stampa condusse, nel 2011, in prima serata su Rai 3, Hotel Patria, appena rimosso dalla poltrona di Repubblica, nel 2019, divenne ospite itinerante di mezza televisione italiana, Rai in primis, e non ha più smesso. Gianni Riotta, dopo la «complicata» (fra virgolette) direzione del Sole24ore, ebbe da Rai Storia la trasmissione «Eco della Storia». Massimo Giannini - che peraltro, da sempre, è più in televisione che in redazione - in un momento di stanca a Repubblica condusse «Ballarò» su Rai 3, fra il 2014 e il 2016. Carlo Verdelli, superdirettore di tutto, dopo le dimissioni dal gruppo Condé Nast, nel 2015 venne nominato dal Consiglio di Amministrazione della Rai «Direttore editoriale per l'Offerta Informativa»: un progetto sontuoso e ambizioso che non andò mai in porto. Daria Bignardi in una fase di riposo della sua peraltro luminosa carriera fu addirittura direttrice di Rai 3, febbraio 2016 a luglio 2017... Ci fermiamo qui. L'ufficio selezione del personale di Mamma Rai possiede molti più curricula, e più dettagliati, di noi. La Rai-Radiotelevisione italiana S.p.A. resta un'azienda fra le più sicure del Paese: non fallirà mai. Semmai, chi fallisce, lì sempre può trovare un nuovo Approdo. Nome, fra le altre cose, di un celebre programma culturale degli anni Cinquanta. Quando la Rai era feudo del centrosinistra.

(ANSA il 5 aprile 2022) - "Chiediamo all'azienda di conoscere i criteri che hanno portato alla scelta di Marco Damilano per condurre una striscia informativa prevista alle 20.35 su Rai Tre. Chiediamo inoltre di conoscere quali sono i costi che la nuova trasmissione comporterà". 

La richiesta arriva dal Cdr del Tg1, dopo che Viale Mazzini ha chiamato a collaborare il giornalista Marco Damilano, recentemente dimessosi da direttore dell'Espresso.

"Mentre si chiedono sacrifici alle redazioni, si tagliano edizioni (come recentemente accaduto da ultimo alla Tgr), si limitano o peggio si impediscono gli interventi o le collaborazioni dei giornalisti Rai all'esterno dell'azienda, non si investe in formazione e in sicurezza, come ci insegna la vicenda dei pochi e male equipaggiati inviati in Ucraina, all'inizio della guerra (e solo ora si sta rimediando) - ribadisce in una nota il Comitato di redazione del telegiornale -, al tempo stesso si decide di spendere risorse per una nuova trasmissione d'informazione, affidandola a una figura esterna, come se in Rai e nelle nostre testate non ci fossero già le professionalità e le capacità necessarie, dimostrate più volte.

Non abbiamo bisogno dell'ennesimo giornalista esterno che collabora con aziende e testate concorrenti". Il Cdr punta il dito contro la decisione dei vertici aziendali considerata "ancora più grave per la coincidenza di orario del nuovo programma con un'edizione di un nostro telegiornale nazionale.

Si tratta di un'assurda e inaccettabile concorrenza interna. Per questo, come Cdr del Tg1 ci uniamo alla battaglia dell'Usigrai e dei colleghi del Tg2 nel denunciare l'incoerenza e la totale mancanza di visione di questa decisione aziendale". Il Cdr del Tg1 ribadisce che è "inaccettabile da un lato operare tagli all'informazione (dalle edizioni alle troupe) in una presunta ottica di risparmio dei costi e dall'altro assumere esterni a caro prezzo. 

Uno schiaffo ai danni dei professionisti Rai e uno spreco, quello sì, di denaro pubblico. La decisione di affidare a un collega esterno una trasmissione d'informazione è l'ennesima umiliazione delle nostre preziose risorse interne. Ci aspettiamo invece una dirigenza capace di valorizzare e promuovere i colleghi che già compongono la grande famiglia Rai".

 DAGONEWS il 5 aprile 2022.

Come è sbocciato il nome di Marco Damilano sull’agenda di Carlo Fuortes? Semplice: l’ex direttore dell’Espresso è sempre stato grande amico con Romano Prodi, e da qui arrivare a Enrichetto Letta è un passo. Ora il “bellum” deve venire, visto come l’Espresso ha sempre maltrattato Mario Orfeo, responsabile dei talk politici.

Intanto, Fuortes si è scontrato con Monica Maggioni per la sua sovraesposizione da esperta di geopolitica in tutte le trasmissioni (manca solo il segnale orario). E la direttora del Tg1, nominata grazie ai “migliori” di Palazzo Chigi che siedono intorno a Draghi, è stata costretta a fare un passo indietro. 

Fuortes ha avuto un alterco anche con Bianca Berlinguer che pretendeva un passo indietro dell’Ad Rai, cioè far rientrare la decisione sul no al contratto al sociologo del terrorismo Alessandro Orsini. Ovviamente Bianchina l’ha presa in quel posto. Non solo: Fuortes ha tenuto a precisare la sua fiducia in Franco Di Mare, il nemico più intimo della conduttrice di “Cartabianca”.

Lo stipendio da capogiro della Rai a Marco Damilano: 50mila euro al mese per 10 minuti al giorno in tv. Il Tempo il 24 aprile 2022.

Scoppia il caso Marco Damilano in Rai. In una nota la senatrice della Lega Simona Pergreffi, commissaria in Vigilanza Rai, e il deputato del Carroccio Daniele Belotti si sono rivolti ai vertici della tv di Stato per fare chiarezza sulle indiscrezioni che parlano di un accordo da 50mila euro al mese di stipendio per l’ex direttore de L’Espresso, dimessosi dal settimanale dopo il cambio di proprietà con il passaggio dalla famiglia Agnelli a Danilo Iervolino: “La scelta dell’ad della Rai Carlo Fuortes di arruolare da settembre Marco Damilano per una striscia quotidiana di 10 minuti nel Tg3 è assolutamente fuori luogo, viste le cifre dell’ingaggio dell’ex direttore de L’Espresso che stanno circolando sulla stampa. Uno schiaffo a milioni di famiglie. Si parla di ben 50 mila euro al mese per dieci minuti di trasmissione al giorno, pari a 2 mila euro a puntata, che pagheranno i contribuenti”.

“Da un lato - sottolineano i leghisti - Fuortes chiede sacrifici interni alla Rai tanto da proporre, in commissione, l’aumento del canone, e dall’altro ingaggia a peso d’oro un giornalista esterno, tra l’altro per un tg da sempre piuttosto incline a ideologie tipiche della sinistra. Visto che l’ex direttore de L’Espresso domani sarà in piazza a Bergamo per il comizio di chiusura del 25 aprile, avrà il coraggio di rivelare ai cittadini qual è il suo ingaggio dorato? O magari, in un sussulto di dignità popolare, glielo chiederà qualche relatore che salirà sul palco? Di certo la scelta del Comitato Antifascista bergamasco di invitare proprio un giornalista così costoso per i contribuenti non è stata appropriata a maggior ragione dopo le fratture all’interno della sinistra sulle armi in Ucraina. La liberazione e la democrazia passano anche per la trasparenza e la chiarezza, Damilano - conclude la nota congiunta degli esponenti della Lega - lo dimostri domani”.

Da “Libero quotidiano” il 25 aprile 2022.

Dopo le proteste per il suo approdo in Rai, sono ora le cifre del suo contratto a provocare polemiche. Il caso di Marco Damilano, che dall'autunno condurrà una striscia quotidiana di 10 minuti in access pri-me time su Rai3, continua a far discutere. 

Dura la reazione della Lega. «Ci poniamo una semplice domanda che sorge spontanea: il paventato aumento del canone Rai servirà per sostenere l'ingaggio spropositato di Marco Damilano?», affermano i componenti della Commissione di Vigilanza, Giorgio Maria Bergesio, Umberto Fusco e Simona Pergreffi, «non si spiega altrimenti l'incoerenza dell'ad Fuortes».

Dall'azienda, intanto, contestano le cifre (50mila euro al mese) facendo capire che il contratto sottoscritto da Damilano prevede un compenso annuale inferiore al tetto dei 240mila euro.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 28 aprile 2022.  

Il giallo dei compensi che riceverà Marco Damilano per la striscia quotidiana di dieci minuti su Rai3, più avvincente di un mistery di Agatha Christie, ha finalmente una soluzione. Veronica Marino dell'Adnkronos, infatti, ha appreso da fonti della Rai che il contratto dell'ex direttore dell'Espresso nonché volto di Propaganda Live delle maratone Mentana su La7, percepirà 1.000 euro lorde a puntata per 200 puntate nell'arco di dieci mesi. 

Confutati quindi i timori della Senatrice Daniela Santanché di Fratelli d'Italia che paventava finanche 2.000 euro a puntata che avrebbero superato i 240mila euro lordi imposti ai dirigenti Rai. Vincolo al quale Damilano, da risorsa esterna qual è, non sarebbe comunque stato assoggettato.

Il giallo avrà avuto anche una soluzione, ma la somma di 200mila euro lordi incassati in meno di un anno per dieci minuti dal lunedì al venerdì riuscirà a placare le ire dei sindacati interni, dell'USIGRai già ai ferri corti con l'Ad Carlo Fuortes per il taglio dell'edizione notturna della Tgr, e del Tg2 di Gennaro Sangiuliano che deplora la concorrenza della striscia nello stesso slot del suo Tg2 Post? 

"Non ci sono forse altri giornalisti interni validi quanto e ancor più di Damilano?" e "Fuortes non era stato chiamato a Viale Mazzini per abbattere i costi?" sono al momento le "canzoni" più gettonate nelle sedi Rai. Ora, cifre alla mano, perderanno popolarità o diventeranno tormentoni estivi?

Laura Rio per “il Giornale” il 29 aprile 2022.

Non saranno cinquecentomila euro. Come da indiscrezioni smentite dalla Rai. Saranno duecentomila, all'anno. Che non sono comunque pochi. Sono i soldi che Marco Damilano prenderà per realizzare e condurre la tanto contestata striscia quotidiana di approfondimento su Raitre. 

Dieci minuti alla sera, alle 20,35, in una fascia oraria ambitissima, per rileggere le notizie del giorno, guidati da un giornalista dichiaratamente di sinistra, noto al pubblico per le sue partecipazioni a programmi de La7, come «Propaganda Live».

Dopo le molte polemiche sul suo ingaggio - un giornalista esterno «assoldato» nella tv di Stato a fronte di quasi duemila interni - da viale Mazzini filtrano in maniera ufficiosa le cifre del contratto previsto per l'ex direttore dell'Espresso. Nello specifico mille euro lordi a puntata per circa 200 puntate nell'arco di dieci mesi. Per un totale, dunque, di duecentomila euro all'anno.

Un compenso - che comprende anche la partecipazione ad altri programmi - inferiore ai 240mila euro, tetto massimo secondo la legge per gli stipendi dei dirigenti Rai. Tetto che, comunque, teoricamente non sarebbe stato necessario rispettare perché non viene applicato ai giornalisti, ai consulenti e agli artisti. Ma che, invece, un po' furbescamente, è stato applicato a Damilano per contenere le polemiche.

Ma, almeno per ora, queste non sono destinate a placarsi. Ad infuriarsi sono stati i sindacati interni, la redazione del Tg2 e molti esponenti politici. E la questione sarà presto discussa in Commissione Vigilanza Rai su richiesta della senatrice Daniela Santanché e sarà anche oggetto di un'informativa dell'ad Carlo Fuortes in Cda. 

La senatrice ha sottolineato che «quanto accaduto rafforza in noi il convincimento che la sinistra considera la Rai una sua proprietà e che in particolare Raitre sia l'ufficio di collocamento degli amici giornalisti, specie se disoccupati e reduci da fallimenti editoriali».

Duro anche l'Usigrai, il sindacato interno, che ha fatto notare che «in un momento in cui l'ad chiede sacrifici agli interni, ci sembra paradossale che all'improvviso ci siano i soldi per pagare un giornalista esterno, quindi con un aggravio di costi per l'azienda». 

Al Tg2 l'hanno presa malissimo perché il programma - previsto alle 20,35 per dieci minuti andrà a sovrapporsi (e quindi a fare concorrenza) all'edizione serale del notiziario, che comincia appunto alle 20,30. Tanto da proclamare lo stato di agitazione e annunciare un pacchetto di tre giorni di sciopero. A settembre, se il programma partirà, su Damilano ci saranno i fucili puntati.

Marco Damilano, posto fisso a Rai3. La rivolta al Tg2: "Concorrenza sleale". Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 05 aprile 2022.

A volte la chiave di lettura dei fenomeni è nella tempistica. La Rai ieri ha annunciato che sulla terza rete, da settembre, partirà una striscia di informazione quotidiana di dieci minuti affidata a Marco Damilano. Già, l'ex direttore de L'Espresso che un mese fa ha lasciato la plancia di comando del settimanale, in un contorno di polemiche, alla notizia di una trattativa in corso per il cambio di proprietà (poi effettivamente andata a buon fine). E dopo quattro anni condotti con un'impostazione editoriale e culturale ben precisa, per capirlo basta fare un giro su Google per raccogliere qui e là copertine che sono il prontuario dell'antisalvinismo. Breve rassegna: il titolone "Uomini e no", dove la parola "uomini" viene messa sotto il volto di un africano, e il "no" sotto quella del leader della Lega. Stesso schema per un'altra copertina, in cui stavolta il faccione di Salvini viene affiancato a quello di Carola Rakete, altro totem utilizzato, come corpo contundente, contro il nemico numero uno dei progressisti. Titolo: "Capitani e no", ovvio chi fosse il "no".

GAMBA DI LEGNO - E ancora Salvini raffigurato come Gamba Di Legno, il cattivo della saga di Topolino; per non parlare dell'infinita saga su presunte cattive compagnie e l'epica dei 49 milioni. Trovate grafiche e titoli urlati che hanno segnato parte di quello che è stato ed è ancora l'ennesima versione storica del "tutti contro uno". Con Damilano tra gli interpreti di prima fascia.

Ora, per lui, arriva questa striscia quotidiana su Rai3, che vedrà il via proprio alle soglie, guarda caso, della campagna elettorale per le elezioni politiche. Che si materializzi in "tele anti Salvini"? Non si fanno mai processi alle intenzioni, ma l'esercizio del dubbio, anche preventivo, in democrazia, è ginnastica salutare di libertà. Come lo è, poi, sollevare le incongruenze e le contraddizioni.

Eccone una. Le ultime settimane hanno visto un acceso dibattito, o meglio una vera e propria guerra punica, sulla prospettiva che il docente della Luiss Alessandro Orsini potesse avere un contratto, duemila euro a puntata circa per sei appuntamenti, per le sue partecipazioni alla trasmissione Cartabianca, sempre Rai3, condotta da Bianca Berlinguer. Contestabili contestabilissime, le idee di Orsini sulla crisi in Ucraina, specie in certi pigli ego -commiseranti che ha preso ultimamente, ma stadi fatto che il prof in questione detenga una cattedra (sociologia del terrorismo), diriga un osservatorio universitario, e sia autore di numerosi libri. Solo che, dagli e dagli, alla fine la Rai ha deciso di non mandare in porto il contratto.

Nel bailamme delle proteste si deplorava il fatto che riconoscere un corrispettivo ad Orsini avrebbe significato ricorrere ad una figura esterna rispetto all'azienda pubblica, a fronte di tanti professionisti interni che possono essere valorizzati. Anche Damilano è un esterno, e dunque, un principio che evidentemente ha avuto il suo peso per il prof non lo ha per l'ex direttore dell'Espresso. Per quanto il sindacato dei giornalisti del servizio pubblico, l'Usigrai, abbia sollevato il tema («in un momento in cui l'Amministratore delegato Carlo Fuortes chiede sacrifici agli interni», recita una nota, «ci sembra paradossale che all'improvviso ci siano i soldi per pagare l'ex direttore de L'Espresso, che è un giornalista esterno quindi con un aggravio di costi per l'azienda»).

"Sottratto alla concorrenza uno dei suoi volti". Damilano in Rai, Anzaldi inchioda sindacati e Cdr: “Polemiche? Giornalisti senza curriculum premiati e servizi di guerra affidati a freelance”. Redazione su Il Riformista il 5 Aprile 2022. 

Prima il comitato di redazione del Tg2, poi il sindacoto Usigrai. In Rai amano le polemiche, anche quelle inutili. Ne sa qualcosa il giornalista Marco Damilano che da settembre sbarcherà sul terzo canale della televisione pubblica nazionale per condurre un programma di approfondimento giornalistico, una striscia di 10 minuti che inizierà alle 20:35. L’arrivo dell’ex direttore de L’Espresso, il settimanale da cui si è dimesso dopo la cessione della storica testata da parte del gruppo GEDI della famiglia Elkann all’imprenditore Danilo Iervolino.

“Quelle contro la nuova striscia di Rai3 mi sembrano polemiche incomprensibili. È una buona notizia che la Rai, finalmente, aumenti gli spazi d’informazione, ottemperando a quanto prevedono la concessione e il contratto di servizio”. E’ la posizione di Michele Anzaldi, deputato di Italia viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, che in un’intervista a ‘VigilanzaTv’ commenta i mal di pancia interni a viale Mazzini. “Negli ultimi anni abbiamo assistito solo al taglio dell’informazione e al peggioramento della qualità di quella esistente, addirittura a ripetute violazioni del pluralismo e della deontologia. Peraltro in questa occasione la Rai sottrae alla concorrenza uno dei suoi volti, Marco Damilano, da anni riferimento di quella che ormai è a tutti gli effetti la concorrente di Rai3, ovvero La7, quindi anche un’operazione di mercato“.

Per Anzaldi “valorizzare le risorse interne per un’azienda con 13mila dipendenti come la Rai è un dovere, ma se abbiamo scoperto che vengono addirittura pagati gli opinionisti e gli ospiti delle trasmissioni di informazione, se abbiamo scoperto che alcuni giornalisti esterni, peraltro palesemente schierati, vengono retribuiti per partecipare ai talk show di prima serata, come possiamo sorprenderci che la Rai si rivolga all’esterno anche per i conduttori? Perché la Rai nelle trasmissioni non fa crescere televisivamente i suoi giornalisti intanto chiamandoli come ospiti? Perché nei talk show abbiamo i giornalisti esterni pagati e non abbiamo i vicedirettori, i caporedattori e gli inviati Rai? Prima ancora di dargli una trasmissione da condurre, forse intanto si potrebbe chiamarli come opinionisti”.

Infine la stoccata al sindacato e ai Cdr dei telegiornali: “Con Damilano parliamo di un volto tv noto e dell’ex direttore di uno dei settimanali italiani più prestigiosi, in altri casi abbiamo visto giornalisti senza curriculum premiati con trasmissioni quotidiane, e non ricordo proteste di Usigrai e Cdr. Così come dal Cdr del Tg1 mi sarei aspettato la stessa protesta dopo che, in queste settimane, il loro tg ha mandato in onda in quasi tutte le edizioni servizi di fotoreporter esterni e freelance dall’Ucraina, quando la Rai aveva i propri inviati nelle stesse città. Corrispondenze per le quali un fotoreporter intervistato su Vanity Fair ha parlato di compensi da 1.500-2000 euro l’una. Quello spreco non l’hanno visto?”.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 5 aprile 2022.  

Mentre nella roccaforte del giornalismo Rai si levano gli scudi contro l'arrivo di Marco Damilano al timone della striscia quotidiana di Rai3, con tanto di critiche dell'USIGRai, e dei Cdr di Tg1 e Tg2 comprensive di minacce di scioperi, ecco che ieri sera l'ex Direttore dell'Espresso nonché prezzemolino della rivale La7 e ospite fisso di Propaganda Live, era a Tg3 - Linea Notte intervistato dal conduttore Maurizio Mannoni.

Benché non proprio - almeno all'apparenza - illuminato d'immenso all'idea dell'arrivo di Damilano sulla sua rete, Mannoni ha preferito dapprima assestare un colpo al cerchio e una alla botte in puro stile veltroniano. 

"Quello che dice l'USIGRai è vero" ha puntualizzato il conduttore di Linea Notte a Damilano, elencando le critiche mosse dal sindacato dei giornalisti Rai, "è chiaro che dentro la Rai ci sono professionalità che sarebbero state in grado di condurre questa fascia. Ma è anche giusto che la Rai si apra ad altri contributi esterni, benché in regime di ristrettezze economiche". 

A tutta risposta Damilano ha scelto una prudente linea ecumenica e, con il tono sacerdotale che lo contraddistingue, ha pronunciato una sorta di omelia con benedizione Urbi et Orbi: "Massimo rispetto ai giornalisti della Rai. Mio papà è stato trentacinque anni giornalista della Rai, diciamo sono cresciuto avendo la Rai e il giornalismo della Rai in famiglia.

Poi penso che ogni voce è degna di essere accolta in un'azienda di servizio pubblico che per definizione è pluralista. Le polemiche politiche ci stanno, fanno parte del pluralismo, altrimenti ci sarebbe una voce unica. E un'impresa nuova che apre può essere aperta ai contributi di tutti quindi anche di una voce esterna, di una figura esterna come sono io che ha fatto un percorso professionale in una grande azienda editoriale come il gruppo Espresso oggi Gedi".

Terminato il Vangelo secondo Marco (Damilano) e dopo che quest'ultimo se l'è cantata e se l'è sonata con tanto di spottone a Gedi, Mannoni a quel punto ha assestato la frecciatina ammantando di "ottimistici" auspici la nuova avventura del collega: "Tra l'altro sarà un compito difficile, ché quella è una fascia molto affollata e molto complicata. C'è di tutto". 

Mannoni voleva tirargliela?  Chissà, sta di fatto che la sua non era esattamente una rapsodia di slanci d'affetto nei confronti del collega... Prodromi di una convivenza difficile? Staremo a vedere.

Luigi Mascheroni per ilgiornale.it il 5 aprile 2022.  

Da settembre Rai3 manderà in onda una nuova striscia quotidiana di informazione. Comincerà alle 20.35 e durerà dieci minuti. Brevità farà rima con qualità? È un dubbio. Di sicuro sarà curata e condotta da Marco Damilano, appena fatto fuori dall'Espresso. I sindacati e un pezzo della politica - riassumendo - hanno commentato: «Ma come? In un momento in cui l'ad della Rai Carlo Fuortes chiede sacrifici ai giornalisti interni, come si fa a pagare qualcuno che viene da fuori? Perché stato chiamato Damilano?».

La risposta, pensando a tanti altri casi di firme note della Sinistra rimaste a spasso e riassunte velocemente in Rai, è nella storia recente della nostra televisione pubblica. Damilano a viale Mazzini la fila dei riposizionati è lunga. La Rai è la più grande azienda culturale del Paese. È vero. Ma anche una efficientissimo Ufficio di collocamento. Per l'intellighenzia che fallisce nella carta, la televisione di Stato è un paracadute. C'è gente che cade sempre in piedi... Rai: «Di tutto, di più».

A Concita De Gregorio, rimasta a casa dall'Unità, dal 2013 al 2016 Rai3 affidò la trasmissione di libri «Pane quotidiano». Mario Calabresi, che mentre dirigeva la Stampa condusse, nel 2011, in prima serata su Rai 3, Hotel Patria, appena rimosso dalla poltrona di Repubblica, nel 2019, divenne ospite itinerante di mezza televisione italiana, Rai in primis, e non ha più smesso.

Gianni Riotta, dopo la «complicata» (fra virgolette) direzione del Sole24ore, ebbe da Rai Storia la trasmissione «Eco della Storia». Massimo Giannini - che peraltro, da sempre, è più in televisione che in redazione - in un momento di stanca a Repubblica condusse «Ballarò» su Rai 3, fra il 2014 e il 2016. 

Carlo Verdelli, superdirettore di tutto, dopo le dimissioni dal gruppo Condé Nast, nel 2015 venne nominato dal Consiglio di Amministrazione della Rai «Direttore editoriale per l'Offerta Informativa»: un progetto sontuoso e ambizioso che non andò mai in porto. Daria Bignardi in una fase di riposo della sua peraltro luminosa carriera fu addirittura direttrice di Rai 3, febbraio 2016 a luglio 2017... Ci fermiamo qui.

L'ufficio selezione del personale di Mamma Rai possiede molti più curricula, e più dettagliati, di noi. La Rai-Radiotelevisione italiana S.p.A. resta un'azienda fra le più sicure del Paese: non fallirà mai. Semmai, chi fallisce, lì sempre può trovare un nuovo Approdo. Nome, fra le altre cose, di un celebre programma culturale degli anni Cinquanta. Quando la Rai era feudo del centrosinistra.

Giovanni Sallusti per “Libero Quotidiano” il 29 giugno 2022.

L'impresa non era facile, ammettiamolo. Una vera e propria sfida alle leggi della possibilità. Come facciamo a rendere l'offerta "informativa" (leggi para-propagandistica) della Rai, e di Raitre in particolare, ancora più sbilanciata a sinistra? Questa dev' essere stata più o meno la domanda che si sono fatte le teste d'uovo alla guida della televisione di Stato. 

Ed essendo piuttosto bravi in questo genere di cose hanno trovato anche la risposta, ufficializzata ieri alla presentazione dei palinsesti per la prossima stagione: basta affidare una striscia quotidiana dedicata al fatto del giorno a un giornalista che lascia appena intuire lievissime simpatie progressiste, come Marco Damilano. 

L'ex direttore de L'Espresso condurrà infatti sulla terza rete dal lunedì al venerdì alle 20.35 Il cavallo e la torre, dieci minuti di commento/monologo. Dieci minuti che il telespettatore avrà nell'orecchio già da sempre, in quanto Damilano è appunto ormai il guru della sinistra orecchiabile, il gran sacerdote del banalmente corretto, un concentrato vivente di luogocomunismo.

Basta riepilogare in ordine sparso alcune copertine della sua gestione alla guida del settimanale (più) radical (che) chic, per trovare già svolto il canovaccio che gli utenti pagatori di canone (azzardiamo non tutti elettori del Pd) si vedranno rifilato all'orario di cena. 15 giugno 2018: prima pagina divisa in due, a sinistra una persona di colore, a destra l'Orco, l'Impresentabile, Matteo Salvini. Titolo: "Uomini e No", capolavoro insuperato di quel razzismo al contrario e di quel manicheismo etico che costituiscono i capisaldi del Soviet buonista. Lo decidono Damilano e i suoi compagni di aperitivo (luogo -simbolo che ha scalzato da tempo la fabbrica nell'immaginario della sinistra), chi appartiene al cerchio dell'umanità e chino.

Così come decidono chi ha i titoli per salire al Colle più alto, tanto che il 7 gennaio 2022 aprivano il giornale con fotona del Cavaliere, e l'imperativo categorico: "Lui No". Non era proprio dato in natura, per il prossimo condottiero del servizio pubblico, che il fondatore del centrodestra nonché inventore della Seconda Repubblica potesse essere valutato per il Quirinale, un'ovvietà spacciata per bestemmia. Ma non preoccupatevi, il nostro è pluralista nell'esercizio del pensiero critico, nel senso che se l'è presa anche con la Meloni. 

"Io sono lobby", la copertina dedicata l'8 dicembre 2019 alla leader di Fratelli d'Italia, con sottotitolo dadaista: "Da Big Tobacco a Huawei. Fino a Scientology. Inchiesta sulle relazioni pericolose di Giorgia Meloni". Mentre Letta e i maggiorenti dem, come è ampiamente noto, frequentano soltanto fruttivendoli, pescatori e disoccupati.

FURBISSIMO Damilano è furbo, sveltissimo a sincronizzarsi sullo spirito del tempo, e ha un talento indubbio per ricavarne il bigino, la sintesi pubblicitaria e mainstream (non avrebbe ottenuto una finestra quotidiana in Rai, diversamente). Il 14 maggio 2021, ad esempio, celebra la "Giornata internazionale contro l'omofobia, la bifobia e la transfobia" con una captatio semplificatoria che persino Vladimir Luxuria avrebbe avuto pudore a propinarci: il disegno di un corpo maschile visibilmente "incinto", con scritto sul pancione d'ordinanza "la diversità è ricchezza". Come fai a non essere d'accordo con lui, a non immedesimarti seduta stante, in barba al dato biologico, psicanalitico, anatomico? 

E dirigeva uno storico settimanale in disarmo, figuratevi in prima serata Rai: si dedicherà alla pittura compulsiva delle coscienze arcobaleno. Del resto, tocca riconoscerlo, nell'arte del ribaltamento del reale l'ex direttore è un maestro. Il 5 settembre 2020 mise in copertina un faccione, accompagnato dal titolo "Il coraggio di dire No". Il faccione era quello di Elly Schlein, sotto campeggiava la trionfalistica descrizione: "Femminista. Ambientalista. Progressista. Di governo. 

Elly Schlein è il volto di una nuova generazione. Che vuole cambiare il modo di fare politica". Cioè, un riassunto del conformismo contemporaneo spacciato per "il coraggio di dire No". L'ossimoro, appunto, di un ribellismo "di governo". Ne vedremo delle belle. A meno di prendere la decisione probabilmente più saggia, e premere il tasto rosso del telecomando.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” l'1 agosto 2022.

Irpino, di indole cupa e triste, da parte di madre; piemontese, fake-news e cortese, da parte di padre; Marco Damilano, romano di nascita e figlioccio di Prodi, vive metà giornata in Parlamento e l'altra metà in televisione, sia Rai sia La7, in nome del pluralismo contrattuale, frequenta tutti i salotti e le terrazze quirite ed è di casa nella sinistra romana di lotta, di Palazzo e di governo. 

Nato alla Balduina, quattrocento metri in linea d'aria da via Fani, di famiglia morotea, figlio di una insegnante (ecco l'aria da nato imparato) e di un giornalista Rai (può capitare...), svezzato a congressi e campagne elettorali dove i campioni erano Berlinguer e De Mita, cresciuto a pane, Pci, mortadella e Ulivo; una vita per il centrosinistra, dove il centro è sempre troppo a destra e la sinistra troppo poco a sinistra, chierichetto di quel cattolicesimo democratico che ebbe il proprio Papa in Pietro Scoppola, modi preteschi e tratto ecumenico, confondendo la predica con lo spiegone, Damilano a Roma, andata senza mai fare ritorno, resta da comunista bianco l'alfiere più sincero della sinistra-sinistra di Propaganda e di intelletto, pronto a ogni sacrificio per il Partito: toccò a lui scrivere la biografia ufficiale di Walter Veltroni che, credendo alle favole, intitolò Il piccolo principe. 

Pacato, educato, studiato, non ambizioso, né competitivo, capace di slanci di affetto, dicono gli amici, epperò - la tavolata è quella ideologico sino al fideismo. Amatriciana, abbacchio alla scottadito e carciofi alla Giudìa.

Romano, romanista e romanesco appena corretto dall'inflessione di via Teulada il tono è un mix di Zerocalcare, Christian Raimo e Zoro, ve meritate il Pojana e Elodie Di Patrizi - Marco Damilano vive per la politica, il giornalismo e la televisione, in ordine inverso di preferenza. La terza è un divertissement ex cathedra, il secondo un mandato apostolico, la prima una passione inestinguibile da quando, quattordicenne, il padre lo iniziava ai riti dei congressi Dc e diciassettenne seguì in stato di trance l'elevazione di Cossiga al Colle.

Scuole private obtorto collo, liceo classico alla prestigiosa Scuola Pontificia Pio IX, l'unico ad arrivare in classe con i giornali sotto il braccio e poi gli è rimato sempre il debole per la mazzetta, compagno di banco del futuro politologo Giovanni Orsina, associazione giovani cattolici della «Rosa Bianca», laurea in Storia contemporanea a Scienze politiche della Sapienza (con tesi su televisione e politica, e a qualcosa gli sarà servita...), voto, ex voto e il mito di Giampaolo Pansa (il primo Giampaolo Pansa...), debutto nel sacro mondo dell'informazione anno Dini 1995 al settimanale dell'Azione cattolica Segno 7, poi Diario e dal 2001 all'Espresso: prima come cronista politico, e quindi direttore. Lo è stato dall'ottobre 2017, quando il giornale vendeva 200mila copie cartacee, al marzo 2022, quando era sotto le 90mila.

Mah... Forse quelle copertine con l'uomo incinto e i pipponi sulla «diversità come ricchezza» non erano una grande idea... E comunque ormai era tempo di dimissioni, in polemica con la proprietà per via della vendita del settimanale a Danilo Iervolino. Passare dagli Agnelli al patron della Salernitana era troppo anche per uno come lui che crede nell'uguaglianza sociale.

Poco socievole, ancora meno social (su Twitter ha 60mila follower ma segue solo 8 account: Makkox-Marco Dambrosio, il megadirettore La7 Andrea Salerno, Diego Bianchi, il New York Times, la Casa Bianca, Michelle e Barack Obama... e #sticazzi, no?), non sposato, niente figli, variamente fidanzato, dress code stazzonato (camicia, maglioncino e giacca, la cravatta la mette solo il giorno dell'insediamento delle nuove Camere, e se c'è un premier Pd), il massimo della mondanità un tavolino al baretto Caffè Olimpia, a un cappuccio di distanza da piazza del Parlamento, workaholic ma semi astemio, la Tribuna politica come religione gli onorevoli agognano di poterlo salutare e lui, consapevole di ciò, ricambia come se li degnasse di una laurea - e il Transatlantico come via crucis, ma confortato dalle discepolesse: le Veroniche si chiamano Alessandra Sardoni, ex Videomusic, e Susanna Turco, ex Unità, che s' abbeverano alla sua Scienza del governo.

E per il resto, ha sempre vissuto la tv come la democrazia.

Non lo entusiasma, ma la accetta come necessaria. Ospite fisso della trasmissione Gazebo, chez Rai 3, poi Propaganda Live, quindi tutti i La7 peccati capitali: Omnibus, Tagadà, Dimartedì, In Onda, Piazzapulita, Otto e mezzo, le Maratona Mentana, fiato corto e lingua felpata... 

Domanda: è vero che Urbano Cairo l'anno prossimo compra i diritti del Festival di Sanremo e lo fa condurre a Damilano e Lilli Gruber?

In bilico fra il giornalismo show e la politica dei selfie, Damilano è il Castore della Polluce per eccellenza del Pd narrato via La7, ovvero Alessandra Sardoni.

Tanto lei vigila sulle sorti della Repubblica reggendo il microfono a Enrico Mentana, quanto lui sciorina spiegoni nel bar-studio di Propaganda Live dove il ceto medio riflessivo d'area romana alza ogni anno l'asticella dell'ortodossia. Loro arrivano sempre prima sul fronte dell'impegno sociale. 

Se oggi la correttezza ideologica impone il razionamento delle docce loro, con Damilano esteticamente stropicciato, non se le fanno neanche. Se l'input demo-ecologista è andate in bicicletta, Damilano che non ha la patente va a piedi. O in taxi, alla faccia della liberalizzazione del settore.

Settario, democratico ma nel senso di Partito, stopper più che libero o liberale (gioca a calcetto, e in campo è come in tv: la tecnica è quella che è, ma basta picchiare l'avversario sulle caviglie), Marco Damilano finita la stagione dell'Espresso ha subito trovato, come tutti i direttori che dopo aver affossato il proprio giornale vengono promossi a più alti incarichi, un'immediata ricollocazione professionale. 

E in nome della regola aurea secondo cui a condurre le nuove trasmissioni d'informazione si chiamano giornalisti «di fiducia» (sinonimi: «di sinistra»), e opportunamente sprovvisti della matricola Rai, Damilano ha vinto la nuova striscia in access prime time sul Raitre - durata: 10 minuti; titolo: La torre e il cavallo; compenso: entro il massimale di 240mila euro l'anno, «Ah: grazie Carlo Fuortes per il rinforzino» - dando scacco matto alle regole interne, alla deontologia professionale e ai giornalisti già a libro paga Rai.

E sul fronte del contratto, diciamo che la questione poteva essere gestita meglio.

Comunque, la trasmissione doveva debuttare a settembre ma vista l'emergenza di una feroce campagna elettorale anti-Destra, è stata anticipata al 22 agosto. 

Visti i tempi stretti, sembra che lo studio da cui trasmettere non sia ancora pronto. Forse Damilano comincerà conducendo dalla strada. Che, di per sé, ha qualcosa di evangelico, oltre che giornalistico. «Io sono la via, la verità e la vita». La sinistra cattolica - tutta Ztl, DdlZan e Bella ciao, «Ciao bello, come stai?» - ripartirà da qui. Dai marciapiedi.

Intanto Marco Damilano per non farsi sfuggire neppure uno spazio ha iniziato a scrivere su Domani, debuttando ça va sans dire, che in romanesco si dice Me cojoni! con l'ennesimo articolo su Mattarella, ultimo eroe moderno e supremo argine contro le destre. Come dicono quelli usciti da Sciences Po: «Aridatece er contesto». Ma a volte basta un nostalgico Dc.

·        Marco Travaglio.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 10 novembre 2022.

Se andate su Google e cercate un cognome che appartiene a un noto giornalista, tra i primi suggerimenti di ricerca, risulterà «parente di» o «figlio di», ossia le indagini più ricorrenti che sono anche indizi di invidia sociale: gente che cerca una giustificazione nepotistica ai successi altrui. 

Il Fatto Quotidiano, house organ dell'invidia sociale, ieri ha additato un portavoce ministeriale come plausibile «raccomandato» in quanto «arriva da Libero», ha scritto: anche se si tratta solo di una saltuaria collaborazione e di una persona che ha campato in tutt' altro modo. 

Il Fatto. però, ci ha aperto la prima pagina, anche se le raccomandazioni con accezione negativa (può anche essere positiva, tipo segnalare a Montanelli un promettente giornalista torinese) sono un'altra cosa: al punto che il terrore di passare per raccomandati può spingere un quotidiano a scrivere che «non riceve alcun finanziamento pubblico» anche ha preso i contributi per la carta, il credito d'imposta sui servizi digitali, esenzioni di 500mila euro per la quotazione in borsa e, soprattutto, un aiuto di Stato per euro 2.534.612,98 come finanziamento per i danni del Covid: un prestito ricevuto in base a una legge modificata nel 2020 (a favore di chi ha preso il prestito) per mano del governo Conte, notoriamente amico del Fatto Quotidiano. Ma non significa che Il Fatto sia stato raccomandato.

"Sarò solo un giornalista". Ma poi è diventato tutto il resto. Luigi Mascheroni il 18 Luglio 2022 su Il Giornale.

Fedelissimo di Montanelli, ha rinnegato se stesso: fa politica, tv, spettacolo, teatro, karaoke e tanto cabaret...

Il limite di chi arriva da Torino, Precollina e ansia di posterità, è quello di voler vincere, con una volontà di riscatto che è l'eredità dello spirito atavico della Resistenza, il tratto tipico dei piemontesi, gente dal carattere chiuso e riservato, o altezzoso e antipatico, «gente sfumata» diceva Beppe Fenoglio, «spesso destinata ai titoli di coda». Che poi è il motivo per cui Marco Travaglio, torinese doc e giornalista pop, è tutta la vita che ambisce ai titoli di prima pagina. Ci è riuscito.

Prima pagina e Ultima spiaggia, Marco Travaglio precisetto e pittimista, memoria di ferro e faccia di bronzo da sabaudo, devoto cattolico e liberal-enaudiano, è un vero uomo di destra (mai votato Pd, Ds o Pd). Che solo inopinatamente nel corso della sua invidiabile carriera ha scritto a lungo per giornali di sinistra: Repubblica, l'Unità, L'Espresso e il Fatto quotidiano. Del resto, amante dei treni, è noto che Travaglio ha sempre usato i giornali come taxi. Di lui Indro Montanelli, altro uomo usato come un taxi dalla Sinistra, disse: «È il vero giornalista di destra, tant'è che nemmeno a me, quando lasciai il Giornale, venne in mente di chiamare il nuovo quotidiano La Voce. Ricominciamo da Prezzolini!, mi disse. E così fu».

E così - eterogenesi dei fini e molto amico di Massimo Fini - Travaglio è diventato esattamente tutto ciò che non ci si sarebbe aspettato da lui. Capopopolo del più bel populismo, divorato dal protagonismo, divo da avanspettacolo, giacobino - Liberté, Égalité, bonèt - e star mediatica.

Primadonna, due visioni del giornalismo («O ho ragione io, o hai torto tu»), tricoteuse, quattro pezzi al giorno tra corsivi, editoriali, interviste e istruttorie, Cinque stelle, «Sei bravissimo Marco!», La7 e Otto e mezzo, Travaglio ha 57 anni. Ma fatto più cose di Prezzolini che è morto a cento. Chapeau! Che in piemontese si dice «Esageruma nen!».

Direttore presenzialista - l'unico nella storia della repubblica che può disporre di un quotidiano e di una striscia giornaliera in prima serata - demagogo narcisista, penna brillante le famose penne alla crema di tartufo giornalista factotum (fondi, commenti, inchieste, didascalie, sommari, una spiccata attitudine per i titoli, un debole per i catenacci e una passione per le manette) e vero one man show dell'Infotainment, Marco Travaglio infaticabile come un mulo e suscettibile come un istrice è un campione in tutto. Fedele all'insegnamento del suo maestro Indro Montanelli «Sono solo un giornalista» Travaglio scrive e dirige quotidiani, periodici e riviste; è collaboratore e/o ospite fisso in tutti i talk show dall'Annozero a oggi; ha fondato blog; è comparso in film e documentari; ha portato in scena innumerevoli spettacoli teatrali (alcuni persino senza Isabella Ferrari); ha collaborato con un paio di band musicali e ora sarà anche conduttore tv! («Marco Travaglio e Selvaggia Lucarelli presentano #CartaCantaIlQuiz - il primo game-show con domande di attualità in onda sul NOVE!»). Oltre a essere un fenomeno social. A volte #marcotravaglio è addirittura trend topic. E non sempre è un bene. «Travaglio leccac**o!», «Travaglio pupazzetto di Grillo», «Travaglio e il falso quotidiano», «Travaglio e il fango quotidiano»... Cose così. È la stampa, bellezza.

Bello, Travaglio non è bello. Per carità. Ma come diceva Jerry Calà col quale gli capita di passare qualche serata allo Smaila's, locale di lusso&lussuria a Porto Rotondo, che non è la Scuola di giornalismo della Columbia University, ma i torinesi non si formalizzano «Piaccio!». Non a caso le veline più belle del giornalismo, da Isabella Borromeo alla Gentili, da Silvia Truzzi alla Lucarelli, arrivano al Fatto come mosche sul Bicerin. Meglio di Vanity Fair.

Televisivamente vanitoso «Mi metta un po' più di trucco qui sul mento... sa, in medium stat virtus» - presuntuoso («Io sono io, e voi non siete un Fatto»), bilioso (sono sopporta i Fazio, i Sofri e i Saviano), ha solo una fastidiosa inclinazione a storpiare i nomi, oltre i fatti e la logica: «Travaglio», lett. «sofferenza interiore», «angoscia»: «l'attesa fu un travaglio continuo»; ma anche «travaglio di stomaco», «dare travaglio», cioè dolore fisico, come quando si leggono i suoi articoli; «essere travagliato dai rimorsi», ma soprattutto: «la crisi che travaglia la politica»; in senso figurato: «ho travagliato a fargli capire queste cose»; «un articolo che ha avuto una gestazione alquanto travagliata»; per estens.: «Porto Valtravaglia», «tra un vaglia e l'altro» e il celebre «vaglio dell'asino». Il suo.

La verità è che vorremmo vivere in loop la sera del 10 gennaio 2012, epica puntata di Servizio Pubblico, quando - momento consegnato alla storia - Silvio pulì la sedia di Travaglio, lasciandolo, per una volta, senza parole.

Parole che Travaglio adora: «sentenza di condanna», trattativa Stato-mafia, «attrici», Michele Santoro, «Vaffanculo», Juventus (prima di Calciopoli), «Inquisizione», Bagna Cauda, l'espressione «Ci pisciano addosso e ci dicono che piove», Pippo Ciuro. Parole che Travaglio non sopporta: «falso in bilancio», «banane (repubblica delle)», Filippo Facci, Juventus (dopo Calciopoli), Craxi, craxismo, le persone craxe, tutte le parole che iniziano con B. e finiscono con -usconi, l'espressione «Ho sbagliato».

Per il resto, siamo sopravvissuti alle influencer che parlano in corsivo, ce la faremo anche con la voce di Travaglio.

A detta di tutti intelligente ma tendenzialmente cattivo, enfant prodige del giornalismo finito a fare il badante della Gruber, odiatore di Berlusconi ma ospite fisso chez Cairo, vanesio nonostante le giacchette in cotone délavé, Travaglio ne ha indovinata una gigantesca il Fatto quotidiano, a suo modo un modello giornalistico ne ha sbagliate tante (una: prendersela con Berlusconi-Previti-Dell'Utri e ritrovarsi con Grillo-Conte-Casalino), e le ha provate tutte. Montanelliano quando Montanelli schierava il Giornale sulla linea più conservatrice, vociano fino a che La Voce chiude, firma della Padania con lo pseudonimo Caladrino durante la stagione secessionista della Lega (e voto per Bossi), republicones sotto il miglior Scalfari, fan di Antonio Di Pietro ed elettore di IdV, estimatore per una stagione, quella giusta, di Gianfranco Fini, simpatizzante dei Girotondi, agit-prop del Popolo viola e De Magistris, supporter di Ingroia e del Partito della Rivoluzione civile, braccio giornalistico del grillismo e consigliori di Giuseppe Conte, e ora è anche amicissimo di Giorgia Meloni: peccato, perché - è la Storia- tutti i politici che ha sponsorizzato non hanno fatto una bella fine. Poi, oltre la Storia, c'è la Némesi, che a volte sa essere ironica. Torinese in prima edizione, romano in ribattuta, Travaglio alla sera, dopo la chiusura del giornale e le varie&eventuali apparizioni tv, di solito va alla Barchetta, trattoria in Prati, luogo simbolo del craxismo, aperto da Paola Sturchio, a casa della quale Craxi dormì la sua ultima notte italiana, maggio 1994, prima di Hammamet. È qui che lo raggiungono gli amici, i servi sciocchi e tutto un codazzo di ragazze, dedicandosi all'amato karaoke (amico di Renato Zero e Franco Battiato, canta benissimo). È in una di queste serate che tra una canzone e l'altra Piero Chiambretti riceve un sms falso che annuncia la morte di Berlusconi. La musica si ferma, cala il gelo. «Non puoi immaginare la reazione di Travaglio: era disperato riferì l'ostessa - Del resto si sa che Berlusconi ha fatto la fortuna sua e del suo giornale». A riprova che a volte dobbiamo più cose ai nemici che agli amici. E bisogna ricordarselo. Sennò rischi di rimanere solo come un cane; anche se da guardia della democrazia.

Vabbè, s'è fatto tardi. «Fuma ch'anduma, Marco?».

Marco Travaglio infama la Casellati? Condannato e spennato: il prezzo del conto da pagare. Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 06 giugno 2022.

La notizia è che nello scontro, anzi nella “carica” del Fatto Quotidiano contro Maria Elisabetta Alberti Casellati, il Fatto Quotidiano alla fine si è schiantato. Ha perso. Anche se è sempre difficile da quelle parti ammetterlo. Ma quando c'è di mezzo una condanna il "fatto" tutt' al più può essere camuffato. Non di certo taciuto. La notizia, dunque, è la seguente: «Ho vinto la causa di diffamazione contro i giornalisti del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, Ilaria Proietti e Carlo Tecce». A comunicarlo, in maniera del tutto chiara, non è la testata incriminata ma la seconda carica dello Stato che ha allegato il dispositivo della pronuncia. Il risultato? Ben 25mila euro che i condannati (il direttore e due cronisti), in solido con il gruppo editoriale, dovranno versare in sede civile a titolo di risarcimento per i misfatti. 

Di che cosa parliamo? Di una campagna, come racconta lo stesso direttore del Fq Marco Travaglio, che si è radicalizzata (gli scontri fra lui e la Casellati, documentati almeno fin dal 2011, sono letteratura televisiva) dall'inizio dell'elezione della senatrice di Forza Italia come presidente di Palazzo Madama. Uno smacco per il giornale-partito dei 5 Stelle: dato che rimarrà impresso nella storia il fatto che i grillini, bramosi già ai tempi di governare e normalizzarsi a ogni costo, finirono per votare proprio la berlusconiana di ferro addirittura alla presidenza del Senato. Di qui una serie reiterata di articoli e articoli che hanno preso di mira l'esponente azzurra, cinque dei quali, come è stato accertato dal Tribunale di Padova, sono stati ritenuti diffamatori. Al contrario di quanto ritiene il direttore, dal cui editoriale sembrerebbe essere dinanzi ad una condanna parziale, nel dispositivo si legge «che Marco Travaglio, Carlo Tecce e Ilaria Proietti sono stati condannati ex art. 12 l. 47/1978» al risarcimento dei danni.

LA PUBBLICAZIONE

Non solo. È stata ordinata la pubblicazione della sentenza per estratto a cura e spese dei convenuti sul Corriere della Sera, Il Mattino, il Gazzettino e Il Fatto Quotidiano nonché al rimborso di oltre 10mila di spese processuali. Niente male per quello che sul Fatto di ieri viene più che minimizzato, evidenziando - al contrario - solo quella parte della pronuncia favorevole alla campagna. La realtà è del tutto diversa. Perché se da un lato - come riportato nell'editoriale - il giudice ha riconosciuto in diverse delle circostanze denunciate l'esercizio legittimo del diritto di critica, dall'altra parte ha sancito che la Casellati è stata inequivocabilmente diffamata. Ecco due titoli in questione: «Le "marchette" di mamma Casellati alla figlia Ludovica», «La Casellati bestemmia in Aula e tutti la coprono». Nonostante le evidenze, nella "rielaborazione" il Fatto finge di aver vinto: si tratterebbe, come ha scritto il giornalista anti-Cav, di un «contentino» (sic) che il Tribunale avrebbe concesso al presidente del Senato. Alla faccia del motto caro ai giustizialisti: «Le sentenze non si giudicano, si rispettano». Ma tant' è. Per Travaglio & co l'illecito - parafrasando la celebre canzone estiva di qualche tempo fa - si limiterebbe a tre parole: «Bestemmia, marchette e minacce».

A DENTI STRETTI

Ma al di là del tentativo di annacquare l'intento diffamatorio tirando in ballo il dizionario Treccani e la manica larga della semantica, la sentenza parla chiaro: altro che piccole licenze poetiche. Alla fine, infatti, anche dal Fatto Quotidiano sono stati costretti a riconoscere - seppur a denti strettissimi e annunciando di appellare la sentenza - il succo della questione: «(Il Tribunale, ndr) Ci condanna ad arrotondare lo stipendio e il vitalizio della statista padovana». Sarcasmo a parte: la Casellati ha vinto.

Nei guai anche due cronisti del giornale. Travaglio condannato per diffamazione, gli articoli contro Casellati costano al Fatto Quotidiano 38mila euro. Redazione su Il Riformista il 6 Giugno 2022. 

Cinque articoli costati circa 38mila euro. È questo quando dovuto da Marco Travaglio, il direttore de Il Fatto Quotidiano, alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati.

Bersaglio di decine di articoli da parte del quotidiano, dall’uso dei voli di Stato al ruolo dei figli, la Casellati aveva portato davanti al tribunale civile di Padova lo stesso Travaglio, la società editrice del Fatto Quotidiano (Società Editoriale Editrice il Fatto Spa) e i giornalisti Carlo Tecce e Ilaria Proietti, autori assieme al direttore degli articoli sulla presidente del Senato.

Giudici che le hanno dato parzialmente ragione. La Casellati domenica ha reso pubblica la sentenza del tribunale, annunciando di aver “vinto la causa di diffamazione contro i giornalisti del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, Ilaria Proietti e Carlo Tecce”.

Il tribunale ha infatti accertato la responsabilità dei tre giornalisti “per il carattere diffamatorio, nei limiti e per le ragioni esposte in parte motiva, degli articoli del 17.11.2019 a firma Carlo Tecce, del 20.6.2020 a firma Ilaria Proietti, del 10.12.2019 a firma Marco Travaglio, nonché degli articoli dell’11.12.2019 e del 12.12.2019”.

Per questo la società editrice del Fatto, Marco Travaglio, Carlo Tecce (nei limiti di 5mila euro) e Ilaria Proietti (nei limiti di 10mila euro) sono stati condannati al pagamento a titolo di risarcimento dei danni di 25mila euro nei confronti della Casellati.

Quindi la riparazione pecuniaria, con la condanna per Travaglio e Proietti a 2mila euro ciascuno, mille euro invece per Tecce. Infine il rimborso delle spese legali, “940,90 per spese, 7.254,00 per onorari, oltre Iva, se dovuta, Cpa e 15,00 per cento per rimborso spese generali”. Non manca anche la pubblicazione della sentenza sul Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano, Il Gazzettino e Il Mattino, ovviamente “a cura e spese dei convenuti”.

Gli articoli costati la condanna sono “Le marchette di Mamma Casellati alla figlia Ludovica” del 17 novembre 2019, “Bestemmie & cazziatoni. È Casellati show al Senato” datato 20 giugno 2020” e “Elisabetta Casellati cuore di mamma (e di megavitalizio)” dell’11 dicembre 2019, oltre all’editoriale di Travaglio del 10 dicembre 2019 dal titolo “La lettera minatoria”.

Dagospia il 28 aprile 2022. AVETE MAI VISTO ORSINI E TRAVAGLIO NELLA STESSA STANZA? IL DIRETTORE DEL “FATTO” PARLA CON “TPI” E RIPETE A PAPPAGALLO LE TESI DEL PROFESSORE PREZZEMOLINO DEI TALK SHOW: “A FURIA DI INVIARE ARMI FINIREMO PER MOLTIPLICARE I MASSACRI E RISCHIARE L’ESCALATION VERSO LA GUERRA MONDIALE, CIOÈ NUCLEARE. DRAGHI È IL LUKASHENKO DI BIDEN, È EVIDENTE” - “SEMBRA DI ESSERE A MOSCA, SI RESPIRA NELL’ARIA UNA CENSURA AMBIENTALE” - “UNA DELLE RAGIONI PER CUI HANNO BUTTATO GIU' CONTE E' CHE PROSEGUIVA LA TRADIZIONE DELLA POLITICA ESTERA MULTILATERALE DI MORO, ANDREOTTI, CRAXI, PRODI. AL SUO POSTO HANNO MESSO L’AMERIKANO CON LA K” - POI LA SPARA: “IL MIO MESTIERE NON È LA TV. IO LA SOFFRO, CI VADO PERCHÉ È UTILE FAR CIRCOLARE LA TESTATA E RICORDARE AL GRANDE PUBBLICO CHE...

Giulio Gambino per “TPI - The Post Internazionale” il 28 aprile 2022.  

Il giornalismo in Italia e libero?

«No». 

Perche?

«Vale la famosa battuta: “In Italia si vendono più giornalisti che giornali”. Non e mia purtroppo, non ricordo chi l’abbia detta». 

Ma sono i giornalisti che si vendono o gli editori che impongono la linea (e quindi i giornalisti li emulano)?

«E come la domanda che si faceva ai tempi di Tangentopoli, sei un corruttore o sei un concusso? Di Pietro con la sua praticità risolse la questione con la dazione ambientale. Qui c’è una censura ambientale che si respira nell’aria».

A te e mai capitato che qualcuno ti abbia censurato?

«Con me nessuno si e mai permesso, e quando ne avvertivo le avvisaglie me ne andavo, oppure venivo cacciato perchè non obbedivo. Non ho esperienza di censure negli ultimi 13 anni, da quando cioè lavoro in proprio al “Fatto”, pero ormai credo che nella stampa mainstream non ci sia più nemmeno bisogno di dare ordini o di imporre veti dai piani alti.

Nei piani medio-bassi si sa già quello che si aspetta il padrone e si anticipano gli ordini, che non arrivano nemmeno perchè ormai sono inutili». 

Perchè oggi il giornalismo ha sempre minore credibilità?

«Per una serie di concause. Per esempio il fatto che non esista un solo grande editore che abbia come unico interesse di fare un buon prodotto e di venderlo. O il fatto che la politica sia cosi mischiata all’economia e che i grandi gruppi economici siano cosi disastrati e assistiti dallo Stato: tutti famosi liberali-liberisti sempre col cappello in mano davanti a Palazzo Chigi a chiedere provvidenze pubbliche in cambio di soffietti a quasi tutti i governi, o almeno a quelli che fanno i loro interessi e quelli delle loro lobby». 

Siamo anche il Paese dove politici e giornalisti fanno l’una e l’altra cosa in scioltezza...

«Non e un caso che gli unici governi che hanno avuto contro la gran parte dell’informazione sono stati il primo governo Prodi e i due governi Conte. per il resto l’establishment e i suoi giornali sono sempre stati governativi, chiunque ci fosse a palazzo Chigi.

Dopodichè non e affatto escluso che all’interno di questo mondo ci siano poi singoli giornalisti che cercano di fare il loro mestiere, di resistere, ma nella somma finale finiscono nei resti». 

Quali sono oggi i giornali che reputi liberi?

«Non sono nessuno per dare dei giudizi. Ma e un fatto che gli unici giornali che non appartengono a editori “impuri” sono Il Fatto Quotidiano, La Verità, Tpi e Il Manifesto, che pero ha un problema: i soldi pubblici dai quali in parte dipende». 

Quale ritieni che sia la differenza tra il Fatto e gli altri giornali tradizionali?

«E semplice: nessuno ci dice cosa dobbiamo scrivere e cosa no. Ogni volta che decidiamo di prendere una posizione non abbiamo nulla da guadagnarci nè da perderci. Hanno provato in tutti i modi ad attribuirci padroni o padrini, ma non sono mai riusciti a trovarne mezzo. 

Abbiamo le nostre idee, dalle quali dipendono le nostre posizioni politiche. Chi si avvicina di più alle nostre idee ha il nostro plauso, chi e più lontano delle nostre idee ha la nostra riprovazione». 

Qualche esempio?

«Mi sono fatto l’antinfluenzale e tre dosi di vaccino anti-covid, ma qualche imbecille diceva che ero un no vax soltanto perchè, da liberale, sono contro l’obbligo vaccinale e ritengo che ciascuno debba sottoporsi a un trattamento sanitario consultando il suo medico, non il suo governo. 

Noi - che siamo tanto 5Stelle-contiani secondo qualche imbecille - se i 5Stelle votano a favore delle armi in Ucraina, diciamo che sbagliano, perchè siamo contrari. I 5Stelle danno non so quanti voti di fiducia al governo Draghi, E noi abbiamo sempre detto che non avrebbero neanche dovuto entrarci».

Cosa ne pensi di chi ti dice queste cose?

«Non me ne importa assolutamente niente. Anche il condizionamento psicologico di chi non scrive una certa cosa per evitare una certa accusa non mi tange. Non me ne frega nulla di quello che dicono di noi. Tanto le accuse le inventano comunque, anche se fai il bravo. 

Noi siamo sempre stati anti-putiniani - e continuiamo a esserlo, ovviamente - eppure ci sentiamo dare lezioni di anti-putinismo da Repubblica, che fino a 5 anni fa pubblicava un inserto mensile a cura della propaganda del Cremlino con quelle – non saprei come definirle - fellatio a Putin, al suo regime, al patriarca Kirill. Purtroppo io mi ricordo tutto...».

Il clima e preoccupante: il dibattito e infuocato e sempre più devoto al linciaggio...

«L’Italia era già un Paese praticamente rovinato dal punto di vista della libera informazione, ma poi il cocktail letale Draghi-Pandemia-Guerra ci ha dato il colpo di grazia, con un ulteriore giro di vite che ha vieppiù ristretto le già minuscole feritoie nel muro del pensiero unico. 

Viviamo in una permanente militarizzazione del pensiero, da Paese di guerra. Fino all’altroieri non potevi nemmeno dire che il vaccino era una buona cosa ma non ti immunizzava dal contagio, perche il presidente del Consiglio, totalmente incompetente in materia, aveva spacciato il Green Pass per una garanzia di vivere in ambienti immuni dal contagio.

Dopodichè mi risulta che, con tre dosi di vaccino, si e preso anche lui il Covid. Me ne dispiaccio, sono felice che sia asintomatico, ma mi auguro che abbia capito che nel luglio dell’anno scorso aveva detto una solennissima sciocchezza. Il guaio e che chi lo faceva notare passava per nemico del popolo e della scienza».

C’entra il cosiddetto pensiero binario?

«Si, anche se poi non e neanche binario, e monolitico: perche hai due sole alternative, ma se scegli la seconda sei un porco, e non puoi mai discutere, distinguere, sfumare. Guarda cosa e accaduto nel dibattito sulla Francia tra Le Pen e Macron. Un’alternativa diabolica, dove entrambe le opzioni inorridivano un sacco di francesi, ma anche di italiani, me compreso: perche mai era riprovevole astenersi, non scegliere nessuno dei due, cioè - come dicevano gli studenti della Sorbona - «nè la peste nè il colera». 

Senza dire di questo provincialismo per cui noi dobbiamo sempre partecipare alle elezioni altrui. Il Pd e una vita che vince le elezioni in America, in Francia, in Germania, pero non riesce mai a vincerne una in Italia. Questo e il suo problema. E allora si consola oltre confine, dove non lo conoscono».

Fino a un ventennio fa esisteva una contro-informazione più evidente, anche in Rai se vuoi. Dov’è finito quel pubblico?

«Dal punto di vista della visibilità del pensiero critico, siamo messi molto meglio di allora. All’epoca eravamo comunque prigionieri di un altro falso pensiero binario: il centro-sinistra e Berlusconi, per cui gli anti-berlusconiani dovevano votare il centrosinistra, e poi quando il centrosinistra andava al governo faceva le stesse cose di Berlusconi, solo più educatamente.

Nessuna legge di Berlusconi e stata mai cancellata dal centrosinistra. Le prime leggi vergogna del caimano le ha cancellate il governo Conte I, con la spazzacorrotti, il reddito di cittadinanza e il decreto dignità contro il precariato. 

Un governo che tutti dipingono come governo di destra, quello M5S-Lega, e stato il governo più innovativo e anche progressista (al netto dei decreti sicurezza) che io abbia mai visto. Finchè Salvini non si e fatto cooptare dal sistema, ha cominciato a difendere i Benetton, il Tav Torino-Lione e a rinnegare la sua natura anti-establishment, che era stata la sua fortuna...». 

Anche la Meloni e succube del sistema?

«Be il suo asservimento incredibile alle politiche atlantiste parla chiaro. Oggi e presentabile chiunque si metta a 90 gradi davanti a Biden, chi non lo fa e uno stronzo, indegno di governare. per questo c’è il boom dell’astensione: perchè chi non si allinea al pensiero unico non si sente più rappresentato da nessuno. 

Pero i non allineati in questi anni hanno avuto molta più scelta rispetto a quella che c’era ai tempi del falso bipolarismo Berlusconi-centrosinistra».

Eppure oggi l’informazione pubblica riflette poco o nulla quello che pensa la maggior parte del Paese...

«Sulla guerra sta esplodendo tutto, con il paradosso di una stampa e una politica al 99 per cento con l’elmetto e la mitraglietta, tutta gente che marcia seduta sul sofà, e poi i sondaggi di un Paese che sta da un’altra parte, per la pace e per il negoziato. in grande maggioranza addirittura contro l’invio delle armi in Ucraina, non solo contro il 2 per cento del Pil in spesa militare. 

E una ribellione clamorosa rispetto non solo al sistema dei partiti, ma anche al sistema dell’informazione, che e assolutamente speculare a quello dei partiti, quasi tutti a rimorchio della Nato, cioè degli Usa, che stanno cercando di trasformare la guerra criminale, ma regionale, di Putin per il Donbass in una guerra mondiale. E non escludo che ci riescano». 

Perchè dici?

«Lo stiamo vedendo. Questa e una guerra per il Donbass, la manovra su Kiev un diversivo. A furia di inviare armi - violando la Costituzione e per la prima volta nella nostra storia, senza averle mai mandate a nessun altro Paese aggredito che non fosse nostro alleato - finiremo per moltiplicare i massacri e rischiare molto di più l’escalation verso la guerra mondiale, cioè nucleare.

Adesso, con la presa di Mariupol, credo che qualcuno stia cominciando a capirlo. Lo capiscono i governi più liberi, quello tedesco e quello francese. Il nostro, insieme alla Polonia, e la Bielorussia degli Stati Uniti. Come ha detto Orsini, Draghi e il Lukashenko di Biden, questo e evidente».

Questo governo serve maggiormente gli interessi Usa?

«Lo abbiamo sempre saputo: una delle ragioni per cui hanno buttato giu Conte e che proseguiva la tradizione della politica estera multilaterale di Moro, Andreotti, Craxi, Prodi. Al suo posto hanno messo l’Amerikano con la K». 

A proposito di America, che fine ha fatto quella classe politica e giornalistica fieramente anti-americana, contraria cioè all’appiattimento e alla subalternità verso gli Usa?

«Nella nostra politica estera noi siamo sempre stati nel migliore dei casi multilaterali, nel peggiore dei casi doppiogiochisti. Ricordo quando per obblighi Nato Reagan dovette avvertire Craxi e Andreotti del raid a Sirte per eliminare Gheddafi, dopo avere trovato le impronte digitali del regime libico nella strage aerea di Lockerbie. L’avevano individuato, prepararono il blitz notturno, avvertirono l’Italia, anche perchè era coinvolta la base di Sigonella, e Craxi e Andreotti avvertirono Gheddafi e lo fecero scappare.

Questi sono gli aspetti deteriori della nostra politica estera doppiogiochista. E poi ci sono gli aspetti migliori: quelli di un Paese che dopo il 1989 ha cominciato giustamente a guardarsi intorno e a capire che i nostri mercati naturali sono quello russo e quello cinese, non certo quello americano che e saturo e concorrenziale. 

Questo e un ragionamento che faceva Andreotti quando diceva che la Nato avrebbe dovuto sciogliersi insieme al Patto di Varsavia, e che faceva Macron un anno fa, quando parlo della morte cerebrale della Nato». 

Chi sta dando il peggio di se nell’informazione?

«Vedo giornalisti che ritenevo dotati di cervello dire delle cose che credevo si sarebbero vergognati a dire. Sono affascinato dalla rubrica quotidiana dei grandi giornali che non riescono a non parlare di Orsini almeno 10 volte al giorno. Mi domando: ma che gli ha fatto ‘sto Orsini? E vero che ha mostrato la cartina dell’allargamento della Nato a est, ma e una cartina reperibile anche senza Orsini». 

Chi ha deciso di prendere Orsini al Fatto?

«L’ho deciso io quando lo stavamo intervistando sul suo primo linciaggio e, in quel mentre, ricevette una telefonata da qualcuno del suo giornale di allora, Il Messaggero, che gli comunicava la non pubblicazione della sua rubrica settimanale che teneva da anni, perchè parlava di Ucraina dicendo cose vere, quindi proibite. 

Mi sono detto: se un professore ha problemi a far conoscere le sue idee, il Fatto e nato apposta per dargli un rifugio, quindi nel caso in cui avesse voglia di scrivere per noi, eccoci qua. Ho fatto con lui quello che abbiamo fatto in questi anni con tutti gli altri censurati. 

Naturalmente parlo di persone che abbiano dei titoli per parlare, ovviamente. Non siamo una buca delle lettere. Pero siamo una specie di accampamento aperto a tutti quelli che hanno qualcosa da dire e non sanno più dove dirlo». 

Condividi l’analisi di Santoro sulla necessita di parlare in maniera critica anche dell’Ucraina e di Zelensky?

«E quello che scrivo tutti i giorni, sin dal primo giorno della guerra. Mi sembra il minimo sindacale del giornalismo. Mi e capitato di leggere un pezzo de Linkiesta, dove alla vigilia dell’invasione russa Zelensky era dipinto come un imbecille, un pagliaccio, un incapace: se era considerato un coglione fino al 23 febbraio, può essere mai che sia diventato Churchill dal 24? Fino a quel giorno aveva sondaggi forse anche peggiori di quelli di Biden, e meditava di non ricandidarsi nemmeno alla presidenza. 

Aveva fallito, in un Paese sempre più corrotto, impoverito e indebitato, e forse preferiva ritirarsi in una delle sue ville in giro per il mondo a godersi le sue cospicue sostanze ben nascoste nei paradisi fiscali (come documentato da molti giornali, anche italiani, sulla scorta dei Pandora Papers).

Trovo bizzarro che le stesse cose che si dicevano prima non si possano più dire oggi. Dirle adesso non significa affermare che e stata l’Ucraina ad attaccare la Russia, vuol dire semplicemente fare informazione». 

Vale lo stesso sulla polveriera del Donbass, dove vengono commesse gravi atrocità da entrambe le parti da almeno otto anni...

«Se il battaglione Azov, che dal 2014 fino all’altro giorno era il padrone di Mariupol, e stato denunciato per 8 anni da Onu, Osce e Amnesty International per torture, crimini di guerra, stragi, sevizie, oltre che per quei simpatici simboletti a forma di svastiche e croci uncinate stilizzate sulle divise, perchè non ne dobbiamo parlare adesso? Sono diventati improvvisamente buoni anche i nazisti? 

E Orsini diventa un fascista solo perchè ha detto una cosa ovvia, e cioe che per un bambino e meglio vivere sotto una dittatura che morire sotto le bombe? Mi ha ricordato Max Catalano: “E meglio sposare una donna ricca, bella e giovane che una donna brutta, povera e vecchia”. Se non puoi più dire nemmeno le ovvietà perchè senno Gramellini ti dà del filo-fascista e del paraculo, lui che sul servizio pubblico di Rai3, a spese del nostro canone, ha elogiato il comandante filonazista del battaglione Azov paragonandolo ai giusti tipo Schindler, c’è qualcosa che non funziona». 

Ritieni che sugli Usa e sulla Nato esista una sorta di auto-censura preventiva?

 «Noi dovremmo poter dire tutto, non siamo in guerra, almeno che si sappia. Io non sono belligerante, non sono neanche membro della Nato, non me ne frega niente della Nato. 

L’ho detto una sera dalla Gruber e Severgnini stava per svenire: “Ma come, Biden e la nostra leadership!”. Io non ho nessuna leadership, penso con la mia testa. “E nostro alleato!”. E chi se ne frega. A parte che alleato non vuol dire padrone, se un tuo alleato sbaglia devi essere libero di dirglielo, altrimenti non stai nella Nato, stai nel patto di Varsavia. E invece sembra di essere a Mosca, con questa bell’arietta di censura, perchè ci sono cose che non puoi dire visto che in Ucraina c’è la guerra.

Ma chi lo dice, dove sta scritto? Bisogna poter dire tutto, sempre. Altrimenti non si capisce perchè c’è questa guerra. E soprattutto, se non capisci perchè c’è questa guerra, non riesci a capire come si fa a farla finire, che poi e il vero problema che abbiamo in questo momento». 

C’è chi dice che sei uno tra i migliori giornalisti italiani.

«Non esageriamo. Io ho sempre la sindrome dell’impostore. E penso che il degrado generale dell’informazione abbia creato una sopravvalutazione anche nei miei confronti. A me pare di essere abbastanza normale, non credo di fare delle cose straordinarie. Se fossi vissuto in un’altra epoca, se fossi diventato direttore all’epoca in cui i direttori erano Montanelli, Scalfari, Pintor, Feltri, Anselmi, Rinaldi, Furio Colombo, Padellaro, Scardocchia, probabilmente sarei il ventesimo, il quarantesimo».

Sarebbe utile una legge che limiti la possibilità di possedere i giornali ai soli editori puri?

«Certo. dovrebbe proibire a ogni editore di giornale di avere altri interessi se non quelli dell’editoria. A lui e ai suoi parenti stretti, altrimenti riciccia fuori il solito Paolo Berlusconi al posto di Silvio. 

Ci vogliono anche una legge antitrust e una legge sulle rettifiche e contro liti temerarie. Leggi che alleggeriscano un po’ la pressione sui giornalisti. se e quando verranno fatte, a quel punto vedremo quanti sono i giornalisti liberi che fanno i servi perchè sono costretti dal sistema e quanti invece sono proprio nati cosi». 

Cosa ne pensi dell’Espresso in vendita?

«Passare da De Benedetti agli Agnelli-Elkann a Iervolino: non saprei quale dei tre editori sia peggio. E una bella lotta».

Dopo la direzione al Fatto hai in mente altro, chessò, tipo un programma tv?

«No, macchè programma... per fare un programma bisogna che un segretario di partito o un presidente del Consiglio telefoni alla Rai, oppure devi comunque dare delle rassicurazioni a quegli editori impuri. Devi pagare dei pedaggi, non fa per me. 

E non me ne frega niente. E poi, anche se fosse tutto libero, il mio mestiere non e la televisione. Io la soffro, ci vado perchè e utile far circolare le idee e la testata del Fatto, ricordare al grande pubblico che comunque una piccola oasi di liberta esiste. Ma, se dovessi scegliere fra la tv e la carta stampata, non avrei dubbi: carta stampata tutta la vita».

·        Maria Giovanna Maglie.

Maria Giovanna Maglie dal letto d’ospedale: «Ero in tv, la notte delle elezioni, e mi si è come spenta la luce». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022.

La malattia e l’intervento d’urgenza che le ha salvato la vita: dopo il post sui social, la giornalista racconta cosa le è successo e come sta adesso

«Ero in tv, la notte della maratona elettorale, ospite a Quarta Repubblica... A un certo punto mi si è come spenta la luce». Maria Giovanna Maglie racconta così, dal suo letto d’ospedale, il momento più difficile della sua vita. Il cuore della giornalista stava per cedere. Un intervento d’urgenza all’European hospital di Roma le ha salvato la vita. Sembrava tutto risolto, poi sono arrivate le complicazioni: «Una dopo l’altra, una maledizione».

Così Maglie, giornalista «polemista» che dopo un esordio a l’Unità e tanti anni in Rai ora tifa Lega, ha pensato di scrivere un post su Facebook: «Sono in ospedale per una serie di interventi chirurgici da quasi due mesi. Ecco la ragione della mia latitanza. Fate il tifo per me».

Innanzitutto, come sta?

«Innanzitutto diciamo che non sono in punto di morte. Per fortuna sono in un ospedale straordinario e sarò eternamente grata al professor Ruggero De Paolis, che mi ha operata al cuore. L’intervento ha riguardato l’aorta e la valvola tricuspide. Sembrava tutto a posto. Poi si è rotto lo sterno per ben due volte, quindi altre due operazioni... Ora le cose vanno meglio, ma ci vorrà tempo».

Perché ha deciso di pubblicare questo suo post dal letto d’ospedale, così sofferente?

«In tanti mi chiedevano perché non ero più in tv da molte settimane. Così ho pensato di dare una risposta per tutti. Ho ricevuto decine di migliaia di messaggi di affetto, un riscontro del tutto inatteso che mi ha dato grande conforto in un momento così doloroso».

Anche i suoi avversari, politici e giornalisti?

«Per fortuna sono piena di avversari che mi vogliono bene. Da Luca Telese a Davide Parenzo, tutti quelli che la pensano all’opposto di me. Poi, però, quando si spengono le luci delle tv torniamo amici».

Si sarebbe dovuta candidare con la Lega lo scorso 25 settembre. Poi che è successo?

«Non è mai stato vero. Quello che fanno i deputati è benemerito. Ma poi ho capito che il parlamento non era una cosa per me».

Il giorno prima ha fatto un chiaro endorsement per la Lega di Salvini, che però è crollata dal 34% delle Europee all’8% e poco più delle Politiche. Che è successo?

«Io ho contestato il governo Draghi per tutto il suo mandato, criticando anche i partiti che ne componevano la maggioranza, Lega compresa, senza distinzione alcuna. Sostenere questo esecutivo, tra Covid, obblighi vaccinali e crisi economica, è stato un suicidio. Per questo il risultato alle urne non mi ha sorpreso per niente».

E adesso?

«Dico a Salvini: guai a non capire il momento, perché la riscossa non sarà automatica. Guardate Conte, che tutti davano per morto, e ora invece ora si è riscattato».

La prima cosa che farà fuori dall’ospedale?

«Una bella passeggiata nel centro di Roma, anche se è sempre più lurido. Vorrei tanto prendermi un aperitivo a Campo dei fiori, guardando per aria. Con il mio compagno Carlo, che mi sta sostenendo in modo incredibile».

·        Marino Bartoletti.

Da huffingtonpost.it il 19 gennaio 2022.

 “Forse il peggio è passato” confessa il giornalista sportivo Marino Bartoletti, 71 anni, parlando del tumore che lo aveva colpito la scorsa primavera. In un’intervista al Corriere della Sera, Bartoletti ha detto di essersi messo alle spalle il male della scorsa primavera, pur dovendo continuare a sottoporsi a controlli periodici. Volto amatissimo della televisione, Bartoletti è anche autore di diversi romanzi, tra cui l’ultimo intitolato La cena degli dei, che gli ha fatto vincere il Premio Selezione Bancarella, il secondo posto all’Invictus, all’Ulisse. Il 18 novembre, poi, ne uscirà il seguito, Il ritorno degli dei. 

La cena degli dei parla di una cena intorno alla tavola di un grande vecchio, nella quale si riunivano tante personalità scomparse, da Pavarotti a Dalla. Nel prossimo capitolo la storia sarà simile ma lo scenario diverso, come anticipa al Corriere della Sera: Ci sarà sempre un grande vecchio, che è Enzo Ferrari. Non sarà una cena, ma un via vai di personaggi. Per esempio colmo la lacuna dei calciatori: molti mi avevano chiesto come mai nel primo non ci fossero, ora ci saranno. Anche perché a dicembre dello scorso anno se ne sono andati Paolo Rossi e Maradona e non potevo non cominciare proprio da loro. Non mancheranno dunque il calcio, la musica, e l’Emilia Romagna: non potevo essere insensibile al fatto che tra le persone che ci hanno lasciato c’è Raffaella Carrà, che era amica di Maradona: questo è un dolore per noi, ma una gioia per il grande vecchio, visto che anche lui era amico di Raffa. Al fianco di Ferrari c’è sempre questo personaggio, Francangelo, che è il suo assistente 

La dedica del libro va a Paolo Rossi e Diego Maradona, miti e amici per Bartoletti: Penso siano stati portatori di grandi valori umani declinati sicuramente in maniera diversa. In uno, Paolo, era molto facile cogliere questi valori, era una persona di una dolcezza infinita. Ma entrambi hanno un tratto umano che li ha connotati. E mi piace l’idea di farli incontrare. 

Bartoletti fa anche il punto sullo stato dell’arte del calcio italiano, ‘inaridito’, secondo il giornalista, non solo a livello di produzione di talenti ma anche nell’approccio che hanno con loro i suoi colleghi. Un tempo erano più accessibili e più facili da raccontare, mentre oggi ‘è tutto più filtrato’. Non bisogna dimenticare, però, i successi della scorsa estate con un grande protagonista del calcio: Roberto Mancini 

È riuscito a volare alto prescindendo dai campioni, giocando sul fare squadra e fare amicizia, che evidentemente è un valore che non passa mai di moda se si vuol fare qualcosa di buono. Penso che il mondo dei campioni puri individuali sia un po’ sfumato in favore di un mutuo soccorso. Un concetto che l’estate ci ha fatto capire alle Olimpiadi, agli Europei, alle Paralimpiadi, e che diventa importante anche per una società alla continua ricerca di eroi.

Anche per Bartoletti la scorsa estate è stata ricca di emozioni. Due, tre incontri a settimana per via del suo libro, da San Vito Lo Capo al confine con la Svizzera.  A luglio, poi, ha deciso di chiudere la sua pagina Facebook: Mi ero stufato di fare sentinella di Facebook. Avevo impostato il lavoro con sincerità. Per molti questo non era un terreno praticabile perché troppi sfogano la loro cattiveria e infelicità in quel luogo: i social sono spesso lo sfogo per la maleducazione e io non ci volevo stare più. Ho tenuto aperta la pagina privata, vediamo se a fine anno mi torna la voglia di riaprire l’altra. Il mio rapporto con Facebook continua con la pagina privata. Tanto che ad agosto è uscito “BAR TOLETTI 5 - Così ho vaccinato Facebook”, la quinta raccolta dei miei pensieri pubblicati sulla piattaforma

Rimane la televisione, l’altra grande passione di Bartoletti, ma questa volta non per parlare di calcio. Dalla scorsa primavera, infatti, è stato chiamato a fare il direttore editoriale di BFC Media, che comprende Bike Channel, il bikechannel.it e la community social: Una sfida che alla mia età non avevo intenzione di accettare, ma chi me l’ha proposto è stato molto convincente. E penso che la bicicletta, la ciclabilità e il recupero di certi valori che non possono prescindere dall’amore per ambiente siano fondamentali. Quindi la mia tv sarà Bike channel. A parte, ovviamente, qualche incursione per il Festival di Sanremo

·        Mario Calabresi.

«Se la pandemia ci fa scegliere la vita»: Mario Calabresi in Puglia con l'ultimo libro. Sei storie del nostro difficile tempo. Fulvio Colucci su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Novembre 2022.

Prosegue in Puglia il tour di presentazione di «Una volta sola. Storie di chi ha avuto il coraggio di scegliere» l’ultimo libro di Mario Calabresi, appena uscito per Mondadori (pp. 180, euro 18). Il giornalista sarà oggi, 25 novembre, alle Vecchie Segherie Mastrototaro di Bisceglie (ore 20,30 - info 0808091021 info@vecchiesegherie.it), nella Sala degli Uccelli del Palazzo Ducale di Martina Franca, domani 26 novembre, alle ore 11 e nella Sala conferenze del Must - Museo Storico di Lecce, a cura di Diffondiamo idee di valore e Conversazioni sul futuro in collaborazione con Libreria Liberrima e con il sostegno del Comune di Lecce (appuntamento domani alle 17,30).

Raccontare come ci ha cambiato la pandemia. Come nella tempesta e nella temperie abbiamo subito una trasformazione. Come però siano antichissimi «strumenti» - la memoria - a traghettarci sempre dalla morte alla vita (la memoria avrebbe detto Pavese risale dalla morte ma afferma sempre la vita). Mario Calabresi scrive Una volta sola. Storie di chi ha avuto il coraggio di scegliere e ritrae un’umanità che vince la morte e che sceglie la vita: «Il bene più prezioso» spiega il giornalista che delle vite degli altri scrive consapevole della loro ricchezza, del fatto che sia data, appunto, dal loro attaccamento all’esistenza e alla missione di vivere con dignità, con speranza, con umanità, con la forza e la libertà di scegliere.

Ci sembra che in questo libro la memoria diventi un ponte per attraversare la strada tra la vita e la morte al contrario. La voce di Rachele, ciò che resta di lei dopo la morte, ci riporta al senso della vita, alla vita stessa. E' così? La memoria può avere questa forza?

«La voce di Rachele ci fa comprendere quando sia preziosa la vita, quanto siano preziosi ogni giornata e ogni momento della nostra esistenza. Ho raccontato la sua storia, quella di una giovane madre che lascia un racconto della sua vita ai figli che non potrà veder crescere, perché mostra il valore di ogni incontro e di ogni gesto, di tutte quelle cose che, sbagliando, consideriamo scontate e normali».

La pandemia è il punto di svolta che, nel libro, la spinge a raccontare. Si è detto che ne saremmo usciti migliori. Lei si ribella all'idea che la pandemia abbia peggiorato umanità individuale e convivenza collettiva. I casi di reazione positiva da lei raccontati non sono, quindi, isolati?

«Non ne siamo usciti migliori ma nemmeno peggiori, ne siamo usciti più consapevoli. Abbiamo una percezione diversa del valore del tempo e delle cose che contano. Secondo me la pandemia è stata un acceleratore di fenomeni ma anche di destini individuali e un motore di cambiamento».

Franco, Claudia, Camilla, Sami, Laura. C'è una storia che l'ha colpita più delle altre?

«Ho amato tutte le storie che racconto perché insieme compongono un puzzle con l’immagine del tempo che stiamo vivendo. Ognuna delle persone che ho incontrato mi ha insegnato quanto sia fondamentale essere capaci di scegliere».

Viviamo la nuova precarietà post-pandemica ma allo stesso tempo proprio questa precarietà ci fa capire che vale la pena vivere. Un difficile equilibrio segna il presente. L'umanità saprà, secondo lei, costruire un futuro meno “instabile”? E come?

«La precarietà può anche essere consapevolezza. Aiutarci a capire che non abbiamo un tempo infinito ma che vale la pensa scegliere cosa ci sta davvero a cuore, chi vogliamo essere, cosa vogliamo fare e da che parte vogliamo stare ogni giorno».

·        Mario Giordano.

Luca Telese per tpi.it il 19 maggio 2022.  

Mario Giordano, Cartabianca rischia di chiudere per Orsini.

«Mi pare follia». 

Perché?

«Si cerca di imporre uniformità di pensiero nella stampa italiana». 

È un fatto nuovo?

«Si tenta di demonizzare le opinioni non conformi». 

Orsini che impressione ti fa?

«Perché non dovrebbe parlare, scusa? Perché devono dire che è pagato dai russi?». 

La guerra oggi è un tabù?

«Sì, ma prima lo erano i vaccini. È scandaloso che un programma possa rischiare la chiusura perché ospita un professore universitario che ha idee diverse dal governo». 

Si dice: è la Rai.

«Appunto. Come si può contestare il diritto a parlarle di chi ha idee diverse?». 

Dicono che ci sono gli agenti russi nei talk.

«Se lo provano davvero li arrestino: altrimenti è solo una diffamazione per imporre un bavaglio». 

Draghi ha criticato l’intervista a Lavrov.

«Contestare come è fatta una intervista non è compito di un presidente del Consiglio». 

Perché?

«Il capo del governo può criticare un contenuto, ma non dà giudizi su come si fanno le interviste. Altrimenti arriviamo a una verità politica. È molto pericoloso». 

Cosa intendi?

«Domani qualcuno si farà vidimare le domande da Palazzo Chigi?». 

Il Copasir indaga sugli ospiti nei talk.

«Se c’è una spia e lo provi, lo denunci alla Polizia. Ma se hai solo idee diverse è follia». 

Si può criticare il governo nella tv di Stato, sulla guerra?

«Si deve. Altrimenti altro che Putin! È la Corea del Nord».  

Esageri?

«Mica tanto. C’è una china pericolosa. Secondo qualcuno non si possono fare manifestazioni di piazza. Altri teorizzano l’abolizione del suffragio. Qualcuno parla di governo militare, Galimberti vuole la dittatura… Brutto clima». 

Mario Giordano, conduttore di “Fuori dal Coro!”, spiega le sue idee su guerra e giornalismo. Ha appena pubblicato “Tromboni” (264 pagine, Rizzoli), un saggio pamphlet «contro chi ha la verità in tasca».

Giordano, chi sono i tromboni?

«Dalla guerra al Covid, al governo dei migliori c’è l’imbarazzo della scelta. Siamo circondati». 

Partiamo dalla tua storia.

«Mio padre lavorava in banca. Mia madre casalinga: una perfetta famiglia piemontese. Nessun parente nell’Ordine». 

Quando ti  è venuta la passione per il giornalismo?

(Ride). «Più o meno a 8 anni». 

Idee chiare fin da subito?

«Avevo un taccuino con l’immagine di Topolino in copertina. La maestra Carla Prati mi chiedeva di scriverci le mie “cronache”». 

Quindi sei stato incoraggiato, anche dai tuoi?

«Non so se conosci lo stato d’animo tipo dei  “piemontesi diffidenti”». 

Come lo tradurresti?

«Scetticismo cronico: “Ma se sei capace di farlo fallo”». 

Bello. Il tuo primo giornale?

«A casa si leggeva La Stampa. Le mie firme preferite erano Arpino – penso ad “Azzurro tenebra” – e poi Pansa». 

Famiglia cattolica?

«Mia madre mooolto cattolica, elettrice della Dc. Mio padre, figlio di ferroviere, ha sempre detto di votare Pci». 

Il tuo primo articolo scolastico, di calcio, sul mitico Alessandria.

«Il titolo era: “L’Alessandria non si discute, si ama”. E piacque molto». 

Ma tu sei del Toro!

(Ride). «Vero, ma la traccia era quella. Presi coraggio e iniziai a scrivere, durante l’estate, per il settimanale diocesano L’Ancora». 

Eri ancora minorenne!

«Sì, ma già facevo inchieste su contadini vinicoli, vendemmie, raccolti». 

Non eri alto.

«Macché: a pallacanestro mi chiamavano “il puffo”, ero praticamente un nano. Sempre sbeffeggiato per altezza, voce, volto glabro. Fattezze indefinite». 

Però aumenti le collaborazioni.

«Riuscivo, con qualche acrobazia, a piazzare degli articoli sulle due riviste della città, Il piccolo e G7». 

Degli alessandrini Pansa ricordava, con perfidia, che sono «mandrogni», ovvero un po’ intrallazzoni. 

«In questo Pansa esprimeva campanilismo “casalese”. Io mi sento pienamente piemontese, ovvero rappresentato dall’eterno adagio: “Esageruma nén”».

«Non esageriamo». Ma se la tua carriera e la tua tv sono nel segno iperbole!

«È una maschera. Ma nell’intimo sono molto più modesto e parco di quel che si possa pensare». 

Quindi per te l’eccesso, i titoli choc, i primi piani distorti, gli urli in telecamera...

«È un modo per comunicare». 

Eri secchione: maturità 60 sessantesimi.

«Sì, ma con spirito socializzante».

Cioè?

(Sospiro). «Passavo sempre i compiti di latino e greco».

Università a Torino.

«Scienze politiche per fare il giornalismo. Tesi su rapporto lavoro-disoccupazione. Sai che scrissi addirittura una formula econometrica per combattere la disoccupazione?». 

Non l’hai data a Di Maio?

(Ride). «No, ma ce l’ho ancora, trascritta e conservata. Se servisse…». 

Anche la laurea è da secchione: 110 e lode,  finisci inviato dai cappuccini a raccontare le missioni nel Ciad, durante la guerra.

«Non ero la Amampour: un service dei cappuccini, Nova T, mi commissiona un documentario. La guerra scoppia mentre eravamo lì, e accelera il mio ritorno». 

Con qualche scoop?

«Macché! Con un tappeto regalo di un sultano del nord… Mia moglie mi prende in giro ancora perché non l’ho buttato». 

Il tuo primo grande salto è a Il nostro tempo, settimanale diocesano, un giornale vero.

«Il direttore era Agasso, piemontese liberale di Carmagnola. E sai di chi divenni il vice?». 

Di Marco Travaglio.

«Faceva tutto, dalla scrittura alla macchina. Un giorno mi disse: “Adesso ti spiego cos’è un menabò…”». 

Lui più di sinistra, tu più a destra?

(Ride). «Veramente era il contrario! Io ero il classico terzomondista. Lui tradizionalista, un liberale conservatore». 

Non ci credo.

«È così: anzi, io ero il classico catto-comunista». 

Eri fuori posto tu. Il giornale era di taglio  conservatore.

«Senza dubbio. Pensa che quando Marco iniziò a scrivere per Il Giornale io gli facevo da aiutante». 

In cosa?

«Seguivamo le partite di calcio di Toro e Juve. Divisi anche lì: io granata, lui bianconero».

E divisi anche oggi. Anche per te arriva una grande occasione.

«Ero sposato, con due figli piccoli. Mi stavo accasando in 38 metri quadri. Ma mollo tutto e corro a Milano perché mi assumono a L’Informazione, quotidiano diretto da Mario Pendinelli».

Ed è una catastrofe.

«Il giornale chiude e, nel 1995, resto disoccupato». 

Invii una lettera a Feltri, direttore de Il Giornale.

«Avevo scritto, su Il nostro tempo, degli articoli sulla Vandea. Approfitto del fatto che lui la citi, per provare a stabilire un contatto». 

Lui ti risponde, e festeggi. Ma poi si dimentica.

«Allora gli riscrivo, un biglietto, affidandomi ad un altro postino. Anni dopo Vittorio mi confesserà di aver pensato: “Questo ora lo mando affanculo!”». 

Tipica sobrietà feltriana.

«Mi assegna un pezzo, pensando che mi scaricherà, sul duello tra la Moratti e Fossa per Confindustria». 

Lui tifava Moratti, e voleva un bel killeraggio.

«Non devo essere stato bravo, perché vinse Fossa!».

Però il ritratto era godibilissimo.

«Me lo ritrovo in prima pagina! Poi mi chiama, e dopo un secondo pezzo mi assume». 

Carriera lampo.

«Mi ritrovo a Il Giornale, con Feltri e Belpietro, e dopo un anno e mezzo, a 30 anni, sono già “inviato”». 

Nel 1996 un altro grande salto: diventi collaboratore di Gad Lerner in Pinocchio, su Rai3.

«Pensa, in quella redazione c’era di tutto, dagli ex di Lotta Continua a me. Però io dovevo solo scrivere delle schede».

Ma se diventi un personaggio!

«Devi sapere che in tutta la mia vita mi hanno sempre preso per il culo per il mio aspetto». 

Addirittura?

«Una volta bisognava ricevere dei russi, e il direttore de Il nostro tempo mi disse: “Giordano, si metta una barba finta! se no non è credibile”». 

E tu?

«Pensavo che non avrei mai fatto tv! Pensavo: “Non posso mostrarmi”». 

E invece diventasti un personaggio.

«Un giorno, mentre leggevo le schede, Roberto Fontolàn disse: “Dovresti andare in onda tu”. Si consultò con Gad e due puntate dopo inseguivo la gente gridando, in bicicletta». 

Nel tuo saggio citi una massima che hai creato allora.

«Dicevo della Borsa: “Ci sono tre modi di perdere i soldi: il gioco, i cavalli e gli esperti. Il primo è più rapido, il secondo è più divertente. Il terzo è più sicuro”». 

Ah ah ah…

«Vale anche per la pandemia e la guerra». 

Nel giugno 2000 ti licenzi da Il Giornale. Scelta lungimirante.

«Uhhhh…. Lerner diventa direttore del Tg1 e mi assume come inviato». 

Ma scoppia uno scandalo per alcune foto di pedofili mandate in onda: Lerner si dimette, Sassoli lascia la conduzione. E tu ti licenzi.

«Sono l’unico al mondo che si è dimesso dal tg. Il direttore della Rai di Milano era allibito: “Guardi che qui non accade mai!”». 

Potevi restare.

«Avrei avuto un bello stipendio a vita ma sarei  morto». 

Torni a Il Giornale da Belpietro.

«Che mi dice: “Ti riprendo alle stesse condizioni di prima”». 

Guadagnavi 5 milioni, torni a 2 e mezzo. Però la fortuna aiuta gli audaci.

«Un mese dopo mi chiama Mauro Crippa, direttore dell’informazione di Mediaset, e mi fa: “Cosa mi rispondi se ti propongo di fare il  direttore di StudioAperto?”».

Incredibile.

«Gli dico: “Bevo un bicchiere di grappa al bar,  risalgo e ti dico di sì”».

A 34 anni direttore: 10 milioni di lire di stipendio.

«Forse meno». 

Ti inventi “Lucignolo”, il programma più criticato della tv italiana.

«Sì, dalla critica snob. Parlava ai giovani, aveva una lingua moderna, e piaceva a Mediaset per un motivo». 

Quale?

(Ride). «Costava pochissimo».

Il narratore eri tu, ma c’era un doppiatore.

«Ora ci scherzo, ma ho sempre sofferto il non  essere mai preso sul serio, per il mio fisico». 

Non te la sarai presa con Lilli Gruber per quella battuta sulla tua parlata?

«Invece sì! Se mi fa il verso mi girano i coglioni. Ha detto che non si sentiva mia collega. Anche io, ma perché non frequento gli yacht come lei». 

Dai, che adesso è un tuo marchio di fabbrica.

«Solo se sei sopravvissuto, però». 

Ti chiamano a dirigere Il Giornale.

«Per me che ero partito dalle brevi sui giornalini era un sogno». 

Però finisce male.

«Nella vita capita. Ero stato chiamato per fare un quotidiano giovane e meno ideologico». 

Invece scoppia vallettopoli, lo scandalo olgettine, e ti mandano via.

«Serviva un giornale più militante. Torna Feltri».

Sii sincero. Avresti pubblicato il pezzo su Boffo?

«Non voglio fare la verginella. Ma non ero andato lì per quello». 

Il primo voto a chi lo hai dato?

«Ai Radicali. Erano quelli delle battaglie economiche liberali». 

Torni a Mediaset.

«Mi invento l’agenzia News Mediaset e il Tgcom, un canale al news». 

Sei un direttore di invenzioni, sinergie. Ma soprattutto risparmi. Ti nominano direttore di Videonews. Ma dopo tre mesi ti mandano via.

«Era il 2013 e quel lavoro non lo feci bene. La vera fine fu “Radiobelva” un programma di Cruciani e Parenzo, che fissò un record. Chiuse alla prima puntata». 

Fine puntata con Sgarbi che insultava la Parietti. E poi Cruciani.

«Che notte! A metà  puntata tutti in regia dicevano: “È nata una nuova lingua televisiva”. Il giorno dopo, 2% di share e addio». 

Diventi direttore del Tg4 e vai a sfidare la Gruber con Del Debbio alla conduzione di Dalla Vostra Parte.

«La battevamo spesso!». 

Merito tuo?

«No, suo. Paolo è un istrione, ha una forza  straordinaria». 

Piazze, immigrazione: la tv che ha creato il popolo della destra?

«Il talk era solo di sinistra. Abbiamo riaperto la sfida». 

Però poi vi chiudono: vi considerano troppo “populisti” mentre Forza Italia faceva il patto del Nazareno.

«In 21 anni a Mediaset ci stanno gli alti e i bassi. Siamo tornati». 

Fuori dal Coro funziona perché puoi fare i ring, i giri in monopattino e in banco a rotelle?

«Calma. Ci sono fior di inchieste. E poi anche un po’ di show». 

Ogni tanto l’eccesso dà fastidio anche alla rete?

«Se rinunciassi ad essere così non sarei utile all’azienda. Pensa che l’idea fu di Piersilvio: “Fai un programma tuo”». 

Dicono che sei volutamente trash.

«Abbiamo aperto la prima serata sui palazzi d’oro intrufolandoci nelle stanze dei vescovi! È giornalismo». 

Le cose hard bucano.

«Un giorno mia figlia mi dice: “Papà, sei in tendenza su TikTok”. Erano i momenti più folli. Ma senza le inchieste il programma non farebbe ascolto. Il mio non è un talk, è un racconto». 

Hai scritto diciotto libri e fatto il botto con “Sanguisughe”, sulle pensioni d’oro.

«Ha venduto 150mila copie. Non ci credeva nessuno. Neanche io». 

Ti sei comprato una casa a tre piani.

«Macché, la mia l’ho presa nel 2011, non si guadagna con i libri, lo sai. Ho ancora quindici anni di mutuo!».

Non fare l’austero.

«Non mi piace rivendicare il successo economico». 

Da allora vendi di più.

«“Avvoltoi”. Ha avuto meno successo, ma raccontavo prima del crollo del Morandi lo scandalo di Autostrade, “Il casello dalle uova d’oro” dei Benetton». 

Con “Tromboni” chi c’è nel mirino?

«Io sono contro l’uniformità del pensiero. Mi sono rotto le balle di gente che dà lezioni». 

Chi?

«I virologi che toppano tutto. I soloni. Pensa che Gianni Riotta non conosceva neanche l’articolo 1 della Costituzione, e pontificava ad Agorà. Quanti ne vuoi». 

Fai il bastian contrario?

«Non salgo in cattedra. Provo a essere fuori dal coro perché solo così mi sento libero».

·        Massimo Fini.

Alessandro Rico per “La Verità” il 17 gennaio 2022.

«Un'intervista? Facciamola oggi. Domani ho la terza dose del maledetto vaccino, potrei finire all'altro mondo». 

Massimo Fini, non esageri. Si vaccina suo malgrado?

«Mi vaccino perché, se no, non potrei andare da nessuna parte». 

Lo vive come un ricatto?

«Diciamo che io avevo un'idea diversa sul Covid». 

Che idea?

«Avrei lasciato fare all'epidemia il suo corso: c'è un eccesso di popolazione».

Scusi, allude a una «mietitura»?

«Preciso che io ho 78 anni - stramaledetti - e sono tra i candidati allo sfoltimento. Solo che, contrastandola, l'epidemia la rafforzi». 

Va ammesso che ora in tanti spiegano che il Covid va gestito come una normale influenza, accettando un certo numero di ricoveri e vittime.

«Be', una condizione come quella che abbiamo vissuto negli ultimi due anni non può essere protratta ancora a lungo. La gente si stressa e si ammala per altri motivi. 

Gli ospedali pediatrici hanno denunciato, nella fascia 11-18 ani, un aumento di malattie psichiatriche pesanti. Non vedo perché sacrificare un'intera popolazione per qualche vecchio come me». 

È più insidioso il Covid o la Covid-burocrazia?

«Io noto che se hai una malattia più grave, non puoi curarti. Ma ora basta Covid: uno dei suoi effetti collaterali è che non si parla d'altro». 

Ecco, a proposito di effetti collaterali: uno dei tanti, è che è caduto il mito del governo dei migliori?

(Risata) «Certamente. C'è stata una iper sopravvalutazione di Mario Draghi, come se fosse un deus ex machina. Cos' abbia fatto per essere santificato, non l'ho capito».

Pietrangelo Buttafuoco ha detto che Draghi è stato «ducizzato».

«È giusto, perché poi quest' esaltazione non è tanto responsabilità sua. La stampa italiana, vile come sempre, l'ha innalzato a un livello divino. Comunque, tutti i leader che vengono troppo adulati fanno una brutta fine». 

Quali?

«Ad esempio, Bettino Craxi: a furia di circondarsi di yes men, ha perso il contatto con la realtà. Anche Benito Mussolini commise lo stesso errore. E furono personaggi storici di ben altra levatura». 

Draghi è meglio tenerlo a Palazzo Chigi, o eleggerlo al Quirinale?

«Io lo eleggerei al Quirinale, pur di impedire che ci vada Silvio Berlusconi». 

Perché?

«È stato condannato per una colossale evasione fiscale, ha quattro processi in corso, otto prescrizioni, in alcune delle quali è stato accertato che i reati di cui era accusato li aveva commessi D'accordo che l'Italia è il povero Paese che è, ma meriterebbe un presidente della Repubblica almeno decente». 

Perché usare il solito argomento giudiziario? Occupiamoci di politica, piuttosto.

«Lui ha fatto gaffe internazionali a ripetizione. Qualcuno di meglio si può trovare». 

Chi ha in mente?

«Rosy Bindi».

Oddio. Come mai?

«In questo Paese in cui sono tutti femministi, lei è stata sempre ostracizzata perché non è avvenente». 

Proprio Berlusconi la definì «più bella che intelligente».

«Una battuta ispirata da Vittorio Sgarbi, cui lei rispose: "E comunque non sono una donna a sua disposizione"». 

Ne caldeggia l'ascesa al Colle anche per altre ragioni?

«I democristiani hanno sempre detto di concepire la politica come servizio per il Paese. In realtà non facevano affatto questo, ma tra quelli che lo facevano c'era la Bindi». 

Se non la Bindi?

«L'altro che non mi dispiace - vi stupirà - è l'eterno Pierferdy, Pierferdinando Casini». 

Altro ex dc. Un uomo molto di sistema, per i suoi standard

«È vero, ma è un moderato autentico - non come quell'altro - e ha una bella presenza. Una cosa che conta, perché ritrovarsi uno come Renato Brunetta». 

Sorvoliamo, se no ci accusano di body shaming. Abbiamo menzionato il sistema: il Movimento 5 stelle ne è stato l'utile idiota?

«Cito il Divo Giulio Andreotti: "Il potere logora chi non ce l'ha". Purtroppo, il potere logora anche chi lo conquista, inclusi i 5 stelle. Però bisogna riconoscere che, ogni volta che in Italia si presenta un movimento antipartitico, viene ostracizzato in modo violentissimo. Accadde alla Lega di Umberto Bossi, quella vera: fu trattata peggio delle Brigate rosse». 

I grillini, allora, sono vittime?

«Sono stati poco capaci nel selezionare la loro classe dirigente. Si poteva capire la prima volta che entrarono in Parlamento, perché erano nuovi. La seconda volta avrebbero potuto scegliere meglio». 

Di Giuseppe Conte leader, che opinione ha?

«Buona. Il Recovery fund l'ha ottenuto lui, con l'appoggio di Angela Merkel, unica statista europea. Mi pare un uomo equilibrato. Certo, i 5 stelle si sono tutti democristianizzati. Anche Luigi Di Maio. Da un lato, era inevitabile: se no, in politica, almeno in Italia, non resisti».

Il campione di resistenza è il Pd

(Risata) «Eh sì Solo che non si capisce più cos' è. Vale la frase di Nanni Moretti: "D'Alema, dì una cosa sinistra, dì qualcosa". Insomma, è venuta a mancare una sinistra vera, dopo il crollo del Partito socialista». 

Non la stupisce sentire Pier Luigi Bersani sostenere che un non vaccinato, se gli ospedali sono sotto pressione, non va curato?

«Ovvio. Il socialismo dovrebbe essere una versione della cristiana difesa degli umiliati e offesi, degli ultimi. Una posizione del genere contrasta totalmente con questo principio. In generale, però, il socialismo non esiste più nel mondo: nei pochi posti in cui c'è, dal Brasile, alla Bolivia, gli americani provano a farlo fuori. Eppure, coniugare una ragionevole eguaglianza sociale con i diritti civili credo sia ancora l'idea più bella».

Il suo ultimo libro, Il giornalismo fatto in pezzi, tramite una collezione di sue cronache e reportage, restituisce il ritratto di una professione quasi «di strada», che oggi non esiste più. Nella sua lunga carriera, l'aveva mai visti colleghi applaudire un presidente del Consiglio che entra in una sala stampa?

«Grazie a Dio non sono mai stato un giornalista parlamentare. Indubbiamente, dello svilimento del mestiere fa parte anche questa adorazione acritica di qualunque personaggio che emerge. Quando un qualsiasi leader politico rilascia una dichiarazione, intorno ha cento microfoni. Ma basta l'Ansa! Vai da qualche altra parte a vedere qualche altra cosa! È questo il giornalismo che non c'è più». 

Quello che si consuma sui luoghi in cui accadono i fatti?

«Esatto: quello praticato sul campo, in presa diretta. Adesso ci si alimenta con i social Il maestro Nino Nutrizio diceva che questo mestiere si fa "prima con i piedi, poi con la testa". Prima guardi, ascolti, annusi, dopo dai al materiale raccolto un senso. Questo giornalismo è largamente scomparso, tranne che tra qualche inviato di esteri». 

Giornalista testimone oculare, giornalista condannato a stare davanti al Pc. Quale dei due fa più comodo al potere costituito?

«Si è già dato la risposta. Il giornalismo di oggi serve al potere, non al Paese». 

L'ossessione per le fake news non è un altro paravento, utile a screditare le notizie scomode?

«Sa, il giornalismo di Internet permette di dire incredibili cazzate senza verifiche. Però, se fatto bene, permette di raccontare le verità che il sistema non accetta».

Nel libro, descrive i grandi protagonisti del capitalismo italiano del Novecento. Meglio quelli, o i nostri contemporanei?

«All'epoca, un qualche umanesimo industrialista esisteva. Oggi, il cosiddetto manager non manovra nemmeno soldi suoi. Perciò è cambiato tutto. Me ne resi conto quando ero in Rizzoli: sparirono i proprietari, arrivarono i manager ed era gente che neanche ti salutava. Non c'era alcuna affezione nei confronti del dipendente». 

La pandemia finirà. Vogliamo una sua profezia: come sarà l'Occidente tra dieci anni?

«Se il Novecento è stato il secolo americano, questo sarà molto probabilmente il secolo cinese. A meno che non diventi il secolo Isis».

Addirittura?

«Il modello occidentale è destinato a cadere, perché è basato sulla crescita esponenziale. Si ripeterà una situazione simile a quella che portò al crollo dell'Impero romano e diede origine al feudalesimo europeo. Con una differenza». 

Quale?

«L'Impero romano, pur importante, era uno spunto nel vasto mondo di allora. Invece, nel mondo globalizzato, se crolla il sistema crolla tutto. Una volta credevo fosse una prospettiva a lunghissimo termine; adesso, alla velocità a cui viaggiamo, non dico che accadrà tra dieci anni, ma è molto più vicina di quanto pensassi». 

Aiuto. Che si fa?

«Le do due consigli. Primo: insieme ad amici, compri un casale, un campo e una mucca. Secondo: si procuri un kalashnikov».Per farci cosa?«Per respingere quelli di città: quando capiranno che non possono mangiare asfalto e bere kerosene, verranno verso le campagne».

Apocalittico.

«Due gruppi di giovani del mio Movimento zero hanno già fatto questo esperimento: uno in Puglia e non è riuscito; uno ad Asti ed è riuscito». 

Parla del kalashnikov?

«No, del casale in campagna. Trenta ragazzi e ragazze, che da cinque anni vivono del loro: autoproduzione e autoconsumo. Tuttavia, c'è una cosa che a loro non si può rivelare». 

Che cosa?

«Non è mica sicuro che, dopo il crollo, possa esserci una rinascita. Ma non puoi dire a dei ragazzi che non ci sono speranze».

·        Massimo Giletti.

Massimo Giletti: «Alessandra Moretti è ancora innamorata di me. Io putiniano? Feci la pipì sul confine russo». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 22 Maggio 2022.

Il giornalista di Non è l’Arena: «So bene di essere divisivo, ma meglio: vuol dire che crei emozioni». La Juve: «Zoff il miglior allenatore». L’azienda di famiglia: «Sento ancora gli odori»

Sa riattaccarsi un bottone?

«L’ho fatto una volta, a Lourdes, con gli scout. Siccome c’era anche mia madre, volevo andare da lei per farlo sistemare, ma i miei compagni non me lo permisero».

Non si può sentire. L’azienda «Giletti Spa» fa filati dal 1884.

«C’era chi riattaccava i bottoni meglio di me. Ho sempre cercato di non perdere tempo nel fare cose che non mi sarebbero servite».

Mai andato in analisi? I suoi fratelli gemelli, di sette anni più grandi, la infilavano nel pozzo o l’abbandonavano in mezzo al torrente.

«No, anzi, ho sempre giudicato con atteggiamento arrogante chi lo faceva. Adesso ho 60 anni e mi sembra un po’ tardi per recuperare».

E non pensa che ci sia stata un po’ di rivalsa, nel suo percorso professionale? È cresciuto come «il fratello dei gemelli Giletti», adesso Maurizio ed Emanuele sono «i fratelli di Giletti».

«Mah, forse lo possiamo dire per sorridere, senza dargli un valore assoluto. Senza di loro avrei faticato dopo la morte di mio padre».

Emilio, scomparso a gennaio 2000. Gli aveva promesso di occuparsi dell’azienda, ma lei oggi non è più presidente.

«Era una promessa complessa da mantenere, ma era giusto farla. Ho lavorato due anni in azienda, dopo la laurea, e mi sono portato il peso della scelta di andarmene. Ogni tanto mi basta chiudere gli occhi per rivedermi bambino mentre attraversavo i reparti: sento ancora tutti gli odori. Tornando alla promessa, credo che l’importante sia dare continuità, investire: lo scorso anno abbiamo chiuso molto bene».

Ha nipoti?

«Due, Emilio e Titti. Ma sono uno zio assente. Corro sempre, la lontananza...».

Massimo Giletti si pavoneggia graziosamente nel suo attico romano sui Monti Parioli, nella sala azzurra con la moquette in tinta, abbinata al colore predominante dei tanti Balla appesi alle pareti, compreso un sontuoso arazzo che ne occupa una per intero. Gli hanno appena consegnato una cassapanca futurista dalla Sicilia, che ha messo di fronte a una deliziosa viaggiatrice in bronzo di Bruno Catalano. Si lamenta ogni tanto per il ginocchio: è caduto giocando a calcio e si è scorticato qua e là.

Il suo rito prima di ogni puntata era chiamare sua madre Giuliana.

«Ora non posso più farlo, da un anno è entrata in un limbo di bambina. Ma quando vado a trovarla mi riconosce e sorride, e a me basta vedere i suoi occhi che si illuminano».

È vero che la veniva a trovare a Roma, guidando sola, da Ponzone di Trivero, nel Biellese?

«Sì, con la Mercedes. L’ultima volta aveva 84 anni. La patente l’aveva presa di nascosto, mio padre era contrario perché c’era l’autista. In effetti lei lo ha utilizzato per fare scuola guida... A Roma l’ho portata pure in motorino!».

Quante fidanzate le ha fatto conoscere?

«A un certo punto mi ha chiesto di non presentargliele più, perché si affezionava».

A quale si è affezionata di più?

«Le piaceva molto Antonella Clerici, si chiamavano, si scrivevano. Ma è stata profondamente legata a Maria Paola, la figlia di un industriale: ho trovato un carteggio che durava da 4-5 anni».

È rimasto in contatto con tutte le sue ex?

«Sì. La soddisfazione più grande è quando mi dicono che forse ero meglio del marito attuale».

Alessandra Moretti?

«È ancora innamorata di me, forse in parte anche io».

Allora perché finì?

«Finì?»

Me lo dica lei.

«So che non ci perderemo mai. Per lei provo un sentimento di affetto che mi lega molto. È una donna che nella vita ha lottato, ha cresciuto i figli praticamente da sola. Non ho mai avuto una famiglia da Mulino Bianco: quando vedevo i suoi genitori che si amavano ero toccato».

E come sta la sua fidanzata immaginaria?

«Chi?».

Ha raccontato a «Oggi» di un amore grande che le vive dentro da dieci anni...

«Ah, non la sento da un po’. Ma c’è. Io fatico con la quotidianità. Vivo l’oggi come fosse già finito, sempre proiettato al domani. È difficile per me instaurare un rapporto lungo. Quando in Rai mi chiesero di fare un quiz famoso dissi di no, sarei morto. I pacchi non li ho voluti condurre».

Anni fa un sondaggio rivelò che una donna su tre avrebbe pagato cinquemila euro pur di passare una notte con lei.

«A me non hanno mai offerto nulla. Quel sondaggio è putiniano».

E lei non è putiniano?

«A 18 anni feci la pipì sul confine russo».

Racconti.

«Ero in Finlandia con tre amici. D’estate rubavo a mio padre un furgone aziendale in cui mettevamo frigo, stereo e, sopra, le brandine. Quell’estate andammo pure a Helsinki, per i Mondiali di Atletica, e da lì proseguimmo verso Nord, trovandoci al confine con l’Unione Sovietica. Un cartello in russo, inglese e finlandese diceva: 2 anni di carcere a chi parla, 5 a chi fotografa, 10 a chi oltrepassa il filo spinato. Mi ero spinto al limite con il mio amico Giancarlo Sallier de la Tour. Dalla torretta i soldati spararono. Filammo via e, per dispetto, facemmo la pipì sul confine».

Quindi non è putiniano?

«Mi sento un uomo libero e credo che l’Europa non debba dipendere troppo dagli Stati Uniti. Non accetto un ministero della verità assoluta».

Però da lei Vladimir Solovyev ha detto che gli arresti in Russia non ci sono stati...

«I talk sono costruiti sullo scontro di idee».

E la sua magnifica ossessione per Povia?

«L’ho invitato solo due volte. Mi interessava il filo rosso che lega i no vax ai pro Putin».

Giovanni Minoli, suo mentore, ha detto che date tutti la caccia all’ospite strano.

«Ma lui dimentica che ai tempi di Mixer mi mandò in guerra in Serbia, con la Gabanelli, per raccontare il loro punto di vista. Penso si possa fare un parallelo tra il Kosovo e il Donbass».

Vuole fare una puntata di «Non è l’Arena» dalla Russia?

«Sarebbe interessante andare a vedere con i propri occhi quello che sta succedendo lì».

Col senno di poi la rifarebbe dall’Ucraina?

«Oltre alle critiche, ho ricevuto apprezzamenti, per esempio da Mieli, Nuzzi. Quella sera abbiamo fatto il 7%, con i miei reportage nella devastazione. Sono stato in Afghanistan, in Kurdistan, in Iraq... Per parlare di guerra tu devi vederla. Per questo in Ucraina sono andato in giro».

Con le Hogan.

«Ce le ho da sette anni. Hanno un taglio alto, sono perfette se piove o c’è terreno fangoso».

Indossava l’elmetto, l’operatore no.

«Ho un’assicurazione che mi obbliga a prendere certe precauzioni».

In Ucraina è venuta anche la scorta?

«No. Già andare lì era un rischio: ci mancava solo che lo accollassi a qualcun altro».

Smetterà di averla, prima o poi?

«Temo di no. La mafia non scherza».

Di quale servizio a «Non è l’Arena» è più orgoglioso?

«Quando sono riuscito a battere Rai 1 sull’ipotesi di impeachment per Mattarella, nel 2018. Abbiamo fatto servizio pubblico. Non dico di togliere il canone Rai, ma un po’ di pubblicità».

Altre puntate?

«Vedere che un programma costringe il governo al voto di fiducia sulla scarcerazione dei mafiosi portando alla destituzione del capo del Dap, è stato memorabile. Anche se mi è costato la libertà. Ma il coraggio non è essere folli: è andare avanti, nonostante tu sappia quello che ti succederà. Pensiamo a Falcone e Borsellino».

Sente ancora le sorelle Napoli, altra sua battaglia televisiva che è diventata un libro?

«Ci scriviamo ogni settimana. Quando le ho conosciute la loro tenuta produceva cento chili di grano, oggi 50 mila tonnellate».

Sa di essere divisivo?

«Noi non siamo un talk show normale, la mia passione sta lì dentro. So bene di esserlo, ma meglio dividere: vuol dire che crei emozioni».

Il collega che stima di più?

«Trovo che Mentana sia importante: è un uomo molto intelligente, con lui puoi parlare dall’opera d’arte al centravanti dell’Inter. Di Formigli apprezzo il lavoro giornalistico. Floris è un uomo di potere, come Vespa».

Perché lei non ha l’agente?

«I giornalisti non dovrebbero averlo. Vedere colleghi gestiti dallo stesso procuratore pone interrogativi e possibili conflitti di interesse. Per il mio senso di libertà preferisco non averlo».

Può vantarsi di aver battuto Maria De Filippi.

«Me lo disse Mario Orfeo quando mi chiese di fare il varietà. Ma lei è imbattibile: solo sugli eventi come con Mogol puoi fare il miracolo».

Lo ha più incrociato Orfeo?

«Mi auguro di non incrociarlo mai più».

Mara Venier ha detto al «Messaggero» che il posto all’Arena glielo aveva lasciato lei.

«In realtà fu Del Noce a volere due spazi di mezz’ora per me e per Paolo Limiti».

Le piace l’imitazione di Ubaldo Pantani?

Ride. «Una volta incontrai Ibrahimovic alla Juve e mi salutò alzando le corna e dicendo: Hasta la f... siempre! Pensava lo dicessi davvero io!».

Il più bravo allenatore della Juventus?

«Per assurdo Dino Zoff, che con una squadra scarsissima vinse una Coppa Uefa e battè il grande Milan».

Il calciatore di sempre?

«Tardelli: come me non si arrende mai».

Resterà a La7?

«Il rapporto con il presidente è molto profondo. Non potrò mai dimenticare la mattina in cui chiusero la bara di mio padre: sentii una mano sulla spalla ed era lui. Al di là della televisione e di quello che sarà il mio futuro ho una certezza: a Cairo sarò riconoscente per sempre».

Facevano il suo nome come sindaco di Torino. Tentato?

«Veramente era Roma. E comunque l’unico incarico al quale penserei è quello di presidente della Regione, perché in quel ruolo hai la capacità di incidere».

Dagospia il 22 maggio 2022. DICHIARAZIONE DI MASSIMO GILETTI

Chiedo scusa ad Alessandra e alla sua famiglia se si sono sentiti offesi dalle mie parole. Parlavo di amore inteso come affetto sincero tra esseri umani e non di relazione o di altro tipo di sentimento vista la grande stima che nutro da sempre per lei come donna e come madre.

Lettera di Alessandra Moretti, pubblicata da corriere.it il 22 maggio 2022.

Esistono molti modi di fare violenza a una donna. Lo sappiamo tutte perché tutte ci siamo passate. Non c’è soltanto la violenza più evidente, quella fisica che deve portare le donne a denunciare al primo schiaffo senza alcun cedimento; ci sono violenze spesso più subdole, manipolatorie. Quelle che sanno di gogna, che tentano di screditare o infangare il nome di una donna, tanto per cominciare facendo il suo nome, esponendolo in pubblico, tentando di isolare quel nome con le bugie, mettendo in piazza le sue vicende personali.

Puntare il dito contro una donna per accendere un faro su di lei, sulla sua vita privata e famigliare, senza alcun rispetto dei sentimenti e delle sensibilità delle persone coinvolte, come ha fatto Massimo Giletti con la sottoscritta, è una forma di violenza intollerabile. I miei figli hanno sempre avuto un padre e una madre che si sono occupati di loro insieme, non è certo un di più perché ci sono tante mamme o tanti papà che fanno tutto da soli, ma è deplorevole togliere una figura paterna sulle colonne di un giornale a dei bambini, è una cosa inaccettabile.

Denuncerò come faccio ogni volta che ho subito insulti e violenze ma in questo caso lo faccio per tutelare i miei figli che non possono essere sbattuti sul giornale invadendo la loro sfera privata.

Chiedo ancora una volta a tutte le donne e sempre di non retrocedere di fronte a ogni genere di intimidazione, a ogni livello e in ogni ambiente professionale. Non fate mai il passo indietro che vogliono altri, mai. Fate ciò che volete e siate libere. I maschi che puntano il dito o alzano le mani contro una donna che dicono di amare sono un triste appannaggio del secolo scorso, eppure esistono ancora.

Lo dicono le cronache che raccontano ogni giorno diverse gradazioni di violenza, nessuna trascurabile, come le molestie del branco, gli stereotipi sulle mamme che lavorano, i tentativi di mobbing o marginalità professionale che ognuna di noi ha subito almeno una volta nella vita. I femminicidi, infine, una costante e inaccettabile perdita per il nostro Paese. 

La mentalità e la cultura patriarcale sono lunghe e difficili da cambiare e si declinano in tanti modi ma se ognuna di noi fa il suo, reagendo a quel dito puntato, il cambio di paradigma che serve a una società ancora dispari può essere alla nostra portata. E farà bene a tutti.

Massimo Giletti, "lo confesso: la amo da dieci anni". La donna che lo ha fatto impazzire (e che ora ha conquistato). Libero Quotidiano il 10 marzo 2022.

Dopo essere stato paparazzato con Angela Tuccia, Massimo Giletti si confessa. Il conduttore di Non è l'Arena ammette chiaro e tondo di essere innamorato: "Le dico una cosa che non ho mai rivelato: ho un amore grande per una donna. Mi vive dentro da dieci anni". Se si tratti della Tuccia, già sua compagna tempo addietro, non è dato sapersi. Ma una cosa è certa: il giornalista preferisce tenere "il sentimento al riparo, come un giardino segreto che non voglio dividere con nessuno".  

Alla vigilia dei suoi 60 anni, Giletti rivela a Oggi anche il difficile rapporto con il padre: "Quando avevo 5 anni, papà decide di far studiare a Torino i miei fratelli gemelli, più grandi di 7 anni. Mia madre si trasferisce con loro, io rimango e non la vedo per settimane. Una sofferenza immensa". E ancora: "Dopo la laurea in Legge comincio a lavorare nell’azienda tessile di famiglia a Ponzone Biellese. C’è una fresa gigantesca, 20 metri di altezza. Se si ferma, si ferma la fabbrica. Alle 3 di notte si inceppa. Con un meccanico salgo su una scala, il motore nuovo sulle spalle, 80 chili di peso in due. Alle 6 del mattino, stremati, abbandoniamo gli attrezzi sporchi sul pavimento, ci penseremo dopo. Arriva papà, mi guarda e fa: perché non hai pulito? Basta. Ho detto addio".

La vita di Giletti, come dice raccontando un aneddoto del suo passato, poteva essere ben diversa: "Potevo essere il figlio di Picasso: il 30 aprile del 1961, mia madre Giuliana va a cena in un ristorante vietnamita di Cannes, vede Picasso seduto a un tavolo e gli chiede un autografo. Lei era molto bella. Lui le firma un biglietto, la guarda, ci pensa un po’ e aggiunge due disegni: un seno scoperto, una barchetta a vela. E propone: vieni via tre giorni con me?". Lei però era già sposata: "Disse di no e due mesi dopo vengo concepito io". Ma lo sfogo contro il padre non finisce qui, perché il conduttore aggiunge che il padre è arrivato due giorni dopo la sua nascita: "Lui non c’è mai stato nella mia vita. Eppure, da quando è mancato due anni fa, mi manca da morire". 

Anticipazione da Oggi il 9 marzo 2022.  

«Se sono innamorato? Le dico una cosa che non ho mai rivelato: ho un amore grande per una donna. Mi vive dentro da dieci anni. Un sentimento al riparo: come un giardino segreto che non voglio dividere con nessuno... 

Una certezza a cui ritornare, un’àncora. Perché poi sono sempre alla ricerca di altro, di un innamoramento, di un volto nuovo. Sono un pasticcione. Ho vissuto emozioni bellissime, non c’è nulla di più travolgente. Ma la quotidianità uccide. Non riesco a superarla. Neanche da ragazzo: la prima relazione vera l’ho avuta a 20 anni».

Alla vigilia dei 60 anni, Massimo Giletti concede a OGGI, in edicola da domani, un’intervista nella quale fa molte confessioni. A partire dal difficile rapporto con il padre: «Quando avevo 5 anni, papà decide di far studiare a Torino i miei fratelli gemelli, più grandi di 7 anni. Mia madre si trasferisce con loro, io rimango e non la vedo per settimane. Una sofferenza immensa». 

E poi: «Dopo la laurea in Legge comincio a lavorare nell’azienda tessile di famiglia a Ponzone Biellese. C’è una fresa gigantesca, 20 metri di altezza. Se si ferma, si ferma la fabbrica. Alle 3 di notte si inceppa. Con un meccanico salgo su una scala, il motore nuovo sulle spalle, 80 chili di peso in due. Alle 6 del mattino, stremati, abbandoniamo gli attrezzi sporchi sul pavimento, ci penseremo dopo. Arriva papà, mi guarda e fa: perché non hai pulito? Basta. Ho detto addio».

Racconta anche: «Potevo essere il figlio di Picasso: il 30 aprile del 1961, mia madre Giuliana va a cena in un ristorante vietnamita di Cannes, vede Picasso seduto a un tavolo e gli chiede un autografo. Lei era molto bella. Lui le firma un biglietto, la guarda, ci pensa un po’ e aggiunge due disegni: un seno scoperto, una barchetta a vela. E propone: vieni via tre giorni con me? Lei disse di no, era già sposata. Due mesi dopo vengo concepito io. E sa una cosa? Io nasco e mio padre arriva con due giorni di ritardo: lui non c’è mai stato nella mia vita. Eppure, da quando è mancato due anni fa, mi manca da morire».

Infine rivela che non festeggerà il compleanno: «Non l’ho mai fatto».

·        Massimo Gramellini.  

Da “La Zanzara - Radio24” l'11 marzo 2022.

Serena Benedetta D'anna in arte Benny Green è la sorella acquisita del giornalista Massimo Gramellini.  "Mia madre - dice a La Zanzara su Radio 24 - sposò Raul Gramellini e io a tre anni mi sono trasferita a Torino a casa Gramellini. 

Massimo aveva quasi vent'anni di più". "E' stato un periodo felice della mia vita - continua - e ringrazio la famiglia Gramellini perché ho avuto un'educazione borghese e di sani principi, piena di cultura. anche se poi evidentemente abbiamo preso strade diverse". "Vorrei incontrarlo per spiegargli i motivi della mia scelta", dice ancora Benedetta. 

"Per come lo stimo e per l'intelligenza che lui ha, penso possa capire perchè a un certo punto ho scelto l'hard". Perchè hai deciso di raccontare questa cosa chiedono i conduttori?: "Ho messo la mia vita in piazza con la mia scelta di vita, prima o poi qualcuno lo avrebbe scoperto. Preferisco dirlo io prima che questo venga strumentalizzato. E comunque continuerò a fare porno per sempre anche dietro le telecamere".

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 17 ottobre 2022.

«L'amore non ha un perché, l'amore è il perché». «L'amore salva solo chi si è già salvato da solo». «Perché se incontrarsi resta una magia, è non perdersi la vera favola».

In effetti se tutti ormai sappiamo cos' è il gramellinismo (fa bibliografia la fondamentale pagina Facebook Buongiorno un cazzo), non si è ancora capito però se Massimo Gramellini è il Fabio Fazio della carta stampata o Fabio Fazio il Gramellini della televisione. La formula ammettiamolo, vincente - è la stessa. 

Ostentazione oleosa di buoni sentimenti, asticella del codice morale altissima, tono pontificatorio, stereotipi e ammiccamenti, paternalismo, conformismo un cicinin di pietismo - e tartufismo. Ottimo quello di Alba. Che in piemontese si dice trifola.

Trifolone piemontese, ghiottone, 62 anni, tre mogli, una sorellastra pornostar di recente assurta alle cronache nazionali, vanitoso come solo i giornalisti sanno essere ha diretto un solo foglio, Lo specchio, e narcisisticamente qualcosa vorrà pur dire individualista, ancora indeciso se dirigere il Salone del Libro di Torino o condurre il festival di Sanremo, per lui è uguale; impareggiabile nel trovare ogni volta il modo per stare dalla parte del più forte - doppio, vërgnàch e cortese - Massimo Gramellini, il cui desiderio è essere più buono di Walter Veltroni e Fabio Fazio messi insieme, è il Charlie Brown della porta accanto. Il banale Buongiorno del lettore comune. 

Ma il qualunquismo giornalistico facile come bere un Caffè - è solo la faccia presentabile del populismo politico. Una rubrichetta e 1.400 battute, spazi inclusi.

Inclusivo, comprensivo, progressista, immigrazionista e pretone laico della tolleranza, Massimo Gramellini detto Gramella dai suoi puffi è tutto ciò che un giornalista vorrebbe essere. Lavorare al Corriere della sera, scrivere 22 righe al giorno, andare in televisione, essere ricco, famoso e di sinistra. Se rinasco, rinasco Gramellini, neh. 

Nato torinese, liceo classico all'Istituto San Giuseppe dove lo chiamavano il mucca per la sua indole paciosa, da cui la predisposizione ai corsivi compassionevoli studi universitari in Legge presto interrotti, cosa che forse giustifica lo scivolone di voler rimettere in discussione il diritto al voto su base meritocratica, inizi giornalistici al Corriere dello Sport, poi trent' anni alla Stampa: dai tempi di Paolo Mieli, quando lui, più soft, e Curzio Maltese, più hard, si dividevano l'antiberlusconismo della testata, fino a sfiorarne la direzione.

Senonché l'unica volta che, come «vice», gli fecero guidare il giornale, era un sabato, alle 2 del mattino non c'era ancora una pagina chiusa. Poi collaborazione con la trasmissione Che tempo che fa su RaiTre, il bestseller Fai bei sogni, un'autobiografia alla Paulo Coelho che ha venduto 2 milioni e mezzo di copie (che invidiaaaaaaaaaa!!!), quindi il grande salto al Corriere della sera (dove diciamo così è mal sopportato): nuovo nome ma stessa rubrica (quella cui si concentra per tutto il giorno, scrivendo e riscrivendo allo sfinimento, già dai tempi della Stampa, quando ti sequestrava in corridoio e ti portava nel suo ufficio per declamartela: «Ti piace, eh.. Ti piace?». 

«Sì, bella Massimo, bella... Scusa, però, adesso devo andare, io sto lavorando»), fino al programma tutto suo Le parole: autori, amici e ospiti sempre del giro Stampa-RaiTre. Format: tre boomer ad esempio: Gramellini, Bersani e Vecchioni - parlottano di modi di dire e si ripromettono di ritrovarsi prima di Natale. «Wow! Stasera da Gramellini NON sono invitati Beppe Severgnini e Marianna Aprile. Puntatona». Trend topic: #PiùBarberoMenoGramellini.

E del resto, più o meno, Gramellini un diminutivo di se stesso è questa cosa qui. Sai già come la pensa prima ancora di leggerlo. Tòpoi: i leghisti sono cattivi, chi non è di sinistra è fascista, Berlusconi ci fa vergognare come italiani, gli amarcord granata non si è mai ripreso dallo scudetto del '76, Castellini, Santin, Salvadori, Patrizio Sala, Mozzini, Caporale, Claudio Sala, Pecci, Graziani, Zaccarelli, Pulici «Hai visto Urbano che la so tutta?!» gli immigrati sono più buoni degli italiani, i gay anche, gli Lgbtq due volte di più, la sofferenza rende migliori, che bello quando qui era tutta campagna, dài inginocchiamoci contro i poliziotti cattivi - strano non si sia ancora tagliato in diretta una ciocca di capelli per solidarietà con le ragazze iraniane - e poi tutti sul pullman della Talmone a cantare Bella ciao.

Ciao, Massimo: è che quando parli arrotando la tua voce beruschiana, accompagnando la rotondità dei concetti con una prossemica precisa: roteando i pollici sul petto, con le braccia ad altezza del torace, fino ad assottigliare gli immaginari cerchi concentrici sui capezzoli (ne faceva un'irresistibile imitazione Pigi Battista al tempo in cui lavoravate insieme alla Stampa) beh, ci fai venire in mente Agostino Ghiglia, politico dell'Msi, torinese anche lui, e vi prendevano in giro, doppiatori involontari uno dell'altro: stessi sussurri, stesso accento, stesse vocali larghe...

È che Torino è sempre andata stretta a Gramellini. E fu così che il giovane piemontese giunse nella capitale per fidanzarsi col mito dei miti: Maria Laura Rodotà, figlia di quel Rodotà, già famosa in virtù di una stupenda rubrica di gossip su L'Espresso e autrice di Pizza di farro alla rucola con nutella, 1995, magnifico volume di decifrazione degli anni Ottanta che s' appaia all'indimenticato Sbucciando piselli di Federico Zeri e Roberto D'Agostino. 

Comunque, il Gramellini e la Rodotà si sposano matrimonio commovente in San Lorenzo in Lucina - ma poi, e sembra una sceneggiatura di Woody Allen, dopo non molto si separano e prendono strade alternative. Lei fa coming out sposando in seconde nozze una donna, la collega Tonia Mastrobuoni (figlia di quel Mastrobuoni, Pio, già portavoce di Andreotti), stesso giro della Stampa, poi Repubblica.

Lui prima si risposa con una doppiatrice che lo tiene a bacchetta «Non mangiare due fette di torta!», «Fai così, fai cosà», «Hai rotto il cazzo con la tua rubrica di merda, leggitela da solo» e dopo si ri-risposa con una scrittrice, Simona Sparaco (strano: adesso i suoi libri sono allegati al Corriere...), e ben recensita dal solito giro della Stampa. Che sarà Busiarda, ma quando c'è da aiutare gli amichetti è affidabilissima. 

Inaffidabile (l'uomo è certo geniale, ma il giornalista caotico), fan di Carl Gustav Jung e di Andrea De Carlo, e ci sfugge il nesso, citazioni che si esauriscono fra Cavour, Pulici e Montanelli, bambinone, che in piemontese si dice citòn, credulone di un esoterismo da quattro soldi che fa un mischione di Gurdjieff, Franco Battiato, il Re del mondo e la teoria del paleocontatto («Noi sappiamo che la vita è venuta da un altro pianeta vero?», ama sussurrare a colleghi), Gramellini che alla fine è un simpaticone, dài forse non è neppure buonista («È buono perché non è in grado di fare il cattivo», dicono gli amici) e neanche di sinistra.

Ideologicamente appartiene alla corrente democristiana di Edmondo De Amicis: resta un torinese liberal-socialista ottocentesco dei buoni sentimenti. Il meccanismo che scatta leggendo Gramellini invariabilmente è: «Questo l'ho sempre pensato anch' io, ma non trovavo le parole per dirlo!». Ecco. Purtroppo ogni mattina le trova lui.

E bon. Arvëddse, Massimo. 

·        Maurizio Costanzo.

Diffamazione, se la vittima è una toga la vittoria è in tasca. Secondo lo studio di Sammarco e Zeno-Zencovich, i magistrati vincono sette volte su 10. E i risarcimenti valgono il doppio. Un esempio? I quarantamila euro che Maurizio Costanzo dovrà corrispondere al giudice del tribunale di Rimini. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 06 dicembre 2022.

Il maxi risarcimento di quarantamila euro che Maurizio Costanzo dovrà corrispondere al giudice del tribunale di Rimini Vinicio Canterini per avergli detto “complimenti” ha acceso ancora una volta i riflettori sul tema della diffamazione tramite i media.

Nel caso in questione, lo storico giornalista Mediaset, durante una puntata del “Maurizio Costanzo Show” andata in onda il 20 aprile del 2017, aveva ospitato Gessica Notaro, la ragazza di Rimini che era stata sfregiata l’anno prima con l’acido dal suo ex fidanzato Edson Tavares. La ragazza, rispondendo alle domande di Costanzo, aveva ripercorso le tappe della tragedia, affermando di aver denunciato a settembre del 2016 il suo ex che la stava perseguitando da tempo e che il magistrato aveva disposto nei suoi confronti il solo divieto di avvicinamento per tre mesi e mezzo.

Scaduto il divieto Tavares si era appostato sotto casa sua sfregiandola con l’acido e rendendola per sempre cieca ad occhio. Costanzo, senza mai fare il nome di Canterini, gli aveva fatto i “complimenti”, chiedendo all’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando di aprire una inchiesta nei suoi confronti «perché non ha fatto quello che gli ha aveva detto il pm di mettere agli arresti domiciliari» Tavares, poi condannato a 15 anni e 5 mesi. Canterini, sentitosi diffamato dalle parole pronunciate da Costanzo, lo aveva denunciato ottenendo la scorsa settimana di essere risarcito.

Lo studio: diffamazione, le toghe vincono 7 volte su 10

Il settore dei risarcimenti ha confini quanto mail labili ed è sostanzialmente impossibile fare previsioni sul “quantum”. Sul Diritto dell’informazione e dell’informatica, periodico edito da Giuffrè, è stata pubblicata nelle scorse settimane una ricerca sul punto ad opera dei professori di diritto privato comparato Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich. I due docenti hanno analizzato le sentenze per diffamazione, circa 700 depositate negli anni 2015/2020 presso il Tribunale di Roma. Le sentenze sono state acquisite presso il locale ced previamente anonimizzate nella identità delle persone fisiche attrici e convenute. In taluni casi la notorietà delle parti ha reso tale misura superflua. Sono invece rimaste identificate le persone giuridiche.

Il dato che balza subito all’occhio riguarda l’accoglimento: solo in tre casi su dieci. Delle oltre 400 sentenze di rigetto praticamente tutte decidono nel merito negando l’illecito. Vi sono poche decisioni su questioni preliminari, tipicamente per la competenza territoriale, ovvero di inammissibilità del giudizio oppure sulla sua estinzione. Nel caso si tratti di magistrati la domanda viene accolta però in sette casi su dieci. Esattamente il contrario, tre accoglimenti su dieci, quando il denunciante appartiene a qualsiasi altra categoria professionale (giornalista, politico, professore, imprenditore, eccetera).

Per quanto concerne gli importi, la media è 20mila euro, esattamente il doppio per le toghe. Un magistrato, ex pm di Mani pulite, nel quinquennio in questione ha imbastito ben 23 cause con un risarcimento complessivo pari a 578mila euro. Il convenuto, come detto, è solitamente un mezzo di comunicazione di massa, che poi corrisponde l’importo liquidato in quanto debitore di ultima istanza, anche rispetto ai propri giornalisti. Va peraltro segnalata la presenza di non poche decisioni in cui la contesa è fra persone fisiche, generate da offese diffuse attraverso i social media. Tenendo conto della sede di taluni editori a Roma e delle regole sulla competenza territoriale, i dati forniti da Sammarco e Zeno-Zencovich sono meramente indicativi, in quanto non possono tenere conto degli importi liquidati da altri Tribunali, sede della persona giuridica convenuta, ovvero dove uno dei convenuti è residente, ovvero ancora luogo di residenza dell’attore.

E veniamo, infine, ai “parametri” che i giudici dovrebbero tenere in considerazione ai fini del risarcimento. Il primo riguarda la natura del fatto falsamente attribuito alle parti lese. Il secondo l’intensità dell’elemento psicologico dell’autore. Il terzo il mezzo di comunicazione utilizzato per commettere la diffamazione e la diffusività dello stesso sul territorio nazionale. Il quarto il rilievo attribuito dai responsabili al pezzo contenente le notizie diffamatorie all’interno della pubblicazione in cui lo stesso è riportato. Il quinto, infine, l’eco suscitata dalle notizie diffamatorie. Il differente esito processuale, comunque, non può non indurre ad una riflessione sul fatto che esista una “giustizia domestica” fra le toghe per questo genere di cause.

Marcio Vigarani per corriere.it il 3 dicembre 2022.

Gli era costata già una diffida, adesso è arrivata una condanna per Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e presentatore televisivo, accusato di diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nativo di Loreto (Ancona). 

La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa. La sentenza è arrivata mercoledì 30 novembre. Trattandosi di un giudice parte offesa, costituito parte civile con l’avvocato Nazzareno Ciucciomei, il processo è stato tenuto in un tribunale diverso da quello dove esercita; per Rimini ha competenza Ancona.

In una puntata del Maurizio Costanzo show, trasmessa il 20 aprile del 2017, Costanzo si era lasciato andare a commenti ritenuti offensivi dell’operato del giudice per una misura cautelare emessa nei confronti diEdson Tavares, ex fidanzato di Gessica Notaro, riminese sfregiata con l’acido il 10 gennaio del 2017. La misura cautelare riguardava episodi di stalking precedenti al fatto dell’acido, il gip aveva disposto il divieto di avvicinamento alla donna mentre la procura aveva chiesto gli arresti domiciliari. «Mi voglio complimentare col gip.

Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo», aveva affermato il giornalista. La difesa di Costanzo ha sostenuto che non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello. 

Il riferimento al gip

Quel giorno, in trasmissione, c’era anche Gessica Notaro che per la prima volta, dopo tre mesi dai fatti, parlava in pubblico. Costanzo aveva detto «complimenti a questo gip, vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Diamo il nome. Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo». Il nome di Cantarini non era stato fatto ma il riferimento era stato chiaro. Costanzo si era rivolto anche al ministro della Giustizia di allora, Orlando, incalzando «faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?».

Secondo la difesa di Costanzo non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello. Per l’accusa avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda.

Da corriere.it il 4 dicembre 2022.

«Non commento le sentenze, parlano da sole. Io so solo di avere difeso una giovane donna che è stata sfregiata e che in conseguenza di ciò ha perso un occhio». Così Maurizio Costanzo, 84 anni, al «Corriere della Sera» in merito alla condanna inflittagli dal tribunale di Ancona a un anno di reclusione con la sospensione della pena, subordinata al pagamento di 40 mila euro come risarcimento danni per diffamazione nei confronti del gip che si era occupato di Gessica Notaro, sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato Edson Tavares.

Durante la puntata del suo «Maurizio Costanzo Show» andata in onda il 20 aprile 2017, il conduttore aveva ospitato Gessica Notaro, che rispondendo alle domande di Costanzo aveva ripercorso le tappe della sua drammatica vicenda, ricordando come il gip avesse chiesto per Tavares, che Notaro aveva già denunciato per stalking, il solo divieto di avvicinamento e non, come richiesto dal pm, gli arresti domiciliari. «L’ho denunciato sperando che la facesse finita — aveva raccontato Gessica —. Vorrei sapere perché il pm ha deciso che andava arrestato e invece il gip gli ha dato solo gli obblighi domiciliari».

Costanzo aveva preso le difese della giovane, «complimentandosi» ironicamente con il giudice: «Complimenti a questo gip — aveva commentato il conduttore —, vogliamo fare il nome del gip che ha fatto questo? Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm (il Consiglio Superiore della Magistratura, ndr): fate i complimenti da parte mia al gip che ha deciso questo». Il nome del togato — Vinicio Cantarini, in servizio al tribunale di Rimini — non era in realtà mai stato fatto da Costanzo, ma il riferimento era inequivocabile. Tanto che il giudice aveva prima diffidato Costanzo (che lo aveva invitato in trasmissione offrendogli il diritto di replica) e poi lo aveva querelato.

Una denuncia accolta, che ha portato alla condanna di Costanzo, benché i legali del conduttore avessero sottolineato che non c’era stata alcuna volontà diffamatoria nelle parole del loro assistito e che comunque, hanno fatto sapere, ricorreranno in appello. Nelle poche parole riferite da Costanzo al« Corriere», c’è anche l’invito a prendere nota di una ricerca pubblicata dal quotidiano «Libero» oggi in edicola. Secondo quanto riportato dal giornale, gli autori dell’indagine, i professori Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich, hanno preso in esame tutte le sentenze, circa 700, emesse dal Tribunale di Roma negli anni 2015-2020 in materia di diffamazione.

Le sentenze di accoglimento erano state solo il 36%, con un importo complessivo a titolo di risarcimento di circa 20 mila euro. Quando la denuncia era stata presentata da un magistrato, le sentenze di accoglimento salivano però a quasi l’80%, con un quantum risarcitorio attestato su circa 40 mila euro, superiore alla media degli importi riconosciuti a qualsiasi altra categoria (politici, professionisti, imprenditori, medici, docenti universitari, giornalisti).

Magistratura solidale…vietato dire “complimenti al gip”? Maurizio Costanzo condannato a 1 anno di carcere. Una vergogna! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Dicembre 2022.

La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto al giornalista un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa

Clamoroso, ma vero. E’ vietato dire “complimenti al gip”. A finire nel tritacarne giustizialista è Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e simbolo della televisione italiana, condannato per diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nato a Loreto, in provincia di Ancona. A condannare Costanzo la giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona: un anno di reclusione, con sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa.

Andiamo indietro nel tempo fino al 20 aprile del 2017 per capire cosa è accaduto. Maurizio Costanzo ospitava nel suo noto programma “Maurizio Costanzo show”  per la prima volta Gessica Notaro, che appariva in pubblico dopo essere stata sfregiata con l’acido dal suo ex fidanzato. Costanzo criticò (secondo noi e praticamente tutt’ Italia, quella sana…) il gip Cantarini per una misura cautelare emessa nei confronti dello sfregiatore, Edson Tavares, misura che riguardava precedenti episodi di stalking. La procura di Rimini aveva chiesto gli arresti domiciliari, mentre il gip dispose soltanto una misura cautelare, cioè un provvedimento meno restrittivo. E subito dopo, Tavares lasciato libero di imperversare sfregiò la Notaro buttandole l’acido in faccia sfigurandola.

Nel corso della trasmissione incriminata, Costanzo aveva detto: “Mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo”. e senza mai fare il nome di Cantarini. Maurizio Costanzo si era rivolto direttamente all’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando: “Faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?“.

Il gip Vinicio Cantarini ha pensato di querelare Costanzo per diffamazione. Ed una sua collega, incredibile vero un “magistrato donna“, gliel’ha data vinta. Secondo la difesa del conduttore televisivo non vi era alcuna volontà diffamatoria in quelle parole, per l’accusa al contrario avrebbe offeso la reputazione della toga lasciando intendere che Gessica fosse stata sfregiata in seguito alle decisioni del gip. Costanzo ora potrà ricorrere in appello.  Per l’accusa Costanzo avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda. In realtà i fatti sembrano provare proprio questo.

Per fortuna esiste anche quella che noi definiamo la “buona Giustizia” con la “G” maiuscola. Edson Tavares 30enne originario di Capo Verde, aggressore di Gessica Notaro che era stato lasciato a piede libero dal Gip di Rimini, è stato condannato in secondo grado nel novembre del 2018 a 15 anni, 5 mesi e venti giorni. Pena lievemente calata, rispetto ai 18 anni del primo grado (10 anni nel processo per l’aggressione e 8 in quello per stalking), ma che sostanzialmente conferma la gravità dei fatti che qualcuno aveva valutato in maniera più superficiale .

L’ avvocata di parte civile Elena Fabbri, aveva commentato duramente: “Per Gessica è un fine pena mai, ogni giorno che si guarderà allo specchio non vedrà più se stessa, ha subìto un omicidio di identità”. Resta da chiedersi cosa avrebbero detto e fatto il Gip Cantarini ed il giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona se qualcuno avesse fatto la stessa cosa, cioè sfregiare con l’acido la faccia di una loro moglie, o di una loro figlia. Ce lo chiedono i lettori e noi ci associamo a loro. Chissà cosa ne pensano il ministro di Giustizia, ed il Csm. Chiedere un’opinione è forse diventato un reato ? Redazione CdG 1947

Vietato ironizzare sul gip in televisione. Condanna con risarcimento per Costanzo. Il conduttore si era "complimentato" con la toga che non aveva disposto gli arresti per l'uomo che sfregiò con l'acido Gessica Notaro. Massimo Malpica il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Guai a criticare i magistrati. Chiedere per conferma a Maurizio Costanzo, condannato a un anno di reclusione per sarcasmo. O, per essere precisi, condannato per diffamazione di un Gip, aggravata dal mezzo radiotelevisivo. Il giudice in questione è Vinicio Cantarini, in servizio al tribunale di Rimini. Il caso risale a cinque anni e mezzo fa, aprile 2017. Ospite del salotto tv di Costanzo era Gessica Notaro: la ragazza tre mesi prima, il 10 gennaio, era stata sfregiata con l'acido dal suo ex fidanzato, Edson Tavares, che già prima di quell'ultimo gesto aveva mostrato la sua indole violenta. Proprio Gessica, raccontando la sua terribile esperienza al presentatore, aveva ricordato come fosse stato proprio quel gip, in seguito a una precedente denuncia per stalking contro Tavares, a chiedere per l'uomo il solo divieto di avvicinamento e l'obbligo di dimora notturna e non, come richiesto dal pm, gli arresti domiciliari.

«L'ho denunciato sperando che la facesse finita. Vorrei sapere perché il pm ha deciso che andava arrestato e invece il gip gli ha dato solo gli obblighi domiciliari. Il giudice ha sentito solo la versione di Tavares, non la mia», s'era sfogata la ragazza. Costanzo aveva preso le sue parti attaccando il gip. «Complimenti a questo gip aveva detto vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm: fate i complimenti da parte mia al gip che ha deciso questo». E aggiungendo, in collegamento telefonico con l'allora Guardasigilli Andrea Orlando, il suggerimento di indagare sul giudice.

Il nome di Cantarini, in realtà, non era stato fatto, anche se il riferimento era inequivocabile. E nemmeno l'arresto almeno dal punto di vista cronologico, e senza considerare l'effetto dissuasorio di una misura più severa - avrebbe cambiato le cose, considerato che Tavares sarebbe tornato libero il 30 dicembre 2016, undici giorni prima del suo attacco con l'acido alla ragazza. Proprio il gip aveva rimarcato questo punto, sottolineato anche nell'alzata di scudi a sua difesa dell'avvocatura riminese e dell'Anm, che oltre a rimarcare la correttezza formale del provvedimento adottato dal gip (Tavares non aveva violato quel divieto di avvicinamento), avevano condannato la «gogna mediatica» contro il collega, risparmiando solo Gessica dalle critiche. Ma all'interessato non era bastata la difesa di casta. Cantarini aveva diffidato Costanzo, e quest'ultimo lo aveva invitato in trasmissione, a maggio 2017, suggerendo di chiudere la questione offrendogli il diritto di replica: «Sono disponibile ad ospitarla per ascoltare la sua versione», aveva spiegato il conduttore. Ma Cantarini aveva in mente una diversa soluzione. Il giudice riminese ha preferito querelare Costanzo per quei «complimenti» sarcastici, e il 30 novembre scorso un altro giudice, Maria Elena Cola del tribunale di Ancona, ha dato ragione al collega. Stabilendo che è stato vittima di diffamazione aggravata, condannando Costanzo - che ha 85 anni - a un anno di reclusione, e infine subordinando la sospensione della pena al pagamento di un risarcimento danni a Cantarini di 40mila euro.

Costanzo, memoria, amore e cattiveria: «Rischiai una denuncia per adulterio, la prova del letto caldo mi ha salvato...» Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 23 Ottobre 2022.

Maurizio Costanzo scrive un libro sugli oggetti una volta comuni e ora dimenticati: dai soldatini giocattolo agli elenchi telefonici, fino all’abitudine del pranzo in famiglia la domenica. «Sono stato un corteggiatore tenace. Oggi vivere per me è Maria»

Maurizio Costanzo scrive un libro di ricordi e di bilanci, riannoda i fili del tempo vissuto, ritrova oggetti e abitudini perdute. Perché mettersi a ricostruire il passato in questo libro Smemorabilia/Catalogo sentimentale degli oggetti perduti (Mondadori) scritto con Valerio de Filippis? «All’inizio del libro cito Sergio Caputo che in Rifarsi una vita canta così: “Fuori si fa sera/che luna pensierosa/ vorrei dimenticare/ ma non ricordo cosa...”. Direi che non mi piace ricordare, ma ancora meno amo dimenticare. Infatti, eccomi qui col libro».

C’è un catalogo di oggetti e abitudini perduti. 

«Sì. Sono abitudini superate da una società che cambia e oggetti messi da parte da una tecnologia sempre più avanzata. Lo chiamerei “Il paradiso della smemoria” che riemerge con l’avanzare dell’età. Sono stato sempre diffidente comunque verso la memoria, ho spesso detto che è una cosa sciocca raccontarsi. Che è meglio vivere che raccontarsi. Ecco invece un libro di memoria: come rinnegare sessant’anni di una professione fondata sul racconto altrui»

«PER GESTIRE IL POTERE OCCORRE UNA DOSE DI CATTIVERIA. QUELLA CE L’HO E CREDO SI VEDA NELLE INTERVISTE. MA LA CATTIVERIA È ANCHE RISPETTO VERSO L’INTERVISTATO» 

C’è una dedica struggente all’inizio: «Al Parioli col Maurizio Costanzo Show , dopo 40 anni: 1982-2022 e che non vada perduta nemmeno una goccia. Dedico questo libro ad Alberto Silvestri, Paolo Pietrangeli, Luisella Testa, Franco Bracardi».

«Per un libro del mio amico Michele Santoro ho rivisto la staffetta tv “Samarcanda- Maurizio Costanzo Show” del 1991 con Giovanni Falcone. Mi si è stretto il cuore vedere al pianoforte Franco Bracardi, pensare che nel pulmino della regìa c’era Paolo Pietrangeli, ricordare che dietro le quinte mi rassicurava il coautore Alberto, rievocare la passione di Luisella Testa. Non c’è più nessuno, a loro dedico il libro per gli anni di bellissimo lavoro insieme. Meglio vivere che raccontarsi, bisognerebbe dire a questo punto... ma l’uomo è un animale al quale l’esperienza non serve a niente. Continuo a contraddirmi, a raccontare prima di vivere».

Giochiamo con la memoria, allora. Decenni di tv significano potere. Maurizio Costanzo è stato cambiato dal potere?

«Non posso garantirlo ma spero di essere rimasto intatto dentro. Non ho mai valicato il limite del Marchese del Grillo: io so’ io e voi... eccetera. Certo, per gestire il potere occorre una dose di cattiveria. Quella ce l’ho e credo si veda nelle interviste. Ma la cattiveria è anche rispetto verso l’intervistato».

In che senso?

«La cattiveria è curiosità, voglia di tirar fuori la verità da chi non vorrebbe dirla. Comunque, all’inizio il potere è euforizzante. Ora il mio rapporto si è molto ridimensionato: il vero potere è diventato la salute. Pensiamo alla pandemia, alle quarantene, ai lockdown».

«HO MANEGGIATO SOMME INGENTI, CON I PRIMI GUADAGNI HO COMPRATO UNA PORSCHE: NON ARRIVAVO AI PEDALI. DAL 1976 NON GUIDO PIÙ... HO ANCHE BRUCIATO MOLTI SOLDI PROPRIO PER IL TEATRO PARIOLI E LA SUA GESTIONE»

Rapporto col denaro, con la ricchezza?

«Non ho mai voluto arricchirmi per il gusto di arricchirmi. Ho maneggiato somme anche ingenti. Ma alla fine il mio rapporto col denaro è minimo. Mi serve per vivere bene. Ma ne ho rispetto. Non lo spreco, non subisco il fascino dell’accumulo, non ho mai investito in speculazioni».

Nemmeno in borsa?

«Diciamo che per me la parola indica un orpello femminile atto al trasporto di oggetti che, una volta finiti lì dentro, non si trovano più. Ho anche bruciato molti soldi proprio per il teatro Parioli e la sua gestione. Una volta dovetti vendere casa per ripianare i debiti. Ma riperderei volentieri quel denaro. L’amore infinito per il teatro, lo so, è un vizio costoso».

Altri vizi, per esempio automobili?

«Con i primi guadagni mi comprai una Porsche. Non arrivavo nemmeno ai pedali. La usai pochissimo. Poi una MG e un’altra Porsche. Chissà perché, poi... non sono mai stato un vero appassionato di auto potenti. Ora, per fortuna mia e degli automobilisti romani, non guido più dal 1976».

La memoria ha qualche pregio?

«Sa cancellare alcune cose. La vita è piena di appuntamenti mancati. Quelli più amari li ho dimenticati». 

Cosa dimentica più facilmente nella vita quotidiana?

«Le chiavi di casa. Ho risolto non portandole più. Suono e mi aprono, a casa c’è sempre qualcuno».

Nel libro lei ricorda puntate e interviste storiche, indimenticabili.

«Ho intervistato Gheddafi a Tripoli, Donald Trump a New York nel 2002, Sean Connery a Londra... Mi fermo qui, mi pare già abbastanza, no?».

Le memorie d’amore?

«L’ho detto, l’uomo non apprende nulla dall’esperienza. E a distanza di anni tante storie appaiono incomprensibili: si capisce perché ci si lascia, meno perché ci si era messi insieme. Me ne rendo conto quando, sempre più raramente, ripenso ai miei trascorsi sentimentali».

Nomi, errori?

«Ma su, figuriamoci...».

E Maria De Filippi?

«Soprattutto in questo caso, molto ma molto meglio vivere. E vivere per me è Maria».

Veniamo alle Smemorabilia. Partiamo dall’infanzia, dai soldatini di piombo.

«Una meraviglia. Ci giocavo tanto, era il tipico passatempo adatto a un figlio unico come me. Battaglie infinite senza nemmeno una goccia di sangue. Interi battaglioni schierati, contro quelli del vicino di casa, stesi sui pavimenti gelidi. Cresciuto, sono passato al Monopoli. Più adatto al mio carattere».

«SONO ROMANO-ROMANO. HO QUELLA ROMANITÀ CHE DIVENTA CARATTERE, INDOLENZA DI CHI HA GIÀ VISTO TUTTO, NOI ROMANI CE L’ABBIAMO» 

Un tempo si scrivevano e si spedivano tante cartoline. Sparite, purtroppo, dalla circolazione.

«Erano un modo per far partecipare alla propria vacanza il destinatario. “Saluti da...”. Credo ci siano persone che, collezionandole, abbiano fatto il giro del mondo restando a casa. Oggi sono gli infiniti scatti dai cellulari con un saluto allegato. Un click e via».

Appare anche la Befana. Festa molto romana.

«Beh, io sono romano-romano. Ho quella romanità che diventa carattere, indolenza di chi ha già visto tutto, noi romani ce l’abbiamo. Ho amato la Befana, le scrivevo lettere piene di desideri, le lasciavo pezzetti di pane e latte caldo sperando che esaudisse le mie richieste. Mi elettrizzava l’idea che si calasse nei caminetti».

E gli elenchi telefonici?

«Un reperto pre-digitale. Non era previsto il diritto alla privacy, se avevi un telefono eri schedato e mappato con la via. Georges Simenon li usava aprendoli a caso per dare nomi ai suoi personaggi di fantasia».

Appare anche il monopattino in legno.

«Aveva le rotelle a sfera, ricordo un campo per noi ragazzini a Roma in via Como, vicino piazza Bologna. Usavamo anche le mazzafionde, altro oggetto smarrito. Senza fare mai grossi danni».

«I MICROFONI DI UN TEMPO COSTRINGEVANO A MAGGIORE CONCENTRAZIONE. OGGI SONO INVISIBILI, DICI QUELLO CHE CAPITA, RISCHIANDO IL DISASTRO» 

I microfoni d’acciaio della Radio di un tempo...

«Un feticcio a cui sono molto legato. Imponenti, impegnativi ma bellissimi. Costringevano a una maggiore concentrazione. Oggi sono invisibili e vai a ruota libera. Senza quel feticcio che ti frenava, dici un po’ tutto quello che ti capita e si rischia così il disastro».

Addio anche al pranzo della domenica.

«Chi ne nega il fascino, nega un pezzo di vita: occasioni belle, piene di calore, parenti che arrivavano in visita, il senso pieno della famiglia che forse si è perso».

Nell’elenco appaiono le preghiere in classe...

«Ai miei tempi il culto cattolico permeava la quotidianità a scuola: ora di religione, veniva il prete, preghiera in classe. La società è radicalmente cambiata. Non c’è più nulla di tutto questo, giustamente».

«L’ADULTERIO È SPARITO COME REATO PENALE... OGGI L’ADULTERIO DI UN TEMPO È L’OCCASIONE PER UN SORRISO DI SMEMORIA»

Poi c’è dell’altro. Anche l’adulterio. È davvero sparito?

«Sparito come reato penale, come fenomeno violentemente osteggiato. Decenni fa ebbi una storia con una donna sposata. Il marito sporse denuncia, arrivarono i carabinieri. Per fortuna eravamo vestiti. Fecero la famosa prova della mano sotto le lenzuola per vedere se il letto fosse caldo. La prova fallì, niente denuncia. Rimasi a piede libero. Che follia... Oggi l’adulterio di un tempo è l’occasione per un sorriso di smemoria».

C’è un capitolo sul corteggiamento. Finito anche quello?

«Tutto passa per il web. Ho l’impressione che oggi con i social la parola “detta” così funzioni meno. Il corteggiamento come lo intendo io si fa con la pazienza, le attenzioni, l’ascolto, nel far capire alla persona corteggiata che ti stai dedicando a lei in maniera esclusiva. Sono stato un corteggiatore tenace, insistere con garbo ma con determinazione può portare alla conquista. Senza mai, sia assolutamente ben chiaro, sfociare nella petulanza, nella barbarie della molestia».

Nella parte iniziale lei elenca tanti protagonisti a suo avviso non ricordati come meriterebbero: Ettore Scola, Age e Scarpelli, Pasolini, Bertolucci, Alighiero Noschese... Come vorrebbe essere ricordato?

«Mi ricorderanno i figli, alcune persone più vicine. Spero semplicemente di essere ricordato come una brava persona che ha fatto un programma durato quarant’anni».

Moltissimi, un record

«Sì, un long seller della tv italiana. Spero che nel 2050 si potranno regalare i cofanetti del Maurizio Costanzo Show come documento, e in mia smemoria. Sempre meglio...».

Sempre meglio?

«Di una targa su una via».

Maurizio Costanzo Show, 40 anni quell'insolita fragranza d'eternità. Vedevamo il talk da bambini, ha accompagnato la pubertà e la maturità. Ora. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 03 ottobre 2022

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Quando si dice quella sottile fragranza d'eternità.

«Dagli studi De Paolis in Roma, il Maurizio Costanzo Show...» , tuonava, quel 14 settembre del '82 la voce fuoricampo, ad introdurti in una dimensione parallela nascosta nelle faglie dei palinsesti.

Con o senza «Teatro Parioli» nell'incipit, il ritorno del Maurizio Costanzo Show (Canale 5 venerdì seconda serata)- che di per sè rimane patrimonio dell'umanità- m' insuffla sentimenti potenti e contrastanti.

CHIAVE DI VOLTA Il salotto di Costanzo è stata la chiave di volta dei mille universi della cronaca, dello spettacolo e della politica. Ed è parte della mia giovinezza; l'ho goduto da fan bambino, da spettatore, perfino da ospite. Me ne sono abbeverato nella sua funzione di fucina di miti pop.

Oggi, col nuovo ciclo  il Costanzo Show compie 40 anni e rimane il programma più longevo della televisione italiana. Il problema è che ho scritto questo stesso pezzo dieci anni fa, e vent' anni fa. Io e il resto d'Italia siamo invecchiati (perfino il boss, Piersilvio Berlusconi, il quale ringrazia Costanzo con una lettera densa di rispetto e deferenza); e i miei stessi figli cominciano a guardarlo ipnotizzati dalla ruota del tempo. E, mentre accade tutto ciò, Maurizio, sempre risorto dalle sue innumerevoli ceneri, ha reso il suo programma il ritratto di Dorian Gray della nazione.

C'è stato un momento - quando pochi anni fa, il direttore di Rete 4 Sebastiano Lombardi, preso dalla nostalgia decise di rimandarlo in onda. Un momento in cui io pensai a un effetto - minestra riscaldata.

Maurizio, astutamente aveva riaperto il sipario proponendo le vedove di Funari, Corrado e Manfredi; o Rocco Siffredi e signora; o la Ferilli e il babbo; o Marina La Rosa in veste dominatrix; o la stessa Maria De Filippi, convocata nella sua onnipotenza a presidiare una fetta di pubblico e a rimettere il bollino di qualità su un esperimento di pura nostalgia. Sì certo, c'erano le interviste dell'anchorman, meno aguzze ma più sagge (il "metodo cerniera dell'anima", che descriveva nelle sue lezioni universitarie di semiotica alla Luiss) come quella ai coniugi Siffredi («Ho deciso di smettere, non potevo far sesso con ragazzine dell'età dei miei figli»).

Certo, c'era l'effetto-sicurezza della passerella, del sax suonato morbidamente nella sigla; ma, insomma, io, proveniente dal caleidoscopio della nuova tv, di Mtv, pensavo ad un afflato del passato, alla tigna di Maurizio nell'aggrapparsi alla telecamera fuori tempo massimo. Invece mi sbagliavo: Mtv è morta, e il Costanzo Show è rimasto.

Oggi, i comunicati ufficiali hanno presentano la puntata del 40° in pompa magna, mentre si apre sulle note di Se penso a te del compianto Bracardi: «Sono ospiti l'attore e showman Christian De Sica, l'imprenditore e membro della casa Savoia Emanuele Filiberto, il vice direttore, scrittore ed editorialista del Corriere della Sera Aldo Cazzullo, l'usignolo Di Cavriago ora opinionista del Gfvip7 Orietta Berti, il giornalista e divulgatore Scientifico Alessandro Cecchi Paone con il suo compagno Simone Antolini,...Eccetera. 

UNA LIVELLA E si torna al Teatro Parioli dietro le quinte del quale Costanzo istruiva preventivamente i suoi ospiti mettendoli tutti - dalla superstar americana, al ministro spocchioso, all'operaio diseredato - sullo stesso piano. Quel retropalco era la democrazia del consenso, era come la livella di Totò: tutti uguali davanti alla telecamera e nel salottino rosso. Sarebbe banale qui, peraltro, elencare l'impegno civile (Maurizio bersaglio di una bomba della mafia); o gli esperimenti tecnologici (fu il primo programma Mediaset trasmesso sul digitale terrestre; o i talenti che lo scouting del Costanzo Show ha scoperto e lanciato da Vittorio Sgarbi e Platinette, da Valerio Mastandrea al povero Nik Novecento, da Giobbe Covatta alla Parietti al redivivo Gigi Sabani, a politici come Gianfranco Fini che qui venne sdoganato in un' indimenticabile Uno contro tutti.

Maurizio - Che Costanza- Show, ci hai visto nascere, ci seppellirai tutti

Maurizio Costanzo compie 84 anni: storia dei suoi amori. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 27 agosto 2022.

Il giornalista e la futura regina della televisione italiana si sono sposati a Roma il 28 agosto 1995. Ma è l’ultima, lunghissima, tappa di una vita molto articolata in quanto a «sentimenti»

Un anniversario importante

Il 28 agosto è una data particolarmente significativa per Maurizio Costanzo e Maria De Filippi: nello stesso giorno la coppia festeggia il compleanno del giornalista e l’anniversario di matrimonio. Si sono sposati nel 1995, nella sala Azzurra del Campidoglio, davanti all’allora sindaco Francesco Rutelli: «Questa volta mi fermo qui», disse Maurizio. Visto che quest’anno saranno nozze d’argento mai parole furono più profetiche: «Nella mia vita ho immaginato di tutto, persino di dimagrire: ma arrivare a 25 anni di matrimonio, no — ha detto Costanzo in un'intervista a La verità — Io mi sono sposato quattro volte. Ci ho messo del tempo e tanta pazienza, ma alla quarta volta quella giusta la azzecchi».

I matrimoni precedenti

«Sono molto felice di averla incontrata. In vita mia mi sono sposato quattro volte, se sto con lei da 25 anni ci sarà un motivo», raccontava qualche settimana fa Costanzo intervistato da Pierluigi Diaco. Prima di dire sì a quella che sarebbe diventata la regina della televisione italiana era convolato a nozze altre tre volte. La prima nel 1963 con la fotoreporter Lori Sammartino (più grande di lui di quattordici anni). La sua seconda moglie — nel 1973 — fu la giornalista Flaminia Morandi, dalla quale ha avuto i figli Camilla e Saverio. Il terzo matrimonio, con Marta Flavi, è stato quello più burrascoso: celebrato nel 1989 un anno dopo era già finito.

L’incontro ad un convegno sulla pirateria

Nel 1989, dopo aver partecipato ad un convegno organizzato durante la Mostra del Cinema contro la pirateria, Maurizio e Maria si ritrovarono insieme a pranzo. Lei lo colpì subito per la sua intelligenza: «Le diedi la possibilità di lavorare con me a Roma. Iniziò a fare questo lavoro. Poi (dopo la separazione da Marta Flavi, ndr.) cominciò la nostra storia», ha raccontato al Corriere. Per dimostrare di avere intenzioni serie il giornalista andò fino a Pavia per conoscere i genitori della sua novella fidanzata: «Maurizio rappresentava un punto fermo, centrale — ha confessato la conduttrice intervistata da FQMagazine — Io ero meno solida, vivevo una relazione con un ragazzo in qualche modo trascinata da sei anni. Sono arrivata a Roma ho visto un uomo intelligente che mi capiva ed era profondamente buono, mi ha conquistato. Non è stato facile spiegarlo ai miei genitori ma la mia non era una forma di ribellione».

Il giorno più brutto

Il 14 maggio 1993 in via Ruggero Fauro a Roma, a poca distanza dal Teatro Parioli, esplose un'autobomba riempita con 70 chili di tritolo: l'obiettivo era Maurizio Costanzo, da sempre impegnato contro la mafia, che stava viaggiando in auto — di ritorno dalla registrazione del Maurizio Costanzo Show — insieme a Maria, al cane e all’autista. Si salvarono tutti miracolosamente perché quest’ultimo (che ha ricostruito quei momenti drammatici in un’intervista al Corriere) non schiacciò il pedale del freno: gli attentatori, ha raccontato, attendevano l’accensione degli stop per premere il pulsante di attivazione della bomba. L'evento viene ricordato dal Costanzo come il giorno «più brutto della sua vita», ma al tempo stesso «il più bello» perché lui e Maria erano ancora vivi. «Fu proprio il fatto di aver visto la morte in faccia con lei che mi spinse a chiedere Maria in moglie - ha rivelato il conduttore a DiPiù - perché capii una cosa fondamentale: è lei la persona che voglio che mi tenga la mano quando morirò».

Lontano dai dolci

Il segreto per un matrimonio longevo? L’amicizia, il sostegno reciproco ma anche il rispetto del lavoro («Non gli ho mai rotto le scatole. Quando l’ho conosciuto, lavorava tantissimo e io non ho mai fatto la parte della mogliettina che si sente trascurata. Ho iniziato a lavorare anch’io, non avevo alternative», diceva lei nel 2015 ad Oggi). Senza dimenticare le piccole cose («Mi piace aspettarla la sera per mangiare», ha confidato lui al Corriere). E la pazienza, da entrambe le parti, specialmente quando tua moglie ti tiene lontano dai dolci: «Maria mi bullizza» ha raccontato scherzando Costanzo in diretta a Che Tempo Che Fa nel 2018. Per lei farebbe qualunque cosa, persino «scalare l'Everest».

Il figlio Gabriele

Ad unire Maria e Maurizio c'è poi l'amore per Gabriele, preso in affidamento nel 2002 quando aveva soltanto dieci anni e adottato due anni dopo: «La cosa fantastica di quando fai questa scelta - ha confidato la conduttrice a Raffaella Carrà nel suo A raccontare comincia tu - è che hai un periodo di conoscenza. Anche lui ti sceglie: è un testone, aveva già non scelto due volte. Ci eravamo visti due volte, poi è venuto a Natale a casa ed è rimasto 10 giorni. In quei giorni sei sotto esame e fai fatica perché non era più lui ma l'assistente sociale a esaminarti». Gabriele oggi ha 28 anni, lavora dietro le quinte di molti programmi targati Fascino ed è andato a convivere da poco con la sua fidanzata. Lo ha svelato mamma Maria al settimanale Gente, a cui ha confidato anche un sogno segreto: «Un nipotino? Magari. Assolutamente sì. Ammazza se mi piacerebbe, ne sarei pazza di gioia».

Da corriere.it il 26 aprile 2022.

«La mafia mi ha messo 40 chili di tritolo qua fuori, erano risentiti. Ma devo a Michele (Santoro, ndr) l’emozione di aver fatto qualcosa dentro al Paese». Inizia così il ricordo di Maurizio Costanzo dell’attentato di via Fauro del 1993, proprio davanti al Teatro Parioli dove, oggi come allora, va in scena il suo celebre show. Nella prima puntata della nuova edizione, che celebra il quarantesimo anniversario del programma, Costanzo duetta sul palco proprio con Santoro.

«Io ti ho sempre paragonato a un gatto che srotola un gomitolo che non sai mai dove va a finire», dice Santoro, prima di ricordare la maratona evento Rai-Mediaset contro la mafia. «Una cosa incredibile che non si era mai vista. Ne è nata una speranza pazzesca. Il Paese ha acceso le luci e tutti i grandi giornali del mondo hanno parlato di questa staffetta». «Mi piacerebbe far crescere una tv indipendente», racconta ancora Santoro, tornando poi sul terribile attentato avvenuto davanti al Parioli.

«Qua fuori c’era un baratro, una scena da guerra. Lui era ancora frastornato, Maria sul letto che non riusciva a proferire parola. In quell’obiettivo c’eravamo tutti e due, era troppo facile, ma secondo me quell’attentato aveva un significato molto importante: era un attentato alla televisione, ci dicevano state esagerando, tornate nei ranghi». Maurizio Costanzo poi rivela: «Nelle indagini hanno scoperto a metà platea Messina Denaro, il grande latitante, veniva a vedere lo show e magari gli piaceva pure». E ancora: «Ricordo lo stupore di Enzo Biagi che mi chiedeva perché, è stato terribile» 

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2022.

I ricordi sono belli perché sopprimono i particolari fastidiosi. Sono come sogni raccontati in pubblico per sottolineare l'inadeguatezza del presente. Mercoledì notte, Maurizio Costanzo celebrava i 40 del suo show (dovrei abbandonarmi all'impudenza di stabilire i rapporti fra il Maurizio Costanzo Show e gli attuali talk popolati di sfessati; lo farò, prima o poi), e in uno dei tanti flashback è riapparso il fantasma di Telesogno.

Correva l'anno 1995 e Costanzo, affiancato da Michele Santoro, sul palcoscenico del Teatro Parioli di Roma leggeva un piccolo proclama: «La televisione che viviamo adesso è un po' figlia degli anni Cinquanta e un po' degli anni Ottanta. È sempre più uguale a se stessa e diversa da noi. Per questo, siamo in tanti a volere un'altra tv». Detto da uno che ha sempre fatto un solo tipo di tv, era un progetto ambizioso. 

In platea sedeva il meglio dell'intellighenzia mediatica: Curzi, Funari, Chiambretti, Guglielmi, Balassone, Dandini, Rosi, Salvatores e tanti altri «artisti associati» (in videoconferenza da Milano: Biagi, Fazio, Parietti, Ricci e Claudia Mori). Tutti erano pronti a imbarcarsi sulla nuova nave della libertà.

L'altra sera Costanzo e Santoro hanno ribadito che volevano fare una televisione indipendente, dimenticando però di aggiungere «con i soldi degli altri», o come altro si dice. Pochi giorni dopo la presentazione, Silvio Berlusconi fece dire al fedele Adriano Galliani: «Il Telesogno va benissimo purché questi due signori vadano da Mediobanca e comprino Tmc che è in vendita, oppure comprino Rete Mia o Rete A.

Noi abbiamo fatto tv investendo miliardi invece Santoro e Costanzo vorrebbero in regalo il terzo polo. Non capisco». E infatti Telesogno non si fece, Costanzo continua a lavorare per Rai e Mediaset, Santoro è stato meno furbo e più ideologico e, intanto, gli spettatori sopravvivono a spese dei ricordi degli altri. 

Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 28 aprile 2022.

È tornato al Teatro Parioli di Roma dove tutto è cominciato: il Maurizio Costanzo show compie quaranta anni e il giornalista, 83 anni, ha ripreso in mano il talk show su Canale 5. Nuova edizione, puntata 4466: sornione, un marchio di fabbrica, l'emozione stemperata nell'ironia e nel cinismo romano di chi ne ha viste tante e che gli fa dire, a chi si congratula per il record: «E vabbè, su, che volete che sia». 

Da quanto mancava dal Parioli?

«Dodici anni, l'impatto è stato forte. Mi sono venuti gli occhi lucidi, ho pensato ai miei amici Alberto Silvestri, Paolo Pietrangeli, Franco Bracardi che non ci sono più». 

La prima sensazione sul palco?

«Che era bello esserci. Il Costanzo show è una fotocopia della carta di identità». 

Sono successe tante cose al Parioli, la puntata con il giudice Giovanni Falcone è rimasta nella storia.

«I magistrati mi hanno detto che una sera in platea tra il pubblico c'era il latitante Messina Denaro. È emerso nelle indagini, ho visto il video. Veniva a venire lo show e magari gli piaceva». 

Via Ruggero Fauro è la strada a due passi dal teatro dove, nel 1993, è stato vittima di un attentato. La mafia aveva messo 40 chili di tritolo. Ci era più passato?

«Una volta sola» 

Ha ancora paura?

«Paura no, però rispetto. Perché quello che è successo ha segnato un prima e un dopo. Ma siamo stati molto fortunati, ci siamo salvati tutti: io, Maria, l'autista e il cane. Se devo essere sincero mi ha fatto più impressione il teatro, ricordo ancora i cani della polizia che fiutavano nei camerini». 

Anche dieci ospiti insieme: è più domatore o moderatore?

«Più ascoltatore». 

Il segreto è quello?

«Il problema vero è che nei talk show i conduttori, presi dal proprio ego, non ascoltano. Io mi sono sempre posto il problema di stare a sentire che dicono gli ospiti». 

Chi le dà filo da torcere?

«Quelli vaghi, che se fai una domanda su un certo argomento rispondono un'altra cosa». 

E le risse?

«Capitano. Quest' anno nella prima puntata c'è stata una lite sulla guerra tra Michele Santoro e Enrico Mentana». 

Dopo tanti anni si diverte ancora?

«Certo, se no smetterei. Ho una grande fortuna, ci sono ancora».

Ha avuto ospiti i più grandi artisti: oggi cos' è cambiato?

«Ho avuto Mastroianni, Tognazzi, Vitti, Sordi, Gassman, Villaggio. Cosa vado cercando? Certo che non ce ne sono più come loro». 

Il politico più bravo in tv?

«In assoluto Giulio Andreotti. Poi mi ha dato buone soddisfazioni Luigi Di Maio, però è tanto che non lo vedo. Ma io ho avuto Giorgio Amendola e Gian Carlo Pajetta, ripeto: cosa vado cercando?». 

L'amministratore delegato di Mediaset Pier Silvio Berlusconi le ha mandato gli auguri. Lei ha dichiarato che non ha mai votato il padre ma lo sentiva?

«Non l'ho mai votato, come Enrico Mentana. Quando ci annunciò che si candidava gli dicemmo che faceva una ca**ata. Gli dissi: "Non ti attaccherò mai ma non ti voterò mai". E così è stato. Certo che abbiamo avuto rapporti. Spero che Silvio venga alla seconda, alla terza puntata, o che si colleghi. Se non ci fosse stato lui a chiedermi di fare il Costanzo show tutte le sere, quando mai avrei festeggiato i 40 anni con una puntata settimanale?». 

La televisione è cambiata?

«Finge di cambiare ma è sempre la stessa, il problema è che bisogna farla pensando a chi la segue. In genere la fanno pensando a sé stessi. Dico sempre: preoccupatevi di chi sta a casa. Io quando lavoro penso agli "sfasciadivani"».

Chi sono?

«Sono le coppie non più giovanissime sedute davanti alla tv, dall'una del pomeriggio alla sera. Provi a immaginare un salotto: luci basse, un cane, due sul divano. L'Italia è piena di persone così, noi dimentichiamo sempre i fruitori». 

In teatro ritrova gli "sfasciadivani"?

«Certo ma in platea l'altra sera c'erano anche molti giovani. Per me è una seconda vita». 

Cosa le dicono?

«Sono carini, affettuosi, molti ripetono: "Sono cresciuto con lei". Vorrei aprire un asilo nido. Conclusi la scorsa stagione invitando due gemelle, sa come si chiamavano? Maurizia e Costanza». 

Va bene accompagnare gli italiani, ma non sarà troppo?

«Abbastanza» .

Tipologia degli ospiti: chi la spara grossa in genere è consapevole?

«Alcuni dicono stupidaggini senza stupirsi, altri stupendosi di quello che dicono. Poi c'è il cretino puro, va per conto suo»

Ha ospitato tutti, chi vorrebbe avere?

«Purtroppo ripeto sempre la stessa cosa: papa Francesco. C'ho provato due volte senza grande esito».

Senza cuscini. Il Maurizio Costanzo show e il tentativo impossibile di spiegarlo ai nativi digitali. Guia Soncini su L'Inkiesta il 29 Aprile 2022.

C’è stato un tempo in cui era l’unico talk della televisione italiana, dove passavano sia i freak sia i grandi della cultura, dove ogni tanto nasceva qualche talento e i mitomani e i velleitari apparivano come tali.

Una cosa difficile (impossibile) da spiegare ai nativi dei palinsesti a costo zero è che una volta c’era solo il Maurizio Costanzo Show. La tv non era un gigantesco talk-show indifferenziato, qualunque tasto del telecomando spingessi. E, quel che più conta, Maria De Filippi era la moglie di Maurizio Costanzo, mica viceversa.

(Vent’anni fa, se eravate vivi ve lo ricordate, Gianni Morandi apparve in mutande su Rai 1. In quel periodo conduceva il varietà del sabato sera, concorrente del C’è posta per te di Maria De Filippi, e mostrarsi in mutande era una trovata che polemizzava sugli espedienti per alzare lo share. Repubblica organizzò un forum sul tema dell’Auditel, dal quale ricopio questo sublime scambio. Morandi: «È chiaro che se voi finite a mezzanotte e mezza, è meglio che finisca anch’io a mezzanotte e mezza, magari a mezzanotte e 35»; Costanzo: «Io vorrei finire alle 10 e 20, figurati»; Morandi: «Se vogliamo metterci d’accordo, facciamo»; Costanzo: «Parlane con mia moglie, non lo faccio io»).

A settembre il Maurizio Costanzo Show compie quarant’anni. Se leggete i giornali, penserete l’anniversario caschi ora: è adesso che Costanzo ha fatto la sua puntata celebrativa, è adesso che i giornali l’hanno intervistato. È una delle cose che sono cambiate da allora. In tv ci sono alcuni milioni di talk-show (più talk-show che spettatori); con gli ascolti con cui allora un programma si chiudeva, adesso lo si considera un trionfo; l’identità sessuale è diventata un tema di dibattito assai più prescrittivo della guerra; e abbiamo così paura che qualcuno festeggi un anniversario prima di noi che arriviamo in anticipo di mesi.

Alla prima puntata, nel settembre dell’82, c’erano Paola Borboni, Paolo Villaggio, ed Eva Robin’s. Per gli altri due vale quel che ha detto Costanzo l’altro giorno a Repubblica: «Ho avuto Mastroianni, Tognazzi, Vitti, Sordi, Gassman, Villaggio: cosa vado cercando? Certo che non ce ne sono più come loro». Niente racconta il declino delle élite come il fatto che una volta da un talk-show uscissero sì i freak, ma anche i pochissimi grandi talenti di questo secolo (Valerio Mastandrea cominciò come ospite di Costanzo) e i giganti del Novecento: ve lo vedete, uno dei mille talk di oggi, che lascia tutto quello spazio a Carmelo Bene? L’idea dei covi di freak di oggi di utilizzo degli intellettuali è prendere uno scrittore e fargli mettere un cuscino sotto al maglione per esprimere la sua empatia con le donne incinte.

Eva Robin’s, invece, è il mio argomento preferito quando si parla di identità sessuali: io sono di Bologna, noi avevamo Eva Robin’s quando voi ancora stavate sugli alberi. Nel pezzettino della puntata dell’82 che Costanzo ha ritrasmesso l’altra sera, e in cui doveva spiegare che il corpo della signora era femminile di sopra e maschile di sotto, e altre indicazioni per principianti che a rivederle dopo quarant’anni, dieci dei quali passati a sfinirci su questi temi, fanno assai tenerezza, in quel pezzetto Eva diceva «se vogliamo essere sinceri, della donna ho preso solo le cose che mi facevano comodo», che è la frase più libera che abbia mai sentito sul tema dell’identità sessuale, ed è una frase per cui oggi verresti linciata dalle militanti dei cancelletti. Di fianco a lei l’altra sera c’era Drusilla Foer, ed era la rappresentazione plastica di come la tv di quarant’anni fa fosse assai più moderna di quella di oggi.

Quando avevo vent’anni, la mia più cara amica faceva l’attrice. Una sera la invitarono al Costanzo Show, ed è difficile spiegare, in questo secolo di frammentazione del pubblico e moltiplicazione delle nicchie, cosa significasse per un’aspirante qualcosa comparire al Costanzo Show. Il giorno dopo, raccontava la mia amica, il panettiere che non l’aveva mai salutata in tutti gli anni in cui aveva comprato il pane da lui, le aveva detto con gli occhi sgranati «Signorina, l’ho vista in tv». L’esempio non rende, giacché ancora oggi c’è una distorsione percettiva per cui, in qualunque programma tu compaia, il giorno dopo ti sembra tutti l’abbiano visto. Solo che oggi vai a guardare i dati e quelli che ti sembrano «tutti» sono in realtà poche centinaia di migliaia di persone; nel Novecento i mass media erano davvero di massa.

C’è una scena, in “Caterina va in città”, in cui il mitomane interpretato da Sergio Castellitto, un professore di liceo con velleità da romanziere, porta la classe al Costanzo Show. È la sua occasione per la gloria in un tempo in cui d’occasione ce n’era a malapena una (è un film del 2003, non esistevano i social). Chiede la parola dalla platea, si lamenta degli editori che non gli rispondono. È una scena che risulta vera a chiunque fosse vivo all’epoca, a chiunque abbia visto la disperazione dei mitomani prima ch’essa venisse sedata dai cuoricini, prima che ogni mitomane potesse aprirsi un Instagram, o prima che per ogni mitomane ci fosse un talk-show che non si limitasse a dargli dieci secondi il microfono in platea, ma che lo facesse ospite fisso.

D’altra parte, qual è l’alternativa: ce l’avete, voialtri, un Carmelo Bene da mettere in onda al posto di velleitari coi cuscini sotto al maglione? E, possibilmente, che venga in cambio di due buoni taxi: la tv fatta coi soldi è un relitto del Novecento come neanche il juke-box della Fondazione Prada.

·        Michele Mirabella.

Francesca D'Angelo per "Libero quotidiano" il 25 gennaio 2022.

Ecco, questo è il breve preambolo che apre la nostra schietta (e divertita) chiacchierata con Michele Mirabella: l'uomo di scienza di Rai Tre che per i suoi meriti divulgativi si è guadagnato due lauree ad honorem, una in medicina e l'altra in farmacia. Poi, sì, lo sappiamo, Mirabella è anche moltissime altre cose, ossia regista (di oltre 50 opere teatrali), autore (in primis di Raffaella Carrà), attore (a breve lo vedremo di nuovo in un film al cinema!) ma per il pubblico Rai lui è prima di tutto il conduttore di Elisir. Il che, in questi tempi pandemici, vuole dire essere l'ultimo vero baluardo dell'informazione scientifica... 

Lei conduce Elisir dal 1996. Ci dica: un certo caos ha sempre regnato nella medicina o è solo l'effetto della pandemia?

«Non sono esperto a tal punto, però onestamente non mi viene in mente un campo dello scibile dove c'è stato un unanimismo. Lo stesso Galileo non è stato subito ascoltato... La storia dell'umanità è sempre stata attivata, disturbata, funestata o resa trionfante proprio da un certo "pulviscolo". C'è da allarmarsi solo quando si esagera per ignoranza o ragioni mercenarie». 

Ma esiste una verità scientifica?

«Certo che esiste, ma la verità è una conquista e, a sua volta, la scienza è una tecnè: termine greco che indica arte. L'arte è lo strumento con il quale possiamo conquistare la verità». 

A occhio allora siamo ancora nel bel mezzo della pugna. Abbiamo solo una certezza: lei. Come ripete mia mamma, «se lo dice Elisir, allora è vero».

«È una cosa che sento dire in giro a molti e mi rende orgoglioso, ma non lo vivo come un merito, bensì come un dovere. Elisir non è il depositario della verità scientifica bensì dell'onestà intellettuale».

Il famoso "so di non sapere"?

«Esatto. Quando si parla il vero coraggio è sapere dire: "Questa è la mia opinione e posso sbagliarmi, vivaddio". È questo che manca. Chi si erge a detentore della verità assoluta alleva solo tiranni. Inoltre a Elisir non andiamo mai a caccia di ascolti facili». 

Per questo non abbiamo mai visto no vax da lei?

«Non mi piace usare questo termine, che è persino peggio di un inglesismo perché unisce un termine britannico con una contrazione, vax. Comunque, preferisco parlare di persone che dicono sciocchezze: non mi curo di loro perché invitarli in studio servirebbe solo a fare baccano e questo è servire male il dolore che stiamo attraversando». 

Finora pochissime persone di scienza si sono occupate del dolore delle persone.

«Le dirò di più. Dedico questa mia intervista, e tutto il lavoro svolto a Elisir, ai medici e agli infermieri. Dovremmo ringraziarli con le lacrime agli occhi. Io ci lavoro con loro e le assicuro che sono molto provati ma, nonostante tutto, danno il massimo, senza risparmiarsi». 

Crede che i negazionisti, i terrappiattisti (o più in generale le persone che dicono sciocchezze) siano l'inevitabile deriva di una società dove il pensiero personale prevale sul dato oggettivo della realtà?

«Tutto nasce da un delitto di lesa cultura ossia dalla distruzione degli studi classici. Questi rappresentano infatti un sistema logico di pensiero: la sintassi è un metodo. Se ripudi il metodo, ripudi la ricerca della verità. Quando accade, il carnevale delle incredulità ha campo libero...». 

A questo punto la domanda è d'obbligo: cosa ne pensa della Didattica a distanza?

«Non invidio i politici che se ne devono occupare! Lo streaming è qualcosa di avvilente ma in questi tempi duri probabilmente è l'unica strada. Non ho competenze per giudicare nel merito. Da cittadino posso solo dire che la scuola non può svolgersi a distanza: l'educazione vive del rapporto diretto insegnante-allievo. Proprio come il teatro». 

Nel frattempo comunque regna il caos, soprattutto in televisione: il famoso «l'ha detto la tv» ora non vale più, a eccezione di Elisir. Cosa abbiamo sbagliato?

«La tv smette di essere autorevole quando, come il web, inizia a diventare la sostenitrice del dubbio inteso non in senso buono, ossia come uno strumento filosofico al servizio della ricerca della verità, ma come trastullo. Oggi purtroppo si tende ad andare alla ricerca dell'errore e del falso, alimentando così lo scetticismo».

Veniamo a lei: come va la sua ipocondria?

«Meglio, grazie. Condurre Elisir mi ha aiutato molto: il sapere sconfigge gli incubi, come sostenevano gli antichi. Il resto l'ha fatto l'umorismo intelligente e colto di Carlo Gargiulo che è stato mio partner per molti anni, quando facevamo Elisir in prima serata. Mi ascoltava, paziente, per poi dirmi: "Ti fa male la gamba, ma il braccio? Sei sicuro che stia bene?". Così mi dimenticavo del male alla gamba... Inoltre c'è da dire che oggi è parecchio faticoso essere ipocondriaci». 

Si riferisce al Covid?

«Esatto. Infatti non esco di casa, se non per lo stretto necessario: ho paura per me stesso e per gli altri. Io ho due figlie! Esco giusto sul terrazzo: da qui la vista non sarà panoramica ma va bene lo stesso».

È vero che prossimamente la rivedremo al cinema?

«Sì: in un film. Torno a fare l'attore ma non posso dire di più. Inoltre ho recentemente lavorato alla regia di uno spettacolo teatrale su Dante perché i libri vanno testimoniati: non basta leggerli per trasmetterli alle nuove generazioni. Vanno fatti vivere altrimenti moriranno». 

Tra i suoi grandi amici, vanta addirittura Federico Fellini: che ricordo ha di lui?

«È stato un onore essere suo amico. Ricordo che Fellini diventò regista quasi per caso: era terrorizzato dall'ambiente del set e dal palco». 

E di Massimo Troisi, con cui fece Ricomincio da tre?

«Era di un'umanità straordinaria e di una bonarietà saggia. Lavorai con lui in un film quando ancora Troisi non era famoso, io tanto meno di lui. Fu un'esperienza bellissima, anche se la parte migliore è quella che non abbiamo girato».

Mi dica.

«Ricordo quando venne a casa mia: entrò e guardò con smarrimento ammirato i miei libri. Ne avevo a centinaia, sparsi ovunque. Lui fu preso da un certo sgomento (ride, ndr) e ammiccò. Massimo per me è un ricordo incancellabile». 

Inoltre lei lavorò anche come autore di Raffaella Carrà per la quale ormai si sprecano gli omaggi a raffica: il "tributo alla Carrà" è diventato un format nel format?

«Fa parte del sistema, va bene così... Lo lasci fare a loro. Io non lo faccio». 

Vorrebbe che accadesse la stessa cosa con lei, quando morirà?

«Mia cara, le ricordo che sono ipocondriaco...».

·        Michele Santoro.

Da corriere.it il 28 settembre 2022.  

«Non ho votato, faccio parte di quella parte della società che non ha votato. È la prima volta in vita mia, e per uno come me che ha il voto stampato come un tatuaggio sulla pelle è stata una sofferenza indicibile, come una sofferenza indicibile è stato vedere questi ragazzi che non possono tornare a votare nei loro paesi perché costa troppo il viaggio, questo è insopportabile». 

Lo ha detto Michele Santoro, ospite di «Facciamo finta che», il programma di Maurizio Costanzo e Carlotta Quadri in onda su R101 dove ha presentato il suo ultimo libro «Non nel mio nome». «È stato insopportabile anche per me non votare, però era il mio modo di manifestare una distanza da questa scissione che c'è tra l'elite e il popolo che alla fine porta la Meloni a vincere perché la Meloni assomiglia di più a quelli che non votano rispetto alla leadership di sinistra fatta da persone che si lavano le mani tutte le mattine per bene, se le lavano più volte al giorno, ma non se le sporcano mai mettendole nella realtà». «Adesso siamo frastornati dal fatto che questo voto - ha detto ancora - ci presenta una sinistra sconfitta, quasi umiliata, però smaltiti questi primi giorni al tappeto ci rialzeremo e cominceremo piano piano a tirare con i nostri guantoni di nuovo sul sacco e torneremo a essere competitivi. Io credo che la bandiera dell'uguaglianza tornerà a sventolare». 

Il gilet zero. Il libro di Michele Santoro racconta il mondo esattamente come non è. Linkiesta il 14 Settembre 2022.

Le posizioni neutraliste dell’ex teletribuno (in cerca di trasmissione), già espresse nelle sue varie ospitate televisive, sono ribadite nel suo pamphlet pubblicato da Marsilio. Messe da parte (per ora) le velleità politiche, riscrive, non senza autoelogi, gli ultimi 20 anni dell’Italia

«Penso che ci sia un nemico più grande di Putin, la guerra, e dobbiamo fermarla. Mandando armi non la fermeremo. Anzi, avremo più guerra, più morti tra i civili, più distruzione». Prima di dare alle stampe il suo ultimo libro, Michele Santoro non aveva considerato la controffensiva dell’esercito ucraino, che costringe i soldati di Mosca a scappare dalla regione di Kharkiv. Pazienza. Il teletribuno ha le idee chiare sull’invasione del 24 febbraio, con buona pace degli ucraini che resistono. D’altronde «sono stati armati fino ai denti dagli Stati Uniti quando contro un nemico più forte si può scegliere di combattere in tante maniere». Magari con le fionde oppure con un dibattito in piazza? Chissà.

Il giornalista che ieri sbancava la prima serata in tv, oggi reclama il suo palcoscenico. A maggio ha riunito i teorici della complessità nell’evento “Pace proibita” al teatro Ghione di Roma. Offrendo invano la diretta alle televisioni nazionali. Ma si sa, i telegiornali raccontano i fatti con «l’acconciatura della propaganda ucraina». Così alla fine ha dovuto accontentarsi dello streaming ospitato da ByoBlu, il canale online amato dai complottisti. In estate era indeciso se candidarsi alle elezioni, poi ha pensato di fondare un partito. Se l’è cavata con un libro, “Non nel mio nome”. Un’analisi degli ultimi trent’anni di politica scandita da sfoghi e autocelebrazioni di un conduttore con eterne aspirazioni da guru.

«Quando ho cominciato a dire la mia, mi sono reso conto che gli spazi di libertà che in passato ero riuscito a occupare erano spariti e certe parole avevano per il potere lo stesso significato di una bomba. Senza saperlo, per il sistema ero diventato una specie di terrorista». Possibile? Intanto i talk televisivi fanno a gara per invitarlo: solo nell’ultima settimana è stato ospite dei salotti televisivi di Lilli Gruber e Giovanni Floris.

I tempi dell’editto bulgaro sono lontani, ma Santoro non ha dubbi. Questo «è un sistema a libertà limitata» ed «esclude quelli come me che pongono punti interrogativi». Peccato che le sue posizioni sulla guerra abbiano fatto il giro d’Italia. E adesso vengono messe nero su bianco nel pamphlet edito da Marsilio. «Per combattere i dittatori stiamo finendo per assomigliargli un po’». Non è chiaro il perché, ma si prosegue con slancio. «Considerare l’invasione un attacco diretto all’Unione o una minaccia per il futuro è una bugia». E pazienza se il presidente russo ricatti il mondo con gas e grano. I toni santoriani restano quelli del comizio: «La guerra è sempre una bugia. Chi invoca tribunali per il criminale di guerra Putin, per favore, si ricordi anche di Bush e di Blair».

Così il conduttore sforna paragoni che profumano di benaltrismo. «Non è solo Putin a non chiamare guerre le guerre. Le operazioni militari furono sempre definite missioni umanitarie per esportare la democrazia e togliere il burqa alle donne». E ancora: «Vale per un kamikaze palestinese come per Putin: se li chiudi in un angolo e non gli offri una via d’uscita possono decidere di far saltare tutto». Morale della favola, è sempre colpa dell’Occidente. 

Oltre alla guerra, il teletribuno ripercorre la politica degli ultimi anni attraverso le sue trasmissioni di «enorme successo». Santoro si vanta di «aver anticipato il fenomeno dei gilet gialli francesi», portando i forconi in tv. Quindi un altro merito: «La storia del Movimento 5 Stelle non sarebbe stata la stessa senza Annozero». Sui grillini Santoro è un fiume in piena. Grillo non ha ascoltato i suoi consigli. «Con due governi il Movimento è riuscito a fare un’ammucchiata con tutti passando dalla castità alla depravazione più sfrenata». Ma soprattutto «la fragilità ai limiti dell’inconsistenza dei 5 Stelle l’ho misurata dalla velocità con la quale hanno cambiato la loro posizione critica su vaccini, industria farmaceutica e diritti dell’individuo alle cure sanitarie».

Il premier Draghi, neanche a dirlo, è caduto da solo «con la sua strafottenza». Di Giuseppe Conte che ha aperto la crisi di governo, nemmeno l’ombra. In compenso Santoro elogia il superbonus. Oltre ai soliti Berlusconi e Renzi, nei pensieri del conduttore c’è Giorgia Meloni, rimproverata per aver «indossato l’elmetto a stelle e strisce». La leader di Fratelli d’Italia «si distingue dal Pd perché pensa che i missili sono sempre troppo pochi e ne sparerebbe volentieri anche sugli LGBTQ».

Santoro non le manda a dire. Lui è il più libero di tutti. Non come Bruno Vespa che «oggi è ucraino, ai tempi delle Torri gemelle era americano. Se avesse vinto Bin Laden avrebbe mandato a memoria il Corano». Un paio di frecciatine anche a Enrico Mentana, con cui avrebbe dovuto condurre un programma su La7 ma poi non se n’è fatto nulla. Infine una citazione striminzita per Marco Travaglio, con cui i rapporti sono interrotti da tempo.

Ma adesso cosa vuole fare Santoro? L’incipit del libro è chiarissimo. «Io non sono un politico. Un politico entra nelle stanze che puzzano di merda senza battere ciglio. Deve farlo se vuole uscirne con qualcosa di utile per il paese. Ma molto spesso gli resta solo quel tanfo appiccicato addosso e basta. Finisce per farci l’abitudine e ciò che gli piace di più è proprio l’odore di quella merda. Non l’ho mai sopportato e, quando sono arrivato davanti a quelle stanze, mi sono sempre tirato indietro schifato». Peccato che nel 2004 il conduttore più perseguitato d’Italia si fosse fatto eleggere al Parlamento Europeo come indipendente con l’Ulivo. Il suo impegno in quegli ambienti maleodoranti durò poco più di un anno, poi rassegnò le dimissioni per tornare in televisione.

Com’è strana la vita. Oggi il conduttore salernitano continua a parlare del “partito che non c’è” e che lui vorrebbe fondare. Snocciola programmi e proposte. È pronto alla discesa in campo? L’ultima frase del libro è la prima promessa: «La nostra meta è un mondo nuovo senza guerra». Firmato Miss Italia. Ah no, Michele Santoro.

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” l'1 settembre 2022.

"Merda". Non si capisce se sia un concetto antropologico, una citazione di Rino Formica («la politica è lacrime e merda») o scatologia pura. Scrive nell'incipit del suo ultimo libro, Non nel mio nome (Marsilio, pp.128, euro 12), Michele Santoro: «Io non sono un politico. Un politico deve porsi prima di tutto il problema del potere, il che vuol dire entrare nelle stanze che puzzano di merda senza battere ciglio. 

Deve farlo se vuole uscirne con qualcosa di utile per il paese. Ma molto spesso gli resta solo quel tanfo appiccicato addosso e basta. Finisce per farci l'abitudine e ciò che gli di più è proprio l'odore di quella merda. Non l'ho mai sopportato e, quando sono arrivato davanti a quelle stanze, mi sono sempre tirato indietro schifato. Il risultato è che la puzza è aumentata e pure il mio senso di colpa per essere rimasto a guardare senza provare a cambiare le cose».

Ora il libro è espressione legittima dell'intero corpus dell'ideologia santoriana, ed è perfino ben scritto. Ma urge qualche errata corrige. Per esempio: Santoro forse oggi non è un politico, ma lo è stato. Epurato dalla Rai nel 2004 per l'"editto bulgaro" si candidò nelle circoscrizioni nord-ovest e sud e venne eletto in entrambe all'Europarlamento come indipendente nella lista Uniti per l'Ulivo. 

Non solo aprì la porta da dove esalava l'eau de merde -diciamo-; entrò nelle stanze e ci accomodò. Ignoriamo se, in un annetto chiuso lì dentro, il tanfo gli sia rimasto appiccicato addosso. Epperò, l'esperienza prodiana a 15mila euro al mese era certo dettata dal sacro fuoco delle battaglia per la libertà d'informazione. 

E, comunque, non è che la coerenza politica fosse il suo forte. A Famiglia cristiana Michele dichiarò di aver votato Dini, La Malfa e Di Pietro, quando tutti l'associavano a Berlinguer. Ma tant' è. Divenne, Michele, a Bruxelles membro della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni; della Commissione per la cultura e l'istruzione; della delegazione alla commissione parlamentare mista Ue-Croazia; del la delegazione alla commissione di cooperazione parlamentare Ue-Russia.

E, in tutto questo florilegio d'incarichi sfoderò la bellezza di 4 -di casi- 4 interrogazioni parlamentari, registrando tassi di presenza trai più bassi del Parlamento. Finì che nel 2005, stufo del ruolo e reintegra to in Viale Mazzini, Michele diede le dimissioni, facendo incazzare gran parte dei suoi 730mila elettori che avevano sinceramente creduto nella sua rivoluzione. 

«Per me il conflitto in Ucraina è stato un punto di svolta, mi sono sentito senza alcuna rappresentanza», scrive sempre Santoro. Ci piacerebbe conoscere oggi il giudizio dei suoi elettori sul concetto di "mancanza di rappresentanza". Rimane il dubbio: prevale la puzza o il senso di colpa...?

Michele Santoro: “Vado al voto smarrito e umiliato, ci hanno rubato il diritto di scegliere”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Agosto 2022. 

Il conduttore tv: "I vecchi partiti tagliano fuori il nuovo. Chiunque vinca, governo debole". "Ognuno farà i conti con la propria coscienza e deciderà se astenersi o far prevalere ancora una volta la maledizione del voto utile. Il problema, però, va affrontato: ormai metà della popolazione non partecipa alla vita politica, come se non si aspettasse più niente. Un vuoto pericolosissimo, che amplia le diseguaglianze»

Michele Santoro si avvicina a queste elezioni con “un profondo smarrimento, mai provato in vita mia” ed affida il suo pensiero in un’intervista rilasciata al quotidiano La Stampa. Una sensazione amara per chi ha sempre osservato la politica con passione, “pensando, con il mio lavoro, di spingere i partiti a rinnovarsi“. Oggi non più, afferma il giornalista, giustificando la sua opinione spiegando che “nel sistema politico non riesco a trovare nessuna forma di rappresentanza, non c’è nessuno che si opponga in modo credibile alla guerra“.

Nel suo ultimo libro, in uscita domani, dal titolo “Non nel mio nome” rivolge un atto di accusa, un grido di dolore, “che penso sia condiviso da tanti cittadini, umiliati e abbandonati dalla politica“. Secondo Santoro la guerra in Ucraina è sparita dalla campagna elettorale, “un tema che è stato completamente rimosso per affermare il principio che non possiamo fare nulla di diverso da quello che stiamo facendo. Assistiamo a un’immane distruzione e continuiamo a sprecare risorse sulle armi, convinti che non sia possibile una soluzione politica. Si va avanti con un atlantismo di maniera, come fa il segretario del Pd, senza prendere il toro per le corna“. 

Santoro incredibilmente (e giustamente secondo noi) è molto critico nei confronti di quei partiti che hanno fatto venir meno il Governo Draghi: “è stato un errore portare il Paese al voto così rapidamente. Si poteva trovare una soluzione per andare avanti altri 2 o 3 mesi con Draghi. Sono rimasto molto deluso dalla scelta del presidente Mattarella, che pure ammiro: costringere gli italiani a votare in queste condizioni è un colpo basso“.

Il giornalista voleva provare a creare un nuovo soggetto politico, ma non ha dato seguito ai suoi propositi, e spiega le ragioni: “Credo che in Italia si avverta forte l’esigenza di un partito che non c’è, che sappia rappresentare le persone partendo dalle loro condizioni di vita. Non voglio fondare nulla, ma provare a rispondere a questa domanda e verificare la possibilità di aggregare chi si sente come me” esternando la sua rabbia: “abbandonati alla periferia della politica, così da non poter interferire con il potere. Umiliati nell’esercizio del nostro diritto fondamentale, espropriati della possibilità di scegliere i nostri rappresentanti, indicati dai partiti senza tenere in alcun conto i territori. Mi sento come se avessi subito un furto in casa“. 

Da uomo di televisione Michele Santoro parla anche sui confronti televisivi tra i leader dei partiti, che come avviene all’estero dovrebbero essere garantiti. “Bisogna provarci, anche con questa frammentazione politica. In Francia o negli Stati Uniti è più facile. Da noi o elimini la legge sulla par condicio, e io sarei favorevole, o devi inventarti modalità alternative. Lo strumento della tribuna politica, rivisto, mi sembra il più adatto. Ma lì l’ultima parola veniva data ai partiti maggiori, basandosi sul peso parlamentare, non sui sondaggi, quindi non toccherebbe certo a Meloni e a Fratelli d’Italia” dice il giornalista commentando il confronto (bloccato) tra Letta e la Meloni a Porta a Porta, aggiungendo “era una chiara violazione della par condicio, perfino l’Agcom ha dovuto riconoscerlo. Del resto, Vespa è uno specialista di violazioni non segnalate: quando consentì a Berlusconi di allestire il set con la scrivania per firmare il contratto con gli italiani fu clamoroso, un show che avvantaggiò il leader di Forza Italia, mentre il suo avversario rimase seduto a rispondere alle domande. Ma all’epoca l’attenzione dell’Agcom era tutta sulle mie trasmissioni“. Redazione CdG 1947

Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 29 agosto 2022.

Michele Santoro si avvicina a queste elezioni con «un profondo smarrimento, mai provato in vita mia». Una sensazione amara per chi ha sempre osservato la politica con passione, «pensando, con il mio lavoro, di spingere i partiti a rinnovarsi». 

Oggi non più, spiega il giornalista, perché «nel sistema politico non riesco a trovare nessuna forma di rappresentanza, non c’è nessuno che si opponga in modo credibile alla guerra». Il suo ultimo libro, in uscita domani, si intitola “Non nel mio nome” ed è un atto di accusa, un grido di dolore, «che penso sia condiviso da tanti cittadini, umiliati e abbandonati dalla politica». 

La guerra in Ucraina sembra un po’ sparita dalla campagna elettorale, no?

«È un tema che è stato completamente rimosso per affermare il principio che non possiamo fare nulla di diverso da quello che stiamo facendo. Assistiamo a un’immane distruzione e continuiamo a sprecare risorse sulle armi, convinti che non sia possibile una soluzione politica. Si va avanti con un atlantismo di maniera, come fa il segretario del Pd, senza prendere il toro per le corna». 

Ma tutti si preoccupano per la crisi innescata dall’aumento delle bollette, chiedendo al governo dimissionario di intervenire…

«Questo conferma che è stato un errore portare il Paese al voto così rapidamente. Si poteva trovare una soluzione per andare avanti altri 2 o 3 mesi con Draghi. Sono rimasto molto deluso dalla scelta del presidente Mattarella, che pure ammiro: costringere gli italiani a votare in queste condizioni è un colpo basso». 

Ma, in quella situazione cosa avrebbe potuto fare il capo dello Stato?

«Penso che una via d’uscita diversa fosse possibile, per far votare gli italiani con il massimo di coscienza e non con il minimo, come accadrà. E poi non si è permesso a nuove forze politiche di partecipare, anche impedendo la raccolta delle firme digitali. Tutto a vantaggio dei partiti esistenti». 

Lei voleva provare a creare un nuovo soggetto politico, l’obiettivo è solo rimandato? 

«Credo che in Italia si avverta forte l’esigenza di un partito che non c’è, che sappia rappresentare le persone partendo dalle loro condizioni di vita. Non voglio fondare nulla, ma provare a rispondere a questa domanda e verificare la possibilità di aggregare chi si sente come me».

Smarrito e arrabbiato?

«Abbandonati alla periferia della politica, così da non poter interferire con il potere. Umiliati nell’esercizio del nostro diritto fondamentale, espropriati della possibilità di scegliere i nostri rappresentanti, indicati dai partiti senza tenere in alcun conto i territori. Mi sento come se avessi subito un furto in casa». 

Quindi non andrà a votare?

«Ci andrò, eserciterò il mio diritto come forma di opposizione, ma questo senso di frustrazione resterà intatto, perché sarà un po’ come giocare al vecchio Totocalcio. Ognuno farà i conti con la propria coscienza e deciderà se astenersi o far prevalere ancora una volta la maledizione del voto utile. Il problema, però, va affrontato: ormai metà della popolazione non partecipa alla vita politica, come se non si aspettasse più niente. Un vuoto pericolosissimo, che amplia le diseguaglianze». 

A queste persone è rivolto il suo nuovo progetto politico-editoriale, la start up “Mondo nuovo”?

«Ho ricevuto migliaia di richieste di collaborazione, tanti giovani, intellettuali, ma anche operai. Un percorso difficile, perché basato sulle forze economiche di semplici cittadini. Ma nella mia vita sono riuscito a fare cose importanti con all’autofinanziamento e la partecipazione dal basso, da “Rai per una notte” fino a “Servizio pubblico”». 

Cos’ha in mente?

«Un lavoro di inchiesta per andare in quel largo pezzo di società ignorato dalla politica, trovare persone capaci di dare vita a una nuova stagione. Personaggi veri, non virtuali, non usciti da parlamentarie fatte sul web, per capirci». 

Ce l’ha con i 5 stelle? Con Giuseppe Conte non siete riusciti a trovare un percorso comune…

«Avrei voluto un confronto, lui ha preferito tentare una sorta di ritorno alle origini del Movimento, senza aprirsi all’esterno, pur di costruire un partito intorno alla sua leadership. Farà i conti con il risultato elettorale: la sua strategia non sarà sufficiente per il futuro. Io, comunque, sono disponibile a interloquire con tutti». 

Anche con Enrico Letta?

«Credo che nemmeno lui tra un mese passerà sotto l’Arco di trionfo, non si è capito cosa avesse in mente: ha buttato a mare la possibilità di un’alleanza repubblicana e antifascista, rompendo con i 5 stelle, poi non ha dato vita a un progetto politico coerente. È una delle poche cose su cui sono d’accordo con Calenda. E non riesco a capire cosa separi Calenda e Renzi da Letta, se non le diatribe di potere». 

Vede un pericolo estremista e sovranista in caso di vittoria della destra?

«È comico che ad agitare il pericolo dei cosacchi in piazza San Pietro sia la sinistra, ammesso che questa si possa dire sinistra. Non vedo fascisti alle porte, non credo che Meloni potrà permettersi derive autoritarie: se lo farà, troverà pane per i suoi denti. Sta facendo di tutto per risultare rassicurante, perché ha molto da farsi perdonare, a cominciare dall’esaltazione di Putin fatta in passato. La sua credibilità all’estero è scarsa, le sue convinzioni sono fragili, dettate dalla necessità». 

Però è lanciata verso palazzo Chigi e il centrodestra si è compattato intorno a lei. O no?

«Compattezza di facciata, dettata dalla propaganda. Basta vedere le distinzioni che fa Salvini in politica estera, di fronte all’atlantismo sbandierato da Meloni. Chiunque vinca, avremo un governo debole». 

Da uomo di televisione: i confronti tra i leader, come avviene all’estero, non dovrebbero essere garantiti?

«Bisogna provarci, anche con questa frammentazione politica. In Francia o negli Stati Uniti è più facile. Da noi o elimini la legge sulla par condicio, e io sarei favorevole, o devi inventarti modalità alternative. Lo strumento della tribuna politica, rivisto, mi sembra il più adatto. Ma lì l’ultima parola veniva data ai partiti maggiori, basandosi sul peso parlamentare, non sui sondaggi, quindi non toccherebbe certo a Meloni e a Fratelli d’Italia». 

Giusto, comunque, impedire il confronto tra Letta e Meloni a Porta a Porta?

«Era una chiara violazione della par condicio, perfino l’Agcom ha dovuto riconoscerlo. Del resto, Vespa è uno specialista di violazioni non segnalate: quando consentì a Berlusconi di allestire il set con la scrivania per firmare il contratto con gli italiani fu clamoroso, un show che avvantaggiò il leader di Forza Italia, mentre il suo avversario rimase seduto a rispondere alle domande. Ma all’epoca l’attenzione dell’Agcom era tutta sulle mie trasmissioni».

Da veritaeaffari.it il 25 agosto 2022.

Michele Santoro non è il padre-padrone di “Mondonuovo”, il giornale di cui il noto conduttore televisivo ha annunciato la nascita  su Facebook. Dall’atto di costituzione della Mondonuovo srl, registrato lo scorso 29 luglio a Roma davanti al notaio Antonio Caruso, si scopre infatti che Santoro è sì l’azionista di maggioranza col 51% del capitale, fissato a 10mila euro, ma che l’altro 49% è della Mosai.Co srl, società di consulenza digitale, che fa capo a Matteo Forte che è anche stato nominato amministratore unico della newco. Michele Santoro ha dunque un socio Forte per il suo nuovo giornale

Vecchia conoscenza

Non solo: Mosai.co ha pagato la minoranza al nominale di 4mila 900 euro ma ha versato un sovrapprezzo di 200mila euro. Forte è una vecchia conoscenza di Santoro perché per conto della Zerostudio’s del conduttore, poi liquidata a fine del 2020, gestiva la strategia web del sito “Studioaperto”. Mosai.Co è nata nel 2018 dalla fusione per incorporazione di Mosaico Lab e Nexilia in Mosaico produzioni, poi ridenominata appunto Mosai.Co. 

Due anni prima Nexilia, quale media tech company, aveva rilevato il 70% del portale Giornalettismo da Banzai. L’ultimo bilancio disponibile di Mosai.Co (2020) si è chiuso con un utile di 385mila euro su 2,8 milioni di ricavi. Sul sito d lla società compaiono i nomi di alcuni clienti: Gedi Digital, Lamborghini, Prada, Editoriale Il Fatto, Fao, Burger King, Ferrovie dello Stato, Netflix, Zalando, Technogym, Mondadori e LaPresse.

Alessio Mannino per mowmag.com il 23 agosto 2022.

Il “partito che non c’è” di Michele Santoro può aspettare. Intanto, ci sarà un giornale. Il vecchio leone da talk aveva di recente vagheggiato il sorgere di una forza che rappresentasse, in sostanza, i non rappresentati a sinistra (“Serve il partito che non c'è e che non c'è mai stato”, Repubblica, 30 luglio) e invece preferisce restare nel suo ambito fondando “una start up che si chiamerà Mondo Nuovo”. 

Ad annunciarlo è stato lui stesso dalla propria pagina Facebook lunedì 22 agosto, spiegando che il nascente quotidiano sarà “multimediale e sperimentale, innovando le forme di partecipazione esistenti”, il che sembra alludere a un giornalismo non solo impegnato, ma anche diffuso, citizen, come si dice in gergo.

La linea editoriale è spiegata così: “Si batterà contro il conformismo, darà voce ai giovani, farà emergere il pensiero diverso e la parte dimenticata della società, affermerà i diritti di tutti contro i privilegi di pochi”. Il gruppo di lavoro sarà composto da una redazione centrale, una sparsa nella penisola e da una “rete di opinionisti”. E fin qui, tutto nella norma. 

La novità, rispetto al Santoro dell’ultimo decennio, produttore di trasmissioni multipiattaforma finanziate anche con il crowdfunding (“Servizio pubblico”, “Anno uno”), è che questa volta il vecchio mattatore chiama all’appello non soltanto “aspiranti reporter, videoreporter, videomaker”, ma pure “influencer e socialmedia manager”, le figure digitali che fanno concorrenza ai giornalisti soprattutto nell’audience under 40.

L’invito è rivolto a tutti coloro, incluso chi non abbia nessuna esperienza professionale, che mastichi normalmente il “linguaggio del web”, nutra “amore per le immagini (anche realizzate col solo uso del telefono)” e la “voglia di impegnarsi di un’avventura nuova, di ribellarsi” nonché, utopisticamente, “cambiare il mondo”. Entro domenica 4 settembre chi desiderasse proporsi può inviare una email di candidatura. 

Nell’intervista in cui parlava del partito dei sogni, Santoro dichiarava che a parteciparvi sarebbe stato anzitutto “chi ha partecipato alla serata Pace proibita al teatro Ghione”. Il 2 maggio scorso a Roma si è svolto un happening teatral-giornalistico contro la guerra in Ucraina e le scelte filo-americane del governo Draghi, che lo statunitense Youtube ha tolto dalla circolazione adducendo non meglio specificate violazioni del diritto d’autore.

Presente il tradizionale parterre di artisti e analisti (Elio Germano, Sabina Guzzanti, Fiorella Mannoia, Ascanio Celestini, Moni Ovadia, Tomaso Montanari, Fabio Mini, Luciana Castellina, Vauro) appartenenti a quella sinistra pacifista che ha rotto i ponti con la ex sinistra del Pd, che Santoro considera ormai un “partito moderato, il più atlantista di tutti”. 

A chi lo accusa di essere diventato un “rossobruno”, ha risposto così: “Ma quale rossobruno, sono come Ciccio Ingrassia che in Amarcord sale sull'albero e dice ‘voglio una donna’, anche io vorrei salire e urlare: voglio un partito".

La sfida per l’impensionabile Santoro sarà duplice. Sul piano tecnico, dar vita a una voce che sappia amalgamare la sana e insostituibile tradizione, come l’inchiesta e il reportage fatti come solo un giornalista sa fare, con le formule dell’opinionismo online tipico degli influencer, che seguono la logica tutta commerciale del clickbaiting, delle sponsorizzazioni da parte dei brand, e quindi, inevitabilmente, dell’appiattimento e della banalizzazione.

Sotto il profilo latu sensu politico, se la lotta al “conformismo” e la battaglia per un pensiero “diverso” non sono da intendersi come espressioni vuote e generiche, lo sforzo potrebbe, anzi, diciamolo pure, dovrebbe incanalarsi verso l’uscita dai soliti giri da gauche vecchio stampo, nostalgica alla rovescia di un passato che non può tornare ma che purtroppo ancora non vuole passare. Largo ai giovani, dunque. Purché giovani di testa, e non solo all’anagrafe.

Il "Che Guevara" di Salerno, guru della tv e ras della politica. Per lui il giornalismo è una battaglia ideologica e viceversa. Come tutti i "martiri" di sinistra è pieno di soldi, fama e donne. Luigi Mascheroni l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.

San Michele, Santoro, Satyricon, Santa Rai, Saxa Rubra, Samarcanda, santi tutti. Orate ottime quelle del golfo di Salerno - pro nobis.

Per noi il santorismo dogmi: linciaggio mediatico, processo in absentia, autoglorificazione, drammaturgia televisiva e autoreferenzialità - è una religione mediatica, ideologica, apostolica, salernitana.

Salernitano, il sole in faccia e nel cuore lo scuorno del quartiere Mariconda («Quello è il vostro Vietnam», gli diceva nel 1970 Lino Jannuzzi), non credente, santo ateo, ma posseduto dal sacro fuoco della Verità, Nient'altro che la verità (Marsilio), intesa come informazione - ha detto di sé: «Quanto più Santoro c'è sui canali Rai, tanto è più libero il Paese» - Santoro, ecco la grande domanda, è simbolo del coraggio e della libertà di stampa o esempio di arroganza e di informazione di parte? Non è importante. I giornalisti come lui non danno risposte, scrivono la Storia.

La storia della televisione, a suo modo, Santoro più che giornalista o conduttore, un potente drammaturgo: le verità non le rivela, le mette in scena l'ha fatta. Fra tv pubblica, privata, satellitare, locale, di potere o come contropotere, al servizio di Berlusconi (Mediaset non olet) e soprattutto contro di lui, Santoro è il massimo esempio catodico di crossover tra politica, che traccia il solco, e il giornalismo, che la difende. Edoardo Sanguineti, uno dei suoi maestri all'Università di Salerno, laurea in Filosofia con 110 e lode con una tesi sui Quaderni del carcere di Gramsci, fu il primo a tentare di dissuaderlo: «Hai buone capacità. Diventa ricercatore; ma devi lasciare tutto quello che fai per dedicarti allo studio». Ma lui, gramscianamente, rispose: «Non posso. La politica è più importante».

Padre-padrone della tv di lotta e di opposizione, figlio di un ferroviere «Ma quale epurato. È gran figlio di buona donna» (Marco Pannella) - ras intellettuale della città fin dal liceo (a Salerno, nel suo piccolo, era adorato da legioni di fan: al suo esame di maturità andarono centinaia di persone: l'aula come uno studio tv), anarchico, barricadiero, femmenièro già allora con una predilezione per le bionde, poi verranno le Beatrice Borromeo, le Giulia Innocenzi, le Margherita Granbassi letture disordinate che oscillano tra Karl Marx e la Beat Generation, Michele Santoro, sublimando la politica con il giornalismo, e viceversa, muove i primi passi militanti nella testata Servire il popolo, di ispirazione maoista da cui forse - la propensione per il culto della personalità e, anni dopo, il soprannome da dittatore rumeno: «Santorescu». Come ricordò a se stesso una volta: «Ogni comunista ha sempre la terribile presunzione di stare dalla parte della verità».

La verità è che anche tra i maoisti è considerato un eterodosso troppo borghese e un eretico nel Pci, di cui pure dirige la rivista fiancheggiatrice La voce della Campania. Già ai tempi di Achille Occhetto, in fondo, Santoro auspicava la nascita del «partito che non c'è». E, pensando a oggi, campagna elettorale 2022, non cambia mai nulla sotto il sol dell'avvenire... Comunque poi Beppe Vacca, il consigliere Pci della Rai - perché la Sinistra resta una grande famiglia, di cui la Rai è una Mamma gelosa - ne impone l'assunzione a Viale Mazzini, nel 1981. Il debutto in video è a Samarcanda, talk show di una stagione politica tumultuosa, fra la caduta del Muro, Tangentopoli e le stragi mafiose del '92, e nascita della stella rossa Michele Santoro. Da allora, trent'anni e quinto potere, il teleschermo è il suo campo di battaglia, fra trionfi e débâcle: «Sono come Che Guevara: vado, colpisco e ritorno».

Andate e ritorni, rentrée e buonuscite, talento indiscutibile, ego incontenibile («Nella storia della Rai io sono stato quello che ha spostato sempre più avanti il confine della libertà»), vanitoso («Ma no, al più presuntuoso»), profondamente di sinistra, tranne nei suoi interessi, professionalmente di destra, visto il suo machismo da Conducator, una meritoria attività di formazione professionale dei giovani cronisti (figli puri e spuri come Corrado Formigli, Riccardo Iacona, la Costamagna e Sandro Ruotolo, il più sgangherato dei Sancho Panza laddove lui è un Don Chisciotte sovrappeso) Michele Santoro ha scanalato l'intero palinsesto da una rete all'altra cercando sempre il gol, che in tv si dice share.

Cose da ricordare. Il rosso e il nero (1992), Moby Dick su Italia Uno quando Berlusconi che era già il Mostro di Arcore («A Mediaset mi facevano sentire un re...»), Sciuscià, Il raggio verde; il sudato ritorno nello show di Celentano Rockpolitik (2005), studio allestito in un capannone di Brugherio, hinterland milanese ma di nuovo al centro della televisione, e nel grido di quella sera - «Rivoglio il mio microfono. Viva la libertà!» - c'è tutto Santoro: lo showman, il fazioso, l'arruffapopoli, il giornalista e il politico. Annozero, che ne dura cinque, dal 2006 al 2011: debutto con capello biondo choc e buone critiche, a parte Giuliano Ferrara: «Mi sono addormentato dopo dieci minuti». E a sera in cui, 10 gennaio 2013, Servizio pubblico, Santoro e Travaglio andarono per spazzolare Berlusconi e finirono spazzolati.

Cose da dimenticare. Certi ospiti di bandiera sui quali francamente non valeva la pena intestardirsi: Leoluca Orlando, Luttazzi, Massimo Ciancimino, Patrizia D'Addario, Rula Jebreal L'editto bulgaro, 2002, nemesi e cortocircuito della sovrapposizione fra politica e giornalismo; il seggio al Parlamento europeo (come indipendente, perché l'informazione è sempre indipendente, ma nella lista dell'Ulivo, perché il Bene è sempre a Sinistra), vissuto come una prigione. Il Servizio pubblico a La7 che però non è mai il servizio pubblico della Rai.

E del resto in Rai, una mamma che accoglie sempre i suoi figli, si può comunque ritornare.

Oggi Michele Santoro, 71 anni, due matrimoni, una figlia, casa ai Parioli e villa ad Amalfi, frazione Lone, proprio copp 'o mare, profumo di limoni e di condono edilizio, sessualità eclettica, narcisismo spavaldo, riccioli in via di diradamento, un po' imbolsito, è tornato. Il berlusconismo gli fa sempre schifo, ma ha capito che l'antiberlusconismo di ritorno è persino peggio.

Certo, Santoro e capelli d'argento, non è più il telepredicatore che spaccava l'opinione pubblica - e spesso anche qualcos'altro - fra adoratori e detrattori, il campione del ribellismo plebeo e dello show militante, l'ultimo a condurre un vero talk, quando la scenografia faceva parte della narrazione, quando il pubblico non applaudiva a comando (e i figuranti se li tenga pure Floris), quando gli ascolti erano da record ed era lì, chez Santoro, che accadevano le cose e si faceva il dibattito. Oggi i talk show partono da quello che hanno scritto i giornali, allora i giornali si scrivevano a partire da quello che si diceva in tv. E in tutto questo, senza sapere se è un bene o un male, da grande professionista della demagogia mediatica, Santoro ha pesato molto. Lui non si limitava a dettare l'ordine del giorno al dibattito pubblico, lui riusciva a essere l'ordine del giorno del dibattito pubblico. E forse aveva ragione Bruno Vespa, il suo miglior nemico: «Santoro si è fottuto per il suo delirio di onnipotenza».

E così, non potendo più fare televisione, Santoro torna alla politica. Lancia un nuovo partito, che non c'è, e il problema è che seguiranno voti che non esistono. «Hannozero». Michele chi? Sì, sempre lui.

·        Michele Serra.

Caro Michele Serra, sei diventato un orrendo trombone. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, il 29 Settembre 2022 

Caro Michele Serra,

io me la ricordo, quella festa di Cuore. Quella della tromba d’aria. Spazzò via all’improvviso il campeggio di Montecchio Emilia sradicando alberi centenari del Parco Enza.  Giù, come stuzzicadenti. S’abbatterono su decine di tende forse vuote. La rovina roboante di quei tronchi secolari maestosi fracassati al suolo ci fece schizzare fuori dalle nostre tende lì vicino, risparmiate dallo schianto. Noi, pischelli adolescenti ed esili. Noi minorenni. Noi liceali. Noi “zecche” cuoriste dai quattro angoli dello Stivale. Noi. Senza pensarci troppo su, abbassammo le cerniere lampo delle nostre sconquassande canadesi per eiettarci nel mezzo della tempesta sotto le secchiate di pioggia. A cercare di sollevare, tutti insieme, quel tronco pesante qualche quintale, nella frenesia e allarme che sotto quel peso infame, dentro le tende divelte a terra, ci potessero essere non solo zaini, zaini e ancora zaini, ma anche qualche coetaneo o coetanea altrettanto imbibiti di terrore.

Mi ricordo di quella festa di Cuore, caro Michele, e all’epoca tu eri Il Direttore. Direttore del settimanale di Resistenza Umana per eccellenza, quello che era nato come costola de l’Unità, per poi vivere di vita propria, felice ed eccellente di prime pagine rimaste nella storia del giornalismo e della satira nazionale. Una per tutti: “Scatta l’ora legale: panico fra i Socialisti”. La tromba d’aria arrivò come ultimo atto di quella che oggi chiameremmo “bomba d’acqua”, ma nei primi anni Novanta dicevamo ancora “un temporale della Madonna“. Nel giro di poche mezzore si riunì in seduta straordinaria il Consiglio comunale della città di Montecchio Emilia.

In capo a un’ora, nemmeno due, ci vennero a prendere con gli scuolabus dal Parco Enza per trasferirci, corpi e zaini marci, nella scuola elementare di Montecchio, paesino del reggiano di qualche migliaio di residenti comunisti. Prima di sera, eravamo tutti accampati — ormai asciutti — sui pavimenti della palestra di quell’istituto, e addirittura il sindaco ordinò l’accensione dei termosifoni. Mi ricordo di questo dettaglio perché era il luglio del 1992, Michele, e nella mia scuola statale di Roma i termosifoni a scuola non li accendevano nemmeno a gennaio. E per farlo occorrevano scioperi e proteste. Forse esagero, sai com’è la memoria, ma concedimi l’iperbole. Intanto, il mattino dopo, al Parco Enza ormai baciato dal sole, un caterpillar seminava gioioso ghiaia asciutta sopra la poltiglia di pozzanghere fango e acqua. Nemmeno in Svizzera, pensammo sospirando noi Giovani Progressisti romani.

Sono passati tre decenni da allora, Michele. Io non sono più un tardoadolescente e tu non sei più un “giovane” diretur quarantenne. Oggi io sono un uomo di quasi cinquant’anni e tu sei entrato a tutti gli effetti nella terza età propria degli over 65. Che tu ci creda o no, siamo rimasti tutti e due di sinistra, caro Michele. Io però ho l’impressione di essere rimasto sempre fedele ai miei ideali di progressismo socialista-liberale, come da pischello, mentre tu sei  diventato un vecchio trombone, reazionario e conservatore nel modo in cui descrivi negativamente tutto ciò che non comprendi più ed esce fuori dalla tua routine, dalla tua area di comfort.

E’ questa l’impressione che ho derivato quando ieri ho letto la tua ennesima, indegna “amaca” intitolata “Ora i Paragone sono due”. Non è mica la prima volta che interpreti con strumenti novecenteschi fenomeni politici post-moderni e post-ideologici di cui non ti dai conto, caro Michele. Un po’ come chiedere a mio nonno di indicarmi la strada usando Waze (Miché: è l’app che fa le veci di Google Maps da qualche anno) anziché il suo spiegazzato e fedele Tuttocittà.

Ma questa volta hai fatto qualcosa di più e di peggio, Michele. Non posso scusarti col fatto che sei dentro all’ennesimo lutto pubblico dell’uomo di sinistra che ha perso ancora un’altra elezione politica, e quindi sragioni. No, non posso. La convinzione di essere sempre la parte migliore e “giusta” del Paese, perennemente incompresa, contro le scelte democratiche delle invasioni barbariche (film quebecchese che sono certo tu abbia visto, ma forse hai già troppo presto dimenticato: rimediare).

E’ vero che a essere onesti sono tre buoni decenni che non comprendi i fenomeni politici che ti circondano: hai trasformato in mera Banda Bassotti il craxismo, in barbaro razzismo il leghismo, in macchietta il berlusconismo. Non hai afferrato il populismo industrialesco del salvinismo, poi quello più volgare e più diffuso dei Cinquestelle. Ti ha spiazzato il riformismo laico e civile di Renzi (che pure a un certo punto ti sei sorpreso a sostenere e votare, almeno finché era in ecclesia plena salus, da bravo piccì coi paraocchi) e ora ti vedo sperduto dinanzi alle masse popolari di ogni età e condizione sociale che — dalle periferie, “dai campi e dalle officine” — votano per la prima donna premier della storia della Repubblica e del Regno: Giorgia Meloni. Percepisco il tuo stordimento, Michele, lo dico con affetto. Una donna politica di Destra e non femminista che brucia le tappe e coglie un record di genere che mai nessuna donna di sinistra ha potuto accarezzare.

Ma quando scrivi di quei circa due milioni e duecentomila elettori italiani che hanno votato per Renzi e Calenda sono elitari e ininfluenti, e riduci quel 17,6% preso fra gli elettori al primo voto come “i giovani dei bar del centro”, mostrando tutta la tua piccineria provincialotta da milanese acquisito e imbruttito, mi susciti un sentimento di ribellione. Michele, ma da quant’è che il PCI o come si chiama oggi (vedasi ultime riflessioni del sempreministro Andrea Orlando) non prende la maggioranza dei voti degli elettori nella fascia 18-24 anni? Credo ci fosse ancora in vetrina la Fiat 131, l’ultima volta che accadde.

Ebbene, all’alleanza Azione-Italia Viva questo risultato è riuscito alla sua prima prova politica nazionale. Il 17,6% degli elettori più giovani si è fidato e ha condiviso il programma e la classe dirigente proposta da Carlo Calenda e Matteo Renzi. Forse perché proponevano poco ma fattibile, rispetto agli altri. Forse perché sono i veri artefici del governo Draghi e della famosa Agenda Draghi (che esiste, eccome se esiste: basta leggere il PNRR scritto dall’ex capo della BCE).

Forse perché erano gli unici a tenere in conto i bisogni e le urgenze di chi non è interessato a pre-pensionare nessuno, perché la sua pensione, di questo passo, non l’avrà mai. O magari perché quei giovani — come penserai tu, da bravo reazionario agée — sono ingenui e giuggioloni. Si sono fatti abbindolare da quelli che per te sono due parvenu della politica, uno dei due addirittura in salsa araba assai speziata. Chissà. Eppure non è male riuscire a farsi votare dai più giovani, se fai politica. A maggior ragione se non ti fai latore di un messaggio da estremista anti-sistema, ma risulti comunque radicale nelle idee e nella visione.

Il punto è che tu, per una stagione felice, a noi giovani invece ci hai capito. Ci hai colto. Cos’altro era Cuore e le sue feste, se non un fenomeno soprattutto generazionale, ma anche inter-generazionale? Una roba fresca, fuori dagli schemi, un po’ matta, felice, originale, sperimentale. Così come lo era lo stile satirico del tuo giornale, inventato quando tu eri giovane dentro, e i fenomeni nuovi non ti facevano inorridire, ma ti incuriosivano. Ecco cosa hai perso, Michele, in tutti questi anni: hai perso la capacità di provare curiosità per ciò che non capisci.

Non sto qui a farti la difesa d’ufficio di Carlo Calenda, che tu descrivi in modo un po’ meschino come “redentore mancato” e di Matteo Renzi, che senza un’oncia di originalità collochi in Arabia come se l’Arabia Saudita di oggi fosse un Paese più infame dell’Urss dei gulag, della Russia di Putin, dell’Iran teocratico, della Cina fintocomunista o della Nord Corea con tanto di stella, falce e martello e pettinatura obbligatoria: tutti Paesi con cui diversi politici incorniciati nel tuo Pantheon hanno sguazzato prima, dopo e durante i linciaggi etnici, omofobici e misogini.

Io, del tuo ragionamento di ieri, difendo intanto gli Ugo La Malfa e Malagodi, che tu releghi a ruoli ancillari e ininfluenti dimostrando per l’ennesima volta di non aver capito un ette nemmeno della politica della Prima Repubblica.

E soprattutto difendo quei militanti e simpatizzanti ed elettori giovani e giovanissimi che hanno preferito, come me, la visione e le idee di Calenda e Renzi. Sono la generazione dei miei studenti liceali ed ex studenti: hanno familiarità col pensiero politico di Emilio Lussu o dei fratelli Rosselli. Conoscono ciò che disse Calamandrei sulla centralità della Scuola pubblica. Ricordano le topiche di Ugo La Malfa sui danni della tv a colori, ma sanno anche della bontà della politica dei redditi del fu PRI. 

Sono giovani che interpretano il termine “meritocrazia” in modo positivo, con buona pace delle minchiate sesquipedali sparate dalla intellò kakistocratica Federica d’Alessio. Vorrebbero vedere quel principio della meritocrazia applicato anzitutto a noi docenti di scuola pubblica e d’università, come il dato seminale da cui partire per una riforma di questa sgangherata pubblica istruzione che ha subìto non solo troppe riforme, ma troppo contraddittorie fra loro. Una scuola pubblica che ancora oggi — fattelo dire — di “aziendale” non ha nulla. Infatti non assume i suoi lavoratori-docenti in modo diretto o per le loro competenze, e non li può licenziare.

Noi docenti siamo cooptati soprattutto in quanto mamme maritate e con prole (un dottorato vale 5 punti, ma un coniuge ne vale 6, come un figlio, e di figli se ne possano fare n), possibilmente residenti nei dintorni degli istituti, e pagandoci una fame. Perché con la più parte delle donne, finora, questo si è sempre potuto fare. Ecco, tu con la tua amaca hai mancato di rispetto a quei giovani elettori italiani. E’ per questo che, stavolta, ho deciso di dirti basta. Fassbinder diceva che “ciò che non siamo in grado di cambiare, dobbiamo almeno descriverlo”. Ma se non lo capisci più, Michele, puoi anche evitare di descriverlo.

·        Milo Infante.

Milo Infante e il caso Denise Pipitone: «Io querelato per diffamazione, non è così che si cerca Denise». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2022.

Il giornalista ha sempre tenuto i fari accesi sulla bambina di quattro anni di Mazara del Vallo sparita il primo settembre del 2004. 

«I pm di Marsala hanno presentato una querela per diffamazione aggravata non solo nei miei confronti, ma anche nei confronti di altri colleghi. Penso che sia lecito domandarsi se non farebbero meglio a utilizzare il loro tempo diversamente». L’umore di Milo Infante è tra l’amareggiato, il sorpreso e l’indignato. La presunta diffamazione riguarda il caso di Denise Pipitone, la bambina di quattro anni di Mazara del Vallo sparita il primo settembre del 2004, una vicenda su cui il giornalista ha sempre tenuto i fari accesi (nei mesi scorsi ha condotto anche uno speciale in tre puntate su Rai2).

Per competenza territoriale quando ci sono dei magistrati tra le parti offese o tra gli indagati ad occuparsene è un’altra Procura. In questo caso quella di Caltanissetta. Per questo la Procura di Marsala nega...

«Infatti non ho mai detto di essere indagato dalla Procura di Marsala (Trapani), come ha scritto qualcuno. Io sono stato raggiunto da un avviso di garanzia dalla Procura di Caltanissetta con l’accusa di diffamazione, per giunta aggravata. Quindi, da Marsala non può essere arrivata nessuna smentita, perché io non ho mai detto di essere indagato da quella Procura».

Al netto dei cavilli, cosa è successo?

«Al momento sto aspettando che mi arrivino le carte. Sono sereno e tranquillo di non aver detto niente di diffamatorio; se la diffamazione consiste nel criticare delle indagini aperte e chiuse a tempo di record, allora sono colpevole. Ma lo direi di nuovo».

Perché l’hanno querelata?

«Perché in Italia c’è il reato di lesa maestà. Quando mi rinvieranno a giudizio — e con la querela di un magistrato il rinvio a giudizio è scontato —, quando leggerò le carte, scoprirò cosa ho detto di così diffamatorio nei confronti della procura di Marsala. I giornalisti sono i cani da guardia del potere e la magistratura rappresenta un potere dello Stato. Se volete i giornalisti adoranti e che battono le mani ogni volta che arrestate qualcuno fate pure... Io penso che quando lo Stato fallisce non potete chiederci di dirvi che siete stati bravi».

Lei accusa chi ha indagato...

«È un dato di fatto: le indagini sono state fatte male nel corso degli anni. Gli errori più gravi sono stati commessi nelle prime due settimane. Non tutti sanno che, appena scomparsa Denise, intorno a Mazzara non hanno fatto i posti di blocco per sei giorni: invece di chiudere il paese lo hanno lasciato aperto, poteva entrare e uscire chiunque».

La recente archiviazione disposta dal gip su richiesta della Procura di Marsala invece che significato ha?

«Questa archiviazione significa che lo Stato si è fermato, che Denise è sparita e amen, dobbiamo farcene una ragione. Il caso di Denise Pipitone è uno dei più grandi fallimenti della giustizia italiana, per 17 anni e mezzo hanno fatto finta o cercato male una bambina che è stata rapita. E ora la tua preoccupazione è querelare i giornalisti? Questa è la mia amarezza. Non è così che si cerca Denise».

Lei a ricevuto la solidarietà di Piera Maggio, la mamma di Denise.

«La sua forte sensazione è che ci sia la volontà di far cadere nuovamente tutto nell’oblio. “Coloro che cercano la verità su Denise pare che in qualche modo vengano ostacolati. Mi fanno terra bruciata intorno”, ha detto. E la capisco».

Tra i tanti casi di cronaca, perché ha scelto di occuparsi a fondo di questo?

«Ho seguito questa vicenda fin dal primo giorno, ero in diretta con l’Italia sul 2 e per 17 anni sono stato accanto a Piera Maggio e Piero Pulizzi in questo calvario, in questo ergastolo di dolore in cui sono stati condannati. Denise non è un caso mediatico, è una bambina che è scomparsa. È meglio perdere un figlio e morire di dolore perché tuo figlio non c’è più piuttosto che vivere nel costante pensiero quotidiano della domanda: dove è mia figlia?».

Con Piera Maggio si è creato un legame speciale...

«Nel giorno dello scorso Natale abbiamo pranzato tutti insieme, con le nostre famiglie, c’era anche Kevin, il fratello di Denise. È una vicenda intima che racconto ora solo per far capire il legame che c’è con loro. Pierà è vittima di un’ingiustizia, di uno dei reati più odiosi: andare a letto con il pensiero fiso di non sapere dove è Denise è un dolore che non si attutisce mai. Ma lo Stato italiano non si sente in debito nei confronti di Piera Maggio?».

E ora che farà?

«Io mi occuperò del caso di Denise più di prima. È adesso che si sono spenti i riflettori che Piera Maggio e Piero Pulizzi hanno ancora più bisogno che qualcuno se ne occupi. Perché oggi Denise non la cerca nessuno».

Fabio Amendolara per “La Verità” il 20 aprile 2022.

«In questa storia sulla graticola ci finiscono sempre quelli che Denise Pipitone l'hanno cercata con tutte le forze e mi riferisco a ex pm, giornalisti e non solo», denuncia alla Verità Milo Infante, conduttore della trasmissione Ore 14, che va in onda su Rai 2 e che da tempo si occupa della scomparsa di Denise, la bimba di Mazara del Vallo scomparsa nel 2004. Il giornalista sente di essere finito nel grande calderone degli indagati che, in qualche modo, hanno toccato una delle storie più controverse della cronaca italiana da quando ha ricevuto un avviso di garanzia dalla Procura di Caltanissetta. 

E, così, il 16 marzo ha postato sul suo profilo Instagram la foto del documento giudiziario appena notificato, accompagnandola con un post in cui ha ricordato a tutti: «Se qualcuno pensa che sia sufficiente per fermarci sbaglia. Continueremo a cercare Denise [...]. Denise va cercata, non archiviata».

Ieri, deputati e senatori Lega in Vigilanza Rai si sono schierati con il giornalista: «Pur rispettando il lavoro delle Procure, riteniamo che sarebbe più utile indagare sulla scomparsa di Denis Pipitone, piuttosto che sui giornalisti coraggiosi e ostinati che non vogliono lasciare aperta questa drammatica ferita italiana». 

E hanno sottolineato che «l'ennesimo procedimento per diffamazione contro i giornalisti rischia solo di essere interpretato come un tentativo di tappare la bocca alla libertà di stampa». Ma la questione si è ingarbugliata ancora di più proprio ieri mattina, quando sulle agenzie di stampa è comparsa la notizia, rilanciata subito dai siti web dei giornali della vulgata, che la Procura di Marsala, titolare dell'inchiesta sulla scomparsa di Denise, smentiva Infante, precisando «di non aver mai inviato alcuna comunicazione giudiziaria» al giornalista. 

Cosa c'entra questa smentita della Procura di Marsala?

«Io non ho mai detto o scritto che a indagarmi era la Procura di Marsala. Basta fare questo mestiere da più di tre giorni per capire che, se a indagare è un'altra Procura, è perché chi ha querelato è un magistrato (la Procura di Caltanissetta, infatti, è competente nei procedimenti che coinvolgono i magistrati del distretto della Corte d'appello di Palermo, al quale appartiene la Procura di Marsala, nda). Ai colleghi esperti in veline e copia e incolla mi sento di dire che bastava fare domande per ottenere delle risposte.

Queste sono fake news che non fanno bene al giornalismo. Alcuni colleghi in questa vicenda hanno dato ancora una volta prova di superficialità». 

Mettiamo un po' di ordine su come si sono svolti i fatti.

«Il 16 marzo ho reso noto, non in trasmissione, ma in modo privato (tramite il profilo Instagram, nda) di essere indagato. Successivamente, il 29 marzo, durante la trasmissione che conduco, il giornalista Angelo Maria Perrino, che era ospite, ha alzato la mano e ha detto «mi hanno indagato a Caltanissetta per la vicenda di Denise Pipitone».

A quel punto io, ma anche un altro collega che era in studio, abbiamo detto: «Siamo indagati anche noi». Quindi, nessun mistero. E mi sembra tutto anche molto lineare. Nessuno di noi ha mai parlato di Marsala, anche perché non è facile sbagliarsi. È scritto sull'avviso di garanzia che mi è stato notificato che a indagare è Caltanissetta». 

Ma visto che sembra tutto così semplice, come si è creato il cortocircuito sulla Procura di Marsala? È una costruzione?

«La notizia della smentita da parte della Procura di Marsala credo sia semplicemente frutto di cattivo giornalismo. Anche perché, non c'è nulla da smentire. Si tratta di una notizia sbagliata e approssimativa».

Per quale reato si procede?

«L'ipotesi è di diffamazione, peraltro aggravata. Detto questo, devo precisare di non avere mai fatto una critica ai magistrati di Marsala. Ho solo chiesto che si occupino di ritrovare la piccola Denise Pipitone». 

Chi si è sentito chiamato in causa?

«Diciamo che qualcuno si è sentito toccato, ma d'altra parte è un diritto quello di querelare. Il motivo specifico della querela, al momento, non lo conosco, però posso dire che proprio non riesco a vedere su cosa potrebbe reggersi la diffamazione che mi viene contestata. Bisognerà capire. 

Ma, ripeto, ci sono diversi giornalisti, ospiti del mio programma, indagati a Caltanissetta. E resta il fatto che Denise bisognerebbe cercarla invece di utilizzare il tempo delle Procure per denunciare e cercare di colpire chi da sempre tiene un faro acceso».

Quali sono le puntate incriminate? E perché?

«Le trasmissioni sono quelle successive all'ultima richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Marsala. E, appunto, voglio ricordare che proprio quella richiesta di archiviazione, in più di un passaggio, appare come un atto d'accusa nei confronti della stampa. 

Questo lo posso affermare a gran voce e nessuno può dire il contrario. Si fa riferimento all'invadenza delle televisioni e all'invasione di campo da parte dei giornali». 

I pm, stando a quanto riportano i quotidiani, hanno lamentato che «l'influenza dei media è a tale punto che essi non si limitano a raccontare gli eventi, piuttosto, spesso, in una gara a chi arriva prima tra diverse testate giornalistiche, a provocarli. E tali eventi hanno pure una sgradevole referenza sulle indagini in corso».

«Bisogna cercarla, questa bambina. Se volete la gente che applaude ogni volta che fate degli arresti, questo non è il nostro tipo di giornalismo. Finché non troveranno Denise, noi continueremo a dire che devono cercarla. 

Ovviamente non devono dare conto solo a noi, bisogna dare risposte concrete ai genitori, che lottano da soli in questa vicenda. La cosa davvero grave è che Denise non la sta cercando nessuno. In compenso abbiamo i giornalisti querelati per diffamazione». Proprio il 16 marzo, però, avete incassato la solidarietà di Piera Maggio, la mamma di Denise. «Certo, lamentando il sospetto che qualcuno voglia far cadere nuovamente tutto nell'oblio e anche che le stavano facendo terra bruciata intorno». 

Denise Pipitone, chi indaga sul giornalista Milo Infante. Lo sfogo sui social: continueremo a cercare. Il Tempo il 19 aprile 2022

Diventa un caso l'indagine a carico di Milo Infante, giornalista e conduttore del programma di Raidue "Ore 14", nell'ambito della storia giudiziaria della sparizione di Denise Pipitone, la bimba di Mazara del Vallo scomparsa nel nulla il primo settembre 2004. Infante su Instagram ha mostrato il dettaglio di un atto giudiziario  accusando: "I giudici indagano chi Denise l’ha cercata con tutte le forze. Giornalisti, ex pm, e non solo... Se qualcuno pensa che sia sufficiente per fermarci sbaglia. Continueremo a cercare Denise. Entro la fine della settimana avremo comunque risposte anche sulla Commissione di inchiesta. Denise va cercata, non archiviata".

Infante nel suo post si diceva in attesa delle conclusioni della commissione parlamentare sulla scomparsa di Denise, ma anche in questo caso le notizie non sono confortanti. A quanto risulta l'organismo parlamentare non sarà costituito. 

Intanto la madre di Denise Pipitone, Piera Maggio, ha diffuso sui social un codice QR che rimanda direttamente sulla pagina web in cui ci sono tutte le informazioni necessarie che riguardano il caso. "Se vuoi, fai stampare dal tipografo un adesivo oppure un adesivo magnetico da applicare sulla vetrata del tuo esercizio commerciale, sulla porta, sull’auto, sul tuo furgone, camper o camion. Salva l’immagine e diffondila anche attraverso WhatsApp, Telegram etc, anche all’estero", è il messaggio che lancia la donna, aggiungendo: "Coloro che hanno rapito Denise, hanno eluso la giustizia italiana. Alcuni ci sono caduti in pieno inconsapevolmente, altri per volontà propria e altrui. Tutto questo, oltre a noi, rimarrà una vergogna indelebile nella memoria di molti italiani. È dura, ma andremo avanti nella ricerca della verità e giustizia per Denise, come abbiamo sempre fatto!".

La donna si era opposta all’archiviazione della nuova indagine che vedeva indagate quattro persone: l’ex moglie del padre naturale di Denise, Anna Corona, che rispondeva di sequestro di persona; Giuseppe Della Chiave e due testimoni accusati di false informazioni al pm.

·        Mimosa Martini.

Mimosa Martini: "Io sono senza lavoro e intanto Giletti...". Ricordate il volto del TG5? Perché ora è a casa: bordata su Non è l'arena. Libero Quotidiano il 28 febbraio 2022.

"E io sono senza lavoro. Però ve li meritate questi, ve li meritate tutti." Così la giornalista Mimosa Martini, ex Tg5, replica su Twitter polemicamente ad un servizio del programma di La7, Non è l'arena condotto da Massimo Giletti, Nel servizio del talk di GiIetti si chiede domanda a una ragazza rifugiata nella metropolitanadi Kiev: "Se arrivano i russi ed entrano nella metropolitana, cosa diresti a un soldato guardandolo negli occhi?". 

Furibonda la reazione anche via social della Martini contro la trasmissione di Giletti e un certo tipo di fare giornalismo che spesso è chiamato la tv del dolore. La Martini per trent'anni è stata inviata di politica internazionale soprattutto per Mediaset, è stato poi trasferita a Cologno Monzese e non lo ha accettato di buon grado.

Verso la fine del 2020 aveva così deciso di pubblicare sui social il suo curriculum. Scrivendo: "#cerco lavoro", e a seguire le competenze acquisite in tanti anni di mestiere. Massima trasparenza. Una domanda altrettanto semplice: "Qualcuno può avere bisogno delle mie competenze? Mi date una mano?".  Ricevendo una marea di riposte non sempre piacevoli. Adesso questa nuova presa di posizione con un certo modo di raccontare le notizie che, secondo Mimosa Martini, è molto lontano da quello che ha sempre fatto lei. La replica di Giletti non è arrivata ancora. Chissà se ci sarà un seguito a queste critiche della giornalista.

·        Monica Setta.

Monica Setta pronta al ritorno con Generazione Z: «I miei ragazzi? Sono giudici severissimi». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 16 Agosto 2022.

La conduttrice dal 5 settembre sarà di nuovo alla guida della trasmissione radio «Il sorpasso» per poi riprendere con «Unomattina in famiglia» e lo show dedicato ai giovani. 

I progetti, così come gli impegni, non le mancano mai. La passione di Monica Setta si trasforma così nell’entusiasmo con cui la giornalista si prepara ad affrontare una nuova stagione fitta di appuntamenti. «Il 5 settembre tornerò in onda su Isoradio con Il sorpasso (tutte le sere dalle 20), mentre il 17 sarà la volta di Unomattina in famiglia».

L’economia e la politica sono da sempre i temi a lei cari.

«E lo saranno anche quest’anno. La trasmissione radiofonica è stata ricondotta a testata giornalistica, quindi affronteremo l’attualità. Dovremmo iniziare con le interviste a Matteo Salvini e Elena Bonetti, salvo cambiamenti. Affronteremo le due grandi incognite degli italiani: la flat tax e la patrimoniale».

Ne parlerà anche a «Unomattina in famiglia»?

«Ritengo di sì, anche se non abbiamo ancora iniziato le riunioni. Il 4 ottobre poi sono molto felice di ripartire con Generazione Z».

Il programma inizialmente ha incontrato qualche difficoltà, non crede?

«C’è stata una partenza faticosissima, ma gli ascolti erano in linea con la media di Rai2. All’inizio avevamo provato a far dialogare i ragazzi con i politici: esperimento hard. Però c’è stata sempre la volontà di andare avanti: perfino nel contratto di servizio della Rai si dice che ci si deve occupare della generazione Z. Quindi si è scelto di cambiare collocazione, una seconda serata abbondante, per farne un programma formattizzato, scaricabile su RaiPlay».

Risultato?

«Dovevamo fare sei puntate e invece ne abbiamo fatte dieci, con ascolti molto buoni. E ora torniamo, quindi non ne sono felice, ma felicissima. Siamo stati antesignani dell’esplorazione di una generazione molto ampia, che comprende chi ha dagli 11 ai 24, 25 anni... ne fa parte anche mia figlia. Iniziare un programma ex novo è sempre una sfida. In più abbiamo scelto di occuparci dei ragazzi nel concreto, descrivendo la loro normalità invece di scegliere quello che fa notizia. Io sono un tramite: collego il loro mondo con quello degli adulti. Pur essendo esuberante, lì ho lavorato per sottrazione. Con Generazione Z è come se avessi tanti figli... è una cosa che mi piace, visto che se tornassi indietro ne farei almeno cinque».

Cosa le piacerebbe affrontare con loro?

«Vorrei parlare di lavoro, sottoponendo alle loro domande chi ce l’ha fatta. Penso a un nome come Brunello Cucinelli. Con me tornerà la psichiatra Laura Dalla Ragione, con cui abbiamo trattato temi come l’identità fluida o i disordini alimentari: serve grande competenza nel dare risposte, i ragazzi sono dei giudici severissimi».

Intervista i politici da anni: le capita mai di non credere a quello che le dicono?

«Sono vecchio stampo: faccio la cronista, divido i fatti dalle opinioni come mi ha insegnato Montanelli».

Però aveva espresso il suo appoggio a Draghi, no?

«È stata la prima volta e l’ho fatto perché lui non era un politico ma un banchiere: appoggiando lui non ti schieravi a destra o a sinistra ma piuttosto con un’idea di mondo».

DAGONEWS il 27 marzo 2022.

Come mai Piero Fassino ha ringraziato pubblicamente Monica Setta per il debutto su Raidue del programma (che non hanno visto nemmeno i parenti) Generazione Z, che vuole parlare ai giovani, ma senza giovani? 

Per rispondere a questa domanda bisogna tornare indietro a luglio del 2020, quando Monica Setta rilascia un’intervista a Chi di “Alfonsina la pazza” Signorini.

Raccontava la Setta: “Per un periodo mi è capitato di pensare a un secondo figlio. È un pensiero che ho avuto mentre frequentavo un uomo meraviglioso conosciuto a casa di Renata Ranieri. Parlo di un famoso politico che, durante la nostra relazione, era il segretario di un partito di sinistra molto importante“. 

Una relazione che Monica non aveva intenzione di vivere ma che alla fine l’ha “travolta”: “L’ho conosciuto sul finire della mia separazione e non le nascondo che in quel momento non ero ben disposta nei confronti dell’amore. La fine di quel matrimonio mi aveva fatto soffrire molto, eppure quell’uomo è stato in grado di riaccendere tutto”. 

E poi? “Ero coinvolta, come forse mai in tutta la mia vita, mentre lui lo è sempre stato meno, ed è proprio per questo motivo che, dopo diverso tempo passato assieme, è finito tutto. Non ho mai pensato alla professione e al suo potere, ma solo all’uomo. 

Avrebbe potuto aiutarmi in qualsiasi modo, ma non ho mai voluto commistioni di piani”. La storia ha fatto “un giro immenso e poi è tornata” ma senza lieto fine: “C’è stato un ritorno di fiamma nel 2017. Pensavo fosse la volta buona e invece proprio in quell’occasione mi ha consegnato una lettera assieme a dei fiori bianchi e a un romanzo di Dai Sijie. 

Nella lettera mi spiegava che per lui non era mai stato amore, ma che mi voleva bene e che ci sarebbe sempre stato. Un uomo sincero, perbene e affidabile, ma che da quel momento non ho mai più voluto vedere”.

Sarà mica Piero Fassino l’ex segretario del pd di cui parlava la Setta? Certo è che il tweet del politico di sinistra fa venire più di un dubbio. 

La Setta lo ha riportato nelle sue storie su Instagram con la musica di Ultimo Tango a Parigi. Un messaggio trasversale della serie “chi vuole intendere intenda”? 

Estratto dall'intervista di Alessio Poeta a Monica Setta, da ''Chi'' il 27 marzo 2022.  

(...) ''Per un periodo mi è capitato di pensare a un secondo figlio. È un pensiero che ho avuto mentre frequentavo un uomo meraviglioso conosciuto a casa di Renata Ranieri. Parlo di un famoso politico che, durante la nostra relazione, era il segretario di un partito di sinistra molto importante. L’ho conosciuto sul finire della mia separazione e non le nascondo che in quel momento non ero ben disposta nei confronti dell’amore. La fine di quel matrimonio mi aveva fatto soffrire molto, eppure quell’uomo è stato in grado di riaccendere tutto.

Ero coinvolta, come forse mai in tutta la mia vita, mentre lui lo è sempre stato meno, ed è proprio per questo motivo che, dopo diverso tempo passato assieme, è finito tutto. Non ho mai pensato alla professione e al suo potere, ma solo all’uomo. Avrebbe potuto aiutarmi in qualsiasi modo, ma non ho mai voluto commistioni di piani. 

C’è stato un ritorno di fiamma nel 2017. Pensavo fosse la volta buona e invece proprio in quell’occasione mi ha consegnato una lettera assieme a dei fiori bianchi e a un romanzo di Dai Sijie. Nella lettera mi spiegava che per lui non era mai stato amore, ma che mi voleva bene e che ci sarebbe sempre stato. Un uomo sincero, perbene e affidabile, ma che da quel momento non ho mai più voluto vedere''. (...) 

Su lei e Tiberio Timperi nessuno avrebbe mai scommesso...

«Io non sono amica di Tiberio: non ho il suo numero di telefono e non ci seguiamo sui social. Sarà forse per questo che andiamo così d’accordo?».

·        Natalia Aspesi.

Dal “Venerdì di Repubblica” il 6 maggio 2022.

Penso di riflettere il pensiero di molti lettori. Da tempo la sua rubrica allontanandosi dalle questioni di cuore tocca argomenti che talvolta sfociano nella politica. Già questa deriva è indice di mancanza di argomenti e capacità per continuare questa rubrica. Siamo governati da una coalizione di partiti eterogenei tra loro, accumunati solo dal desiderio di mantenere la poltrona, politici di bassa statura istituzionale, che non sono stati in grado neppure di eleggere un nuovo presidente della Repubblica.

I veri problemi da affrontare sono la disoccupazione giovanile, l'immigrazione, la sanità allo sfascio, l'Europa delle banche e dei grandi potentati che ci stanno stritolando e che già ci ha ridotto il potere di acquisto, e la mancata riforma di un sistema elettorale che garantisca un minimo di governabilità. 

Le sue risposte sono ipocritamente filogovernative e questo rende noiosamente scontata la sua rubrica che ha vissuto periodi migliori. Un ultimo appunto, come pretende di dare lezioni in materia di problemi di cuore, lei che avrebbe bisogno di ripetizioni in tali argomenti.

Risposta di Natalia Aspesi:

Dunque, ricapitoliamo. Queste pagine le fanno schifo: non le legga. Se si allontanano dalle questioni di cuore è perché, come lei, sempre meno gente scrive di cuore. Non capisco perché se lei, che non so chi sia, magari un 5 Stelle deluso, può parlare di politica in modo, mi perdoni, stile Facebook, non ne possa parlare io, che pur femmina quindi inferiore, ogni mattina si informa su testate anche straniere senza badare ai deliri dei social. Tutti voi brontoloni siete certi che sareste dei premier perfetti, ma basta la banalità delle vostre lamentele e dei suoi consigli per sbadigliare. 

Perché non si può essere filogovernativi? Io non lo sono quasi mai stata, adesso lo sono.

Perché Draghi almeno sa quel che sta succedendo, non difende la poltrona perché non prende lo stipendio, e in mezzo a un mare di mezzecalze ha fatto gestire con fermezza la pandemia e adesso sta con l'unica forza che ci può difendere, l'Europa. 

Quanto ai problemi di cuore, come tutti non ne so niente, si chiacchiera così, per consolarci, perché l'amore sarebbe il nostro pianeta felice, se mai si potesse raggiungerlo per sempre. Per il resto, se posso permettermi come si è permesso lei, un solo consiglio: non si abbandoni troppo al cattivo umore.

·        Nicola Porro.

"Vi spiego perché il Padreterno è liberale". Andrea Indini il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Esce in libreria per Piemme il nuovo libro di Nicola Porro, Il Padreterno è liberale. Un saggio su Antonio Martino e sulle idee liberali che non muoiono mai

"Va riscritto tutto quanto". A dirlo è Nicola Porro. Che non solo ce lo dice senza troppi giri di parole, lo dimostra pure concretamente, nei fatti. Per riuscire in questa impresa titanica si è ispirato ad uno dei più grandi collaboratori dell'economia del nostro giornale, Antonio Martino, e ha dato alla luce a Il Padreterno è liberale. Antonio Martino e le idee che non muoiono mai (Piemme, pagg. 208, euro 18,90). Porro e Martino si conoscevano bene, tanto che avevano pensato di scrivere un libro insieme. Avevano persino iniziato a lavorarci. Poi però, lo scorso 5 marzo, l'ex ministro è mancato e così il vice direttore de ilGiornale ci ha lavorato da solo dando alle stampe un lavoro che punta già ad essere una delle pietre miliari del pensiero liberale contemporaneo.

Nicola, da sempre la sinistra dipinge Gesù come una sorta di hippie. Ora ribalti tutto dicendo che il Padreterno è liberale. È un "conflitto generazionale" all'interno della Trinità o è arrivato il momento di riscrivere tutto?

"Era stato proprio Martino a spiegarmi che l'inizio e la fine di tutto, appunto il Padreterno, sono liberali. Colui che ha deciso tutti i dettagli della natura, e quindi anche come siamo fatti, avrebbe anche potuto decidere di farci incapaci di peccare. Cosa ci sarebbe voluto a infilare nell'uomo un piccolo chip orwelliano che ci vietava di non credere in Dio?"

Invece lui ci ha lasciato la libertà di scelta...

"Esattamente. Nell'atto più supremo della Sua creazione, il Padreterno ci ha lasciato il libero arbitrio. Che è esattamente il fondamento dei principi liberali: lasciare all'individuo la possibilità anche di sbagliare. Il vero punto del liberalismo, a differenza di altri sistemi, è che questo lascia all'individuo l'opportunità di essere responsabile di se stesso".

Oggi ti senti di vivere in un Paese liberale?

"In ogni periodo storico convivono tendenze liberali e illiberali. Valeva anche prima che nascesse il liberalismo. C'è sempre una faida all'interno delle società. La Cina del 1380 con i Ming era un Paese liberale, senza che ci fosse stata una Rivoluzione Francese o fosse stata scoperta l'America. L'Italia del Covid è un'Italia illiberale, nonostante ci fossero già state la Rivoluzione Francese e la scoperta dell'America. In tutto l'Occidente ci troviamo in una fase di restaurazione dei principi illiberali".

Che prospettiva vedi per le future generazioni?

"Ormai siamo assuefatti all'idea che lo Stato spenda soldi senza capire bene da dove escano. Si pensa sempre: 'Mettiamo 3, 4 o 5 miliardi qui, uno di là'. Ma si ragiona molto poco sul fatto che tutti questi denari provengano dalle tasche dei contribuenti. Vengono forniti allo Stato che poi decide, secondo la propria volontà, come spenderli. Pensare che lo Stato spenda meglio del privato è una delle tendenze restauratrici dell'illiberalismo nato negli anni Ottanta e che prosegue ancora oggi".

Dove ci sta portando questo modo di pensare?

"Aver reso più efficiente l'apparato pubblico ha anche reso più pericoloso l'uso da parte dello Stato dei nostri soldi. Negli anni Ottanta la palese inefficienza della macchina pubblica innervosiva i contribuenti. In quegli anni c'era, però, una tassazione molto ridotta. Oggi abbiamo il paradosso di una tassazione elevatissima e di una efficienza maggiore. Questa non è però una medicina ma una droga".

Come valuti l'ultima legge di Bilancio?

"Per farla il governo ha avuto pochissimi giorni e pochissimi tecnici da impiegare. Un governo che si insedia e in trenta giorni deve licenziare una legge di Bilancio, la prima risorsa che deve avere dopo i soldi - anzi, forse ancor prima dei soldi - sono le risorse umane per comprendere di cosa si sta parlando. Perché portare nella realtà un disegno politico è complicatissimo. È quello che in ambito manageriale potrebbe essere definito l'execution. Tutti possono avere buone idee, poi serve qualcuno che le traduca in realtà".

Si sono poi trovati a gestire un'emergenza energetica non da poco...

"E, infatti, lì hanno riversato il cuore della manovra".

Hanno anche messo mano al reddito di cittadinanza.

"Già Martino aveva criticato duramente il reddito. Ma le misure sbagliate vanno cancellate con gradualità. E così ha dovuto fare il governo. Purtroppo il danno che fa l'eroina va attutito nella sua astinenza".

Serviva una sorta di metadone?

"Esatto. In questo modo si sono iniziati a ridurre gli errori del passato. E questa è la parte positiva della manovra. Ci sono, però, diverse scivolate pesanti".

Quali?

"Le extra tassazioni sono una follia. Così come considerare ricchi coloro che incassano più di duemila euro al mese, soprattutto se sono pensionati. L'equità sociale si raggiunge non tanto intervenendo su chi viene considerato ricco, ma su chi percepisce assegni previdenziali per cui non sono stati pagati i contributi".

In certe scelte ci si è messa pure l'Unione europea. Lo abbiamo visto anche sul tetto al Pos...

"La cosa allucinante è che un Paese sovrano, come il nostro, che partecipa ad una comunità come quella europea, debba chiedere il permesso per definire il tetto entro cui usare o meno un mezzo di pagamento elettronico. Questo dà un senso della follia europea. Negli anni Ottanta raccontavamo che l'Europa decideva la curvatura delle banane. Oggi ha trasferito questa volontà di controllo dagli alimenti alla Finanza. È impressionante. Noi non ce ne rendiamo conto perché associamo la vicenda dei pos all'evasione fiscale, che già di per sé è una sciocchezza. Ma anche avvicinandola all'evasione fiscale, l'idea che si debba chiedere il permesso per il limite sul pos rende bene l'idea di cosa si occupi veramente l'Europa: di pos e banane e non di indipendenza energetica".

Torniamo a Martino. Come lo ricordi?

"Era una persona dotata di una signorilità non scontata. Viveva in un mondo raro. Uno di quelli che rinunciano al seggio perché non vogliono avere a che fare con i parlamenti. La sua unica ambizione era quella di rendere sempre più diffusa l'idea liberale".

C'è un insegnamento in particolare che ti ha lasciato e che vorresti regalare ai lettori del Giornale?

"Prima di tutto la capacità di rendere semplici e divertenti anche le cose più complicate. Poi il fatto che non bisognava litigare sui dettagli ma, allo stesso tempo, non si doveva abdicare ai propri principi. Ed è questo il motivo per cui non ha voluto fare il ministro dell'Economia. Se lo avesse fatto, avrebbe dovuto abdicare ai suoi principi. Invitato a ricevere un premio in una prestigiosa università, non si presentò e inviò una lettera. Disse che quel che più gli dava fastidio, prima di coloro che parlavano male di lui, era chi parlava bene della sua persona".

Oltre ad essere un liberale convinto, sei anche un ottimista convinto. Forse i due aspetti vanno di pari passo, ma sono sicuramente il fondamento della tua "Ripartenza". Cos'hai in serbo per il 2023?

"In media partnership con ilGiornale.it partirò il 19 gennaio con una 'Ripartenza' milanese a tema energetico. Poi rifarò la solita 'Ripartenza' di luglio, al Teatro Petruzzelli di Bari, sulle infrastrutture. Il mio ottimismo nasce anche dalla grande storia del nostro Paese. Vorrei citare un aneddoto recente, di un grande comandante della X Mas, Salvatore Todaro, che affondò una nave belga. Riuscì a farlo in maniera straordinaria, dal punto di vista militare. La nave aveva 15-20 superstiti che stavano morendo. E il capitano decise di salvarli tutti. Il generale tedesco, che era con lui, gli disse che, fosse stato per lui, li avrebbe lasciati annegare. Todaro gli rispose: 'La differenza tra me e te è che io ho duemila anni di storia'".

Nicola Porro, "quando mi cacciarono dalla Rai...": un impensabile retroscena. Libero Quotidiano il 09 luglio 2022

Nicola Porro a ruota libera. Il conduttore di Quarta Repubblica, programma in onda il lunedì sera su Rete 4, non nega le difficoltà di andare in onda con una concorrenza a dir poco spietata. E tutto nonostante i successi del suo programma. Non manca però chi nota una certa differenza di modi di fare tra il Porro sul web e quello in tv. "La Zuppa di Porro è nata sette anni fa.  È un appuntamento che rinnovo tutte le mattine. Per me è una valvola di sfogo, un transfert psicanalitico, un’operazione catartica. Butto fuori tutta la mia passione, che non definirei rabbia". Molti ironizzano sulla "doppia personalità", ma lui a TvBlog replica: "C’è davvero una parte di me che cerca di ascoltare le idee di tutti e un’altra che parla con la sua comunità. Nel secondo caso mi esprimo come si farebbe in famiglia. Chiunque mi conosca bene riconosce che a Quarta Repubblica c’è sì un taglio istituzionale, ma allo stesso tempo personale". 

Tanti gli ospiti che ogni settimana il giornalista porta in studio. Tutti tranne Enrico Letta. "L'ho invitato più volte e non è mai venuto - conferma per poi precisare -, ma penso per impegni già presi in precedenza. Non credo ci fossero motivi particolari". Quella di Porro è una lunga carriera. Difficile dimenticare la sua presenza in Rai, ad esempio ad Annozero. Qui - ricorda - si parlava spesso di Silvio Berlusconi: "Non c’è più un personaggio divisivo come Berlusconi. Santoro metteva in scena settimanalmente il dramma. Una situazione che non si è mai più ripetuta con altri politici". 

Infine l'addio a Viale Mazzini: "Quando mi cacciarono dalla Rai e da La7 fu meno grave per me che per qualcun altro. Io non ho mai vinto un premio giornalistico, spero di morire senza averne mai ricevuto uno, è una cosa che aborro. Tutto questo fa sì che io sia esterno a questo mondo". 

Nicola Porro, "chi è davvero Volodymyr Zelensky": una drammatica verità sulla guerra in Ucraina. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 05 giugno 2022

Da conduttore di Quarta Repubblica (Rete 4) ma anche da popolare opinion leader nel mondo dei social, Nicola Porro conosce bene gli umori dell'opinione pubblica italiana e ammette di aver registrato un trend simile a quello pubblicato ieri da Libero sulla guerra in Ucraina: «Le dirò di più. Ieri mattina ho aperto la mia rassegna (la Zuppa di Porro, ndr) proprio con la vostra testata perché sono già diversi giorni che ravviso un progressivo senso di disaffezione». 

Secondo lei da cosa deriva?

«Credo che sia finita l'atmosfera della polarizzazione che ha caratterizzato l'inizio della guerra. Ora è come se col passare delle settimane le persone stiano iniziando a pensare che ci sia innegabilmente un colpevole da una parte, e cioè Putin, ma che dall'altra non ci sia propriamente un supereroe, Zelensky. È come se questo abbia prodotto un disorientamento e quindi anche una sorta di distacco». 

Crede che anche la "timidezza" dei partiti politici abbia contribuito a far perdere punti di riferimento ai singoli?

«No, credo che la politica non c'entri granché. Prendendo in esame la pandemia, il processo comunicativo che l'ha circondata si basava sulla paura, sulle affermazioni e sulle negazioni. È come se questo meccanismo non funzioni con la guerra. O quantomeno non così a lungo». 

Cioè?

«I media di massa hanno una sorta di potere isolante che deriva dall'abitudine. Quando l'audience si abitua ad un tema, bisogna passare oltre. Per quanto grave e drammatica essa sia non c'è una cosa capace di occupare i media per 100 giorni con gli stessi risultati. Pensi al processo tra Johnny Depp e Amber Heard...». 

È durato come un gatto in tangenziale.

«Appunto. L'attenzione del pubblico rimane alta per qualche giorno. In alcuni casi poche ore. Poi basta».

Eppure il Covid ha tenuto banco per 2 anni...

«È stato un laboratorio straordinario, ma caratterizzato da due fattori peculiari che la guerra in Ucraina non ha». 

Il primo qual è?

«La pandemia è entrata nelle case delle persone, mentre la guerra pur essendo nel cuore dell'Europa la sentiamo lontana. Un vero e tangibile sentimento di paura generale e diffuso in questo caso non c'è». 

Per quanto un impatto diretto sulle nostre vite lo si ravvisa. Basti pensare agli effetti delle sanzioni...

«Ma a ben guardare l'aumento del costo dell'energia era iniziato già prima. Come pure il fenomeno dell'inflazione. Il legame col nostro disagio economico non viene ravvisato come un effetto diretto». 

Il secondo aspetto di cui parlava prima invece?

«La pandemia, rispetto a moltissimi altri temi, aveva il potere di riazzerarsi. Il Covid e le sue conseguenze avevano un risvolto immediato e continuo sulla nostra vita quotidiana, ma soprattutto il flusso di temi era sempre nuovo e sempre diverso. Ogni giorno bisognava fare i conti con i lockdown, con le curve dei contagi, con le persone che si ammalavano. Poi sono arrivati i mille decreti amministrativi diversi. Poi ancora i vaccini, le nuove varianti, il green pass. Tutto questo ha reso la pandemia non un fenomeno singolo ma caratterizzato da mille aspetti sempre nuovi e pervasivi allo stesso modo». 

Non pensa che il modo di coprire il conflitto da parte di giornali, radio e tv abbia prodotto una sorta di crisi di rigetto nell'opinione pubblica che sta perdendo fiducia nei mezzi di comunicazione?

«No, sono convinto che non abbiamo affatto esagerato. Il meccanismo di informazione specie nell'era di internet è sempre questo: una mole di notizie abnorme, anche urlata magari, soprattutto all'inizio, e basata sul trend del giorno. Sulla guerra l'informazione di massa si è avventata come una fiera su un animale morente. L'abbiamo sviscerata e spolpata in tutti i modi e ora resta solo la carcassa». 

Proprio ora che potrebbe essere analizzata con più lucidità...

«Non succederà. Io credo che l'informazione sulla guerra sia finita. Dopo aver visto i morti, i bombardamenti, le distruzioni, città spazzate via come Mariupol, cos' altro possiamo mostrare? Dovrebbe succedere qualcosa di traumatico per noi come l'entrata in guerra dell'Occidente. E nessuno se lo augura».

Cosa sostituirà la guerra come tema portante?

«Io già da settimane mi sto concentrando sulla giustizia e sul referendum, per un motivo semplice: perché, vergognosamente, non se ne sta parlando, e infatti noi stiamo registrando ottimi risultati in termini di ascolti. Nel mondo dell'informazione ogni spazio vuoto deve essere riempito e le persone lo apprezzano». 

·        Paola Ferrari.

Dagospia il 10 novembre 2022. Da Un Giorno da Pecora

Il nuovo governo "mi piace molto, sono una sostenitrice di Giorgia Meloni da tanti anni e la vedo molto bene per come si sta muovendo, la vedo molto bene nel ruolo”. A parlare è la giornalista e conduttrice Paola Ferrari, intervenuta alla trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora. 

L'ha votata? “Beh certo, anche se non si dovrebbe dire”. Come hanno preso l'affermazione del c.destra a casa? “Ormai non parlano più, dopo anni di battaglia a casa sono ammutoliti. E io godo come pochi...”, ha detto la Ferrari, sposata con Marco De Benedetti. Suo marito come l'ha presa? “E' andato a votare ma io gli avevo detto: lascia stare...” L'ha preso un po' in giro? “Non mi abbasso più, una volta c'era una battaglia dialettica, ormai...”

Da quotidiano.net il 13 settembre 2022.

Cresciuta nel terrore della mamma. Paola Ferrari racconta la difficile infanzia a tu per tu con Serena Bortone. "Mia madre ha cercato di uccidermi, per quanto ricordo io almeno tre o quattro volte", dice nell'intervista a Oggi è un altro giorno, su Rai 2. "La situazione in casa era insostenibile. Mia madre era molto violenta. Venivo picchiata, mia nonna anziana veniva picchiata". Rientrare a casa era un incubo, per questo - spiega -"sono molto legata ai bambini che per qualche motivo provano paura. La paura nei bambini è difficili da gestire". 

La Bortone chiede i dettagli di quelle volte che la mamma avrebbe tentato di ammazzare Paola Ferrari. "Una volta ha cercato di annegarmi", risponde la giornalista, che però preferisce non andare oltre. "Vedevo il diavolo nei suoi occhi. Al di là della lettura medica c' è qualcos'altro che non è spiegabile". Almeno a un bambino.  

Nessuna lacrima in tv, ma la bocca impastata, l'incertezza nel parlare tradiscono il carico emotivo che ricordi simili si portano dietro. "Quello che a me è mancato è che non ho mai avuto un abbraccio d'amore, un insegnamento, da mio padre e mia madre". 

Volto di punta dello sport Rai, Paola Ferrari, ha 61 anni: è a sua volta mamma di due figli, Alessandro e Virginia, ventenni, avuti dal marito, l'imprenditore Marco De Benedetti, che ha sposato nel 1997. Mentre la Ferrari parla con Serena Bortone, De Benedetti è collegato in studio: "E' la prima volta che appare in tv", commenta stranita la Ferrari, a cui la padrona di casa ha fatto una sorpresa, invitandolo. Cupido della coppia fu Alba Parietti.

"Mi ero appena lasciata quando Alba mi portò a una cena dove ho conosciuto Marco", racconta la giornalista. "Non la conoscevo - dice lui - non seguivo il calcio. Mi ha colpito subito come presenza. Lei se l' è tirata un po' poi è crollata". Segue il ricordo del primo incontro ("dopo mesi di corteggiamento") e del primo bacio. "Ci uniscono tante cose, ci dividono tante idee, anche politiche".  

La Bortone accompagna la Ferrari attraverso le vicende della sua vita: il rapporto difficile con la famiglia De Benedetti, gli inizi in tv con Enzo Tortora ("quasi un secondo padre"), e le violenze nell'infanzia. "Adesso con mio padre, che è anziano, l'affettività c' è ma non saprò mai cos' è l'abbraccio di una mamma". Ma qual era il motivo delle violenze? "Non so, so che i miei non mi hanno mai voluto. Lei aveva una violenza innata. Era gelosa, ma la gelosia non basta a spiegare tutto questo". 

Come si recupera da questo baratro? "Chissà se l'ho recuperato, ho fatto un lungo percorso. Ma in me sicuramente rimangono dei punti oscuri".  La madre della Ferrari è morta improvvisamente, non c' è stato il tempo per un riavvicinamento. Nonostante sia stata una "brava nonna per i miei figli", Paola non l'ha mai perdonata.

Anticipazione da “Belve” il 18 febbraio 2022.

Francesca Fagnani domanda a Paola Ferrari “Il suo matrimonio, con Marco De Benedetti, è stato mai davvero a rischio?” E la Ferrari risponde: ci sono state delle frizioni…perché ero contraria alla vendita del gruppo GEDI, perché volevo una eredità futura dal punto di vista della continuità per i miei figli”. 

E sui rapporti con Carlo De benedetti, chiede la Fagnani? “Mio suocero è uno l’unico della famiglia con cui ancora parlo”.  Al che la Fagnani chiede: “Ma per quanto riguarda il resto della famiglia?” risponde la giornalista sportiva: “Con gli altri ci sono troppe differenze di visione e quindi mi sono un po’ stancata…per anni ho cercato un rapporto ma alla fine…no. Separazione diciamo consensuale”.

Paola Ferrari si rivela senza reticenze a Francesca Fagnani raccontando delle sue amicizie pericolose negli ambienti dell’estrema destra milanese durante gli anni  di piombo  “Ci fu un caso che non ho mai raccontato ma che mi ha segnato, quando assistetti in una serata alla denuncia da parte di un esponente della destra di Gilberto Cavallini, il capo dei Nar insieme a Mambro e Fioravanti: casualmente entrai in una  stanza e a quel punto senza volere divenni il testimone oculare di un tradimento pesantissimo e per questo Gilberto Cavallini che poi evase di prigione mi cercava”. “E ha avuto paura?” chiede la conduttrice “Certo, per mesi avevo paura di tornare a casa la sera”.

E richiesta di raccontare le cause della rottura della lunghissima amicizia con Daniela Santanchè, la Ferrari afferma: “Era un’amica mi chiese un aiuto e io glielo diedi. Lei si sentiva perseguitata politicamente dal capo del suo partito Fini, cose molto pesanti.

Poi ho capito che le cose non erano proprio così, ma non le posso dire altro perché coinvolgono persone troppo importanti. La Fagnani incalza: “Troppo importanti…potenti?”.  “Si, anche in questo momento…”. Risponde la Ferrari “E non si sente di liberarsi qui? “dice la Fagnani. La risposta della Ferrari è programmatica: “Poi non entro più qui in Rai”.

Da ilmessaggero.it il 19 febbraio 2022.

A Belve oltre Pamela Prati c'è stata anche Paola Ferrari. Ieri è tornato il programma di Francesca Fagnani su Rai 2 e protagoniste sono stati due donne. La compagna di Enrico Mentana non si è risparmiata da domande taglienti e con la giornalista sportiva ci è andata giù molto pesante. Dopo il racconto della carriera la Ferrari è stata messa sotto torchio dalla Fagnani che ripartendo da alcune dichiarazioni fatte dall'ospite e che hanno fatto "furore" in tv. 

Belve, Paola Ferrari messa sotto torchio dalla Fagnani

«Ci sono donne che non mi sono mai piaciute, il buonismo non fa per me. Mi ha stancato». Parte così la carrellata di domande. «Non c’è una persona specifica. Penso che nel mondo dello spettacolo ancora ci siano delle usanze dove le donne usano certe situazioni per trovare dei posti. Questa è la cosa peggiore che possono fare alle altre donne. Quindi sono nemiche delle donne». 

Il caso Belen Rodriguez

Gliela ha servita su un piatto d'argento la Ferrari e la conduttrice tira subito fuori la prima donna "criticata" dalla giornalista sportiva: «Ha definito Belen Rodriguez come furba, ricca e priva di ogni talento». Paola ha provato a sviare: «Belen è molto brava. Pur non avendo un’eccellenza né nel ballo né nel canto è stata brava a trovarsi una strada», aggiungendo: «Ho scoperto che Belen è molto più brava di tante altre».

Quindi la Fagnani prova a fare da paciere ma come farebbe una "belva" vera dicendole se quindi voleva fare le scuse alla showgirl argentina. Ma la Ferrari non ha fatto dietrofront e ha continuato ad affibbiare il termine di «furba» sottolineando che non poteva dire che Belen fosse «Priva di ogni talento». «Ma l’ha detto», incalzata la Fagnani. Ha ridimensionato così la Ferrari: «Non è un’artista straordinaria». 

E su Melissa Satta?

archiviato il capitolo Belen si passa a quello Melissa Satta: «La funzione di Melissa è solo quella di dare sostanza a uno stereotipo dei più triti, quello della bella donna che sta lì solo per mettere in mostra le sue belle qualità. Non giornalistiche. Anche tutti quei risolini quando si è tolta la giacca: una scena vecchia, superata, avvilente. È ‘erbaccia’ televisiva che purtroppo fatichiamo a estirpare». Queste le parole rilasciate dalla giornalista sportiva circa un anno fa ma ieri ha specificato che si riferivano solo alla «specifica collocazione in un programma». Quindi secondo Paola Ferrari è da criticare l'usanza di mettere alla conduzione di programmi sportivi prettamente maschili le donne solo se bellissime.

Il capitolo Diletta Leotta

E si arriva a Diletta Leotta. «Se non fosse per i ritocchini non sarebbe nella posizione in cui si trova. Non trovo sia il prototipo di donna che noi dobbiamo mettere su un piedistallo». Non è un segreto che l'ex di Sky ci sia andata giù sempre pesante nei confronti della giornalista siciliana. 

Paola Ferrari inchiodata dalla conduttrice

«Però le posso dire una cosa? Lei denuncia il sessismo nei suoi confronti su cose fisiche, ma lei non fa lo stesso con la Leotta e con le altre? Parlando degli interventi che avrebbero fatto o non fatto e del successo che avrebbero ottenuto o no ‘se’..». Un'artigliata che ha lasciato il segno quella della Fagnani alla Ferrari. «Io penso che lei abbia diritto a fare quello che vuole. Sbaglia chi la mette su un piedistallo come esempio. Lei è molto brava, più brava di quello che ero io alla sua età». Quindi secondo il volto sportivo non è un modello da seguire Diletta. Ma la giornalista di belve ha continuato a colpire.

La bellezza non è una colpa

«Lei è una bellissima donna, trent’anni fa sarà stata una bellissima ragazza. Il suo aspetto avrà giocato un ruolo, no?». E in effetti è stato così anche per Paola Ferrari che fu fermata da Enzo Tortora proprio per il suo fisico. E qui voleva arrivare la moglie di Mentana: «E allora non può diventare una colpa nemmeno per le altre però no?». Colpita e affondata. 

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 21 Febbraio 2022.  

Devo ringraziare Francesca Fagnani per avermi difeso, succede di rado. Durante una puntata di «Belve» (Rai2) ha letto a Paola Ferrari una mia recensione: «Come Barbara D'Urso, quando la Ferrari è sola sembra avvolta da un'aura quasi celestiale. Il suo volto è un'esplosione di luce, tanto che risulta difficile immaginarla al di fuori di quell'alone accecante». Non l'avesse mai letto! In quella nota ironica (con il caro energia), Ferrari ha visto una forma di body shaming.

È a quel punto che Fagnani le ha fatto presente che non si trattava affatto di derisione del corpo. Tanto più che, nella mia recensione, riportavo la frase che Ferrari aveva riservato a Diletta Leotta, la sua ossessione: «Ho sempre pensato che bisogna imparare ad accettarsi e quindi trovo diseducativo che una ragazza decida di rifarsi il seno e il lato B. Forse senza quei ritocchi ci avrebbe messo più tempo per arrivare al successo, chissà».

Chi fa body shaming? Chissà! Spesso volte, nei talk, qualcuno (spero di non ledere l'identità di genere) legge un mio brano («Grasso ha scritto che») al quale segue, di regola, una pioggia di insulti da parte del diretto interessato, in mia assenza. Era (è? Non so, non seguo da molto tempo) il metodo di «Tv Talk». Fagnani ha citato e preso le difese, grazie. È sempre più difficile tenere vivo l'esercizio critico. Piuttosto di ammettere una propria inadeguatezza (ne abbiamo tutti, per carità), c'è subito chi trasforma in ideologia la correttezza politica, la cosiddetta «woke culture» (la cultura dei giusti), l'inclusività, l'accusa di sessismo.

Non stiamo esagerando? Non stiamo perdendo il senso del ridicolo? La parola «critica» deriva dal verbo greco «krino» che significa separare, scegliere. Il contrario è indistinzione, indeterminazione, indifferenza. Quanto a Rai2, farebbe meglio a trovare una collocazione più consona a un programma così poco conformista e coraggioso.

·        Paolo Brosio.

Da "I Lunatici Radio2" il 6 dicembre 2022.

Paolo Brosio è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "i Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'una e un quarto e le due e venti circa. 

Brosio ha parlato della mamma: "Ho passato un momento difficile, mia madre è stata molto male, ricoverata in ospedale. Ha avuto un edema polmonare, sono andati in tilt i reni, avendo un'età molto avanzata ho temuto il peggio. È successo tutto il dieci ottobre scorso, è stata dieci giorni in ospedale e poi è uscita miracolosamente più forte di prima. 

Ero triste, quando è tornata a casa era debilitata, fra tre mesi compie 102 anni, ha superato anche questo nuovo ostacolo. Ora le sto molto vicino, ha bisogno di tutto. Come quando io ero piccolo e lei doveva prendersi cura di me". Ancora Brosio: "Che direttore era Fede? Molto severo, ti urlava addosso. Però era un mostro di bravura".

Sulla svolta mistica che lo ha visto protagonista: "E' arrivata dopo un periodo di problemi. È morto mio padre, ho avuto due separazioni. Ci sono state tante situazioni improvvise e impensabili che si sono verificate in meno di un anno, come la separazione dalla mia seconda moglie. Ho vissuto un momento difficile, lì ho sentito il desiderio di tornare in Bosnia, dove ero stato da inviato di guerra, a Medjugorje. 

Prima per dimenticare ho provato tante situazioni, poi ho scoperto che la preghiera è una potenza. Sono stato non più cronista di guerra ma cronista di Dio. Ho scoperto situazioni pazzesche. L'umanità dovrebbe approfittare di queste situazioni drammatiche per ritornare a Dio. Io venivo da un periodo in cui mi son ritrovato per dimenticare a lasciarmi un po' andare. Il mio tallone d'Achille erano le donne. Ma chi non ce l'ha. Chi è che non è peccatore? Chi dice che è un santo alzi la mano. Io ne vedo pochi. Siamo tutti molto deboli, abbiamo fragilità immense, l'importante è riconoscerle".

Brosio prosegue: "Se incontro una bella ragazza e mi capita di passarci una serata di sesso? Non c'è niente di male agli occhi dell'uomo, agli occhi di Dio se vuoi andare in giro a fare sesso e basta non è che sia molto bello. Più donne hai più sei considerato figo, però se ragioni con gli occhi della fede il sesso non viene escluso, ma incluso nella vita di una coppia. Bisogna mettersi insieme con l'intento di creare qualcosa.

Sennò tutti i giorni vai a letto con una diversa. Io facevo così, oggi ci penso. Le tentazioni ci sono ancora, soprattutto nel mio ambiente, però non è più come prima. Ora cerco sempre di capire. Quante donne ho avuto? Non lo so, non ci voglio neanche pensare. Oggi sono single, Maria Laura è stata l'ultima fidanzata che ho avuto, una ragazza molto più giovane di me. Ci sono state tante polemiche per la differenza d'età, quando entrano di mezzo i fotografi, le televisioni poi inizi a vedere il rapporto in un'altra maniera. Diventa un incubo. Ora penso a mia mamma".

·        Paolo del Debbio.

Da liberoquotidiano.it il 3 gennaio 2021. E' scoppiato a piangere in diretta da Mara Venier a Domenica in, su Rai uno, Paolo del Debbio. Il giornalista doveva presentare il suo libro ‘Le 10 cose che ho imparato dalla vita’ e parlare di suo padre. Ed è stato proprio nel ricordare il papà che Del Debbio è crollato, in lacrime. Il conduttore, infatti, è figlio di un deportato che fu condotto durante la Seconda Guerra Mondiale nel campo di concentramento e smistamento nazista di Buchenwald. Nel campo di prigionia suo padre trascorse due anni e fu poi liberato dagli americani nel 1945. Arrivò poi a Lucca, sua città natale, il 15 agosto, tramite dei mezzi di fortuna: "Gli americani gli diedero da mangiare pian piano.  Mio padre pesava 40 chili, rimetteva tutto quello che mangiava perché non era più abituato“, ha raccontato. "C’era tutto il paese che li aspettava. Si era sparsa la voce che Alfio e Velio stavano tornando (Velio è stato il padre di Paolo, Alfio era un un altro deportato liberato). Non avevano notizie da due anni, per un paesino come quello fu una festa assoluta. Poi arrivò mia mamma e si vide la sensibilità contadina… Andarono tutti via per lasciarli soli”. Quindi Del Debbio, in lacrime, si è fermato. "Guarda, sto come te Paolo“, ha cercato di confortarlo la Venier. Poi è partito un lungo e sentito applauso.

Dritto e Rovescio, lo sfogo di Paolo Del Debbio prima della diretta: "Lasciato a casa 10 mesi", un mistero a Mediaset. Libero Quotidiano il 13 gennaio 2022.

A poche ore dal ritorno di Dritto e Rovescio, in onda giovedì 13 gennaio con la sua prima puntata del 2022, Paolo Del Debbio non si sottrae alle domande. La sua esperienza in tv è alquanto tardiva, ma lui non rimpiange nulla. "Non avrei voluto arrivarci prima - confessa il conduttore di Rete 4 a TvBlog -, son contento di esserci arrivato tardi perché in qualche modo la mia personalità era già fatta. La tv come è noto può essere una brutta bestia, perché spesso ti fa perdere il contatto con la realtà. Il microfono lo appenderò al chiodo chi lo sa quando. Forse quando me lo faranno appendere, oppure quando lo deciderò io". E sul futuro non ha dubbi: "Il domani senza telecamera lo vedo nel mio studio, con i miei libri, che studio e scrivo".

C'è però una parentesi nella sua lunga carriera di stop. Ed è quella risalente al 2018, quando i suoi impegni televisivi si interruppero e venne "lasciato a casa per dieci mesi, per motivi sui quali non ho indagato tanto". Nelle scorse settimane Del Debbio è stato protagonista di una voce simile. Alcuni rumors davano il suo programma e quello di Mario Giordano, Fuori dal Coro, sospesi. Tra le ipotesi la presenza di ospiti a favore del vaccino e non. Una voce smentita da Mediaset e che oggi il giornalista definisce "infondata". 

"Ho chiesto al mio capo Mauro Crippa - ricorda -, che mi ha detto che quelle voci non erano vere, dicendomi che avrei chiuso quel giorno e riaperto quell’altro (oggi 13 gennaio, ndr). Tutto qui". Spazio poi al presente, Dritto e Rovescio non potrà che trattare il caso "Quirinale". All'argomento, mette le mani avanti, "dedicherò il tempo che si merita e che non sarà certamente poco. Io spererei che restasse Mattarella". Anche se Silvio Berlusconi, suo caro amico, pare essere intenzionato a candidarsi. "Francamente non so davvero quante chances ha - confessa - io so che per l’Italia più si mantiene la situazione attuale e meglio è. Mario Draghi a mio parere deve restare presidente del Consiglio perché altrimenti avremo problemi grossi sui mercati internazionali. Quindi la scelta del prossimo Presidente della Repubblica, pur nella sua importanza ovviamente, da un certo punto di vista è meno importante della permanenza di Draghi a Palazzo Chigi. Detto questo faccio i miei auguri più sinceri al Cavaliere".

·        Paolo Zaccagnini.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 26 settembre 2022.

«Vuoi intervistarmi per dimostrare che non sono dipartito?». La risposta è no, a scanso di equivoci, e la battuta dimostra, se ce ne fosse bisogno, che Paolo Zaccagnini è più vivo che mai e lotta insieme a noi. Si è soltanto assentato per una decina d’anni. A causa di una malattia, la sclerosi multipla, che lo costringe su una sedia a rotelle. Ma soprattutto perché il mondo che ha vissuto in prima persona e raccontato dalle pagine del Messaggero – facendoci innamorare delle grandi star restituendone l’umanità – si è ormai dissolto. 

Questo, però, non vuol dire che il critico musicale più anticonformista d’Italia sia diventato inutile, anzi. Proprio in un’epoca dove tutto sembra omogeneizzato, dall’arte alla comunicazione, i suoi sferzanti giudizi sono più necessari che mai. Così lo abbiamo contattato in quel di Dublino, dove vive da tempo con la moglie, per farci raccontare un po’ di aneddoti (una caterva) sui grandi personaggi che ha conosciuto da vicino.

Come Lou Reed, il suo migliore amico nell’ambiente, con il quale guardava le scenette di Mr. Bean alla tv e si confrontava sulla letteratura poliziesca («conosceva i libri di Raymond Chandler a memoria»). O Bruce Springsteen, che se la prese dopo avergli fatto notare la somiglianza di Outlaw Pete con un pezzo dei Kiss. Senza contare Madonna, alla quale una sera a cena (ci andava a cena e invitato) chiese: «Alla donna più bella e famosa del mondo cosa manca nella vita?». E lei, caduta la maschera, gli diede una risposta da nodo in gola. Ancora, gli scazzi con le case discografiche per le domande che nessuno osava fare a George Michael e Anastacia, il rapporto con Renato Zero, Vasco Rossi, Elisa e tanti altri.

Un giornalista? Troppo riduttivo per definire Zaccagnini. Uno che ha partecipato come attore ai film di Nanni Moretti Io sono un autarchico e Ecce Bombo (e ci spiega perché voleva picchiarlo) e che al primo giorno in redazione ha recuperato tre cadaveri carbonizzati in un fosso (la scena è tanto macabra quanto spassosa), uno che al primo articolo di spettacoli ha fatto incazzare tutti i grandi vecchi del quotidiano romano con questa chiosa: “Grazie, fottutissimo Frank!” (riferendosi a Zappa) è molto più di un critico musicale.

Prima di tutto è un uomo libero («Maria De Filippi mi chiamò per alzare le palette nel suo programma, ma io o scrivevo di concerti o me ne stavo a casa») e che ha trasferito in pagina la sua enorme passione per la musica senza mai scendere a compromessi. E ancora oggi a 74 anni, con quella barba che non taglia da quando ne aveva 18, confessa di sentirsi più ribelle che mai: «Anarchico è il pensiero e verso l’anarchia va la storia».

Paolo, innanzitutto come stai?

Devo di’ bene per forza. Ciò la sclerosi, so’ paralizzato sulla sedia a rotelle, mi aiutano delle badanti. Ma per il resto faccio un sacco di cose. Leggo libri, guardo film, scrivo sullo Zaccablog da 13 anni quello che mi pare, tranne quando fuori è brutto tempo e mi butta giù. Perciò si tira avanti… 

Come mai vivi in Irlanda da più di dieci anni?

Perché mia moglie è originaria di Kilkenny, l’antica capitale dell’Irlanda. Abbiamo deciso di stabilirci a Dublino che è una città tranquilla, anche se negli ultimi tempi è diventata molto americana con tutte le follie che ne seguono, tipo la gente che fa la fila a comprarsi le bombe. 

Le armi?!

Macché! Le bombe alla cioccolata o alla crema. Le bombe vere qui non scoppiano più. 

Non hai un po’ di nostalgia della tua Roma?

Per niente. In Irlanda la civiltà, in Italia, specialmente a Roma, la barbarie. Mi spiace non vedere certi amici come Roberto D’Agostino e Renato Fiacchini (Renato Zero, nda), ci conosciamo da quando eravamo giovanissimi, ma che ce devo fa’? Roma è diventata invivibile anche per i più giovani. Mia figlia ha 40 anni e si è dovuta spostare in una zona più tranquilla, alla Montagnola. La capitale che ho amato è scomparsa, quella di Renato Nicolini (assessore alla cultura 1976-1985, nda) che si era inventato l’Estate Romana, una roba straordinaria. Prima si esibiva Ella Fitzgerald, come fai a paragonarla con quelli di oggi? 

Effettivamente…

Ricordo una Estate brasiliana dove c’erano tutti i più grandi del mondo. Daniela Mercury, Gilberto Gil, Chico Buarque, Vinícius de Moraes, Toquinho. Ma non solo a Roma si è persa questa qualità negli eventi, ovunque. È talmente tanta la malavita nell’ambiente che ormai pensano solo a guadagnare. Eppure, a chi viene a un concerto dovresti dargli qualcosa. Se vai ad ascoltare Elton John puoi cantare una sua hit degli anni ’60, ’70, ’80-’90, 2010. Chi può farlo oggi? 

Arriviamo alla tua famosa regola del cinque?

Ma certo, il repertorio. Chi ce l’ha oggi la possibilità di cantare cinque successi? Lou Reed, il più grande amico che ho avuto nell’ambiente, il primo disco dei Velvet Underground lo ha realizzato in una settimana spendendo 3000 dollari. Ora con quei soldi che ce fai? Manco più il caffè ci prendi…

Ti manca scrivere per un giornale?

Nooo… l’ho fatto talmente tanto convulsamente che non mi può mancare. C’è stato un periodo che scrivevo 6-7 articoli al giorno e ognuno con un nome diverso. Io sto qui, mi vedo i film, leggo i libri, scrivo per il blog, spedisco cose belle agli amici e sto bene così. 

Ogni tanto ti leggo su Dagospia.

Sì, ma non collaboro in modo fisso. Però lo leggo sempre quel sito perché Roberto D’Agostino è l’uomo che ha distrutto il giornalismo italiano. Non perché meritava di essere distrutto, ma perché è stato preso in mano da gente che non ha più nessun rispetto per i lettori. Infatti non vendono più una copia. Mi rendo conto che ci sono il web e i social, ma il piacere di andare in edicola e poi al bar a leggere il giornale, vuoi mettere? Il problema è che sono pieni di cose stupide e di pubblicità spacciate per notizie. 

Rispetto a qualche anno fa mancano anche i programmi tv dedicati alla musica.

All’inizio Maria De Filippi aveva chiamato anche me per alzare le palette e ho rifiutato. Tutti i miei colleghi, meno io e Andrea Spinelli, ci andavano e dicevano: «Guardate che vi danno bei soldi». A me i soldi per alzare le palette? Ma il mio lettore non voleva che facessi quelle cose. Il mio mestiere era andare ai concerti e scrivere di musica, se poi non ne ero più capace stavo a casa. 

Hai accennato alla tua amicizia con Lou Reed. Quando è nata?

A uno dei pochi concerti che ha fatto a Genova. Quel giorno persi la macchina da scrivere all’aeroporto e passai il pomeriggio a spiarlo mentre stava con la prima moglie Sylvia Morales. 

Ok, ma come si diventa amici di Lou Reed?

Ehhh, credo di essere stato uno dei pochissimi. Io sono strano, ma lui era molto più strano. A mia moglie diceva sempre: «Guarda che tuo marito è un toro… he’s a bull…». Eravamo talmente legati che lo chiamai quando mi diagnosticarono la sclerosi. Mi disse: «Il prima possibile vieni da me a New York». Presi il coraggio a due mani e poco prima di Natale lo raggiunsi. Una mattina andai a casa sua, mi mise su una sedia di cuoio che ricordava i sedili delle Harley-Davidson e parlammo per quattro ore mentre io piangevo come un bambino. Mi raccontò della cugina con una malattia come la mia, di un altro amico che aveva aiutato, fece chiamate a dottori e mi passò vari indirizzi. 

E tu ti affidasti a quelle cure?

Neanche per sogno, in America ti spellano vivo e non avevo abbastanza soldi. Per fare qualcosa con quei dottori ci volevano i miliardi. 

Hai detto che tu sei strano, ma lui lo era molto di più. Cosa intendi?

Non posso raccontare di droga perché con me non beveva nemmeno. Alle feste mi chiedeva di mettergli il vino nel bicchiere così nessuno glielo riempiva. Un episodio simpatico è quando mi spinse a prendere il computer: «Dai, ce l’hanno tutti Paolo». Vabbè, prendiamo questo computer. Qualche tempo dopo vado a Londra alla presentazione del suo album New York. Mi siedo a un tavolino, faccio domande, scrivo sulla tastiera, finché non arriva la sua discografica: «Lou voleva dirti che è contento che hai il computer, ma preferirebbe se ora scrivessi normalmente». Come normalmente? «Con carta e penna». Ecco, forse però quello che ci univa non era la musica… 

Cos’era?

Ti racconto questa. Vado al concerto di reunion dei Velvet Underground a Villa Manin, vicino a Udine, e appena scendo dall’auto mi viene incontro uno dello staff: «Paolo… Paolo… devi venire assolutamente». E perché? «C’è una lite in corso nella band che rischia di far saltare tutto». Chi è che litiga? «Lou Reed e John Cale». Ah, sempre loro due… Entro nella tenda dov’era ospitata la band e vedo Cale da una parte e dall’altra Maureen Tucker e Sterling Morrison. Guardo sullo sfondo e vedo Lou che legge due libri polizieschi, uno da una parte e uno dall’altra… 

E come sei riuscito a farli rappacificare?

Abbiamo parlato un po’ di letteratura e si sono stemperati gli animi. Lou era una persona di grande cultura e la passione che ci ha legato di più è stata quella dei libri polizieschi. Vedeva in me uno che ne sapeva qualcosa in più di lui. Ma era impressionante, conosceva i libri di Raymond Chandler a memoria! Aveva fatto la tesi con un famoso poeta che poi si è suicidato, Delmore Schwartz. Era laureato in letteratura americana, come me. 

Qual è il suo capolavoro musicale?

Basta pensare solo al primo album dei Velvet Underground. Ma ci metterei vicino anche Transformer. È un disco che ha anticipato tutti. Una volta eravamo al ristorante e ci doveva raggiungere un giovane musicista che gli doveva parlare. Arriva un ragazzo, era Dave Navarro, il chitarrista dei Jane’s Addiction. Parlano un po’, a un certo punto gli fa vedere le unghie dipinte di nero e poi va in bagno. Lou si gira e mi fa: «Ma io queste cose le ho fatte negli anni ’70». 

Oggi è più difficile per i giornalisti instaurare un certo tipo di rapporto con le star.

Ormai sono tutte uscite di cervello. Io allora andavo a casa di Lou e passavamo delle bellissime serate. Una volta, quando era fidanzato con Laurie Anderson, arrivo nel loro attico e lei aveva preparato per cena popcorn, cracker e fettine di mela. Lou accende la tv e mette le scenette di Mr. Bean, un comico che anch’io adoro. Il problema è che non volevo sfigurare, perché quando rido sono molto rumoroso, batto i pugni e faccio casino.

Così cerco di mangiare il più possibile per tenermi impegnato, solo che piano piano la bocca mi si allarga talmente tanto mentre è piena di cibo che Lou mi dice: «Paolo, se mangi troppi popcorn ti puoi sentire male». Deglutisco a fatica e gli rispondo: «Famme ‘na cortesia Lou, tu dici a me che i popcorn me fanno male? Tu ti sei fatto di popcorn da giovane?». Scoppia a ridere: «No no, hai ragione, continua a mangiare». 

Un altro tuo amico era Bruce Springsteen.

Sì, ma gente come Madonna, Bono e The Edge degli U2 o Springsteen da quando sono in pensione non li sento più. Finché ero utile bene, poi sono spariti tutti. Pensa che Steven Van Zandt mi chiamava «mio fratello». Ma finito di scrivere è finita l’amicizia. Capita, però ho avuto la fortuna di avere grandi amici, come Lou Reed, Joe Cocker, George Harrison, Annie Lennox, Rod Stewart.

Springsteen ti dedicò anche una canzone dal palco.

Ho visto tantissimi suoi concerti, in Europa e in America, ho conosciuto la madre, la zia, i figli. Lui è uno di quelli che ha una certa età e vuole continuare a sentirsi giovane, ma ‘ndo vai? Anch’io da ragazzino ero uno dei migliori cinque corridori italiani, ma poi ho smesso. 

Gli consiglieresti di darsi una calmata?

Non mi permetto, ma tra noi si è rotto qualcosa quando gli feci notare una cosa. Nel disco Working on a Dream c’è il pezzo Outlaw Pete. Me lo fanno sentire, mi chiedono se mi piace, ma io purtroppo gli rispondo che mi ricorda un altro brano. E cioè I Was Made for Lovin’ You dei Kiss. Ma come? Si stupiscono… Dopo anche Gene Simmons e soci hanno spiegato di non aver fatto causa a Springsteen soltanto perché suoi estimatori.

E invece con Madonna? Anche con lei avevi un rapporto speciale.

Le ultime volte che l’ho sentita era insieme a Guy Ritchie, un teppista che si è trasformato in regista. Non so se hai visto il suo film King Arthur con David Beckham, talmente brutto da essere difficile da giudicare… 

Sempre per via di non mandarle a dire…

Io sono fatto così. Ricordo che Madonna venne a Roma e mi invitò da lei in albergo, quando arrivai aveva in braccio la figlia Lourdes Maria. La stanza era piena di attrezzi per il fitness. «Paolo, se vuoi fare un po’ di esercizi…». Le ho detto: «Mado’, mai fatta ginnastica in vita mia, lassa perde».

Che spazio occupa Madonna nella storia della musica?

Un posto di primo piano, perché una che scrive un pezzo come Rain lo merita. La prima intervista gliela feci in un hotel di Portofino. Era notte fonda, avevamo mangiato nella piazzetta. Alla fine le chiesi: «Alla donna più bella e famosa del mondo cosa manca nella vita?». E lei mi rispose piangendo: «I baci di mia madre prima di andare a dormire». È un fenomeno, brava anche a scegliere i produttori e i musicisti. Una che ha voluto Jonathan Moffett come batterista se ne intende. Si interessava di tutto, dal bullone del palco alla tinta degli sfondi. Una perfezionista. 

Quando è morto B.B. King hai scritto: “Era un negro, non un afroamericano. Un negro orgoglioso di essere tale”. Oggi probabilmente non potresti più esprimerti così.

Adesso sono tutti politicamente corretti. Ma scusa, Robert Johnson era un signore simpatico e carino? Eh no, era un negro che è stato ammazzato a coltellate da una persona gelosa. Bisogna dirle le cose vere. Il politicamente corretto è stato inventato dagli americani, la cui più grande scoperta è stato il chewing gum. Con tutto il rispetto per loro, ma a noi non ci possono insegnare niente. Il blues, se non c’erano i negri, non gli afroamericani ma gli schiavi negri portati dall’Africa, non sarebbe mai esistito. E i bianchi che suonano il blues dovrebbero ricordarlo.

Il tuo collega del Messaggero, Mattia Marzi, qualche tempo fa ha lamentato di essere stato escluso dagli invitati a un concerto di Tommaso Paradiso dopo un articolo. È mai capitato anche a te?

E come no… A quelli ho sempre detto: «Io devo parlare di musica e voi la dovete vendere. Sono due cose molto diverse. Perciò lasciatemi perdere». Ho avuto due grandi scontri simili con la Sony. 

Penso che ormai sia tutto prescritto, puoi ricordarceli.

Una volta con Anastacia, si sapeva che aveva una malattia ma nessuno osava chiederglielo e il suo staff ci intimava di evitare l’argomento. Lei arriva al Principe di Savoia a Milano, tutti schierati per intervistarla e io parto: «Senta, mi dicono di non fare questa domanda, ma le volevo chiedere cosa prova una ragazza così bella, così intelligente e con una voce così speciale ad avere a che fare con il morbo di Crohn». Il gelo in sala. Lei mi guarda ed esclama: «Aaahhh, meno male che me l’ha chiesto, sembrava che nessuno lo sapesse…». Me ne ha parlato per mezz’ora. 

E la seconda volta?

Sempre nello stesso hotel milanese arriva George Michael che aveva appena avuto un fidanzato morto di Aids e la casa discografica non voleva dire che anche lui era gay. Partono le solite domande e poi mi inserisco: «George, sono stato al ristorante di tuo padre a Londra e ho saputo che nella tua famiglia avete avuto un problema, perché tuo zio si è suicidato in quanto omosessuale». Lui mi scruta: «Ah lo sa…». Quelli dell’etichetta tutti rossi. Proseguo: «Se mi vuoi rispondere alla domanda bene, sennò me ne vado. Ma tu soffri come tuo zio…». Non mi lascia finire la domanda, si alza, mi viene incontro e mi abbraccia: «Finalmente qualcuno che mi chiede questa cosa». 

Insomma, anche i giornalisti dovrebbero essere più coraggiosi.

Sì, ma una volta c’erano anche dei direttori più coraggiosi. Se succedeva qualcosa a un giornalista quello che lo aveva attaccato era morto. Si scriveva di lui tutte le volte. I giornalisti si devono rispettare, perché portano una parola di libertà alla gente. Ma i giornalisti hanno le loro colpe. Ti racconto questa, anche se è solo per addetti ai lavori.

Sono curioso.

Andiamo a fare una intervista in Inghilterra a George Harrison per il disco Cloud Nine. Siamo sei o sette. Lui arriva e nessuno parla. Un collega mi fa: «Comincia tu». Faccio la prima domanda, la seconda, la terza, poi mi giro e gli altri zitti: «Vai vai Paolo…». Proseguo un’ora e mezza. Alla fine George si alza, mi stringe la mano, si congratula e torniamo tutti in Italia. La mattina dopo vado a prendere i giornali: il mio pezzo sul Messaggero è perfetto, su Repubblica meno, sul Corriere per niente, sulla Stampa non ne parliamo, sul Giorno… insomma avevano trascritto solo quello che era uscito dalle mie domande… Li ho chiamati uno a uno e li ho fatti a pezzi! Scusate, mi sono laureato in inglese, vado preparato, tiro fuori una intervista molto bella e me la copiate? 

Il giornalista Alberto Infelise ha raccontato che, appena arrivato per lo stage al Messaggero, il primo articolo glielo hai strappato davanti tre volte. E alla fine lo hai apostrofato: «Bravo, volevo vedere se eri uno stronzo».

Sì sì è vero, ma lui è bravissimo. Però anche i miei esordi sono stati terribili. 

Non posso che chiederti di raccontarmeli.

Al Messaggero cercavano due giovani corrispondenti, uno per Frosinone e uno per Civitavecchia. Vengo scelto per Frosinone. Per dieci giorni mi ha istruito un collega esperto, poi arrivo in redazione. Avevo i capelli e la barba lunghi, fumavo il sigaro, venivo dalla feccia dell’estrema sinistra. Mi guardano tutti preoccupati, poi mi si avvicina un vecchio e fascistissimo cronista che mi mette in guardia: «Se rimaniamo solo io e te nella stanza ti massacro di botte». Annamo bene? 

Quando hai scritto il primo articolo?

Quel giorno mi chiedono di seguire una storia di cronaca. «Vai e torna con il pezzo». Fuori pioveva talmente tanto che non vedevo a un metro. Prendo l’ombrello e il cronista mi blocca: «Ma che fai?». Eh fuori piove… «Così la gente ti riconosce, mettiti il cappotto». Sto là quattro ore sotto la pioggia. Quando torno, fradicio, scrivo l’articolo e penso di andarmene finalmente a casa. Ma mentre sto per uscire arriva una chiamata: «C’è stato un incidente con tre operai, vai tu!». Ma devo cambiarmi… «Ma che stai a scherza’? Se vuoi fare il giornalista devi anna’». Una esperienza allucinante.

Perché, cos’è successo?

Ero con un altro collaboratore e al nostro arrivo ci investe una puzza terribile. La Fiat 600 dopo aver preso un palo era finita in un fosso e i tre operai erano morti bruciati. Solo che erano lì dalle 8 del mattino e ormai erano le 10 di sera, praticamente si erano trasformati in tre supplì. Il collaboratore mi sviene di fianco. Dopo qualche minuto arrivano i vigili del fuoco, ma tre di loro sono giovani e inesperti e il capo mi fa: «Dammi una mano a tirarli su». Ma chi, io? Mi passa i guanti in amianto, entro nel fosso e metto sul camion quei poveri operai. Un bell’inizio, no? 

Quando sei arrivato agli spettacoli?

Era il 1979 e vengo a sapere che a Zurigo avrebbe suonato Frank Zappa. Propongo in redazione di seguirlo, visto che era anche il mio giorno libero. Vado, scrivo il pezzo e l’indomani è piaciuto in maniera incredibile. Si chiudeva così: “Grazie, fottutissimo Frank!”. Mamma mia, non sai che reazioni dai vecchi del giornale. Facevano le riunioni per discutere su quel “fottutissimo”: «Non è educato, cosa penseranno i lettori?».

Di quali pezzi vai più fiero?

Di alcune interviste, soprattutto a Madonna. Quando è venuta a Sanremo gliene ho fatta una a pagina intera. Il giorno dopo nella sala stampa lei entra, si alza sulle punte e mi manda due baci. Si sentivano i fegati dei colleghi che scoppiavano uno dopo l’altro. Ancora meglio quando fu ospite di MTV. Rispose ad alcune domande dei giornalisti, poi si voltò indicandomi col dito: «Sei tu? Sei veramente tu?». E io: «A Mado’, so’ io». Mi prende sottobraccio e andiamo a mangiare insieme.

Uno come te, che ha vissuto l’epopea del grande rock, non è almeno un po’ contento di questa affermazione internazionale dei Måneskin?

Ma no, non hanno inventato nulla, non diciamo stupidaggini. Credo che tutta questa generazione sia sopravvalutata. Nessuno dei nuovi raggiunge la regola del cinque. Io ho visto il meglio del meglio, a 20 anni Jimi Hendrix dal vivo, chi andrà a vederli tra qualche anno i Måneskin? 

Perché allora nessun italiano prima di loro ci era riuscito?

Bisogna sempre ricordarci che la musica italiana ha avuto Franco Battiato, Francesco Guccini, Ivano Fossati. Molti se non avessero avuto paura dell’aereo e di imparare l’inglese avrebbero scatenato l’ira di dio all’estero. Paolo Conte ha deciso di andare in Francia e guarda che accoglienza gli riservano. Pensa solo ad artisti come Modugno, Battisti, Mina, Celentano, che non hanno voluto andare oltreoceano, sennò avrebbero avuto un grandissimo successo. 

Però Vasco Rossi li ha sempre sostenuti fin da Sanremo.

Eh vabbè, ma Vasco ce l’ha un repertorio. Non cinque canzoni, ma cinquanta. L’ho conosciuto che non era ancora famoso. È venuto a Roma e ci ritroviamo davanti allo zoo. Mangiamo lì di fronte e i discografici avevano portato due ragazze, ma si vedeva che servivano più per la notte di Vasco che per altro. Erano di una bellezza sconvolgente. Lui chiede: «Io sono musicista e voi cosa fate?». E loro: «Studiamo all’università, siamo al primo anno di lingue». E Vasco: «Aaahhh si vede, si vede…». Mi ha fatto morire dal ridere, non sapevo come fermarmi. È troppo forte. 

Che canzoni ti capita di ascoltare oggi di artisti italiani?

I pezzi di Renato Zero o di Elisa. Lei non ha voluto andare in giro, ma avrebbe potuto distruggere chiunque. È una Adele che segue più le mode, ma è molto più pratica della collega inglese. È anche musicista, arrangiatrice, sceglie bene le persone. Ha un grande potenziale ancora da esprimere. Poi c’è chi è una brava persona e, capito in che ambiente si è ritrovato, decide di farsi da parte. Come Alex Britti che a 20 anni suonava con i negri in America e ora si è appartato. Ma l’hai sentito il triplo disco di Renato Zero? È straordinario, soprattutto perché l’ha realizzato a 70 anni.

Dell’ondata trap non ti è arrivato niente a Dublino?

La musica d’oggi? Non esiste. Il passato? Irripetibile e unico. Voler fare dei paragoni è da idioti. La trap è tutta roba che non rimarrà. Quando questo tempo finirà la gente capirà di aver vissuto un momento di completo straniamento. Nella musica, nel teatro e nel cinema. 

Il cinema l’hai frequentato sin da giovane, anche da attore nei film di Nanni Moretti Io sono un autarchico e Ecce Bombo. Neanche Paolo Sorrentino ti sembra all’altezza?

Ha fatto un unico film buono, L’uomo in più. Ce l’ho in DVD e lo tengo molto stretto per il legame che avevo con Agostino Di Bartolemei e Franco Califano a cui si è ispirato. Di più dimme che ha fatto? È stata la mano di Dio lo presenti all’Oscar? Ma non scherziamo. Guarda il film sovietico presentato a Cannes, Tchaikovsky’s Wife, di molto superiore. O certe storie dei film polizieschi del Nord Europa. Ma poi mi chiedo, perché le serie italiane non hanno i sottotitoli in inglese? Come Nero a metà o Il commissario Ricciardi. Quanto costano? Invece di organizzare i party tra i dirigenti che facciano i sottotitoli, che se li mettono sbancano all’estero. 

Che rapporto hai avuto con Nanni Moretti?

Una amicizia vera. Io da ragazzo avevo una grande motocicletta, Guzzi 850 California. Durante gli anni bui sequestrarono qualcuno mentre io e Nanni stavamo passando in zona San Pietro. Un bel momento ci ferma la polizia, puoi immaginare come ci guardano quando leggono i cognomi, Moretti e Zaccagnini. Alla fine ci hanno tenuto tre ore con le braccia alzate e i mitra puntati. 

È vero che Nanni Moretti ha un caratteraccio?

Credo che ce l’abbia ancora, ma con me non l’ha mai avuto perché io quando dovevo dirgli le cose gliele dicevo in faccia. In una scena di Ecce Bombo sul Lungotevere, Moretti e Mughini hanno chiamato la polizia per far portare via delle prostitute vere e sostituirle con delle comparse. Finisce la scena e vado da Nanni e da Giampiero. Tutti preoccupati, perché loro erano meno coinvolti nella politica di quanto lo fossi io, e gli ho detto: «Ho visto quello che avete fatto e non mi è piaciuto per niente, gli altri non ve lo dicono perché hanno paura, ma io no. La prossima volta che lo fate vi picchio a tutti e due». 

Da quanto tempo non ti senti con Nanni Moretti?

Ohhh da una vita. Mi piacerebbe fare qualcosa insieme a Nanni, magari una scena in un suo film. Come fa spesso Leonardo Pieraccioni, che ha sempre mantenuto gli stessi amici. Comunque Nanni è una persona profondamente divertente e di grande cultura. I suoi lavori mi sono sempre piaciuti. 

A Roma non vivi più, ma non mi dirai che hai smesso di tifare per i giallorossi…

Vuoi che riattacchi il telefono? 

È un tasto dolente. Ho saputo che non ami particolarmente Mourinho.

Come ha detto giustamente il laziale terribile, fascista e ignobile, ma persona intelligentissima, Paolo Di Canio, Mourinho è venuto a Roma a prendere la pensione. In più ho dei dubbi sulle fortune dei Friedkin (i proprietari americani del club, nda). Da dove gli arrivano tutti quei soldi? Come distributori di film non sono un granché. Parasite che ha vinto l’Oscar due anni fa in America ha totalizzato un milione di spettatori, cioè una formica dentro al Partenone. Sai che c’è?

Dimme (dopo un’ora a sentir parlare romanesco si fa sentire l’influenza, nda).

Per anni sono stato tutte le settimane all’Olimpico. Il capo tifoso entrava urlando e alzando il dito al cielo: «Coreteee, scappateee». E tutto lo stadio: «Squadrone giallorosso, giallorossooo…». Dopo 13 anni così, secondo te, posso sta’ dietro a questi qua? 

Un’altra tua passione è la cucina, hai mai pensato di scrivere un libro di ricette?

Figurati, adesso sono diventati tutti chef. Ma una zuppa di fagioli buona non si può più mangiare? Di quelle che faceva la nonna. Prima cucinavo molto bene. 

Il tuo piatto forte?

Tutte le paste, ma vado molto orgoglioso di una ricetta che sconvolse il critico letterario Pietro Cheli e sua moglie, la giornalista Alba Solaro. Delle sogliole rigirate intorno a dei gamberetti al forno. Mamma mia che boni… 

Prima di salutarci ho una curiosità. Come mai hai sempre portato questa lunga barba?

Ce l’ho da quando avevo 18 anni. Non l’ho mai tagliata. Una volta ci ho pensato, solo che il mio amico pediatra mi mise in guardia: «Se la tagli tua figlia avrà un enorme trauma». 

Cosa rappresenta per te?

Il contrario di tutto quello che la gente voleva da me, cioè essere bravo, educato e intelligente. Io sono bravo, educato e intelligente, però con la barba. 

Nonostante tutto ti senti ancora un anarchico?

Ma certo, sempre! Ho sofferto tutta la vita per esserlo. Come disse Giovanni Bovio: «Anarchico è il pensiero e verso l’anarchia va la storia».

·        Pierluigi Pardo.

Francesca D'angelo per “Libero quotidiano” il 17 ottobre 2022.

Pierluigi Pardo ha fatto quello che, da Bruno Vespa in giù, vorrebbero fare tutti: mettere Alessandra Ghisleri su un trono. La direttrice di Euromedia Research è la sondaggista più famosa e richiesta del momento: le sue analisi sono praticamente impeccabili, i talk show se la contendono e, adesso, pure Pardo. Il celebre telecronista sportivo l'ha infatti voluta come presenza fissa nella sua nuova avventura tv: il game Ti sembra normale?, in onda ogni sabato pomeriggio su Rai Due, prodotto dalla Direzione Intrattenimento Day Time in collaborazione con Stand by me.

Praticamente è diventata il Var di Pardo?

«Be', per certi versi sì! Il programma cerca di scoprire vizi e virtù degli italiani, attraverso dei sondaggi condotti, su tutto il territorio, in modo rigorosamente scientifico e statistico. Io sono la depositaria delle risposte». 

La statistica è una scienza esatta, tuttavia tentare di capire gli italiani non resta una missione impossibile?

«In realtà la statistica fotografa solo un istante. Un conto infatti è avere quella che, un tempo, chiamavano scelta bolscevica: se tutti, all'unisono, rispondono allo stesso modo la lettura è chiara. Quando invece il campione si spacca su più possibilità, usciamo invece dal campo delle scienze esatte perché il risultato non è più assoluto, ma di tendenza».

Lei però, finora, non ha sbagliato un colpo...

«Facendo gli scongiuri... (ride, ndr)». 

No, davvero: come ci riesce?

«Devo moltissimo al mio team di lavoro che, al netto dei nuovi innesti, sta con me da tanti anni. Vado molto fiera del gruppo che si è creato: oltre a essere assolutamente eterogeneo per età, provienenza geografica, sesso, orientamento politico, è formato da persone che lavorano e si impegnano con libertà di testa e di pensiero». 

Anche i sondaggisti devono avere la schiena dritta?

«Quella serve, a prescindere, nella vita. Per fare il mio lavoro ci vogliono sicuramente curiosità, molto impegno, voglia di guardare oltre ma soprattutto la capacità di lasciare gli altri liberi di sapersi esprimere per imparare qualcosa anche da tesi completamente opposte alle proprie». 

Di fatto lei è stata la prima sondaggista donna: è stato complicato farsi largo?

«Oggi il comparto vanta numerose ricercatrici, peraltro brave e stimate: la stessa direttrice dell'Istat è donna. Nel mio caso, scontavo un po' il fatto di essere sia donna che giovane». 

Era più un problema per i colleghi o per i clienti?

«Dai colleghi ho ricevuto grande condivisione e sostegno: li devo solo ringraziare, perché mi hanno insegnato il mestiere. C'erano invece alcuni clienti che, sulle prime, mi guardavano con supponenza». 

Come quando, nel 2006, aveva previsto che la vittoria della sinistra non sarebbe stata schiacciante ma sul filo di lana?

«Eh, lì c'era chi si chiedeva chi fosse questa signora che si permetteva di dire cose così fuori dal coro!». 

Perché solo voi siete stati in grado di ipotizzare uno scenario che è invece sfuggito agli altri istituti?

«Applicavamo un differente sistema di analisi, di stampo americano. Semplificando, costruivamo scenari calcolando la tendenza al voto in relazione all'affluenza: al di sotto di un determinato bacino di elettori si poteva avere un certo tipo di risultato; nell'intervallo tra un'affluenza e un'altra l'esito sarebbe stato diverso, e infine lo scenario cambiava nuovamente se gli elettori superavano una certa soglia».

Nel 2018 ha dichiarato che solo il 20% del fatturato di Euromedia Research proveniva dai sondaggi politici. Ora questa percentuale è salita?

«No, anzi, è scesa! I settori trainanti sono altri, come per esempio il food, il settore farmaceutico, le banche, per citarne solo alcuni». 

Ero convinta che ormai i politici vivessero a pane e sondaggi.

«Sicuramente dopo Berlusconi è uno strumento che è entrato in uso: si è capito che c'è la necessità di comprendere a fondo gli elettori, dalla Valle d'Aosta a Lampedusa. Però non tutti se ne avvalgono con frequenza: alcuni politici sono convinti di avere un sensore migliore nel carpire il Paese reale. Senza contare che bisogna poi sempre capire come le ricerche vengono usate». 

In che senso?

«Un conto è capire quanto pesi politicamente, un altro comprendere perché ti votano o non ti votano. Questo è il passaggio d'analisi davvero importante, a mio avviso». 

Ma quindi i politici vi amano, vi odiano o mal sopportano la vostra categoria?

«In realtà i rapporti sono buoni, anche perché noi sondaggisti siamo, mi passi l'espressione, i confessori dei politici. Conosciamo vizi e virtù di ognuno di loro, ma non li rendiamo mai pubblici». 

Quindi non ha mai avuto noie?

«A volte capita di essere attaccati. In tv, per esempio, un politico mi criticò perché aveva formato un nuovo partito che noi davamo al 2%. Secondo lui valeva l'8%». 

Alla fine chi aveva ragione?

«Ha preso l'1,56%». 

Posso sapere chi era questo signore?

«No, la prego! Ormai è una storia superata e lui ha cambiato lavoro». 

Stando alle vostre analisi, oggi gli italiani cosa chiedono al nuovo governo?

«In primis stabilità, ossia un governo che lavori con continuità senza imprimere grandi scossoni. Desiderano che le promesse della campagna elettorale vengano mantenute, a partire dalle bollette che minano la progettualità familiare.

Ecco, la mancanza di poter fare pianificazioni è uno dei problemi più sentiti: non sapere se avrai i soldi per iscrivere i figli a una certa scuola, o a un corso, o anche più banalmente quante volte poter mangiare carne a settimana». 

Veniamo a lei. È vero che ha una laurea in paleontologia oceanografica?

«Confermo. Da ragazza mi sognavo sul mare a salvare gli oceani. All'epoca non c'era ancora una grande consapevolezza del problema climatico, ma intuivo che la Terra era un dono da custodire. Volevo poter contribuire, nel mio piccolo, a preservare i mari». 

Era una Greta ante litteram?

«No: lei è molto più brava di me. Semmai sono stata una sondaggista dei fondali, perché come tesi ho studiato i paleofondali, per ricostruire le popolazioni marine e le loro evoluzioni». 

Poi cos' è successo?

«Il percorso universitario era complesso e in salita. Quindi ho cambiato strada: ho accettato uno stage in un istituto di ricerca e mi sono innamorata di questo lavoro». 

Lei non ha figli, in una società dove la donna deve essere ancora prima di tutto madre: come lo vive?

«Ho quattro nipoti quindi, per la legge della statistica, uno e mezzo è mio! Battuta a parte, il figlio è un dono enorme, ma non dà di più o di meno al genere femminile: non ci rende delle donne migliori o peggiori. Semplicemente sei madre o non lo sei. Tutto qui».

Dagospia l'ha ribattezzata «Nostra signora dei sondaggi»; un suo ex sostiene invece che sia «un'ottimista ottusa». In quale delle due definizioni si riconosce di più?

«Lo ammetto: sono davvero un'ottimista oltre ogni misura...»

Pierluigi Pardo debutta in Rai: laureato in Economia, suona il pianoforte, 7 segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 15 Ottobre 2022.

Il conduttore e telecronista sarà al timone del nuovo game show di Rai 2 «Ti sembra normale?», in onda dal 15 ottobre ogni sabato alle 14.00

La prima conduzione Rai

Pierluigi Pardo si prepara al debutto in Rai: sarà al timone del nuovo game show di Rai 2 «Ti sembra normale?», in onda dal 15 ottobre ogni sabato alle 14.00. In studio con il conduttore ci sarà la sondaggista Alessandra Ghisleri, direttrice di EuroMedia Research, che realizzerà in esclusiva per il programma i sondaggi al centro della sfida. Ad affrontarsi, nel corso della prima puntata, due concorrenti d’eccezione: Angela Rafanelli e Ciro Ferrara. Dovranno rispondere ad una serie di domande, cercando di indovinare insieme cosa è normale (e cosa

Laureato in Economia

Nato a Roma nel quartiere Trieste, il 4 marzo 1974, Pierluigi Pardo si è laureato in Economia alla Sapienza di Roma nel 1999. Da quell’anno al 2001 è stato Marketing Assistant Brand Manager alla Procter & Gamble, alternando al lavoro le sue prime esperienze radiofoniche presso le emittenti romane.

Ha condotto Pressing

Dal 2001 Pardo ha lavorato come inviato e telecronista per Stream, confluita poi in Sky Italia. Il suo modello per le telecronache delle partite di calcio? «Sono cresciuto con Piccinini, uno che ha saputo cambiare il linguaggio delle telecronache che prima di lui era molto tradizionale», ha detto nel 2018 al Corriere. Nel 2010 è passato a Mediaset e nel 2013 ha preso il timone di Tiki Taka - Il calcio è il nostro gioco, programma che avrà un grande successo di pubblico. Per Mediaset oltre a Tiki Taka nel 2018 Pardo ha condotto la nuova edizione di Pressing, storico programma di approfondimento calcistico guidato negli anni Novanta da Raimondo Vianello.

L’addio a Mediaset

Dal 2018 Pardo ha iniziato a collaborare con la piattaforma DAZN. Tre anni dopo ha lasciato Mediaset, un addio piuttosto turbolento. Di recente però il conduttore ha fatto chiarezza su quanto accaduto un anno fa, scusandosi pubblicamente con l’emittente: «Qualcuno ricorderà che lo scorso anno il mio addio a Mediaset non è stato il più sereno al mondo - ha dichiarato in un videomessaggio pubblicato su Instagram -. Bene, volevo dirvi che ho scritto una lettera all'editore Pier Silvio Berlusconi. Una lettera di scuse per non aver firmato il contratto di esclusiva che mi era stato proposto e per il quale mi ero impegnato. Ma ho cambiato idea quando mi sono reso conto che non c'era quella deroga, presente nelle tre stagioni precedenti, per poter fare la telecronaca di una partita settimanale di campionato su Dazn. Ho scritto questa lettera e credo sia giusto per un fatto di trasparenza e di onestà intellettuale, rendere pubblico tutto questo e, al tempo stesso, testimoniare che lo scorso anno non c'era il clima per fare un post e dirlo in maniera esplicita. L'ho solo detto in qualche intervista. La verità è che io a Mediaset sono stato benissimo. Ho passato 11 anni fantastici, sono cresciuto tanto, ho avuto tante occasioni e penso anche di aver fatto il mio. Tutto questo grazie a un'azienda che mi ha aiutato, supportato, che mi è stata vicina e che non è stata solo un'azienda ma anche una famiglia. Penso ai ragazzi dello Sport, Alberto, Yves, i ragazzi della redazione sportiva e anche tantissime altre persone che magari non sono conosciute ma che contribuiscono, assieme ovviamente all'editore, regista di tutto questo, al successo della squadra. In un clima, ripeto, davvero di famiglia che ho avuto la fortuna e il privilegio di poter vivere per 11 anni. Ci tenevo a dirlo, mi sembrava giusto».

Il primo romanzo

Nel corso degli anni Pierluigi Pardo ha scritto diversi libri a tema calcio (di cui due insieme al suo grande amico Antonio Cassano). Nel 2017 però ha dato alle stampe il suo primo romanzo: «Lo stretto necessario».

Suona il pianoforte

Forse non tutti sanno che Pierluigi Pardo sa suonare tastiera e pianoforte ed è un grande appassionato di musica. «Mi diverte da matti suonare il piano, anche se sono una mezza pippa. L’ho studiato da ragazzo grazie a mia cugina che faceva il Conservatorio», ha raccontato al Corriere nel 2018.

Vita privata

Nel 2014 Pierluigi Pardo è convolato a nozze con la pasticcera Simona Galimberti. In seguito alla separazione, dopo quattro anni di matrimonio, il conduttore ha conosciuto l’architetta e urbanista Lorenza Baroncelli, che qualche mese fa lo ha reso papà per la prima volta.

Pierluigi Pardo e Lorenza Baroncelli: «A casa nostra il calcio fa diventare amici Boeri e Antonio Cassano». Candida Morvillo il 4 Ottobre 2022 su Il Corriere della Sera 

Pierluigi Pardo e sono nel salotto della casa di Roma. Diego, tre mesi e mezzo, se ne starà placido e tranquillo fra le braccia della mamma per tutta la durata dell’intervista. Quarantotto anni Pierluigi, 41 Lorenza, i due stanno insieme dal 2018, lui malato di calcio, telecronista di partite prima a Sky, poi a Mediaset,; lei architetto, urbanista, già direttrice artistica della Triennale di Milano, esperienze alle Serpentine Galleries di Londra, al Long Museum West Bund di Shanghai e via così. Lui a lei: «Ci intervista perché vuole sapere che c’hai trovato in questo bifolco?». Lei non fa un plissé e comincia a raccontare: «Ci siamo incontrati in Triennale, c’era un evento, MilanoCalcioCity, per provare a fare cultura sul calcio, con invitati come Enrico Mentana e il sindaco Beppe Sala in quanto interisti, e c’era Pierluigi, che non conoscevo».

Nel senso che non ne sospettava l’esistenza? Pierluigi: «Esatto. Ma possiamo parlare quasi di colpo di fulmine: il sabato successivo, ci siamo ritrovati per caso sull’Appennino toscano al Dynamo Camp, un evento di charity per i bambini. Io vado e la vedo vestita uguale, con un abito che sembrava Star Trek, tutta glitterata. Lì, è scattato il colpo di fulmine. Il giorno dopo, io avevo la telecronaca di Empoli-Roma ed è venuta allo stadio con me». Lorenza: «Abbiamo scoperto che, in realtà, abbiamo molto in comune, soprattutto la scoperta di luoghi nuovi, dei viaggi. Poi, magari, lui si sposta seguendo le partite, io cercando architetture». Pierluigi: «Teoricamente ci piace viaggiare, ma col lockdown, abbiamo avuto solo botte di vita a Fregene. Prima della pandemia, però, abbiamo fatto un viaggio bellissimo nei Paesi baschi, partendo in auto da Milano, dove io sono andato per mangiare e lei per vedere architettura contemporanea». Lorenza: «Diciamo che lui mi porta a vedere stadi, io lo porto a vedere monumenti». Pierluigi: «Monumenti... abbiamo dormito all’Unité d’Habitation di Marsiglia progettato da Le Corbusier, un casermone di cemento, di cui posso riferirle cose sorprendenti: è stato fatto in calcestruzzo armato e questo ha aiutato a democratizzare l’abitare. Giusto? Ho detto bene, Lory?»

Un’altra visita memorabile? Pierluigi: «A Miami, come prima cosa, mi ha fatto vedere un parcheggio. A Civitanova Marche, un ufficio postale». Lorenza: «Sono master pieces dell’architettura contemporanea. Alla fine, quando glieli racconto, si appassiona. E si diverte pure». Pierluigi: «Lei, per me, è la persona che mi ha riempito di dialogo, di comunicazione, di felicità. Senza conversazioni interessanti, non c’è vita di coppia». Lorenza: «Io ho scoperto che mi piace accompagnarlo alle partite. Abbiamo comprato le cuffie per il bimbo e portiamo anche lui. Pierluigi segue il gioco, io guardo lo stadio, la sua architettura, e le persone: in fondo, da urbanista, mi occupo di società e, allo stadio, capisci tante dinamiche sociali e umane».

Quando vi siete conosciuti credevate ancora nell’amore o ne eravate delusi? Pierluigi: «Io ero separato da un anno, ero in una fase di mezzo, ma con Lorenza è stato qualcosa di diverso da tutto il resto, qualcosa che è cresciuto. Diciamo che avevo fiducia nell’amore, ma non avevo l’idea di poter costruire una famiglia. Poi, nel primo lockdown, il rapporto si è molto rafforzato e ho iniziato a pensare all’ipotesi di avere una creatura. Ora, questo è un periodo molto doloroso perché mia madre non sta bene, ma questo pischelletto mi è di grande conforto. Quando mi sveglio la mattina e lo vedo sorridere, mi sento davvero un super eroe». Lorenza: «Io mi era appena trasferita a Milano per fare il direttore artistico della Triennale. Prima, a Mantova, ero assessore alla rigenerazione urbana. Non cercavo in alcun modo una persona, ero concentrata sul lavoro. Il nostro è stato un incontro libero proprio perché non era cercato. Concordo sul lockdown come momento chiave: sotto sotto, ci siamo fatti delle domande, abbiamo provato paura». Pierluigi: «Non la metterei così: io lì ho capito che stavo veramente bene con te, al netto del dolore di quello che accadeva fuori».

Anche per lei, Lorenza, la voglia di maternità è arrivata in lockdown? «Io l’avevo già da tempo, ma non avevo trovato l’occasione giusta. Vengo da una famiglia numerosa, con cinque fratelli: sarebbe stato difficile per me immaginare di non avere un figlio. Con Pierluigi, la decisione è arrivata in modo molto naturale». Pierluigi: «“È triste morire senza figli”, direbbe Nanni Moretti in Bianca».

Il nome Diego è un omaggio a Maradona? Pierluigi: «Maradona lo amo, ma Diego era il nome del nonno. E Diego Pardo suona benissimo: sembra un cantautore pronto per il mercato sudamericano. Amiamo entrambi la musica, io ho anche ripreso a suonare la tastiera, sono amico di Max Pezzali, Calcutta, Tommaso Paradiso... Siamo stati anche con Diego nel backstage del concerto di Jovanotti».

Ed è molto amico del calciatore Antonio Cassano, con cui ha scritto due libri. Che cosa succede se a casa vostra s’incontrano, che so... Cassano e l’architetto Stefano Boeri? Pierluigi: «Succede che il calcio è una livella, unisce tutti, interessa a tutti. Pure quelli che lo detestano hanno un’opinione. Quando ho conosciuto Rem Koolhaas, uno dei più importanti architetti al mondo, tifoso del Feyenoord Rotterdam, mi ha chiesto che ne pensavo di Juve-Ajax che si giocava a breve». Lorenza: «Il mondo dell’architettura non è elitario: parla di società, di città, di contemporaneità». Pierluigi: «Maurizio Cattelan mi ha raccontato che la sua prima opera è stata un biliardino». Lorenza: «Pierluigi e Maurizio si stanno simpaticissimi». Pierluigi: «Lei si sta chiedendo: ti sembra normale che... un telecronista di calcio stia con un’intellettuale?».

«Ti sembra normale?» è il titolo del programma che condurrà su Raidue alle 14 il sabato dal 15 ottobre. Che cos’è? Pierluigi: «Parte da un grande sondaggio che indaga la pancia del Paese. Pone domande come: ti sembra normale spiare il cellulare del partner? Ti sembra normale rubare un asciugamano dall’hotel? Ti sembra normale avere un figlio preferito? Rispondono due concorrenti e devono indovinare la risposta data dagli italiani».

E a voi sembra normale spiare il cellulare del partner? Pierluigi: «Lorenza vorrebbe spiarlo». Lorenza: «Normale non è, ma in certi momenti, si può». Pierluigi: «Per me, è sbagliato in assoluto».

Col senno di poi, cosa non pensavate normale in amore e invece lo è? Lorenza: «Trovare uno strepitoso compagno di viaggio e di vita».

Franco Vanni per “la Repubblica” il 5 gennaio 2022. Telecronista e conduttore. Da ragazzo, responsabile marketing in una multinazionale. Pierluigi Pardo cambia pelle per l'ennesima volta e annuncia. «Sarò football lead di Dazn. Lavorerò nel team di Ughetta Ercolano al coordinamento editoriale dei contenuti sul calcio. La squadra è giovane, entusiasta, piena di talento». 

Continuerà le telecronache?

«Certo. Ho cominciato a cinque anni commentando le mie stesse prodezze nel corridoio di casa. È la mia vera passione».

Quali novità porterà?

«Dal 16 gennaio parte il programma della domenica sera di Marco Cattaneo, un punto autorevole e leggero sul weekend. Poi ci sarà il Coca Cola Super Match, analisi divertente di una delle sfide clou.

Tornerà a condurre un talk?

«Ci sto pensando. Vorrei contaminare il pallone con altri mondi. Come dice Mourinho, chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio». 

Farete parlare gli arbitri in tv?

«Siamo stati i primi a introdurre un commentatore tecnico specifico in tempo reale, l'ex fischietto Luca Marelli. Se Rocchi decide di mandare gli arbitri a parlare in tv siamo pronti a ospitarli».

La parola "studio" resta tabù?

«Qui parliamo di "square", spazio polifunzionale in cui prendono vita tanto i contenuti live quanto quelli on demand». 

Con lo streaming, in ritardo rispetto all'evento, la diretta è un concetto superato?

«Io stesso ho visto la finale dell'Europeo fantozzianamente abbarbicato su un balconcino, visto che il vicino riceveva prima il segnale. È inevitabile ma è comunque diretta a tutti gli effetti». 

Ventuno anni fa lei era a Stream, oggi a Dazn. Che analogie nota fra l'esplosione del satellite e dello streaming?

«Sono rivoluzioni. Il satellite portò il calcio nelle case. Dazn insegna che il pallone si può seguire ovunque. Stiamo contribuendo alla digitalizzazione del Paese, anche grazie ai giovani che insegnano ai padri». 

Com' è cambiata la narrazione del calcio?

«Oggi puntiamo su highlights e interviste brevi. E ci esponiamo alla critica continua dei social, che a me non spaventa: non ho mai bloccato nessuno. Ma al centro per fortuna resta il pallone. E siamo fortunati: ci mandano allo stadio gratis per raccontare le partite».

Dopo i problemi di inizio campionato, ha chiesto a Dazn garanzie sulla qualità del servizio per gli abbonati?

«Non ne ho bisogno, vedo il lavoro che viene fatto ogni giorno. Le iniziali problematiche di aggiustamento sono superate». 

La spizzata, i quinti, i braccetti, la transizione ... Delle espressioni in calciatorese, cosa salva?

«Adoro l'originalità. Il nome e cognome del marcatore scanditi da Fabio Caressa. Il "rete" di Compagnoni. Le sciabolate di Piccinini. Non mi piacciono espressioni antiche come gli alabardati, i partenopei, la barba al palo. Meglio l'ombrellino nel long drink del mitico Nicola Roggero, allora». 

Chi è il suo idolo professionale?

«Beppe Viola, per distacco. Poi Pizzul, Galeazzi, D'Aguanno».

E come uomo?

«Nel mio pantheon ci sono Mandela e Guccini e Troisi. Pannella, Pertini, De Gregori. Ma chi mi ha cambiato la vita è Springsteen». 

Su Repubblica Tv ha curato "È il calcio bellezza", su Dazn ci sono le sue pillole di storytelling "Parto con Pardo". La diverte questa modalità di racconto?

«Sì, marca l'intreccio del calcio con la vita, la cultura, l'economia, la politica. Buffa ha fatto scuola».

Lei, laureato in Economia, ha mai pensato a un programma sugli aspetti finanziari del pallone?

«Non farebbe grandi ascolti. Però è vero che oggi i tifosi quando la loro squadra compra un campione sono sì felici ma anche preoccupati per la spesa. Tutti tranne quelli di City e Psg, ovviamente».

Un telecronista che ruberebbe alla concorrenza?

«Nessuno. O forse troppi. Il livello medio è elevatissimo. Ci si immagina in competizione fra noi, ma siamo amici. Fare una telecronaca e poi andare a cena con i colleghi resta un programma imbattibile»

·        Roberto D'Agostino.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 16 novembre 2022.

Dopo che il New York Times ha definito Dagospia “la testata più affidabile del gossip italiano”, abbiamo cercato di capire da Roberto D’Agostino, il deus ex machina del sito tanto provocatorio quanto ben informato, quale sia il suo segreto. E lo abbiamo scoperto subito, senza tanti giri di parole, quando ci ha risposto al telefono: «Scusami per l’attesa, ma c’ho più cazzi ar culo de Kevin Spacey». Se non vi è chiaro il concetto, o non avete mai letto Dago o non avete ironia. In alcuni casi entrambi. Fatto sta che, da più di vent’anni, non solo è in grado di far sorridere dissacrando qualsiasi notizia passi dal rullo del suo spazio digitale, ma riesce a sfornare degli scoop che spesso hanno dell’incredibile.

 Come nel caso della rottura tra Francesco Totti e Ilary Blasi, che l’ha portato ad essere elogiato persino oltreoceano. Tanti sapevano, nessuno poteva o voleva scrivere «dell’orgoglio coatto» ormai infranto. Anche perché, ci ha spiegato, «non era facile mettersi contro l’ottavo re di Roma». Ma se agli insulti e alle minacce ci si abitua, è più difficile avere la forza economica di poter sopportare le querele: «A una settimana dall’inaugurazione me ne sono arrivate cinque». Soprattutto per questo «per chiunque altro è difficile replicare quello che facciamo».

Ma, nonostante tutto, continua senza padroni, non vuole editori («tutte le offerte per vendere le ho rifiutate») e neanche un socio («non potrei fare come cazzo mi pare»). Eppure, se il riconoscimento del NYT gli ha fatto piacere, non è soltanto sfornare delle esclusive esplosive che fa di Dagospia un punto di riferimento, ma lo stile. E per arrivarci, visto che nel tempo in tanti ci hanno provato (finora senza successo), ci ha spiegato che i riferimenti non provengono solo dall’ironia romanesca del «me rimbalza e nun me ne po’ frega’ de meno», ma persino da capolavori della cultura, sia orientale che occidentale: dalle Mille e una notte alla Recherche di Marcel Proust a Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino («che partiva da pettegolezzi»). L’altro e il basso, il sacro e il profano e la salute prima di tutto, perché «ogni storiella, passato un po’ di tempo, diventa Storia». 

Roberto D’Agostino è stato incoronato “re del gossip” anche dal New York Times.

Mi ha fatto piacere, ma qui siamo sempre incasinati e c’è poco tempo per pensare di autocelebrarci. Non si finisce mai. Anche perché non facciamo opinionismo, qui riportiamo i fatti. E l’età avanza… 

Non mi dirà che si sente vecchio.

Te ne accorgerai a 74 anni, alla mia età andrai in decomposizione.

Non avete festeggiato?

In redazione abbiamo stappato una bottiglia di champagne. È stato un bel riconoscimento, solo che poi in Italia, come al solito, ti continuano a saltare addosso con l’invidia e il rancore. Sai cosa mi colpisce sempre? Che altri riprendano le notizie di Dagospia senza manco citarci. E invece il New York Times, che non ne avrebbe nessun bisogno, ha dedicato due righe su chi aveva tirato fuori la storia di Totti e Ilary. 

Come mai a volte siti o giornali non citano chi ha tirato fuori la notizia per primo?

Ma che ne so. Io poi faccio un sito che è un aggregatore di notizie, le prendiamo da destra, sinistra e dal centro, non ho problemi a citarli, semmai li metto in rilievo. Anzi, quando trovo giornalisti che sanno scrivere, che hanno notizie, non ho mai avuto problemi di invidia per dargli visibilità. Sai per chi provo invidia?

Mi dica.

Quando leggo i libri di Truman Capote, di Dostoevskij, di Ennio Flaiano, di Giorgio Manganelli. Verso di loro posso provare invidia, ma di quelli che scrivono oggi che invidia si può provare? Se poi mi capita di leggere Shakespeare, mi vien voglia di chiudere tutto e di aprire una pizzeria al taglio… 

Il New York Times che ha definito Dagospia “il sito italiano più affidabile di gossip” è più una medaglia per voi o più uno schiaffo per il resto del giornalismo italiano?

Ma no, dai, anche il resto del giornalismo italiano ha tante notizie. Certo, quella su Francesco Totti e Ilary Blasi è una storia particolare. Nel mondo sportivo romano era una vicenda nota da tempo che la coppia fosse già scoppiata. Ma prendere di petto l’ottavo re di Roma non era facile. Qui Totti ha rappresentato lo scudetto del 2001 e una rivincita sociale per moltissimi. Quando arrivano i burini a Roma, quelli che vengono dall’Abruzzo o dalla Puglia per lavorare, diventano romani tifando Totti e la Roma. C’è questo meccanismo che gli fa acquisire un’identità attraverso il calcio. 

Il calcio non è soltanto un gioco.

No, non è solo un passatempo. Ti porta a sentirti parte della Capitale. Totti non va visto solo in chiave di cronaca rosa. Lui è riuscito a dare a tantissimi quell’identità che sognavano in una città nella quale desideravano integrarsi. Come negli anni ’50, quando hanno deportato dal Sud a Torino migliaia di persone per lavorare alla Fiat e quelli sono diventati tutti tifosi della Juventus. In quel modo si sono sentiti torinesi. Sono questi i meccanismi importanti che genera lo sport.

Ma perché, se tanti sapevano, solo Dagospia ha tirato fuori la notizia?

Non poteva pubblicarlo Il Messaggero, perché avrebbe voluto dire mettersi contro il loro lettore e quindi perdere copie. Ma ce lo vedi il quotidiano di Roma che titola: “Totti ha le corna”? Poi è stato lui stesso, nella famosa intervista con Aldo Cazzullo sul Corriere, a confermare tutto quanto. 

Quando ha preso la decisione che era il momento di renderlo noto?

Ho preso come appiglio uno scazzo familiare che i due hanno avuto in un parco giochi di Castel Gandolfo e da lì ho pubblicato che la storia era finita. Anche se lo era da tempo. Poi è stato importante tirar fuori la famosa foto di Noemi Bocchi vicina a Totti allo stadio.

Da quel momento la notizia è esplosa e a distanza di quasi sei mesi se ne parla ancora.

Ora è una storia che sta diventando eccitante perché hanno preso la via del tribunale, e quindi sarà straordinario vedere il lancio di mutande sporche, come accaduto tra Johnny Depp e Amber Heard, che alla fine è diventata come una serie Netflix. Quello è stato uno dei grandi eventi più seguiti al mondo. E in Italia ci stiamo divertendo con l’orgoglio coatto tra Totti e Ilary. 

Ha ricevuto insulti e minacce dopo lo scoop?

Quelli li riceviamo sempre, sono all’ordine del giorno. Ma non mi metto a preoccuparmi per quello che mi scrivono sui social, neanche li leggo. Se fai un sito di questo tipo ci sta la querela, l’insulto, lo sberleffo. Non è che posso dirmi sorpreso. 

Forse ultimamente sono più permalosi i politici. Nei giorni di formazione del governo di Giorgia Meloni sia Licia Ronzulli di Forza Italia che Adolfo Urso di Fratelli d’Italia hanno querelato Dagospia.

Ronzulli e Urso sono gli ultimi di una lunga serie. Tre querele me le ha fatte anche Matteo Renzi, ma sai quante altre? Devo dire che a volte sbagliamo anche noi, e quando succede lo scriviamo. La maggior parte, però, sono intimidatorie e basta. Ti vogliono mettere paura. Io nel 2000 ho aperto il sito e nella prima settimana mi arrivarono cinque querele. Forse pensavano “questo lo mettiamo subito fuori gioco”, invece sono ancora qui. 

Ha mai fatto il conto di quante denunce ha ricevuto?

In più di vent’anni non ho mai calcolato quante ne ho ricevute, ma so per certo che ho più spese legali che per il lavoro. Ecco perché per un altro giornalista non è possibile creare un sito simile a Dagospia. Appena pubblichi un certo tipo di notizie ti arrivano subito le querele e occorre aprire il portafoglio. E io non ho un editore dietro come possono essere Carlo De Benedetti o Urbano Cairo, quindi occorre essere capaci di regolarsi. A volte alcune cose non posso pubblicarle perché sono sicuro di finire nei guai. Se avessi un editore che paga i risarcimenti danni sarebbe ben diverso. 

Non ha mai ricevuto offerte per acquisire Dagospia?

Altro che, ma a tutte le proposte che ho ricevuto ho detto di no. Ho creato questo sito quando avevo già cinquant’anni proprio perché non volevo nessun padrone. Ma perché devo stare a combattere con il caporedattore, il vice direttore, il direttore? Gente che già allora ne sapeva la metà di me. Perché non posso fa’ come cazzo mi pare? Non voglio avere nessuno che mi dice cosa pubblicare. Appena ci provano li mando affanculo. Voglio essere libero di fare le mie cose, che siano bello o stronzate.

Non c’è cifra che le farebbe cambiare idea?

No no, non esiste offerta che possa convincermi a vendere Dagospia. Non voglio avere neanche un socio, non ne ho bisogno, perché comunque avrei qualcuno che mette il becco nel mio lavoro, cosa che non sopporto. Sono stato all’Europeo, a Panorama, 27 anni all’Espresso, conosco bene come funzionano certe dinamiche. Quando ho aperto Dagospia ero dipendente dell’Espresso, ma non mi hanno detto niente. 

Non hanno capito la forza del web?

Per niente! Non mi hanno neanche fatto notare che avevo l’esclusiva. Consideravano Internet come lo considerava Paolo Mieli: «Una moda che passa, come il borsello». Non lo prendevano sul serio, era sottovalutato, pensavano fosse una bolla. Consideravano scrivere sul digitale degradante, di serie B. Invece poi sono stati costretti a utilizzarlo e oggi tutti ci puntano molto. 

Anche perché la crisi della carta stampata è innegabile.

Non so dove abiti tu, ma qui a Roma la grandissima crisi è nel trovare un’edicola. Sono sparite quasi tutte e quelle rimaste sono diventate contenitori di gadget, souvenir, bibite e ombrellini. Per trovarne una devi fare dei chilometri a piedi. Ormai mi sembrano come le cabine telefoniche, nessuno ci va più per comprare un giornale. 

Men che meno i giovani, a quanto pare.

Per i giovani c’è soltanto il telefonino sempre in tasca e non cercano l’edicola, la libreria, non gli serve più neanche il diario. Hanno tutto dentro il cellulare. Poi lo usano anche per telefonare, ma disporre di un computer così portatile è una rivoluzione che ha dato vita a un altro mondo. 

Il giornalista Gigi Moncalvo disse: «Se qualcuno in Italia ha bisogno di cercare giustizia non chiama più Corriere o Repubblica, ma il Gabibbo o le Iene». È davvero così?

A volte anche il Gabibbo o le Iene partono dalla carta stampata. Tutto nasce da tutti. Non è che quando è arrivata la televisione è morto il cinema e quando è arrivato il cinema è morto il teatro. Continuano a coesistere. Questa idea che Internet farà scomparire la carta mi sembra esagerata, certamente rimarrà in una misura diversa. Il teatro dell’opera da quanti secoli esiste e funziona al di là di tutte le invenzioni che si sono succedute nel tempo? Anzi, l’opera è una delle poche realtà che riesce a fregarsene del web, perché è totale e contiene musica, balletto, recitazione e tante altre arti. Ma sai qual è l’articolo più cliccato di Dagospia in tanti anni? 

Quale?

Uno incredibile, che mi è toccato tenere tutto il giorno in apertura. Non di sesso, non di politica, ma quando ho ripreso dal Daily Mail una ricerca universitaria che sentenziava che le uova non vanno messe in frigorifero. Anch’io alla mia età le tenevo nella vaschetta, e invece non si deve fare.

Adesso sono curioso, perché?

Mettendole in frigorifero si uccide l’uovo. Infatti va in frigo quando la temperatura è superiore a 27 gradi, non a caso quando le compri al supermercato non sono refrigerate. E la gente si è chiesta: ma quante uova ho ucciso? Questo sorprese tantissimi lettori, erano impazziti. Un’altra è che per fare il ghiaccio non devi usare l’acqua fredda, ma l’acqua calda. Ma sono storie divertenti o no? 

Molto divertenti. Ma su Dagospia unite l’alto e il basso, spesso dando spazio anche a dibattiti o polemiche culturali. Ma ci sono ancora gli intellettuali oggi?

Per esempio c’è Giampiero Mughini, al quale mi lega una amicizia quarantennale e sono ben felice di averlo vicino su Dagospia. Ma oggi non ci sono in giro tanti Pasolini con Scritti corsari e non c’è una vivacità di polemiche come c’era una volta, quando c’erano le ideologie. Finite le ideologie, si pensava che sarebbero rimaste le idee, invece sono scomparsi sia gli ideali che le idee. 

Chi sono gli intellettuali oggi, se ce ne sono?

È la definizione di intellettuale che mi risulta difficile da circoscrivere oggi. Ci sono tanti giornalisti, ma per la mia generazione gli intellettuali erano Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Paolo Volponi, Alberto Arbasino, Giorgio Manganelli. Non vorrei scambiare adesso l’intellettuale con il giornalista che ha uno stile. Nel campo dell’arte c’erano gli Achille Bonito Oliva, i Germano Celant, i Federico Zeri, che erano dei giganti. Oggi ci sono molti giornalisti che provano a fare opinionismo, ma che non hanno il bagaglio intellettuale e culturale che avevano i predecessori. 

Lei si sente un intellettuale?

Ma chi, io? Guarda che ti denuncio! No no, mi piace sentirmi, ancora più che un cronista, un portinaio. Dagospia è una portineria digitale che racconta di quello che non ha pagato la cambiale, dell’altro che ha un figlio fuori dal matrimonio o di quella che c’ha le corna. In passato era il taglia e cuci strapaesano. Ma bisogna ricordare che tutta la letteratura è pettegolezzo. Pensa a Marcel Proust con Alla ricerca del tempo perduto, quella è una cronaca pettegola, scritta in maniera sublime, dei salotti parigini. Così come Truman Capote, che descriveva l’alta borghesia newyorkese, oppure Alberto Arbasino in Fratelli d’Italia, un capolavoro pieno di petteggolezzi dell’epoca, tra principesse e vita mondana dei ragazzotti. A me quando mi dicono che faccio gossip è un’onore perché mi paragonano a Tacito, anche lui partiva dal pettegolezzo. Ogni storiella, passato un po’ di tempo, diventa Storia.

Ci ha mai pensato di esportare Dagospia all’estero?

Guarda, ho un algoritmo che mi calcola chi legge e dove e mi dice che il 20 per cento del traffico originato dal sito viene dall’estero. Appena un italiano esce dal Paese si tiene aggiornato con Dagospia, è un modo per rimanere aggrappati alla loro cultura. A parte i Paesi arabi, che ci hanno bannato perché pubblichiamo delle foto che secondo loro sono erotiche. 

Ma fare un’operazione alla Huffington Post, cioè sbarcare proprio in altri Paesi?

Eh amo’, io racconto i fatti d’Italia, non degli altri Paesi. Per farlo a Londra dovrei avere una redazione a Londra, così come a New York. 

Bisognerebbe trovare un Roberto D’Agostino a Londra, a New York, e così via.

Eh sì, perché io bene o male in Italia ho tutta la mia rete di conoscenze. Sei affidabile, la gente ti racconta le storie e io le tiro fuori. Non è che se vai in un altro Paese ci entri così facilmente. 

Ma Dagospia potrà vivere anche senza Roberto D’Agostino?

Ma sì, ho una redazione validissima. Ormai lo stile è stato metabolizzato. Un titolo con un guizzo lo hanno imparato, infatti non c’è sempre bisogno che li rifaccia io. Li faccio spesso, ma di solito non cambio quelli degli altri. Hanno capito qual è l’ironia. 

Ci condensi l’ironia di Dagospia in poche parole.

Intanto mai riportare nessun fatto come se fosse una tragedia. Perché il giorno dopo diventa una farsa. In questo ci viene in soccorso quel cinismo romano dove tutto passa, come diciamo noi: me rimbalza e nun me ne po’ frega’ de meno. Per questo bisogna avere ironia interpretando le notizie, per non pensare che siano sempre la fine del mondo. Noi non abbiamo quell’arroganza dei giornaloni che ti dicono come devi mangiare, scopare e vivere. La morale non la vuole più nessuno. Condensato in un titolo, qualunque cosa accada non è un diluvio, ma un pediluvio universale. 

Ed è già un titolo.

E poi ricordiamoci, come diceva Eduardo De Filippo, che alla fine sono tre le cose importanti nella vita: la salute, la salute, la salute. 

In politica c’è spesso questo atteggiamento di après moi le déluge.

Arriva Berlusconi e crolla tutto. Arriva la Meloni e crolla tutto. Ma ti accorgi che tutto passa, l’aspetto simpatico però rimane il racconto. Quello ho sempre cercato. Infatti ho due libri che sono i miei pilastri. Le mille e una notte, da cui nasce la cultura orientale, con Sherazade che racconta delle storie al sultano per non farsi ammazzare. E l’altro è il Decameron di Giovanni Boccaccio. È la storiella che mi piace, a me. Infatti quando incontro qualcuno gli chiedo di raccontarmi una storia. 

C’è da dire che è sempre stato in grado di farsene raccontare parecchie, fin dalla sua rubrica sull’Espresso, Spia, antesignana di Dagospia.

Anche lì erano tutti raccontini, storielle, cazzatine, battutacce, incontri. Quelle cronache che ti portano a divertirci quando sei tra amici. Il racconto è l’essenza, tra costume e società. La cronaca ti fa capire molto più della letteratura e del cinema il mondo in cui vivi nel presente. E invece altri fanno i poeti o opinionismo. Io non ho mai scritto un editoriale, perché l’editoriale lo fa il lettore leggendo i pezzi. Non dico che cosa deve fare il lettore, che ha la sua autostima. Poi oggi con i social il lettore è diventato una star. Io propongo una storiella e il lettore ci fa sopra la sua a-morale. Anche perché lo vuoi sapere che cosa succede quando muori?

Ha avuto una spiata anche su questo?

Eh sì, che te la piji n’der culo! Per cui, nell’attesa, divertiamoci.

Luigi Lupo per true-news.it il 10 novembre 2022.

 Il New York Times lo ha incoronato “miglior sito di gossip” in Italia. Gongola, Roberto D’Agostino, eclettico giornalista, inventore della creatura che tutti leggono. E chi non legge mente. Quel Dagospia che, con la sua grafica volutamente trash, ti cattura in un vortice di retroscena politici, gossip, corpi e cafonate. Ma per Roberto d’Agostino, penna e volto noto del giornalismo italiano, alto e basso vanno di pari passo.

“Parliamo di notizie e non è un problema che siano di gossip o politica. Se le abbiamo, le pubblichiamo”. Il riferimento è naturalmente alla telenova di Totti e Ilary Blasi ma D’Agostino estende il discorso aprendosi a riferimenti letterari. La sua voce al telefono è calda e possente, la cadenza richiama la romanità che spesso caratterizza i titoli dei pezzi di Dago. 

“Se vogliamo – spiega – anche Tacito, con i suoi annali, può essere considerato un Alfonso Signorini dell’epoca dei romani. Però è entrato nella storia. Proust ha raccontato magistralmente i salottini parigini così come un riferimento è Arbasino con “Fratelli d’Italia”.

Tutto è racconto, ogni vicenda entra nella storia. “Perchè gli uomini – continua il giornalista, la cui carriera è iniziata come conduttore radiofonico – hanno bisogno di raccontare storie. 

Ed ecco che Dagospia è come la portineria di un condominio: “Chi passa ti spiffera delle corna della moglie o altre storielle”. A Roberto non mancano le metafore per raffigurare la sua creatura: “Dago è una piazza digitale. Una sorta di rullo di carta igienica che mischia vari settori. Perchè la vita è fatta così: un giorno vuoi dire qualcosa di impegnato, l’altro una barzelletta”.

E così il portale viaggia tra “cafonate” e retroscena politici con un taglio tutto suo. Dago osserva il mondo con gli occhi della satira e la voglia di scherzare sul viso. “Tengo – prosegue – a mantenere una certa distanza nei confronti delle notizie. Che un giorno sono fatali, il giorno dopo passano. Do molta importanza ai volti. Dalla foto di un viso, si può capire chi ha combinato un misfatto”. Foto ma anche eclettici, dissacranti e irriverenti foto-montaggi.

Quando si apre Dagospia, la risata è assicurata. Ma spesso, navigando, si ha la possibilità di entrare nei palazzi della politica o nelle vite dei vip grazie agli scottanti retroscena. “Con cui vogliamo sedurre il lettore. Cerchiamo, ogni volta, di rubare due minuti di lettura all’utente”.

I retroscena, i “dagoreport” piccanti o le caricature dei politici hanno portato, in ormai 22 anni di storia del “bollettino d’informazione”, a numerose querele, cause e diffamazioni.

“E’ normale facendo un sito del genere. Ce lo aspettiamo. E devo dire che le lamentele arrivano non solo dai politici – che so, Urso o Ronzulli – ma anche da attori e gente dello spettacolo. Nessuno vuole essere sbertucciato“. Roberto tira avanti, con la schiena dritta, fregandosene di querele o critiche anche sulla rappresentazione della donna. Anche qui le idee sono molto chiare: “Tutte queste chiacchiere attorno al politically correct appartengono a un mondo non reale.

Alla gente non frega niente dell’aggettivo, della teoria gender, dello schwa. La gente vuole anche divertirsi: se racconti storie che catturano la loro attenzione e le distraggono, le leggono”. E poi, in pieno romanesco: “Woke de la, woke de qua – sono tutte vicende che riguardano una ristretta cerchia che non conta niente. Infatti poi ha vinto la Meloni. Il resto sono tutte pippe”.

Già, Giorgia Meloni. Che per Dagospia è semplicemente “la ducetta“. “E’ un governo che si è insediato per la prima volta. Ha troppa gente intorno, incapace e inadeguata. Questo accadeva anche per i governi di Conte e Salvini. Ma l’atteggiamento di Meloni ci porta in situazioni come gli scontri sulla Francia sulle Ong. La situazione è gravissima. 

Perchè se Meloni ha chiesto un aiuto a Macron per far sbarcare gli immigrati a Marsiglia, e poi Palazzo Chigi ha twittato contro la Francia, è naturale che a Parigi abbiano storto il naso. Con un governo, appena insediato, con l’Europa che lo guarda storto, non è il caso di fare “la ducetta”. E’ solo l’inizio.

La gente vuole “parlà de bollette, invece hanno fatto provvedimenti su argomenti – i rave o il tetto al contante – per piazzare la bandierina. Che poi gli è ritornata nel culo”. Mentre dall’alto lato, D’Agostino vede una sinistra completamente “priva di una testa”. “E’ spaccata – aggiunge – così come lo sono tutti gli altri partiti eccetto Fdi e M5S. Anche il Terzo Polo è diviso tra Renzi e Calenda”.

Tensioni e divisioni che D’Agostino poi scioglie in una colta lettura del panorama musicale. Del resto – tiene a chiarirlo – sono “nato come giornalista musicale“. La Trap? “La musica e l’arte sono fatti di cicli. Ma ciò che rimane immortale è sempre contemporaneo. Pensiamo a un brano di Springsteen, ai dischi della Motown, ai Beatles, ai Doors. I trapper escono fuori di testa: ma della loro musica cosa resta?”.

La riflessione musicale ci porta direttamente a una considerazione sul ministro della cultura, Gennaro Sangiuliano, e sul sottosegretario, Vittorio Sgarbi, “uno di quelli che gridano per sentirsi vivi”. “Andare in un ministero non vuole dire organizzare una mostra, è molto difficile muoversi nella burocrazia delle istituzioni. Sgarbi se lo mangiano. Ecco perchè ci vuole un politico: perchè conosce il deep state, la macchina politica. Avrei preferito Giordano Bruno Guerri, Luca Ricolfi e Alessandro Campi“. Il tono di D’Agostino è tra il polemico e l’amareggiato: “Sono figure che hanno esperienza nella cultura e nella politica”. E che, siamo sicuri, leggono Dagospia. Non solo “il miglior sito di gossip italiano”.

Da veritaeaffari.it l’8 novembre 2022.

È suo il nome più affidabile del gossip italiano. Roberto D’Agostino, fondatore del noto Dagospia, viene definito così dal New York Times. Una vera incoronazione ufficiale per il giornalista e personaggio televisivo e per il suo sito. 

Il quotidiano americano, ricostruendo la fine dell’amore tra Francesco Totti e Ilary Blasi, ricorda come sia stato proprio Dagospia il primo a individuare seduta negli spalti di una partita di calcio quella che sarebbe diventata la fidanzata ufficiale Noemi Bocchi.

All’indiscrezione pubblicata seguì una secca smentita di Totti. Dopo pochi mesi, il matrimonio con Ilary finì. Una storia che si preannuncia ancora ricca di colpi di scena, visto che la coppia non ha ancora trovato un accordo per la spartizione del ricco patrimonio.

Ottavio Cappellani per mowmag.com l’8 novembre 2022.

Ecco, lo so, voi immaginate i giornalisti del New York Times (NYT per gli amici) in tweed, button down, clarcks, velluti a coste e tutto l’immaginario Robert Redford/Dustin Hoffman in “Tutti gli uomini del presidente” che con la loro tazzona di caffè in mano si informano sulle vicende italiane leggendo il Corriere della sera, Repubblica (qualcuno recentemente ha detto “scrivere su Repubblica è diverso da essere di Repubblica”), Il Foglio (per il turboatlantismo).

Bene. Con la minchia! 

Al New York Times leggono Dagospia. Adesso, non è la prima volta che ne abbiamo sentore, basta una ricerchina per vedere che già dal 2016 ai piani alti del NYT si chiedono “Ma Dagospia che dice?”. L’ultima novità è che non solo leggono Dagospia perché è il sito (o il giornale, oramai differenze io non ne vedo) di retroscena più informato e anticipatore che esista in Italia e anche fuori dai confini. È che al NYT sono pazzi della storia Totti-Blasi-Bocchi, con buona pace di chi “non leggo gossip”. 

La citazione del New York Times 

E infatti il NYT non solo ne legge, ma ne scrive pure. Citando, con la consueta e ineffabile precisione, fonti esatte e anticipazioni e scoop. “The most trusted name in italian gossip”, scrive Jason Horowitz, “il più affidabile sito di gossip, Dagospia” (continuo in italiano) ha fatto partire una guerra in cui vengono presi in ostaggio Rolex e Jimmy Choos (so’ scarpe). E come avrebbe fatto Dago non solo a scatenare questa guerra ma addirittura a “cambiare la venerata immagine di Totti”? Semplice. Pubblicando la foto di Ms. Bocchi dietro a Totti durante una partita di calcio.

Il che, con buona pace di chi scrive articolesse che nessuno legge, è assolutamente la verità. E ci voleva il NYT per spiegare a molti giornali italiani che le fonti si citano. 

Adesso, io non ho ancora bene capito cosa significhi la frase attribuita a non so chi di Repubblica. Però so una cosa: “Apparire su Dagospia e essere di Dagospia è differente”.

Maria Berlinguer per “Specchio – La Stampa” il 14 agosto 2022.  

«Ogni sera era capodanno, già alla fine degli anni settanta era cambiato tutto, c'era un mondo che non voleva più credere nella violenza, nelle cariche dei poliziotti e dei katanghesi, negli autonomi, in Pasolini, era quel mondo che aveva alle spalle Lotta Continua, il cantautore stonato, la spranga. E poi ancora l'eschimo, gli Inti-Illimani, i morti dappertutto e la frittatina al topo all'osteria».

La frittatina al topo mi manca... «Si chiamava così, quella che ci propinava l'osteria alternativa». Roberto D'Agostino, fondatore di "Dagospia", uno dei siti di gossip, economia e politica di maggior successo, è da sempre un fan dei magnifici anni Ottanta, quelli della Milano da bere, degli yuppie , del narcisimo sfrenato per i detrattori.

Cosa non va in questa narrazione?

«Tutto. Gli anni Ottanta sono stati anni di straordinaria innovazione e non solo dal punto vista tecnologico. Sono stati anni felici. Si diceva "Il privato è politico", "Vogliamo tutto", ma l'eroina era ovunque.

Un mondo che termina nel '78. Gli anni Settanta si chiudono con l'assassinio di Aldo Moro. Finisce il ciclo della politicizzazione, del privato è pubblico, del vogliamo tutto e subito. La società pubblica termina nel sangue e inizia l'era della felicità privata. 

Ma bisogna fare un discorso sociologico perché dai soliti capoccioni sono stati considerati gli anni dei socialisti, di Craxi e De Michelis, delle ruberie, come se prima non ci fossero mai state. Le tangenti sono nate con Adamo e Eva, non con i socialisti».

E invece?

«Quello è il decennio fondamentale, vengono messe le basi di tutto quello che abbiamo adesso. Il computer, anzi il personal computer. Il potere personale nasce nell'83 con Steve Job, inizia l'era del cellulare. C'è un cambiamento totale. Prima c'era il fax. 

Io mi invento l'edonismo reaganiano.  A "Quelli della notte" invece del comunismo parlavo dell'edonismo. Il cambiamento è avvenuto dopo quella guerra civile che abbiamo avuto in Italia negli anni Settanta.

Gli anni Ottanta sono gli anni del post moderno nell'architettura, della transavanguardia, di Bonito Oliva, di Gianni Vattimo e del suo pensiero debole. Non era un pensiero da dementi voleva dire che un pensiero forte, ideologico, che affrontasse la realtà con durezza andava a sbattere a destra. Bisogna fare surf sulla realtà, cavalcare la tavola, non bisogna andare a fondo, bisogna arrivare alla riva. Ecco perché occorre la velocità».

La velocità?

«Certo. Il mondo giovanile, il rap, il pop, la disco music, e quel desiderio di prendere per il culo i soloni. E poi chi è l'intellettuale che ha avuto più successo negli anni Ottanta? Umberto Eco, il più elitario di tutti. Il nome della rosa gioca tra sopra e sotto e vende tra milioni di copie Noi oggi abbiamo solo il frutto di quel periodo. Quando cade il muro di Berlino un informatico inglese s' inventa la mail. Nasce il modo del futuro, la rete.

Quando io ho fatto Dagospia nessuno mi dava retta. Lo sai cosa mi disse Paolo Mieli? Intenet è come il borsello, dura una stagione. La scempiaggine di quell'epoca. Per non parlare di Berlusconi che rompe la storia del monopolio televisivo. Noi eravamo un paese nel quale La Malfa non voleva la televisione a colori, io stavo in America, c'era la macchina per il ghiaccio, qui invece c'era la tv in bianco e nero». 

In che senso era contrario?

«Perché non dovevamo essere consumisti, ma che cazzo state a dì?»

 Erano anche gli anni degli yuppie, della Milano che non dorme mai, dei soldi facili edei crolli finanziari...

«Meglio i crolli finanziari che un Toni Negri con il passamontagna e la P38. Fanculo te e la P38. 2400 morti per questioni politiche. Meglio il frivolo, la discoteca, persino la cocaina è meglio della P38.

Per Pasolini avremmo avuto un mondo omogenizzato, ma di che? Io ho fatto la look parade perché ognuno aveva una divisa, ognuno è diverso dall'altro. Con l'abito che indossava ciascuno aveva un display e poteva comunicare non chi era ma chi voleva essere. La verità è che ai nostri soloni, gli rodeva il culo perché non davano più loro la linea politica al popolo bue.

Hanno rotto le scatole a quel povero De Michelis perché voleva ballare. Erano meglio Piperno, Faranda, Moretti che volevano solo ammazzare gli altri? Pensa solo a quello che è successo nella musica». 

Le discoteche?

«La video music, il montaggio e lo smontaggio della realtà attraverso i video, un'avanguardia che non era più quella della distruzione ma gioiosa. Chi andava in discoteca a ballare la disco music era considerato di destra, io ho fatto per tre anni il Titan, e i compagni andavano a ballare il rock. La disco music in America era la musica dei neri, invece in Italia era la musica dei neri fasci».

 Mai fatto politica?

«Scrivevo su Lotta Continua di musica, andavo alle manifestazioni, ogni sabato pomeriggio, ma in realtà ci andavo solo per scopare. Ho chiuso con la politica quando ci fu un corteo e ci fu davanti a me un assalto a un'armeria. A noi di De Mita, di Craxi, dei preamboli non ce ne fregava niente. Avevamo i fax. Io prima dovevo andare in tram a portare il mio articolo all'Europeo e a Lc. Non c'era niente, che mondo era?».

Riccardo Bocca per “TPI - The Post Internazionale” il 25 marzo 2022. 

Luca Barbareschi è un uomo brillante, appassionato, talentuoso, pronto per le sue idee a rischiare pesante. Ma lo stesso Luca Barbareschi, 66 anni il prossimo 28 luglio, nato a Montevideo da un padre imprenditore e una madre che ha cambiato vita e casa quando lui aveva soltanto sette anni, e anche un personaggio ruvido, tendente al rissoso, campione a volte di un’arroganza che lo include a pieno diritto nell’elenco dei cattivi. 

Esistono insomma due Barbareschi, ed entrambi - poco prima che Vladimir Putin sconvolgesse il mondo gia stremato dal Covid invadendo l’Ucraina - hanno vinto una battaglia scivolosissima con la giustizia. L’accusa rivolta al regista, attore, conduttore, produttore televisivo e cinematografico, ex politico e non so cos’altro ancora, era di avere intascato illegittimamente dallo Stato 4 milioni di euro per quel teatro Eliseo di cui e proprietario a Roma.

Una storiaccia a base di presunte pressioni su parlamentari ed esponenti del ministero dell’Economia sfociata nel più morbido degli happy end: «Il fatto non sussiste», ha stabilito il giudice monocratico del tribunale capitolino. Dopodiche Barbareschi ha festeggiato a modo suo: attaccando. «Per cinque anni», ha dichiarato, «sono stato messo alla gogna: ora faro causa allo Stato». 

Se e per questo, sei stato anche prosciolto nel 2020 dall’accusa di avere rubato 813 mila euro tra poltroncine, moquette, condizionatori, sipari e altri materiali appartenuti alla precedente gestione dell’Eliseo. Togli per una volta la maschera da duro un po’ carogna e racconta la tua sofferenza.

«Ci tengo a dire che tutto quello che ho fatto per il teatro Eliseo non deriva dalla smania di potere. Odio il potere fine a se stesso. Sono stato spinto, piuttosto, da una voglia di restituzione affettiva alla comunità. 

Altrimenti con i 14 milioni di euro che ho incassato vendendo a Cola- ninno una mia azienda informatica sarei andato a veleggiare ai Caraibi assieme a qualche bella figa. Non l’ho fatto e sono stato pugnalato alle spalle con ferite profonde». 

Pugnalato da chi?

 «Dalla politica e da tutti i colleghi del mondo dello spettacolo. Non c’è stato nessuno al mio fianco, quando e arrivato il momento di dire “nessuno tocchi Barbareschi”. O meglio, “nessuno tocchi il teatro Eliseo”...». 

Fatto sta che con certi personaggi risarciti dalla giustizia le folle empatizzano. Nel tuo caso no, invece: al di la dei tuoi meriti professionali risulti antipatico. Perche?

«Non risulto antipatico al pubblico. Altrimenti In barba a tutto, il programma che ho condotto l’anno scorso in seconda serata su Rai3, non avrebbe avuto un milione di telespettatori. 

Sto sul cazzo a un gruppo ristretto di gauche au caviar che combatterò per tutta la vita. Sono quelli che stanno distruggendo il cinema italiano, il teatro italiano, quelli che non si battono affinchè la fiction italiana non sia ridotta a un gruppo di multinazionali - alle quali tutti hanno venduto, tranne il sottoscritto - per usare la Rai come un bancomat».

E vai di provocazione. Di recente, per non farti mancare nulla, a chi chiedeva a te ebreo se anche tua moglie lo fosse, hai risposto: «No. Lei e calabrese, che e peggio». E proprio necessario offendere?

«Ma no. Il problema della political correctness e la fine del senso dello humour. Penso per esempio al #MeToo e tutto questo branco di idioti della cultura post-moderna. Baudrillard, Derrida e Foucault ti dicono cose che non potrai mai capire, quindi chi e cresciuto con questa mentalità non può che diventare cretino. E senza senso dell’umorismo».

Non è, più semplicemente, che non ce la fai a scendere a patti con la tua aggressività? Anni fa hai mezzo menato un inviato de “Le iene” che ti rinfacciava di essere un campioncino di assenteismo quando facevi il parlamentare.

«Quello non sa ciò che dice». 

Lo hai picchiato.

«Gli ho spaccato il naso, a Filicudi. Ma tutto sta nel come in tv monti le scene. Hanno tagliato la parte in cui lui da addosso alla barca, cade mia figlia, batte la testa ed esce il sangue. Sono convinto che se il pubblico avesse visto quelle immagini si sarebbe alzato al grido di “Staccagli la testa”...».

Roberto D’Agostino invece lo hai trascinato per i capelli perchè, parole tue, «continuava a insultarmi e non faceva ridere». Cosa ti aveva fatto?

«Assegnava lo Zucchino d’oro a Domenica in. E già che c’era mi insultava. Allora, mentre in diretta cantava il coro dell’Unicef, l’ho accompagnato a modo mio per i corridoi della Dear».

E lui?

«Sono alto un metro e novanta. E’ stato zitto». 

Cosa ne pensi, oggi, di D’Agostino e del suo sito Dagospia?

«E l’unica fonte di comunicazione italiana. Se vuoi trovare una notizia in anteprima la trovi li. In questo e bravissimo». 

Avete fatto pace, insomma.

«Ci sentiamo ogni tanto. Non sono un tipo rancoroso».

Sei un tipo che spara a zero. Quanto ti e costato comportarti cosi?

«Tanto con i mediocri, pochissimo con i numeri uno». 

Con certi potenti sei dolce come lo zucchero filato. Hai detto della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: «La stimo infinitamente. E una donna straordinaria, in buona fede e perbene». Roba da diabete.

«E vero. Ho un debole, per lei. La conosco da tanti anni e sono convinto che sia davvero in buona fede. Il grande rischio, essendo lei una persona diffidente, e che si circondi di persone amiche ma non altrettanto preparate». 

Tuo padre era un partigiano bianco e tu flirti con una leader come Meloni che non ha rinnegato a dovere il fascismo.

«Giorgia non e una teppista fascista. Non lo e nella testa».

Parlando della tua, di testa: cosa ti ha spinto a candidarti alle elezioni politiche del 2008, riuscendo peraltro a farti eleggere nelle file del Popolo della libertà?

«Penso che la funzione di un cittadino sia quella di mettersi al servizio del proprio Paese e di essere sempre disposto a pagare: anche per le proprie trasgressioni». 

Ti sei candidato in un collegio sardo. Cosa c’entravi con la Sardegna?

«I sardi mi sono molto simpatici». 

Ah beh, allora.

«La verità e che potevo scegliere tra Liguria e Sardegna, ma i liguri mi irritano fisicamente. Sono un po’ tutti come Beppe Grillo». 

Poi sei diventato vice presidente della Commissione trasporti, poste e telecomunicazioni. Cosa ne sapevi di poste e trasporti?

«In effetti e stata una follia, unire i due ministeri. Ma sulle telecomunicazioni mi magno ancora molta gente».

All’epoca eri un fedelissimo di Gianfranco Fini, ex Movimento sociale italiano, ex presidente di Alleanza nazionale, fondatore di Futuro e liberta nonchè presidente della Camera. Che politico e stato?

«Gli ho voluto molto bene e credo che lui ne abbia voluto altrettanto a me. Gianfranco e stato un politico solitario, timido, astenico, grande oratore ma non seduttore di folle. Ha vissuto la politica con passione e al tempo stesso con poca empatia verso il popolo. Come Massimo D’Alema. D’Alema non ama il popolo, D’Alema detesta il popolo». 

Fini non e finito bene. Travolto dalle grane di famiglia, dimenticato da tutti. Anche da te.

«Non e vero. L’ho difeso in televisione e sui giornali. Gli ho anche telefonato e sono dispiaciuto per quello che gli e successo. Ciò non toglie che all’epoca mi sia incazzato con lui».

Per cosa?

«Potevamo avere un centrodestra coeso e non avrei fatto la pelle a Silvio Berlusconi per fatti privati. Le donne le hanno trombate tutti. Potrei fare l’elenco dettagliato con i nomi dei leader politici italiani e delle star che ci ritroviamo ancora oggi tra i coglioni perchè sono state le loro amanti. Del giudizio morale, se si parla di persone adulte e consenzienti, non me n’e mai fregato un cazzo, e appunto su questo litigai con Gianfranco. Il tema politico, allora, non era certo quello delle olgettine».

Il tema politico e giudiziario, per Berlusconi, era che Karima El Mahroug detta Ruby Rubacuori era minorenne.

«Ma Ruby non era minorenne! Aveva 17 anni! A 17 anni le ragazze la danno come se non ci fosse un domani. Nei miei camerini ho avuto volontarie anche di 16. Poi uno puo dire di no». 

Resta una pagina squallida. Per te, invece, qual e stato l’episodio peggiore del tuo periodo politico?

 «Due giornate dedicate dal nostro Parlamento alla lingua insubra e a citazioni in insubro della Divina commedia. Due giorni, in totale, per decidere se inserire o meno l’insubro nelle scuole».

Guardando nello specchietto retrovisore si può dire che te la potevi risparmiare, questa avventura a Palazzo?

«No, e stata arricchente. E ho voluto, tra le altre cose, la legge contro la pedofilia». 

Un problema cronico della nostra politica e quello dell’incoerenza: figlia piu del cinismo o della vigliaccheria?

«Dalla vigliaccheria». 

Anche tu pero hai fatto la tua parte, in quanto a incoerenza. Prima delle elezioni del 2008 avevi dichiarato: «An in Rai ha portato solo mignotte». Poi sei entrato in Parlamento e hai detto che il centro-destra doveva «occupare con nomine fresche la Rai».

«Non sono stato incoerente. In quel caso il tema non era l’occupazione della Rai bensì le mignotte. Per il resto non mi scandalizza che la politica occupi militarmente il servizio televisivo pubblico. Mi scandalizzo se mette dei cretini, degli incompetenti che fanno danni».

A proposito di competenze: uno che di televisione ne capisce e Berlusconi. Gli eri cosi caro che ti veniva a fare visita in camerino a teatro. Con lui a capo dell’allora Fininvest hai anche condotto con successo dal 1989 al 1994 su Retequattro il talk-trash matrimoniale “C’eravamo tanto amati”. Qual e il tuo giudizio su di lui come politico?

«Un giorno eravamo in Parlamento e mi disse: “Ma non ti stai annoiando”? Il suo problema e che non e appassionato allo Stato».

Lo hai detto anche a lui?

 «Gliel’ho detto tante volte». 

E come ti ha risposto?

«Lamentandosi che in politica tutto e difficile. Lo capisco. E un imprenditore, uno abituato a decidere le cose e farle». 

Come hai interpretato la sua decisione di proporsi a 85 anni per la presidenza della Repubblica, salvo poi dover rinculare? Delirio di onnipotenza, non comune slancio o arroganza senile?

 «Lui ama le sfide, e gli va dato atto che nella vita le ha vinte tutte. Non mi dicano che come candidato era meglio Frattini, di Berlusconi: l’unico, per inciso, ad avere capito subito che la primavera araba era una stronzata». 

Ancora più affettuoso ti sei dimostrato nei confronti di un super potente come Mario Draghi. Hai detto: «Se Draghi dice una cosa, la fa. Mi fido». E questo il potere che ti piace? Quello di un ex banchiere che si impossessa del Palazzo e mette il guinzaglio a tre quarti della politica?

«Venivamo da un periodo in cui c’era gente in giro capace di sostenere che “uno vale uno”. Gente a cui non ho creduto nemmeno per un quarto d’ora. Draghi parla l’inglese, sa cosa sono i financials e se alza il telefono e parla con Angela Merkel non sembra un analfabeta. Direi che e un vantaggio, per l’Italia». 

Ti vedrei bene anche nelle file renziane: un po’ destrorse, un po’ spregiudicate, illuminate dal genio autolesionista di un leader maestro nel seminare il caos con percentuali di partito risibili. Non trovi punti di contatto tra te e il leader di Rignano, con il tuo fare e disfare nello spettacolo e in politica?

«Si. Trovo che Matteo Renzi sia intelligente, molto intelligente. E poi e preparato, quando parla non dice cazzate. L’unico consiglio che vorrei dargli e di non rilasciare più un’intervista in inglese. Deve fottersene. E un italiano sveglio e tanto basta». 

Gli basterà anche per riconquistare il favore degli elettori?

«Sono convinto che sulla lunga distanza Renzi verrà fuori di nuovo alla grande. Accadrà quando spariranno i mandarini inutili come D’Alema». 

Ancora D’Alema? Ma allora e una fissazione.

«Perchè e un uomo cattivo, non e un uomo buono». 

Renzi invece e buono.

«Renzi si e battuto per battaglie importanti». 

Restando in zona poteri e potenti. Oggi chi incarna il potere vero, profondo, inossidabile, in Italia?

«La massoneria francese». 

E chi ne fa parte?

«Parecchi. Non io. D’altronde siamo una nazione che ha ceduto ai francesi Telecom e Sparkle (società specializzata in cavi di trasmissione intercontinentali, nda). E come se in Gran Bretagna British Telecom cedesse i suoi servizi ai polacchi o a noi italiani. 

Chiunque osasse proporre una cosa del genere alla House of Lords verrebbe sbalzato in automatico fuori». 

Certo tutt’altra realtà, rispetto al pianeta del teatro dove da decenni dirigi, reciti, produci e gestisci. Tutti sanno che il vostro e un campo povero, eppure la politica insiste con le sue ingerenze. Cosa ci guadagna?

«Niente. Ma ci considera talmente dei mentecatti da romperci comunque le palle». 

Hai detto, come atto di gratitudine verso il palcoscenico: «Non ci fosse stato il teatro, sarei diventato un delinquente». Perche?

«Perchè le violenze sessuali subite e la vita di merda che ho dovuto affrontare da ragazzino mi facevano sentire arrabbiato con il mondo. Il teatro mi ha non solo fatto stare meglio, ma anche diventare un uomo migliore». 

Certo la tua gioventù milanese e stata quella che e stata. Compresa la confidenza con le droghe. Quando ti sei accorto di avere toccato il fondo?

«Non ho toccato il fondo, non sono mai stato un degradato, pero a New York negli anni Settanta ho capito il pericolo vero. Uno dei miei migliori amici, Andrea Ballo, e morto impiccandosi davanti a me al Chelsea Hotel».

Come ne sei uscito?

«Mi sono fatto aiutare da psicologi e persone a me vicine. Sono anche stato in cura una settimana alla clinica Priory di Londra. La droga per me aveva un ruolo simile a quello che ha avuto per il caro Walter Chiari. Era distruttiva. Quando mi drogavo mi chiudevo dentro una stanza e per tre giorni non volevo vedere nessuno». 

Litigando al telefono con Alberto Barbera, nel periodo in cui guidava il Festival del Cinema di Venezia, hai scolpito un ritratto abbastanza impressionante della tua vita: «Portatore sano di forfora», dici di avergli urlato, «quando tu ti facevi le seghe a Torino io chiavavo Beverly Johnson, pippavo con Lou Reed al night club Max’s Kansas City, aravo con il cazzo il mondo e guadagnavo miliardi». Maleducazione a parte, un manifesto dello spappolamento.

«Barbera mi aveva mandato una lettera in cui scriveva che non facevo parte del suo giro di amici e quindi non prendeva il mio film. La reazione al telefono e stata un paradosso. Era come dirgli: cosa abbiamo in comune io e te?

Io a 18 anni ho scritto il primo film, da ventenne ho vinto al festival di Venezia, abitavo con un genio come Oliviero Toscani che a 29 anni era considerato dio, a New York nella confusione ho perso quattro quadri di Andy Warhol, per non parlare di mille altre avventure. Cosa ne poteva sapere uno come lui che stava nella Federazione dei giovani comunisti? 

E non per la Fgci in quanto tale, ma perchè quella mentalità da Fgci e la stessa per cui nel 2019 ho vinto da produttore a Venezia con J’accuse di Roman Polanski e non e stato neppure candidato ai David di Donatello». 

Sempre e comunque risse, polemiche. Con queste premesse che padre sei stato con i tuoi sei figli: rompiballe o tollerante?

«Da una parte rompiballe. Hanno sempre saputo che finiti gli studi avrebbero dovuto arrangiarsi senza i miei soldi. Non e cattiveria, e la scelta più sensata dopo avere pagato le migliori scuole e fatto in modo che imparassero le lingue. Poi c’è il lato tollerante, che consiste nell’avere rispettato qualunque loro scelta, anche in campo sessuale». 

E tu, al di la delle sparate da guascone, come sei in amore? Orsacchiotto insospettabile o proprio mascalzone?

«Sono un maiale romantico». 

Una follia fatta per passione?

«Ho fatto di tutto». 

Troppo generico.

«Sono andato più di una volta avanti e indietro da New York in giornata per scoparmi una di cui ero pazzo. Oppure, quando stavo iniziando a risparmiare un po’, ho speso 4 mila dollari per volare in prima classe a Honolulu e poi noleggiare un aereo privato con la modella meravigliosa che stava con me. O ancora: per raggiungere una ragazza ho guidato un elicottero senza brevetto».

Adesso, per tua stessa ammissione, e nel teatro che investi una quantità enorme di energie. D’altronde a novembre 2021, in piena pandemia, anche il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini ha riconosciuto che «in teatro si respira la vita». Ti ha emozionato?

«No, perchè Franceschini non e mai entrato dentro un teatro in vita sua. Non solo: da lui sto ancora aspettando una risposta. Vorrei sapere perchè in sei anni il mio Eliseo ha ricevuto finanziamenti per circa 4 milioni di euro mentre altri teatri ottengono cifre clamorosamente superiori». 

Discorsi inimmaginabili quando a Milano nel 1981, carico di talento e con una gamba ingessata, recitavi al Teatro dell’Elfo la rivisitazione del Sogno di una notte di mezza estate. Con te c’erano Claudio Bisio, Giuseppe Cederna, Elio De Capitani. Cosa rimpiangi di quella stagione?

«Il fatto di avere rivoluzionato la scena del teatro milanese piazzando delle sedie in un garage. Al Piccolo Teatro si svenavano, per questo. Legavano alle sedie gli operai della Breda per fargli vedere L’anima buona di Sezuan di Brecht». 

Il più popolare del gruppo dell’Elfo e diventato Bisio. Era il più talentuoso?

«No, era il meno talentuoso». 

Bisio si e affermato alla grande.

«Il trionfo della mediocrità. Comunque Bisio non e un comico, e una spalla. E l’ho fatto pure recitare in un film». 

Il regista dello spettacolo dove avevi la gamba ingessata si chiamava Gabriele Salvatores, in seguito premio Oscar con Mediterraneo. Eravate craxiani di ferro.

«Come no. Lui si e anche candidato, con il Psi. Mentre dirigevo Uomini e topi di Steinbeck, al Teatro Carcano, disse nella sala vuota: “Quando sento parlare di cultura, metto mano alla pistola”. Non lo voto nessuno».

Lo accusi di avere rinnegato la sua fede politica.

«Una volta a Roma, davanti all’Hotel Locarno, gliene ho dette di tutti i colori. Anche perchè Claudio Martelli, tramite l’allora sindaco di Milano Carlo Tognoli, aveva giustamente fatto avere all’Elfo tantissimi soldi. Eppure Gabriele, quando tutti sono scappati dai socialisti, ha detto che veniva dai centri sociali». 

La Milano di Craxi, era una mangiatoia dove banchettavano gli amici del Psi. Agli altri restavano le briciole.

«Mica tanto. C’erano le cordate. Funzionava cosi: dato un miliardo di vecchie lire, la stecca era di 100 milioni. Poi veniva suddivisa in base ai risultati elettorali. La narrazione di Mani Pulite rimane pero che Craxi ha rubato mentre gli altri erano tutti onesti». 

Ti associ, in pratica, a coloro che per i trent’anni di Tangentopoli sono tornati a criticare l’opera di pulizia svolta a inizio anni Novanta dai magistrati.

«E stato un colpo di Stato americano». 

E oggi? Credi che la magistratura abbia un peso eccessivo, negli equilibri della democrazia italiana?

«Uno dei maggiori drammi in Italia, oltre a quello di avere una carta stampata penosa, e costituito dalla magistratura, che certo e necessaria ma può provocare danni enormi alla tua reputazione». 

Quindi?

«Quindi ti dico che ho comprato i diritti dei due libri-intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara per farne una serie televisiva. Non che voglia trasformare Palamara in un eroe. Lui e un po’ come Tommaso Buscetta: faceva parte di un sistema e ne e uscito».

Ci sarebbe anche da riflettere, a proposito di giustizia, sul fatto che pochi mesi fa abbiamo visto Denis Verdini, condannato per il crac del Credito cooperativo fiorentino, scrivere la sua road map per la presidenza della Repubblica di Silvio Berlusconi (condannato per frode fiscale) in una lettera a Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. E normale?

«Per quanto mi riguarda, voi giornalisti potete ficcarvi tutte queste cose nel culo». 

Perfetto.

«E ti spiego perchè. Questo e giornalismo di bassa lega. Dell’Utri ha fatto anni di carcere per cosa? Perchè non poteva non sapere? Saro garantista tutta la vita. Marcello poi e uscito e aveva ragione lui. Sono anche andato a trovarlo, gli voglio molto bene». 

Ti sento carico, Luca. Tranquillizzaci. Dicci che non vuoi tornare in politica.

«Può essere».

Come «può essere»? Potresti tornare?

«Il problema e decidere con chi schierarmi. Avrei un’idea ma non me la fanno realizzare. Ho chiesto al segretario Corrado De Rinaldis Saponaro di darmi il Partito repubblicano italiano, che attualmente e una Bugatti in garage. Si potrebbe creare una bella squadra e arrivare a una forza elettorale da 6, 7 per cento. Senza personaggi dello spettacolo. Non li frequento nemmeno: parlano soltanto di quanto sono stati bravi nel loro ultimo spettacolo».

Stefano Boldrini per “il Messaggero” il 21 marzo 2022.

Dagospia: basta la parola. Sintesi perfetta di D'Agostino Roberto, classe 1948, romano e spia, ovvero chi osserva i movimenti e i comportamenti di altri, per curiosità o interesse. Chi viene pizzicato e non gradisce, liquida Dagospia come sito di gossip. 

Roberto lo definisce «bollettino di informazione, punto e basta». 

La descrizione di casa è «risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena». Piace a molti, tanti lo temono, tantissimi lo cliccano: è uno dei 50 siti più consultati d'Italia e nel suo genere, linguaggio e titoli spettacolari strepitoso Scene da un patrimonio a proposito delle nozze finte di Berlusconi -, un unicum. Il calcio, con il cucuzzaro di cronaca, fidanzate, mogli, amanti, tradimenti, separazioni e riconciliazioni, occupa un ruolo centrale. 

La Dagovita di Roberto: ragioniere, impiegato di banca, musicista, disc jockey, giornalista e ingresso trionfale nelle case degli italiani nel 1985 grazie a Quelli della notte, ruolo lookologo, esperto di edonismo reaganiano. Oggi è un acuto e spiazzante osservatore di politica e società. 

Che c'azzecca il calcio con la sua biografia?

«C'entra la Roma, di cui sono tifoso da sempre. Per me la Roma è una fede: esiste e basta. La Roma può giocare male e negli ultimi tempi capita spesso, ma chissenefrega. La Roma è un fatto religioso. Il praticante non ha la prova dell'esistenza di Dio, crede e basta».

Esperienze calcistiche?

«Ai tempi dell'oratorio. Non ero veloce e per questo mi piazzavano in difesa. Il calcio è lo sport più popolare perché contiene in profondità il senso del gioco, comune in tutte le civiltà. Dalla Grecia in poi funziona così». 

Lo stadio?

«E' un formidabile luogo di aggregazione. Ci sentiamo compagni di avventura, componenti di una comunità più ampia. Allo stadio diamo il meglio e il peggio di noi stessi».

Il calcio preferito?

«Il tiki-taka mi annoiava, due palle. Mi distraevo, cominciavo a smanettare sul telefonino. Mi piace la Premier, la velocità, l'attacco, la corsa fino all'ultimo secondo. Anche Guardiola in Inghilterra si è evoluto. In Italia siamo messi male, a parte l'Atalanta, unica squadra di respiro internazionale. Da noi c'è il calcio del passaggio all'indietro: io lo punirei come fallo di gioco».

Dove nasce la differenza tra Inghilterra e Italia?

«L'Inghilterra è nazione di rugby: nasce tutto dallo spirito di questo sport. Il modello italiano, palla indietro e difesa, poteva essere giustificato settant' anni fa, quando i nostri erano abatini. Oggi sono atleti e non possono giocare il calcio degli impiegati».

In Champions rimediamo legnate memorabili, ma la Juve continua a invocare la Super Lega.

«Li capisco, poveracci. La Juve costa molto e non vince mai. La Super Lega è il tentativo di garantirsi un ricavo sicuro, ma io sono contrario perché cancella la meritocrazia. Mi piacciono le storie, i Sassuolo e i Leicester». 

La narrazione giornalistica del calcio?

«Detestavo Caressa e il suo circolo. Bene Di Canio: laziale, fascista, coatto, ma con un suo stile. Capello è bravissimo: analisi sempre chiare. L'ambiente è ingessato perché tutti conoscono tutti. Adoro i duetti Bobo Vieri-Cassano. In generale chi parla di calcio deve essere anche un po' teppista. Bisognerebbe liberare il linguaggio: non si può trattare una partita come se fosse il bilancio dello stato».

Ricordi personali?

«Avevo una rubrica nelle pagine dell'Espresso, anni Novanta. Un giorno arrivò una telefonata da Auckland, Nuova Zelanda, dove Luna Rossa era impegnata negli allenamenti in vista dell'America' s Cup. Mi passarono Patrizio Bertelli. Era furibondo. Mi disse che dopo aver ricevuto la visita di Gianni Agnelli, c'era stata una sfilza di guai. Io scrissi un pezzo in cui trattavo Agnelli come portasfiga. Successe un casino. Agnelli la prese malissimo. Mi tolsero la rubrica».

I presidenti?

«Cercano consensi e popolarità. Usano il calcio per altri scopi. Sono industriali che hanno sprecato montagne di denaro nel calcio, facendo dimenticare i problemi nelle loro aziende e chiedendo allo Stato di mettere una pezza sui loro errori». 

Quelli di oggi?

«Lotito mi fa ridere. Ho un debole per lui. Non si capisce un cazzo quando parla. Poi il Viperetta, ma che fine ha fatto? Sono maschere della commedia. Meglio loro che andare al cinema. Inventano frasi senza senso, sono grandiosi. Non mi spiego il fenomeno De Laurentiis. Ha riportato la squadra in alto, ma a Napoli lo odiano. C'è poi il mistero dei Friedkin. Muti».

La Roma è stata anche Dino Viola e Franco Sensi.

«Il primo ci ha dato la Roma più bella di sempre. Passammo dalla Rometta alla Roma. Franco Sensi lottava contro il potere e poi c'era la moglie, la Sora Maria». 

Mourinho?

«A qualcuno piace il gioco, a Mourinho piace il conflitto, che di tutte le cose è il re, come diceva Carmelo Bene citando Eraclito. Aggiungeva: il calcio è uno sport eroico e barbarico. E chiudeva: l'ultimo stadio del tifoso è il delinquente. Frullate tutto questo e avrete lo spirito di Mourinho».

Il podio dei calciatori della Roma?

«Falcao, Batistuta, Totti». 

Dagospia è stato il primo media a svelare i problemi di casa Totti.

«Lo sapevano tutti, ma nel giornalismo vige spesso la legge dell'omertà. Totti è stato l'ottavo re di Roma. Ai re si perdona tutto e si nascondono le magagne». 

Mogli, fidanzate e amanti sono straripanti. Vediamo coppie molto cafonal.

VIERI CASSANO

«Il livello culturale del calciatore non è mai stato elevato. I giocatori passano spesso dai giornaletti pornografici alle donne in carne e ossa. Hanno scarse difese intellettuali e vengono sovrastati, fino alla gestione del denaro. Wanda Nara è l'esempio perfetto». 

Il più grande in assoluto?

«Maradona. La rete all'Inghilterra dribblando mezza squadra fu la regina delle beffe. Maradona è stato la rivincita del proletariato contro i ricchi». 

Giovedì Italia-Macedonia del Nord, se vinciamo finale playoff il 29 marzo: sensazioni mondiali?

«Vedo giocatori stanchi, spremuti. Speriamo sia così anche per macedoni, turchi e portoghesi».

·        Roberto Napoletano.

Alessandro Da Rold per “La Verità” l'8 aprile 2022.

È arrivato alle battute finali il processo per le cosiddette «copie gonfiate» del Sole 24 Ore, a carico dell'ex direttore Roberto Napoletano. Il giornalista deve rispondere della passata gestione del gruppo editoriale di Confindustria dove, secondo gli inquirenti, sarebbe stato «un amministratore di fatto». 

Ieri nel tribunale di Milano si è tenuta la requisitoria finale, mentre il 14 aprile sono previste le arringhe degli avvocati difensori: durante la prossima udienza potrebbe arrivare anche la sentenza di primo grado.

Il pm Gaetano Ruta ha chiesto 4 anni di reclusione con la concessione delle attenuanti generiche. Tra le difese circola un certo scetticismo su una possibile condanna, anche se agli atti del processo sono state acquisite diverse email che testimonierebbero come Napoletano avesse più volte cercato di influire sulla gestione delle copie digitali, sulla governance e persino sul nuovo piano industriale del quotidiano di Confindustria.

Se Napoletano venisse condannato ci sarebbero di sicuro ripercussioni sugli attuali vertici di Confindustria, che il 15 marzo scorso hanno approvato in consiglio di amministrazione una proposta di transazione con il giornalista imputato per false comunicazioni sociali e aggiotaggio informativo.

Nel 2019, infatti, il board del Sole aveva promosso un'azione civile in tribunale, con una richiesta di risarcimento danni da 12,8 milioni di euro approvata poi in assemblea. 

Dopo l'arrivo di Carlo Bonomi come presidente (nominato nel 2020), si è invece cercato subito di trovare una soluzione. Così il mese scorso è stata approvata la proposta di transazione per 3,15 milioni di euro che dovrà essere confermata durante l'assemblea del prossimo 27 aprile quando si insedierà il nuovo consiglio di amministrazione.

Nell'accordo, raccontato nelle scorse settimane dal giornalista del Sole, Gianni Dragoni, sul blog Poteri deboli, è prevista «la rinuncia da parte della società a tutte le domande e pretese formulate nel giudizio civile». Dragoni parla di uno sconto del 75%, da tempo di saldi, promosso con il parere favorevole proprio di Confindustria azionista di maggioranza del gruppo editoriale. 

Eppure, se con una mano Bonomi taglia le richieste di risarcimento, dall'altra si sta preparando a fare cassa vendendo la sede di Viale dell'Astronomia. Nell'ottobre dello scorso anno, infatti, il consiglio generale dell'associazione di industriali diede mandato proprio al neopresidente per valutare la vendita della sede che si trova a Roma, nel quartiere Eur.

Si tratta di un luogo importante per l'industria italiana, che rappresenta la storia del nostro Paese. Qui il 30 maggio 1974, in occasione dell'assemblea generale Confindustria fu eletto l'ex presidente della Fiat, Giovanni Agnelli. 

La sede rappresenta insomma la grandeur di una volta di Confindustria, forse ormai un po' appassita. In viale dell'Astronomia sono rimasti ormai solo i dipendenti dell'associazione, mentre le altre associazioni di categoria se ne sono andate.

Lo smart working non aiuta. Ma non aiuta neppure la zona. Una volta, essendo vicino all'aeroporto di Fiumicino, era comodo raggiungerla. Con l'avvento dell'alta velocità è diventato scomodissimo. Per questo, dopo valutazione dei costi di ristrutturazione e una nuova costruzione, sono aumentate negli ultimi mesi le quotazioni per la nascita di una nuova sede vicino alla stazione Tiburtina, sito facilmente raggiungibile con il treno.

Bonomi sta insomma cercando di vendere lo storico edificio. E non a caso il prossimo amministratore delegato del Sole 24 Ore sarà Mirja Cartia d'Asero, avvocato, esperta in diritto e finanza immobiliare. 

Dal 2015, come si legge nel suo curriculum «ha co-fondato, ed è stata ceo della società Restar, attiva nel settore dei crediti deteriorati, fusa nel novembre 2019 in Guber Banca spa dove ad oggi ricopre il ruolo di head of Real estate seguendo anche investimenti in hotellerie». 

Dal 2014 ad oggi ha ricoperto vari incarichi anche in Prelios, Damiani, Italmobiliare, Fnm e Zurich. Di sicuro avrà un ruolo nella cessione della sede, che secondo stime dovrebbe valere intorno ai 50 milioni di euro.

Napoletano, che è l'attuale direttore del Quotidiano del Sud e si può vedere spesso in televisione, è l'unico rimasto ancora impigliato nel processo. Nello stesso procedimento erano stati indagati l'ex presidente Benito Benedini e l'ex amministratore delegato Donatella Treu. 

Benedini e Treu hanno patteggiato, insieme con la società, indagata per la legge 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti. Per Benedini la condanna è stata di 1 anno, 5 mesi e 20 giorni con il pagamento di 100.000 euro, per Treu di 1 anno e 8 mesi con il pagamento di 300.000. Un po' poco forse, rispetto alle ripercussioni che ha subito in questi anni l'immagine del Sole 24 Ore. 

Da tgcom24.mediaset.it il 31 maggio 2022.

Il Tribunale di Milano ha condannato a due anni e sei mesi l'ex direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano, imputato per irregolarità nei conti del gruppo editoriale nel periodo in cui era ai vertici. Le accuse erano false comunicazioni sociali e manipolazione del mercato. La procura aveva chiesto 4 anni di carcere, ma i giudici hanno concesso a Napoletano le attenuanti generiche.

Alessandro Da Rold per “La Verità” l'1 giugno 2022.

Roberto Napoletano, ex direttore del Sole 24 Ore, è stato condannato a 2 anni e 6 mesi per false comunicazioni sociali e aggiotaggio informativo: si attendono le motivazioni entro 90 giorni. 

Lo ha deciso il tribunale di Milano nel processo che vedeva Napoletano come ultimo imputato rimasto, dopo che l'amministratore delegato Donatella Treu e il presidente Benito Benedini avevano deciso di patteggiare, rispettivamente la prima a un 1 anno e 8 mesi e 300.000 euro e il secondo a 1 anno e 6 mesi e 100.000 euro.

All'epoca, era l'ottobre del 2019, anche a stessa società Sole 24 Ore aveva patteggiato con una sanzione pecuniaria pari a 50.000 euro. Ora sarà interessante capire come si svolgerà il processo dal punto di vista dei risarcimenti civili. Napoletano dovrà risarcire le spese processuali, ma bisognerà poi quantificare il danno civile. 

Come noto nel maggio del 2019, l'assemblea del Sole 24 ore aveva approvato l'azione di responsabilità contro l'ex direttore e i 2 manager. La richiesta, a fronte di un danno di almeno 9 milioni di euro, era di non meno di «4,6 milioni di euro» di risarcimento danni.

Quella azione di responsabilità, approvata dal precedente consiglio di amministrazione e dalla vecchia presidenza di Vincenzo Boccia, è rimasta per anni nel cassetto. L'unico che si era opposto è stato l'ex consigliere Maurizio Stirpe. 

Poi in questi ultimi anni, durante il processo, anche il Sole 24 Ore, su decisione dell'attuale presidente Carlo Bonomi, aveva deciso di ritirare la sua costituzione di parte civile. E alla fine, in marzo, il consiglio di amministrazione aveva cercato subito di trovare una soluzione alla richiesta di danni. Si era così arrivati alla approvazione di un proposta di transazione per 3,15 milioni di euro. Un bello sconto, si mormorava tra i corridoi del giornale, a cui i maligni sostenevano avrebbero contribuito soprattutto Treu e Benedini.

Peccato che servisse l'approvazione da parte dell'assemblea che non è arrivata. La società, spiegò una nota, «benché l'assemblea degli azionisti abbia espresso voto favorevole per la maggioranza del capitale sociale, pari a circa il 70,1 %, ha registrato il voto contrario di una minoranza del capitale sociale pari a circa il 6,2%, e, pertanto [...] non ha potuto transigere l'azione di responsabilità». In pratica i nuovi soci di minoranza hanno fatto saltare il banco.

Adesso quindi torna di nuovo in vita la vecchia azione di responsabilità approvata ai tempi di Boccia. A meno che l'attuale presidente non decida di trovare un nuovo modo per chiedere il risarcimento dei danni a Napoletano, dopo la condanna di primo grado.

Ma sarà difficile, anche perché, suggerisce chi segue il dossier, «di amici di Napoletano al Sole ne sono rimasti pochi». Non solo.

La decisione del tribunale di Milano rischia di pesare anche sulle richieste delle parti civili, dal momento che - oltre alla Consob - ci sono 4 dipendenti pronti a chiedere i danni. Tra loro pure l'ex giornalista Nicola Borzi, che fu il primo a scoperchiare la cattiva gestione del giornale, diventando poi un vero e proprio whistle-blower nell'inchiesta. A difenderlo è l'ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro. Di sicuro i tempi saranno molto lunghi e si dovrà attendere anche l'appello. Ma la sentenza di primo grado ha dato ragione ai critici degli anni di Napoletano.

«Sono sbalordito. Sono soprattutto innocente e farò appello», ha detto ieri l'ex direttore. In questi anni Napoletano si è sempre dichiarato innocente. Ha sostenuto più volte che quello che aveva fatto era stato per il bene del giornale di via Monterosa, che gli era stato lasciato in condizioni disastrose dall'ex direttore Gianni Riotta.

Ma per il pm Gaetano Ruta, titolare dell'indagine condotta dalla Guardia di finanza, Napoletano in quegli anni è stato un «amministratore di fatto» del gruppo, nello specifico dal 23 marzo 2011 al 14 marzo 2017. E lo è stato «per via della partecipazione ai consigli di amministrazione della società e del coinvolgimento delle scelte gestionali attinenti alle modalità di diffusione del quotidiano ed alla comunicazione esterna dei dati diffusionali e dei ricavi ad essi correlati».

A pesare sulla decisione del tribunale di Milano ci sono state di sicuro le dichiarazioni dell'ex amministratore delegato Gabriele Del Torchio che era arrivato nel 2016 per rimettere a posto i conti del giornale su indicazione dell'ex numero uno di Confindustria Giorgio Squinzi. Per Del Torchio, Napoletano era a capo di tutte le scelte strategiche del giornale. L'ex ad aveva trovato una situazione fuori controllo dentro il quotidiano di Confindustria. 

Agli atti furono anche acquisite 3 email che testimoniano come Napoletano avesse più volte cercato di influire sul nuovo piano industriale del Sole. Era stato lo stesso Del Torchio a firmare una relazione semestrale nel 2016 dove si parlava di errori e di modifiche alla modalità di rilevazione dei ricavi. In quegli anni, oltre a emergere una voragine nei conti da 50 milioni di euro come le spese fuori controllo della direzione, fu evidente che qualcosa non funzionava anche nel calcolo delle copie digitali vendute tramite la società inglese Di Source.

·        Rula Jebreal.

Il Bestiario, l'Odiotino. L’Odiotino è un leggendario animale con il corpo di uno di sinistra e la testa di uno che ha perso le elezioni. Giovanni Zola il 5 Ottobre 2022 su Il Giornale.

L’Odiotino è un leggendario animale con il corpo di uno di sinistra e la testa di uno che ha perso le elezioni.

Storicamente, l’Odiotino esiste dai primordi della storia. Caino stesso si può considerare come il primo Odiotino che uccise il fratello per invidia, dato che il Padreterno preferì i doni di Abele a quelli di Caino, ma soprattutto perché – come sostengono gli esperti – Caino tendeva ad allargare mentre Abele aveva un metabolismo che gli permetteva un girovita perfetto.

L’Odiotino parte dal presupposto di essere sempre e comunque dalla parte della ragione. A partire da questo assioma per l’Odiotino il fine giustifica i mezzi e l’avversario non è un soggetto con cui confrontarsi, ma è un nemico da abbattere. Quindi per l’Odiotino chi non la pensa come lui è brutto, cattivo e soprattutto non fa la doccia in coppia per risparmiare sul gas.

Dato questo quadro generale si evince che per l’Odiotino l’avversario sia il male assoluto. Quindi se il nemico viene preferito e premiato dai più, l’Odiotino perde il controllo dando segni di squilibrio quali violenti attacchi di antifascismo accompagnati da bava alla bocca e irrigidimento del pugno chiuso, e incapacità di pronunciare le vocali rendendo l’eloquio incomprensibile: “Trsbpjk qrpstzg”.

In tal senso assistiamo ad atteggiamenti paradossali. C’è l’Odiotino che aveva promesso solennemente che, in caso di sconfitta, sarebbe emigrato come un’oca selvatica, ma che ora scopriamo ancora con le valigie impolverate in soffitta. E se viene invitato a mantenere le promesse di allontanarsi dal Paese da parte di chi pretende un minimo di coerenza, reagisce gridando all’attacco fascista e accampando la scusa che il cane gli ha mangiato i biglietti dell’aereo.

C’è poi l’Odiotino che organizza scioperi nelle scuole con l’intento dichiarato di protestare contro la vittoria democratica del nemico. In realtà si tratta di una scusa per saltare le lezioni, ammazzarsi di erbe illegali e praticare sesso di gruppo in presidenza a spregio delle istituzioni.

L’Odiotino infine, non avendo argomentazioni valide, attacca personalmente andando a ripescare parenti vicini e lontani del nemico arrivando fino a Gengis Khan macchiatosi del reato di aver lasciato un conto salato da pagare in lavanderia.

Insomma come diceva sicuramente qualcuno: “Non c’è peggior fascista di un antifascista che la mattina è sceso dal letto e ha colpito con il mignolo lo spigolo del comodino”.

Da iltempo.it il 30 settembre 2022.

Il tiro a Giorgia Meloni da parte della nutrita galassia mediatica della sinistra è partito da mesi ma dopo la vittoria del centrodestra alle elezioni è arrivato a livelli mai visti. C'è anche chi cavalca una vicenda tirata fuori dalla stampa spagnola e che coinvolge il padre della leader di FdI, che come ha raccontato lei stessa ha lasciato la famiglia quando lei era ancora una bambina. È il caso della giornalista palestinese con cittadinanza israeliana e italiana, Rula Jebreal, che ha rilanciato sui social un pezzo di Repubblica: "Il padre di Giorgia Meloni condannato per narcotraffico".

"Durante la sua campagna elettorale, Giorgia Meloni il nuovo Primo Ministro italiano, ha promosso un video di stupro in cui si afferma che i richiedenti asilo sono criminali che vogliono sostituire i cristiani bianchi. Ironia della sorte, il padre di Meloni è un famigerato trafficante di droga/criminale condannato che ha scontato una pena in una prigione", scrive Jebreal inanellando in poche righe una serie sorprendente di imprecisioni. Per esempio, Meloni non è ancora premier. E poi, se la giornalista si riferisce al video di Piacenza, non si capisce quando la leader di FdI abbia espresso i concetti che le vengono attribuiti.

La stessa Meloni interviene sui social rilanciando il post di Rula Jebreal e commentando la scelta dei giornali che hanno rilanciato la notizia sul padre. "Il tatto della stampa italiana che racconta dei guai di mio padre, ma omette nei suoi titoli roboanti un elemento fondamentale. Tutti sanno che mio padre andò via quando avevo poco più di un anno. Tutti sanno che ho scelto di non vederlo piu all'età di undici anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte", spiega Meloni, "Ma poco importa, se i 'buonisti' possono passare come un rullo compressore sulla vita del 'mostro'. Evidentemente tra le tante cose che non valgono per me c'è anche il detto 'le colpe dei padri non ricadano sui figli'". In coda, un post scriptum dedicato alla "Signora Jebreal, spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce".

Il “caso Meloni-Jebreal” e la stampa monnezza. Redazione CdG 1947 e Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno l'1 Ottobre 2022. 

La solita sinistra radical-chic che ha trovato nelle ultime ore megafono nelle volgarità di tale Julia Rubreal. Il solito squadrismo giornalistico galoppante di giornalisti che definire "giornalai" sarebbe un offesa per i poveri incolpevoli edicolanti.

Se qualcuno crede che il volgare attacco della stampa spagnola a Giorgia Meloni sia frutto della loro opera, allora lasciatemelo dire non avete capito niente sul basso livello a cui è arrivata la stampa sinistrorsa che non riesce ancora ad accettare ed ingoiare il rospo di vedere una ragazza che dal quartiere popolare più sinistrorso di Roma, la Garbatella è riuscita a fondare un partito diventandone il leader incontrastato. La vicenda del padre della Meloni risale a 27 fa, era il 1995, quando in Spagna il padre Francesco Meloni, fu condannato a nove anni di reclusione per narcotraffico alle Canarie. All’epoca la leader di Fratelli d’Italia aveva appena raggiunto la maggiore età e da sette anni aveva rotto i ponti con quel genitore che, quando aveva circa un anno, l’aveva abbandonata, lasciandola sola con la madre.

La solita sinistra radical-chic che ha trovato nelle ultime ore megafono nelle volgarità di tale Julia Rubreal, figlia dell’Imam della moschea di Al-Aqsa, la più grande di Gerusalemme, israeliana di origine palestinese, nata a Haifa, cresciuta in Israele e poi trasferitasi in Italia grazie ad una borsa di studio del nostro Governo, ha attaccato com delle volgari affermazioni Giorgia Meloni sfruttando le squallide ed inconsistenti accuse rivoltele dalla stampa spagnola, venendo ripresa guarda caso dal quotidiano La Repubblica. Il solito squadrismo giornalistico galoppante di giornalisti che definire “giornalai” sarebbe un offesa per i poveri incolpevoli edicolanti.

La Rubreal deve la sua visibilità televisiva in Italia ad una stretta amicizia con la tunisina Afef Jnifen, all’epoca dei fatti moglie di Marco Tronchetti Provera quando costui era presidente di Telecom Italia e controllava l’emittente televisiva La7, che la impose nei programmi televisivi. Non a caso le venne affidato  il dibattito giornaliero di Omnibus Estate e successivamente il “tema del giorno” del programma quotidiano Omnibus, alternandosi in video con Antonello Piroso (un altro “protetto” dell’ex signora Tronchetti Provera), che una volta rilevata La7 dal Gruppo Cairo, che l’ha rilanciata, è letteralmente scomparso dal giornalismo televisivo

Nel 2013 Rula Jebreal ha sposato il banchiere americano Arthur Altschul Jr., figlio di un partner della potente banca d’affari statunitense Goldman Sachs, da cui ha divorziato nel giugno 2016, dopo averlo cornificato relazione con Roger Waters, il fondatore dei Pink Floyd. Poi amante del regista e gallerista Julian Schnabel che ha diretto il film “Miral” prodotto da Harvey Weinstein – proprio lui il produttore predatore sessuale – tratto dal libro della Jebreal (e accolto da un vespaio di polemiche in Israele che le ha chiesto invano di rinunciare alla cittadinanza).

Nell’agosto 2014, durante un dibattito sul network televisivo americano  MSNBC, la Jebreal accusò i media statunitensi di essere troppo sbilanciati a favore di Israele, portando ad esempio il numero e la durata delle interviste con esponenti israeliani rispetto a quelle con esponenti palestinesi. Questo atteggiamento, a suo dire, “fornirebbe al pubblico un quadro distorto e parziale del conflitto a Gaza“. In seguito a queste affermazioni, venne giustamente “oscurata” dalla rete.

“La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali, NON colpe/punizioni collettive” ha scritto la Jebreal sul suo account Twitter

La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza.

Persino Carlo Calenda su Twitter  ha criticato la Jebreal: “Rula questa è una bassezza. Non si fa politica così e tanto meno giornalismo. Quello che ha fatto il padre della Meloni non c’entra nulla con lei. Cancella questo tweet che tra l’altro ha l’unico effetto di portare ancora più gente a sostenere Fdi“ su Twitter in molti accostano le parole della giornalista italo-israeliana di origine palestinese alla replica di Giorgia Meloni che annuncia querela. Molti i commenti, uno per tutti a sintetizzare il “sentiment” negativo: “Quindi la Turci, la Pascale, la Jebreal e quelli che ‘se vince la destra me ne vado dall’Italia’, si tolgono dalle p…? Davvero davvero?“. Magari rispettassero i loro intenti annunciati ! 

“Le affermazioni diffuse via social dalla signora, anche se è difficile definirla tale, Rula Jebreal, sono vergognose e farneticanti. Per attaccare Giorgia Meloni utilizza la storia personale del padre che la abbandonò quando aveva un anno di età e che Giorgia Meloni stessa ha raccontato di aver escluso dalla sua esistenza durante l’infanzia”. Le parole di Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, riassumono lo sdegno del centrodestra e di buona parte del mondo politico per l’attacco della giornalista alla leader di Fdi il cui padre, 27 anni fa, fu condannato a nove anni di reclusione per narcotraffico. “Di quell’uomo fu vittima e oggi lo è anche di una giornalista senza scrupoli né alcun limite etico, che pur di aggredirla è pronta a sfruttare una vicenda dolorosa rispetto alla quale Giorgia Meloni non solo è estranea, ma ne è rimasta danneggiata sotto ogni aspetto. La seconda questione appare ancora più grave sul piano deontologico per una persona che si definisce giornalista e opinionista televisiva, e cioè l’attribuzione di gravissime affermazioni e posizioni politiche che in realtà Giorgia Meloni mai ha pronunciato né pensato. È evidente che il risultato elettorale ha obnubilato le menti di molti, spingendoli a prendere posizioni ingiustificabili” continua Lollobrigida.

Anche il presidente del M5s Giuseppe Conte ha scritto un post in difesa della Meloni: “Questo è fango su Giorgia Meloni. Io ,Meloni e Fratelli d’Italia, con il M5S li combatto in tutte le sedi, ma sul piano politico. Non si possono però addebitare in maniera subdola a una figlia – che dal genitore è stata abbandonata, senza avere più rapporti – i reati e gli errori del padre. È inoltre intollerabile mettere etichette su chi viene da situazioni difficili e cerca la propria strada e il riscatto lontano da quel contesto.” . Anche il pentastellato Stefano Buffagni è intervenuto: “Oggi Giorgia Meloni sta per diventare premier ed ecco che dal cilindro di certa stampa tirano fuori questa notiziona, quest’articolone, questo schifo. Vi giuro sono nauseato. Già, perché, rivedo un film già visto: certa stampa, mossa da certi apparati, è il braccio armato di chi inneggia alla democrazia ma poi non l’accetta e usa qualsiasi mezzo per screditare l’avversario politico di turno. Tra l’altro entrando nella sfera privata di una donna che dal padre è stata abbandonata quando era piccola. È capitato con il M5S, con me personalmente, e ora tocca alla Meloni essere aggredita sul piano personale. In moltissime occasioni ho attaccato Giorgia Meloni per le sue idee e per le sue dichiarazioni. Ma oggi devo dirle con il cuore: ti sono vicino, non ti curar di loro“.

Sulla questione è intervenuto anche Matteo Salvini: “Chi fa battaglia politica attaccando non l’avversario, ma mamma, papà, figli, mogli o mariti, è un piccolo uomo. O una piccola donna. Abbiamo vinto democraticamente le elezioni, fatevene una ragione“. 

Oggi Giorgia Meloni ha replicato: “Il tatto della stampa italiana che racconta dei guai di mio padre, ma omette nei suoi titoli roboanti un elemento fondamentale. Tutti sanno che mio padre andò via quando avevo poco più di un anno.Tutti sanno che ho scelto di non vederlo più all’età di undici anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte. Ma poco importa, se i ‘buonisti’ possono passare come un rullo compressore sulla vita del ‘mostro’. Evidentemente tra le tante cose che non valgono per me c’è anche il detto ‘le colpe dei padri non ricadano sui figli’.

Ps. Signora Jebreal, spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce”, ha scritto su Facebook la leader di FdI. Redazione CdG 1947

Purtroppo nella politica moderna si fa così. Cara Rula Jebreal cosa diavolo c’entra il padre della Meloni? Populismo e moralismo hanno ucciso la politica. Redazione su Il Riformista l'1 Ottobre 2022 

Prima un grande giornale spagnolo, poi Repubblica e diversi altri giornali e siti web italiani, infine la celebre giornalista Rula Jebreal, hanno scagliato un attacco contro Giorgia Meloni raccontando la storia di suo padre, che tanti anni fa fu condannato in Spagna a nove anni di carcere per narcotraffico. All’epoca Giorgia era poco più che una ragazza e da molti anni non aveva più rapporti con il padre.

In una sua dichiarazione Rula Jebreal l’ha accusata di prendersela sempre, genericamente, contro i migranti, senza capire che se un migrante commette un reato lui e solo lui ne è responsabile. Secondo la Jebreal questo atteggiamento è in contrasto con il fatto di avere un padre che è stato condannato per droga. In realtà non è chiarissimo il ragionamento della Jebreal, che comunque ha prodotto una valanga di polemiche e di proteste. Soprattutto quella di Francesco Lollobrigida a nome di Fratelli d’Italia e quello di Carlo Calenda. Il quale ha fatto osservare a Rula Jebreal che non è questo il modo di fare correttamente lotta politica.

La stessa Giorgia Meloni ha ricordato di avere più volte raccontato la storia dolorosa dei rapporti con suo padre, che la abbandonò quando lei aveva poco più di un anno e con il quale dall’età di 11 anni lei non ha più avuto rapporti. In effetti la storia è notissima ed è anche abbastanza noto il fatto che il padre di Giorgia Meloni è morto alcuni anni fa. Queste circostanze hanno prodotto l’indignazione. In realtà sono persino circostanze che non vale neppure la pena di citare.

Se anche Giorgia avesse avuto un rapporto intenso con suo padre e lo avesse amato profondamente, sarebbe stato suo pieno diritto farlo senza che nessuno dovesse usare suo padre per colpirla politicamente. Purtroppo nella politica moderna si fa così. Le regole non esistono. Da molti anni. Soprattutto da quando il populismo, il moralismo, il giustizialismo hanno spazzato via la buona cultura politica.

La mamma di Giorgia Meloni contro Rula Jebreal: «Si vergogni ad attaccarla usando la storia del padre». Redazione Online su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.

Anna Paratore, madre di Giorgia Meloni, interviene sulla polemica tra Rula Jebreal e la figlia 

«Si vergogni»: così Anna Paratore , la mamma di Giorgia Meloni , si è rivolta a Rula Jebreal, dopo che la giornalista aveva nei giorni scorsi attaccato la leader di Fratelli d’Italia ricordando la condanna del padre per spaccio di stupefacenti. 

«Dopo che per anni ho sopportato i peggiori insulti nei confronti di Giorgia, bugie e mistificazioni di tutti i tipi, calunnie vergognose che, detto per inciso, se in Italia sei di destra non riesci nemmeno a far condannare in un’aula di tribunale, sono davvero stufa», ha spiegato la mamma di Meloni in una lettera postata da diversi parlamentari di Fratelli d'Italia sui social. 

Una lettera nella quale ha poi attaccato frontalmente Jebreal, definendola una «pseudo giornalista» che «si permette di cianciare su mia figlia utilizzando un padre che a Giorgia è costato solo lacrime, e da cui non ha mai avuto il sollievo di una carezza o di un bacio, per non dire un piatto di minestra. Si vergogni», continua, «visto che attribuisce a Giorgia parole mai pronunciate, concetti violenti e stupidi mai partoriti soprattutto perché, a differenza di tanti bei faccini che fanno carriera sgomitando o grazie ad amicizie importanti, mia figlia scema non è e quando parla sa ciò che dice». 

Il tweet di Jebreal che aveva scatenato la bufera era questo: «La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali non colpe/punizioni collettive». 

La stessa leader di FdI era intervenuta: «Il tatto della stampa italiana che racconta dei guai di mio padre, ma omette nei suoi titoli roboanti un elemento fondamentale. Tutti sanno che mio padre andò via quando avevo poco più di un anno. Tutti sanno che ho scelto di non vederlo più all’età di undici anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte», ha scritto. «Ma poco importa, se i “buonisti” possono passare come un rullo compressore sulla vita del “mostro”. Evidentemente tra le tante cose che non valgono per me c’è anche il detto “le colpe dei padri non ricadano sui figli”». C’è pure un «ps» nel post di Meloni: «Signora Jebreal, spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce». 

Solidarietà a Meloni è stata espressa da politici di partiti i più diversi, da Carlo Calenda a Giuseppe Conte, da Stefano Buffagni a Licia Ronzulli a Deborah Bergamini. 

Jebreal non aveva però ritrattato, anzi: «Non volevo evidenziare la vicenda familiare della Meloni, ma la sua propaganda», ha scritto. «Anche la stampa anglosassone ha dato notizia dei reati del padre e del nonno di Trump, come si legge sul Washington Post, su The Independent e The Guardian». 

Ora l'intervento della madre di Meloni. Che ricorda anche la sua storia personale: «La mia storia con il padre delle mie figlie non è materia pubblica, così come non credo lo sia la vita di un uomo che è mancato già da svariati anni. Infatti, l’ultima volta che le mie bambine ed io lo abbiamo incontrato, è stato in un lontano pomeriggio intorno al 1988, a Villa Borghese, un giardino pubblico romano, dove Francesco Meloni aveva chiesto di rivedere le sue figlie dopo che da circa 5 anni non avevano sue notizie. Fu un incontro inutile e superficiale, con due bimbette che a malapena si ricordavano di lui, e lui che si faceva chiamare Franco perché sosteneva che “papà” lo invecchiasse. Dopo di allora, il vuoto assoluto. 

Per quello che ne sapevamo noi, poteva essere morto, o felicemente vivo in qualche parte del mondo. Lui non cercava le figlie, le figlie non hanno mai cercato lui. Quando poi Giorgia fu nominata alla vicepresidenza della Camera – molto più di venti anni dopo - ecco arrivare la telefonata di un amico comune. “Franco” avrebbe avuto piacere di rivedere le ragazze: Giorgia disse di no. Come fa sempre, argomentò il suo diniego: “Perché dovrei vedermi con una persona che se incontro per strada nemmeno riconosco? Non ho niente da dirgli”». 

La stessa Meloni aveva parlato del padre, tempo fa, a Verissimo: «Quando è morto non sono riuscita davvero a provare un’emozione, è come se fosse stato uno sconosciuto».

Jebreal: “Meloni mi querela? Non mi faccio intimidire”. Continua lo scontro tra Meloni e Jebreal. La prima minaccia querela, la seconda dice: non mi faccio intimidire. Il Dubbio il 2 ottobre 2022.

“Meloni mi querela? Sappia che non mi faccio  intimidire”. Continua la saga tra Rula Jebreal e Giorgia Meloni, dopo che la prima aveva attaccato la leader Fdi, dopo la pubblicazione di una vecchia condanna del padre per narcotraffico.

Il tweet di Jebreal

Questo il tweet di Jebreal che ha scatenato la bufera: “Durante la sua campagna elettorale, ⁦Giorgia Meloni, ha pubblicato il video di uno stupro in cui afferma che i richiedenti asilo sono criminalim che vogliono sostituire i cristiani bianchi. Ironia della sorte, il padre della Meloni è un famigerato trafficante di droga/criminale condannato, che ha scontato una pena in una prigione”

Tutti contro Jebreal

Il tweet di Jenreal ha provocato una valanga di polemiche, anche il presidente M5s Conte ha scritto un post in difesa della Meloni: “Questo è fango su Giorgia Meloni. Io ,Meloni e Fratelli d’Italia, con il M5S li combatto in tutte le sedi, ma sul piano politico”.

“Rula questa è una bassezza. Non si fa politica così e tanto meno giornalismo. Quello che ha fatto il padre della Meloni non c’entra nulla con lei. Cancella questo tweet che tra l’altro ha l’unico effetto di portare ancora più gente a sostenere FDI”, scrive Carlo Calenda, leader di Azione, rispondendo a Rula Jebreal.

«La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali non colpe/punizioni collettive».

La minaccia di Meloni

“Signora Jebreal – ha scritto Meloni sul suo profilo Facebook – spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce”.

«Il nuovo premier italiano Meloni sta minacciando di citarmi in giudizio per il mio tweet sulle sue cospirazioni sostitutive, che sono in video e ampiamente coperte dai media internazionali». Lo scrive su Twitter Rula Jebreal, spiegando che «tutti gli autocrati usano tali minacce per intimidire e mettere a tacere coloro che li richiamano e li espongono». «Sig.ra Meloni: Non mi faccio intimidire!», conclude nel suo tweet in lingua inglese.

Giorgia Meloni la querela (giustamente), Rula Jebreal grida alla dittatura: è islamofobia. Pietro De Leo su Il Tempo il 03 ottobre 2022

Nel mondo fatato radicalchic funziona così: quando attaccano loro è sempre «impegno civile». Se, però, chi viene attaccato si difende allora diventa intimidazione, sopraffazione, tentativo di tacitare voci libere e via concionando.

Il tema è Rula Jebreal. La giornalista, evidentemente assetata di un nuovo sorso di visibilità nel confronto italiano si è subito scagliata contro Giorgia Meloni dopo la sua vittoria elettorale. Nella maniera più sgradevole possibile: prendendo a pretesto una brutta vicenda di cronaca che ha coinvolto il padre della leader di Fratelli d'Italia per compiere un ragionamento spericolato sulla politica migratoria. Piccolo particolare: Giorgia Meloni e la sua famiglia sono state abbandonate dal padre quand'ella aveva appena un anno e dunque non c'è nulla che colleghi le due biografie da quel momento in poi.

Ovvio che un colpo così basso abbia suscitato reazioni, persino da qualche avversario politico della leader di destra che ha criticato le affermazioni della giornalista. E la stessa Meloni, legittimamente, ha annunciato una querela.

Laddove c'è uno Stato diritto, funziona così: se tu ti senti diffamato, denunci e poi saranno i magistrati a decidere. Stop. E già lì Jebrealha reagito buttandola sull'apocalittico: «Tutti gli autocrati usano queste minacce per intimidire e mettere a tacere coloro che li chiamano in causa e li smascherano», in una evidente divaricazione tra aspirazione e realtà. Proseguita anche con un secondo capitolo. In un tweet, la giornalista si è occupata delle testate di area moderata e conservatrice (tra cui la nostra) colpevoli di aver scritto sulla vicenda. «I media italiani hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino». E ancora: «I facilitatori della coalizione di estrema destra sono forze moderate, che hanno normalizzato una coalizione essenzialmente xenofoba, razzista e autoritaria». E poi la chiusura: «Incitamento sfacciato». O magari un grande atto di generoso, avendo ridonato un quarto d'ora di celebrità a chi, forse, non lo meriterebbe.

Massimo Giletti contro Rula Jebreal: "Perché sparano queste cose?" Libero Quotidiano il 03 ottobre 2022 

"Perché si sparano queste cose?". Massimo Giletti, a Non è l'arena su La7, non nasconde il suo disgusto per il tweet con cui Rula Jebreal ha usato i guai con la giustizia del padre di Giorgia Meloni per attaccare la leader di Fratelli d'Italia. Per inciso: l'uomo, poi arrestato per narcotraffico, aveva lasciato la famiglia quando la Meloni aveva un anno, si era trasferito in Spagna e ha visto per l'ultima volta la figlia quando questa aveva 11 anni. Poi, i rapporti si sono dolorosamente chiusi.

Tanto che la stessa Meloni, una volta diventata giovane vicepresidente della Camera, alla richiesta del padre di poterla rivedere aveva risposto con queste parole, ricordate proprio da Giletti: "Perché dovrei rivedere una persona che se incontro per strada non riconosco nemmeno? Non ho niente da dirgli". 

"Queste storie non dovrebbero entrarci per nulla - riconosce Gad Lerner, in studio -. E' evidente che Rula Jebreal abbia pisciato fuori dal vaso". "Ma io vado oltre - lo interrompe Giletti -, perché si cerca ogni cosa per colpire l'avversario? E' questo che è intollerabile". "In questa campagna - ribatte Lerner - non c'è stato nessuno attacco personale e nessuno che ha gridato al ritorno del fascismo in caso di vittoria del centrodestra". Punti di vista molto, molto personali. 

"Ha pisciato fuori dal vaso". Lerner asfalta Rula Jebreal. Luca Sablone il 3 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Critiche diffuse per il post scomposto della giornalista contro Giorgia Meloni. Anche Giletti attacca la Jebreal: "Si cerca ogni cosa pur di colpire l'avversario" 

Rula Jebreal è riuscita nell'impresa di farsi attaccare anche da Gad Lerner. La sfera privata dei personaggi politici ormai non ha barriere. Tutto viene diffuso, tutto viene spiattellato sulla piazza pubblica senza alcuna riserva. E c'è chi utilizza dei particolari familiari per attaccare frontalmente un avversario. Un pretesto discutibile. Ne è una dimostrazione l'uscita scomposta della Jebreal ai danni di Giorgia Meloni: la giornalista ha rilanciato la notizia sul padre della leader di Fratelli d'Italia per colpirla sul piano personale. E ha ricevuto critiche trasversali, anche dai suoi colleghi di sinistra.

Giletti e Lerner contro Jebreal

Ormai in politica non si fa più rispetto del privato. L'ultima puntata di Non è l'arena, programma in onda la domenica sera su La7, ha affrontato proprio questo tema. Un monito in tal senso è arrivato da Gad Lerner, che di certo non può essere sospettato di essere un esponente della destra o un ammiratore politico della leader di Fratelli d'Italia: "È evidente che Rula ha pisciato fuori dal vaso. Ha fatto un tweet che è un tweet di una giornalista. Non possiamo trasformarlo in un caso politico nazionale di fronte a una persona che ha vinto nettamente le elezioni e si prepara a fare il presidente del Consiglio".

Massimo Giletti ha mostrato la presa di posizione della madre della Meloni, che ha raccontato il passato molto travagliato tra il padre e la figlia. Il conduttore della trasmissione ha sostenuto una tesi tanto semplice quanto realistica, bacchettando così la Jebreal: "Si cerca qualsiasi cosa pur di colpire l'avversario...".

Il solito vittimismo

Contro la Jebreal si sono scagliati anche giornalisti ed esponenti politici appartenenti alla galassia rossa. E questo dimostra quanto la mossa della giornalista sia stata bocciata in maniera larghissima. Eppure lei non demorde, insiste, prosegue per la propria strada. A volte il silenzio è sinonimo di intelligenza, ma la Jebreal è tornata ancora una volta sul tema senza alcuna intenzione di mettere da parte la figuraccia.

Ma c'è di più. Non contenta, la Jebreal ha indossato i panni della vittima. Magari con l'intenzione di ribaltare la narrazione di quanto avvenuto. Ora lei si sente finita nel mirino di chissà quale congiura mediatica: "Il giorno dopo che Meloni ha minacciato di farmi causa per un tweet, i media hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino". Innanzitutto attaccare pubblicamente un personaggio di rilievo ha ovviamente una copertura mediatica e ti espone a dei commenti (positivi o negativi). Ma, soprattutto, la critica non è un assalto: è un esercizio previsto dalla democrazia. Con buona pace della Jebreal.

"Il potere bianco...". Il delirio di Muccino per difendere Rula Jebreal. Forse a caccia di qualche spettatore di sinistra, il regista mette nel mirino la Meloni: "Parlava di sostituzione etnica". Scoppia la bagarre su Twitter: "Taci, difendi l’indifendibile". Massimo Balsamo il 4 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La querelle Rula Jebreal-Giorgia Meloni continua a tenere banco. E non poteva mancare l’intervento di Gabriele Muccino. Il vergognoso attacco alla leader di Fratelli d’Italia ha scatenato la bufera sui social network, ma il regista si è schierato dalla parte della giornalista. Tra un pianto per la mancata assegnazione di un premio e un’autocelebrazione del suo “grande” cinema, il 55enne ha preso posizione su Twitter. E, naturalmente, ha tirato in ballo il fascismo, diventato il mantra dei compagni delusi dall’esito delle elezioni.

Il delirio di Muccino

“Forse non era necessario tirare in ballo un padre mai presente nella vita di Meloni, d’accordo”, ha esordito Muccino su Twitter. Nonostante il “forse” di troppo, fin qui tutto ragionevole. Poi, via al delirio: “Rula Jebreal sta ora subendo un attacco furioso e pretestuoso”, il j’accuse del cineasta capitolino.

Rula, infangatrice vittimista: rimasta sola, ora fa l'offesa

Secondo Muccino, inoltre, l’assalto alla Jebreal sarebbe lo specchio di un Paese che ha già dimenticato le parole della Meloni. La leader di FdI, ricorda forse un po’ a stento, parlava di “sostituzione etnica in campagna elettorale riferendosi agli immigrati che ci avrebbero invaso”. Ma non solo. Tornando sul dramma dello stupro di Piacenza, Muccino ha accusato la politica di aver fatto mera propaganda. Anche qui nessuna condanna della violenza perpetrata, ma solo affondi contro la Meloni.

“Attacchi a Rula Jebreal odorano di fascismo”

Il pezzo forte della strampalata teoria mucciniana è contenuto nel finale.“Gli attacchi a Rula Jebreal odorano di fascismo, di abuso, di prevaricazione su una donna che ha osato toccare il potere bianco laddove per il colore della sua pelle, appena più scuro di un italiano ma anche più chiaro di molti altri italiani, non avrebbe mai dovuto commentare”, la sua rabbia.

"Contro di me assalto razzista, islamofobo e misogino". Ora la Jebreal fa la vittima

Difficile provare a interpretare il pensiero di Muccino, così come è complicato trovare qualcosa di vero in ciò che dice. Chissà se tra un film (brutto) e l’altro, ci fornirà qualche spiegazione in più sulla correlazione tra fascismo e condanna di un attacco ignobile. O ancora, se proverà a illustrare cosa intende per “potere bianco”.

Le reazioni sui social

Se qualche seguace ha condiviso l’intemerata, la maggior parte degli utenti ha biasimato senza mezzi termini l’uscita di Muccino. In molti hanno sottolineato che sarebbero bastate delle scuse nei confronti della Meloni anziché prediligere il vittimismo, ma c’è anche chi ha stigmatizzato il regista per difendere l’indifendibile pur di attaccare la leader di Fratelli d’Italia. Ecco una carrellata di reazioni: “È evidente che scrivi senza alcuna coscienza”, “Lungi da me difendere la Meloni ma c'è un vecchio detto che recita ‘chi è causa del suo mal, pianga se stesso’”, “Il solito comunista rosicone”. Non un successone, insomma. Un po' come i suoi ultimi film.

Rula, l'infangatrice vittimista: rimasta sola, ora fa l'offesa. "Contro di me insulti razzisti". Ma il suo odio fa scuola fra le femministe: nuovi attacchi privati alla Meloni. Francesca Galici il 3 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Il centrodestra ha vinto le elezioni e Fratelli d'Italia è stato il partito più votato. Gli italiani si sono (finalmente) espressi democraticamente con l'esercizio del voto e questi sono fatti incontrovertibili, che però alla sinistra non vanno proprio giù.

Dallo scorso lunedì, i rossi sono pervasi da uno stato di perenne isteria e rabbia, come dimostra la costante attività della macchina del fango, in realtà mai spenta dalla campagna elettorale. E continuano, incessanti e scomposti, gli attacchi personali, più che politici, sia ai leader che agli esponenti dei partiti della coalizione vincente.

Rula Jebreal, non paga della figuraccia fatta speculando sulla figura del padre di Giorgia Meloni, continua imperterrita a strepitare contro i media che «hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino». Poi, finiti gli aggettivi trovati sul vocabolario parla di «incitamento sfacciato» solo perché la leader di Fdi ha informato di voler adire le vie legali per un tweet in cui la giornalista le attribuisce frasi mai dette.

Mentre la Jebreal prova a cucirsi maldestramente addosso i panni della vittima, dall'altra parte Guido Crosetto ha rivelato di essere stato contattato da un giornalista del Fatto quotidiano, che gli ha chiesto conto di «lavori e servizi, fatturati e dichiarati» negli ultimi anni. Una domanda che apre diversi interrogativi su quello che potrebbe nascondersi dietro una simile richiesta, tanto che in diversi sospettano ci sia in cantiere qualche inchiesta contro Giorgia Meloni e chi le gravita attorno.

In attesa di capire cosa bolle nel grande calderone di Marco Travaglio (e non solo), la filosofa Rosi Braidotti ha avuto un travaso di bile durante Otto e mezzo, tra fake news e la solita cattiveria. In barba al femminismo millantato a sinistra, a suo dire la leader di Fdi avrebbe «scatenato la sua faccia rabbiosa e cattiva» mentre la «povera» Chiara Ferragni subiva «minacce da Ignazio La Russa». Persino la silenziosa cautela della Meloni è vista con sospetto: «È sparita, non parla, ma si è data in pasto alla stampa in modo spettacolare. So tutto di lei». Fino all'illazione finale: «Giorgia non dà la mancia alla parrucchiera».

Tutto fa brodo a sinistra per fomentare l'odio contro il centrodestra, anche le bufale sgangherate come quelle della filosofa o quelle di Bernard-Henry Lévy che, sempre su La7, ne ha sparata una davvero grossa affermando che «avrete una probabile primo ministro che in tutta la campagna elettorale ha detto che Mussolini ha fatto cose buone ed è una persona di valore». Uno sproloquio senza capo né coda da parte del filosofo francese, che si unisce a tutti quelli che l'incommensurabile fantasia dei sinistri è riuscita a partorire nelle ultime settimane.

Tentativi spesso infantili, che però risultano utili a delegittimare la vittoria, netta e schiacciante, del centrodestra alle urne. Quella che la sinistra fatica a ottenere da ormai molti anni. E non può che essere diversamente, se viene rappresentata da esponenti come Nicola Fratoianni, che va in televisione a dire di non avere problemi a definirsi comunista e a inorgoglirsi scandendo slogan come «meglio comunista che fascista». O se continua a farsi fare da megafono a personaggi come Rula Jebreal e Rosi Braidotti.

In tanti avevano detto che avrebbero lasciato l'Italia in caso di vittoria del centrodestra. Hanno forse cambiato idea? Su aerei e treni c'è ancora posto.

Dopo le polemiche bipartisan contro il suo tweet in cui aveva attaccato il padre di Giorgia Meloni invece delle scuse ha chiamato in causa una sorta di caccia alle streghe nel nostro paese. Federico Novella su Panorama il 4/10/22.

La triste vicenda di Rula Jebreal è la perfetta dimostrazione del fatto che i mali più devastanti di questo Paese sono due. Primo, l’incapacità di scusarsi per i propri errori. Secondo, il ricorso automatico al vittimismo, esasperato da dosi poderose di politicamente corretto. Per chi non lo sapesse, la giornalista italo-palestinese Rula Jebreal ha ripreso sui social la notizia rilanciata dalla stampa spagnola della condanna per droga del padre della leader di Fratelli d’Italia. Un uomo che ha abbandonato la figlia quando lei aveva un anno, e con cui non ha mai avuto rapporti. «Durante la sua campagna elettorale - scrive Jebreal - la nuova premier italiana ha diffuso un video di stupro insinuando che i richiedenti asilo siano criminali che vogliono sostituire i cristiani bianchi. Ironicamente, il padre della Meloni è un noto trafficante di droga». Una dichiarazione di una tale bassezza, di una tale illogica sconclusionatezza, che Giorgia Meloni ha ricevuto la solidarietà da tutto il mondo politico. Fare propaganda tirando in ballo i parenti è come scavare nel pozzo della meschinità. Ciò nonostante, Jebreal avrebbe potuto rimediare chiedendo scusa, ammettendo che nessuno è perfetto: ma no, sarebbe stato troppo facile, il suo ego ne sarebbe uscito ammaccato. Dunque, tornando sull’argomento, ha peggiorato la sua posizione: “La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza”. L’incapacità, per orgoglio, di ammettere i propri errori, fa sì che gli errori si ingigantiscano, come avvenuto in questo caso. Dopo simili indegnità, un minimo senso del pudore avrebbe richiesto perlomeno la compostezza del silenzio. E invece no. E qui entra in gioco il secondo stratagemma, la scorciatoia più battuta, la garanzia di immunità per tutte le castronerie: il vittimismo. Tradotto: mi contestano perché ce l’hanno con me. “Il giorno dopo che Meloni ha minacciato di farmi causa per un tweet, i media hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino” , scrive la permalosissima giornalista. Che evidentemente non solo si considera infallibile, ma anche intoccabile. Ovviamente nessuno si è permesso di inserire nella polemica la sua razza o i suoi convincimenti religiosi: semplicemente qualcuno ha osato criticare le sue parole sghangherate. Ed è sempre in questi momenti, quando Rula non sa dove voltarsi per giustificare le sue scempiaggini, che si fa ricorso all’apporto salvifico dell’attacco razzistico-femminista. “Mi attaccano perché sono palestinese. Mi attaccano perché sono donna. Mi attaccano perché sono islamica”. No, signora Jebreal: la attaccano perché ancora una volta ha esagerato. Non è razzismo: è libera critica in libero stato. Ognuno si prenda le sue responsabilità: chi parla a sproposito, e non ha il coraggio di fare retromarcia, si carica il rischio di essere criticata. E’ un principio cardine di ogni società democratica. Vale per tutti, a quanto pare, tranne che per lei.

Giorgia Meloni, Rula Jebreal imbarazza perfino la sinistra. Renato Farina su Libero Quotidiano il  03 ottobre 2022

Noi padri lo sappiamo bene. Ci useranno contro i nostri figli, e magari nipoti. È questa di solito la sofferenza insopportabile che accompagna la rovina della reputazione causa condanna, meritata o no che sia, oppure come conseguenza di una campagna  di stampa. È una specialità della sinistra. (Ne ho esperienza. Io ero il famoso Betulla, mio figlio divenne Betullino, emarginazione, vendette trasversali). Ma qui nel caso Jebrael-Meloni siamo oltre, molto oltre. Si usa un non-padre per sporcare pubblicamente l’intima coscienza di una non-figlia. La quale semmai avrebbe potuto usare il dato biografico di una condanna per traffico di droga del genitore (sparito dalla sua vita da quando lei aveva un anno) per erigersi a modello di persona che ha saputo capovolgere il corso del destino. Giorgia invece ha praticato, non in ossequio al codice ma alla pietas, il diritto all’oblio verso chi l’ha costretta a crescere in una famiglia monca.

Ed ora pure questa. Sembra una cattiveria del non-padre, una specie di morso dello zombie. E adesso? Adesso, a quanto pare, niente. Rula Jebreal, il giorno dopo la character assassination alla Goebbles di Giorgia Meloni, ha già ottenuto l’immunità da quel mondo dei piani alti che conta e decide della nostra vita assai più di quanto pesi il voto del popolo. Insabbiamento. Omertà. Nessuno del suo giro radical-chic, per non cancellare il volto internazionale del politicamente corretto, non dico l’abbia scomunicata, ma anche solo picchiata con un fiore. Tra loro si reggono il sacco. Quando uno la spara troppo grossa, urtando chiunque abbia un milligrammo di sensibilità e di decoro, la tecnica per preservare l’amico e il club è quella di fingere di non aver sentito, letto, ci sono ben altri problemi, non è vero? Cercate una dichiarazione di uno/una giornalista dello star system televisivo, o una storia Instagram di un influencer alla moda o di un Maneskin qualsiasi. Un o due Ferragnez che si propongano come scudo almeno virtuale, su schermo e su social, a questo colpo di lingua serpentesca. Ancora fino a ieri sera nulla era pervenuto. QUEL PRECEDENTE DEL 2016 Intendiamoci. La giornalista italiana, araboisraeliana e americana non ha sparato una sciocchezza pazzesca in un dibattito fiammeggiante. In realtà Rula se l’era legata al dito dopo che aveva avuto la peggio con Giorgia, pur essendo sostenuta da conduttore e platea,in un duello televisivo su La7, da Corrado Formigli, nel 2016. Il veleno le è fermentato nella pancia più che nella testa. Il suo trionfo politico-mediatico è stato a Sanremo nel 2020. Dopo di che è diventata un monumento nazional-popolare progressista. Sarebbero, quelli dell’altro ieri, vocalizzi sguaiati se fossero capitati nella disfida agonistica da battaglia pre-voto, oppure al ritorno negli spogliatoi dopo una partita tesa. Poi, doccia, lealtà, scuse per gli eccessi: ci si stringe la mano. Vale per il calcio, e (dovrebbe) per la politica. Lo ha fatto Enrico Letta con Giorgia Meloni con una telefonata mesta ma onesta. La Jebreal invece ha agito a freddo, con calcolo, entrando con il kalashnikov verbale nella campagna mondiale di denigrazione della “rivale”. È stata una mossa di odio politico e di invidia primordiale pianificata per delegittimare chi ha vinto le elezioni (si chiamerebbe sovranità popolare). Non lo ha fatto falsificando le idee dell'avversario/a, ma esigendone la discriminazione su base genetica.

Gravità inaudita, flagranza reiterata, razzismo della più bell’acqua. E lo ha fatto dando non una, ma due, tre martellate sullo stesso chiodo infame. Abbiamo cercato un precedente paragonabile allo schifo di gettare, per odio politico, il cadavere di un padre tra i piedi della di lui figlia, per contaminarla coi delitti da lui commessi. Niente, non se ne trovano. Eppure nel gran teatro della politica, del giornalismo e delle istituzioni non sta accadendo nulla. Niente. Chiusa lì. TROPPI SILENZI Parliamo – ovvio - della casamatta progressista da cui si dipartono i fili del potere mediatico e culturale. L’Ordine dei giornalisti? Il Consiglio di disciplina della categoria? Zero. Il femminismo ufficiale si sta occupando di diritto all’aborto, e organizza manifestazioni contro la Meloni sul tema, e non si capisce perché. Ora Rula, in fin dei conti, rimprovera alla madre di Giorgia di non averla abortita, nonostante sapesse quale razza di padre le stava per dare. Rula non si tocca. Del resto c’era un vecchio slogan che prevedeva casi simili: «O aborto o un mostro in pancia». Come ha scritto la Meloni, Jebreal l’ha ridotta a mostro per discendenza biologica, come se la sua persona contenesse nel Dna una fedina penale. Ma la militante Rula non si tocca. Emma Bonino è troppo impegnata a far ricontare le sue schede onde riavere il seggio, ea stramaledire Calenda reo di averle preferito Renzi. Ecco, questi due, oltre a Giuseppe Conte, sono i personaggi notevoli e non di centrodestra intervenuti ad esprimere ripugnanza per la discesa agli inferi della Signora Jebreal. Ma costoro sono dei fuori quota rispetto a sinistra, estrema sinistra, femminismo, antifascismo, forcaiolismo che colpisce per colpa degli antenati i discendenti fino alla settima generazione. Progressismo? Al diavolo. Niente di nuovo sul fronte della sinistra occidentale. Il popolo può ben votare e persino amare una donna di destra, per abbatterla va bene anche la lupa solitaria a cui dare l’immunità. P.S. Ho frequentato, oserei dire di essere stato amico di Rula, tanti anni fa. Non è affatto una donna sciocca. Chi l’ha avvelenata?

Rula Jebreal e il tweet contro Giorgia Meloni: anche Calenda e Conte con la leader di FdI. Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.

La giornalista italo-israeliana aveva attaccato sugli immigrati usando il padre della premier in pectore condannato per traffico di droga in Spagna. Lei risponde: querelo 

Rula Jebreal ha attaccato frontalmente Giorgia Meloni: ne è nata una polemica che ha coinvolto la politica ed è finita con minacce di querela. La giornalista italo-israeliana ha tirato in ballo la notizia, apparsa sulla stampa spagnola, sulla condanna del padre della leader di Fratelli d’Italia per spaccio di droga. Questo il tweet di Jebreal che ha scatenato la bufera: «La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali non colpe/punizioni collettive». 

La solidarietà a Giorgia Meloni è arrivata a pioggia dai politici di diversi partiti. E la stessa leader di FdI è intervenuta: «Il tatto della stampa italiana che racconta dei guai di mio padre, ma omette nei suoi titoli roboanti un elemento fondamentale. Tutti sanno che mio padre andò via quando avevo poco più di un anno. Tutti sanno che ho scelto di non vederlo più all’età di undici anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte». Usa Facebook Meloni per rispondere a questo attacco, con veemenza: «Ma poco importa, se i “buonisti” possono passare come un rullo compressore sulla vita del “mostro”. Evidentemente tra le tante cose che non valgono per me c’è anche il detto “le colpe dei padri non ricadano sui figli”». C’è pure un «ps» nel post di Meloni: «Signora Jebreal, spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce».

La solidarietà è arrivata, tra gli altri, dal leader di Azione Carlo Calenda e dal presidente del M5S Giuseppe Conte, ma anche da un altro M5S, Stefano Buffagni. E ancora: dalla vicepresidente di Forza Italia Licia Ronzulli e dalla deputata dello stesso partito Deborah Bergamini, sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento. Si assomigliano i toni della solidarietà. Conte se la prende con il quotidiano spagnolo che ha raccontato la storia del padre di Giorgia Meloni e lo definisce «ignobile», che «butta fango» sulla presidente di Fratelli d’Italia. Ronzulli pensa che le parole di Jebreal siano «meschine, frutto di cinismo», mentre Bergamini sceglie uno stile poetico per dire: «Rula Jebreal, un bel tacer non fu mai scritto». Per Buffagni l’attacco a Meloni «è nauseante», mentre Calenda lo definisce «una bassezza» e si rivolge alla giornalista invitandola a «cancellare il tweet».

Ma Rula Jebreal non solo non ha cancellato il tweet. Ha rilanciato: «Non volevo evidenziare la vicenda familiare della Meloni, ma la sua propaganda. Anche la stampa anglosassone ha dato notizia dei reati del padre e del nonno di Trump, come si legge sul Washington Post, su The Independent e The Guardian». Ma non sarà Jebreal ad avere l’ultima parola: come ha annunciato Meloni, sarà un giudice a mettere la parola fine.

Rula Jebreal, "prezzemolina arrogante": Facci, il ritratto indiscreto. Filippo Facci su su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2022

Chi pensa che le belle donne non possano essere intelligenti trova in Rula Jebreal una clamorosa conferma, un autentico spot anti-femminista semovente: è come fare una campagna per dire che i calciatori possono essere acculturati e prendere come testimonial Antonio Cassano. Il quale, però, un dono ce l'ha: è scafato, è consapevole, conosce i propri limiti, si è fatto largo nonostante i propri difetti e non espressamente grazie ai propri difetti. Non siamo sicuri che per Rula Jebreal si possa dire altrettanto.

Questo che leggete però sarebbe un ritratto, perché a Libero piace vincere facile e perché la Jebreal è rimbalzata alle cronache per una scemenza che ha scritto. Se ne parla qui a fianco, quindi non infieriamo: notiamo solo che la signora 49enne ha attaccato Giorgia Meloni scrivendo che suo padre «è un famigerato trafficante di droga criminale condannato», sicchè, considerando che questo padre ha abbandonato la figlia Giorgia quando lei aveva un anno, e che lei non l'ha più visto da quando di anni ne aveva 11, l'unica correlazione colpevolizzante a questo punto sarebbe una condivisione del patrimonio genetico, una responsabilità razziale odi sangue: non male per appartenere alla penna di una signora con cittadinanza israeliana, cresciuta espressamente in Israele prima di trasferirsi in Italia, dove ha fatto una carriera in stile Alan Friedman: probabile che nel paese d'origine non se la sarebbe filata nessuno. È solo un'opinione.

L'ABILITAZIONE - Detto questo, «Rula» è il nome di una tribù beduina dove primeggiavano delle specie di ammazzoni. Altre note biografiche sono che sua madre si è suicidata (una conseguenza di abusi, abbiamo letto) e che nel 1993 Rula ha ricevuto una borsa di studio per un mestiere per cui evidentemente era portata: la fisioterapista. Poi, militante filo-palestinese, si è affacciata al mondo del giornalismo, suffragata - è il nostro parere - più dalla sua avvenenza e meno dall'importanza di quello che diceva. Apriamo e chiudiamo velocemente una parentesi sulla sua vita personale e pubblica: ha avuto una figlia con un artista, ha convissuto a New York col noto pittore e regista Julian Schnabel e poi ha sposato un banchiere figlio di un pezzo da novanta legato a Goldman Sachs e dopo il divorzio (da immaginarsi l'assegno) ha frequentato l'uomo che co-fondò e infine distrusse i Pink Floyd, il depresso a vita Roger Waters.

Tornando al giornalismo, a notarla fu la femminista intelligente (esistono) Franca Fossati, vicina di casa di Giuliano Ferrara in Toscana e sua autrice storica: la Jebreal fu invitata a Otto e mezzo e da lì divenne prezzemolina e per qualche tempo conduttrice di programmini di La7. Era palesemente arrogante, spesso impreparata e aggressiva (sempre nostra opinione) e quando il direttore del Tg, Antonello Piroso, non le rinnovò il contratto, c'è da dire che mostrò una certa intelligenza: intendiamo Piroso. Poi c'è un episodio che purtroppo contribuì a bollarla in termini sessisti, e lo scrivente ne fu co-protagonista. Nel 2006, ad Annozero di Michele Santoro - che ancora agitava la telepiazza, che era sporca ma vera, non ancora pulita - la Rula Jebreal fece un'intervista imbarazzante ad Antonio Di Pietro - imbarazzante per lei - quando d'un tratto la diretta fu disturbata fa una voce microfonata: «È una gnocca senza testa». Sacrilegio: chi l'aveva detto? Ci si scaraventarono tutti i giornali, mentre Striscia la Notizia (milioni di spettatori) fece un'inchiesta delle sue e intervistò in particolare due altri ospiti presenti da Santoro, lo scrivente e Marco Travaglio: che finimmo indirettamente per fare la colpa al professore ed economista Giulio Sapelli. Poveraccio: per la storia (in minuscolo, come wikipedia) il colpevole divenne lui.

In uno scambio del 2018 io e Marco Travaglio ne riparlammo con leggerezza. Facci: «Su Sapelli facemmo una mostruosità che ancora resiste»; Travaglio: «A distanza di undici anni non ho mai capito chi fu a insultare Rula»; «Facci: «Tu!»; Travaglio: «Mai nemmeno pensato... Poi io non dico gnocca. Sono torinese»; Facci: «Ma l'accento era torinese... Oddio, magari è stato Sapelli. E Storia sia»; Travaglio: «Sempre pensato a lui»; Facci: «Io a te, ma siccome la frase corrisponde a verità, in effetti tu non puoi essere stato». Travaglio: «Ah ah». Nota finale, riportata al presente: la frase non la dissi io, ma avrei tanto voluto. 

QUANTA PRESUNZIONE - Il resto sono comparsate sempre molto appassionate. In tv ci litigarono in tanti (scrivente compreso) e il leghista Roberto Calderoli le diede dell'«abbronzata» anticipando Berlusconi su Obama. Ovunque fosse, era sempre lanciata sulla causa palestinese, pseudo reportage dal Medio Oriente, sortite sull'immigrazione, sui diritti delle donne e contro il maschio bianco. Nel 2020 è stata persino a Sanremo (non chiedeteci perché) dove recitò litanìe femministe. Moraleggiando, e a proposito di femminismo, si può dire che Rula Jebreal spiega bene quali siano i requisiti per diventare giornalista e scrittrice e conduttrice tv in Italia. Quali siano, appunto, lasciamo deciderlo liberamente al lettore, che per farsi un'idea non abbisogna certo di questo articolo. Che altro dire? Nel 2014 denunciò che l'emittente statunitense Msnbc aveva smesso di invitarla per via delle sue opinioni sullo sbilanciamento dei media Usa a favore di Israele. Nel 2017, a Piazzapulita, urlò a Nicola Porro «non mettermi il dito in faccia perché questa è violenza» (Porro era in collegamento) e poi un memorabile «Nicola non devi arrabbiarti e diventare rosso, quando poi parli da uomo bianco dei diritti della donna... e poi un uomo bianco che urla addosso a una donna come me». L'altro ieri, su Twitter, la Jebreal ha messo in parallelo la vittoria di Fratelli d'Italia con l'intervento dei carabinieri in un'assemblea non autorizzata degli studenti al Liceo Virgilio di Roma, e questo anche se al ministero dell'Interno ovviamente è ancora seduta Luciana Lamorgese. Che altro dire. Niente. 

Rula Jebreal insulta Giorgia Meloni: "Fomenta odio e violenza. I veri fascisti..." Libero Quotidiano il 26 luglio 2022.

L'odio contro Giorgia Meloni sgorga ovunque. La sinistra apre il fuoco contro l'avversario più temibile, i più feroci sono i quotidiani, a partire da Repubblica e fino ad arrivare al Domani di Carlo De Benedetti. "Pericolo nero", accostamenti a Benito Mussolini, presunti allarmi nelle cancellerie internazionali, prime pagine che lasciano interdetti.

E al coro non poteva che unirsi una specialista in materia, ovvero Rula Jebreal, che attacca la leader dei Fratelli d'Italia proprio in merito al fascismo. Il tutto su Twitter, laddove la Jebreal si scaglia nel dettaglio contro chi sostiene che la Meloni non sia fascista. Clamoroso, ma vero: in barba al fatto che la leader FdI sia nata nel 1977, ossia decenni dopo il tramonto del fascismo stesso.

Ma tant'è, scrive la Jebreal: "I negazionisti che difendono la Meloni sostenendo che 'non è fascista', ignorano il suo programma politico persecutorio & oscurantista, che fomenta odio e violenza". Testuali, e brutali, parole. Dunque, Rula Jebreal ha allegato una serie di cinguettii in cui vengono esposte alcune idee del programma di FdI. Cosa ci sarebbe che fomenta odio e violenza? Ve lo elenchiamo: "Difesa dell'identità nazionale, contrarietà alla teoria gender, controllo delle frontiere, no al reddito di cittadinanza". 

Al di là del fatto che non si capisce come si possa vedere in simili istanze odio, violenza e peggio ancora fascismo, Rula Jebreal è anche incappata in uno sfondone: quell'elenco, infatti, risaliva al 2018. Altri tempi, rispetto alla campagna elettorale appena iniziata. Ma alla Jebreal non interessa, tanto che aggiunge: "I veri fascisti la considerano una di loro, l'erede di Almirante, il leader che poterà al governo i loro ideali". Un attacco scomposto, l'ultimo che ha colpito la Meloni in questa prima ondata di violenza verbale e fango.

Kefiah, islam, yacht e #MeToo. L'"intifada" ma con glamour. Così la giornalista palestinese da dissidente tv è diventata il volto mainstream del neofemminismo e dell'antirazzismo. Luigi Mascheroni il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.

La bellezza per le donne a volte è una condanna. Più spesso una benedizione. Per Rula Jebreal, la seconda. Ma sarebbe sessista alludere che in Italia Paese in cui si diventa star mediatiche per molto meno - si possa sfondare in tv grazie all'aspetto.

Aspetta, cosa hai detto in un'intervista a proposito dei network americani? Che «là l'ambiente è più competitivo, devi essere super-preparata». L'Italia: Paese di sessisti, razzisti e anche giornalisti improvvisati... Chissà perché tanta gente ci vuole venire.

Rula Jebreal, di origini palestinesi, nata a Haifa, terra del profeta Elia, dell'high-tech e dei pompelmi rosa, da cui una predisposizione alle note quote, figlia di un imam sufi, guardiano della moschea al-Aqsa e cresciuta nella parte est di Gerusalemme, una bellezza da Mille e una nota di agenzia, grazie a una borsa di studio, è arrivata in Italia prestissimo, a Bologna, dove si laureò in Fisioterapia. E si è affermata in poco tempo in un sistema dei media, come il nostro, non particolarmente competitivo e dove non occorre essere così preparati nei ruoli di giornalista, scrittrice e conduttrice tv. Doppia cittadinanza (israeliana e italiana) e quattro lingue (italiano, inglese, ebraico e arabo), a noi Rula Jebreal contemporaneamente commentatrice politica e modella per l'azienda di borse Carpisa - fa venire in mente quelle protagoniste dei blockbuster americani, genere disaster movie, che a 25 anni sono bellissime, elegantissime, palestrate, laureate in Fisica nucleare, colte, intelligenti, capelli impeccabile, che citano Aung San Suu Kyi e intanto salvano il mondo dalla catastrofe. Qualcosa fra una bond girl e un'analista del Pentagono. Ma quella, come si dice, è Hollywood... E infatti lì, accanto al produttore Harvey Weinstein, ci arriverà, più tardi. «Ciao, Rula! Ma che bello! Ci sei anche tu?». «Yes, #MeToo!».

#MeToo, catcalling, bodyshaming, lotta al patriarcato, militante del «Movimento palestinese per la cultura e la democrazia», musulmana laica e talebana dello ius soli, splendida agit-prop del neofemminismo vittimista che non sbaglia mai, Free Palestine e «The future is female», a Rula che è il nome di una tribù beduina dove comandavano le donne, nomen Oman bastarono meno dei sei giorni del conflitto arabo-israeliano per conquistare La7. Nel 2002 fa un'apparizione all'Infedele di Gad Lerner, talk show a quasi esclusiva presenza maschile in cui pure Rula si trova benissimo: sono ancora lontani i tempi della battaglia No women no panel. Della sua comparsata, anche per via dello share, se ne accorsero in pochi. Ma fu notata da Franca Fossati (femminista storica, militante in Lotta Continua), capo autrice di Otto e mezzo: è lì, ospite di Giuliano Ferrara, che esplode il fenomeno Rula. Piace all'ambasciatore israeliano a Roma, piace alla sinistra filopalestinese, piace al direttore del TGLa7 Giulio Giustiniani, piace all'editore Marco Tronchetti Provera, piace al gran consigliori della rete Paolo Mieli, e piace anche ai telespettatori. Piace, insomma, a tutti. Che in latino si dice Omnibus. Un paio di anni e Rula Jebreal conduce il programma di attualità politica alternandosi con Antonello Piroso. Ma si sa, le convivenze televisive, soprattutto maschio-femmina e più ancora maschio-femminista, sono difficili. Alla fine, però, vince la professionalità. Antonello Piroso diventa direttore del TG, a Rula Jebreal non viene rinnovato il contratto. Come dice un ex collega: «Non sapeva niente, non studiava, era arrogante, ma aveva una capacità di tenere lo schermo incredibile».

E così si riparte da Annozero, con Michele Santoro, anno catodico 2006. Da lì Rula Jebreal è una star delle cronache politiche, fra difese appassionate della causa palestinese, bersaglio di attacchi razzisti l'abbronzatura rinfacciatale dal Ministro Calderoli a Matrix e misogini (ma noi ci dissociamo dalla battuta di Gene Gnocchi: «Renato Brunetta, pizzicato in un fuorionda mentre dava della gnocca senza testa a Rula Jebreal si è scusato spiegando che si sbagliava: La Jebreal non è poi così gnocca»), reportage mediorientali, un dimenticabile programma del 2013 condotto maluccio con Michele Cucuzza sui campi profughi, Mission, il maggior fiasco della stagione di Rai1, le intemerate, fra il talk e lo show, sull'immigrazione, la religione, i diritti delle donne, la crociata contro il maschio bianco - «Non urlare addosso a una donna come me, questa si chiama violenza!» - fino a scalare lo zenit della popolarità che, per paradosso, da noi si raggiunge scendendo una scala: quella di Sanremo, con il suo catechismo femminista di festival e di militanza. È stato l'altro ieri, edizione Amadeus 2020.

Oggi Rula Jebreal è una splendida signora di 49 anni con un profilo Twitter che annichilisce - «Visiting Professor, The University of Miami. Author. Foreign Policy analyst» collabora a prestigiosi fogli americani, New York Times, Washington Post, Time - «Ma come ha iniziato a fare la giornalista negli Stati Uniti?», «Ho chiesto un colloquio con Tina Brown, direttrice di Newsweek. Mi riceve e dice: hai cinque minuti per convincermi a metterti sotto contratto. Ho risposto: parlo arabo e ebraico, posso portarti un'intervista alla vedova di Moshe Dayan, intervistare donne siriane stuprate, posso scrivere sugli scandali di Berlusconi...», mentre noi, che arriviamo da Busto Arsizio, abbiamo faticato anni a farci ricevere dal direttore della Prealpina - vive tra New York e la Florida, tornando in Italia a trovare la figlia Miral.

Perché intanto anche la vita privata è da rotocalco: una relazione con l'artista bolognese Davide Rivalta, fidanzata del conte Pietro Antisari Vittori, compagna per alcuni anni del pittore e regista Julian Schnabel, il quale gira il film Miral, prodotto da Weinstein, tratto dal romanzo di Rula; poi moglie nel 2013 del banchiere draghiano Arthur Altschul Jr., da cui divorzia nel 2016 dopo una relazione con Roger Waters, e ormai la vita è un red carpet, jet set internazionale, dal rione Monti alla casa al Greenwich Village, Save Gaza, quote rosa e Galil Mountain Rosè dell'Alta Galilea, ben ghiacciato. Da dissidente a mainstream, da Rosa Luxembourg del Monte Carmelo alla più affettata bourgeois bohemian. Al-Jazeera, kefiah, yacht e intifada.

Palestinese ma israeliana, determinata, per alcuni cinica, permalosa («You're blocked. You can't follow or see @rulajebreal's Tweets»), volto tv, romanziera (dicono con ottimi ghost writer), Rula Jebreal è una giornalista impegnata su temi scottanti e di grande attualità, ma ideologica. Cara Rula, perché ti sei affrettata a postare il video della giovane Meloni filomussoliniana, ma non hai speso neppure un tweet su #SalmanRusdhie? Eppure è stato colpito da un estremista di una religione che conosci bene...

Rula of Engagement. Mai farle domande antipatiche se sei maschio, bianco, etero, cisgender.

Poi certo, la cosa di boicottare una trasmissione perché gli ospiti sono tutti uomini, povero Zoro, ma presentare il proprio libro al Circolo Canottieri Aniene, che non accetta donne fra gli iscritti ed è il posto più #tuttimaschi del mondo - poteva essere gestita meglio.

Comunque, visto che in Italia i candidati al premierato sono sempre uomini, ed è fondamentale invece che ci sia anche una donna, speriamo che Rula sostenga la Meloni.

E per il resto, ogni uomo ha il suo punto debole. Il nostro è Rula Jebreal.

 Andrea Parrella per fanpage.it il 24 marzo 2021. Rula Jebreal è tornata a raccontare la sua difficile storia personale, divenuta nota in particolare in Italia dopo la sua partecipazione al Festival di Sanremo del 2020. La giornalista italo-israeliana si è confessata sabato 20 marzo durante un'intervista a Verissimo, in occasione della presentazione del suo nuovo libro "Il cambiamento che meritiamo", che le ha permesso di ripercorrere la sua storia complessa, caratterizzata dalla tragica vicenda familiare riguardante sua madre che, vittima per anni di abusi, si è tolta la vita.

Il racconto di Rula Jebreal. Jebreal ha ammesso a Silvia Toffanin: "Per anni mi sono vergognata di mia mamma. In Medio Oriente c'è proprio lo stigma dello stupro che viene considerato un disonore ed è anche per questo che si impone alle donne il silenzio. Soltanto pochi anni fa ho deciso di raccontare questa storia che potrebbe aiutare anche altre donne e parlarne mi ha liberata".

"Quello che è successo a mia madre non è un'eccezione". La sua storia è divenuta motivo di testimonianza a sostegno di una questione ben più ampia, relativa ai diritti di tutte le donne. La storia di sua madre le offre costantemente spunti di riflessione importanti perché le dà modo di capire qualcosa in più rispetto alla condizione generale che le donne vivono in questa società, spesso vittime di violenza: "Quello che è accaduto a mia mamma purtroppo non è l'eccezione. Il suo è stato un abuso avvenuto all'interno delle mura di casa, come nell'80% dei casi", ha raccontato la giornalista nel corso della puntata di Verissimo. Per poi aggiungere: "Quando mia mamma ha denunciato non le hanno creduto e purtroppo anche questo è quello che succede a tante donne. Mia mamma si è suicidata perché ha subito una doppia ingiustizia: dallo stupratore, il suo patrigno, e dalla società che non le ha creduto".

Paolo Mastrolilli per “La Stampa” il 25 maggio 2021. Altro che disputa televisiva, o trucco pubblicitario: «La discriminazione delle donne in Italia», denuncia Rula Jebral, «è una pandemia che contagia tutti. Ho lanciato un sasso, per aiutare a riconoscere e risolvere questo problema».

Perché ha rifiutato l'invito a Propaganda Live?

«Per anni ho sollevato la questione della sotto rappresentanza delle donne con autori, direttori, colleghi, ma nulla è cambiato. In Italia la discriminazione è palese. Quando ho visto sette invitati e una donna, ho detto che lo consideravo inaccettabile. Ho voluto mandare un messaggio forte, non solo a Propaganda Live, ma a tutti i programmi tv. Lancio l'allarme per un tema che rispecchia il Paese, anche in politica, task force, lavoro. È un problema inquietante, che viene normalizzato e ignorato».

Le donne sono invitate in tv anche per bella presenza?

«Sicuro. Lo capisci quando fanno interventi da 30 secondi, e poi restano ad ascoltare una trasmissione di due ore in cui parlano solo uomini».

I critici notano che è uno scontro tutto interno ai progressisti.

«Il mondo non progressista dovrebbe tacere, perché almeno noi parliamo dei temi, ci confrontiamo. Dall' altra parte ci sono solo attacchi sessisti, misogini e razzisti. Si va dalla violenza verbale al silenzio tombale. Almeno tra i progressisti c' è un dialogo acceso, aperto, magari anche aspro, ma c' è. Fa capire che le idee non sono morte, dalla nostra parte. Anzi, proprio perché siamo progressisti, vogliamo evolverci. E siccome siamo onesti intellettualmente, ci critichiamo anche fra noi. Non è un monologo, ma un dialogo aperto e continuo».

Propaganda Live ha risposto che sceglie gli ospiti in base alla competenza.

«Ciò riflette una cultura generale. È difficile accettare le critiche, quando sei un conduttore televisivo osannato. Nessuno però è immune dalla critica. Tutti possiamo essere colti in fallo, ma a quel punto fai autoriflessione. Io ho lanciato questa critica anche negli Usa, alla Msnbc e su altri canali. C' è stato un confronto aspro, momenti di disagio, però siamo arrivati a guardare onestamente la realtà per cambiarla. Perché senza questo confronto nessuna persona concede il suo privilegio. Anche chi non crede che le donne siano inferiori. Sono sicura che quelli di Propaganda Live non lo pensano, ma tanti uomini e colleghi mi hanno mandato messaggi privati, con cui esprimevano solidarietà. Non serve a nulla. E qui c' è tutta la tristezza, perché credono che la battaglia per la parità sia una faccenda delle donne. Non è così. È una questione che riguarda tutti, di democrazia e giustizia. Se l' uomo non vuole rinunciare al privilegio, mi dà una pacca sulla spalla e dice "brava, continua a lottare", le cose non cambieranno mai».

Perché gli uomini le hanno mandato messaggi privati?

«Nessuno vuole pagare il prezzo: ti sostengo, ma questa non è la mia battaglia; il sistema è così, non l' ho scelto io. Sì, può darsi, ma le regole si possono cambiare solo insieme. E finché non saremo tutti liberi, nessuno lo sarà davvero».

Alcune donne l' hanno accusata di cercare pubblicità.

«Mi hanno ricordato momenti del movimento #MeToo, quando donne che hanno denunciato stupri in Italia sono state accusate di farsi pubblicità. È la stessa cosa: loro denunciavano violenza e ingiustizia, io una discriminazione palese. Chi non vuole ascoltare dice che è pubblicità, ma io non ne ho bisogno. Che pubblicità è quella? Non mi avrebbe fatto più comodo andare in tv a promuovere il mio libro? Ho preso posizione, sapendo che avrei scatenato l' ira del programma, per agitare le acque e far riflettere. Magari adesso ci sono colleghi che ci pensano. Tante donne hanno interiorizzato l' anomalia e credono sia la normalità. Ma molte madri, mogli, figlie, sorelle stanno riflettendo: così comincia il cambiamento».

I conservatori accusano i progressisti di «cancel culture».

«Sì, sono cancellati, ma ogni giorno vanno in tv a parlarne».

Non esiste?

«Ma quale cancel culture, se ne parlano tutti i giorni? È un' arma di distrazione di massa: se discuti di questo, non badi alle questioni vere del Paese».

In Italia le rinfacciano di criticare «l' uomo bianco», praticando la discriminazione inversa.

«Non meritano risposta. La discriminazione delle donne danneggia il nostro Paese da tanti punti di vista. Molti non investono nelle nostre aziende perché hanno regole precise che richiedono la parità. Leggendo i dati sul Covid, l' occupazione femminile è stata la più colpita, gli asili nido erano chiusi, tante donne sono state costrette a scegliere tra lavoro e figli, e hanno scelto la famiglia. Il dibattito in Italia dovrebbe riguardare i diritti e come migliorarli. Io ho lanciato l' allarme su un fenomeno ovvio, anche tra i progressisti: basta guardare alla dirigenza del Pd. Se non ne parliamo ora, quando lo faremo?».

Dove vede la discriminazione?

«Governo, Pd, aziende, task force. Il 100% degli istituti di cultura è guidato da uomini, come le università o i teatri. Le donne guadagnano meno dei colleghi. Una pandemia dilagante».

Esiste anche il problema del consenso, come ha dimostrato la vicenda del figlio di Grillo?

«Esatto. È ora di cambiare la narrativa. Dobbiamo dire agli uomini che quando una donna è ubriaca non può consentire, e quindi la state stuprando. Lo stupro non può essere la punizione perché una donna ha bevuto o indossato la minigonna».

L' origine è culturale?

«L' immagine di una società patriarcale è tappezzata ovunque. Sento parlare delle donne come minoranza da difendere: no, sono la metà. Quando vuoi relegarle a minoranza, categoria protetta, il ragionamento è distorto a monte».

Questo non riguarda anche casi come la legge Zan?

«Stessa cosa. Io non combatto solo per l' inclusione delle donne, ma anche di gay, lesbiche, immigrati, musulmani, ebrei. Ho l' obbligo morale di liberare chiunque sia discriminato. In Italia c' è una trasversalità della discriminazione che va raccontata».

Quote rosa, leggi: come se ne esce?

«Nessuno rinuncerà al privilegio senza qualche meccanismo di coercizione, perciò servono nuove leggi. Bisogna lanciare l' allarme, e le donne devono smettere di votare candidati che non si impegnano a fare i loro interessi. È necessario sgravarle dalle mansioni della cura, investire e legiferare su istruzione, asili nido, emancipazione economica, parità sul lavoro. Io devo molto all' Italia, è il mio Paese e lo amo profondamente. Spero che questa protesta sia costruttiva, per spingerlo verso la modernità. Altrimenti sono molto preoccupata per il futuro dei nostri figli».

Da "gossipetv.com" il 14 maggio 2021. Annuncio in pompa magna di Propaganda Live, che nelle scorse ore ha reso noti gli ospiti attesi per la puntata di stasera del programma in onda su La7 e condotto da Diego Bianchi, noto anche con lo pseudonimo Zoro. Peccato che uno degli invitati, non appena ha appreso chi fossero gli altri ospiti, ha detto ‘grazie e arrivederci’. Di chi si tratta? Della giornalista Rula Jebreal. La Jebreal, non appena ha scoperto che gli altri ospiti previsti per la puntata del 14 maggio a Propaganda Live erano tutti uomini, ha rifiutato di intervenire in trasmissione. Tutto si è consumato in tempo reale via social. Lo show di La7 ha pubblicato un post su Instagram, informando il suo pubblico che nell’appuntamento del 14 maggio 2021 sarebbero intervenuto Rula Jebreal, Michele Serra, Elio, Caparezza, Colapesce e Dimartino, Valerio Aprea, Fabio Celenza, Claudio Morici, Memo Remigi e il maestro Enrico Melozzi per ricordare Ezio Bosso. Nel momento in cui ha letto il suddetto post, Rula ha preso la decisione di sfilarsi immediatamente dal programma, spiegando il perché attraverso un commento ‘tostissimo’ riferito all’annuncio della trasmissione di Diego Bianchi: “7 ospiti… Solo una donna! Come mai? Con rammarico devo declinare l’invito, come scelta professionale non partecipo a nessun evento che non implementa la parità e l’inclusione”. Una risposta secca e dura, che non sembra lasciare spazio a repliche, che, al di là che arrivino o no, non faranno certo cambiare idea alla Jebreal.

“C’è solo una donna, non vengo”. Figuraccia di Rula Jebreal, smentita da “Propaganda Live”. Monica Pucci venerdì 14 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Più che al politicamente corretto, ormai siamo al cabarettismo di genere. In nome della parità di genere, la giornalista Rula Jebreal si sfila dagli ospiti di “Propaganda Live” perché non vuole essere l’unica donna in studio. Peccato che non sia vero, come qualche ora dopo le ricordano i responsabili del programma condotto da Diego Bianchi, detto “Zoro”. Intanto, però, per tutta la giornata si è parlato di lei e del suo gran rifiuto in nome della causa femminile. Ha vinto, in ogni caso, Rula Jebreal: ha fatto parlare di sé.  La giornalista Rula Jebreal era stata invitata per la puntata di questa sera a parlare dell’escalation nel conflitto israelo-palestinese. Ma poi ha letto il tweet partito dall’account della trasmissione: “Questa sera torna Propaganda Live. Saranno con noi Rula Jebreal, Michele Serra, Elio, Caparezza, Colapesce e Dimartino, Valerio Aprea, Fabio Celenza, Claudio Morici, Memo Remigi e il maestro Enrico Melozzi per ricordare Ezio Bosso. Ci vediamo alle 21,15 su La7”. Era solo l’annuncio di un ufficio stampa, sui nomi più conosciuti, ma Rula Jebfreal ne ha approfittato per sollevare un bel polverone. “7 ospiti… solo una donna. Come mai?? Con rammarico devo declinare l’invito, come scelta professionale non partecipo a nessun evento che non implementa la parità e l’inclusione”. “Mi sembra solo un grande equivoco – commenta con l’Adnkronos il direttore di La7, Andrea Salerno – dovuto a un tweet che all’occhio di una persona che non conosce il nostro programma può essere stato fuorviante. Spero che l’equivoco rientri prima della diretta di questa sera perché ci tenevamo a parlare con lei del conflitto arabo-israeliano”, ha aggiunto Salerno. Nel frattempo, un nuovo tweet dall’account del programma sottolinea che il parterre prevede come sempre anche altre presenze femminili: “Saranno con noi, come ogni settimana, anche Constanze Reuscher, Francesca Schianchi, Marco Damilano e Paolo Celata”. Chissà se questo convincerà Rula a tornare sui suoi passi, magari pensando al tema della trasmissione, un po’ più rilevante delle sue ossessioni di genere, peraltro immotivate, come dimostra il parterre della trasmissione. “Le mie parole al festival di Sanremo e il mio impegno per la parità e l’inclusione sono principi morali che guidano la mia vita. Non sono solo parole, sono scelte! La sottorappresentazione femminile nei media italiani è parte centrale del problema”. Così Rula Jebreal torna ad intervenire su Twitter spiegando perché ha declinato l’invito a partecipare questa sera a ‘Propaganda Live’, dove era l’unica ospite in scaletta. Un Tweet che non sembra preludere affatto ad un ripensamento, come invece auspicato con l’Adnkronos dal direttore di La7, Andrea Salerno.

"Non partecipo": il rifiuto tv della Jebral che scatena le polemiche. Federico Garau il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. La nota giornalista di origini palestinesi non accetta che in studio non ci siano altre ospiti di sesso femminile. Non c'è un numero sufficiente di ospiti femminili in studio, quindi declino l'invito, firmato Rula Jebreal. L'inatteso rifiuto a partecipare alla trasmissione televisiva Propaganda Live arriva proprio dalla arcinota "paladina dei diritti femminili", probabilmente troppo zelante in questa circostanza, visto che ha scelto di dare buca per la puntata di stasera del programma in onda su La7 condotto da Diego Bianchi, alias Zoro, a causa di una disparità numerica di genere. La Jebreal, nota giornalista di origini palestinesi, aveva ottenuto le luci della ribalta in particolar modo sul palco del Festival di Sanremo (edizione 2020), quando si rese protagonista di un monologo a favore delle donne. Non si tratta comunque dell'unica ospitata per quest'ultima, dal momento che in più di un'occasione ha preso parte a trasmissioni telvisive e talk show di vario genere, da quelli più specificamente di contenuto politico a quelli cronachistici. Alla base della sua scelta di respingere la proposta d'invito da parte della trasmissione in onda su La7 ci sono motivazioni di orgoglio femminile, forse un tantino spinte, dato che anche gli autori del programma avevano già diffuso i nomi dei vari ospiti che sarebbero stati presenti stasera, compresa la stessa giornalista. Un affondo arrivato pubblicamente, ma tramite social network. Propaganda live aveva infatti scelto Instagram per avvisare i propri follower che nella puntata del 14 maggio, oltre a Rula Jebreal, ci sarebbero stati anche Michele Serra, Elio, Caparezza, Colapesce e Dimartino, Valerio Aprea, Fabio Celenza, Claudio Morici, Memo Remigi e il maestro Enrico Melozzi per ricordare Ezio Bosso. Apriti cielo. Come può accadere che in studio vi sia spazio per una sola donna? E come mai gli uomini sono più numerosi? Dopo aver letto il post sul celebre social, Rula Jebreal è trasalita ed ha subito scelto di non partecipare ad una trasmissione evidentemente da lei ritenuta troppo sessista. "7 ospiti… Solo una donna! Come mai? Con rammarico devo declinare l’invito, come scelta professionale non partecipo a nessun evento che non implementa la parità e l’inclusione", ha infatti sbottato la giornalista palestinese, che non pare lasciar spazio ad eventuali ripensamenti. "Mi sembra solo un grande equivoco", ha dichiarato ad Adnkronos il direttore di La7 Andrea Salerno, "dovuto a un tweet che all'occhio di una persona che non conosce il nostro programma può essere stato fuorviante. Spero che l'equivoco rientri prima della diretta di questa sera perché ci tenevamo a parlare con lei del conflitto arabo-israeliano".

Rula Jebreal risponde a Propaganda Live (e a Fiorella Mannoia). Vera Monti il 15/05/2021 su Notizie.it. Continua la querelle tra Rula Jebreal e Propaganda Live. La giornalista non si lascia sfuggire nemmeno il commento di Fiorella Mannoia. Non cenna a placarsi la querelle tra Rula Jebreal e Propaganda Live. La giornalista condivide un post nelle storie instagram a commento dell’intervento di Diego Bianchi sulla sua mancata partecipazione e risponde al commento di Fiorella Mannoia. Dopo l’annuncio social di Rula Jebreal di non voler partecipare alla puntata di Propaganda Live di venerdì 14 maggio, Diego Bianchi aveva aperto la puntata proprio sulla questione che aveva tenuto banco sui media per tutto il giorno. Visibilmente rammaricato per la mancata partecipazione della giornalista – non solo per la sua competenza nel commentare quanto sta accadendo tra Israele e Palestina ma anche per difendere la sua trasmissione che della parità e dell’integrazione ha fatto la sua bandiera  – ha affermato che gli ospiti vengono scelti di volta in volta a commentare i fatti della settimana, in base alla  stretta competenza sull’argomento e non sul sesso. Un’affermazione che invece di chiarire ha suscitato una nuova – e piccata- risposta della giornalista. Tra un intervento e l’altro nelle tv internazionali, proprio a commentare la pesante situazione tra Israele e la Palestina – Rula ha condiviso un post nelle sue stories come risposta all’intervento di Diego Bianchi. La giornalista infatti ha condiviso il post di una collega newyorkese che riprendeva in via ironica quanto aveva affermato Michele Serra- anche lui ospite della puntata alla quale avrebbe dovuto partecipare la Jebreal – all’inizio del suo intervento riguardo la questione del conflitto tra Israele e Palestina. “Non so niente di Palestina” aveva infatti affermato e tanto è bastato per suscitare l’ironia della giornalista, con tanto di emoticon di una donna che si mette le mani tra i capelli. Ovviamente con riferimento ironico alla frase di Diego Bianchi sulla scelta degli ospiti in base alla competenza. In realtà la frase   di Michele Serra sulla Palestina va contestualizzata al suo discorso piuttosto articolato e il suo contributo è stato in realtà spunto di riflessione per i tanti che hanno seguito la puntata. Oltre a condividere il post della collega su instagram Rula ha poi pubblicato su twitter la sua risposta a Diego Bianchi, riprendendo sempre la sua frase sulla competenza degli ospiti scelti a commentare le news in trasmissione: “Il problema di sottorappresentanza delle donne – in politica, e nei Media – segnala che la competenza non basta….Salvo pensare che gli uomini siamo statisticamente più competenti”. Risposta che in effetti, non può che far riflettere anche i più accesi sostenitori di Propaganda Live.

La risposta a Fiorella Mannoia. Rula Jebreal non si è limitata solo a questo ma ha anche risposto a Fiorella Mannoia. La cantante infatti si era schierata a favore della trasmissione, ritenendola di certo non sessista. Secondo la cantante quindi, non era intervenuta nella trasmissione dato il tema scottante sul quale avrebbe dovuto dire la sua. Affermazione oggettivamente priva di fondamento dato che la Jebreal non si è di certo mai tirata indietro a commentare simili notizie, anzi. Infatti la risposta è arrivata puntuale: “Cara Fiorella Mannoia vado quasi tutti i giorni a parlare di questo TEMA nelle TV USA, vado dove la parità, la diversità e l’inclusione NON sono una esclusiva per poche ma principi saldi che vengono Rispettati e Realizzati sempre. Ecco il cambiamento che meritiamo!” Aggiungendo a corredo di questo commento, l’immagine che la ritrae in studio di un’altra trasmissione con altre donne in studio.

Rula Jebreal e Propaganda Live: le fazioni social. Intanto, sui social si scatenano le diverse fazioni di chi si schiera a favore di Propaganda Live e chi invece sostiene la presa di posizione della Jebreal. C’è chi fa notare che già in passato la giornalista aveva partecipato a una trasmissione dove gli ospiti erano per la maggior parte uomini. E chi, invece, riscontra nell’atteggiamento dello staff di Propaganda Live le tipiche contraddizioni della sinistra italiana. Peccato che una questione così importante finisca con la solita rissa social che non stimolando una riflessione pacata e seria, finisce con l’esaurirsi in un picco di interazioni per poi scemare nuovamente nell’oblio. 

Da “ilgiornale.it” il 16 maggio 2021. La reazione al «no» di Rula Jebreal di partecipare alla puntata di Proganda Live di venerdì sera perché unica donna - non si è fatta attendere. Il conduttore del programma di La7, Diego Bianchi, alias Zoro, ha rispedito al mittente le accuse di sessismo mosse dalla giornalista di origini palestinesi: «Di base cerchiamo di chiamare un ospite perché competente in una determinata materia, senza soffermarsi troppo sul suo sesso». Ieri la nuova replica della giornalista: «Il problema di sottorappresentanza delle donne - in politica e nei media - segnala che la competenza non basta... Salvo pensare che gli uomini siano statisticamente più competenti».

Claudio Sabelli Fioretti per “Il fatto Quotidiano” il 16 maggio 2021. Rula Jebreal. L'argomento è scivoloso e sento che alla fine di queste righe qualcuno dirà che ho pestato - come dire - una boassa. Rula ha una regola. E lo ha spiegato molto bene. "Come scelta professionale non partecipo a nessun evento che non implementa la parità e l'inclusione", ha spiegato. E quindi ha declinato l'invito di Diego Bianchi a partecipare a Propaganda Live. Come darle torto? Ognuno è libero di andare dove vuole. E se sceglie come norma un comportamento che aiuti la gente a capire che è necessario non fare discriminazioni non possiamo che applaudire. Ovviamente bisogna stare attenti a usare il buon senso. Se in un talk show che abbia come tema la politica economica vengono invitate dieci persone e una sola è una donna è ovvio che siamo in presenza di un comportamento discriminatorio. E spesso ciò è successo. Ma anche Rula non può non essere d'accordo con me che il principio non va applicato con rigida determinazione. Per esempio all'evento Roma-Lazio, tutti hanno visto che sono scesi in campo calciatori. Tutti uomini. D'accordo è una provocazione. Ma mica tanto. Può capitare che in una trasmissione io debba invitare quattro persone. Una che racconti la vita delle suore di clausura. Una che spieghi che cosa spinge alcune ragazze verso la prostituzione. Una terza che ci ricordi la dura esistenza delle mondine. Una quarta che racconti la tremenda avventura di una ragazza stuprata. Ecco, Rula, come la mettiamo? Invitiamo quattro donne senza paura di essere accusati di aver discriminato gli uomini? Un caso estremo? Allora la faccio più facile ancora. Se Rula avesse detto: a La7 la somma totale degli invitati è nettamente a favore degli uomini, allora la sua posizione sarebbe stata più comprensibile. Alla trasmissione di Zoro volevano ricordare Mattia Torre attraverso le parole del suo migliore amico e hanno invitato Valerio Aprea. Che cosa avrebbero dovuto fare per non scontentare Rula? Insomma, buon senso. Non sarò io a dire che è finito il tempo di lottare duramente. Ma ci vuole buon senso perché il buon senso è di sinistra. O almeno lo era. PS : Propaganda Live ha postato un ultimo tweet per sottolineare che il parterre prevedeva come sempre anche altre presenze femminili: "Saranno con noi, come ogni settimana, anche Constanze Reuscher, Francesca Schianchi, Marco Damilano e Paolo Celata". Era una battuta?

Quando femminismo e politicamente corretto offuscano la mente. Francesca Galici il 17 Maggio 2021 su Il Giornale. Rula Jebreal ha rifiutato l'invito a Propaganda Live perché si è accorta di essere l'unica donna presente: quando l'integralismo ideologico va in tilt. Partiamo dai fatti, ormai noti. Rula Jebreal ha rifiutato l'invito a Propaganda Live perché lei sarebbe stata in un parterre con solo uomini. Nel programma di La7 l'avrebbero voluta per parlare del conflitto tra Palestina e Israele, non per disquisire delle nuances di colore dei rossetti. Ma no, lei ha sbandierato sui social che non sarebbe andata. Evidentemente per lei la forma assume più importanza del contenuto. Rula Jebreal ha innescato un cortocircuito a sinistra che rischia di far implodere i cervelli degli intellò. Mentre noi sgranocchiamo i pop-corn in attesa di capire come usciranno da questo impasse mica da ridere, nei salotti buoni si discute di informazione sessista e si propongono le quote rosa. Ah, che bella la mentalità dei politicamente corretti: urlano alla discriminazione di genere e poi chiedono la discriminante di genere. A Rula Jebreal non interessava discutere dell'argomento con persone competenti, lei voleva discuterne con altre donne. L'integralismo ideologico è ormai diventato un ostacolo e Diego Bianchi, conduttore (sinistramente schierato), si è stupito: "Siamo diventati noi la notizia". Il femminismo a tutti i costi è stato anteposto da Rula Jebreal all'importanza del dibattito sulla crisi tra Israele e Palestina. Poteva dimostrare di avere qualcosa di più intelligente da dire rispetto ai colleghi uomini ma ha preferito frignare perché non c'erano altre donne. Ha usato il pretesto (perché di questo si tratta) per tornare a far parlare di sé come paladina di una battaglia non rilevante. E non è rilevante nemmeno per lei a quanto pare, visto che un anno fa era attovagliata nel programma di Corrado Formigli insieme ad altri uomini, senza nessun'altra donna. Superando l'integralismo ideologico telecomandato di Rula Jebreal, la donna contro le discriminazioni che apostrofò Nicola Porro come "uomo bianco" che in quanto tale non avrebbe potuto parlare, esistono dei ragionamenti che si possono fare in tal senso. Saremmo dei folli a negare la disparità di genere in termini di presenza televisiva tra esperti di sesso maschile ed espert... Un attimo, prima di proseguire mettiamoci d'accordo: esperte, espertesse o direttamente espert*? Mentre ci aiutate risolvere questo dilemma, riprendiamo il filo. Dicevamo, è vero che la presenza maschile e quella femminile non sono egualitarie ma davvero è più importante chi dice cosa? Veramente l'informazione ha bisogno di quote rosa e non di persone competenti, al di là del loro sesso? E noi che pensavamo che per fare informazione e far capire a chi ascolta quello che si ha da dire bastasse conoscere l'argomento. Che ingenui che siamo, noi che prediligiamo il contenuto al contenitore. Come siamo retrogradi noi che non ci preoccupiamo di verificare, calcolatrice alla mano, se la radice quadrata nel numero di uomini presenti in un dibattito sia uguale alla radice quadrata del numero di donne. Eppure, noi crediamo di essere dalla parte del giusto. Di donne competenti ne esistono tantissime, Rula Jebreal ne è probabilmente un esempio. Però sapere di essere state inserite in un dibattito culturale, o in ogni altra posizione, solo perché è stato imposto un numero minimo di donne, non è oltremodo svilente per l'intelligenza e la battaglia per l'affermazione femminile?

Massimo Falcioni per "tvblog.it" il 17 maggio 2021. La tv è davvero maschilista? Il discorso rispunta ciclicamente e l’ultima ad aver riacceso la miccia è stata Rula Jebreal. La giornalista, che ha rifiutato l’invito di Propaganda Live in quanto unica donna tra gli invitati, si è soffermata sugli ospiti. Ma si sa, l’ospite lo si convoca in base al contesto, alle esigenze del momento e alle storie che si intendono raccontare. Il discorso al contrario cambia, e di molto, se l’occhio di bue si accende sui conduttori. Questi offrono una fotografia stabile e molto più nitida della reale situazione. Ecco allora che si torna al quesito di partenza: la tv è davvero maschilista? La risposta è no. Basta darle una sbirciata in lungo e largo, dalla mattina alla sera, sette giorni su sette. Prendiamo il sabato sera, giorno in cui si concentrano le principali sfide del piccolo schermo: da anni il duello riguarda Milly Carlucci e Maria De Filippi. Mutano i programmi – Ballando con le stelle e Cantante Mascherato da una parte, Amici e C’è posta per te dall’altra – eppure il risultato non cambia. Sì, c’è Tu si que vales, show a guida corale, ma anche qui l’impronta di Maria sembra predominante, al pari di quella di Gerry Scotti. La musica non cambia la domenica: scavallato il pranzo, parte l’invasione femminile: Mara Venier a Domenica In, Barbara D’Urso a Domenica Live, Lucia Annunziata a Mezz’ora in più, Camila Raznovich a Kilimangiaro e Francesca Fialdini a A ruota libera. Tinte rosa pure al mattino, nei feriali: è il caso di Luisella Costamagna ad Agorà, di Gaia Tortora e Alessandra Sardoni a Omnibus, di Eleonora Daniele a Storie Italiane, di Barbara Palombelli a Forum, di Antonella Clerici a E’ sempre mezzogiorno, di Myrta Merlino a L’Aria che tira e di Adriana Volpe a Ogni Mattina. E quando l’uomo appare lo fa quasi sempre in coabitazione con una collega, vedi Uno Mattina, Mattino Cinque e Mi manda Rai 3. Si prosegue al pomeriggio: a Oggi è un altro giorno e Detto Fatto ci sono Serena Bortone e Bianca Guaccero (entrambe subentrate a Caterina Balivo), a Geo c’è Sveva Sagramola, a Tagadà c’è Tiziana Panella, mentre su Canale 5 è staffetta tra la De Filippi (Uomini e Donne) e la D’Urso (Pomeriggio Cinque). L’eccezione è rappresentata da Alberto Matano a La vita in diretta, dove però la doppia guida uomo-donna è stata portata avanti per ben due lustri fino al giugno scorso. Un’altra fascia dove per il maschio l’ingresso è off-limits è il talk di access prime time. A Otto e mezzo, Stasera Italia e Tg2 Post regnano infatti quattro donne: Lilli Gruber, Barbara Palombelli, Veronica Gentili (nei weekend) e Manuela Moreno. Stesso discorso, o quasi, per i reality. Da Ilary Blasi ad Alessia Marcuzzi, passando per Simona Ventura, Daria Bignardi, Paola Perego e la stessa D’Urso, il genere è stato poco battuto dagli uomini (riciclati semmai come ‘valletti’ e inviati), con Alfonso Signorini che ha infranto una sorta di tabù con le ultime due edizioni del Grande Fratello Vip. Prima di lui, si ricordavano a malapena Nicola Savino all’Isola (l’ultima targata Rai) e Carlo Conti al timone del dimenticato – e dimenticabile – Ritorno al presente. Da notare, inoltre, come su La7 la figura maschile sia ripetutamente accostata a quella del "supplente", con Francesco Magnani e Alessio Orsingher fanno spesso le veci della Merlino e della Panella. A sorpresa, le donne hanno saputo gradualmente imporsi in un settore storicamente ‘maschilista’ come quello del calcio. Pertanto, non fanno più notizia le conduzioni di Ilaria D’Amico, Anna Billò, Giorgia Rossi, Diletta Leotta, Simona Rolandi e Paola Ferrari. Giusto per citarne alcune. Se c’è invece un campo in cui il gentil sesso non riesce a sfondare è quello dei giochi e dei quiz. Motivo per cui non troviamo donne nel preserale delle ammiraglie (L’Eredità, Avanti un altro, Caduta Libera, Reazione a catena) e nemmeno nei vari game piazzati altrove (Soliti Ignoti, Affari tuoi). A memoria, oltre alle fugaci esperienze di Clerici e Ventura ad Affari Tuoi e Le tre scimmiette, non si registrano altri esperimenti. Ci siamo concentrati sulla quantità, volutamente. Perché su quello si è soffermata la Jebreal con la sua protesta. Il discorso, tuttavia, non ci entusiasma. Le donne ci sono e non per rispettare delle quote, o una sorta di immaginaria par-condicio. Ci sono dove è giusto che ci siano, dove c’è domanda. In televisione vanno analizzati i contenuti, a prescindere da chi li veicola. Nessuno dovrebbe ispirarsi al manuale Cencelli, almeno per il sesso. E anche un palinsesto riempito al 99 per cento da soli uomini – o sole donne – sarebbe ampiamente giustificato, qualora la scelta fosse basata sulla professionalità e la preparazione.

Da "adnkronos.com" il 16 maggio 2021. Selvaggia Lucarelli si inserisce nella polemica sull'invito a "Propaganda Live" rifiutato da Rula Jebreal in nome della parità di genere (sarebbe stata l'unica ospite donna della puntata), per sollevare un altro 'caso' legato al tema dei diritti e ad un ospite fisso dello stesso programma. "Ieri - scrive su Facebook Lucarelli - mentre ci si accapigliava per Rula, sfuggiva un fatto ben più emblematico sullo stato della sinistra che riguarda sempre un protagonista di 'Propaganda Live': Roberto Angelini, il cantante nel cast fisso di Propaganda Live postava un video in cui raccontava che ha un ristorante di sushi e una sua amica (che chiama "pazza incattivita"), che faceva lavorare in nero per farle un favore, l’ha denunciato. La Finanza gli ha fatto una multa di 15.000 euro. Lacrime, dramma, solidarietà al cantante-imprenditore di Emma, Jovanotti, Elodie e altri vip. E insulti alla lavoratrice. Insomma, la sinistra che ci piace: solidarietà all’imprenditore, mica al lavoratore". Su Facebook Angelini aveva raccontato ieri mattina di avere appena scoperto di essere stato denunciato da un’'amica' alla guardia di finanza. "Dopo un anno di sacrifici per non chiudere cercando di limitare al massimo il ricorso alla cassa integrazione per i miei dieci dipendenti (visti i tempi biblici). Ho comprato un furgoncino per le consegne e fatto lavorare amici che avevano bisogno. Mi sono indebitato per pagare i fornitori. Ho resistito con i ristori evidentemente inadeguati. Non avendo uno spazio all’aperto sto facendo i salti mortali per allestirne uno al volo. E poi... 15 mila euro di multa per lavoro in nero". E ancora: "Per colpa di una pazza incattivita dalla vita sarei stato costretto a chiudere e mandare a spasso 10 persone", aveva aggiunto, lamentando "il tradimento ricevuto da una presunta amica che ha mangiato e dormito a casa mia. Che mi confidò che aveva bisogno di soldi e io pensai bene di aiutarla". Proprio la Lucarelli però pubblica nei commenti della sua denuncia una ricostruzione della vicenda (ricevuta sempre via social da una sedicente amica dell'amica 'traditrice' di Angelini): la ragazza non avrebbe denunciato nulla, in realtà, ma sarebbe stata fermata dalla finanza durante il lockdown duro (zona rossa) dello scorso anno mentre faceva consegne per il ristorante del musicista. Poi sarebbe stata ricontatta dalla Finanza che voleva vederci chiaro e che l'ha interrogata sul suo rapporto di lavoro. Di qui la multa della Finanza ma anche la perdita del lavoro per la ragazza. La persona che ha scritto la ricostruzione sottolinea che l'amica "traditrice" ("un’amica che colta in flagranza di reato, mentre si spostava durante un turno di lavoro in zona rossa per fare le consegne a domicilio senza un regolare contratto, non lo avrebbe coperto e non avrebbe magari mentito per lui!") "è stata messa alla gogna mediatica senza possibilità di difendersi". E, aggiunge, Angelini "sfruttando ancora una volta la sua visibilità di personaggio pubblico, dopo aver sfruttato la sua compassione da amico che ti fa lavorare in nero, ha ben pensato di fornire la sua versione dei fatti ammettendo candidamente di aver commesso un reato". "Sì, il lavoro nero è un reato! Non ci sono giustificazioni di sorta per un simile atteggiamento! Ma in questo caso no, c’è il plauso della folla". "Caro Angelini - scrive ancora chi ricostruisce la vicenda - nessuno ti ha denunciato: il vittimismo e la mistificazione della realtà sono totalmente fuori luogo in questa circostanza! Il suo post sta riscuotendo le pacche sulle spalle e il supporto di tantissimi personaggi dello spettacolo italiani (io li citerei tutti). Voglio solo urlare a gran voce quanto questa ipocrisia mi faccia male". Qualche ora più tardi, ieri, Angelini era tornato su Facebook per ringraziare della solidarietà ricevuta e chiedere ai suoi follower di smettere di insultare la ragazza: "Voltiamo faccia. Ci tengo davvero a ringraziarvi tutti per l’abbraccio e il sostegno ricevuto. Ho scritto un post di pancia. E forse avrei potuto evitarlo. Mi dispiace però leggere insulti verso la ragazza e mi rendo conto di essere in una posizione privilegiata. Non avevo previsto tutto questo. Per favore non insultatela più, mi fa sentire in colpa, quando in realtà vorrei tenermi l’incazzatura ancora per un po'". "A chi mi parla di "mai lavoro in nero" dico che sono d’accordo e ho sbagliato. E infatti pago. Ma sicuramente non è questo il luogo per approfondire. E insomma, tutto si risolverà nei modi e nelle sedi adatte. In tutto questo, a dimostrazione della mia coglionaggine, mi sono dimenticato che oggi sarebbe uscita una mia nuova canzone. Ho incasinato la giornata di tutte le persone che lavorano da mesi al mio progetto. E poi penso, e se il mio brano si fosse chiamato "rider" o "lavoro nero"... Cazzo sarei stato un genio. Che trovata promozionale! E invece no. Si chiama L’Era Glaciale e non c’entra niente". Ma c'è chi tra i follower non ha apprezzato affatto: "L'incipit 'Voltiamo faccia' è perfetto. Ti descrive bene. Si vede che sei abituato a cambiare faccia: da comunista difensore dei diritti dei lavoratori a caporale a base di uramaki contro i lavoratori", scrive una utente.

·        Salvo Sottile.

Francesca D'Angelo per “Libero Quotidiano” il 23 gennaio 2022.

Due punti di share in più: mica male, l'"effetto Salvo Sottile" su I fatti vostri. Sebbene il diretto interessato si affretti a precisare che «è lui che deve ringraziare», con annesso elenco di nomi e cognomi (Anna Falchi, Michele Guardì, lo stesso Giancarlo Magalli, gli autori, il direttore di rete e pure l'usciere della Rai) è innegabile che lo storico ex giornalista del Tg5 abbia portato la propria cifra nel programma mattutino di RaiDue. 

La vera prova del nove è Giancarlo Magalli: cosa le ha detto?

«Mi ha fatto i complimenti. Io gli devo tutto, per me I fatti vostri è stata una vera rinascita personale. Tra l'altro è il programma più difficile che io abbia mai condotto».

Detto da un uomo che ha lavorato per anni con Mentana, suona un filo esagerato.

«Invece è così, perché qui devo alternare registi diversi e per un giornalista è tosta. Infatti la prima cosa che mi ha detto Guardì è stata: "Tu hai una malattia, il giornalismo, e io ti devo guarire”». 

C'è riuscito?

«In parte. Mi sono voluto tenere stretto un pezzetto di questo mio malanno (ride, ndr)».

Mi voglio fare i fatti suoi: con il direttore di Rai Tre Franco Di Mare ora è tutto a posto?

«Non ho mai parlato con Di Mare, né ho intenzione di farlo. È legittimo che un direttore decida di cambiare la conduzione di un programma ma trovo spiacevole e scorretto comunicarlo a fine agosto, quando i palinsesti sono chiusi e non c'è più possibilità di ricollocarsi. Con il lavoro delle persone non si scherza».

Come se lo spiega?

«Ufficialmente voleva valorizzare gli interni, ma penso ci fosse dell'altro, magari una gelosia personale. Per me comunque è un capitolo chiuso».

Con I fatti vostri lei parla a un pubblico over 50: per alcuni potrebbe essere un passo indietro.

«Non esistono target di serie A e di serie B e credo che fare servizio pubblico consista anche nel tenere compagnia agli anziani a casa. Tra l'altro la pandemia ha allargato la nostra platea perché ora ci seguono pure gli studenti in dad, i giovani disoccupati, le persone in quarantena…».

A proposito di servizio pubblico, l'Inghilterra ha deciso di congelare il canone della Bbc, per poi eliminarlo nel 2027. È una scelta destinata a fare scuola?

«Spero di no perché il canone è fondamentale per poter garantire una tv differente: alcuni programmi di pubblica utilità difficilmente vedrebbero la luce senza il canone».

No vax: da voi non hanno messo piede. Una scelta di campo?

«Rispetto il pensiero di tutti ma credo che abbia senso dare un'eco così forte ai no vax giusto nei talk politici. Noi siamo invece una piazza e quando abbiamo parlato di Covid è stato per promuovere la campagna vaccinale: non ci sentiamo di dare una sponda ai no vax, perché il vaccino ha salvato moltissime vite». 

Insisto nel farmi gli affari suoi: non ha mai nostalgia del Salvo Sottile in modalità Carlo Lucarelli style, che seguiva i casi di cronaca nera?

«Mi sono occupato di nera per tre anni, sperimentando nuovi linguaggi, ma poi ero curioso di sperimentare altri generi. La nera poi è come un antibiotico: va somministrata a piccole dose altrimenti ci si fa male. Per esempio a I fatti vostri non abbiamo mai trattato Denise Pipitone perché non aveva senso seguire la serie di piste, spesso fasulle…».

Da giornalista, mi faccia la sua previsione per il Colle: chi sale?

«Credo Draghi. Lo stimo molto: ha fatto ripartire l'Italia anche prendendo decisioni impopolari». 

Oggi le persone hanno perso fiducia nell'informazione ufficiale, preferendo il web. I giornalisti hanno delle responsabilità?

«Qualche domanda dovremmo farcela. Per ragioni di costi oggi si va meno sul campo e si tende a lavorare usando agenzie o notizie online, a discapito della notizia stessa e del lettore. Inoltre i tg devono cercare di cambiare il modo di comunicare e stanare le fake news». 

Le piace il Tg1 della Maggioni?

«Molto. Ecco, lei va proprio in questa direzione di ammodernamento: è riuscita a mettere la quinta marcia all'informazione tv». 

Qualcosa mi dice che potrebbe tornare il Sottile conduttore di tg…

«Calma, calma! Direi che ho dato anche se stimo molto la Maggioni e mai dire mai». 

Cosa ricorda del Sottile che esordiva, 30 anni fa, al Tg5?

«Che correva come un pazzo su e giù per la Sicilia! Facevo così tanti pezzi che alla fine a Mediaset convenì assumermi anziché pagarmi a cottimo. Mentana è stato un grandissimo maestro. Già ai tempi faceva delle maratone tv pazzesche».

·        Selvaggia Lucarelli.

Francesco Storace per Libero Quotidiano il 10 dicembre 2022.

Delazione alè alè. Guai a raccontare la verità come si presenta davanti a nostri occhi. In un colpo tre notizie: Selvaggia Lucarelli legge Libero; Selvaggia Lucarelli vorrebbe Libero chiuso; Selvaggia Lucarelli farà cilecca anche stavolta. 

L'inno della Lucarelli alla delazione ha anche del comico, con quella sua consulenza - gratuita, volontaria, inutile - a Giuseppe Conte: la rivale di Enrico Montesano e di una infinità di personaggi che le stanno antipatici suggerisce via twitter all'ex premier di querelare il nostro direttore Alessandro Sallusti, e magari imprigionare qualche titolista per il reato di sbattere la verità in prima pagina (con la complicità di qualche vicedirettore). 

Non siamo i soli a notare un corto circuito del linguaggio dell'ex premier in sinistra coincidenza con le espressioni più violente - e non solo verbali - rivolte alla presidente del Consiglio in carica. Conte non sopporta chiunque stia seduto sulla poltrona che riteneva di sua proprietà. E chi gli va appresso si sente autorizzato a fare peggio delle sue parole insensate.

 Se un giornalista contesta Conte, è la sentenza di Selvaggia Lucarelli, deve andare di fronte al tribunale. Se invece uno scrittore napoletano di nome Roberto Saviano insulta in diretta tv a Giorgia Meloni e Matteo Salvini apostrofandoli come "bastardi" e attribuendo loro bambini morti in mare, lo devono premiare. Se poi il plus ultra lo raggiunge Michela Murgia con quel suo Meloni uguale camorra contro Saviano, c'è l'ovazione e un tango a Ballando sotto le stelle perla bellissima ballerina sarda. Se questa è la cultura che esprime la sinistra, si capisce perché si sia allontanata dal suo popolo. 

Donna Selvaggia ha eccitato i follower con un tweet da delirio. Ma questa potrebbe non essere una notizia. Che invece arriva quando il contenuto del Dall'alto: Selvaggia Lucarelli e il suo tweet in cui dà consigli a Giuseppe Conte contro il direttore di Libero, Sallusti. 

Sotto, invece, il tweet con le minacce di morte del percettore di reddito di cittadinanza M5S contro la Meloni e sua figlia messaggio è di sapore spionistico. Oltre che offensivo verso lo stessa Conte, che semmai dovrebbe querelare proprio lei che in pratica gli dà del demente. Se non gli piacciono titoli e articoli, è lui che decide se adire le vie legali. Il suggerimento social della Lucarelli alla fine della fiera espone don Giuseppe a due conseguenze alternative: o perde la causa o fa la figura del fifone perché lo sa.

Davvero Conte non ha bisogno dei suggerimenti di Selvaggia Lucarelli per far giudicare da un magistrato Sallusti e chissà quanti altri della nostra redazione per un titolo non certo nascosto: «Questo Conte è pericoloso», campeggiava fiero come ogni giorno sulla prima pagina di ieri. 

Sicura, signora Lucarelli, che una cosa del genere non stia già nella testa di milioni di italiani? In un eventuale processo il direttore di Libero potrebbe chiamare come testimoni a difesa anche un po' di esponenti del Pd che la pensano allo stesso modo e per questo non ne vogliono sentir parlare, di Giuseppe Conte. Quereliamo anche loro?

Perché rovesciare accuse ogni giorno più gravi sulla testa della premier la espone agli invasati. Come l'ultimo, drogato e pregiudicato, che si voleva sdebitare per il reddito di cittadinanza minacciando coltellate a mamma Giorgia e figlia Ginevra. 

Per spalleggiare Conte, la Lucarelli afferma che quel brav' uomo di Siracusa autore delle minacce alla Meloni e che ora piange per paura del carcere, in fondo è un disadattato. Certo, che scoperta. Ma quando il capo dei Cinque stelle strilla che se si tocca il reddito di cittadinanza esplode la guerra civile, a quali sani di mente si rivolge? E quando invita ad esempio Matteo Renzi - che non è un pericoloso estremista di destra - a recarsi nelle piazze di Palermo senza scorta a "spiegare alla gente" perché vuole abolire il sussidio, compie l'ennesima opera di bene?

Presa dalla sua smania di tutelare l'avvocato del popolo - quindi non suo - Selvaggia Lucarelli arriva a scrivere che Sallusti quando scrive è più pericoloso del povero disadattato quando twitta e minaccia. Vuole far chiudere i giornali, la signora? Pericoloso scrivere più che agitare le piazze e promettere coltellate a chi rappresenta le istituzioni?

Ma dove li scrive i tweet la Lucarelli? In quale birreria? 

Sembra quasi che le minacce rivolte alla Meloni siano dovute ai titoli di Libero e non alle sommosse di piazza promosse dai Cinque stelle, aizzati da un leader pervaso dal rancore da quando non è più a Palazzo Chigi. 

Alla fine sarà proprio la Lucarelli a dover essere difesa. Da se stessa. Saluti dalla brigata Sallusti.

Veleni di Selvaggia Lucarelli sull'avvocato della moglie di Soumahoro, lui la querela. Il Tempo il 02 dicembre 2022

Selvaggia Lucarelli attacca l'avvocato di Liliane Murekatete, moglie del parlamentare Aboubakar Soumahoro: "Ha difeso Priebke". La giornalista e giurata di Ballando con le Stelle si rivolge direttamente a Lorenzo Borrè: "Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione", scrive su Twitter, scatenando sui social diverse reazioni polemiche, a favore e contro, la sua presa di posizione.

Da notare l'utilizzo dell'aggettivo "griffato", chiaro riferimento alle foto che la compagna di Soumahoro ha pubblicato sui suoi profili sociali anni fa in cui sfoggiava abiti o borse firmate. Pochi giorni fa, Murekatete si è sfogata contro il "racconto mediatico volto a rappresentarmi come una cinica "griffata" e ad affibbiarmi icastici titoli derisori, una che pubblica selfie (peraltro dello stesso tenore di quelli di centinaia di migliaia di giovani donne occidentali e non) mentre i lavoratori della cooperativa non ricevono gli stipendi è artatamente falsata".

Non si è fatta attendere nemmeno la replica di Borrè: "Querelo Selvaggia Lucarelli per il suo post", dice il legale. Le parole della giurata di Ballando gli non sono piaciute. "La quelererò per questo utilizzo della qualifica di 'ex avvocato di Priebke' come se fosse un disdoro professionale. Lucarelli potrà spiegare nelle sedi competenti quale rilevanza professionale abbia il fatto che io sia stato uno dei difensori di Erich Priebke", insiste l’avvocato, che si dice "sbigottito" dal post della Lucarelli.

"Peraltro - punge il legale - non so nemmeno chi sia Selvaggia Lucarelli, della cui esistenza apprendo oggi. L’evocare a fini implicitamente scandalistici una mia attività difensiva di vent’anni fa, assolutamente legittima, come se fosse qualcosa di professionalmente sconveniente e che avrebbe dovuto sconsigliare qualcuno dall’avvalersi della mia assistenza come avvocato, ha evidenti finalità denigratorie della mia professionalità, tant’è che il post di questa signora mi è stato segnalato da amici fortemente indignati".

"L'ex avvocato di Priebke...". La Lucarelli sferza la moglie di Soumahoro. Liliane Murekatete ha scelto Lorenzo Borrè come avvocato: duro l'intervento di Selvaggia Lucarelli contro la moglie di Soumahoro. Francesca Galici su Il Giornale il 2 Dicembre 2022

Che i Soumahoro siano diventanti ingombranti anche per la sinistra, lo dimostra una storia pubblicata questa mattina da Selvaggia Lucarelli. La giornalista ha commentato la vicenda che da giorni riempie le pagine di cronaca con una considerazione personale: "Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c'era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione". Che il suo avvocato sia Lorenzo Borrè è cosa nota, visto che è stata lei stessa a riferirlo nel corso di una lunga intervista concessa all'agenzia Adnkronos: "In questo piano inclinato non posso quindi fare altro, al momento, che dare incarico al mio avvocato, Lorenzo Borrè, per adire le vie giudiziarie nei confronti di quanti mi hanno consapevolmente e persistentemente diffamato, ai limiti dello stalking".

Al di là del caso di Erich Priebke, agente della Gestapo e capitano delle Ss durante la Seconda guerra mondiale, Lorenzo Borrè è spesso definito come "l'avvocato dei 5s", perché dal suo studio di Roma Prati sono passati oltre 30 ex esponenti del Movimento 5 stelle espulsi dal partito, che si sono rivolti a lui per avviare un'azione contro il Movimento. L'azione di Borrè, per quanto concerne i 5 stelle, è stata efficace, considerando che nel 2016 è riuscito a far reintegrare 20 espulsi napoletani nel partito. Liliane Murekatete Punta sulle competenze dell'avvocato per uscire dal turbinio mediatico nel quale è stata coinvolta per la gestione di due cooperative nella provincia di Latina insieme a sua madre.

"A questo processo mediatico non mi presto né intendo prestarmi: se l'autorità giudiziaria me lo chiederà, non avrò problemi a dimostrare la liceità dell'acquisto, ma respingo culturalmente il processo da celebrarsi nella piazza mediatica, per una miglior diffusione via social e colpo di grazia nelle testate scandalistiche", ha detto ancora Liliane Murekatete, che non vuole nemmeno essere chiamata "Lady Gucci", così come da tempo l'hanno soprannominata nella zona in cui operano le coop e come viene chiamata dai quotidiani da quando è esploso il caso mediatico, che la giustizia segue da ben prima che arrivasse sui giornali.

Lucarelli censore del nulla: "Moglie Soumahoro sceglie Borrè, ex avvocato di Priebke". E si becca una querela ! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Dicembre 2022

All'avvocato Lorenzo Borrè non è andato giù il tweet. All'avvocato Lorenzo Borrè non è andato giù il tweet dell'"opinionista" di ballerini. Parole che non sono piaciute al legale, candidato al al Csm come laico: "La querelerò per questo utilizzo della qualifica di 'ex avvocato di Priebke' come se fosse un disdoro professionale"

L’alza-palette di "Ballando con le Stelle", Selvaggia Lucarelli pubblicista da Civitavecchia ha scritto oggi su Twitter questo commento (bloccando inutilmente la visione al nostro giornale): "Liliane Murekatete, moglie di Soumahoro, si è affidata a Lorenzo Borrè, ex avvocato di Priebke. Qualcuno dovrebbe spiegarle che anche tra gli avvocati griffati c’era qualcosa di meglio, a livello di comunicazione" scatenando sui social diverse reazioni polemiche sulla sua presa di posizione.

il tweet che la Lucarelli non voleva farci vedere

"Da avvocato, questa volta non sono d’accordo con te, Selvaggia. Noi abbiamo il dovere di rappresentare e difendere legalmente l’Assistito e non siamo, in alcun modo, associabili alle condotte o procedimenti dello stesso. Ogni avvocato ha poi il proprio stile di comunicazione", la stoppa subito @MirkoMelluso. Interviene in risposta all’avvocato e alla Lucarelli, @BettoMandolini "Curiosità, è mai esistito un avvocato difensore che di fronte all’evidenza, scoperta logicamente in un secondo tempo, abbia abbandonato il proprio assistito?".

E la scia continua con Emily74: "Magari alcuni avvocati potrebbero scegliere di non accettare incarichi anche se mediaticamente importanti, se la persona è oggettivamente indifendibile (Priebke). Ognuno risponde alla propria coscienza e si c’è un problema di comunicazione". E poi con @fantprecario: "Proprio perché indifendibile deve avere un avvocato. C’è chi si è fatto ammazzare per difendere le br pur sapendo di andare al patibolo ed essere contrario alle loro idee. Si chiama giustizia".

Botte e risposte vanno avanti: "La questione personale qui è irrilevante. Libero di scegliersi il cliente. Ad es non difenderei mai uno di Italia viva. Quello che rileva è che ciascuno, anche Veltroni ove imputato debba avere diritto a un giusto processo", dice @fantprecario. La lista delle frecciate reciproche fra chi la pensa come la Lucarelli e chi no è ancora lunga. E non manca chi storce talmente il naso da scrivere, come fa @JonnyFirebead: "Ma adesso si ‘giudica’ un avvocato dai suoi clienti? E che dovremmo pensare degli avvocati della Lucarelli?".

"Querelo Selvaggia Lucarelli per il suo post". All’avvocato Lorenzo Borrè non è andato giù il tweet dell'"opinionista" di ballerini. Parole che non sono piaciute al legale, candidato al al Csm come laico: "La querelerò per questo utilizzo della qualifica di ‘ex avvocato di Priebke’ come se fosse un disdoro professionale", annuncia Borrè all’Adnkronos. "La Lucarelli potrà spiegare nelle sedi competenti quale rilevanza professionale abbia il fatto che io sia stato uno dei difensori di Erich Priebke…", insiste l’avvocato, che si dice "sbigottito" dal post della Lucarelli.

"Peraltro non so nemmeno chi sia Selvaggia Lucarelli, – aggiunge il legale – della cui esistenza apprendo oggi. L’evocare a fini implicitamente scandalistici una mia attività difensiva di vent’anni fa, assolutamente legittima, come se fosse qualcosa di professionalmente sconveniente e che avrebbe dovuto sconsigliare qualcuno dall’avvalersi della mia assistenza come avvocato, ha evidenti finalità denigratorie della mia professionalità, tant’è che il post di questa signora mi è stato segnalato da amici fortemente indignati".

Finalmente qualcuno ci auguriamo darà una "lezioncina" in tribunale alla "tuttologa-pubblicista" nota alle cronache solo per le polemiche ricercate e talvolta provocate, dissertando su tutto dall’alto del nulla.

Redazione CdG 1947

Da liberoquotidiano.it il 29 novembre 2022.

A Ballando con le stelle le polemiche sono ormai fuori controllo. Protagonista assoluta è Selvaggia Lucarelli, che adesso punta il dito contro uno degli ospiti fissi del talent show capitanato da Milly Carlucci. La giornalista non ha digerito il modo in cui i suoi colleghi della giuria e il resto del cast di Ballando con le stelle l’hanno trattata dopo il suo commento rivolto a Iva Zanicchi - quando sabato scorso le ha dato della "squallida". Così, nelle ultime stories su Instagram, vuota il sacco e punta il dito contro la ballerina Sara Di Vaira. Proprio colei che sabato scorso, quando la giornalista ha avuto un duro scontro con Guillermo Mariotto, si è schierata dalla parte dello stylist venezuelano.

A quanto pare, Di Vaira è stata l’unica del cast fisso di Ballando con le stelle a non averle fatto le condoglianze per la morte della madre, scomparsa recentemente. "Quella che mi dava lezioni di educazione sabato sera e mi diceva che mi doveva stare bene il prendermi della scimmia che lancia escrementi, è anche l’unica persona di tutto il cast fisso di Ballando con le Stelle che il giorno dopo il mio lutto non mi ha manco detto “condoglianze” (Simone e Rossella invece, subito gentilissimi). L’unica. Anzi quella sera stessa ha solo tentato (come sempre invano) di provocarmi e litigare in puntata", ha scritto Lucarelli.

Poi ha aggiunto: "E non ho ancora detto mezza parola su come hanno trattato Lorenzo (Biagiarelli, suo compagno, eliminato dalla sfida, ndr), lungo capitolo di cui mi sono ben guardata di occuparmi finché era in gara. Ma lo farò, perché merita anche quello". Infine, aggiunge un post scriptum: "Quella che mi dava lezioni di educazione non è chi siede accanto a me", scagionando quindi da questa polemica Carolyn Smith con cui ha avuto ben altre discussioni, "ma chi siede di fronte a me (non vorrei fraintendimenti).

Sebbene il nome di Sara di Vaira non sia stato messo nero su bianco dall’editorialista di Domani, è senza ombra di dubbio che sia lei la destinataria del tagliente messaggio. Il clima, insomma, si sta facendo davvero pesante, ed esula dalle telecamere di Rai 1. Non a caso, nei giorni scorsi Lucarelli ha persino dichiarato di non sentirsi "totalmente tutelata" dal programma condotto dalla Carlucci.

Da liberoquotidiano.it il 29 novembre 2022. 

Nell'ultima puntata di Ballando con le stelle di sabato 26 novembre c'è stato un durissimo scontro tra Selvaggia Lucarelli e Guillermo Mariotto. E a Oggi è un altro giorno di Serena Bortone se ne è parlato con Paola Barale e Roly Maden e Luisella Costamagna che è in coppia con Pasquale La Rocca. La giornalista si è quindi schierata dalla parte di Iva Zanicchi: "Io difendo Iva a cui è stato dato della squallida, che trovo inaccettabile e trovo inaccettabile anche averle dato della volgare". Quindi ha aggiunto che la cantante è lontanissima dalla volgarità e merita di stare a Ballando.

Del resto tra la Costamagna e Lucarelli non c'è gran simpatia. La giornalista si è infortunata e la Lucarelli l'ha invitata a ritirarsi dandole addirittura uno "0" alle sue esibizioni. Ma Luisella non le ha mai rivolto la parola, l'ha del tutto snobbata senza rispondere alle provocazioni. Però sul termine utilizzato da Guillermo Mariotto nei suoi confronti - "scimmia che lancia escrementi" - la Costamagna ha voluto prendere le distanze: "Bisogna fare attenzione sui termini, questo per quanto riguarda Mariotto ma nel merito sono d’accordo con lui.".

Selvaggia Lucarelli e le polemiche: lo "strano" caso di Ballando con le stelle. Dal Codacons a Guillermo Mariotto, Selvaggia Lucarelli a Ballando con le stelle è stata costantemente al centro delle polemiche del programma. Francesca Galici il 28 Novembre 2022 su Il Giornale.

Ormai abbondantemente superato il giro di boa di Ballando con le stelle, si può affermare che c'è un filo conduttore che lega tutte le puntate finora trasmesse del programma di Rai1: le polemiche di/per/contro Selvaggia Lucarelli. Il giudice della kermesse condotta da Milly Carlucci, volente o nolente, fin dall'inizio dell'edizione si è trovata in mezzo alle polemiche, alcune da lei create alimentate e alcune subite. Ma lei è sempre stata il perno di ogni polemica.

Certo, non sorprende. Uno dei suoi principali ruoli all'interno di Ballando con le stelle è proprio quello di "animare" le dinamiche del programma ma a volta, invece di crearle, le ha subite. È il caso della polemica nata lo scorso agosto, quando venne annunciata la partecipazione del suo compagno, Lorenzo Biagiarelli, come concorrente del programma. Il Codacons, ma anche tantissimi utenti dei social hanno accusato il giudice di "conflitto di interessi" e questo adagio è andato avanti per tutte le puntate, fin quando Lorenzo Biagiarelli non è stato escluso dalla competizione.

Selvaggia Lucarelli è stata accusata di penalizzare altri concorrenti pur di favorire il compagno e qualcuno ha addirittura ipotizzato maliziosamente che la polemica da lei sollevata in merito alla t-shirt della X Mas indossata durante le prove da Enrico Montesano fosse per escludere l'attore e favorire il compagno. Alla fine, però, per un curioso scherzo del destino (o forse no) Lorenzo Biagiarelli è stato escluso nella puntata immediatamente successiva a quella dopo la quale è scoppiato il caso Montesano. Caso? Vendetta dei fan di Biagiarelli? Chissà, rimarrà uno dei misteri di questa edizione.

"Squallido", "Scimmia arrabbiata che getta escrementi". Rissa a Ballando tra la Lucarelli e Mariotto

E che dire, poi, della polemica scoppiata alla prima puntata, quando Selvaggia Lucarelli si è beccata un sonoro "tr..." da parte di Iva Zanicchi per un commento della giurata dopo la sua performace? Per non parlare, poi, dello scontro a distanza tra Selvaggia Lucarelli e Carolyn Smith. Anche in questo caso, la giornalista è stata attaccata dalla coreografa e tra le due c'è stato un botta e risposta, causticamente chiuso da Selvaggia Lucarelli, che ha accusato la Smith di covare rancore perché vorrebbe per sé tutte le luci della ribalta. Per non parlare, poi, dello "scazzo" con Guillermo Mariotto che l'ha definita "scimmia sguaiata" all'ennesimo attacco della giurata contro Iva Zanicchi.

Qualunque sia il caso, Selvaggia Lucarelli è sempre al centro della polemica. Come il prezzemolo, direbbe qualcuno. O come la cicoria, direbbero altri. Ma Ballando con le stelle non sarebbe lo stesso senza di lei. E scegliete voi se in meglio o in peggio. Questa è solo una considerazione.

"Nessuno tra i miei colleghi...". Selvaggia Lucarelli contro tutti a Ballando. La Lucarelli ha affidato ai social un personale sfogo su quanto avvenuto nell'ultima puntata di Ballando con le stelle e ne ha avute per tutti (colleghi giurati e "altri lì seduti"). Novella Toloni il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.

"Quello che è successo ieri non è neppure cronaca, è illusionismo". Selvaggia Lucarelli ha iniziato così il suo post Instagram per commentare, a freddo, quanto avvenuto nell'ultima diretta di Ballando con le stelle. L'ennesima polemica condita con un tantino di vittimismo, che ha coinvolto colleghi giurati, Iva Zanicchi, giuria popolare e persino due ballerini professionisti, Simone Di Pasquale e Sara di Vaira, che quest'anno commentano la gara.

La giornalista è voluta tornare sullo scontro avvenuto in puntata con Guillermo Mariotto, che ha difeso Iva Zanicchi, definita "squallida" dalla Lucarelli per le sue barzellette. Il giudice è letteralmente sbottato contro la collega e nel dirle "basta", l'ha chiamata "scimmia". L'appellativo non è stato affatto gradito dalla Lucarelli, che su Instagram ha lamentato un eccessivo accanimento nei suoi confronti.

"C'è una concorrente, Iva Zanicchi, che balla per modo di dire e che racconta barzellette tra ca**i e maiale da settimane. È show, dicono quelli che dovrebbero giudicare il ballo", ha raccontato la Lucarelli come se riferisse di un evento di cronaca e proseguendo: "Le scappano due tro*a rivolti a una giurata. La giurata incassa obtorto collo, del resto è un paese in cui se dici tro*a a una donna va bene fino alla prossima panchina rossa. La giurata accetta le scuse, e si va avanti".

"Squallido", "Scimmia arrabbiata che getta escrementi". Rissa a Ballando tra la Lucarelli e Mariotto

L'affondo a Smith e Mariotto

Ed è a questo punto che la giornalista ha puntato il dito contro i colleghi giurati, accusandoli di non avere detto niente in merito e il riferimento a uno dei giudici in particolare è stato evidente: "Nessuno tra i colleghi giurati dirà mai mezza parola, neppure quello paladino lgbt alla faccia della solidarietà nella discriminazione, viene riaccolta con le fanfare. Anzi, la presidente di giuria la giustifica 'in Veneto è un intercalare', dice. La concorrente è emiliana. Va quindi avanti con balli improbabili e barzellette sporche che forse per un po’ divertono, poi immalinconiscono".

Selvaggia Lucarelli ha poi recriminato sulla disparità di trattamento. La giornalista ha ricordato di avere avuto una settimana "complessa" e di essersi vista urlare dietro da Mariotto "sei una scimmia che lancia escrementi ovunque!". Imparagonabile per lei al suo "squallida" rivolto alla Zanicchi e così ha recriminato: "Qui i piedi sono al posto della testa, tutto capovolto. Iva Zanicchi difesa dal mio terribile "squallida" e "lei che nonostante il momento difficile è lì" (con la febbre e l'anca lussata, ndr). LEI. Silenzio dei più e "giusto" da altri lì seduti". E come degno finale si è paragonata a Soumahoro, suggerendo al compagno Lorenzo di rimuovere il post Instagram dove compaio le scarpe Valentino. Una barzelletta, secondo la Lucarelli, per rimanere in tema. E se qualcuno aveva dubbi sul clima teso che c'è al bancone dei giurati, questo ne è la conferma.

Da leggo.it il 27 Novembre 2022.

Tra Selvaggia Lucarelli e Iva Zanicchi è una guerra senza fine. Durante la semifinale di Ballando Con le Stelle, andata in onda ieri, 27 novembre, c'è stato uno scontro tra la giornalista e la cantante. Secondo gli altri giudici, Iva Zanicchi sarebbe, infatti, la stella di questa ultima edizione. Selvaggia, invece, non è d'accordo con i colleghi e ha tenuto a precisare il suo pensiero...

Cosa è successo

Ormai come appuntamento settimanale, alla fine di ogni esibizione di Iva Zanicchi intrattiene il pubblico con delle barzellette sconce che strappavano sempre due risate al pubblico presente in studio e da casa. 

Selvaggia Lucarelli invece, non ha apprezzato il percorso della cantante all'interno del programma e ha tenuto a precisarlo: «Il rischio è che diventi squallida».

Il termine che ha utilizzato la giornalista non è piaciuto a nessuno, Iva Zanicchi non ha saputo contestare e si è mostrata visibilmente dispiaciuta, dandole quasi ragione. 

A prendere la parola è stato Guillermo Mariotto che ha preso le difese di Iva Zanicchi e ha sbottato contro Selvaggia Lucarelli paragonandola a una «scimmia che getta me**a su tutti i concorrenti».

Poi ha mostrato apprezzamento nei confronti della cantante, elogiandola come la protagonista di questa edizione che ha saputo divertirsi e far divertire il suo pubblico. 

Da liberoquotidiano.it il 27 Novembre 2022.

"Quello che è successo ieri è affascinante. Non è neppure cronaca, è illusionismo": Selvaggia Lucarelli interviene su quanto successo ieri in puntata a Ballando con le Stelle. La giornalista, infatti, ha definito le uscite della Zanicchi nel corso del programma come "squallide" e per questo si è scatenato il putiferio. Contro di lei e a difesa della cantante si è schierato il giudice Mariotto. "C’è una concorrente, Iva Zanicchi, che balla per modo di dire e che racconta barzellette tra ca**i e maiale da settimane - ha scritto la Lucarelli su Facebook -. È show, dicono quelli che dovrebbero giudicare il ballo. Ok, aspettiamo di vedere un futuro concorrente di “La sai l’ultima” gareggiare con un tango. Nel frattempo le scappano due tro*a rivolti a una giurata".

"Ieri la concorrente racconta l’ennesima barzelletta sporca tra cappelle e organo del prete - ha continuato la giornalista -. La giurata dice che forse Iva poteva alternare tutto questo con corde più serie, perché così diventa squallida. Nel senso proprio di ciò che è avvilente. Si va in pubblicità. Mariotto va a fumare. Rientra e a freddo urla: “Come ti permetti di dare della squallida a questa signoraaaa che nonostante i suoi problemi sta qui a sorridere (lei eh, non io), sei una scimmia che lancia escrementi ovunque!”. E qui i piedi sono al posto della testa, tutto capovolto".

"IVA Zanicchi difesa dal mio terribile “squallida” e “lei che NONOSTANTE IL MOMENTO DIFFICILE È LÌ”. LEI. Silenzio dei più, “giusto!”, da altri lì seduti. Per un attimo mi sento Soumahoro,  penso “Lorenzo CA**O CANCELLA SUBITO QUELLE SCARPE VALENTINO DA INSTAGRAM”. Nessuno che provi a far notare che la realtà non è una clessidra, se la giri NON è uguale, è al contrario. Io nel frattempo vedo un sacco di piedi. Teste per aria. Anche tante persone a casa, per fortuna, vedono la stessa cosa. E un po’ mi viene da ridere. Sembra una barzelletta. Meglio di quelle di Iva però", ha chiosato la Lucarelli.

Davide Maggio per davidemaggio.it il 25 novembre 2022.

Il 2022 è stato per Selvaggia Lucarelli un annus horribilis, che l’ha vista pochi giorni fa salutare per sempre la mamma Nadia. Un anno nel quale, manco a dirlo, non sono mancate le polemiche: dal modo in cui ha scelto di elaborare il lutto alle più futili vicende di Ballando con le Stelle che, volente o nolente, la vedono protagonista del sabato sera di Rai 1. “Spero di aver saldato tutto”, mi dice speranzosa nella nostra chiacchierata che non poteva non iniziare con un “come va?”. 

«È stato un anno difficile, in cui si sono concentrati nel breve periodo tanti eventi sfortunati. Io non mi sottraggo al dolore, accetto le sconfitte, però il 2022 ha avuto un certo accanimento. Hai presente quando si sveglia il tuo Comune con il recupero crediti e ogni giorno nella posta trovi una nuova multa per un divieto di sosta del 1989? Ecco, il mio 2022 è stato più o meno così. Spero di aver saldato tutto». 

Gli eventi sfortunati non sono automaticamente delle sconfitte…

«Non essere riusciti a proteggere mia madre dal Covid la vivo come una sconfitta. Non aver consegnato un lavoro in tempo anche. Non aver capito che malattia avesse il mio cane se non alla fine idem. Poi certo, la sfortuna ha fatto la sua parte». 

Spesso, chi è apparentemente freddo nasconde delle fragilità e delle ferite. Le tue quali sono?

«Se fossi fredda non mi appassionerei così tanto alle cose del mondo! Mai confondere la forza con la freddezza, che non mi appartiene. Le mie fragilità le ho raccontate parecchio negli ultimi anni, ho avuto due genitori che partecipavano al dolore per i problemi del mondo, due attivisti, colti, appassionati di politica e temi sociali, ma molto distratti in famiglia, con i figli. Questo mi ha resa quello che sono, una persona che ha un grande senso di giustizia, ma anche la bambina col suo vuoto affettivo da colmare. Ho impiegato decenni per capire ciò che non mi era stato spiegato con l’alfabeto emotivo giusto». 

Però al Corriere hai detto: “Poi continuerò a vivere nel mio spazio mentale che riesce a essere una camera stagna rispetto a tutto il resto”

«Una morte improvvisa è un dolore lancinante, che rimanda il tempo dell’elaborazione del lutto. Poi ci sono morti diluite nel tempo. Mia madre, con l’Alzheimer, non era più lei da anni. Per me il distacco e quindi l’elaborazione del lutto erano già iniziati molto tempo fa. La sua morte non è stata un dolore che mi ha travolta, ma un rumore di fondo che mi accompagnava da tempo. So che dirlo ad alta voce è destabilizzate per i grandi saggi che hanno stilato il rinomato “protocollo del dolore perfetto” come Mimun, ma alle volte la morte è sollievo. Mia madre viveva su una sedia a rotelle e fissava il muro, muta, io non credo meritasse di vivere così. Quello che non meritava era di morire col Covid, soffrendo». 

C’è un lato privato che non è il caso di condividere?

«I divorzi conflittuali, con i figli di mezzo. Ma anche la vita dei figli spiattellata giorno per giorno, la loro intimità, perché il loro privato non è il nostro. Per me questi sono dei no assoluti, per il resto non mi disturba la condivisione del privato, ma l’utilizzo che si fa del privato. Vedo bollettini medici alternati ad adv, puro egocentrismo mascherato da condivisione del dolore, drammi non ancora masticati che si trasformano in lezioni di vita da impartire ai follower. Io ho impiegato 10 anni per parlare di dipendenza affettiva, se quel libro lo avessi scritto dopo due giorni dalla fine di quella storia, sarebbe stato superficiale e stupidamente vittimistico. Cazzo, prendetevi del tempo, soprattutto se nascondete il vostro egocentrismo dietro la frasetta magica “ne parlo per aiutare gli altri”. Aiuta prima te stesso, elabora. Poi, forse, puoi aiutare qualcuno». 

Qual è la differenza tra Chiara Ferragni e Selvaggia Lucarelli?

«La stessa che c’è tra una noce di macadamia e un orologio a pendolo». 

Se dovessi scegliere tra le tue ‘vittime’ persone o situazioni della tua vita personale, contro chi o cosa ti scaglieresti?

«Non mi scaglio e non faccio vittime, affronto le cose. E solitamente mi occupo di pesci grossi, non di pesciolini rossi. Nella vita personale per me non ci sono cose irrisolte, ma tendo a vivere come una faccenda personale alcune questioni lavorative. Per me per esempio è inconcepibile il dovermi difendere in continuazione non dall’ hater di passaggio ma dal giornalismo più becero o, peggio, dal silenzio dei colleghi di fronte a intimidazioni, volgarità inaccettabili, sessismo che arrivano da altri colleghi.

Ma ti pare normale che quando ho preso una testata al raduno dei no vax al Circo Massimo, Repubblica intervisti un tizio di Forza Nuova che manco era lì e che dice: “Io l’ho vista, era lei che andava in giro a provocare!”. E che ci faccia il titolo? O che i tassisti facciano cori dandomi della tr*ia a manifestazioni pubbliche e quasi nessuno se ne preoccupi? Che non venga giudicata un’intimidazione a tutta la stampa? Ecco, avrei molta voglia di affrontare direttamente dei colleghi, chiedere conto delle porcate che scrivono o di certa indifferenza». 

Non pensi sia ancora più fastidioso quel giornalismo di consenso per il quale, adesso, il consenso non è più quello del lettore ma quello del personaggio raccontato/intervistato dal giornalista-fan?

«Puoi farti fare tutte le interviste intrise di bava che vuoi, ma tanto ormai sui social ci sono milioni di sentinelle che sottolineano quello che non vuoi evidenziare: incoerenza, ipocrisia, mediocrità».

A proposito di giornalisti tutt’altro che fan, di Francesca Fagnani hai detto che «vuole vincere, non conoscere l’intervistatore». E tu perderesti con lei?

«Vuole vincere nel senso che sono interviste che illuminano più lei che l’intervistato, tutto qui. Il perdere è non avere nulla da guadagnarci, nel mio caso. Io faccio la giornalista, non amo molto parlare attraverso gli altri, ho la possibilità di dire tutto quello che voglio con i miei strumenti diretti. E comunque mi sono giustificata più volte per non essere andata da lei che per non aver battezzato mio figlio, non ho ben capito perché! Non ho voluto farmi intervistare anche dal bravo Cattelan e da molti altri, ma nessuno me ne chiede conto, comincio a pensare che Belve sia una specie di leva obbligatoria. Sono obiettore di coscienza!»

Partecipare a Belve è visto ormai come un atto di coraggio e si pensa che chi non vi partecipi abbia qualcosa da nascondere. Diciamo che questo problema della domanda scomoda, da Cattelan, non si porrebbe proprio…

«Se dai potenziali intervistati è vissuto come un atto di coraggio è un problema, perché vuol dire che l’intervista è percepita -appunto- come un’imboscata. Un conto è la domanda scomoda, il mettere anche sotto torchio su un determinato tema, un conto è che questo diventi l’unica cifra di chi intervista, con sottolineature feroci dopo la risposta, lo sguardo sarcastico sulla cartellina e faccette allusive. È una cifra che funziona per chi intervista, meno per chi viene intervistato perché non c’è ascolto, ma provocazione. Può essere divertente eh, non fraintendermi, però ne devi avere voglia, non coraggio. Mi sono stata spiegata?»

Credo di doverti correggere la grammatica… (ridiamo, ndDM)

«Dai non si corregge la grammatica altrui, io con Carolyn Smith non lo faccio mai, nonostante viva in Italia da decenni…» 

Lei dice che sull’italiano potresti correggerla, sulla danza no!

«A una gara di alfabeto base, Carolyn potrebbe fare il giudice come io lo faccio a una gara di balli e saltelli di dilettanti. A me fa sorridere che Carolyn Smith non abbia ancora capito dopo tre lustri che non è presidente di una gara di ballo, ma di uno show televisivo. Tra l’altro il paradosso è che lei sembra ben più consapevole di me che non si giudichi il ballo puro ma ben altro, altrimenti non darebbe dei 9 ridicoli come quelli a Iva Zanicchi. Se vuole fare il giudice di ballo seduta accanto a veri giudici di ballo lasci pure Ballando e si dedichi alle competizioni internazionali. Lei fa tv, io faccio tv e di tv so più di lei, quindi impari a rispettarmi».

Credo preferisca meditare. Ha detto: “Devo ammettere che ogni tanto durante le pause pubblicitarie devo meditare. Inspiro a fondo, trattengo e poi butto fuori l’aria per eliminare le negatività, perché io non voglio litigare. I battibecchi mi dispiacciono perché “Ballando” è un programma fatto bene, per famiglie, che unisce nonni, genitori e nipoti”.

«Oddio, addirittura la negatività per due palette! Tra l’altro Ballando dura 4 ore e mezzo, non mi sembra che si respiri un clima mediamente rissoso, si ride molto. Se vuole può andare a fare lo Zecchino d’oro, così non rischia che qualcuno turbi la sua nota positività. Detto ciò, ha sempre questo livore mascherato nei miei confronti come se fossi io la fonte di ogni conflitto, non ricordo però la sua indignazione per il “Tr*ia” della Zanicchi, anzi, lei è l’unica della giuria che l’ha anche giustificata dicendo che in Veneto è un intercalare, il che detto da una donna è stato imbarazzante. Se a nonni e nipotini può piacere la Zanicchi, posso andar bene anche io, si rassereni».

Però almeno medita, su. Nel corso degli anni ci sono stati la Parietti che hai denunciato, Morgan che ha inveito dietro le quinte e, quest’anno, la Zanicchi che ti ha insultata. Ti senti tutelata dal gruppo di Ballando?

«Domanda difficile. Partiamo da un presupposto: Ballando tutela Ballando prima di ogni cosa, e questo è pure comprensibile visto che ne va della sua sopravvivenza. Detto ciò, la risposta è: talvolta sì, talvolta no e quando ciò non è avvenuto l’ho sempre detto a loro con estrema franchezza. Ho avuto confronti e anche discussioni. Per me non è mai l’episodio in sé il problema perché non penso che Milly o gli autori possano avere il controllo su tutto, le cose capitano. 

E’ talvolta il loro modo di (non) riparare che mi ferisce. Io non pretendo che un concorrente venga buttato fuori se mi insulta, non sono scelte che spettano a me e se resto lì accetto la logica della tv che ha bisogno di certi personaggi. Se però Morgan come lo scorso anno dice al mio fidanzato che sono una “tr*ia” dietro le quinte, io me ne lamento, mando giù il rospo in silenzio e però la volta dopo va in onda una clip registrata in cui Morgan dice che sono la nuvola nera del programma, mi chiedo se sia il modo giusto di trattarmi. Oppure se la Zanicchi mi insulta facendo una cosa grave in diretta tv, mi sta bene che poi si decida tutti insieme che le scuse possano bastare. Però lei torna in trasmissione il sabato dopo e la attende il tappeto rosso della giuria, perfino le giustificazioni, tutti a far finta di niente.

Poi arriva il mio fidanzato reo di aver detto in una clip la gravissima frase “non voglio essere il fidanzato di” e lo aspettano con il fucile, gli danno dell’arrogante, “io io io”, causando una shitstorm violentissima di una settimana contro una persona buona, pulita. Cioè, si è processato il fatto che non portasse legittimamente la ballerina a bere un caffè nel tempo libero con tanto di conclusione “tratti male la ballerina”  e non il “tr*ia”. C’è qualcosa di storto in tutto questo. Diciamo che come ha detto correttamente Salvo Sottile a “La vita in diretta”, io forse sono trattata più come un concorrente che come parte del cast fisso. Però una cosa la devo dire: è un posto in cui posso dire quello che voglio, e questo controbilancia alcuni momenti di amarezza. La libertà in tv è merce rara».

A volte i ‘big’ dello spettacolo per mettersi in gioco pretendono, a torto o a ragione, di essere tutelati…

«La tv è pericolosa, innalza e affossa in un attimo, io capisco che il mezzo richieda precauzioni. C’è però sempre una dose di imprevedibilità, specie in una diretta di 4 ore; diventa difficile tutelarsi. Per me la miglior forma di tutela è confidare nella sensibilità altrui e nella mia buona capacità di improvvisazione. Poi certo, mi aspetto sempre che se subisco, gli altri almeno un po’ riparino…» 

E comunque pare che con Montesano volessero in qualche modo riparare, no?! (ridiamo, ndDM)

«Ah beh, a proposito del caso Montesano, la Smith, sabato scorso, è stata capace di prendere la parola per dire che nel mondo della danza, in caso di atteggiamento sbagliato, c’è sempre un avviso e solo dopo la squalifica. L’ha detto forse per preparare il terreno a un suo eventuale rientro, che forse peró è stato bloccato dalla Rai come ho letto da qualche parte. Forse le sfugge la differenza tra un atteggiamento sbagliato nella danza e uno nella società civile, specie se ha a che fare con l’apologia del fascismo».

Forse è comprensibile da una donna che ha fatto del ballo la sua ragione di vita…

Mourinho dice: “se sai solo di calcio, non sai niente di calcio”. Ecco, forse è ora che Carolyn impari che “se sai solo di danza, non sai niente di danza”. Le farebbe bene studiare i libri di storia, oltre quelli di lingua italiana. 

Del tuo fidanzato ha detto che non è empatico, che non ha visto la sua anima…

«A parte che la facevo esperta di ballo e non di doti umane tipo l’empatia, mi chiedo come mai non abbia mai sottolineato per esempio che le coreografie di Lorenzo e Anastasia fossero le più complesse. Da un tecnico mi aspettavo considerazioni tecniche e invece ha parlato solo di anima, di me come presenza incombente -cosa inventata- e di cose estranee alla tecnica che al limite potrebbe far dire a me o a Mariotto.

Aggiungo che fare queste considerazioni ai giornali con una gara ancora aperta visto che Lorenzo è uscito ma c’è il ripescaggio, è una delle cose più scorrette che abbia visto a Ballando con le Stelle in sette anni che sto qui. La verità è che ha trasferito su Lorenzo l’antipatia che nutre per me, antipatia che ha origine da un discorso di semplice competizione televisiva. Lei vorrebbe la luce tutta per sè, mi soffre. Io no, per me gli altri sono un valore, a maggior ragione se molto diversi da me». 

Tu in cosa ti senti competente?

Nel leggere la realtà. 

Ti piaci di più come giornalista, come scrittrice o come personaggio tv?

Come gattara.

Lucarelli e il post per la mamma scomparsa, morta di Covid e di compromessi». Poi Carlucci le fa le condoglianze in diretta. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2022.

«Non sono arrabbiata, perché io stessa ho ripreso il passo veloce di chi ha urgenza di vivere». In serata la giornalista si è presentata a Ballando, col fidanzato in gara

«Questa mattina presto mia madre, Nadia, è morta. È morta di Covid e di compromessi. I compromessi che tutti abbiamo accettato per continuare a vivere, lasciando inevitabilmente indietro qualcuno. Quelli come lei, nella maggior parte dei casi: i fragili». Così, sui suoi social Selvaggia Lucarelli ha annunciato la morte di sua mamma. «Non sono arrabbiata, perché io stessa ho ripreso il passo veloce di chi ha urgenza di vivere. E so che mia madre, che era prima di tutto una donna generosa, altruista, sempre in pena per il mondo, avrebbe barattato — anche consapevolmente — il suo sacrificio per il nipote che torna a scuola, per me che torno a viaggiare, per suo marito che può passeggiare nel parco, per la vita di tutti che ricomincia a germogliare. Mi piace pensare che se ne sia andata all’alba per questo: per salutarci tutti e augurarci una bella giornata, “correte, non vi preoccupate per me”. Come era lei, come ha vissuto».

In serata poi Selvaggia Lucarelli è comparsa nella giuria di Ballando, mentre il fidanzato Lorenzo Biagiarelli si è esibito in gara. A inizio puntata Milly Carlucci le ha fatto le condoglianze: «A noi capita perché noi siamo veramente un po’ come nella canzone: i clown che sorridono sempre, capita di essere in pista anche in momenti difficili della nostra vita e dobbiamo continuare a sorridere. Ed è per questo che io voglio stringere la mano a Selvaggia». Più tardi lei stessa ha twittato contro chi non riteneva opportuna la sua presenza: «Mi dispiace molto non essere rimasta a casa per rispettare il dolore di chi soffre perché non sono rimasta a casa. Davvero. Vi sono vicina».

La mamma era da tempo malata di Alzheimer e la giornalista aveva condiviso sui suoi canali social il suo dolore, anche un modo per accendere una luce su una «malattia crudele che rade al suolo il futuro, inebetisce il presente, lascia in piedi qualche edificio del passato. Mescola il tempo e le sequenze, si colloca nell’oggi un viaggio fatto da bambini, si ricorda un viaggio che non si è fatto mai, si descrive un ritorno da un luogo che non esiste. Succede, nella prima fase dell’Alzheimer, che si entri spesso in conflitto con il malato, che si finga che sia ancora una persona un po’ confusa, distratta, che il malato sia un interlocutore normale e (si pensa) come tale vada trattato. È un meccanismo di negazione ingenuo e potente. E in quella discussione si cerca di difendere non la verità, ma il malato, l’idea che esista ancora così come era ieri».

Selvaggia Lucarelli, morta di covid la madre della giornalista. Andrea Pascoli su La Repubblica  il 20 Novembre 2022.

Lo ha annunciato la stessa giornalista e giudice di Ballando con le Stelle in un post su Instagram. Lucarelli presente in trasmissione, risponde alle critiche di chi la giudica per non essere rimasta a casa

Un lutto improvviso, questa mattina, per Selvaggia Lucarelli: la madre Nadia Agen, di 79 anni, si è spenta. Ad annunciarlo la stessa giornalista con un post sul suo profilo Instagram: “Questa mattina presto mia madre, Nadia, è morta. È morta di Covid e di compromessi. I compromessi che tutti abbiamo accettato per continuare a vivere, lasciando inevitabilmente indietro qualcuno. Quelli come lei, nella maggior parte dei casi: i fragili. Non sono arrabbiata, perché io stessa ho ripreso il passo veloce di chi ha urgenza di vivere. E so che mia madre, che era prima di tutto una donna generosa, altruista, sempre in pena per il mondo, avrebbe barattato – anche consapevolmente – il suo sacrificio per il nipote che torna a scuola, per me che torno a viaggiare, per suo marito che può passeggiare nel parco, per la vita di tutti che ricomincia a germogliare. Mi piace pensare che se ne sia andata all’alba per questo: per salutarci tutti e augurarci una bella giornata, “correte, non vi preoccupate per me”. Come era lei, come ha vissuto”.

Malata di Alzheimer era isolata in rsa

Nadia, già malata di Alzheimer da tempo e ricoverata in ospedale da inizio novembre dopo aver contratto il covid, non ce l’ha fatta: il pubblico aveva potuto “conoscerla” proprio grazie alla figlia, che negli ultimi anni aveva pubblicamente raccontato sui suoi canali social le fasi della sua lenta ma inesorabile malattia, chiedendo anche pubblicamente aiuto quando la donna si era allontanata senza lasciare traccia. Sempre sui social Lucarelli, qualche tempo fa, aveva denunciato come non potesse né vedere né parlare con la madre, isolata in rsa dopo il peggioramento delle sue condizioni, fino ad arrivare oggi alla triste notizia.

Il Covid e i vaccini, temi cari a Lucarelli

Un tema, quello del covid, particolarmente sentito dalla giornalista e giurata di Ballando con le stelle, che in questi due anni si è strenuamente battuta a favore dei vaccini, arrivando spesso a scontrarsi sui social con diversi utenti negazionisti, tra cui anche Enrico Montesano, ex concorrente del talent di Rai 1 recentemente espulso dopo aver indossato una maglietta della Decima mas.

All'inizio della trasmissione la presentazione della giuria come di consueto e non è mancata neanche Lucarelli. "A noi capita di essere in pista anche in momenti difficili della nostra vita - ha detto Carlucci - per questo voglio stringere la mano a Selvaggia". In serata su Twitter Lucarelli ha risposto alle critiche di chi l'ha giudicata negativamente per non essere rimasta a casa.

Dal lutto per la madre alle polemiche, Selvaggia Lucarelli contro gli hater: “Non accetto che mi si dica cosa dovrei provare”. Redazione su Il Riformista il 20 Novembre 2022.

Colpevole, secondo il tribunale dei social, di aver partecipato alla puntata di ‘Ballando con le stelle’, programma del sabato sera di Rai1, nel giorno della scomparsa della madre Nadia.

È l’ondata di accuse e polemiche che ha coinvolto da ieri sera Selvaggia Lucarelli, giornalista del quotidiano ‘Il Domani’ e giudice dello show tv condotto da Milly Carlucci.

Lucarelli che sui social è stata inondata da commenti al vetriolo, di odio, da parte di chi vuole “insegnare” come elaborare un lutto. Per questo, e per ricordare ancora una volta la madre Nadia, scomparsa all’età di 79 anni per Covid, e da tempo sofferente per l’Alzheimer, la Lucarelli si è sfogata in una intervista al Corriere della Sera.

La giornalista spiega quello che molti, tra i familiari di persone che soffrono di Alzheimer, conoscono bene: “Sono in qualche modo preparati. Non che si possa essere mai davvero preparati a perdere qualcuno, ma il momento in cui svanisce l’essenza della persona per quello che è stata, per come tu te la ricordi, è un altro”, sottolinea infatti la giornalista.

Della madre scomparsa sabato “era rimasto il corpo, qualche sorriso, qualche sguardo in cui ci sembrava di scorgere un ricordo, un bagliore. Il vero addio è stato quando l’ho guardata negli occhi e ho capito che non mi riconosceva più. Ed è stato più doloroso dell’addio al corpo di ieri”.

Eppure, a fronte del dolore privato, la Lucarelli ha deciso di partecipare alla puntata serale di ‘Ballando’. Una scelta sottoposte a critiche feroci, che per Lucarelli è dovuto a “un enorme corto circuito: siamo così abituati alla strumentalizzazione del dolore trasformato in pochi secondi in rivendicazioni, posizionamenti e fertilizzante per il proprio brand che se uno osa lasciarlo in una stanza, senza esibirlo e sventolarlo, viene additato come cinico”.

Il punto chiave è quello dell’elaborazione del lutto. Per la Lucarelli la quesitone grave è che “si dà per scontato che la morte di un genitore debba voler dire sofferenza, dolore, che ci si debba chiudere in casa. Io rifiuto questi cliché sulla sofferenza dovuta. Bisogna dire a chiare lettere che ci si può sentire sollevati, anche se non è il mio caso. Non c’è nulla di dovuto, ognuno elabora il lutto come desidera”.

Di fatto una risposta a chi, come il giornalista Clemente Mimum, su Twitter aveva ricordato a proposito della scomparsa di Nadia Agen che quando morì sua madre lo speciale Tg1 di cui era responsabile non andò in onda.

“Non capisco davvero che ragione ci sia di rivendicare la propria modalità di vivere il dolore – risponde Lucarelli – Sei migliore di me? Più sensibile? Più sintonizzato con la sofferenza? Ripeto: ognuno deve essere libero di viverla come desidera”.

Martina Pennisi per corriere.it il 20 Novembre 2022. 

Selvaggia Lucarelli prende fiato, come se stesse per tuffarsi in piscina. Riemergerà alla fine dell'intervista, aggrappandosi all'energia che la contraddistingue, oggi velata da una stanchezza e una delusione chiaramente udibili nella nostra conversazione telefonica.

«Per rispondere devo fare una premessa: i familiari di persone che soffrono di Alzheimer sono in qualche modo preparati. Non che si possa essere mai davvero preparati a perdere qualcuno, ma il momento in cui svanisce l'essenza della persona per quello che è stata, per come tu te la ricordi, è un altro». 

Quando è successo a lei con sua mamma Nadia, malata di Alzheimer e morta sabato di Covid a 79 anni?

«Due anni fa, quando abbiamo perso la sua anima. Era rimasto il corpo, qualche sorriso, qualche sguardo in cui ci sembrava di scorgere un ricordo, un bagliore. Il vero addio è stato quando l'ho guardata negli occhi e ho capito che non mi riconosceva più. Ed è stato più doloroso dell'addio al corpo di ieri». 

Al dolore per la perdita si è aggiunto quello per le critiche e gli attacchi di chi sostiene che non avrebbe dovuto partecipare alla puntata serale di Ballando con le stelle.

«Io mi aspetto sempre il peggio, ma quando arriva è sempre un po' peggio e un po' più sgradevole di quello che mi aspettavo. Di base c'è un enorme corto circuito: siamo così abituati alla strumentalizzazione del dolore trasformato in pochi secondi in rivendicazioni, posizionamenti e fertilizzante per il proprio brand che se uno osa lasciarlo in una stanza, senza esibirlo e sventolarlo, viene additato come cinico». 

Potrebbero contestarle di non averlo proprio lasciato in una stanza: ha fatto un post sui social per dire che sua mamma non c'era più.

«No: io non ho scritto cosa provo, ho scritto che è morta. E non accetto che mi si dica cosa dovrei provare. Questo è un altro aspetto grave: si dà per scontato che la morte di un genitore debba voler dire sofferenza, dolore, che ci si debba chiudere in casa. Io rifiuto questi cliché sulla sofferenza dovuta. Bisogna dire a chiare lettere che ci si può sentire sollevati, anche se non è il mio caso. Non c'è nulla di dovuto, ognuno elabora il lutto come desidera».

Prendiamo uno dei commenti: il giornalista Clemente Mimun ha ritenuto necessario twittare che quando morì sua madre lo speciale Tg1 di cui era responsabile non andò in onda.

«Non capisco davvero che ragione ci sia di rivendicare la propria modalità di vivere il dolore. Sei migliore di me? Più sensibile? Più sintonizzato con la sofferenza? Ripeto: ognuno deve essere libero di viverla come desidera». 

Con il senno di poi si sarebbe evitata questa polemica e non sarebbe andata in trasmissione?

«Non lascio che la retorica pubblica e il giudizio e il pregiudizio nei miei confronti condizioni e limitino le mie scelte. Lo rifarei altre cento volte. E quello che è successo non mi ha creato ulteriore sofferenza, ma diffidenza e amarezza. E ancora più consapevolezza di quanto la gente sia cinica e giudicante nei confronti altrui». 

Sua mamma è morta di Covid. E di compromessi, ha scritto nel suo post. Cosa vuol dire?

«Vuol dire che noi tutti abbiamo accettato un compromesso necessario per continuare a vivere: la cosa importante è dirlo ad alta voce, non fingere che non esista, la rimozione è una cosa gravissima, crea morti di serie B. E mia mamma non è un morto di serie B perché non ha avuto la luce della prima fase della pandemia. Bisogna dirci ad alta voce che accettiamo che continueranno a morire 20mila persone all'anno per permettere ai più giovani e ai più forti di andare avanti, vivere, andare a scuola. 

E dobbiamo renderci conto che la pandemia è stata rimossa anche dalla sanità: i reparti Covid sono stati smantellati e fortemente ridotti. Mia mamma ha trovato posto in reparto nell'ospedale in cui era stata trasferita solo perché mi ero esposta pubblicamente, dopo quattro giorni in corridoio, in pronto soccorso. È stato penoso, e solo dopo il mio intervento le hanno fatto la tac da cui è emersa la polmonite».

Nadia aveva — o forse è meglio dire avrebbe, vista la sua condizione — accettato il compromesso?

«È sempre stata generosissima, certo che lo avrebbe accettato. Come noi abbiamo accettato di correre il rischio di andare a trovarla nella residenza per anziani, prima che venisse trasferita in ospedale: abbiamo il dubbio di averle portato noi il Covid, ma qual era l'alternativa? Non vederla più e ricevere un giorno una telefonata che ci diceva che era morta di Alzheimer? È un bivio dolorosissimo, me ne rendo conto». 

Quando l'ha vista l'ultima volta?

«Una settimana fa. Nonostante avesse il respiratore cercava ossigeno, aria. E non avrei mai voluto fosse quella l'ultima immagine che ho di mia madre. Non riesco a togliermela dalla testa, ma in realtà va bene così, perché mi ricorda in maniera indelebile cosa significa morire di Covid ancora oggi. E c'è un'altra cosa importante». 

Mi dica.

«Mia madre era una radicale convinta, manifestava, faceva i banchetti a Civitavecchia per i referendum e ha lottato sempre per una legge sull’eutanasia negli anni in cui il tema non era ancora mainstream. Per me è stata una ulteriore sofferenza aver visto che a un certo punto per lei sarebbe stato un sollievo andarsene un po’ prima, prima di quella fame d’aria. È successo tutto quello che lei non avrebbe voluto, le ultime due settimane sono state un'agonia».

Proviamo a cambiare argomento: ieri sera Milly Carlucci ha detto di credere nella buona fede di Enrico Montesano, escluso da Ballando dopo una sua segnalazione perché ha indossato in diretta una maglietta della Decima Mas.

«Io non giudico quello che ha detto, ma quello che succederà. Non ci si poteva aspettare una crocifissione pubblica, anche perché lui ha negato di avere simpatie per il fascismo e per qualsiasi tipo di regime. Per me ha fatto una cosa molto grave perché sapeva molto bene il significato di quella maglietta, poi non credo sia fascista, ma che si sia fatto un po' contagiare dai no vax di estrema destra che frequenta nelle chat su Telegram. Diciamolo chiaramente però: io alla sua buona fede non credo. Quello che ha fatto è imperdonabile, ha rischiato anche di far saltare qualche testa».

Anche la sua sedia ha scricchiolato, come ha detto in tv?

«Quella era una battuta, non credo che né l'azienda né Ballando ci abbiamo pensato. Di sicuro io che sono così inflessibile con gli altri non posso nascondere sotto il tappeto una notizia del genere anche se dovessi rischiare il posto: il mio lavoro principale è da giornalista». 

Ieri il suo compagno Lorenzo Biagiarelli è stato eliminato dal programma: ora non la accuseranno più di conflitto di interessi fra concorrente e giudice.

«Se questo era il conflitto di interessi di cui preoccuparsi in questo Paese è davvero indicativo di come le cose fondamentali passino inosservate e poi ci si occupi di una gara di ballo. Il presidente di un tribunale ha persino detto che sono colpevole di reati perché non capisce la differenza fra un concorso pubblico e una gara di ballo in tv. Che dire del Codacons... ci ha abituato a grandissime perdite di tempo e al narcisismo compulsivo del suo presidente».

Cosa farà ora, si prenderà qualche giorno?

«Martedì ci saranno i funerali a Imperia, la città di mia mamma. Poi continuerò a vivere nel mio spazio mentale che riesce a essere una camera stagna rispetto a tutto il resto».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” l’11 novembre 2022.

Il 10 aprile 2020 scrissi che la giornalista non-professionista Selvaggia Lucarelli era un’incompetente, e che farla scrivere di Covid (sul Fatto Quotidiano) era una follia. Scrissi che aveva pubblicato delle sciocchezze e che faceva disinformazione. In un tweet, poi, invocai la pensione anticipata piuttosto che si potesse credere «che questa gossipara spargizizzania, che porta male a tutto quel che tocca ed è diventata nota perlopiù perle sue tette da vecchia matrona, possa essere accomunata allo stesso mestiere che faccio io».

Allora lei mi querelò: disse che l'avevo anche definita «ignorante» e «attempata stagista del giornalismo tradizionale». Era vero. Disse che le avevo dedicato «insulti di stampo sessista», «discriminazioni di genere» e che avevo «denigrato la sua capacità professionale». Confermo l'ultima cosa. 

Però, il 20 ottobre 2020, un pm chiese l'archiviazione della querela. Finita? No, lei non se ne fece una ragione, e si oppose. Ma un giudice, il 18 maggio 2021, confermò l'archiviazione. Finita? No, la signora mi aveva anche denunciato all'Ordine dei giornalisti, scrivendo una mail con incipit «Caro Alessandro» e con «un abbraccio» finale. Però, il 9 novembre, cioè l'altro giorno, l'Ordine ha disposto il non luogo a procedere: ha detto, in pratica, che non gliene frega niente. Ora vorrei solo aggiungere, circa la signorina Lucarelli, a bocce ferme: che due palle.

“La signorina Lucarelli, che due palle !” Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’11 Novembre 2022

Facci l'aveva anche definita "ignorante" e "attempata stagista del giornalismo tradizionale". E Facci conferma oggi in suo articolo sul quotidiano LIBERO, che era tutto vero ! Aggiungendo di essere stato accusato che le aveva dedicato "insulti di stampo sessista", "discriminazioni di genere" e che avevo "denigrato la sua capacità professionale". Ma in questo caso il giornalista conferma solo l'ultima cosa

Era il 10 aprile 2020 quando il giornalista Filippo Facci scriveva che “la giornalista non-professionista Selvaggia Lucarelli era un’incompetente, e che farla scrivere di Covid (sul Fatto Quotidiano) era una follia. Scrissi che aveva pubblicato delle sciocchezze e che faceva disinformazione”. In un tweet, poi, invocò la pensione anticipata piuttosto che si potesse credere “che questa gossipara spargizizzania, che porta male a tutto quel che tocca ed è diventata nota perlopiù perle sue tette da vecchia matrona, possa essere accomunata allo stesso mestiere che faccio io“.

Affermazioni che spinsero la Lucarelli a querelarlo sostenendo che Facci l’aveva anche definita “ignorante” e “attempata stagista del giornalismo tradizionale”. E Facci conferma oggi in suo articolo sul quotidiano LIBERO, che era tutto vero ! Aggiungendo di essere stato accusato che le aveva dedicato “insulti di stampo sessista“, “discriminazioni di genere” e che avevo “denigrato la sua capacità professionale”. Ma in questo caso il giornalista conferma solo l’ultima cosa.

In data 20 ottobre 2020, il pm assegnatario del fascicolo con la querela della Lucarelli a Facci depositò la richiesta di archiviazione della querela. Secondo voi poteva finire così? Ma certo che no ! La Lucarelli non si dette per vinta, e si oppose. Il Gip Livio A. Cristofano però in data 18 maggio 2021, confermò la richiesta di archiviazione. La Lucarelli però non si rassegnò. Facci racconta oggi che la Lucarelli lo aveva anche denunciato all’Ordine dei giornalisti, scrivendo una mail con incipit “Caro Alessandro” e con “un abbraccio” finale. Il 9 novembre scorso l’Ordine dei Giornalisti ha disposto il non luogo a procedere con un’archiviazione dell’ esposto disciplinare: “ha detto, in pratica, che non gliene frega niente” scrive oggi Filippo Facci che conclude così “Ora vorrei solo aggiungere, circa la signorina Lucarelli, a bocce ferme: che due palle” !

La querelle fra Facci e la Lucarelli ha origini “datate”. Nel luglio 2017 Filippo Facci, seccato di essere stato accostato alla Lucarelli in un articolo sulle pagine del quotidiano Libero, si tolse qualche sassolino dalle scarpe. Il giornalista non ci andò affatto leggero, ed il ritratto che fece della Lucarelli è a dir poco sorprendente. “La portinaia di Civitavecchia – così la definiva (e, spiega, non è l’unico dell’ambiente a farlo) – ha la nota abitudine di rispondere “Tizio ci ha provato con me, e gli ho dato il due di picche” a qualsiasi critica maschile che le dia particolarmente fastidio, e di recente l’ha fatto anche con me. Ha scritto sul suo blog che in passato avrei più volte cercato di fidanzarmi con lei”.

A questo punto come racconta il quotidiano online Today i toni si fecero più duri e Facci svelò tutto: “Siccome lo considero altamente diffamatorio, anche perché il metodo è vigliaccamente imperniato sulla difficoltà di provare il contrario, il problema è che con me è cascata male, perché conservo ancora l’intero carteggio email (da lei iniziato nel marzo 2003) in cui lei mi tampinava, mi spediva il suo numero telefonico, mi mandava sue foto in costume alle Maldive (conservo anche quelle), spediva contratti, chiedeva prefazioni, e specificava che, secondo sua madre, dovevamo fidanzarci. Una sera, addirittura, si presentò direttamente a casa mia a cucinarmi gli spaghetti, anzi, ecco la sola citazione testuale che mi permetto, ossia una sua email del 5 ottobre 2003, ore 16:26: ‘Tu non mi hai mai corteggiata. Ci siamo visti una volta sola perché io ero a Milano e perché mi sono presentata a casa tua. E ho fatto anche il caffè con la moka gigante‘“.  Redazione CdG 1947

Ballando, Codacons vs Lucarelli: "Conflitto d'interessi, Rai la sospenda". ADNKRONOS il 07 ottobre 2022

Alla vigilia dell'esordio della nuova stagione di 'Ballando con le stelle', il Codacons scende in campo e chiede l'intervento della Rai contro la giornalista Selvaggia Lucarelli, sollevando la questione di un possibile conflitto di interessi tra il ruolo di giurata della giornalista, che dovrà valutare l'abilità dei ballerini in gara, e la presenza, tra i concorrenti del programma, del suo fidanzato Lorenzo Biagiarelli.

"Da giorni -spiega il Codacons all'Adnkronos- gli utenti appassionati del programma sollecitano il nostro intervento sulla scelta della trasmissione di inserire nel cast un concorrente legato sentimentalmente ad un giudice che dovrà valutare le sue esibizioni. Il conflitto di interessi è evidente, così come è evidente la tendenza della Lucarelli, che abbiamo sempre ritenuto una giornalista brillante e intelligente, le cui battaglie abbiamo più volte difeso e condiviso, ad esprimere negli ultimi anni giudizi spesso non oggettivi, condizionati dalle proprie convinzioni personali e dalle proprie simpatie".

"Eclatante -prosegue l'associazione- il caso dello scorso anno, quando la Lucarelli avviò una gogna mediatica ai danni della cantante Mietta, concorrente di 'Ballando con le stelle' risultata positiva al Covid e 'colpevole' di non essersi potuta vaccinare per motivi di salute, con una serie di post e storie sui social in cui l’artista, peraltro pienamente favorevole ai vaccini, finiva di fatto per sembrare una pericolosa leader no-vax. Messaggi che portarono numerosi followers della Lucarelli a minacce e insulti inaccettabili verso la cantante. Vicenda per la quale non ci risulta la Lucarelli si sia ancora scusata pubblicamente, gesto che al contrario dimostrerebbe la sua innegabile intelligenza e correttezza".

Alla luce "dei gravi precedenti degli scorsi anni -sottolinea all'Adnkronos il Codacons- è evidente che la presenza come concorrente di un soggetto legato sentimentalmente a un giudice possa totalmente alterare il giudizio sulle esibizioni. Nel caso specifico i voti espressi dalla Lucarelli, della cui buona fede siamo pienamente convinti, potrebbero tuttavia alterare l’esito della gara e le classifiche finali, vanificando gli sforzi dei telespettatori che da casa votano i propri ballerini preferiti".

Per tale motivo, "e nell’esclusivo interesse degli utenti -conclude l'associazione dei consumatori- chiediamo alla Rai di adottare provvedimenti, valutando la sospensione di Selvaggia Lucarelli dalla giuria o quella di Lorenzo Biagiarelli dal cast dei concorrenti, oppure studiando misure in grado di garantire che i voti della Lucarelli per il suo fidanzato non incidano sulla classifica finale".

"Ecco perché il Codacons mi attacca". La rivelazione di Selvaggia Lucarelli. Continua lo scontro tra la giudice di Ballando con le stelle e l’associazione. La bufera è scoppiata per la partecipazione di Lorenzo Biagiarelli, fidanzato della giornalista. Massimo Balsamo l'8 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La nuova stagione di Ballando con le stelle è ai nastri di partenza, ma lo scontro tra Selvaggia Lucarelli e il Codacons ha appena raggiunto il suo zenit. Negli scorsi giorni l’associazione ha puntato il dito contro la giornalista: la Lucarelli, giudice del programma Rai da diversi anni, dovrà valutare l'abilità dei ballerini in gara, e la presenza, tra i concorrenti del programma, del suo fidanzato Lorenzo Biagiarelli. Un vero e proprio conflitto di interessi secondo il Codacons. La replica dell’ex opinionista dell’Isola dei famosi non s’è fatta attendere.

Scontro Lucarelli-Codacons

Selvaggia Lucarelli ha attaccato senza mezzi termini il presidente dell’associazione Carlo Rienzi.“Ogni anno pur di esistere se ne inventano una, poracci(o)”, ha esordito la giornalista in una storia pubblicata su Instagram. E spunta anche Fedez: “Per la cronaca, il presidente del Codacons me l’ha giurata perché due anni fa ho difeso pubblicamente Fedez per le querele pretestuose dell’associazione contro di lui. Quindi, per non smentirsi, il presidente ha iniziato anche con me”. Una semplice ripicca, dunque.

La querelle difficilmente si fermerà qui. Il Codacons ha auspicato la sospensione di Selvaggia Lucarelli da Ballando con le stelle. L’associazione ha tirato in ballo alcuni precedenti, ribadendo che “presenza come concorrente di un soggetto legato sentimentalmente a un giudice può totalmente alterare il giudizio sulle esibizioni”. Nonostante la buona fede del caso, per il Codacons questa liaison potrebbe vanificare “gli sforzi dei telespettatori che da casa votano i propri ballerini preferiti”.

Non ci resta che scoprire cosa accadrà nella prima puntata di Ballando con le stelle, quando Selvaggia Lucarelli sarà chiamata a giudicare il suo compagno di vita. Già bollato come raccomandato sui social network, Biagiarelli è sicuro che non riceverà sconti: “È giusto che sia così – le sue parole a Vanity Fair – dimostrerà che non c'è nessun conflitto d'interesse o favoritismo anche se, personalmente, questa cosa mi farà più ridere che arrabbiare”.

Il precedente con Fedez

La presunta ripicca del Codacons sarebbe legata a quanto accaduto nel 2020, nel pieno della bufera tra Fedez e l’associazione. Motivo del contendere la campagna di raccolta fondi lanciata dal cantante e dalla moglie Chiara Ferragni per incrementare il reparto di terapia intensiva all'Ospedale San Raffaele di Milano durante l’emergenza Covid-19. Accuse velate sfociate in querele, con tanto di messaggi di odio sui social nei confronti del Codacons. Selvaggia Lucarelli prese le difese di Fedez, entrando in tackle sull’associazione a tutela dei consumatori:“Volevo dire a Codacons che tutelare cittadini e consumatori vuol dire anche evitare che i soldi di cittadini e consumatori vengano sprecati per querele pretestuose a cui seguono indagini inutili e talvolta processi ancora più inutili”. E via al botta e risposta, con il Codacons a ribadire che la giornalista “in situazioni del tutto identiche a quelle in cui si è trovato il Codacons, ha avviato analoghe querele e denunce contro i soggetti che la avevano insultata e minacciata sul web”. Ora il nuovo capitolo dello scontro.

Lorenzo Biagiarelli: «Io, Selvaggia Lucarelli e l'eccesso di diplomazia». Da È sempre mezzogiorno a concorrente di Ballando con le Stelle, pronto a misurarsi con la giurata e fidanzata Selvaggia Lucarelli. Dalla paura della stasi all'etichetta di «fidanzato di», Lorenzo Biagiarelli si racconta come non aveva mai fatto prima. MARIO MANCA su Vanity Fair il 7 ottobre 2022.

Lorenzo Biagiarelli detesta così tanto percorrere la tangenziale che concentra le interviste lungo il tragitto per non pensare al traffico dal quale cerca di sbraccarsi. «Se non lo facessi, probabilmente vivrei il mio giorno di ordinaria follia», racconta Biagiarelli, membro del cast fisso di È sempre mezzogiorno e, dall'8 ottobre, concorrente di Ballando con le Stelle. A rendere particolarmente ghiotta la sua partecipazione nel programma di Rai1 è la presenza in giuria della sua fidanzata Selvaggia Lucarelli che, per quanto abbia promesso di non fargli sconti, ha caldeggiato la sua presenza nonostante il nugolo di haters che lo ha preventivamente bollato come «raccomandato». «Se dicessi di essere a Ballando per la mia indiscussa storia nel mondo dello spettacolo riderei anch'io», commenta Lorenzo, per niente offeso dal fatto che molti giornalisti lo descrivano come «il fidanzato di».

«È più che comprensibile che mi identifichino così: nell'esercizio della professione è necessario. Vale lo stesso per “il marito di Meryl Streep” o “il marito di Kamala Harris”, uno si appiglia al nome famoso per comprenderne il grado di relazione. Quindi, diciamolo: sono a Ballando perché sono il fidanzato di Selvaggia e lei è in giuria, anche se nel programma a far andare avanti o meno qualcuno è il pubblico. Seguendo Ballando da 7 anni, è chiaro che siano quelli bravi e che ce la mettono tutta ad arrivare in fondo», racconta Lorenzo Biagiarelli. Chi lo segue sui social sa che farlo arrabbiare potrebbe essere un'impresa degna di un Avenger, ed è per questo che in questa intervista abbiamo cercato di scoprire cosa si nasconde dietro l'aria placida e la barba ispida che, con buona pace di Lucarelli, è apprezzatissima da diverse fan che non vedono l'ora di vedere lo chef sulla pista da ballo.

Mai avuto un giorno di ordinaria follia?

«Senza armi né fuoco, ma sì. A maggio scorso mi è capitato di urlare contro Selvaggia anche se lei non c'entrava niente: ero semplicemente sopraffatto. Sogno da anni di andare in una di quelle stanza dove hai una mazza da baseball e puoi spaccare tutto».

Questa risposta mi spiazza: la immaginavo assolutamente placido.

«Mi capita di dare di matto due volte l'anno, come quando si allineano le lancette dell'orologio. Non sono credibile da arrabbiato: sono goffo, e questo a Selvaggia fa molto ridere. Della coppia io sono sempre stato il diplomatico, anche se l'eccesso di diplomazia spesso mi ha portato dei rimpianti».

Perché?

«In certi casi avrei voluto essere più risoluto per essere più sereno con me stesso. In tante situazioni della vita prendere una posizione precisa ti nobilita molto: mi manca il caratterino. Sono un pacioso e diplomatico per lavoro».

Con i social siamo tutti un po' votati a prendere una posizione netta su qualcosa, non trova?

«Io credo il contrario: di posizioni non se ne prendono più perché è estremante comodo non farlo. La cosa che vedo sono tante posizioni di facciata, con cui chiunque può essere d'accordo. In questo, rispetto tanto Selvaggia, perché persone come lei sono tipo i panda e andrebbero tutelate. Esprimere un giudizio, spesso impopolare, è faticoso, ti porta un sacco di livore». 

Questo Ballando con le Stelle sarà il vostro primo lavoro insieme. La prima a proporle di partecipare è stata Milly Carlucci: la sua prima reazione?

«Le ho detto che non lo volevo fare sia perché sapevo che lo avrei fatto come ”fidanzato di", e sia perché col ballo non c'entro niente. Poi, però, ho pensato a tanti ex concorrenti che dopo Ballando sono cambiati nel rapporto con il proprio corpo e, soprattutto, con l'altro. Quella parte umana di Ballando credo che possa farmi bene, insieme ad aiutarmi a dimagrire».

Come se ne avesse bisogno.

«Se continuo a mangiare come mangio adesso, tra cinque anni non so come mi vedo. Alle prime due prove con Anastasia (Kuzmina, ndr) ho scoperto che certi muscoli, come il tricipite, mi mancavano proprio. C'è da dire che non ho il culto del corpo e della bellezza, vado in giro con la barba che mi faccio una volta ogni 2 mesi, anche se lo shampoo me lo faccio tutti i giorni».

Il che, posso assicurarle, per molte donne esercita un certo fascino.

«Sono contento di questo, anche se non è una cosa cercata. Non compro vestiti, non vado in palestra: preferisco fare altre cose nel mio tempo libero».

Per esempio?

«Scrivere, leggere: è quello il mio modo di interagire col mondo».

Torniamo a Ballando: dopo che ha detto no a Milly, Selvaggia Lucarelli cosa le ha detto?

«”Perché no?". È difficile che Selvaggia dica una cosa non giusta e, con il tempo, ho imparato a fidarmi ciecamente dei suoi consigli. Quando mi vedeva comprare delle cose assurde dai negozietti cinesi mi ha detto: “Ma perché non provi a farne una professione?”. Mi capisce meglio di quanto mi capisca io, e con Ballando non volevo ripetere lo stesso errore». 

Di sicuro, quando ci sarà bisogno, potrebbe criticarla. Come la prenderà?

«È giusto che sia così, dimostrerà che non c'è nessun conflitto d'interesse o favoritismo anche se, personalmente, questa cosa mi farà più ridere che arrabbiare».

Torniamo a lei: cosa voleva fare da grande?

«La rockstar. Mi piace molto la musica, ma non ho mai avuto la disciplina e il fuoco sacro, come si dice oggi. Quando ho capito che non avrei voluto fare altro che andare tutti i giorni al mercato a comprare il cavolo fresco e a scoprire nuove conserve cinesi mi è stato subito chiaro quello che mi piacesse. Selvaggia mi ha semplicemente suggerito di trasformare la passione in lavoro, e così ho fatto. In generale sono sempre molto restio a riconoscere il cambiamento e ad assecondarlo».

Valeva anche da bambino?

«Direi di sì. Ero fondamentalmente timido, ma non troppo. Suonare dal vivo a 12 anni all'oratorio mi ha aiutato a conquistare quella rapidità e disinvoltura fondamentali per questo lavoro».

Che bambino era?

«Vagamente sovrappeso, con delle fisime sul fisico sparite solo di recente. Ho avuto un'infanzia felice: anche se i miei sono separati, non ho mai vissuto in maniera tragica la distanza. Vivendo in due case diverse, ho ricevuto tutti i tipi di stimoli. Come la cultura, che nella mia famiglia ha sempre occupato un posto importante. Per il resto ho provato di tutto per almeno due mesi: tennis, pallavolo, atletica, boxe. Provavo tutto per capire cosa mi piacesse, ma poi mollavo».

Perché tutto dopo due mesi?

«Semplicemente perché a un certo punto capivo che non erano per me. Alla fine ho portato avanti solo il calcio e la musica». 

Altri stimoli?

«A 8 anni, in terza elementare, quando ci siamo trasferiti da Senigallia a Cremona, fremevo all'idea di fare un viaggio di istruzione a Londra nonostante fossi l'unico della mia età. Alla fine ci sono andato, ma la sera piangevo tutta la notte perché ero troppo piccolo».

Perché a Cremona?

«Perché mia madre è di lì, mentre mio padre di Senigallia. Avevamo uno stabilimento balneare, ero in spiaggia dall'inizio di maggio alla fine di settembre». 

Milano, dove vive adesso, le piace?

«Mi ha prosciugato, non ne posso più. È diventata la città dell'apparenza: non mi interessano le design week, le fashion week e i locali notturni. Di tutto quello che Milano ha da offrire non me ne faccio nulla. Mi piacerebbe la classica casetta in campagna, con la griglia e senza la vicina che possa protestare». 

Insomma, una dimensione tranquilla. È mai stato un ribelle?

«Direi di no. Nessuno si è mai preoccupato per la mia incolumità quando ero piccolo». 

La cosa più illegale che ha fatto?

«A 7 anni, quando, entrando in un negozio di cioccolato a San Marino, ho preso una scatola di cioccolatini per mio padre per fargli un regalo. Quando gliel'ho data l'ho visto arrabbiato per la prima volta in vita mia: mi ha costretto a tornare indietro, andare alla cassa e dire che avevo rubato. È stato un episodio talmente traumatico e umiliante che dopo non ho mai fatto più niente di illegale». 

La difficoltà a trovare una direzione all'inizio l'ha vissuta con più ansia o fatalismo?

«Un po' di ansia, specie quando sei un lavoratore a partita Iva, ce l'hai sempre, ma sono convinto che, quando sai fare una cosa, difficilmente finirai in mezzo alla strada. Mi piace pensare di avere delle alternative cui dedicarmi se andasse tutto male».

Per il futuro cosa sogna?

«Continuare a fare quello che faccio e, tra 20 anni, dedicarmi al mio buen retiro su un laghetto in India molto carino che ho scovato con Selvaggia. Non siamo grandi fan della stasi e della routine, ed è per questo che presto o tardi ci piacerebbe trasferirci all'estero».

Cosa la spaventa della stasi?

«Non riuscire a vedere tutto il mondo, non poter ammirare Palmira, distrutta dall'Isis. Il viaggio è la cosa che più mi appassiona perché viaggiare ti permette di avere degli strumenti in più per comprendere il mondo: quando hai una visione d'insieme, certe cose ti sembrano persino ridicole. La vita è una bicicletta, funziona solo se la muovi». 

Quando la bicicletta s'ingolfa, a cosa attinge per farla ripartire?

«La catena mi aiuta a tirarla su Selvaggia, che è molto più scafata di me. Per il resto, mi chiudo in cucina, che è il posto in cui più mi piace stare. Fortunatamente negli ultimi due anni è andato tutto piuttosto bene: è da un po' che non faccio manutenzione alla bicicletta».

Selvaggia Lucarelli in polemica con Fedez. E anche con Salmo. Scontri e battibecchi su Instagram. La Repubblica il 6 luglio 2022.

Scontro totale. Prima il rapper Salmo, poi Fedez e Ferragni. I tre continuano a essere nel mirino di Selvaggia Lucarelli. La giornalista se la prende con Fedez accusandolo di approfittarsi di personaggi che diventano virali per acquisire più  follower. Così avrebbe fatto anche al concerto di piazza Duomo a Milano LoveMi. L'addetto alla sicurezza Ivano Monzani è diventato famoso per le sue espressioni facciali riprese dalle telecamere che mandavano in diretta il concerto su Italia 1, e in questo modo anche non volendo, si è trasformato in un personaggio. E Fedez ha postato sui social un video assieme a lui. Mossa che sembra non essere stata gradita da Lucarelli la quale posta una foto di Fedez e Ivano con delle parole decisamente forti: "Comunque ormai ho il terrore di questa persona, ogni persona che va virale lui lo deve trasformare in suo contenuto". La critica di Selvaggia Lucarelli, a cui non sfugge nulla, è partita. 

La risposta di Fedez

E Fedez ha replicato: "Finalmente Lucarelli hai ottenuto l'attenzione che volevi. Una misera risposta. Puoi festeggiare il grande giorno. Hai almeno un mese di contenuti da fare su di me ora, divertiti". L'artista ha poi spiegato quanto accaduto la sera prima: "Ieri ho visto una persona che conosco da anni, che è diventata un meme vivente e ho fatto un video di dieci secondi. E quindi? Sono un mostro? Ma anche se fosse tu fai la stessa cosa. Tu fai di peggio, fai di peggio".

Così Fedez posta due momenti storici in cui anche Lucarelli avrebbe approfittato di persone per avere popolarità. Ad esempio il video hard privato di Belén Rodriquez, sottolineando: "Oh no, tu non fai sciacallaggio, no no no", ha scritto Fedez a corredo del girato del 2016. "Siccome sono anni che stuzzichi me e la mia famiglia, oggi che non c'è mia moglie a placarmi, potrei andare avanti all'infinito. Io e te non siamo così diversi da quello che credi. Non pensare di essere migliore di me. Forse dimentichi di quando insultavi un neonato, il figlio di Belén, dicendo che era brutto. O quando dici che io faccio schifo quando parlo del mio psicologo, per aiutare me stesso e cercare di aiutare gli altri. Dimentichi che tu ti sei fatta pagare per fare un podcast per parlare della tua relazione tossica".

Il pentimento di Fedez

Dopo lo sfogo arriva però il pentimento di Fedez: "Sono deluso da me stesso in questo momento. Dopo quello che mi era successo mi ero ripromesso di dedicare il tempo che la vita mi ha dato a disposizione e questa invece è una terribile perdita di tempo". La rispostra arriva da un Fedez nuovo dopo la malattia. L'aver scoperto di avere un tumore al pancreas e l'essersi poi sottoposto a un intervento d'urgenza ha ristabilito le priorità per il cantante come lui stesso ha detto più volte, postando. "Quindi ragazzi un consiglio, non perdete tempo dietro a persone inutili. Non fate la stessa strxxxata che ho fatto io".

Lo scontro con Salmo

Tutto è partito da una considerazione del rapper Salmo sull'ultimo anno trascorso tra successi e polemiche: "È stato l'anno più difficile della mia vita. Concerto abusivo, album, recitare in una serie tv, dirigere la colonna sonora, fare un nuovo album, preparare il live per San Siro", ha scritto Salmo prima che un utente gli chiedesse conto del concerto abusivo. "Chiedi a Selvaggia Sucarelli", è stata la risposta dell'artista, che ha storpiato volutamente il cognome della giornalista per suscitare una reazione che è arrivata, in effetti, poco dopo. 

Il  rapper Salmo  

"Non conosco Salmo, lo ritengo anche bravo. Un anno fa mi ero permessa di dire che il suo concerto ad Olbia fatto senza autorizzazioni, con una pandemia che faceva ancora molte vittime, era stato un errore", ha scritto Lucarelli riferendosi a quando Salmo, nel 2021, organizzò un concerto ad Olbia per aiutare i sardi. "Non ha mai risposto nel merito - ha postato sui social la giornalista - ma, perfino a distanza di tempo, la schifosa battuta sessista storpiando il mio cognome come l'hater medio non ha saputo tenersela. Seguono migliaia di like e 'Ahaha'. Avanti così. Forse tra due millenni i maschi riusciranno a rispondere a una donna guardando oltre il proprio pisello. Forse". A questo messaggio è seguita un'ulteriore replica di Salmo: "Non piangere Selvaggia. Mi hanno storpiato il cognome mille volte. Per favore, falla finita con sta roba del sessismo che non c'entra nulla. Il vittimismo da opinioninstagram è passato ormai. Forse", ha concluso lui prima che Lucarelli fotografasse la conversazione e la condividesse sul suo profilo, sempre su Instagram. "Qui nessuno sta frignando, bello mio - posta Lucarelli - ti piacerebbe. Invece il mondo è andato avanti, pensa un po', e una donna se le storpi il cognome in Sucarelli o le mandi il tuo pisello (non richiesto) in chat come tua abitudine, non piange: ti sputtana. Impara. Ciao".

"Ho il terrore di questa persona...", "Non siamo poi così diversi". Scontro tra Lucarelli e Fedez. Francesca Galici il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.

Selvaggia Lucarelli attacca Fedez, che replica: è scontro sui social tra la giornalista e il rapper per un commento caustico.

Volano stracci tra Selvaggia Lucarelli e Fedez. Da alcuni giorni la giornalista punzecchia il marito di Chiara Ferragni, che all'ennesima provocazione da parte della Lucarelli ha deciso di reagire con una serie di storie su Instagram. Tutto nasce dal video dello steward del concerto Love-Mi diventato virale sui social. Per giorni c'è stata una vera "caccia all'uomo" per scoprire l'identità dell'uomo che, con le sue espressioni, ha sottolineato tutto il suo disappunto per le canzoni dei nuovi rapper portati sul palco dell'evento di Milano da Fedez. Da giorni, la faccia di Ivano Monzani è ovunque e nelle scorse ore è anche arrivato il video insieme al rapper. Da qui è partita la pungolatura di Selvaggia Lucarelli.

"Ormai ho il terrore di questa persona, ogni persona che va virale lui lo deve trasformare in suo contenuto", ha commentato in modo caustico la giornalista. Il suo appunto, però, stavolta non è andato giù a Fedez che, anche complice l'assenza di Chiara Ferragni che solitamente lo frena nelle sue esternazioni pubbliche, non è riuscito a trattenersi e ha condiviso alcune storie in risposta a Selvaggia Lucarelli. "Troppo facile giocare a questo gioco. Finalmente hai ottenuto l'attenzione che volevi. Una misera risposta. Oggi puoi festeggiare il grande giorno. Hai almeno un mese di contenuti da fare su di me ora, divertiti", ha scritto il rapper prima di iniziare il video.

Disappunto e sconcerto: chi è lo steward idolo del web dopo l'evento di Fedez

"Ieri ho visto una persona che conosco da anni e che è diventata un meme vivente. Ci ho fatto un video di 10 secondi. E quindi? Sono un mostro che cavalca... Ma anche se fosse?", si chiede Fedez nelle sue storie, prima dell'affondo sulla giornalista: "Tu fai la stessa cosa, tu fai di peggio". Pare che il rapper abbia deciso di replicare a Selvaggia Lucarelli dopo una serie di attacchi fatti nel corso degli anni ai quali il rapper non ha mai replicato: "Sono anni che stuzzichi me e la mia famiglia. Oggi devi ringraziare che qui non c'è mia moglie a placarmi. Potrei andare avanti all'infinito, Selvaggia. Purtroppo io e te non siamo così diversi, come credi tu. Non pensare di essere migliore di me".

Considerando quella risposta una perdita di tempo, Fedez ha concluso: "Mi ero promesso di sfruttare al meglio il tempo che la vita mi ha dato a disposizione. Questa è una terribile perdita di tempo". Non è mancata a stretto giro la replica di Selvaggia Lucarelli, che ha preferito non scendere nell'arena e limitarsi a una pungente storia Instagram: "E niente, se discuti con Salmo, lui vuole anche essere Salmo. Non ce la fa a non essere la notizia. Quindi, ignoriamo".

Lorenzo Cresci per "la Stampa" il 24 dicembre 2021.  

Parafrasando Nada, l'amore disperato di Selvaggia Lucarelli inizia proprio quando incontra un angelo caduto dal cielo.

«Sono storie che partono con un love bombing, con attenzioni e promesse, con dichiarazioni e impegni». 

E come si è sentita in quel momento, signora Lucarelli?

«Invasa dalla sensazione di un amore totalizzante, salvo scoprire che non era così». 

E com' era, com'è stato?

«Un trailer che non prevede la proiezione di un film. Assomiglia alla dipendenza da una sostanza stupefacente, perché sei come il tossicodipendente che cerca di tornare all'inizio e trovare piacere, ma invece sei solo una vittima di quello che chiamo sortilegio».

Selvaggia Lucarelli, 47 anni, giornalista e scrittrice, non usa troppi giri di parole e si racconta. Una lunga seduta di autoanalisi, un romanzo - Crepacuore, scritto per Rizzoli - per descrivere che cosa significhi per una donna finire nella trappola di un narcisista, di un manipolatore. Di un uomo che ti fa fare cose senza apparentemente imporle. 

Riprendiamo il discorso: l'errore che non si perdona?

«Il fatto che non avevo voglia di innamorarmi in quella fase della mia vita, ma avevo fame di amore per colmare un vuoto che mi aveva fatto regredire». 

All'adolescenza?

«Magari. Io sono tornata all'età infantile. Io mi sono aggrappata ai pantaloni di quest' uomo perché non mi lasciasse, come si fa da bambini con la mamma».

Ha citato la mamma. Possiamo aprire una parentesi su di lei, visto che ne ha recentemente parlato?

«Mia madre ha l'Alzheimer, più che il presente ora posso vivere del ricordo di lei». 

E che ricordo ne ha?

«Aveva ambizioni, da ragazza. Diceva di voler diventare come l'inventore della Ford (Henry Ford, ndr) e lasciare il segno. Invece si è persa in un amore totalizzante. Volevo riscattarla, ho seguito anche i suoi sogni, ma nella sfera sentimentale sono finita come lei, almeno dal punto di vista dello schema relazionale». 

Signora Lucarelli, mi perdoni: lei sta mettendo a nudo molto di sé. Non si sentirà già nel momento di tirare il bilancio della vita?

«Mah, forse sì. Sono nel momento in cui come tante persone inizio a guardarmi indietro e sposto lo sguardo. Fino a una certa età viviamo di sogni e ambizioni e siamo proiettati sull'orizzonte. Poi, come me, arrivi a essere genitore del tuo genitore, qualche traguardo professionale lo hai raggiunto, nel mio caso ho un figlio ormai grande e allora quando capisci che il cordone ombelicale ormai è staccato, beh, allora ti butti sugli animali domestici come ho fatto io con il gatto». 

Ma, alla fine, è contenta?

«Oddio, uso una frase di Star Wars, per dire che "sto diventando quello che volevo combattere"».

Colpa dell'infanzia, come ci racconta spesso la psicanalisi?

«Sicuramente la zavorra del passato famigliare c'è, ma non voglio sovraccaricare di responsabilità il passato. In fondo il passato non è destino. Però è interessante scavare e può aiutare a decodificare errori e momenti di ostinazione». 

Torniamo agli amori sbagliati: il manipolatore è sempre uomo?

«Nella maggior parte dei casi sì, culturalmente la donna è più facilmente vittima, ma attenzione: è una questione che va oltre le classi sociali o geografiche».

E quando a manipolare è una donna?

«Il finale è lo stesso: nel mio podcast, che ha preceduto il libro, ho parlato di un uomo vittima di dipendenza affettiva. Ha avuto una relazione pressoché virtuale, durata dieci anni e in quel tempo avrà visto sì e no cinque volte la donna di cui era innamorato. Lei lo irretiva e lo manipolava. Si è licenziato dal lavoro, ha perso tutto, ha finito per vivere come un clochard, in un container, mangiando minestrone surgelato a cubetti, perché non aveva nulla neppure per riscaldarlo». 

Tremendo. C'è un lieto fine?

«Sì, ha avuto la forza di riscattarsi».

E lei?

«Pure».

Come?

«Guardi, la persona giusta non la incontri per caso. Prima parlavo di colmare un vuoto, ecco, il vuoto è un virus silente, che non lo cancelli, ma puoi disinnescarlo se ti trovi ad avere una personalità definita e indipendente. Se sei già ricca, arriva anche la storia d'amore». 

Ora si sente completa?

«Rido, mi scusi, perché dieci anni fa il mio attuale compagno (lo chef Lorenzo Biagiarelli, ndr) non lo avrei neanche guardato».

Perché?

«Perché è troppo risolto. E io non sarei stata pronta con un uomo così. Oggi sì». 

Ha paura di ritrovarsi di fronte un manipolatore?

«Ci potrei anche inciampare, ma oggi non avrebbe presa». 

Il messaggio del suo libro?

«Nessuna autoassoluzione. Serve a spostare lo sguardo». 

Spostiamo lo sguardo assieme sull'attualità e il Covid: dopo aver visto arti in silicone da vaccinare, che cosa le fa più paura?

«Il braccio in silicone penso non sia troppo indicativo, è quasi folklore. Però, attenzione, racconta la follia del singolo. I No vax sono tanti e la frangia estrema sta alzando l'asticella del livore. Allora non posso escludere che tra loro si nasconda un Luca Traini pronto a sparare o un Massimo Tartaglia a lanciare oggetti come fece con Berlusconi».

Lei in piazza è stata aggredita, quindi sta dicendo che teme un gesto dimostrativo?

«Sì, mi spaventa quell'idea. In piazza ho visto gente che non sta bene. Mi spaventano loro, mi spaventa la loro lista di proscrizione e non mi fa piacere essere lì dentro. No, non sono tranquilla». 

E come si comporta nella quotidianità?

«A cena in un ristorante sono nervosa se vedo tavoli troppo attaccati o camerieri senza mascherina». 

E in famiglia?

«Non me ne parli».

 Ne parliamo?

«Ci sono famigliari che non si sono vaccinati. Mi dispiace perché vedo rapporti che si alterano per posizioni diverse. Mi imbarazza un po' ed è un peccato ridurre gli incontri o fare un pranzo per pochi».

·        Sigfrido Ranucci.

Ranucci ha dichiarato di aver presentato denuncia. “Molestie sessuali e mobbing a Report, la Procura faccia chiarezza”, parla Michele Anzaldi. Riccardo Annibali su Il Riformista il 30 Novembre 2021. Sul caso del dossier anonimo inviato a luglio alla commissione di Vigilanza contenente accuse di presunti abusi sessuali, mobbing e servizi preconcetti, il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, ha dichiarato in prima serata su Rai3 di aver presentato denuncia alla Procura della Repubblica di Roma ben 4 mesi fa.

Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, quali sono i punti su cui è necessario fare chiarezza?

Come è possibile che dopo un tempo così lungo non si sappia ancora nulla sui contenuti e sull’origine di quel dossier? Come è possibile che la Procura non abbia fatto nulla? Oppure se, come è auspicabile, ha effettuato le dovute verifiche, perché non diffonde oggi subito un comunicato per dire cosa hanno appurato le indagini? Dopo che il caso è stato portato a conoscenza di milioni di italiani in prima serata sul servizio pubblico, è davvero doveroso e irrimandabile che venga fatta piena chiarezza, innanzitutto a tutela di una trasmissione come Report, che negli anni ha rappresentato il fiore all’occhiello dell’informazione pubblica italiana, ma anche a tutela delle stesse donne nominate nel dossier e della redazione intera. Ranucci è sotto scorta per aver subito pesantissime minacce di morte: se c’è un dossier che lo riguarda è doppiamente doveroso fare chiarezza, perché se si trattasse di un fake aprirebbe scenari non meno inquietanti del gravissimo scenario che vedesse quelle accuse confermate.

Il tema in questione è all’ordine del giorno e sempre più sentito, la convincono gli addebiti del dossier?

Parliamo di un caso, come quello di presunti abusi sessuali nei confronti delle donne, che dovrebbe avere massima precedenza proprio per la delicatezza di tali addebiti, che nel caso del dossier in questione appaiono circostanziati sebbene personalmente non mi abbiano convinto, tanto che da luglio non ho dato seguito pur essendo stato tra i destinatari dell’invio.

Il primo a chiedere chiarezza è stato lo stesso Ranucci in diretta tv, che aspettano i magistrati a chiarire?

Anche la Rai ha il dovere di fare la sua parte, sebbene in questi giorni sia apparsa, almeno pubblicamente, poco reattiva: avviare subito un’indagine dell’Audit interno, sentendo le persone coinvolte e verificando la fondatezza dello scenario contenuto in quella denuncia che sembrerebbe apparentemente avere le caratteristiche di un caso di whistleblowing. L’ad Fuortes si è impegnato ufficialmente in Vigilanza ad effettuare le dovute verifiche: passata una settimana dall’audizione, che verifiche sono state avviate? Riccardo Annibali

"In passato ha già provato a uccidere un avvocato: vivo per miracolo". Sigfrido Ranucci sotto scorta: “Un boss della ‘ndrangheta ha assoldato due killer per ammazzarmi”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. “Da metà agosto sono sotto scorta 24 ore su 24. C’è un buontempone che dal carcere avrebbe incaricato due killer stranieri. Sarebbe un personaggio che gestisce il narcotraffico, legato a famiglie di ‘ndrangheta“. E’ quanto rivela a ‘Un giorno da pecora‘ su Rai Radio1 il conduttore e giornalista di Report nonché vicedirettore di Rai 3, Sigfrido Ranucci. Interpellato al telefono dall’Ansa, alla domanda che significa un buontempone?, Ranucci chiarisce: “Era un paradosso, è un uomo molto pericoloso al comando di una piazza del narcotraffico, negli anni passati ha avuto anche legami con il cartello di Pablo Escobar, con la destra eversiva, e non solo. Le indagini sono partite a luglio e a metà agosto quando è stato tramite indagini accertato dagli investigatori che aveva dato l’ordine a due killer stranieri, forse due albanesi, di colpirmi, hanno deciso di intensificare la scorta – , dal 2009 sono sotto tutela. La mia abitazione è già attenzionata, ora è sorvegliata anche di notte”. Ranucci poi spiega di aver parlato del boss in questione “in trasmissione in più di un’occasione”. Il malavitoso in questione “pare una volta abbia ordinato di colpire un avvocato, si è salvato per miracolo per la fuoriuscita di un proiettile, che non ha toccato organi vitali“. In una puntata di Report del 4 gennaio scorso, il pregiudicato Francesco Pennino aveva rivelato che Ranucci era stato bersaglio di minacce già nel 2010 da ambienti vicini al boss Beppe Madonia, dopo la pubblicazione del libro Il Patto, scritto con Nicola Biondo sulla presunta trattativa Stato-mafia.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Report, Sigfrido Ranucci indagato per minacce dopo la denuncia di Andrea Ruggieri. Il Tempo il 29 giugno 2022

È stata aperta un’indagine su Sigfrido Ranucci. Il giornalista non intende però commentare l’indagine per minacce, ritenendola «un atto dovuto dopo la denuncia annunciata» dal deputato di Forza Italia Andrea Ruggieri, spiegano all’Adnkronos fonti vicine al giornalista. Il giornalista, nell’apprendere dell’indagine avrebbe anche sottolineato con il suo entourage che «l’autore della denuncia è lo stesso che ha reso nota una lettera anonima rivelatasi completamente falsa al vaglio dell’audit aziendale e della procura. Comunque - avrebbe concluso Ranucci con i suoi - io, a differenza di molti di quelli che mi attaccano, ho fiducia nella magistratura». 

Il conduttore di Report, programma che va in onda su Rai3, si sarebbe anche sfogato con i suoi collaboratori per l’assenza, «di fronte ai continui attacchi al lavoro della redazione», di voci «che sottolineino il lavoro fatto nell’ultimo anno con l’aumento di 1,5% di share anche a fronte dell’aumento del numero delle puntate».

Il giornalista Rai Ranucci (Report) indagato dalla procura di Roma per minacce via chat e sms all’ on. Ruggieri. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Giugno 2022

Aperta un’inchiesta da parte della procura di Roma sui fatti che riguardano il giornalista televisivo ed il deputato di Forza Italia. Ranucci responsabile del programma Report e l'autore del servizio televisivo Giorgio Mottola sarebbero indagati anche della procura di Ravenna per diffamazione e rivelazione di segreto di Stato.

Sigfrido Ranucci, conduttore della trasmissione Report su Rai Tre è stato iscritto dal pm Carlo Villani nel registro degli indagati della procura di Roma per il reato di minacce, in seguito alla denuncia depositata dal parlamentare di Forza Italia e membro della Commissione di Vigilanza Rai On. Andrea Ruggieri. Il giornalista Ranucci non intende commentare l’indagine per minacce aperta nei suoi confronti. 

La vicenda ha inizio lo scorso 8 febbraio scorso, quando l’ On. Ruggieri riferisce di aver ricevuto via Whatsapp da Ranucci alcuni messaggi, sostenendo in querela che “I messaggi contengono insulti diffamatori, minacce e allusioni sul possesso di dossier”, sostiene. È lo spunto per risollevare la questione del dossier anonimo su presunte molestie sessuali che Ranucci avrebbe perpetrato nei confronti di alcune colleghe. Nella querela di Ruggieri si parla anche di pagamenti irregolari effettuati con denaro pubblico. L’istruttoria interna dell’ audit interno della Rai ad aprile ritiene di non sanzionare Ranucci, ma nell’audit la Rai ha proceduto poi ad un “formale richiamo” nei confronti di Ranucci per “l’osservanza dei principi etici e di comportamento aziendali, nonché dei doveri deontologici cui sono tenuti i giornalisti del servizio pubblico” in riferimento proprio allo scambio di messaggi con l’ On. Ruggieri.

il giornalista RAI Ranucci e l’ on. Ruggieri

Ma per capire meglio cosa sia accaduto bisogna fare un passo indietro e tornare indietro di qualche mese. Il tutto comincia il 24 novembre – come scrive La Repubblica – quando il Sen. Davide Faraone di Italia viva, in occasione di una riunione della Commissione di Vigilanza RAI esibisce un dossier anonimo su presunte molestie sessuali perpetrate dal giornalista Ranucci nei confronti di alcune colleghe. L’ on. Ruggeri era intervenuto in commissione, sostenendo che «quella lettera era anonima, che l’aveva ricevuta anche lui ma che aveva deciso di cestinarla». Il giorno successivo i due si sentono via Whatsapp e Ranucci riferisce via chat all’ on. Ruggeri di “essere indignato“

L’on. Ruggieri ha fornito una ricostruzione della vicenda dal suo punto di vista: “Nella seduta del 24 novembre in questa commissione (quella di Vigilanza Rai, ndr) si è data una sommaria lettura di una lettera anonima che riguardava il conduttore di Report. Io in quella occasione mi limitai a dire che la lettera, arrivata anche a me, era dettagliata ma anche anonima. E per questo ero stato il primo a cestinarla. Fu, quindi, la mia, una informazione neutra, riconosciuta come tale persino dal Fatto Quotidiano. Il giorno dopo il conduttore di Report mi chiama al telefono del tutto autonomamente perché io non ho neppure il piacere di conoscerlo. E siccome non rispondo, mi scrive dei messaggi cosa già abbastanza anomala visto che sono messaggi di un soggetto vigilato a un soggetto vigilante. Ranucci mi scrive un primo sms abbastanza aggressivo, allusivo e minatorio in cui accusa me e il senatore Faraone di aver tenuto un comportamento vergognoso”.

“Quello che avete fatto è vergognoso” scrive Ranucci nella chat, come riporta La Repubblica. “A me potete buttare tutto il fango che maneggiate. Ma che, per buttarlo su di me, abbiate coinvolto persone innocenti è indegno. Poi detto da uno che ha come capo (il riferimento è a Silvio Berlusconi n.d.r.) il top player mondiale del bullismo sessuale è comico. Ripreso da un giornale che ha come direttore uno che, secondo segnalazioni arrivate in redazione, adescava le minorenni è ancora più comico. Pure a me arrivano dossier anonimi su politici che usano cocaina, pensa se usassi lo stesso metro“.

Ranucci aggiunge ancora: “Siete tu e il tuo capo pratici di bullismo sessuale”. Il riferimento anche in questo caso è a Berlusconi. “Di dossier anonimi – scriveva Ranucci – ne arrivano a decine sui politici. Scene da basso impero su yacht… io ho una dignità“. L’ on. Ruggieri gli replica: «Contieniti qui non si spaventa nessuno. Io ti ho praticamente difeso“. Ed aggiunge: “Apprendo comunque che la tua redazione è un call center di segnalazioni varie“, “78 mila“, gli replica Ranucci. “Ne arrivano anche su di voi, come normale”. “Anche a me piacciono le donne – ribatte l’ On. Ruggieri – ma nessuno, nemmeno il mio peggior detrattore, mi ha mai omaggiato di una lettera simile […] Hai il dossier su parlamentari che pippano? E mandali in onda, no? A me che me frega” che così conclude la chat. Adesso spetterà alla procura valutare il tutto e decidere se quelle del conduttore siano state minacce.

Ma i problemi di Sigfrido Ranucci sono anche altri. Il conduttore di Report secondo quanto riportato dal quotidiano Libero sarebbe nel mirino della Procura di Ravenna per il video che ritrae Matteo Renzi con Marco Mancini. Il leader di Italia Viva e l’ex 007 erano stati ripresi a parlare fuori da un autogrill. Il filmato, dalla durata di 28 secondi, sarebbe stato recapitato alla redazione di Viale Mazzini da un’insegnante anonima. E così, quattro mesi dopo, la trasmissione lo ha mandato in onda. Proprio per quel video, stando alle informazioni del Giornale, il conduttore e responsabile del programma Report e l’autore del servizio televisivo Giorgio Mottola sarebbero indagati per diffamazione e rivelazione di segreto di Stato.

Sigfrido Ranucci di Report indagato: "Ma non si diceva che...". Dimissioni, bomba Rai. Daniele Dell'Orco Libero Quotidiano l'01 luglio 2022

Per Sigfrido Ranucci i guai non sono finiti. Il conduttore di Report è stato iscritto dalla Procura di Roma nel registro degli indagati dopo la denuncia per minacce presentata da Andrea Ruggieri, parlamentare di Forza Italia e membro della Commissione di Vigilanza Rai.

Un "atto dovuto" a seguito del parapiglia che si scatenò mesi fa, dopo un'infuocata riunione della Commissione della tv pubblica. Esattamente il 24 novembre, quando il deputato Davide Faraone, di Italia Viva, parlò di un dossier su Ranucci contenente presunte accuse di molestie sessuali perpetrate nei confronti di colleghe, e anche di attività di dossieraggio e pagamenti irregolari per servizi televisivi di Report. Accuse da cui il conduttore della trasmissione di Rai3, dopo l'istruttoria interna dell'audit Rai, venne assolto ad aprile, con richiamo formale (relativo ai metodi di lavoro, non alle molestie). L'audit scrisse di aver «proceduto al formale richiamo del dottor Ranucci all'osservanza dei principi etici e di comportamento aziendali, nonché dei doveri deontologici cui sono tenuti i giornalisti del servizio pubblico».

SCAMBI DI FUOCO - Nell'arco di tempo tra l'uscita del dossier e il pronunciamento dell'audit Rai, però, tra Ranucci e Ruggieri erano volati stracci. In Commissione di vigilanza Ruggieri aveva in un certo senso preso le parti di Ranucci, sostenendo che quel materiale lo avesse ricevuto anche lui ma che aveva deciso di cestinarlo per via dell'assenza di elementi fondati, invitando la Rai a fare chiarezza a tutela del buon nome dell'azienda, di Report e del conduttore.

Ranucci andò comunque su tutte le furie, e il giorno dopo scrisse a Ruggieri su WhatsApp messaggi del tipo: «Quello che tu e Faraone avete fatto è vergognoso. A me potete buttare tutto il fango che maneggiate. Non mi interessa. Ma che, per buttarlo su di me, abbiate coinvolto persone innocenti e brave professioniste è indegno dal punto di vista umano e parlamentare. Poi detto da uno che ha come capo il top player mondiale del bullismo sessuale (il riferimento è a Silvio Berlusconi, ndr) è comico». E ancora: «Di dossier anonimi ne arrivano a decine sui politici... tutti... tra uso di cocaina, scene da basso impero su yatch... io ho una dignità». Infine un eloquente: «Siete delle merde».

Ruggieri rispose di averlo difeso e si disse sorpreso che, in quello sfogo così colorito, Ranucci avesse praticamente ammesso di avere infiniti dossier di quel genere, ben 78mila, e avesse tirato in ballo anche la compagna e la figlia del deputato azzurro. Tutto materiale che Ruggieri lesse ad alta voce in Commissione di vigilanza davanti agli altri deputati e all'ad Carlo Fuortes, annunciando che avrebbe depositato i messaggi minatori di Ranucci, oltre che in Vigilanza, anche alla Procura.

Se la Rai se n'è in un certo senso lavata le mani, sostenendo che, trattandosi di scambi privati fra i due, la questione non riguarda la tv pubblica.

Ora però sul fronte giudiziario sarà il pubblico ministero Carlo Villani a dover decidere se archiviare il caso o chiedere il rinvio a giudizio del volto del conduttore di Report. 

DUE PESI E DUE MISURE - Ranucci, come riportano all'Adnkronos fonti vicine al giornalista, non intende commentare l'indagine, e avrebbe anche sottolineato con il suo entourage che «l'autore della denuncia è lo stesso che ha reso nota una lettera anonima rivelatasi completamente falsa al vaglio dell'audit aziendale e della Procura. Comunque - avrebbe concluso Ranucci con i suoi - io, a differenza di molti di quelli che mi attaccano, ho fiducia nella magistratura». Il conduttore di Report si sarebbe anche sfogato con i suoi collaboratori per le assenze, «di fronte ai continui attacchi al lavoro della redazione», di voci «che sottolineino il lavoro fatto nell'ultimo anno con l'aumento di 1,5% di share anche a fronte dell'aumento del numero delle puntate». Se l'esistenza di un "metodo Ranucci" non è stata confermata dalla Rai, esiste da sempre un "principio Ranucci" che piace tanto ai grillini: quello di invitare importanti dipendenti pubblici a dimettersi quando finiscono sotto indagine. Chissà se lui farà eccezione.

(ANSA l'8 febbraio 2022) - Il parlamentare di Forza Italia Andrea Ruggieri ha denunciato in Commissione di Vigilanza una serie di messaggi scambiati con il conduttore di Report Sigfrido Ranucci, dopo le polemiche sorte in seguito alla lettera anonima con le accuse di molestie sessuali al giornalista. 

"I messaggi contengono insulti diffamatori e minacce e allusioni sul possesso di dossier", ha spiegato Ruggieri chiedendo all'ad di prendere provvedimenti e annunciando la presentazione dei messaggi in Procura.

Estratto dell'articolo di Gianluca Roselli per “il Fatto quotidiano” il 22 febbraio 2022.

Più spari contro i suoi programmi e più in Rai ti invitano […] Domenica sera a Che tempo che fa Fabio Fazio ha ospitato il direttore del Riformista Piero Sansonetti insieme a quello di Tgcom Paolo Liguori. Il motivo era il lancio della tv del Riformista, che da poco ha visto la luce, in joint venture con il Tgcom di Mediaset […] il Riformista è il giornale che più sta sparando contro un altro programma Rai, Report di Sigfrido Ranucci.

[…] Tra l'altro a farlo è la stessa rete, la Rai3 diretta da Franco Di Mare, dove va in onda Report, che riprenderà in aprile. […]  Il Riformista […] è uno dei quotidiani più schierati contro Report. Dal 9 febbraio, ha dedicato sette articoli a Sigfrido Ranucci, innanzitutto sul caso degli insulti via sms tra il conduttore e i parlamentari Andrea Ruggieri ( FI ) e Davide Faraone (Iv) per il caso delle presunte molestie del conduttore a due giornaliste svelate da una lettera anonima, caso finito nel nulla dopo un audit interno in Rai. 

Ma il Riformista ha preso la palla al balzo per andare a ripescare una vecchia storia del 2014 per cui Ranucci è stato prosciolto da due Procure (anche se ora la Corte dei Conti indaga per danno erariale): un filmato in cui il giornalista tratta per acquisire un video compromettente sull'ex sindaco di Verona, Flavio Tosi. Secondo il Riformista, Report sarebbe una sorta di centrale di dossieraggio che usa soldi pubblici per acquisire materiale, ma la vicenda era già stata archiviata dalla magistratura, con tante scuse a Ranucci.

DAGONEWS il 23 febbraio 2022.  

La grande vendetta di Berlinguer contro Sigfrido Ranucci: invitare a "Cartabianca" Andrea Ruggeri, il principale accusatore di Ranucci in commissione di vigilanza sul caso delle presunte molestie sessuali ai danni di colleghe e sui presunti dossier contro avversari politici.

In Rai le malelingue dicono che la presenza di Ruggeri non fosse casuale. La perfida Berlinguer si sarebbe voluta vendicare di Ranucci (e del suo direttore ormai depotenziato Franco Di Mare che all’epoca lo autorizzó) per essere andato ospite del suo diretto concorrente Giovanni Floris su La7 per promuovere "Report". Chi la fa l’aspetti! 

L'editt(ino) dei manettari. “Fazio non doveva ospitare Sansonetti e Liguori per lo scoop sul metodo Ranucci”, editto del consigliere Rai contro il Riformista. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Febbraio 2022. 

Il Riformista Tv è appena nato e già sembra dare fastidio. Nel regno dei paradossi, appena la voce libera che promette di fare informazione, approfondimento e inchiesta viene presentata da Fabio Fazio nella sua Che Tempo Che Fa, Rai Tre, ecco che Riccardo Laganà, del Cda di viale Mazzini trova da ridire: «Trovo inopportune, nei tempi e nei modi, certe iniziative editoriali. Singolare che su Rai Tre si promuova la tv web garantista del Riformista quando da settimane tenta di condannare Report, Ranucci e il servizio pubblico con tesi già discusse in tribunale».

Alla faccia del pluralismo, del diritto alla critica, della libertà di parola: qui c’è un membro del Consiglio di Amministrazione Rai che contesta – con una nota scritta, non una battuta sfuggitagli al bar – il diritto/dovere del Riformista Tv di fare il proprio mestiere. Vietato contestare Ranucci, in sintesi. Ci sarebbe da chiedersi se va preso sul serio o no. Fuga ogni dubbio Sigfrido, che retwitta il consigliere amico. E fa capire così di essere d’accordo con l’editto (l’edittino) del silenzio: chi contesta la condotta di Ranucci – con la forza del video che Il Riformista ha pubblicato – non deve andare in onda. Censura. Il servizio pubblico, per come sembra essere inteso dal consigliere Laganà e dal conduttore di Report, non dovrebbe occuparsi di chi ha richiamato Report alle regole. E poi forse c’è un altro problema. L’intervento del Riformista alla Rai ha portato in primo piano il problema delle carceri e l’abuso, anche da parte della magistratura, nell’uso della carcerazione. E forse al fronte grillin-manettaro queste idee non vanno a genio. Meglio farle sparire dalla Rai.

La Rai è alle prese con una tensione fortissima tra vertici e Consiglio di Amministrazione. Con una crisi di ascolti che riguarda fasce importanti. E con il caso Ranucci, di cui si stanno occupando simultaneamente l’audit interno, la commissione di Vigilanza, il Copasir, la Corte dei Conti e addirittura il Dis. Ma ecco Ranucci e Laganà impegnati – richiamando anche la grancassa dei social network – nel provare a silenziare l’iniziativa editoriale del Riformista TV. Riccardo Laganà, il membro del Cda eletto in quota “maestranze” non è nuovo rispetto ai servizi di tutela che offre generosamente a Sigfrido Ranucci. Già mercoledì scorso, rimasto perlopiù inascoltato, aveva tentato una maldestra presa di posizione, condita da inesattezze ricalcate proprio sulle giustificazioni del conduttore di Report: «Partiamo dai fatti: Ranucci è uscito pulito dall’audit interno sul dossier falso e infamante nei suoi confronti, come anche dichiarato dall’Ad durante la recente audizione in Vigilanza», aveva detto confondendo il calendario tra i diversi audit richiesti per il conduttore di Report.

Se i video di Ranucci erano noti, perché non avete denunciato lo scandalo?

Sulla vicenda del girato clandestino di Borsato, in cui Ranucci tenta di acquistare un video hard pagando con un giro di false fatture, garantendo -o millantando – la protezione di amici potentissimi nei servizi segreti, non si è ancora tenuto alcun audit. Ecco Laganà che ripete, un po’ a pappagallo, il refrain di Ranucci: «Filmati e personaggi già vagliati dalla magistratura competente e da due tribunali che hanno già appurato che Ranucci non ha mai acquistato video e che non è stato commesso alcun reato; basterebbe dare una lettura dei decreti di archiviazione per trovare pace ed evitare la campagna mediatica di delegittimazione in corso da svariato tempo. I giudici hanno definito legittimo il lavoro di Ranucci sia in fase di confezionamento delle inchieste che in quello poi di realizzazione, inchieste giornalistiche che peraltro avevano evidentemente già superato il vaglio delle strutture interne».

Così stanno le cose? Certo, che Ranucci non abbia poi acquistato il famigerato filmino hard lo sapevamo. Anche perché quel filmino non esiste. Ma sappiamo – al netto delle sue variegate giustificazioni – con quale metodo ha provato ad acquistarlo, con quale veemenza ha proposto di aggirare le procedure e le regole Rai. Soprattutto ci continuiamo a chiedere perché stesse insistendo tanto per avere del materiale che sapeva benissimo di non poter mandare in onda. Paletti, regole, condotte che evidentemente per il consigliere delle maestranze Laganà non devono contare poi molto. Quanto all’altro ritornello, “i giudici hanno definito legittimo il lavoro di Ranucci”, non si capisce a quale sentenza si faccia riferimento. Prova a venirgli in soccorso l’avvocato Alessio La Pegna, difensore di Sigfrido Ranucci con una nota che pubblichiamo interamente (senza manipolazioni….) qui sotto. La nota probabilmente è inedita…ma non è troppo felice. Nella richiesta di rettifica che manda al Riformista il legale dice infatti che «sui fatti del 2014, già sottoposti al vaglio dell’Autorità Giudiziaria, la condotta del dottor Sigfrido Ranucci è stata ritenuta del tutto legittima». Di quale condotta si parla? Il Tribunale di Verona in realtà ha preso in esame la denuncia depositata dall’allora sindaco Flavio Tosi che accusava Ranucci di costruirgli contro un falso dossier. Risultato inesistente – come il famigerato video hard. Punto.

La sentenza 2086/2019 non ha affatto approvato «il lavoro di Ranucci in fase di confezionamento delle inchieste e poi nel lavoro di realizzazione» (in ordine cronologico, semmai, prima si realizzano e poi si allestiscono i servizi, ndr) ma si è limitata, come è giusto, a esaminare la fattispecie di un dossier segnalato da Tosi in quel puntuale momento. Né alcun tribunale ordinario ha mai pronunciato, a memoria d’uomo, una sentenza che approva questa o quella modalità di conduzione tv. Da Verona il giudice si era limitato a puntualizzare – se proprio vogliamo tirare fuori la sentenza – che l’ordito di Ranucci poggiava su “millanterie” e certifica, contrariamente a quanto Ranucci ha scritto, che tutta la traccia audio-video da noi resa pubblica è integra e priva di manipolazioni. Chi difende Ranucci contesta il Riformista su un punto singolare: «Il video diffuso dal sito web del Riformista costituisce un estratto di un più ampio colloquio», ci viene fatto presente. La registrazione integrale consta di oltre un’ora: Ranucci – che sostiene che è già nota e diffusa – non avrà difficoltà a trasmetterla per intero lui stesso. Se pubblicare una parte di un documento lungo è facoltà delle testate, è curioso che sia proprio dalle parti di Report, il più feroce esecutore del taglia-e-cuci, che provenga questa risentita osservazione.

Scrive ancora l’avvocato La Pegna: «Dalle registrazioni diffuse non emerge alcuna condotta illecita da parte del Dott. Ranucci, il quale stava regolarmente svolgendo la propria attività giornalistica di inchiesta». Stando al testo dell’avvocato, risulterebbe dunque normale, per Report, trattare l’acquisto di materiale pornografico pagandolo con fatture recanti un oggetto diverso, con il contenuto mascherato per alterarne la natura e riuscire a retribuire gli autori con fatture intestate ad altri. Molto interessante come puntualizzazione. La mettiamo agli atti, a disposizione di chi ha aperto il fascicolo: le verifiche della Corte dei Conti vertono proprio su questo punto.

Inevaso resta invece il focus centrale della nostra inchiesta: per quale ragione Ranucci stava negoziando per avere del materiale che, violando la privacy dell’interessato, la Rai non poteva né possedere né tantomeno mettere in onda? Lo chiediamo da dieci giorni, Ranucci continua a parlare d’altro e a non rispondere. Ed è un peccato, perché con i documenti che il Riformista pubblicherà questa settimana, gli interrogativi ai quali dovrà rispondere il vicedirettore di Rai Tre si moltiplicano.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Rai, caso Ranucci: nessun pagamento irregolare. Ma viale Mazzini invita il conduttore di Report al rispetto deontologico. La Repubblica il 2 Aprile 2022.

Si è conclusa l'istruttoria dell'Internal Audit sull' affaire dossieraggio e compensi poco chiari. Soddisfatto il giornalista. Ma sui messaggini al veleno inviati a Ruggieri (Fi) fa mea culpa: "Giusto pagare se si sbaglia".

La nuova stagione di Report sta per cominciare, lunedì sarà di nuovo su Rai3 in prima serata, ma la partenza prende il via dopo mesi di indagini con un "assoluzione" e una  "tirata d'orecchie" a Sigfrido Ranucci, che del programma di inchiesta ne è volto e anima. Si è conclusa infatti l'istruttoria dell'Internal Audit sull'affaire dossieraggio e compensi poco chiari di alcuni servizi televisivi."Con riferimento alle asserite acquisizioni di filmati con pagamenti irregolari e all'attività di dossieraggi - fa sapere in una nota la Rai -  dopo una attenta e puntuale disanima riferita agli anni 2013-2021, la segnalazione non ha trovato alcun riscontro".

Ma Ranucci era anche finito nell'occhio del ciclone non solo per contabilità contestata, ma nei mesi scorsi era stato il protagonista di un'inchiesta interna Rai per aver inviato dei messaggini su whatsApp, affatto teneri, al commissario di Vigilanza Andrea Ruggeri (FI), lo scorso novembre. Messaggini scritti dal conduttore televisivo sull'onda emotiva e piena di rabbia a seguito di una lettera anonima che lo accusava di molestie sessuali in redazione. Accuse che si sono rivelate assolutamente infondate. Ma sui toni al "sentore di minaccia" di quei Whatsapp, viale Mazzini non ha  affatto sorvolato. eE lo bacchetta. "Quanto al contenuto dei messaggi scambiati con componenti la Commissione parlamentare per l'Indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi - prosegue la nota - l'Azienda, alla luce dell'accertata violazione del Codice Etico e valutate le circostanze, ha proceduto al formale richiamo del dottor Ranucci all'osservanza dei principi etici e di comportamento aziendali, nonchè dei doveri deontologici cui sono tenuti i giornalisti del servizio pubblico".

Soddisfatto il conduttore: "Sono orgoglioso di come è stato fatto il lavoro di analisi della contabilità di Report. L'audit della dottoressa Gandini e dell'Anticorruzione è stato rigorosissimo - dice - Sono andati a vedere 10 anni di storia di Report e hanno trovato tutti i conti in ordine, perché ho sempre pensato che questo modo di procedere fosse una forma di rispetto verso il cittadino che paga il canone". Ma sulla storia dei messaggini al veleno fa mea culpa: "E' giusto, chi sbaglia paga. Come sempre mi assumo le responsabilità di quello che faccio. Sarebbe bello lo facessero tutti quando succede".

Report, insabbiato il caso-Ranucci: la mossa sporca della Rai, altro sfregio a chi paga il canone. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 02 aprile 2022.

Quando si dice il brivido dell'incompiuto. «Ad oggi l'indagine non è ancora completata...»: così, ha risposto, inconsuetamente tranchant nell'abbondante intervista concessa al Corriere della sera, l'amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes, richiesto d'aggiornamenti sull'internal audit pendente su Sigfrido Ranucci. Ad oggi nessuna notizia, l'audit s' è persa nella nebbia delle buone intenzioni. Sicché, mentre la strombazzatissima indagine interna di viale Mazzini sul conduttore di Report prosegue stancamente verso l'oblio, il vecchio Sig si ritrova oggi sulla tolda della corazzata investigativa di Rai 3 che riprende la navigazione lunedì prossimo. Con tutta la stima professionale per il Ranucci pioniere investigativo, ci chiediamo: era davvero opportuno mandarlo in onda prima di aver diradato le polemiche e delle denunce che l'avvolgono? Non era meglio -come è accaduto per l'omologo collega Enrico Varriale coinvolto però in una pesante accusa di molestie- sospenderne la conduzione, in attesa di un qualunque verdetto?

La querelle è nota, ma ricapitoliamo. Nel febbraio scorso, Ranucci è stato al centro di un'istruttoria inerente i pesanti contenuti degli sms scambiati fra l'onorevole di Forza Italia Andrea Ruggieri membro delle Commissione Vigilanza e Ranucci stesso. L'Adn Kronos, allora fu chiarissima: «Il procedimento aveva preso il via dopo l'invio di tali contenuti da parte del presidente della Commissione Alberto Barachini ai vertici dell'Azienda di Servizio Pubblico. Lo stesso ad di Viale Mazzini Fuortes aveva chiesto in Vigilanza che fossero inviati alla Rai i contenuti dei messaggi, perché potesse valutare l'eventuale apertura dell'audit sul caso. Un passaggio ribadito anche durante l'ultimo Cda, il 9 febbraio, in cui tra l'altro è stata comunicata la nomina di Ranucci come vicedirettore ad personam per la direzione approfondimento, guidata da Mario Orfeo».

Il caso degli sms, a sua volta, era legato alla vicenda della lettera anonima contro Ranucci arrivata ad alcuni commissari e portata alla luce nella stessa bicamerale a novembre scorso, «quando fra Ranucci e Ruggieri è avvenuto lo scambio in chat. Scambio di messaggi letto in parte da Ruggieri durante l'audizione dell'8 febbraio scorso sottolineandone l'aspetto "minatorio"» condito dalla cifra-monstre di 78mila dossier pronti ad essere accesi. «Non c'è stata nessuna minaccia, anzi il contrario», ribatté Sigfrido; e parlò di dossier falsi usati come clava dai parlamentari. E, a quel punto, scoppiò, deflagrante, la polemica. E si levarono gli scudi dalla bicamerale attraverso una richiesta ufficiale del gruppo di commissari di Forza Italia sull'acquisto più o meno sensato di materiale giornalistico da Report (nessuna risposta alla richiesta). Ed entrò a gamba tesa pure il quotidiano Il Riformista che pubblicò un video sul "metodo Report" all'apparenza poco onorevole nella confezione di alcuni servizi. E intervenne anche la Milena Gabanelli, madrina giornalistica di Sigfrido, giusto per acclarare la di lui chiarezza ed onestà.

Dopodiché, giusto per non farsi mancare nulla, partì una denuncia «per diffamazione e minaccia» verso Ranucci a firma di Ruggieri. L'ad Fuortes, appoggiato dall'intero arco costituzionale, richiese, appunto, l'internal Audit che in Rai non sarà esattamente il giudizio di Dio, ma almeno d o vrebbe servire a chiarire i fatti. Ora, la situazione resta questa. Si sono perse notizie dell'audit. Notizie che, ad occhio, spunteranno a ruota della pronuncia dei giudici sulla querela in atto. Ranucci è stato promosso vicedirettore per l'Informazione di tutta la Rai.

Riguardo l'eventuale sospensione dal video di Sig "in attesa di chiarimento", voci interne dalla Rai ci riferiscono di non essersi manco poste la domanda perché «ad ora non risulta, per Ranucci, alcun provvedimento disciplinare». E, in effetti è vero, anche se immaginare vergine e del tutto intonso il vecchio Sig, in tutto questo casino,be', mi pare un po' azzardato. E il fronte politico si separa, di nuovo, come le acque di Mosè.

C'è chi sostiene Ranucci in cda Rai - attraverso l'azione potentemente colorata di giallorosso soprattutto i membri Bria, Laganà e Di Maio- indicandolo come il bersaglio di un'epurazione destrorsa (l'ultima inchiesta di Ranucci è stata quella su Berlusconi alla vigilia del Quirinale). E c'è chi afferma -Lega, Fi e refoli di centrodestra- che Ranucci stia violando qualunque codice etico e deontologico; e che risulti stridente il fatto che «il tribuno della plebe si faccia proteggere proprio dai politici che dice di voler combattere, e intanto continua ad essere pagato con i soldi pubblici» (questo, a dire il vero, l'afferma soprattutto Ruggieri, che è parte in causa).

Noi siamo più laici. Ma, al netto delle sciabolate tra contendenti, ritieniamo che, pur non essendoci ragioni penali per cristallizzare la posizione di Sigfrido, sarebbe stato opportuno, per lui, fermarsi un giro. Un'autosospensione, viste le accuse incrociate, sarebbe stata opportuna: si sarebbe data un'impressione di rispetto dello spettatore, e magari un'opportunità a colleghi più giovani -e donne- di mettersi alla prova in una prestigiosa supplenza. Dall'altro canto, con Ranucci di nuovo in video e con questo carico di imputazioni più o meno bagatellari, si parrà la nobilitate del cronista. Report sarà messo sempre più sotto la lente d'ingrandimento della dirigenza Rai che ora traccheggia; e di quell'opinione pubblica che il programma pretende rigorosamente di servire. Gli ultimi svarioni molto partigiani e poco giornalistici forse scivoleranno nell'oblio, assieme all'audit di Ranucci. E forse non è detto che questo sia affatto un male.... 

Il "metodo Ranucci" spiegato ai pm "Così controllo cinque Procure". Felice Manti il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nelle carte della causa intentata al conduttore di "Report" da Tosi lui stesso ammette che il suo era un bluff. Credibilità a picco.

Più tempo passa e più la situazione per Sigfrido Ranucci si complica. Non solo sotto il profilo delle sue eventuali responsabilità nel giro di false fatture e di dossier. Come sappiamo, nel filmato del 13 febbraio 2014 (non inedito ma mai manipolato) pubblicato dal Riformista, pur di accaparrarsi un fantomatico video hard che avrebbe inguaiato l'allora sindaco di Verona Flavio Tosi in mano a presunti intermediari della 'ndrangheta, Ranucci millantava un metodo Report fatto di agganci con 007 interessati ai dossieraggi («noi siamo lo Stato nello Stato»), diceva di «avere in mano cinque Procure» e di controllare molte notizie attraverso il fratello che lavora per la Guardia di Finanza («Ecco perché vengo a sapere certe informazioni»). Il tutto attraverso un giro di false fatture per nascondere il materiale di dubbia provenienza con tanto di moduli, tanto da insistere affinché l'interlocutore li firmasse. Ma il video hard non sarebbe mai esistito. Anzi, Milena Gabanelli - che al suo braccio destro ha lasciato il timone di Report nel 2016 - disse chiaramente che era stato un «trappolone» nel quale Ranucci era caduto con tutte le scarpe, trascinando nel ridicolo la trasmissione «dopo 17 anni di onorato servizio».

Sul possibile danno erariale alla Rai sono già al lavoro l'audit di Viale Mazzini e la Corte dei Conti attraverso il procuratore generale del Lazio Pio Silvestri, senza dimenticare gli strascichi ipotizzati ieri da Repubblica dell'inchiesta della Guardia di Finanza e della Procura di Roma sull'ex responsabile dell'Ufficio Acquisti Rai finito agli arresti per un giro di mazzette e favori.

Dalle carte del processo intentato da Tosi, pubblicate ieri da Aldo Torchiaro sul Riformista, emergono altre dichiarazioni clamorose. «Non è vero che mio fratello mi passa informazioni, è falso che ho agganci a vari livelli anche in Procura a Verona, la falsa fatturazione è una cosa che mi sono inventato sul momento perché giustificava l'acquisto del video», disse Ranucci ai pm del processo intentato da Tosi, ammettendo «alla fine cado nel trappolone». Che credibilità ha chi oggi dice che le sue parole erano un bluff?

A destare preoccupazione nei vertici di Viale Mazzini è infatti soprattutto il profilo reputazionale di Ranucci, vicedirettore Rai e conduttore di una trasmissione storica come Report, finito assieme alla sua squadra in un cono d'ombra tra sospetti e veleni che appannano l'immagine del programma d'inchiesta, punta di diamante della prima azienda culturale del Paese.

Un segnale confermato anche dalla decisione di Fabio Fazio e Bianca Berlinguer di ospitare su Raitre i «nemici» di Ranucci come il direttore del Riformista Piero Sansonetti e il consigliere di Vigilanza Rai di Forza Italia Andrea Ruggieri, che ha inguaiato Ranucci per un sms del conduttore in cui millanta «78mila dossier sui politici», anche se il vicedirettore Rai getta acqua sul fuoco («In Rai c'è libertà d'espressione»). Secondo fonti interne alla stessa trasmissione, più di un collega di Report avrebbe chiesto a Ranucci di non mescolare più il suo nome e quello della trasmissione, soprattutto sui social, per evitare che certe cadute di stile del giornalista trascinino la redazione nel ridicolo. Esattamente come otto anni fa. Felice Manti

Sigfrido Ranucci, la confessione rubata: "Ho in mano 5 Procure", l'ultima rivelazione sul "metodo" Report. Libero Quotidiano il 25 febbraio 2022

Per Sigfrido Ranucci si mette male. Il conduttore di Report, programma di Rai 3, non deve rispondere solo di false fatture e dossier. Sì, perché nel filmato datato 13 febbraio 2014 e pubblicato dal Riformista, il giornalista millantava un "metodo" fatto di agganci con i servizi segreti interessati ai dossieraggi. "Noi siamo lo Stato nello Stato", diceva. E ancora diceva di "avere in mano cinque Procure" e di controllare molte notizie attraverso il fratello che lavora per la Guardia di Finanza.

"Ecco perché vengo a sapere certe informazioni", raccontava pur di ottenere un fantomatico video hard che avrebbe inguaiato l'allora sindaco di Verona Flavio Tosi in mano a presunti intermediari della 'ndrangheta. Il video sarebbe poi stato pagato attraverso un giro di false fatture per nascondere il materiale di dubbia provenienza. Peccato però che il video hard non sarebbe mai esistito. Il fattaccio che ha visto Ranucci protagonista ha indignato anche il suo predecessore, Milena Gabanelli. 

Intanto la Rai starebbe valutando anche il danno erariale su cui sono già al lavoro l'audit di Viale Mazzini e la Corte dei Conti attraverso il procuratore generale del Lazio Pio Silvestri. "Non è vero che mio fratello mi passa informazioni, è falso che ho agganci a vari livelli anche in Procura a Verona, la falsa fatturazione è una cosa che mi sono inventato sul momento perché giustificava l'acquisto del video", ha detto Ranucci ai pm del processo intentato da Tosi, ammettendo "alla fine cado nel trappolone". 

Sigfrido Ranucci smentito dai giudici: "Così preparava i dossier". Report, ecco le carte in tribunale. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 20 febbraio 2022

E meno male che non era solito utilizzare dossier per screditare i politici. E meno male che non aveva l'abitudine di servirsi di segnalazioni anonime per costruire dossier. E menomale che il video pubblicato dal Riformista era manipolato. Basta leggere la sentenza del Tribunale di Verona, risalente al 30 settembre 2019 e relativa a Flavio Tosi, allora sindaco di Verona, e Sergio Borsato, il leghista presente al pranzo con Ranucci che si era incaricato di fornire al primo cittadino scaligero informazioni sul servizio giornalistico a suo carico, per comprendere come la difesa del conduttore di Report sui propri metodi di inchiesta faccia acqua da tutte le parti. Dopo che sono stati tirati fuori gli sms di Ranucci destinati al deputato della Commissione di Vigilanza Rai Andrea Ruggieri, al quale dichiarava di ricevere dossier «su tutti i politici, tra uso di cocaina e scene da basso impero su yacht», il giornalista ha ribadito di non avere «mai usato l'arma dei dossier», di riceverne «tanti anonimi» aggiungendo però che «noi non li usiamo. Noi li abbiamo sempre cestinati».

FONTI RISERVATE

La verità però è un po' diversa. Dalle succitate carte si dimostra infatti che Ranucci i dossier li usava eccome, costruendoli a partire da segnalazioni anonime. In modo legittimo, a detta dei giudici. Ma quanto meno, aggiungiamo noi, deontologicamente discutibile. In un passaggio della sentenza il giudice, valutando non diffamatoria una dichiarazione di Tosi in cui lui bollava il lavoro di Ranucci come «una buffonata», la definiva una «critica, seppur sferzante, con pertinente riferimento al dossier che questi aveva confezionato sull'amministrazione Tosi». Quindi è del tutto corretto sostenere che Ranucci avesse imbastito un dossier. Peraltro «vacuo», come lo definisce l'avvocato Antonio Mezzomo (che ai tempi aveva difeso Borsato nella causa per calunnia), «dato che, se ci fosse stato qualche fondamento alle accuse mosse da Report su presunti rapporti con la 'ndrangheta, il Comune di Verona sarebbe stato commissariato. Cosa mai avvenuta». Un dossier comunque dotato di un evidente scopo politico: mettere in cattiva luce un esponente di punta della Lega.

A rendere plausibile questa ricostruzione è ancora il giudice, esprimendosi su altre frasi di Tosi, pronunciate nelle interviste ad alcuni giornali, secondo cui «Ranucci sta costruendo una puntata di Report per distruggere politicamente e personalmente un avversario politico, attraverso una trasmissione della tv di Stato». Queste affermazioni vengono giudicate nella sentenza «assolutamente continenti, pertinenti al tema in discussione, proporzionate e funzionali alla finalità di disapprovazione nei confronti dell'operato professionale del giornalista Rai». Altra questione decisiva è: come Ranucci aveva costruito questo dossier? Anche qui traballa la sua difesa per cui il materiale arrivato da fonti non accreditate verrebbe «sempre cestinato». Lo spiega il giudice, sulla base di quello che il giornalista aveva dichiarato in sede sia di indagine che di dibattimento. «Nel corso del 2013», si legge nella sentenza, «il Ranucci decideva di dedicare parte di una puntata all'allora sindaco di Verona, in quanto più fonti anonime o riservate avevano segnalato alcune "anomalie" sulla sua amministrazione, con particolare riferimento ad infiltrazioni della criminalità organizzata calabrese nella gestione degli appalti del Comune». Tutta l'inchiesta poi andata in onda, checché ne dica Ranucci, era mossa dunque proprio da queste imbeccate anonime.

DISORIENTANTE

Ma il conduttore di Report prende un granchio anche quando si ostina a sostenere che il video registrato da Borsato e ora pubblicato dal Riformista sia «manipolato». Questa versione non emerge affatto nella sentenza in questione, che al contrario sospende il giudizio, definendola una «circostanza riferita da Ranucci» che «non è stata oggetto di approfondimento istruttorio nel presente procedimento» e, quand'anche vera, «non prova la mala fede del Borsato».

Né il conduttore di Report e i suoi legali, durante il dibattimento, hanno insistito, come ricorda Mezzomo, «affinché il tribunale ammettesse una perizia a riprova dell'avvenuta manipolazione del video, evidentemente non avendo elementi sufficienti a sostenere la bontà della propria tesi». Va detto inoltre che il giudice, pur reputando l'atteggiamento manifestato da Ranucci nel video coerente con l'esercizio delle proprie funzioni, esprime valutazioni non certo elogiative del suo modus operandi. Parla infatti di «tenore fraintendibile» delle sue dichiarazioni, di «contegno disorientante» e di una tattica nel «riportare notizie acquisite di poco conto, millantando amicizie importanti e la possibilità di ricorrere a fondi neri Rai». Per carità, sarà anche tutto legale, ma non pare un metodo esattamente solare.

Sigfrido Ranucci, "a volte dico mezze verità": il crollo davanti all'avvocato. Report, ora si capisce tutto. B.B. su Libero Quotidiano il 24 febbraio 2022

In gergo si dice "fare lo sborone" e dispiace dovere applicare questa formula a un professionista della tv di Stato, eppure basta leggere le 83 pagine del verbale reso da Sigfrido Ranucci dinanzi ai giudici del tribunale di Verona il 31 gennaio 2018 per avere un'idea del concetto. La vicenda è quella ormai arcinota dell'affaire Tosi, quando l'allora sindaco di Verona si è sentito diffamato dalla puntata di "Report" andata in onda il 7 aprile 2014 e lui stesso ha convocato la stampa per denunciare, con toni poi giudicati diffamatori, l'operato del programma di Rai3 e in particolar modo il metodo dell'inviato di punta della Gabanelli. Ranucci, assistito dall'avvocato Luca Tirapelle, risponde alle domande del pubblico ministero Elisabetta Labate alla presenza dei difensori di Tosi, gli avvocati Claudio Fiorini e Luca Sancassani e di Antonio Mezzomo, legale dell'altro imputato Sergio Borsato, che aveva registrato tutti gli incontri sulla "trattativa" per il famigerato video compromettente.

Ranucci ammette di essere caduto "nel trappolone" di Borsato e dell'altra sua "fonte" veneta Mauro Sicchiero, ma lui stesso sostiene di avere registrato gli incontri. Insiste sul fatto che il file fornito da Borsato alla procura di Verona sia stato manipolato con aggiunta di frasi riguardanti Tosi, poi, incalzato dalle domande della pm che vuole sapere se lui ha veramente parlato di soldi e fatture da mettere in conto Rai con i due emissari, risponde: «Sì, non è una falsa fatturazione, mi sono espresso male, era una fatturazione intestata a un'altra persona...». Spiega di avere portato all'incontro un contratto finto, un facsimile.

Durante il controesame, alla domanda precisa dell'avvocato Cassini: «Lei dice anche delle menzogne, delle cose che non stanno né in cielo né in terra?», Ranucci risponde: «Non vere, sì sì. Cerco di mostrarmi credibile e affidabile e a volte dico la verità, a volte dico delle mezze verità per vedere... per non imboccare l'avversario, cioè l'intervistato e capire se può darmi dei contributi. È una tecnica per capire...». Ovviamente, il discorso va contestualizzato, ma in un altro passaggio quando gli viene fatto ricordare di avere detto nel video (poi trasmesso dal Riformista): «Controllo 5 procure del Veneto», ammette: «È vero che l'ho detto, ma è falso che controllo 5 procure».  

La deposizione al processo di Verona. La verità di Ranucci: “Controllo 5 procure, sono lo Stato nello Stato”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Febbraio 2022. 

Le dichiarazioni di Sigfrido Ranucci sono clamorose: abbiamo appreso che ha un fratello ai vertici della Guardia di Finanza del quale parla a sproposito anche con gli sconosciuti. Come nel caso dell’incontro-tranello con Sergio Borsato, emissario di Flavio Tosi, che lo incontra il 13 febbraio 2014 alla stazione di Padova. Allo sconosciuto, Ranucci affiderà confidenze che fanno pensare: «Ho un fratello che conta nelle Fiamme Gialle, ecco perché vengo a sapere certe informazioni». Esplosa la bomba della video-trappola che ha catturato audio e video di grande imbarazzo per il conduttore di Report, Flavio Tosi e Ranucci si danno appuntamento nelle aule giudiziarie.

È in quella sede che il 31 gennaio 2018 il popolare conduttore di Rai Tre viene sentito da due magistrati: il dottor Andrea Filippo Castronuovo e la dottoressa Elisabetta Labate. Davanti a loro farà un mesto showdown: «Non è vero che mi passa informazioni. L’ho inventato io. È una menzogna al 100 per cento», sarà costretto ad ammettere. Il fratello di Ranucci – che aveva anche il padre nella Guardia di Finanza – sarebbe stato anche sentito dalla Procura su questo punto. Tra una millanteria e un’altra, ecco l’avvocato di Tosi vincere l’imbarazzo e chiedere al conduttore di Report, seduto al centro dell’aula B14 del Tribunale di Verona, “se è vero che ha agganci a vari livelli anche in Procura a Verona?”. Ranucci reagisce come se ragionasse solo in termini di gole profonde e informatori: «Mi sta chiedendo di rivelare le mie fonti?», risponde. L’aria deve essersi fatta tagliente se a quel punto è stato costretto a intervenire il Pubblico Ministero. «Dica se è vero o se è falso». «È falso», si affretta a chiudere l’argomento Ranucci.

A questo punto, la Corte insiste sulla metodologia di pagamento del famigerato video hard che il conduttore di Report aveva tentato di acquistare. Pagamento solo ipotizzato, non essendosi mai perfezionata l’operazione. A pagina 54 del verbale, Ranucci conferma la trattativa. E cade in una contraddizione che il Pm gli fa notare subito. Inizia l’avvocato di Tosi, Cassini: «Veniamo al discorso del presunto pagamento del video, okay? Allora, lei prima ci ha detto non sono stato sicuramente io a proporre questo, diciamo questo pagamento…». Ranucci conferma. Il legale specifica: «perché c’è, ed è pagina 33 della trascrizione, c’è tutta una descrizione molto specifica, lei non è che dice: ‘sì, va bene, poi ci mettiamo d’accordo’, cioè lei dà delle indicazioni molto precise». Ranucci conferma: «Esatto». Si tratta, per chi ha visto il video da noi pubblicato, del momento in cui Ranucci spiega il giochino delle fatture: «Me ne mandi una contenente delle indicazioni diverse, mi parlate di un girato fatto a Crotone. Io lo valuterò di interesse giornalistico importante e ve lo faccio pagare. Nel frattempo mi dovete far arrivare il materiale vero con un plico anonimo».

L’avvocato Cassini – che rappresenta la difesa di Flavio Tosi – prosegue mentre Ranucci prova a interromperlo: «Che ci potrebbe, mi faccia finire, che ci potrebbe essere una falsa fatturazione avente ad oggetto beni strumentali, fotografici o video fatti attraverso una società compiacente con la quale potrebbe essere versato questo compenso». Ranucci: «Sì, non è una falsa fatturazione, mi sono espresso male, era una fatturazione intestata ad altra persona…» – e subito Cassini: «Che è una falsa fatturazione, perché è una fattura soggettivamente inesistente». Ranucci: «È una cosa che mi sono inventato sul momento perché giustificava l’acquisto del video». In aula devono essere cadute le braccia un po’ a tutti. Il legale di Tosi vuole capire quello che tutti, in questa vicenda, si sono chiesti e si stanno chiedendo. «E senta una cosa, lei di questo video… cioè voglio dire lei è una persona che ne ha viste di tutti i colori, preparata e intelligente, non si è reso conto che forse potevano prenderla per i fondelli?», domanda senza giri di parole. E qui Ranucci ammette di essere caduto in quello che definisce lui stesso “un trappolone”. Prova a giustificarsi: «Allora, il discorso perché poi alla fine cado nel trappolone? Perché io ho notizia, prima che venga ad incontrare Borsato, che Borsato è l’uomo che porta questo filmato su ai vertici della Lega». E qui crolla completamente l’alibi del bluff. Ranucci dovrebbe spiegarci: se ammette di esser caduto in trappola, perché sui social sostiene di aver bluffato?

Tocca all’avvocato Mezzomo, che difende Borsato, intervenire. Torna sul punto delle millanterie di Ranucci. «È vero o falso che lei ha detto che: ‘noi siamo lo Stato nello Stato’?». Ranucci non nega: «È vero che l’ho detto». Mezzomo: «L’ha detto?». «Sì». Mezzomo: «È vero o falso che lei ha detto che controlla cinque Procure nel Veneto?». Ranucci prova a scrollare le spalle: «È vero che l’ho detto ma è falso che controllo le procure, cioè si immagina… cioè lei ci credeva a una cosa del genere?». A questo punto interviene il giudice. «L’avvocato le ha chiesto se è vero che l’ha detto». «Sì, è vero che l’ho detto, sì, sì». L’avvocato Mezzomo non molla: «È vero o falso che lei ha mandato dei messaggi al signor Borsato?». Ranucci: “E’ vero”. Riprende Mezzomo: «Vero. Si ricorda uno di questi messaggi? Glielo dico io, riferiti a Tosi: “con queste informazioni è politicamente finito”. Ranucci non nega. A pagina 77 delle 84 pagine di cui si compone il documento l’avvocato Mezzomo interroga Ranucci sul compenso promesso per mettere le mani sul video compromettente. «Lei prima invece ha detto, proprio parlando dell’incontro di Roma, me lo sono appuntato: “che ho capito che erano falsi perché chi vuole soldi porta il materiale, chiedevano solo soldi però non hanno portato i documenti” Ecco, da quello che lei ha detto prima…». «Il documento che ho portato era finto», specifica sul punto Ranucci. «Non si poteva far nulla con quel documento. Quindi se mi aspettavo il video dice che porti a fare documenti finti?», anticipa la domanda Ranucci stesso. «Esatto. «E quindi lei ha spiegato che si poteva fare un’operazione soggettivamente inesistente?».

A questo punto i tempi sono maturi, nell’aula del Tribunale di Verona, per il riesame del Pubblico Ministero che prova a tirare le fila dell’udienza. «Parliamo del sistema di pagamento, sistema maccheronico, non so se l’ha detto lei… Ma era vero questo sistema o era inventato?», domanda. «È vero che l’ho detto». Il Pm: «Ma è falso il metodo». La replica: «È falso che si possa acquistare in questa maniera. Chi conosce un po’ le procedure di acquisti della Rai sa che non è possibile». Peccato che nel “trappolone” tesogli da Sergio Borsato, Ranucci dichiari tutt’altro, mostri dei moduli, insista affinché l’interlocutore li trattenga, li valuti e poi glieli firmi. «Per vedere se il video alla fine c’era o no», insiste l’interrogato.

Proprio ieri il Tribunale del Riesame di Roma ha confermato i sequestri e i domiciliari nei confronti dell’ex capo della Direzione acquisti della Rai, Gianluca Ronchetti, finito agli arresti per le ipotesi di reato di corruzione e turbata libertà degli incanti. Le indagini, coordinate dalla procura di Roma, delegate al Nucleo di Polizia Economico Finanziaria e svolte con la collaborazione della Rai, hanno riguardato alcuni affidamenti senza gara competitiva, nel periodo dal 2014 al 2019. Al contrario di quanto affermato dal conduttore di Report, il sistema degli acquisti di materiali e servizi in Rai, stando alle prime indagini, sarebbe stato in questi anni particolarmente permeabile.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Combattiamo con le nostre armi: l'informazione e la libertà di parola. Sansonetti: “Open organo di Ranucci, nessun passo indietro da parte nostra sul metodo Report”. Redazione su Il Riformista il 22 Febbraio 2022.

In merito alla notizia di Open su un presunto “passo indietro del Riformista sul metodo Report”, interviene il direttore Piero Sansonetti: “Devo dare qualche precisazione sul caso Ranucci perché Ranucci ha pubblicato su Open, che ormai è diventato il suo giornale, la storia che noi avremmo fatto un passo indietro sul caso Ranucci. Nessun passo indietro. Noi abbiamo denunciato con molta precisione i metodi coi quali Report fa il suo lavoro di dossieraggio – tra l’altro lo stesso Ranucci ha dichiarato di averne 78mila, con i quali noi non sappiamo cosa ci faccia perché non siamo esperti -. Noi diamo notizie, informazioni, inchieste, reportage. I dossier li lasciamo fare a quelli che fanno un altro mestiere, e quindi Ranucci faccia bene il suo mestiere che non ho capito qual è. Hanno scritto ‘un passo indietro del Riformista sul caso Ranucci’ perché non sanno il giornalismo cosa è. È arrivata una lettera dell’avvocato di Ranucci e noi l’abbiamo pubblicata, noi diamo la parola a tutti. Non siamo Report.

Report per esempio mi ha intervistato due volte, circa due ore d’intervista per poi mandare in onda una cinquantina di secondi. Noi facciamo parlare tutti quanti. Poi ci sono giornali che titolano ‘Passo indietro del Riformista’, ma quelli non sono esattamente dei giornali ma l’organo di Ranucci, l’organo di Report (Open). Poi Open ha pubblicato la smentita ma non la nostra risposta, mostrando un’apertura mentale notevole. C’è chi il giornalismo pensa che si faccia così.

Non c’è problema, noi continuiamo a fare giornalismo e siccome abbiamo le carte e il video del caso Report-Ranucci. Domani comprate il giornale, troverete altre storie. Come quando Ranucci dice ‘Attenzione che ho un fratello alto papavero della finanza’ o quando dice ‘Io sono lo Stato nello Stato’. La rettifica più che la smentita che abbiamo pubblicato non dice assolutamente niente. Dice che è un documento del 2014, ma l’abbiamo detto duecento volte! Dice che fa parte di un più grande filmato, ma l’abbiamo detto duecento volte! Cosa rettifica? Nulla!

Noi combattiamo con le nostre armi. L’informazione, la libertà di parola, il rifiutare la censura e il far parlare tutti. Ha detto ‘Dovevate pubblicarlo tutto il filmato’, Ranucci ce lo dice? Che quando fa un’intervista ne pubblica si e no il dieci per cento perché decide lui come manipolarla? A me Ranucci fa un po’ ridere“.

Ecco il verbale del processo di Verona. Quando Ranucci disse: “So le cose perché ho un fratello finanziere”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 23 Febbraio 2022. 

È il 31 gennaio 2018 quando Sigfrido Ranucci entra nell’aula B15 del Tribunale di Verona. Nel procedimento intentato contro Tosi, la Corte vuole vederci chiaro. E volendo acclarare tutte le posizioni e lo svolgimento dei fatti sulla vicenda del video hard di cui Report ha provato ad entrare in possesso, sente il popolare conduttore. Compare davanti a due magistrati: il dottor Andrea Filippo Castronuovo e la dottoressa Elisabetta Labate. Il Riformista ha analizzato il verbale dell’intera udienza, “redatto con il sistema della fonoregistrazione e successiva trascrizione”, così come depositato agli atti del processo. Le dichiarazioni del conduttore di Report mostrano clamorose contraddizioni stridenti.

Sigfrido Ranucci non nega, rispondendo ai magistrati, di aver provato a mettere le mani sul presunto video compromettente. Quello che “porrebbe fine alla carriera politica di Tosi”, nelle sue parole. E che peraltro è il sacro Graal di tutta questa vicenda: tutti ne parlano, a Report sospettano che ci sia ma non è mai stato visto da nessuno. O meglio: a posteriori, risulterà inesistente. Ma quando nel 2014 Ranucci lo cerca, è convinto di essere a un passo. “Io stavo preparando una trasmissione sull’amministrazione Tosi, a seguito di… come spesso, anzi sempre accade nelle vicende di Report, vengono delle segnalazioni, erano giunte delle segnalazioni via mail o attraverso dossier anonimi o attraverso contatto di persone che in più occasioni denunciavano delle anomalie nell’amministrazione Tosi”, è la premessa di Ranucci. Che qui, sollecitato dai magistrati, introduce l’oggetto delle sue ricerche: “All’interno di alcuni dossier che erano giunti in redazione, si faceva…”

Il Pubblico Ministero lo interrompe:

“Ma quando dice “dossier giunti in redazione”, cioè erano…”

Se i video di Ranucci erano noti, perché non avete denunciato lo scandalo?

Ranucci:

“Si parla di email, si parla di missive anonime”.

Il Pm vuole capire di cosa si parlasse, nella denuncia anonima.

Ranucci:

“Si trattava di immagini imbarazzanti, riguardavano i gusti sessuali del signor Tosi”.

Ranucci non precisa che la Rai non potrebbe mai mandare in onda filmati riguardanti la sfera privata, intima, sessuale di questo o quel politico. Che in camera da letto non deve entrare la telecamera del servizio pubblico, Ranucci non lo dice. Anzi, spiega di essersi attivato per comprare quelle immagini. Ma come? Il giudice gli chiede se si fosse accordato per un prezzo. È quel che si vede nel video diffuso dal Riformista. Nel verbale da noi acquisito, Ranucci capovolge la situazione, parlando di Sergio Borsato.

Ranucci:

“Poi mi chiese della disponibilità di pagare questo video, perché contrariamente anche a quanto sono stato accusato, io non ho mai, non mi sono mai offerto di pagare… di pagare del denaro, anche perché non potrei farlo”.

E dunque sapeva di non poter offrire denaro della Rai. In aula ha un sussulto formale. Ma di nuovo: non potrebbe neanche acquisire gratuitamente un video girato illegalmente e che viola, una per una, tutte le leggi sul diritto alla privacy. Chi lo interroga vuole capire come proseguì la trattativa sul fronte del pagamento da parte della Rai per quel materiale “proibito”. Ranucci spiega (pag.18 del verbale).

Ranucci:

“Mi richiedono nuovamente i soldi, volevano addirittura che mostrassi dei documenti riguardanti una bozza di contratto, io gli portai documenti falsi ovviamente, dietro c’era addirittura la ricerca di scienze di mia figlia e loro non se sono accorti, ma giusto per portare avanti la trattativa e volere avere la prova dell’esistenza di questo video”.

Noi abbiamo visionato fotogramma per fotogramma due scene riprese dalla telecamera nascosta di Borsato. Ranucci mostra a lungo quelli che chiama “Moduli Rai”, spiega bene come compilarli e poi li lascia nelle mani degli interlocutori, dicendo che potevano leggerli con calma tanto da poter decidere in un secondo tempo se compilarli con nomi di società di comodo. A pagina 23 del verbale con le dichiarazioni di Ranucci si entra nel merito della “manipolazione dell’audio” di cui il vicedirettore di Rai Tre parla insistentemente, da quando il Riformista ha pubblicato i video della telecamera nascosta. Gli incontri tra Ranucci e Borsato sono stati due: il 13 febbraio 2014 alla stazione di Padova, poi il 18 febbraio successivo nell’ormai nota trattoria di Roma, a Trastevere. I video pubblicati dal Riformista riguardano solo l’incontro del 18. Sull’incontro del 13 non abbiamo pubblicato nulla. Scopriamo dai verbali, per bocca di Ranucci, che gli audio che contesta sono esclusivamente riferiti all’incontro del 13.

Ranucci:

“Da una perizia che abbiamo fatto fare in Rai e l’ho fatta fare anche per scrupolo da un perito esterno, emerge una manipolazione e emerge sicuramente che quel file audio, e non se ne capisce il motivo perché se è stato registrato con un Iphone 5 non si capisce perché non è stato posto l’originale ma è stato posto e presentato un file lavorato, risulta compresso per tre volte…”.

In aula lo dicono chiaramente: si parla dell’incontro alla stazione del 13, non dell’incontro del 18 a Roma. Parla il verbale (pag.23)

Pubblico Ministero

“Anche per quello del 18 febbraio riscontra delle anomalie dello stesso tipo…

Ranucci:

No.

Pubblico Ministero:

“Oppure potrebbe essere che magari è una registrazione non venuta bene?”

Ranucci :

“No”.

Assodiamo così incontrovertibilmente che il video messo in rete dal Riformista non è mai stato contestato nella sua integrità, non risulta manipolato e non è stato oggetto di alcuna perizia. Risulta tutto da capire una cosa molto importante. Perché, se per ammissione di Ranucci è un video che non presenta anomalie, lo stesso conduttore ha armato una campagna con la quale– su tutti i social, in tutte le interviste – ha continuato ad affermare il contrario? Diffamandoci in modo evidente. Con l’aiuto di alcune testate giornalistiche che, al pari di Ranucci, ci hanno diffamato. Torniamo alla deposizione. Il teste Ranucci deve adesso rispondere delle affermazioni con cui ha colorito i suoi incontri. In quello avvenuto a Padova avrebbe rassicurato Borsato di ottenere tramite un fratello – che lavora per la Guardia di Finanza – informazioni riservate sulle persone di cui si occupa. È l’avvocato di Tosi che gli fa le domande:

Avvocato di Tosi:

“Lei fa tutta una serie di dichiarazioni che dopo in caso le farò delle specificazioni. Cioè io voglio capire, lei quando dice determinate cose, in tutto, in parte o per niente, bleffa anche? Cioè lei cerca di carpire, di mostrarsi credibile, affidabile a Borsato?”

Ranucci:

“Cerco di mostrarmi credibile e affidabile e a volte dico la verità, a volte dico delle mezze verità per vedere… per non imboccare l’avversario, cioè l’intervistato e capire se può darmi dei contributi. È una tecnica per capire se si ha…”

Avvocato di Tosi:

“Bene. Dice anche delle menzogne, delle cose che non stanno né in cielo e né in terra?”

Ranucci:

Non vere, sì, sì, sì”.

Avvocato di Tosi

“Quando lei dice nell’incontro del 13 febbraio, e vi dico anche le pagine dell’affoliazione per essere… quando lei a pagina 34 dell’affoliazione dice che determinate notizie sull’esito di indagini o sviluppi processuali le acquisisce perché ha un fratello in Guardia di Finanza, lei… è vero intanto che lei ha un fratello in Guardia di Finanza?”

Ranucci

“Sì, è vero, sì, sì”.

Avvocato di Tosi:

“È vero?”

Ranucci: “Sì, sì”.

Avvocato di Tosi:

“Che lei viene a conoscenza di notizie riservate da suo fratello che è in Guardia di Finanza…”

Ranucci :

“È assolutamente falso”.

Avvocato di Tosi:

“È una menzogna”.

Ranucci:

“Sì”.

Avvocato di Tosi:

“Piena al 100 per 100, giusto?”.

A Ranucci non resta che piegarsi: “Sì”.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Il caso Report. La fake di Ranucci: “Il Riformista fa un passo indietro”, ma era una precisazione del suo avvocato…Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Febbraio 2022.  

Ieri abbiamo pubblicato una precisazione che ci è stata inviata dall’avvocato di Ranucci a proposito dei famosi video nei quali lo stesso Ranucci non faceva un gran bella figura. Perché l’abbiamo pubblicata? Perché di solito noi diamo la parola a tutti. Noi non abbiamo mai usato il metodo Report, che in genere ti fa una intervista di 50 minuti e poi sceglie una cinquantina di secondi da mandare in onda, perché pensa che in quei 50 secondi fai brutta figura. E se non trova quei 50 secondi butta l’intervista (a me è capitato 3 volte).

Ranucci ha preso la foto della nostra precisazione e (senza far cenno alla risposta che noi abbiamo fornito all’avvocato) l’ha fatta pubblicare su Open. Open è un giornale on line. E Open l’ha pubblicata (anche Open senza far riferimento alla nostra risposta) col titolo “un passo indietro del Riformista”. Giudicate voi se questo è giornalismo. Noi non ci pronunciamo. Quanto al passo indietro leggete l’articolo che pubblichiamo qui. E poi, domani, leggete anche il seguito…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La rettifica. L’avvocato di Ranucci: “Non esiste un metodo Report, per interpretare correttamente i video del Riformista bisogna guardare la puntata del 2014”. Redazione su Il Riformista il 22 Febbraio 2022. 

Le notizie pubblicate da Il Riformista e il video ad esse collegato, invero diffuso sulla rete da diversi anni, si riferiscono a fatti del 2014, già sottoposti al vaglio dell’autorità giudiziaria, la quale ha ritenuto la condotta del dott. Sigfrido Ranucci del tutto legittima. Il Tribunale di Verona, infatti, con sentenza n.2086/2019, ha affermato che “Il Ranucci, al solo fine di ottenere materiale utile per l’inchiesta, si fingeva disponibile a pagare detta cifra con denaro della RAI ricorrendo a documentazione fiscale di comodo”. La vicenda è stata anche analizzata dalla Commissione Parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi il 1 aprile 2015.

Il video diffuso sul sito web de Il Riformista in data 11/2/2022costituisce un estratto di un più ampio colloquio, il cui contenuto può essere correttamente interpretato solo nel contesto del video mandato in onda nel servizio di inchiesta “L’Arena” della puntata di Report del 7/4/2014 ed accessibile dal link rai.it/programmi/report/inchieste/Larena-a01f73a7-b20f-4909-a6c4. Dalle registrazioni diffuse non emerge alcuna condotta illecita da parte del Dott.Ranucci, il quale stava regolarmente svolgendo la propria attività giornalistica di inchiesta. E dunque non si può in nessun modo parlare di un “metodo Report” o “metodo Ranucci” o di alcun altro metodo illegale ricollegabile al dott.Ranucci e/o alla trasmissione e/o alla Rai”. Avv. Alessio La Pegna

Report, Roberto Brazzale contro Sigfrido Ranucci: "Ingannato e infangato dal loro montaggio". Gianluca Veneziani Libero Quotidiano il 22 febbraio 2022.

Di grane, ultimamente, il conduttore di Report Sigfrido Ranucci ne ha avute parecchie. Ma più di una l'ha creata lui a chi il grana, nel senso del formaggio, lo produce. Come Roberto Brazzale, patron dell'azienda omonima, produttrice del formaggio Gran Moravia, un "grana a marchio di impresa" come lo definisce lui, e oggetto nella puntata del programma dello scorso 3 gennaio di un servizio, completamente destituito di fondamento. Il pezzo di Report provava a suggerire l'idea che l'azienda italiana con caseificio in Repubblica Ceca produca grana non seguendo controlli ineccepibili e metta in commercio forme "anonime" che potrebbero essere inserite, in modo illecito, nelle produzioni di altre aziende con marchio Dop. Uno scoop inesistente, ma montato ad arte per farlo risultare credibile.

Brazzale, in merito a quel servizio lei ha parlato di «mistificazione della realtà, alterazioni delle interviste, omissioni». Cosa l'ha fatta arrabbiare di più?

«Il fatto che noi abbiamo aperto tutte le porte della nostra azienda in totale trasparenza. Poi ci siamo accorti che quel servizio non puntava a far conoscere qualcosa, ma a dimostrare una tesi predefinita, eseguendo dei montaggi tali da alterare il senso delle immagini e delle dichiarazioni. È una tecnica molto sottile pericolosa. Temendola, io ho fatto filmare a mia volta tutte le interviste e poi ho postato tutto il girato, sbugiardando Report. Non mi fidavo e facevo bene».

Nella puntata Ranucci dice che la vostra azienda «produceva Grana Padano con latte straniero», fatto illegale ma falso. Nella puntata successiva il conduttore ha rettificato l'errore...

«Falso assoluto. Ha dovuto rettificare, ma lo ha fatto a modo suo. Con l'aggiunta cioè di un commento sulla nostra trasparenza. Ranucci, probabilmente toccato nel vivo, ha aggiunto "d'altronde i similari confondono i consumatori, hanno confuso anche noi". Altro che confusione: il nostro formaggio ha il sistema di tracciabilità più preciso al mondo. Sulla confezione c'è anche l'etichetta multimediale di origine, grazie a cui si può risalire a tutti i nostri produttori di latte su mappa Google. Affermazioni simili sono prassi di un giornalismo in cui la denigrazione e il sospetto sono usati spudoratamente per massimizzare l'audience».

Nel servizio si suggerisce l'idea che il vostro latte non sia sottoposto a controlli accurati. Dov' è la distorsione?

«Viene riportata solo la dichiarazione dell'allevatore che ricorda come i controlli sul latte vengano fatti dall'acquirente e dall'Associazione degli Allevatori. Ma nel montaggio viene omesso il fatto, dichiarato dopo dall'allevatore, che questa associazione è un organo pubblico di stato e autorevole, istituito presso il ministero dell'Agricoltura ceco. Questa precisazione non è stata montata ovviamente perché avrebbe smentito la tesi di Report».

Il servizio ipotizza anche la possibilità che le vostre forme senza marchio vengano «infilate in altre produzioni», magari usate per produrre grattugiato spacciato per Grana Padano. Falso?

«Ovviamente ed anche ridicolo. In un punto del servizio vengono suggeriti nello spettatore sospetti in ordine ad attività che sono da sempre in Italia normale prassi commerciale. Parte della produzione non viene marchiata appositamente perché destinata a essere commercializzata con i propri loghi da importanti catene commerciali di cui siamo fornitori. La tesi di Report sulle frodi nei formaggi Dop è destituita di fondamento, perché il sistema dei controlli è di una puntualità e una pervasività enormi. Solo chi è in malafede può pensare che avvengano. E infatti quanti casi di frode le risultano negli ultimi anni nel mondo dei grattugiati? Praticamente nessuno, su milioni di forme».

E non è possibile che un altro marchio, ad esempio Grana Padano, venga messo su una vostra forma senza marchio?

«Tecnicamente è impossibile: va impresso al massimo entro il secondo giorno di vita della forma. Dopo, il marchio non si imprime più perché la crosta del formaggio diventa dura. Anzi, la forma nata senza marchio è la più veritiera e onesta, perché non potrà mai averne impresso uno in un secondo momento».

In un commento sul servizio lei ha scritto: «Lo stalinismo è una categoria antropologia che rinasce ogni volta sotto spoglie diverse». Si riferiva all'uso della menzogna?

«È un sistema tipico dei regimi illiberali e totalitari mistificare la realtà, senza rispetto della verità e della dignità del singolo. Che un programma operi travisando la realtà dei fatti a fini di audience non è accettabile mai; se del servizio pubblico impone di reagire».

Qual è stato il danno economico e di immagine subito dalla sua azienda?

«Noi non abbiamo paura di Report, perché la nostra azienda è nota per la sua trasparenza. Però qualsiasi menzogna genera danno: in questo caso è stato colpito l'intero settore».

Che ne pensa delle polemiche che stanno travolgendo ora Ranucci?

«Credo sia responsabilità civica reagire a un uso dello strumento televisivo che usa come metodo deliberato la mistificazione denigratoria».

Report, "video manipolato"? Sigfrido Ranucci, perché la difesa è crollata: un disastroso autogol. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 21 febbraio 2022.

Prima Sigfrido Ranucci, conduttore di Report, definisce "una bufala" il caso del video in cui si vede e si sente il giornalista della televisione pubblica pagata dai cittadini spiegare a qualcuno come farsi remunerare dalla Rai per un servizio farlocco, da mettere insieme con l'aiuto dello stesso Ranucci («Se non avete un girato grezzo su altro da venderci, ve lo do io») a copertura di materiale anonimo che non può finire in contabilità e che interessa i servizi segreti («loro stanno cercando queste cose qua»). Bufala, dice Ranucci, perché quel video sarebbe manipolato e perché non sarebbe inedito, come invece avrebbe sostenuto il Riformista, che l'ha diffuso nei giorni scorsi.

Dopo di che, ma senza spiegare se la presunta manipolazione riguardasse le cose dette e le offerte fatte da Ranucci, e senza spiegare per quale motivo mai la portata di quelle cose debba cambiare per l'ipotesi che non siano inedite (passata la festa, gabbato lo santo, immaginiamo), Ranucci, confidando intanto che la faccenda si perda nel porto delle nebbie di Mamma-Rai, e mentre l'ordine fascista dei giornalisti si gratta la zucca per scovare qualcosa di democratico da opporre allo scandalo, passa la pratica all'avvocato che smonta tutto spiegando che il suo assistito in quel video stava solo bluffando. C'è da credere che affidarsi alla difesa originaria, quella della manipolazione, quella della bufala perché il video non sarebbe inedito, sia stato giudicato non troppo efficace.

A questo punto, chiarito tutto, Ranucci potrebbe fare così. Organizzi una bella puntata su sé stesso, trasmetta nuovamente quel video e nel presentarlo dica: «Cari telespettatori, qui mi si vede mentre insegno come far arrivare alla Rai dossier anonimi, mentre spiego come si costruiscono servizi tarocchi, mentre illustro gli espedienti per farli contabilizzare intestandoli a società di comodo o teste di legno, mentre rassicuro il mio interlocutore offrendogli l'interessamento del comandante dei Ros "collegato con i servizi segreti". Però il mio era tutto un bluff e io, come ha statuito un tribunale della Repubblica, sono un millantatore». Ci puzza che un programma così non lo vedremo. Sarà perché non è inedito. 

Sigfrido Ranucci, scatta la rivolta: "Inguardabile, sei solo fango e gossip". Chi travolge mister Report: si mette male. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022

La credibilità è stata persa sia in alto che in basso. Ora a muoversi contro di lui non solo gli organi di controllo parlamentari, ma è anche la base dei suoi spettatori. La vicenda di Ranucci, dagli sms intimidatori inviati ai membri della Commissione di Vigilanza Rai Andrea Ruggieri e Davide Faraone ai video pubblicati dal Riformista relativi a un tentato acquisto di presunto materiale scottante su Tosi, ha fatto scoppiare il bubbone del sistema Report anche agli occhi di chi lo ama e lo segue. O, meglio, lo amava e seguiva. Sulla pagina Facebook del programma, dove negli ultimi giorni sono comparsi ben sette post dedicati alla questione, fioccano i commenti critici o polemici nei confronti del conduttore, poco propensi a credere alle molteplici versioni con le quali lui ha provato a difendere il proprio operato. Assieme a vari messaggi di sostenitori del modello Report come scudo della democrazia e alle tesi di complottisti (gli attacchi sarebbero frutto di una trama ordita addirittura da Berlusconi e dai «poteri forti»!), sono numerosi gli affondi contro il programma e chi lo conduce. In particolare viene contestato l'ultimo post in cui è riportata la dichiarazione dell'avvocato di Ranucci, Luca Tirapelle. «Sono sconcertato e perplesso dallo scalpore mediatico per un filmato non inedito e già vagliato dall'autorità», avverte Tirapelle, aggiungendo che l'operato di Report «fu definito in sentenza limpido e corretto».

LO SCONCERTO

Ma tanti, tra i follower della pagina di Report, manifestano il proprio disappunto: «Anche chi viene messo sotto inchiesta da una trasmissione tv, magari senza essere colpevole di niente, rimane sconcertato dallo scalpore mediatico», replica Raffaele Innato; «Io sono sconcertato dal vostro modus operandi», ribadisce Simone Fontana; «È lo stesso strumento che spesso usa Ranucci, chi di spada ferisce di spada perisce», fa notare Paola Zara. A contestare i metodi non proprio trasparenti di Ranucci nonché l'intenzione di utilizzare denaro pubblico per procurarsi materiale scabroso ci pensa Massimo Di Cecco: «Il fine giustifica i mezzi ma non parlerei di metodi limpidi. Bisogna essere onesti, perché i soldi della Rai sono i nostri». Metodi che coincidono spesso nel mettere in cattiva luce solo una fazione politica: «Alcuni servizi sembrano essere fatti per screditare alcuni politici e senza una logica di inchiesta», rileva Massimo Luzzatto. Tesi condivisa da Massimo Raineri che si chiede: «Le inchieste di Report sono sempre a senso unico. L'altra parte della politica è casta e pura?».

STRABISMO

A questi strumenti, se confermato quanto risulta dai video del Riformista, si aggiungerebbero presunti legami con gli 007. «Stare in diretto contatto coi servizi segreti è un grande merito giornalistico, come no», scrive Maddalena Di Maio. A deludere molti spettatori di Report è anche la linea difensiva a lungo sostenuta da Ranucci (la manipolazione del video), non confermata da alcuna sentenza. «L'avvocato straparla, il video pubblicato è integro, non tagliato, quindi vedremo chi dovrà risarcire chi», punge Maurizio Raschellà. A proposito del video un altro post di Report suscita contestazioni: «Gli attacchi a Report stanno prendendo la forma di una campagna di delegittimazione al giornalismo di inchiesta della Rai», si legge nel post. Ma sono numerose le obiezioni: «Il video l'ho visto e sentito eccome!», dice Vito Laruccia. «Mi fa ben capire come vengono costruiti certi dossier. No grazie, faccio a meno di Ranucci e di Report e di tutta la Rai scialacquona»; «Quanti estimatori di Report non sarebbero tali se sapessero gli scandali che stanno investendo questo programma di puro gossip», sottolinea Mario Famà. E Walter Rizzo aggiunge: «Mi piacerebbe che le inchieste di Report non soffrissero di torcicollo e si orientassero anche dall'altra parte!». Né è chiaro perché Ranucci usi la pagina di Report per portare avanti la sua difesa personale, in un intreccio di destini tra sé e il programma. «Lui si deve difendere dal suo profilo Fb, se ne è capace. Non può farsi scudo dalla testata o dalla Rai», sostiene Francesco Pititto. Ma la migliore sintesi la fa Alessandro Marcolin annotando: «Da un pezzo Report è diventata inguardabile». E chissà che non diventi inguardabile al punto che alla ripresa del programma, in primavera, per poterla guardare se ne dovrà cambiare giocoforza il conduttore.

Sigfrido Ranucci, Report e il dossieraggio. Alessandro Sallusti: otto domande a Rai, toghe e servizi segreti. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 14 febbraio 2022.

Può la Rai, televisione di Stato, con il suo silenzio diventare complice di una possibile truffa e di un meccanismo illegale ai danni del mondo politico e imprenditoriale del paese? Questa è la prima di una serie di domande che oggi poniamo sullo scandalo che sta emergendo riguardo la trasmissione Report e il suo conduttore Sigfrido Ranucci dopo che si sono scoperti i metodi discutibili con cui il conduttore di RaiTre confeziona le sue inchieste.

Seconda domanda. Ranucci in un video registrato a sua insaputa spiega al suo interlocutore che Report è uso comperare servizi inutili per giustificare altro tipo di spese. In altre parole parliamo di falsa fatturazione, reato che, essendo commesso da un ente pubblico, comporta anche quello di danno erariale di cui devono rispondere in solido gli amministratori. Che cosa aspetta la Corte dei conti, essendo la notizia nota, a fare gli accertamenti del caso?

Terza domanda. Quello che è emerso ipotizza un uso personale e deviato del servizio pubblico. Perché l'azionista di maggioranza della Rai, nelle persone del presidente del consiglio Mario Draghi e del ministro dell'Economia Daniele Franco, non avviano i necessari accertamenti?

Quarta domanda. L'Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai, famoso per la sua intransigenza sulle regole deontologiche, nulla ha da dire su un loro collega, Ranucci, che prova a comperare con triangolazioni illecite dossier su la vita privata di un politico?

Quinta domanda. La stampa italiana e l'informazione televisiva si guardano bene dal raccontare e indagare questo caso di grave disservizio pubblico. Possibile che qualche direttore e qualche editore siano stati oggetto di dossieraggio e quindi si sentano oggi sotto ricatto?

Sesta domanda. Perché il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, presieduto oggi da Adolfo Urso, non accerta se sono le vere le notizie secondo le quali uomini dei nostri servizi hanno collaborato con la trasmissione Report nel confezionare dossier su deputati e senatori oltre che su aziende strategiche dello Stato?

Settima domanda. Perché i politici del Centrodestra sembrano non voler battersi per fare chiarezza? Che cosa temono, che cosa sanno?

Ottava e ultima domanda: perché Report va ancora in onda come se nulla fosse?

Sigfrido Ranucci, Flavio Tosi e il "filmino a luci rosse": "Così mi sono difeso da lui e da Report". Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 14 febbraio 2022.

«Un mio filmino a luci rosse? Non si pone il problema perché non esiste e non è mai esistito». E poi, diciamolo Flavio Tosi, ex sindaco di Verona: mostrare in prima serata sulla Rai un filmino hard per infangare un politico non sarebbe stato un gran servizio pubblico... «Ma infatti Report voleva partire da quello per parlare d'altro e infilarci l'ndrangheta e io non sono mai stato in vita mia indagato o processato per qualche fatto vicino o attinente l'ndrangheta. Mai in trent' anni di attività politica. Eppure loro hanno mandato in onda lo stesso quella puntata sulle infiltrazioni mafiose nel mio Comune. Per questo ero furibondo».

Andiamo con ordine. Era il 2014 e lei era il sindaco di Verona. Come apprende che Report stava lavorando su di lei?

«All'epoca in Lega c'erano due fazioni: i bossiani e i maroniani. Io non ero bossiano. Sergio Borsato era un bossiano di provata fede, non avevo con lui alcun rapporto, però ero segretario della Lega e un giorno mi contattò per dirmi: "guarda che stanno facendo una cosa schifosa contro dite". E me la venne a spiegare».

Le parlò del dossier che sarebbe finito sulla tv di Stato?

«Sì. Ma visto che io mi fidavo zero, considerato che lui era uno che stava dall'altra parte della barricata, gli ho detto: ho bisogno di prove. E lui mi ha portato il video in cui Ranucci parla del servizio che aveva intenzione di mandare in onda su di me e la mia amministrazione. E i video sono lapalissiani: inequivocabili».

A quel punto scatta la denuncia.

«Sono andato in procura con i video e ho detto: Ranucci sta costruendo una trasmissione per sputtanarmi».

Non ha mai pensato che quei video potessero essere stati manipolati?

«Li hanno visionati anche le forze dell'ordine, la procura della Repubblica. Non sono falsi. Rispetto a quello che ha pubblicato Il Riformista il girato è più lungo e riguarda un pranzo di un'ora tra Ranucci e Borsato. È indubbio che sia Ranucci a parlare».

Eppure è lei, poi, ad essere querelato dallo stesso Ranucci. C'è una sentenza del tribunale di Verona...

«Sì, ma io la querela me la prendo non certo per i video, ma perché ero talmente incazzato per il trattamento subìto, fra l'altro in un momento politico delicato, che ho esternato pubblicamente tutta la mia rabbia contro Report».

Lei è stato assolto dal reato di calunnia, ma condannato in primo grado per diffamazione (per tre episodi su cinque che Ranucci le contestava). Com' è finita?

«Ho transato. Volevo chiuderla lì. Difficilmente in Italia vinci una causa contro un giornalista di sinistra. Dal punto di vista giudiziario per me la questione è morta. Premetto che io sono una persona che non si arrabbia mai. Ma dopo la puntata in cui Report accostava Verona, la mia amministrazione, alla criminalità, ho reagito. Ho convocato la stampa e ho detto: sono delle m.... Questo giornalismo mi fa schifo».

Lo pensa ancora?

«Se uno guarda quella trasmissione con gli occhi di chi viene infamato pubblicamente, credo faccia fatica a reagire diversamente. Penso che la Rai debba interrogarsi su certe condotte».

Allora, nel 2014, questa vicenda le ha nuociuto politicamente?

§«Non nascondo che i primi mesi è stata dura. Se sulla Rai mandano un servizio con la tua faccia e parlano di 'ndrangheta, chi non ti conosce bene può pensare che qualcosa sia vero. Certo che ha nuociuto».

In primavera si vota a Verona, il suo feudo. Lei ci riprova? «Certo. Sono un civico, ho la mia lista che è sempre arrivata prima a tutte le elezioni, e in questo momento ho un dialogo costruttivo anche con Forza Italia»

Dossier e 007, Ranucci nel mirino della Rai. Felice Manti il 13 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il sospetto di frode ai danni della tv di Stato per le fatture false agli informatori. Iv: "Pagina indegna per il servizio pubblico".

«Quello che dice Sigfrido Ranucci nel video pubblicato dal Riformista... I messaggini di minacce ai politici... chiunque altro sarebbe stato cacciato dalla Rai, radiato dall'Ordine e indagato per truffa, peculato e danno erariale». Questo dicono off the record tutti i colleghi contattati dal Giornale. Molti ex giornalisti di Report si negano, e si capisce anche perché... Nessuna manipolazione, però, come Ranucci aveva fatto capire. A dirlo è lo stesso conduttore al Fatto quotidiano di ieri. «Il video è agli atti (dell'inchiesta sul dossieraggio, ndr), con tutta la trascrizione». In quei giorni del 2014 si parlava di un filmino hard che ricatta l'ex sindaco di Verona Flavio Tosi. «Mi dicono che ce l'hanno, gli faccio credere che lo voglio comprare, gli vado dietro per verificare, come ha scritto il giudice, le informazioni che avevamo». Tanto paga Viale Mazzini, ovviamente. «Report non fattura, a fatturare è la Rai che controlla tutto». Eppure qualcosa passa, c'è un metodo. I servizi girati da ignoti che il conduttore si farebbe spedire (anche da solo) in plichi anonimi vengono pagati con fatture false a prestanome, il tutto per coprire il dossieraggio. Non fondi neri ma soldi veri che la Rai paga perché entrano «tanto diecimila cose» e nessuno controlla. Una frode per la tv di Stato, che sarebbe raggirata da un suo dipendente. Se ci fosse davvero un danno erariale, oltre a Ranucci ne risponderebbero l'amministratore delegato e il Cda. C'è un magistrato della Corte dei Conti che vigila perché non succeda o non sia mai successo? È questo il metodo Report? «Quale altra azienda al mondo tollererebbe una cosa simile? Toc toc Carlo Fuortes. C'è qualcuno in Rai che vuole dire qualcosa su questa pagina indegna per il servizio pubblico?», si chiede Luciano Nobili di Italia viva.

E i suoi rapporti disinvolti con i servizi segreti? Tutto normale? In teoria certe ingerenze sono vietate per legge e sono già costate il tesserino a diversi giornalisti. È ancora tutta da verificare l'ipotesi che i servizi segreti siano veramente interessati a dossieraggi o video ricattatori di dubbia provenienza, come lui fa capire. Mettiamo anche che Ranucci lo ha detto per ingannare i suoi interlocutori. Sapeva di essere registrato a sua insaputa? Milena Gabanelli, che al tempo era responsabile della trasmissione (Ranucci lo è dal 2016) era d'accordo o non sapeva? «O lui la ha tenuta all'oscuro oppure lo ha avallato. E questo potrebbe giustificare la difesa a oltranza e alla cieca della Gabanelli, che comunque sia ne esce malissimo», si lascia sfuggire con il Giornale un giornalista che conosce tutta la vicenda. Pare lo sapesse anche l'allora dg Rai Luigi Gubitosi, chiamato in causa da Ranucci sul Fatto: «Disse che l'attacco meritava risposta».

Se ne (ri)occuperà l'Internal Audit Rai, già aperto su indicazione della Vigilanza Rai, in cui si discuterà anche dei messaggini con minacce e insulti inviati da Ranucci ai consiglieri Andrea Ruggieri di Forza Italia e Davide Faraone di Italia viva dopo l'uscita del dossier che parlava di giornaliste consenzienti coinvolte in rapporti intimi e di altre colleghe che si sono sentite mobbizzate dal conduttore di Report, circostanza questa in parte confermata da Ranucci. Contattato dal Giornale, né l'audit né l'entourage dell'ad Carlo Fuortes rispondono «Mi colpisce che nessun politico parli al Copasir delle minacce ad eletti. Temete i dossier?», scrive su Twitter Guido Crosetto. Non bastava il caso di Elisabetta Belloni, capo del Dis tirata per la giacchetta nella corsa al Quirinale. È normale che i servizi segreti vengano oltraggiati così, tirati in ballo in oscure trame, ridotti al rango di confidenti se non complici di giochi di potere? Nessuno ha niente da dire alla Vigilanza? Felice Manti 

La Rai insabbia lo scandalo "Report". La Vigilanza all'ad Fuortes: ora risposte. Felice Manti il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale. 

Bocche cucite ai vertici di Viale Mazzini dopo le rivelazioni sui metodi del programma. Ranucci minaccia: "Vi querelo".

Rabbia, stupore e indignazione. Secondo quanto trapela, in commissione di Vigilanza Rai sono furiosi con i vertici della Rai, per nulla intenzionati a difendere l'azienda dall'ipotetica frode con tanto di danno erariale che un suo dipendente, Sigfrido Ranucci, avrebbe potuto imbastire a loro danno. Per capire se davvero Report è una «centrale di dossieraggi anonimi, una macchina del fango sospinta dal suo conduttore», come sostiene il renziano Davide Faraone, la Vigilanza Rai ha una sola strada: sfruttare il ruolo giurisdizionale riconosciuto all'organismo parlamentare e ricostruire la vicenda con una serie di audizioni di tutti i soggetti chiamati in causa, per evitare che la storiaccia venga insabbiata per sempre. Non è escluso che il suo presidente Alberto Barachini di Forza Italia ci stia pensando. Come dire, «la Rai ci deve delle risposte». Bocche cucite invece dall'entourage dell'amministratore delegato Carlo Fuortes, chiamato in causa da Michele Anzaldi (Italia viva): «Prima che se ne occupi la Corte dei Conti, che vigila sulla Rai con un magistrato appositamente delegato, Fuortes deve chiedere subito all'audit di includere anche questo video». L'istruttoria in Vigilanza è stata aperta ufficialmente con il deposito dei messaggini minatori e minacciosi con i quali il «vigilato» Ranucci apostrofa come «mer...» i suoi controllori e ipotizza 78mila segnalazioni arrivate sulla sua scrivania, che dice di avere cestinato. Chissà quante di queste «segnalazioni» potrebbero aver seguito la strada che Ranucci ha tracciato durante la cena con gli emissari della Lega che nel 2014 volevano sputtanare l'ex sindaco di Verona Flavio Tosi, quando racconta di un vorticoso e rodato meccanismo fatto di fatture false a prestanome compiacenti per rifilare alla Rai materiale scadente e farsi pagare video raccattati per inguaiare qualche politico.

C'è anche un danno reputazionale per la tv di Stato. «Sono reati gravi - dice il direttore di Tgcom24 Paolo Liguori - fatti con il denaro del contribuente e a danno dell'opinione pubblica, ma soprattutto degli spettatori di Report e della Rai di cui Ranucci sarebbe un dirigente». Ovviamente il vicedirettore Rai non è a suo agio dall'altra parte della barricata, e minaccia di portare anche il Giornale in tribunale: «Mi spiace che hai scritto una cazz... Sarò costretto a querelarti, anche perché sapevi come si era chiuso audit». Già, come si è chiuso? Ranucci sa meglio di noi che le gradazioni dell'audit sono quattro: verde, giallo, arancione e rosso. Solo Fuortes sa il colore del cartellino sventolato al conduttore di Report. Non è rosso ma non sarà neanche verde, perché come si legge nel dossier scoperto dall'azzurro Andrea Ruggieri una collega che per 22 anni ha lavorato a Report è stata allontanata dopo essere stata a suo dire vittima di mobbing. Reato difficile da dimostrare, e chi ne è vittima lo sa. Abbiamo invitato Ranucci a replicare alle «cazz...», lui insiste che «il dossier anonimo è falso, lui non ha comprato video da alcun latitante e quei file sono parziali» mentre fa invadere i social con una serie di post fotocopia (con parole chiave come #Bufale #delegittimazione #dossieraggio #macchinadelfango) contro i nostri articoli e il Riformista, reo di aver riesumato un video vecchio, non manipolato e sostanzialmente inedito che rivela la sua disinvoltura nel procurarsi materiale di provenienza discutibile, facendosi scudo dei suoi rapporti con i nostri servizi segreti. «Tosi aveva ordinato ai suoi di registrarmi nel tentativo di bloccare un'inchiesta su di lui per i suoi rapporti con la 'ndrangheta - sostiene Ranucci su Facebook - depositò i nastri in Procura e mi denunciò per dossieraggio e fondi neri, dalle quali io fui archiviato e Tosi condannato in primo grado per diffamazione». Felice Manti

Report, Forza Italia: il caso Ranucci è inquietante. In campo Copasir e Corte dei conti. Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.

Le accuse dei membri di Vigilanza “azzurri” si allargano alle procedure con cui la trasmissione guidata da Sigfrido Ranucci acquisisce il materiale anonimo e al possesso di dossier su uomini politici. E in Commissione saranno chiamati i manager Rai.  

Il Copasir e la Corte dei Conti. Sono questi i due nuovi destinatari dell’offensiva che Forza Italia sta mettendo a punto contro Sigfrido Ranucci, conduttore di Report e vicedirettore di Rai3 e Approfondimenti, finito nelle polemiche per i messaggi inviati a due membri della commissione di Vigilanza Rai, Andrea Ruggieri (Forza Italia) e Davide Faraone (Italia Viva) definiti “insultanti” e “minacciosi”. Messaggi in cui il giornalista commentava il fatto che i due parlamentari avevano reso nota in Vigilanza una lettera anonima con accuse di molestie sessuali e mobbing contro di lui, giudicate poi infondate da un audit interno della Rai.

Il video sulle fonti

Ora che un altro audit è stato disposto dall’amministratore delegato Rai, Carlo Fuortes, sulle nuove accuse a Ranucci, Forza Italia, forse immaginandone anche i tempi lunghi, alza il tiro e ne chiede un’integrazione. Ieri i commissari forzisti Paolo Barelli, Maria Alessandra Gallone, Maurizio Gasparri, Patrizia Marrocco, Andrea Ruggieri e Renato Schifani hanno scritto ai vertici Rai chiedendo conto questa volta del video pubblicato da Il Riformista che susciterebbe «interrogativi inquietanti sulle modalità con le quali il conduttore di Report acquisirebbe il materiale delle sue inchieste. In sostanza - si scrive - apparirebbe una modalità consolidata quella di concordare l’invio di materiale anonimo da parte di sconosciuti (coperti da società di comodo o prestanome) a fronte di un contemporaneo invio di materiali inutili e inutilizzabili pagati dalla Rai con una fatturazione, per così dire, quantomeno fantasiosa se non fittizia».

L’inchiesta sui danni

Fin qui quanto richiesto all’azienda, ma il vero obiettivo dell’offensiva è il coinvolgimento della Corte dei Conti. Il presidente della Vigilanza, Alberto Barachini (FI), in particolare sarebbe preoccupato dell’eventuale danno erariale subito dalla Rai per le procedure seguite da Ranucci per l’acquisto del materiale video. Per istruire questo dossier la stessa commissione di Vigilanza potrebbe avviare una serie di audizioni riservate al management Rai: a partire dal responsabile degli acquisti, per proseguire con il capo della Finanza e lo stesso Fuortes.

Il capitolo dei dossier

Ma non finisce qui. Gli esponenti azzurri, guidati in Vigilanza da Barachini, sollevano interrogativi anche sui dossier di cui Ranucci, nei messaggi inviati, dice di essere in possesso, dossier anche su personaggi politici come Silvio Berlusconi e gli esponenti di Italia Viva, con allusioni a materiale anonimo in cui emergerebbe l’uso di droghe. Materiale che Ranucci dice di aver cestinato. Sull’opportunità che un giornalista del servizio pubblico gestisca tali dossier sarebbe stato interessato il Copasir, (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, ndr), presieduto da Adolfo Urso (FdI).

In coda resta, come si è detto, l’audit interno Rai appena avviato. Sul punto Forza Italia si aspetta che i messaggi inviati da Ranucci non vengano considerati “privati” ma che ne venga dichiarata l’incompatibilità con il ruolo ricoperto da Ranucci in Rai.

Ranucci ancora nei guai: un video tira in ballo gli 007. Felice Manti il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il conduttore Rai vanta rapporti coi servizi. Tema sotto i riflettori della Vigilanza Rai.

«I servizi segreti vogliono certi dossier». Un nuovo video del Riformista inguaia ancora il conduttore di Report Sigfrido Ranucci. E Forza Italia porta il caso in Parlamento. Lo avevamo anticipato noi del Giornale, nel video sostanzialmente inedito pubblicato ieri dal Riformista, non manipolato per stessa ammissione di Ranucci («È tutto trascritto, è agli atti», ha detto nei giorni scorsi al Fatto quotidiano) il vicedirettore della Rai parla a ruota libera di rapporti disinvolti con i servizi segreti e dice ai suoi interlocutori - due emissari mai visti prima, che lo stanno registrando mentre si propongono di vendergli un presunto video hard che inguaierebbe l'allora sindaco di Verona Flavio Tosi - di un interesse dei servizi segreti per questo genere di materiale compromettente.

Poi millanta rapporti strettissimi con un famigerato «capocentro dei Ros con 12 anni di esperienza in Calabria» a un suo interlocutore che sostiene di avere qualche problema con la giustizia. Possibile che i nostri 007 siano interessati a fare dossieraggio? Bisognerebbe chiederlo a Ranucci, che ogni giorno che passa cambia versione sull'episodio imbarazzante.

La Rai intanto fa spallucce. Ma ieri, con una lettera aperta all'amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes e alla presidente Marinella Soldi, i deputati azzurri Rai Paolo Barelli, Patrizia Marrocco e Andrea Ruggeri e i senatori Maria Alessandra Gallone, Maurizio Gasparri e Renato Schifani in Vigilanza Rai chiedono a Viale Mazzini di rispondere agli «inquietanti interrogativi» che suscitano le «modalità consolidate» con cui «il conduttore di Report acquisirebbe il materiale delle sue inchieste. Concordare l'invio di materiale anonimo da parte di sconosciuti (coperti da società di comodo o prestanome) a fronte di un contemporaneo invio di materiali inutili e inutilizzabili pagati dalla Rai con una fatturazione, per così dire, quantomeno fantasiosa se non fittizia».

Un vero e proprio falso in danno di un'azienda di Stato. E anche se fossero millanterie, come dice Ranucci, financo già archiviate nell'inchiesta aperta da due Procure sul dossieraggio, la questione solleva comunque «inquietanti interrogativi: i contribuenti pagherebbero con il canone l'acquisto di materiali inutili forniti dal compratore con una evidente partita di giro? E ancora, se così fosse - scrivono i parlamentari di Forza Italia - come sarebbero verificati e vagliati i materiali anonimi se nessuno ne conosce la provenienza e non è tracciabile chi li ha realizzati e con quali modalità?». Quanti dei servizi di Report potrebbero essere nati così?

La mente torna al recente video in cui l'ex premier Matteo Renzi è stato pizzicato all'autogrill di Fiano Romano con lo 007 Marco Mancini, oggi a riposo. Secondo Ranucci a registrare di nascosto l'incontro sarebbe stata un'insegnante. Una spiegazione che non convince, a maggior ragione oggi che Ranucci negli sms minacciosi a Ruggieri di Forza Italia e Davide Faraone di Italia viva (sotto esame della Vigilanza e dell'Internal audit Rai aperto nei giorni scorsi) preconizza l'esistenza fantomatici dossier («78mila segnalazioni») di cui sarebbe stato in possesso e al tempo stesso millanta presunti legami con 007 e servizi segreti che in teoria contrastano con il ruolo del servizio pubblico e con la deontologia professionale. Un tema particolarmente attenzionato dal presidente della Commissione di vigilanza Rai Alberto Barachini. Anche perché cosa succederebbe se la Rai decidesse di vagliare, fotogramma per fotogramma, fattura per fattura, tutti i servizi di Report? Felice Manti

Report, scacco matto a Sigfrido Ranucci: se anche quel video fosse manipolato... la domanda a cui non risponde. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 15 febbraio 2022

Dunque, c'è questo video in cui Sigfrido Ranucci, vicedirettore di Raitre e conduttore di Report, illustra a un suo interlocutore il modo sicuro per far arrivare alla Rai, in forma anonima, un dossier scottante destinato a screditare un personaggio pubblico. Problema: il fornitore di quella roba vuole i soldi, ma mica la si può pagare ufficialmente. E allora come si fa? Si fa che quello mette insieme del materiale che non c'entra niente, tipo un reportage sulla Calabria, glielo ammolla alla Rai facendo finta che provenga da una società di comodo o da qualche testa di legno e lui, Ranucci, lo valuta e dà il benestare: quelli prendono i soldi per una cosa posticcia e intanto quella vera, la roba che scotta, arriva sottobanco e resta in forma anonima pronta per l'uso che ne farà questo bel giornalismo investigativo. Roba seria. 

L'altro giorno, intervistato dal Corriere della Sera, Sigfrido Ranucci aveva dichiarato: «Noi i dossier anonimi li cestiniamo». Il Corriere - mannaggia - deve aver dimenticato di richiamarlo, dopo l'uscita del video, per domandargli se alla Rai li cestinano proprio tutti, quei dossier, o se alcuni invece si salvano: per esempio i dossier anonimi che commissionano loro. Vabbè, lo domandiamo noi, alla Rai e a Ranucci, il quale sostiene che quel video è manipolato: è stato sì o no richiesto a qualcuno (il tipo che parla con Ranucci), di spedire roba anonima alla televisione pubblica, con la promessa di pagargli, coi soldi dei contribuenti, materiale fasullo per giustificare l'operazione?

Perché qui, come si dice, delle due, l'una: o la manipolazione di cui si lamenta Ranucci riguarda questa circostanza, e allora lo deve provare (e finora non l'ha fatto), oppure quel video può essere manipolato quanto si vuole ma quella parte c'è, e rivela un fatto che definire scandaloso è poco. Il solito clan del giornalismo coi fiocchi, presidiato dall'ordine fascista dei giornalisti e attorniato dal buon giro dell'impegno democratico, si è mobilitato con solerzia per esprimere sentitissima solidarietà a Ranucci. E va bene, per carità. Ma solidarietà per cosa? Perché è falso ciò che gli si imputa o perché alla televisione pubblica va bene raccogliere dossier anonimi pagando il fornitore per prestazioni farlocche? Siamo creditori di risposte. Da Ranucci, dai sodali e dai solidali.

Report, gola profonda in Rai: "Chi c'è dietro al programma e chi difende Sigfrido Ranucci", l'ultima bomba. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 14 febbraio 2022

Il re Ranucci è impunito ma è anche nudo. Il conduttore della trasmissione Report, finito nell'occhio del ciclone prima per la vicenda sms intimidatori destinati al membro della Commissione di Vigilanza Rai Andrea Ruggieri e poi per la pubblicazione sul Riformista di video relativi a un tentativo di acquisto molto poco trasparente di presunti dossier sull'ex sindaco di Verona Flavio Tosi, beneficia tuttora di silenzi, inazioni e titubanze da parte di una grossa fetta della politica, della Corte dei Conti e di gran parte della stampa. Ma soprattutto gode di una tutela, esagerata e incomprensibile, da parte dei vertici Rai. Ad attaccare Ranucci ci sono Lega, Forza Italia e renziani e i giornali di centrodestra.

Come ci rivela una fonte di viale Mazzini, «l'impressione è che ci sia un'impunità di Report all'interno della Rai, come se si trattasse di una repubblica autonoma. I direttori di rete hanno una responsabilità editoriale sui prodotti. Finché a guidare Raitre c'era Stefano Coletta, il controllo editoriale sul prodotto Report c'era ancora. Da quando c'è Franco Di Mare, assistiamo a una specie di autogestione del programma. Questo andazzo ha accresciuto la convinzione di Ranucci & Co. di essere liberi di fare ciò che vogliono, tanto nessuno può dire loro nulla. E chi lo fa finisce per subire una campagna di fango, con tanto di accuse di essere contro il giornalismo libero».

Tale dinamica è confermata dall'atteggiamento docile dell'ad di viale Mazzini Carlo Fuortes nel gestire la vicenda Ranucci. «In Rai», ci dice la nostra fonte, «esiste un codice etico applicato in passato per episodi molto meno gravi. In tal caso invece non solo Ranucci non è stato sospeso in via cautelativa dagli incarichi, ma addirittura il giorno seguente all'esplodere del caso sms è stato nominato da Fuortes vicedirettore ad personam della Direzione Approfondimento, con delega al proprio stesso programma». Né Fuortes si è premurato di sospendere la sua nomina quando la vicenda Ranucci si è ingigantita, o di attendere almeno l'audit, ossia l'inchiesta interna che si svolgerà nei prossimi giorni.

Certo, i mancati controlli e le mancate sanzioni per i contenuti di Report non sono cosa del tutto nuova. Nell'ottobre 2019 la trasmissione di Raitre dedicò un'intera punta ta ai presunti finanziamenti russi alla Lega, mandandola in onda pochi giorni prima dell'elezioni regionali in Umbria (poi stravinte dal centrodestra). Le obiezioni su una presunta violazione della par condicio, emerse all'interno dell'allora cda Rai, non venne ro raccolte né dal direttore di rete (era Coletta) né dall'Agcom che, continua la fonte, «sarebbe dovuta intervenire ma si guardò bene dal farlo». Questa indolenza significa legittimare il sistema di "in chiesta" di Report, fondato non solo su fonti discutibili e presunti . dossier, ma an che su consulenze faziose, «come quella di Orlowski, presentato come un esperto di database e social, in realtà hater ideologicamente schierato contro Meloni e Salvini». 

Le «coperture», come le chiama la nostra fonte, di cui gode il conduttore di Report fanno capo anche all'Ordine dei giornalisti che «dovrebbe aprire una pratica disciplinare sulla vicenda Ranucci, essendo quello degli sms un fatto comprovato e gravissimo. E invece sta fermo». E poi c'è una difesa corporativa da parte di molti organi di stampa che tacciono confermando che «un certo giornalismo tende ad autoproteggersi». E le omissioni della sinistra, che non si espone innanzitutto perché «è in imbarazzo (ha vezzeggiato per anni quel tipo di giornalismo, coltivando per anni la bestia, prima di accorgersi che la bestia le sfuggiva di mano) e poi perché criticare Report significherebbe criticare i vertici Rai che sono quasi tutti schierati a sinistra e mettere in discussione l'operato di Fuortes».

Eppure, riconosce la nostra fonte, anche un pezzo del mondo progressista ha cominciato a scaricarlo: «A differenza del passato, la sinistra stavolta non si espone più troppo per difendere Ranucci. Se lo difende, lo fa con grande timidezza. È la conferma che il re ora è nudo e che certi personaggi del giornalismo a teorema, più che di inchiesta, considerati dei miti poi si rivelano dei giganti di carta». 

Report e il caso Ranucci, la Corte dei conti in campo. Avviata un’istruttoria sulle fatture. Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2022.

La Corte dei conti apre un fascicolo istruttorio sul caso delle presunte fatture fittizie della trasmissione Report. Il riferimento è a un’inchiesta sul conduttore Sigfrido Ranucci, datata 2014, chiusasi nel 2019 con la sua assoluzione. Il giornalista era stato accusato dall’ex sindaco di Verona, Flavio Tosi, di aver comprato dossier anonimi per costruire un’inchiesta contro di lui, emettendo false fatture. La sentenza che chiuse il caso tra l’altro recita: «Il Ranucci, al solo fine di ottenere materiale utile per l’inchiesta, si fingeva disponibile a pagare detta cifra con denaro della Rai ricorrendo a documentazione fiscale di comodo». Ranucci su Facebook ricorda che da quell’inchiesta «scaturirono diciannove tra querele e richieste di risarcimento». Per i giudici, il comportamento del giornalista sarebbe corretto, sottolinea in una nota il consigliere di amministrazione Rai Riccardo Laganà.

Il ruolo dei dossier

Intanto però si moltiplicano gli enti che dovranno valutare la condotta di Ranucci. In campo c’è già la commissione di Vigilanza Rai, il cui presidente Alberto Barachini, ieri ha rivolto una richiesta di chiarimenti ai vertici dell’azienda, dopo che, nella scorsa riunione di commissione, è emerso uno scambio di messaggi tra Ranucci e due commissari in cui sarebbero volate accuse e parole grosse da parte del primo. Lo stesso Barachini ha voluto informare degli ultimi avvenimenti i presidenti di Camera e Senato. Infine ieri il Copasir, la commissione parlamentare per la sicurezza della Repubblica, ha ascoltato uno dei due commissari coinvolti: Andrea Ruggieri (FI) sui dossier, di cui avrebbe parlato Ranucci nei messaggi, relativi a esponenti politici.

Scontro M5S-FdI

L’audizione ha anche prodotto uno scontro ieri nell’Ufficio di presidenza della Vigilanza tra il senatore del M5S, Primo Di Nicola, e la capogruppo di Fratelli d’Italia, Daniela Santanché. Il primo si è domandato «se la commissione di Vigilanza stesse operando correttamente sul caso Ranucci e se questo caso stesse rimbalzando sempre in maniera corretta dalla commissione di Vigilanza al Copasir». Santanché ha replicato che «non è prerogativa di noi commissari di Vigilanza Rai giudicare l’operato di un’altra Commissione».

Audizioni in arrivo

Intanto Barachini ha inviato una lettera anche alla presidente e all’amministratore delegato della Rai, Marinella Soldi e Carlo Fuortes, in cui chiede che la Vigilanza venga «costantemente e tempestivamente aggiornata circa l’apertura, gli sviluppi e gli esiti puntuali derivanti dall’Audit, con l’ulteriore richiesta di precisare l’oggetto specifico su cui le procedure di verifica interna si sono concentrate». Inoltre sono state richieste «in tempi solleciti» ulteriori audizioni dei vertici Rai. Con una nota ieri viale Mazzini ha subito offerto «piena collaborazione da parte della Rai» poiché «è nel pieno interesse dell’azienda fornire tutte le informazioni». Ma sul punto è intervenuto anche il deputato Luciano Nobili (Italia Viva) attaccando i vertici Rai perché intervengano senza perdere altro tempo: «Fino a quando pensano di poter nascondere la testa sotto la sabbia?».

Le ombre sul metodo Report. Metodo Report, la Corte dei Conti indaga su Sigfrido Ranucci e le false fatture. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 17 Febbraio 2022 

«Avete scoperchiato il vaso di Pandora». La mail che una giornalista Rai manda al Riformista a metà mattinata riassume bene il momento topico dell’inchiesta. La Procura regionale della Corte dei Conti per il Lazio, guidata dal presidente Pio Silvestri, ha aperto un fascicolo istruttorio sul caso delle presunte fatture fittizie della trasmissione Report. Si tratta di capire come e quanto la magistratura contabile deciderà di affondare la sonda e se riscontrerà rispondenza speculare tra fatture approvate dalla Rai e puntuali messe in onda dei servizi corrispondenti: una congruenza dare/avere effettiva, sostanziale e non solo sulla carta.

Fonti interne ci incoraggiano a andare avanti. La trasmissione ha fatto ricorso più volte al metodo di cui Ranucci dà conto alla telecamera nascosta? Andando a ritroso, il 3 maggio 2021, ecco Ranucci presentare i 40 minuti di quel video prodotto in Autogrill da una “fonte anonima”: l’incontro tra Matteo Renzi e lo 007 Marco Mancini di cui successivamente dipingerà un sommario identikit (“È una professoressa”). Una versione che non ha mai convinto tutti. Dietro c’era anche in quel caso una mano amica? Adesso starà alle verifiche contabili e amministrative valutare una serie di elementi sulle ditte coinvolte. Nel caso dei video della telecamera nascosta, i finti fornitori di servizi video non risultavano registrati sull’albo fornitori Rai, né Ranucci gliene fa menzione. Chiede loro di compilare un modulo e niente di più, premurandosi solo di domandare: «Voi fate anche cose legali, no?».

Sui social Ranucci prova a rialzare la cortina fumogena. Ieri è tornato a dire: “Fatti vecchi, archiviati”. Ma la Rai non segue Ranucci sulla linea della difesa a oltranza. «A seguito della richiesta di aggiornamenti sul caso del conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, pervenuta alla Rai da parte del presidente della Commissione parlamentare per l’Indirizzo generale e la Vigilanza dei servizi radiotelevisivi si conferma che è nel pieno interesse dell’Azienda fornire tutte le informazioni sugli sviluppi degli accertamenti in corso a tutela dell’Azienda stessa, della trasmissione in questione, degli utenti e di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti”, fa sapere la Rai in un comunicato. Tre sono le linee di attenzione: quella reputazionale ed etica, quella contabile-amministrativa (ci sono già stati casi eccellenti di condanne al risarcimento in solido) e quella legata alla delicatezza del tema Servizi segreti. A questo proposito, il Dis è stato attivato e sta portando avanti una ricognizione dell’accaduto, riepilogando l’antefatto e le sue radici meno note. Gli uffici afferenti ad Elisabetta Belloni stanno ricostruendo – anche sulla base del video da noi pubblicato – quali figure dell’intelligence siano state sovraesposte dalle millanterie (così definite dalla sentenza di Verona) di Sigfrido Ranucci.

Intanto il presidente della Vigilanza, Alberto Barachini, chiede ai vertici Rai di fare chiarezza sulla vicenda, aggiornando in tempi rapidi la bicamerale sulla procedura di audit avviata da Viale Mazzini – e si riserva di ascoltarli quanto prima a San Macuto. Sul tavolo, sia il video del Riformista, sia lo scambio di messaggi tra Ranucci e i parlamentari Andrea Ruggieri (FI) e Davide Faraone (IV), emersi durante l’audizione dell’ad Rai Carlo Fuortes l’8 febbraio. Messaggi che secondo Ruggieri contenevano “minacce e allusioni sul possesso di dossier” e sui quali il deputato azzurro ha ottenuto di essere ascoltato oggi dal Copasir. «Le vicende richiamate meritano di essere attentamente approfondite, in primo luogo a tutela dell’azienda e della stessa trasmissione Report», sottolinea Barachini nella lettera inviata alla presidente Rai Marinella Soldi e all’ad Fuortes, segnalando tra l’altro come il video faccia «riferimento all’invio di materiale anonimo e a forme di fatturazione quanto meno discutibili le quali, se davvero verificatesi, potrebbero configurare un danno erariale oltre ad un danno alla stessa immagine e credibilità dell’azienda».

In seno all’ufficio di presidenza della Vigilanza Rai si è fatta sentire la tensione del M5S – che naturalmente tutela il “bollinato” Ranucci – e il resto dei parlamentari. Oggetto di un duro scontro tra il vicepresidente della commissione Primo Di Nicola e la capogruppo di Fratelli d’Italia, Daniela Santanché, è stata l’audizione dell’onorevole Ruggeri al Copasir. Di Nicola, in particolare, si è domandato «se la commissione di Vigilanza stesse operando correttamente sul caso Ranucci e se questo caso stesse rimbalzando sempre in maniera corretta dalla commissione parlamentare di Vigilanza Rai al Comitato di controllo sui servizi segreti». Interrogativi per i quali l’esponente pentastellato ha chiesto nell’Ufficio di Presidenza che fossero informati i presidenti di Camera e Senato «prima che il Copasir avvii l’audizione annunciata e l’indagine interna ai servizi preannunciata dai giornali». Testuali parole che, secondo quanto riferito da vari commissari presenti oggi, hanno scatenato la dura reazione della Santanché. «Prima ancora di entrare nel merito della vicenda -ha spiegato all’Adnkronos Di Nicola raccontando quanto dichiarato oggi in Vigilanza – mi sono domandato se questa commissione di Vigilanza stesse operando correttamente sul caso Ranucci».

Il tentativo di calciare la palla in tribuna è evidente. Santanchè conferma lo scontro: «Ho replicato a Di Nicola che ha tirato in ballo il Copasir perché non è prerogativa di noi commissari di Vigilanza Rai giudicare l’operato di un’altra Commissione. Ognuno ha la sua indipendenza». Gli occhi sono stati quindi puntati tutti sul Copasir. L’audizione del deputato di Forza Italia Andrea Ruggeri si è incentrata sul riscontro dei messaggi di testo che Ranucci gli ha inviato. Messaggi sul filo del minatorio, del ricattatorio, dell’intimidatorio. Per quanto si sa: gli atti sono tutelati dal segreto. «Abbiamo preso atto», dirà a fine giornata il presidente del Copasir, Adolfo Urso. Significa che ci sarà un secondo atto, ci fa sapere chi c’era. Una ulteriore verifica, forse una perizia per accertare che l’invio dei messaggi è avvenuto autenticamente dal telefono in uso a Ranucci.

Di certo non è stata una audizione solo formale, solo dovuta. E per questo così temuta, con la tempistica che ha avuto. Risulta a questo giornale che un deputato M5S in particolare abbia tentato il tutto per tutto al fine di impedire che l’audizione di Andrea Ruggeri si tenesse così a stretto giro. In effetti la tempistica della convocazione del Copasir è eloquente: si è accordata una corsia veloce alla questione. Tra la richiesta di Ruggeri e la sua audizione sono trascorse meno di 48 ore. Prova a riepilogare questa imbarazzante pagina di storia della Rai il deputato Luciano Nobili, di Italia Viva: «Ricapitoliamo solo le ultime 48 ore: viene pubblicato un video che rilancia l’ipotesi dell’esistenza di un vero e proprio metodo Ranucci per colpire i politici sgraditi: video sporchi procurati chissà come, finte fonti anonime che in realtà sarebbero ben note a Ranucci, finto materiale (che Ranucci si offre di produrre in prima persona) da vendere alla Rai ingannandola, per acquistare di fatto video di cui vergognarsi e che mai sarebbero ammessi da un azienda del servizio pubblico. Nello stesso video Ranucci parla di suoi rapporti con Servizi Segreti e forze dell’Ordine con cui condividerebbe il lavoro.

Viene aperto un fascicolo presso la Corte dei Conti per valutare un possibile danno erariale. Si muove il Comitato per la sicurezza della Repubblica e convoca il collega Andrea Ruggeri per approfondire rispetto ai messaggi intimidatori che ha ricevuto dallo stesso Ranucci. Il presidente della Commissione di Vigilanza Rai torna a chiedere con forza un intervento dell’ad Fuortes e della presidente Soldi sulla vicenda e di chiarire rapidamente come intendano procedere. Già nel 2019 il Tribunale di Verona nella sentenza sul caso Tosi certificava “le menzogne” e “le millanterie” di Ranucci. Ma se questo diventa un vero e proprio metodo, condito da minacce, intimidazioni, video e dossier per manganellare i politici di volta in volta vittime si supera ogni limite e non servono a nulla i silenzi o le convocazioni di audit interni che ormai non possono riparare una situazione non più sostenibile e che danneggia irreparabilmente la credibilità e l’autorevolezza della stessa azienda. Come possono i vertici Rai a continuare a rimanere silenti? Per quanto ancora pensano di poter nascondere la testa sotto la sabbia senza prendere una posizione su questa vergogna?».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Si riunisce il Comitato di controllo per la sicurezza. Metodo Report, il Copasir indaga sui video di Ranucci che nel frattempo cambia strategia difensiva: stava bluffando…Aldo Torchiaro su Il Riformista il 16 Febbraio 2022.  

La vicenda dei video di Ranucci è talmente grave che per la prima volta i membri del Copasir hanno richiesto di acquisire una informativa al Dis. Sarà dunque il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza rappresentato a palazzo Chigi da Elisabetta Belloni a dover stilare il rapporto ufficiale sulla questione che lambisce i rapporti opachi evocati nel video da noi pubblicato. Una vicenda talmente delicata che Sigfrido Ranucci sembra tenersi a distanza da Twitter. Ed è un peccato: quel flusso di coscienza sui social era sì scomposto ma più che rivelatorio di uno stato d’animo particolarmente agitato.

Dopo aver provato a imbastire una maldestra difesa, impapocchiato comunicati e messaggi di cui ha confuso date e intenzioni, devono averlo consigliato per il meglio. Fermo un giro, mentre con intervento d’imperio la Rai – come nei classici casi di crisis management – passa la parola agli avvocati che Viale Mazzini ha incaricato di provare a contenere il danno. La linea da seguire, tuttavia, non è ancora stata ben definita: le versioni con cui si prova a fare muro contro la telecamera nascosta sono già tre. Inizialmente il mantra era quello del “video manipolato”, poi diventato “video vecchio”, perfino “già visto da tutti”, infine l’infingimento al quadrato: “Nel video Ranucci fa finta, si presta al gioco”. Tre versioni che cozzano tra loro: se il documento pubblicato dal Riformista fosse stato ampliamente visionato dalla rete, perché Ranucci se ne scandalizzerebbe tanto solo adesso? Questo l’avvocato Luca Tirapelle non lo chiarisce. Ma ieri ha dichiarato alle agenzie “Non sono video inediti, giravano sui social già 8 anni fa”.

Non indica però neanche un esempio. Non fornisce un link. Un collaboratore di Wired si incarica della ricerca: trova undici minuti pubblicati su un canale YouTube, nessuna traccia del resto. Una punta dell’iceberg. E perciò anche scivolosa: “Ranucci ha millantato la possibilità di fare fatture fittizie o di chiedere l’intervento di un suo amico dei Ros solo allo scopo di raccogliere prove necessarie all’inchiesta”, si avventura a affermare l’avvocato Tirapelle. E ancora: “Ranucci ha bluffato per verificare l’ esistenza o meno del video hard. E ha bluffato anche quando ha assicurato agli interlocutori di avere entrature nei Ros e persino nei servizi segreti”. Che strano: lui stesso aveva parlato di video manipolati in una mezza dozzina di post e di tweet, perché non gli è venuto in mente prima di tentare la carta del bluff? Un giro di giostra da mal di testa, ed è probabilmente l’effetto desiderato per disperdere l’attenzione. Peccato che anche il Copasir voglia vederci chiaro, adesso. Oggi alle 13 si terrà l’audizione chiesta dal deputato azzurro Andrea Ruggeri, destinatario di raggelanti messaggi di testo inviatigli da Sigfrido Ranucci.

“Oggi porto tutto il materiale che ho al Copasir: sms di Ranucci e resoconti delle attività intervenute. È una vicenda di una gravità senza precedenti”. E ancora: “In tutte le comunicazioni intercorse con Ranucci faceva riferimento ossessivo al possesso di dossier”, riferisce il parlamentare. Materiale da mettere agli atti della commissione che vigila sui servizi segreti all’indomani della pubblicazione del video in cui Ranucci si confida, al ristorante: “Chiamo il mio amico al Ros, è collegato con i servizi segreti. Uno che l’altro giorno ha chiamato me. Perché anche loro sono interessati a queste cose”, si era lasciato andare Ranucci alla telecamera nascosta. Come se esistesse una cassa comune in cui far confluire immagini proibite, informazioni riservate, carte che scottano. L’onorevole Ruggeri pone una serie di questioni: “Se uno scrive che avrebbe dei dossier ma che per buon cuore non li usa, non mi torna. Perché provare ad acquistare da parte della Rai, con denaro pubblico, materiale non trasmissibile da tenere chiuso in un cassetto?”, si chiede.

L’avvocato Luca Tirapelle, che aveva seguito la causa di Ranucci contro Tosi, a Verona, sostiene che la sentenza esclude “sulla base di testimonianze”, che ci siano “fondi neri Rai usati per acquistare materiale utile all’inchiesta di Report o per effettuare attività di dossieraggio ai danni di politici di qualsiasi schieramento”. Dunque pur avendo seguito solo nel 2014 la vicenda Tosi, può ben lanciarsi in un giudizio storico complessivo. Al quale non molti credono. “Qui vediamo nero su bianco una persona che fa acquistare dalla Rai con soldi pubblici dei materiali vietati. Una compravendita”, può sintetizzare Ruggeri. A Viale Mazzini, bocche cucite. Lo stesso al Nazareno. E dai Cinque Stelle, neanche a parlarne. I consiglieri del Cda si starebbero consultando tra loro, attenti a non far emergere niente. Il clima è molto teso, e c’è chi ci riferisce di una serie di telefonate fatte da Ranucci nella giornata di sabato per ottenere dal sindacato interno, UsigRai, una nota a tutela. Nota che è arrivata domenica, sotto forma di minimo sindacale.

L’impressione è che molti abbiano già iniziato a pensare a come mettere a posto la questione per uscirne con il minimo danno, anche se i buoi sono ormai scappati. Un importante giurista ci riceve nel suo studio romano: “I reati commessi da Ranucci in quei video sono almeno cinque”, ci dice elencandoli. Neanche lui, a quanto pare, ha capito che Sigfrido stesse bluffando.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Il caso Report. Se i video di Ranucci erano noti, perché non avete denunciato lo scandalo? Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Febbraio 2022. 

L’affare Ranucci, che abbiamo sollevato la settimana scorsa, ha provocato molte polemiche. Da diverse parti è stato chiesto alla Rai di indagare e di spiegare la propria posizione. Per ora silenzio. Qualche giornale vicino a Ranucci, invece, ha polemizzato contro di noi, muovendo due obiezioni o meglio: rilanciando le due obiezioni avanzate dallo stesso Ranucci, ripetutamente, sui social. La prima è che il documento che abbiamo pubblicato e messo online sarebbe vecchio e non inedito. La seconda – molto grave e per la quale quereleremo Ranucci – è che i video sarebbero manipolati.

Tutta la vicenda è ben spiegata negli articoli di Torchiaro, ma la riassumo brevemente. Ranucci, capo di Report (Rai 3) e vicedirettore di Rai 3, è stato filmato di nascosto da persone che gli offrivano un dossier per rovinare la reputazione di un politico. E’ una cosa avvenuta alcuni anni fa ma i pezzi di filmato che abbiamo presentato sono inediti e contengono scene molto inquietanti. Ranucci, in queste scene, invita i suoi interlocutori a organizzare con lui una specie di raggiro verso la Rai per farsi pagare dalla stessa Rai il dossier fingendo di farsi pagare un altro servizio, in realtà privo di interesse. Negli stessi filmati, Ranucci tranquillizza i suoi interlocutori, spiegando che lui è molto potente ed è amico di un alto dirigente dei carabinieri e forse dei servizi segreti. Le cose certe sono queste.

Primo: il filmato che abbiamo pubblicato è assolutamente autentico e non manipolato. L’affermazione di Ranucci secondo la quale sarebbe stato manipolato è falsa e diffamatoria. (Del resto, da qualche giorno, Ranucci ha smesso di scrivere che è manipolata). Mi auguro che si scusi per l’errore e spieghi ai suoi fans che il filmato non è manipolato.

Secondo. Il filmato è inedito. Tutti i fans di Ranucci che hanno sostenuto il contrario non hanno mai indicato su quale giornale, o stazione televisiva o radio o altri media nazionali il filmato sia stato pubblicato nella sua interezza. Hanno solo detto, genericamente e ripetendo frasi di Ranucci, che era noto. A chi? E ammettiamo per un attimo che fosse davvero noto.

Beh, sarebbe una cosa gravissima: chi lo conosceva ha denunciato la cosa? Qualcuno ha preso provvedimenti? Possibile che da anni la Rai sapesse che Report andava a caccia di dossier con quei metodi e non intervenisse per fermare l’andazzo? Possibile che tutti i suoi colleghi, di vari giornali, che erano a conoscenza di questa attività, non lo abbiano denunciato? Pensate se una omertà di questo genere si fosse realizzata a favore di un politico, che sconquasso e quante vagonate di vergogna! Se fosse vero che il documento era noto, ci troveremmo in una situazione più grave di quella che immaginavamo. Noi credevamo che piovesse ma qui grandina!

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Affari e relazioni coi servizi segreti, ecco i video che inguaiano Ranucci. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 15 Febbraio 2022. 

Siamo davanti a un documento che supera l’immaginabile. Un documento che parla di quello che è oggi un dirigente Rai alle prese con una trattativa riservata, fitta, tenuta al di fuori dell’azienda. Un video sin troppo eloquente per essere equivocabile. La scena si svolge in primo piano, interno giorno. La trattoria Ai Bozzi, in Piazza Giuditta Tavani Arquati a Trastevere, è affollata. Sigfrido Ranucci ha telefonato per prenotare un tavolo. Quattro coperti. È lì, a pranzo, lontano da orecchi e sguardi indiscreti, che ha deciso di incontrare due persone che sono appena arrivate a Roma dal Veneto, in treno. Non sono volti noti. E non sono fornitori Rai. Sono due finti informatori. Avrebbero per le mani – è l’alicetta con cui l’hanno agganciato – del materiale scottante su Flavio Tosi.

Nel processo che seguirà, spiegheranno di aver inscenato un finto accordo per registrarlo a sua insaputa – usando due telecamere nascoste dall’ottima resa audio – la trattativa con cui Sigfrido Ranucci confeziona servizi e dossier. Agendo come attori, riescono a catturare una conversazione che ha dell’incredibile. Per le cose che dice Ranucci, per come le sostanzia, per le amicizie che vanta. E soprattutto per un fatto, tutto da verificare: esibisce una complicità, una consuetudine, una familiarità con i vertici dei servizi segreti. Scambia nomi degli uomini dell’intelligence come figurine. Se ne fa vanto con singolare spensieratezza perfino con i due sconosciuti che sta incontrando per la prima volta. Il video di cui siamo entrati in possesso è del tutto inedito: mostra il conduttore Rai nell’atteggiamento di blandire i due, un po’ restii a cedergli il materiale “piccante”.

Per vincere le loro resistenze, oltre al denaro da fatturare con una partita doppia – tu mi dai un video finto, io te lo pago, in realtà ti sto pagando questo video vero, che mi devi mandare dentro una busta anonima – li rassicura con l’evocazione di relazioni altisonanti: «Io ti chiamo il comandante del Ros adesso. È uno collegato con i servizi segreti. Interni. È la persona ideale in questo momento». Nella messinscena, uno dei due finti informatori teme una reazione della ‘ndrangheta. Ma il dialogo si snoda su altre corde: “Loro stanno cercando queste cose qua”, aggiunge Ranucci. Dove “loro” sembra stare per Servizi segreti, e “queste cose” sarebbero i presunti – ma inesistenti – video compromettenti. La correlazione sarebbe biunivoca, fa capire Ranucci: “Mi ha chiamato lui a me, hai capito?”, fa notare. Questo video (online sul sito de Il Riformista) presenta notevoli novità rispetto al quadro finora conosciuto. Ci parla di un Ranucci che sembra fare “cassa comune” addirittura con un pezzo dei servizi.

“Millanterie”, le definirà nella sentenza di primo grado il giudice del Tribunale di Verona, Cristina Carrara, che il 30 settembre nelle motivazioni che assolvono gli imputati dalle accuse di diffamazione parla di “tenore fraintendibile del contegno e delle parole del giornalista registrate a sua insaputa” e sottolinea come “le amicizie tra le Procure e le Forze dell’Ordine millantate dal Ranucci” avessero impressionato Tosi, portato a sopravvalutare l’interlocutore. A questo punto rimane da capire perché Ranucci stesse tentando – lasciamo stare che poi la burla giocatagli s’è rivelata tale – di comprare il pruriginoso filmino sulla vita privata di un sindaco. La avrebbero potuta mandare in onda? Certo che no. Perché è vietato. Ed è vietato anche il suo possesso, il suo acquisto. La vicenda Marrazzo dovrebbero ricordarla tutti: si propose a Berlusconi di acquistare materiale scabroso, lui rifiutò sdegnosamente: non si sarebbe trattato solo di incauto acquisto ma di ricettazione.

Oggi apprendiamo che un incaricato di pubblico servizio – dipendente Rai, il cui azionista è il Ministero del Tesoro e vigilante la Corte dei Conti – stava provando a finalizzare una operazione di questo tipo. E a che scopo, posto che poi il materiale non sarebbe mai finito nella trasmissione? I dubbi si moltiplicano dopo l’improvvido invio degli ormai famosi messaggini di Ranucci ad alcuni parlamentari a proposito di presunti dossier cui avrebbe accesso. Ieri una nota di Forza Italia ha interpellato i vertici Rai con somma urgenza. «I contenuti del video pubblicato sul sito del quotidiano il Riformista con protagonista il giornalista Sigfrido Ranucci – recita la nota dei Commissari azzurri in commissione di vigilanza Rai – suscitano interrogativi inquietanti sulle modalità con le quali il conduttore di Report acquisirebbe il materiale delle sue inchieste.

In sostanza apparirebbe una modalità consolidata quella di concordare l’invio di materiale anonimo da parte di sconosciuti (coperti da società di comodo o prestanome) a fronte di un contemporaneo invio di materiali inutili e inutilizzabili pagati dalla Rai con una fatturazione, per così dire, quantomeno fantasiosa se non fittizia”. A firmare l’istanza, indirizzata al presidente della Rai, Marinella Soldi, e all’amministratore delegato, Carlo Fuortes, sono stati Paolo Barelli, Maria Alessandra Gallone, Maurizio Gasparri, Patrizia Marrocco, Andrea Ruggieri e Renato Schifani. Vanno ad aggiungersi alle analoghe richieste di Fdi (Mollicone), Pd (Marcucci) e Iv (Anzaldi).

Il documento pubblicato ieri dal Riformista esplicita ancor di più tali perplessità. Vi si ritrova Ranucci intento a patteggiare con i falsi informatori con l’uso di un linguaggio poco adeguato all’azienda radiotelevisiva pubblica: «Fatemi una dichiarazione qualunque, scrivetemi che avete fatto un video su Crotone», suggerisce con fare complice. Quelli si fanno qualche scrupolo. Sarà legale? Andiamo incontro a controlli? «I controlli? Questo materiale va a finire tra diecimila altre cose», rassicura i presenti. Anche questa, quella di mischiare tutto per confondere il decisore finale, è la tecnica del modello Report. Fino a oggi. Perché forse stavolta qualcuno in Rai ci vuole guardare dentro, senza timori.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

ESCLUSIVO - Il secondo video inedito dell'inchiesta del Riformista. Metodo Report, Sigfrido Ranucci e le amicizie nei servizi segreti: “Vogliono i dossier”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 14 Febbraio 2022.

Primo piano, interno giorno. La trattoria Ai Bozzi, in Piazza Giuditta Tavani Arquati a Trastevere, è affollata. Sigfrido Ranucci ha telefonato per prenotare un tavolo. Quattro coperti. È lì, a pranzo, lontano da orecchi e sguardi indiscreti, che ha deciso di incontrare due persone che sono appena arrivate a Roma dal Veneto, in treno. Non sono nomi noti. E non sono certo fornitori Rai.

Avrebbero per le mani – è l’alicetta con cui l’hanno agganciato – del materiale scottante su Flavio Tosi. Nel processo che seguirà, spiegheranno di aver inscenato un finto accordo per registrare di nascosto – usando due telecamere nascoste – la trattativa con cui Sigfrido Ranucci confeziona servizi e dossier. Agendo come attori, riescono a catturare una conversazione che ha dell’incredibile. Per le cose che dice Ranucci, per come le sostanzia, per le amicizie che vanta. E soprattutto per un fatto: presenta una complicità, una consuetudine, una familiarità con i vertici dei servizi segreti, parlandone con leggerezza perfino con due sconosciuti che lo stanno incontrando per la prima volta.

VIDEO – Sigfrido Ranucci: “Se vuoi lo chiamo subito, è collegato coi servizi segreti”

Il video che mostriamo qui è del tutto inedito: mostra il conduttore Rai nell’atteggiamento di blandire i due, un po’ restii a cedergli il materiale “piccante”. Per convincerli, oltre ai soldi di cui ha parlato nel primo video, da noi già pubblicato, li rassicura con l’evocazione di relazioni altisonanti: “Io ti chiamo il comandante del Ros adesso. È uno collegato con i servizi segreti. Interni. È la persona ideale in questo momento. Poi se tra sei mesi lo spostano, sono cazzi”. La cosa non si limita, come fanno credere i commedianti, alla necessità di proteggere una persona: “Loro stanno cercando queste cose qua”, aggiunge Ranucci. Dove “loro” sembra stare per Servizi segreti, e “queste cose” sarebbero i presunti – ma inesistenti – video compromettenti. La correlazione sarebbe biunivoca, fa capire Ranucci: “Mi ha chiamato lui a me, hai capito?”, fa notare.

Il video presenta notevoli novità rispetto al quadro finora conosciuto. Ci parla di un Ranucci che sembra fare “cassa comune” addirittura con un pezzo dei servizi. “Millanterie”, le definirà nella sentenza di primo grado il giudice del Tribunale di Verona, Cristina Carrara, che il 30 settembre nelle motivazioni che assolvono gli imputati dalle accuse di diffamazione parla di “tenore fraintendibile del contegno e delle parole del giornalista registrate a sua insaputa” e sottolinea come “le amicizie tra le Procure e le Forze dell’Ordine millantate dal Ranucci” avessero impressionato Tosi, portato a sopravvalutare l’interlocutore. Non rimane che guardare il documento, ciascuno tragga la sua conclusione.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

I filmati pubblicati dal Riformista. Ranucci-Gate, i video del metodo Report conquistano la rete. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 13 Febbraio 2022. 

Sigfrido Ranucci, autore e conduttore di Report, ha confessato. Proprio lui. Lo si vede nel primo dei video che Il Riformista ha diffuso. È lui in primo piano in quel video “rubatogli” con il sistema della telecamera nascosta che a Report conoscono molto bene. Confidandosi con un presunto informatore, Sergio Borsato, nella trattoria di Trastevere dove non pensava certo di essere filmato da quello che riteneva un confidente amico, è finito due volte vittima di se stesso. Per quello che alla telecamera nascosta confida circa l’abitudine di confezionare servizi “contra personam” – con l’espediente di un finto plico anonimo ricevuto da chissà chi – e per il metodo della ripresa nascosta nel quale, dopo averne mostrato tanti esempi su RaiTre, è finito intrappolato a sua volta.

Sigfrido Ranucci prova a confondere gli elementi: i tempi, i documenti, le sentenze in un giro di giostra utile solo a disperdere l’attenzione e stravolgere la cronologia. Accende una cortina fumogena per provare a uscire dall’angolo. Per farlo, Ranucci parla di sentenze passate in giudicato che non esistono. Ecco come confonde le informazioni: prende una condanna a Flavio Tosi per calunnia e fa baluginare una curiosa interpretazione estensiva. (“Siete delle merde!”, gli aveva detto l’ex sindaco di Verona in una conferenza stampa. Ed è stato condannato solo per questo). Sostiene che il video della telecamera nascosta sia stato “manipolato”, ma non dice in quale minuto, in quale frangente. “L’audio sembra interrotto”, si limita a dire l’unica perizia allegata agli atti del processo. Tuttavia la rispondenza audiovideo, l’interpretazione del labiale, la prossemica lineare e la discorsività consecutiva non consentono di arrampicarsi su altri specchi.

Ranucci rilascia due interviste e qualche velina che l’avvocato di Sergio Borsato, Antonio Mezzomo, sta mettendo da parte per le richieste di risarcimento in sede civile. Tuttavia, le visualizzazioni del video corrono e la sostanza del metodo che emerge, parla da sola. Il vicedirettore di Rai Tre si accorda con fornitori non censiti nell’albo di Saxa Rubra, promette loro del denaro da pagare con disinvoltura: la fornitura di una cassetta dal contenuto inconsistente (“Che io valuterò come importante materiale giornalistico”, li rassicura) servirà a compensare i videomaker per quello che Ranucci richiede sottobanco: un video che incastra un politico. Girato da loro, sottratto chissà come. Da far pervenire con una finta busta anonima in redazione. “Decidiamo insieme da dove la spediamo”, gli si sente dire. Ed elenca le città da cui “possiamo farlo arrivare: Verona, Piacenza, Milano, Roma… dobbiamo valutare da dove è più sicuro”. Uno spaccato interessante del lavoro che si fa a Report. È così che vengono costruiti e pompati ad arte i servizi che vediamo in onda su RaiTre?

Chiede di saperlo anche il senatore di Iv, Davide Faraone. Il senatore siciliano era stato oggetto di un misterioso e inquietante messaggio, una settimana fa, speditogli da Ranucci. Si faceva riferimento a tanti dossier, nelle mani del conduttore. Un velato (ma non troppo) ricatto spedito all’indirizzo dei membri di Forza Italia ed Italia Viva in commissione di Vigilanza Rai. Un messaggio che forse va visto proprio nell’ottica dell’imminente uscita del lavoro del Riformista: qualcuno potrebbe aver avvisato Ranucci – possiamo immaginare – dell’approssimarsi dell’inchiesta sui video della camera nascosta al ristorante. O forse no: è solo una coincidenza.

“Presento un’interrogazione in Commissione Vigilanza per chiedere conto della veridicità di queste notizie a tutela della Rai, dell’informazione pubblica, dei professionisti che vi lavorano e di una trasmissione di inchiesta storica che non può diventare una centrale di dossieraggi anonimi, una macchina del fango sospinta, a quanto riporta il giornale, dal suo conduttore. Penso che davvero ci si debba fermare a riflettere sulla vera natura di una delle trasmissioni di punta della Rai perché francamente dopo gli episodi gravissimi di questi giorni sarà il caso che i vertici dell’azienda facciano chiarezza “, dichiara oggi Davide Faraone. Il senatore Enzo Palumbo, a capo di Democrazia Liberale, non è da meno: “Report fa da sempre un giornalismo completamente basato sulla diffusione pubblica di video come quello diffuso dal Riformista su di loro: paradossale lamentarsi se tocca a loro un giro della giostra di solito da loro condotta. Gravissimo poi da parte di Report rispondere che quella sarebbe una vecchia bufala smentita da una sentenza di primo grado, quando invece esiste anche una sentenza di secondo grado, ed è quella che fa testo, in cui i magistrati confermano la veridicità del materiale ed il fatto che non sia manipolato. Quindi Report, oltre ad usare come visto nel video metodi eticamente e legalmente discutibili, ci sta tuttora mentendo per difendersi. Ma è davvero questo il grande giornalismo d’inchiesta italiano?”, recita la nota di DL.

E sono già oltre trecentomila le visualizzazioni che registra il video sul Riformista. Ecco cosa preoccupa l’interessato. Ed ecco cosa ne stimola una scomposta reazione, a partire dai social network. Si nota così una nevrotica attività su Facebook e Twitter: una serie di post a metà strada tra l’irrisione e la minaccia, pubblicati da Sigfrido Ranucci e dai suoi sostenitori su un centinaio di gruppi aperti e chiusi. Che dire? Non proprio un indice di serenità, se davvero da quei video il conduttore non avesse niente da temere. Nel gruppo privato “Amici di Andrea Scanzi news”, accessibile solo ai membri, viene diffuso un post con l’hashtag #labandaditorchiaro allo scopo di sviluppare quello che i tecnici della rete chiamano “Wildfire”.

Fuochi selvatici – fintamente spontanei – che hanno lo scopo di spuntare qua e là, sulle bacheche di Facebook, moltiplicando l’effetto-ciclone sul nome del malcapitato di turno. La serenità assoluta di Ranucci si tramuta in un suo vortice di post e di commenti. Una tecnica popolare soprattutto tra i grillini: si pubblicano una sequenza di contenuti con cadenza regolare postando molte volte lo stesso nome in una ripetizione di post diversi. Si chiama, per farla breve, hating. Il risultato dell’hate speech è quello di alzare la pressione: si portano molti fan a “odiare” un nome unico, isolato. A identificare un nemico con un coding preciso. Così il giornalista che fa? Si trova a rispondere al ciclone che gli viene scatenato contro e deve sottrarre tempo – questo il reale scopo del gioco – al lavoro di inchiesta, allo sviluppo del lavoro sulle immagini di quelle telecamere nascoste. Che continuano invece a parlare.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

ESCLUSIVO - Svelato il metodo-Report. Domani tutti i dettagli sul Riformista in edicola. Così lavora Ranucci: fatture false, latitanti, dossier di fango e 007 amici. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.

Siamo entrati in possesso di documenti che riguardano il modo nel quale viene realizzato il programma di Rai Tre Report. Da questi documenti risulta che il coordinatore di questo programma, Sigfrido Ranucci, ha offerto dei soldi ad alcuni free lance che gli proponevano dei filmati per demolire la reputazione di un politico del Nord Italia.

Non solo offriva soldi, ma li offriva con un raggiro. Cioè proponeva a questi free lance di fargli avere per posta e in forma anonima i filmati che incastravano il politico e poi di vendergli invece, fatturandolo, un servizio privo di interesse, anche immagini grezze, sulla Calabria.

Ranucci spiega che lui stesso avrebbe garantito il valore giornalistico del servizio sulla Calabria alla Rai e quindi avrebbe ottenuto il pagamento dalla Rai. Poi avrebbe archiviato la Calabria e usato invece le immagini contro il politico. Non sappiamo come. Diciamo che, a quanto pare, è questo il metodo con il quale si fabbricavano dossier a spese della Rai.

A noi avevano detto che era giornalismo di inchiesta. Mah. Uno dei freelance avvertì Ranucci che lui non poteva nemmeno stare in Italia (evidentemente dichiarava di essere latitante) ma Ranucci gli disse di non preoccuparsi perché gli avrebbe procurato un appuntamento con il capo dei Ros dei carabinieri.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Dagospia l'11 febbraio 2022. Dal profilo Facebook di Sigfrido Ranucci

Sansonetti, Torchiaro, Giornale e Libero pubblicano stralci di audio che è risultato manipolato da due perizie. 

L'audio era stato registrato da due emissari di Flavio Tosi con l'intento di bloccare una mia inchiesta. 

L'allora ex sindaco mi accusò di dossieraggio illecito, di dossier acquistati con fondi neri Rai. 

Le accuse si rivelarono false, il nastro manipolato e Tosi fu condannato nel 2019 per diffamazione. Oggi Sansonetti e Torchiaro fanno di più. 

La manipolazione 2.0. Attribuiscono a quell'audio del 2014 un contesto diverso, una inesistente riunione fatta dal sottoscritto con dei freelance. Ma pongono le stesse accuse: “dossieraggio e filmati acquistati con fondi neri della Rai". 

Credo che mai si era arrivati così in basso pur di gettare fango su #Report e il sottoscritto. Sarebbe bastato leggere nei loro archivi per capire che è stata servita una polpetta avvelenata. 

Invece hanno preferito servire il terzo dossier falso contro di me. Viste le modalità presenterò querela, risarcimento danni e chiederò intervento dell'ordine dei giornalisti. 

Di seguito condivido i link relativi alla storia tra me e Tosi usciti sui giornali dell’epoca e il link che rimanda all’inchiesta “L’Arena” sull’amministrazione leghista a guida Flavio Tosi. 

Ringrazio tutti i colleghi che hanno preso le distanze da questa ulteriore ondata di fango. 

Grazie anche a loro possiamo sperare in una stampa libera e una società migliore.

Dagospia l'11 febbraio 2022. Dalla pagina Facebook di "Report"

«È stata portata davanti all'audit una lettera anonima contro Ranucci. Una storia, a mio parere, sollevata in modo strumentale da alcuni soggetti della Vigilanza Rai, che avrebbe fiaccato un toro, ma che alla fine si è dimostrata falsa: questo è lo spartiacque. Ranucci è stato accusato di cose infami e l'audit ha dimostrato che non c'era nulla di vero nelle contestazioni che gli erano state mosse, se non calunnie. 

E proprio nel giorno in cui l'amministratore delegato della Rai doveva ufficializzare alla Commissione di Vigilanza l'esito di quell'audit favorevole a Ranucci, saltano fuori conversazioni di mesi prima».

Milena Gabanelli, conduttrice e autrice di Report per 20 anni fino a quando ha passato il testimone a Sigfrido Ranucci, ha fornito il suo punto di vista sulle polemiche degli ultimi giorni, successive alla pubblicazione da parte dei deputati di Forza Italia Andrea Ruggieri e Italia Viva Davide Faraone di alcuni messaggi di una corrispondenza privata che avevano avuto con il vicedirettore di Rai3 dopo il deposito di un falso dossier in commissione di Vigilanza Rai.

«Non conosco a fondo il contesto di quei messaggi e non sono un giudice, ma il tema è che si è cercato di colpire nella parte morale, che è la cosa più brutta, una persona sotto scorta, e questa persona ha manifestato questo disagio con parole dure. Certo non sono parole che si devono usare, ma vediamo il contesto in cui è avvenuto tutto questo. Se le persone vengono lavorate ai fianchi possono sbottare.

Non doveva mandare quei messaggi, anche considerato il suo ruolo, doveva controllare le proprie emozioni, tuttavia capisco la reazione umana», continua Milena Gabanelli. 

«Ranucci è stato 10 anni nella mia stessa stanza. Si può cambiare nella vita ma sarebbe un cambio molto radicale. Io non ho dubbi sulla sua onestà morale e intellettuale: questa vicenda mi sembra un gran polverone su nulla. Il tema è che bisogna spuntare quella trasmissione».

ESCLUSIVO - I filmati inediti del modo di lavorare di Ranucci. Ecco i primi video sul metodo Report: “Mi arriva una busta anonima dal posto più sicuro…” Aldo Torchiaro su Il Riformista l'11 Febbraio 2022 

Ecco i primi video sul metodo Report. Questo è il materiale su cui abbiamo lavorato. La nostra autorevole fonte interna a Report, adesso lo possiamo svelare, si chiama Sigfrido Ranucci. Ecco come il conduttore stesso parla dell’acquisizione dei materiali che mette in onda, in un filmato di indubitabile valore documentale: è Ranucci a parlare in prima persona, non sapendo di essere ripreso, di servizi confezionati con l’infingimento di plichi anonimi che in realtà si spedisce da solo, a seguito di trattative in barba all’etica, tra iperbolici giri di denaro Rai e fatture fittizie per coprire le operazioni più opache.

Il tutto condito, avvolto, rassicurato da una “cassa comune” con qualche potente amico nei servizi segreti. Quello che segue è il primo dei video in nostro possesso. Siamo certi – per aver consultato e verificato tutte le fonti del caso – che si tratti di clip originali. E assolutamente inedite. Sono state girate nel 2014 e rivelano una condotta sulla quale chiunque, guardandoli, potrà formarsi un’opinione. Ranucci prova a discolparsi parlando di “audio manipolati”, di una “vecchia bufala”.

Dobbiamo smentirlo. Anche perché abbiamo visto le carte, tornando a far parlare le due persone che per prime hanno visionato il materiale audiovideo: ci hanno confermato che quanto si vede e si sente corrisponde al contenuto iniziale. Né interessa se siano editate, ovvero siano solo clip estratte, parte di un’ora di girato totale. Pubblichiamo tutto il materiale di interesse giornalistico, senza tagli e senza manipolazioni: non saremo certo noi ad applicare il metodo Report. A noi basta riscontrare la verità oggettiva e inequivocabile di questi video, che parlano da soli.

Chiediamo: questi video rivelano un modus operandi normale per la Rai? È compatibile con il servizio pubblico questa modalità di acquisire materiali e produrre servizi televisivi pagando e comprando materiali alle spalle del malcapitato politico di turno? Lasciamo parlare queste prime immagini. Sono eloquenti, ma non è ancora tutto. Ne seguiranno altre.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste. 

I video sul metodo Report. Sigfrido Ranucci spiega il metodo Report tra fatture fittizie e plichi anonimi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 12 Febbraio 2022 

Abbiamo pubblicato sul sito del Riformista un video inedito che ha realizzato in poche ore decine di migliaia di visualizzazioni. È uno dei video sul metodo Report dei quali siamo entrati in possesso. Un video epocale. Vi si può trovare, nella sintesi di pochi minuti, una sorta di confessione involontaria, una dichiarazione spontanea. Ranucci parla in prima persona, spiega a due persone che gli si presentano come freelance. Ecco come il conduttore stesso parla dell’acquisizione dei materiali che mette in onda, in un filmato di indubitabile valore documentale: è Ranucci a parlare in prima persona, non sapendo di essere ripreso, di servizi confezionati con l’infingimento di plichi anonimi che in realtà si spedisce da solo, a seguito di trattative in barba all’etica, tra iperbolici giri di denaro Rai e fatture fittizie per coprire le operazioni più opache.

Il tutto condito, avvolto, rassicurato da una “cassa comune” con qualche potente amico nei servizi segreti. Quello che segue è il primo dei video in nostro possesso. Siamo certi – per aver consultato e verificato tutte le fonti del caso – che si tratti di clip originali. E assolutamente inedite. Sono state girate nel 2014 e rivelano una condotta sulla quale chiunque, guardandoli, può farsi un’opinione. Ranucci prova a discolparsi parlando di “audio manipolati”, di una “vecchia bufala”. Dobbiamo smentirlo. Anche perché abbiamo visto le carte, tornando a far parlare coloro i quali per primi hanno visionato il materiale audiovideo: ci hanno confermato che quanto si vede e si sente corrisponde al contenuto iniziale. Ricostruiamo l’antefatto che sta a monte: siamo nel 2014.

Ranucci vuole realizzare un’inchiesta di Report su un presunto festino a cui avrebbe preso parte l’allora sindaco di Verona, Flavio Tosi. Un imprenditore veneto di servizi televisivi che produce tra l’altro anche per la Rai, Sergio Borsato, si offre – non senza avvisare l’amico Tosi – per far credere a Ranucci di avere in mano questo famoso video hard sul primo cittadino veronese. Si incontrano a Roma. Borsato registra la trattativa fatta al ristorante, nella quale Ranucci spiega il suo metodo di disinvolta acquisizione del materiale “giornalistico” al di fuori di ogni protocollo Rai. Nelle more della querelle tra il sindaco scaligero e il conduttore di Report, Tosi denuncia Ranucci per diffamazione, ma il giudice lo assolve. Tosi viene a sua volta assolto dall’accusa di calunnia mossagli da Ranucci. Ma viene condannato per diffamazione, non in merito ai video che ha riportato il Riformista, bensì in merito all’accusa, sollevata verso Ranucci, di aver costruito dossier diffamatori contro di lui.

I video “rubati” al ristorante, realizzati da Borsato con una telecamera nascosta di cui Ranucci non si accorge, lambiscono solo marginalmente il procedimento. Qualcuno dice che i video sarebbero stati manipolati. La nostra fonte ci assicura che non ci fu alcuna manipolazione, nonostante la perizia sostenga che vi siano state “tre interruzioni nell’audio”, come se fosse stato tagliato. L’avvocato Antonio Mezzomo, che ha difeso Borsato riportandone l’assoluzione in Appello, segue con indignazione la coda di dichiarazioni infondate che la rete, aizzata dai protagonisti di questa vicenda, riversa sul suo assistito. Legge un articolo su Open di Mentana “Si fa molta confusione, vedo un articolo ricco di inesattezze, da querela”. E ribadisce al Riformista: «Nessuna sentenza dice che quel video è stato manipolato». E si dice pronto a citare in giudizio chi dovesse sostenere che c’è una condanna passata in giudicato: «La sentenza di assoluzione ex art. 530 c.o.p perché il fatto non costituisce reato in primo grado dovrebbe far fede, anche per la stampa. È un principio di deontologia professionale cui i giornalisti dovrebbero attenersi», ci dice.

E torna su Twitter dove prende nota delle dichiarazioni – ora scomposte, ora false, comunque inesatte – che vede cadere addosso a Borsato e Tosi. Andando a vedere il contenuto della perizia, ci sarebbero stati tre tagli nell’audio. Niente di più. E niente che infici la gravità di quello che comunque si vede e si sente benissimo, senza possibili dubbi. Di fronte ai video pubblicati, materialmente come potevano fare tagli a un discorso che procede – anche analizzando un frame di pochi secondi- spedito? Ai fini dell’analisi di quel che si scopre essere avvenuto nel ristorante dove Ranucci è stato filmato, l’antefatto rileva fin lì: il focus, il tema da cui non distogliere lo sguardo è quello che si evince dal contenuto inequivocabile di questi video, che parlano da soli.

Viene esplicitato per la prima volta, con le parole, la voce, il volto di Ranucci, il suo metodo. Chiediamo: quello che gli sentiamo dire indica un modus operandi normale per la Rai? È compatibile con il servizio pubblico questa modalità di acquisire materiali e produrre servizi televisivi pagando e comprando filmati alle spalle del malcapitato politico di turno? Non siamo i soli a porci il problema. La Direzione Internal Audit della Rai, proprio nelle more delle rivelazioni del Riformista, ha notificato alla presidenza della commissione di Vigilanza Rai l’avvio dell’istruttoria interna su Sigfrido Ranucci. Numerosi i deputati che chiedono di acquisire e discutere le clip che pubblichiamo nel contesto formale dell’audit.

Michele Anzaldi, deputato Italia Viva e segretario della Commissione di Vigilanza Rai, lo chiede a gran voce: «Il filmato per come si vede sul sito del Riformista è effettivamente impressionante, senza entrare nel merito della questione della presunta manipolazione denunciata dal conduttore. Per come si vede dal filmato, Ranucci quelle frasi delicatissime sul tema fatturazione e altro sembra davvero averle pronunciate. È urgente, quindi, che venga fatta chiarezza. L’Ad Carlo Fuortes chieda subito all’Audit di includere anche questo video nell’istruttoria sul conduttore, appena aperta a seguito dei messaggi resi pubblici dal deputato Ruggieri». Intervistato da AdnKronos, il deputato ha aggiunto: «È doveroso che la Rai se ne occupi immediatamente, per fare piena luce, perché il rischio è che ad occuparsene sia altrimenti la Corte dei Conti, che vigila sulla Rai con un magistrato appositamente delegato». Si muove anche il Pd. «L’audit deciso dalla Rai sugli inconsueti messaggi di Ranucci – dice il senatore dem Andrea Marcucci – e sull’inchiesta del quotidiano il Riformista è la sede giusta in cui il giornalista di Report potrà spiegare dettagliatamente la sua posizione e le sue particolari iniziative».

Si fa sentire anche Luciano Nobili: «Il video pubblicato dal Riformista è semplicemente inquietante e chiarisce una volta per tutte i contorni del vergognoso metodo Ranucci che denunciamo da mesi. Dal video emergono finte lettere anonime in realtà fatte spedire dallo stesso Ranucci, video sporchi acquistati da fonti di dubbia provenienza poi occultate mentendo ai telespettatori, servizi costruiti a tesi per colpire e intimidire il politico di turno e, come se non bastasse, pagamenti fittizi per ingannare la Rai e comprare coi soldi dei cittadini quello che non poteva essere acquistato, spacciato poi per lavoro di inchiesta. Un vero schifo. Pagato dagli italiani. Il metodo Ranucci è il contrario del giornalismo ed è indegno del servizio pubblico. Mi appello a Fuortes e alla Rai: non possono continuare a tacere», conclude.

Anche l’opposizione, con Fratelli d’Italia, si fa portavoce della stessa richiesta: «Siamo stati i primi a chiedere immediata convocazione di Ranucci in vigilanza perché possa dare la sua versione e appunto dimostrare la differenza sostanziale con il suo metodo Report di giornalismo a tesi senza antitesi». Della vicenda si parlerà a lungo, non è che un inizio.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

ESCLUSIVO - Svelato il metodo-Report. La fabbrica dei dossier di Sigfrido Ranucci: acquisto di immagini inutili a spese della Rai e sinergie con i servizi segreti. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'11 Febbraio 2022 

L’etica. La trasparenza. Il rigore morale. Quei valori che Sigfrido Ranucci predica per gli altri, non valgono per Report. Non per quella sua azienda nell’azienda, anzi: per quella fabbrica che è diventata la trasmissione di cui il vicedirettore di Rai Tre è autore e conduttore. Una fabbrica di dossier costruita su mandati precisi e diretti e realizzata grazie a relazioni arcane, commistioni oscure e commesse scottanti.

Il Riformista, usando gli strumenti di inchiesta giornalistica di cui troppo spesso Ranucci si è fatto portabandiera, ha guardato dentro al “metodo Report”. Partendo da quei messaggi – sparati come colpi al cuore, in quel suo sfogo “da un uomo a un altro uomo” – con cui il conduttore Rai si è rivolto al deputato Andrea Ruggieri e al senatore Davide Faraone. “Abbiamo 78.000 dossier”, aveva sparato per intimidire (o ricattare?) i parlamentari che in Commissione di vigilanza da troppo tempo osano inarcare un sopracciglio. L’iperbole non distragga: conta il metodo. Il come e non il quanto. E il metodo è terrificante. Quello messo in atto da Ranucci nel tempo è un mercanteggiamento di video, di piste, di ipotesi accusatorie fondate su filmati ottenuti con formule di inscatolamento indegne del servizio pubblico.

Proviamo a immaginare Ranucci che, seduto al tavolo di un ristorante, incontra tre persone. Una sta con lui, due invece sono freelance di un service videogiornalistico. L’appuntamento è stato concordato perché i freelance avrebbero del materiale che risponde a una sua esigenza: un video che potrebbe “incastrare”, come si ama dire a Report, un politico. Ranucci si presenta in veste di acquirente e spiega agli ignari astanti come funziona il meccanismo. Come funziona? Il mercato nero di Report prevede “una formula”, come la chiama Ranucci. «Voi mi date del materiale grezzo, montato su una mini-cassetta. Non la avete? Ve la fornisco io. E la Rai paga». Si legga: paghiamo noi contribuenti. Ma per cosa? Per ottenere dai due “videosicari” un video “rubato” che esporrebbe qualche vizio segreto di un rappresentante delle istituzioni, con quella che il conduttore definisce “una prassi”. Eccola: «Da un lato entra del materiale grezzo con un titolo di fantasia, che ne so, immagini da Crotone». Un girato che non ha alcuna attinenza con il servizio che in realtà, nei disegni di Ranucci, va costruito. E che quindi non andrà mai in onda, ma che serve come copertura per la fatturazione.

Nel mirino di Ranucci adesso c’è un politico del Nord. E per depistare, va scritto che si tratta di un filmato sulla Calabria. «Il materiale che entra viene pagato dalla Rai», assicura. Gli interlocutori a quel punto lo interrogano. Faranno controlli? «La Rai controlla, sì, ma voi come service fate cose anche legali, no? Bene, la Rai verifica che voi esistete e che il materiale c’è, poi io garantisco che ha un interesse giornalistico importante e vi faccio mettere in pagamento la fattura». Dove sta l’inganno? Che in realtà deve entrare anche la cassetta con il materiale che scotta, quello che i freelance avrebbero in mano. E deve entrare in Rai con una busta anonima. Spedito con tutti i crismi dell’anonimato assoluto. «Decidiamo da dove. La busta la possiamo far arrivare, senza mittente, da Bolzano, da Roma, Milano, Verona, Padova, Piacenza… La posso far mandare da dove decidiamo che sia il posto più sicuro. E a qualsiasi persona che mi dovesse chiedere da dove mi è arrivata, dirò solo che è arrivata in redazione questa busta anonima». E si premura di aggiungere: «Dirò che ho fatto delle verifiche, punto. E la storia finisce là».

Di nuovo, chi siede di fronte a Ranucci mostra qualche timore. «A tutela tua, io posso costruire tutta la storia in un altro contesto. Posso ricostruirla in qualsiasi maniera. E farla arrivare in maniera anonima». Messa in sicurezza la fonte, attraverso una giostra di contromisure per confondere gli eventuali controlli Rai, Ranucci passa al dunque. «Per quello che riguarda il compenso, ho portato dei moduli che vanno riempiti. Ovviamente non dovete mettere i nomi vostri. Dovete trovare delle persone o società che ci vendono del materiale grezzo. Fittizio. La descrizione del materiale acquisito non ha nulla a che vedere col video che mi è arrivato invece da voi».

E qui torna la sua ‘assistenza’. «Se non avete un girato grezzo su altro da venderci, ve lo do io», aggiunge. Per capirci: il vice direttore di Rai Tre fornisce a un service di videomaker esterni del materiale già in suo possesso per consentire a dei loro prestanome di inscenare la cessione fittizia dei diritti sullo stesso filmato. «Io non voglio sapere i nomi che metti. Mi devi però far avere un’ora, un’ora e mezza di materiale grezzo». È quella la merce di scambio, ottenuta la quale il vero motivo di interesse di Ranucci potrà materializzarsi per magia, attraverso l’invio di un plico anonimo con il girato, magari brevissimo, “esfiltrato” dall’entourage del politico messo nel mirino. «Ecco i moduli per l’operazione», dice Ranucci passandoli nelle mani dei fornitori, comprensibilmente titubanti.

«È una cosa testata?», chiedono preoccupati. «Ma certo. Io ho del materiale mio perché sono interno Rai ma tanti comprano materiale da fuori, questa cosa qui va in mezzo a diecimila altre cose», dice confortante. Uno dei due alza la posta e rappresenta un suo problema. Una grana di natura giudiziaria. «Io non potrei nemmeno stare in Italia…», accenna. Ranucci non si scompone. Anzi, capisce che è l’occasione per fare un passo in più, metterli in condizione di fidarsi. E stabilisce un livello di complicità supplementare. «Fammi capire, tu hai bisogno di aiuto per tornare in Italia?», chiede. Il postulante non si tira indietro. «Per tornare in Italia ho bisogno di una gran mano». E qui Ranucci sfodera i super poteri. «Se tu me lo dici io ti posso chiamare il comandante del Ros adesso. Senza dire chi sei e chi non sei, ti prendo un appuntamento. Anche adesso, te lo chiamo davanti a te. È un comandante che si è fatto 12 anni di Reggio Calabria, conosce tutte le famiglie. Ha memoria storica. Ed è collegato con i servizi segreti».

L’atmosfera si elettrizza, gli fanno domande. «È il capocentro di Roma», sottolinea il conduttore di Report. E poi si inoltra in una selva oscura di rapporti: «Ti ci faccio prendere un appuntamento, loro stanno cercando queste cose qua», dice con riferimento ai video che i due potrebbero, adeguatamente compensati, vendere per interposta persona. Se fino a quel punto la spalla di Ranucci era rimasta in silenzio, sa di dover entrare in scena adesso. «Non sta scherzando, ho sentito io l’altro giorno che lo chiamava», aggiunge per dar manforte all’amico.

«Cioè mi ha chiamato lui, a me», specifica Ranucci. Parlano tutti insieme, si fatica a distinguere i ruoli: Ranucci vuole acquisire del materiale che interessa ad ufficiali dei servizi? Vuole blandire gli interlocutori con qualche favore personale per “arruolarli” e convincerli a cedergli un girato particolarmente scottante? Certamente vanta amicizie con l’intelligence per rassicurare questi neofiti del mercato nero del videodossieraggio. Ha le spalle coperte: la Rai in pugno, i servizi a fianco. Qualcosa però stavolta non gira per il verso giusto. Nella fabbrica dei dossier un ingranaggio si inceppa, e lo smascheratore finisce smascherato.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Così lavora Ranucci: fatture false, latitanti, dossier di fango e 007 amici. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Febbraio 2022

Siamo entrati in possesso di documenti che riguardano il modo nel quale viene realizzato il programma di Rai Tre Report. Da questi documenti risulta che il coordinatore di questo programma, Sigfrido Ranucci, ha offerto dei soldi ad alcuni free lance che gli proponevano dei filmati per demolire la reputazione di un politico del Nord Italia.

Non solo offriva soldi, ma li offriva con un raggiro. Cioè proponeva a questi free lance di fargli avere per posta e in forma anonima i filmati che incastravano il politico e poi di vendergli invece, fatturandolo, un servizio privo di interesse, anche immagini grezze, sulla Calabria.

Ranucci spiega che lui stesso avrebbe garantito il valore giornalistico del servizio sulla Calabria alla Rai e quindi avrebbe ottenuto il pagamento dalla Rai. Poi avrebbe archiviato la Calabria e usato invece le immagini contro il politico. Non sappiamo come. Diciamo che, a quanto pare, è questo il metodo con il quale si fabbricavano dossier a spese della Rai.

A noi avevano detto che era giornalismo di inchiesta. Mah. Uno dei freelance avvertì Ranucci che lui non poteva nemmeno stare in Italia (evidentemente dichiarava di essere latitante) ma Ranucci gli disse di non preoccuparsi perché gli avrebbe procurato un appuntamento con il capo dei Ros dei carabinieri.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste. 

Il metodo Report svelato dai video del Riformista. Metodo Ranucci, Liguori: “Reati gravi fatti con i soldi dei contribuenti e a danno dell’opinione pubblica”. Redazione su Il Riformista l'11 Febbraio 2022 

“Leggo il Riformista e rabbrividisco. Quello che c’è scritto sull’attività occulta di Report, ma io penso piuttosto sul suo conduttore Ranucci, è una cosa agghiacciante”. È il commento del direttore di Tgcom, Paolo Liguori, riguardo i discutibili metodi di raccolta video del vicedirettore di Rai3, autore e conduttore di Report, Sigfrido Ranucci.

Alcuni video di cui Il Riformista è venuto in possesso svelano il ‘metodo Report’. Il conduttore avrebbe offerto dei soldi ad alcuni free lance che gli proponevano dei filmati per demolire la reputazione di un politico del Nord Italia. Non offriva soltanto soldi, ma li offriva con un raggiro. Cioè proponeva a questi free lance di fargli avere per posta e in forma anonima i filmati che incastravano il politico e poi di vendergli invece, fatturandolo, un servizio privo di interesse, anche immagini grezze, sulla Calabria.

“Reati gravi”, dice il direttore, “fatti con il denaro del contribuente e a danno dell’opinione pubblica, ma soprattutto degli spettatori di Report e della Rai di cui Ranucci sarebbe un dirigente”.

Chi non è pratico del mondo giornalistico forse non sa bene cosa sono i ‘dossier’ che Ranucci vanta di avere su diversi politici e, soprattutto, perché è così grave averne. “Perché noi riceviamo delle cose, spesso belle, interessanti o comunque importanti che pubblichiamo. Tutto ciò che noi conserviamo e non pubblichiamo diventa un dossier, diventa una materia occulta per minacciare o per ricattare le persone che sono rappresentate o raffigurate”, ha spiegato Liguori.

“È una cosa che distrugge l’idea del mestiere del giornalista che vede e riferisce. Conservare a che scopo se non allo scopo di potere occulto. Questo è il grande sospetto che c’è su Report e su questa attività che è stata rivendicata dal suo conduttore Sigfrido Ranucci”, ha concluso il direttore di Tgcom.

Ecco il video che inchioda il giornalista Ranucci ed il suo “Metodo Report”. Redazione CdG 1947 l'11 Febbraio 2022

Legittimo chiedersi se questi video rivelano un modus operandi normale per la Rai, se è compatibile per un servizio pubblico queste modalità di acquisire materiali e produrre servizi televisivi pagando e comprando materiali alle spalle del malcapitato politico di turno?

“Il Riformista” diretto da Piero Sansonetti ha pubblicato oggi sul suo sito in esclusiva la prova che adesso è sotto gli occhi di tutti,  che conferma quanto pubblicato ieri: il video registrato di nascosto che inchioda il giornalista Sigfrido Ranucci. Il video risalirebbe al 2014 e mostra Ranucci che parla in prima persona  del “metodo Report” ignorando di essere ripreso e parla di plichi anonimi e di un “modus operandi” in cui si pagano e si comprano materiali alle spalle del politico di turno. Tutto a spese della Rai. Cioè del servizio pubblico radiotelevisivo, con i soldi del canone pagato dai contribuenti.

Ranucci questa mattina si è difeso via social parlando di “audio manipolati” e di “vecchia bufala” anticipando la propria intenzione di querelare il giornalista Aldo Torchiaro e il suo direttore Piero Sansonetti . Ma dal “Riformista” spiegano che non sono stati effettuati né tagli né manipolazioni.  E sino a prova contraria chi parla nel video è il conduttore del programma di RAI3. 

“Leggo il Riformista e rabbrividisco. Quello che c’è scritto sull’attività occulta di Report, ma io penso piuttosto sul suo conduttore Ranucci, è una cosa agghiacciante”. È il commento di Paolo Liguori, direttore di Tgcom24, in merito sui discutibili metodi di reperimento video del vicedirettore di Rai3, autore e conduttore di Report, Sigfrido Ranucci. “Reati gravi”, dice il direttore Liguori, “fatti con il denaro del contribuente e a danno dell’opinione pubblica, ma soprattutto degli spettatori di Report e della Rai di cui Ranucci sarebbe un dirigente”.

Ecco il "metodo Ranucci": i video che lo smascherano. Francesca Galici l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Dopo gli sms inviati da Ranucci al parlamentare Ruggieri, la Rai ha aperto un'istruttoria e Il Riformista rende noti i video sul "metodo Report".

Attorno al "metodo" di Sigfrido Ranucci non si placano le polemiche e la Rai, dopo la divulgazione del contenuto di alcuni messaggi al parlamentare Ruggieri ha aperto un’istruttoria. Intanto, continua lo scambio di accuse tra Il Riformista e Sigfrido Ranucci sul cosiddetto "metodo Report". Dopo le rivelazioni del quotidiano diretto da Piero Sansonetti e la risposta del giornalista e coordinatore del programma di Rai3, che negava quanto rivelato dalla testata, Il Riformista ha deciso di pubblicare un video (clicca qui) registrato con la telecamera nascosta che vede protagonista proprio Sigfrido Ranucci a colloquio con altre due persone, freelance con i quali il giornalista stava concordando i termini per una collaborazione che doveva nascere, secondo quanto riportato dal quotidiano "per demolire la reputazione di un politico del nord Italia".

"Presentata come scoop una bufala già passata in giudicato. L’audio che mi riguarda era stato presentato dal sindaco Flavio Tosi ai magistrati con l’intento di fermare un’inchiesta su di lui Tosi mi aveva fatto registrare dai suoi uomini nel 2014. Era stato manipolato secondo una perizia e Tosi era stato condannato per diffamazione nei miei confronti a circa 2 anni. La stessa denuncia che prenderà Aldo Torchiaro e il suo direttore", si è difeso Ranucci nei giorni scorsi.

Ma Il Riformista, davanti alla smentita categorica di Sigfrido Ranucci, ha deciso di uscire allo scoperto e di pubblicare il primo video nel quale si vede il coordinatore di Report che spiega ai due freelance in che modo, in alcuni casi, vengono prodotti i plichi anonimi che arrivano in redazione. "È Ranucci a parlare in prima persona, non sapendo di essere ripreso, di servizi confezionati con l’infingimento di plichi anonimi che in realtà si spedisce da solo, a seguito di trattative in barba all’etica, tra iperbolici giri di denaro Rai e fatture fittizie per coprire le operazioni più opache", spiega Il Riformista.

Il quotidiano di Sansonetti è certo dell'autenticità del filmato, che non pare essere l'audio a cui fa riferimento Ranucci nella sua difesa di ieri. "Non è un audio. E non è manipolato. Ed è del tutto inedito. Lo abbiamo verificato", ha confermato il direttore de Il Riformista in un tweet di risposta a Sigfrido Ranucci.

In queste ore è stata anche aperta un'istruttoria sui contenuti degli sms scambiati fra l'onorevole di Forza Italia Andrea Ruggieri e il vicedirettore di Rai3 e conduttore di Report Sigfrido Ranucci, dopo l'invio di tali contenuti da parte del presidente della Commissione Alberto Barachini ai vertici dell'azienda di servizio pubblico.

A chiedere che fossero inviati alla Rai i contenuti dei messaggi era stato l'ad Carlo Fuortes, affinché potesse essere valutata l'eventuale apertura dell'audit sul caso. Il caso degli sms è legato alla vicenda della lettera anonima contro Ranucci arrivata ad alcuni commissari della Vigilanza Rai e portata alla luce nella stessa commissione a novembre scorso, quando fra Ranucci e Ruggieri è avvenuto uno scambio in chat. Scambio di messaggi letto in parte da Ruggieri durante l'audizione dell'8 febbraio scorso sottolineandone l'aspetto "minatorio".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Report, Sigfrido Ranucci e la pista dei fondi neri: "Come pagava le sue fonti", qui viene giù la Rai. Brunella Bolloli su Libero Quotidiano l'11 febbraio 2022.

Ma è giornalismo o un juke box? Che metti il gettone, paghi e comincia a suonare la musica? Girano dossier, sono sempre girati, tanta gente si è arricchita e tanta gente c'è morta. Prendere con le molle, sempre. Verificare: questa è la regola base. E cosa sarebbero, allora, questi fantomatici dossier di Report? Non era forse la trasmissione più coraggiosa e combattiva di RaiTre? La creatura della mitologica Milena Gabanelli (fatti, fatti, fatti) e del suo primo cavaliere, Sigfrido Ranucci? Purtroppo negli ultimi tempi è successo qualcosa che ha offuscato l'immagine di questo programma d'inchiesta pagato dai contribuenti: in commissione di Vigilanza Rai è scoppiato il caso dei messaggini "minatori" inviati dal conduttore Ranucci ad alcuni parlamentari che avevano parlato di una lettera anonima in cui Sigfrido passava per molestatore sessuale. Lui non l'ha presa bene per niente. Il giorno dopo ha compulsato qua e là frasi sconnesse dettate da «furore», si è poi difeso, ma intanto il dado è tratto e la macchia si è sparsa sulla tavola un tempo immacolata apparecchiata dalla Gabanelli prima dell'addio. Sono scattate querele, controquerele, esposti in procura, con l'amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, uno abituato a tenere a bada i sindacati del teatro dell'Opera e a far quadrare i conti, in trincea sul cavallo di viale Mazzini. Per non parlare del presidente della commissione di Vigilanza Rai, Alberto Barachini, un tempo giornalista pure lui e abituato a parlare, ora sul caso in questione taglia corto: «Io ho fatto tutti i passaggiche dovevo fare, di più non posso dire». Eppure, adesso, c'è una nuova bombetta, l'ha sganciata Aldo Torchiaro sulle colonne de Il Riformista con un pezzo che cita «fatture false, latitanti, dossier di fango e super 007». In pratica, svela il "metodo Ranucci" per ottenere i suoi scoop perché, assicurano dal quotidiano, «siamo venuti in possesso di documenti che attestano come Ranucci abbia offerto soldi ad alcuni freelance che gli proponevano filmati per demolire la reputazione di un politico del nord». 

Soldi, reputazione, politico. Ecco le paroline magiche che in genere formano gli ingranaggi della macchina del fango e vanno a comporre la famigerata «centrale dei 78mila dossier», di cui hanno parlato in Vigilanza Andrea Ruggieri e Davide Faraone, anche detta fabbrica dello sputtanamento assicurato. Ora, secondo il quotidiano diretto da Piero Sansonetti, da fonti interne al programma ci sarebbe la prova dell'acquisto di documenti non proprio alla luce del sole. In particolare, un testimone autorevole riferisce che il conduttore di Report, all'esterno degli uffici Rai, ha riunito alcuni freelance di un'agenzia di videomaker che gli avrebbero proposto un filmato al veleno su un parlamentare eletto al nord. Il vice direttore di Rai Tre, è la nuova accusa, avrebbe offerto del denaro per l'acquisto del servizio scottante, spiegando a bassa voce le inammissibili modalità operative: la vendita di materiale fittizio alla Rai, su cassette fornite dallo stesso Ranucci. La fatturazione, scrive Torchiaro, con una doppia partita: da un lato l'acquisto di "grezzo", materiale non montato e che la Rai non utilizzerà mai, al solo scopo di far uscire dei soldi dalle casse Rai. Materiale inutile contrassegnato da un'etichetta qualsiasi che il conduttore si premurerà di valutare come «giornalisticamente importante». Dall'altro l'acquisizione del dossier di vero interesse - ma di provenienza coperta - che segue un binario parallelo e invisibile. Inviato in forma anonima, su mini cassette dello stesso formato, con plichi postali inviati alla redazione di Report da città di volta in volta diverse. Un sistema così poco chiaro che perfino gli interlocutori di Ranucci avrebbero chiesto: «Ma è legale? La Rai non controlla?». Lui li ha rassicurati: «Entrano diecimila cose alla Rai». 

Insomma, secondo l'articolo del Riformista, ci sarebbe qualcuno che fa il "lavoro sporco" per Ranucci e che i contribuenti Rai pagano. E un reportage sulla Calabria va a finire in soffitta perché serve di più "dossier" contro il politico. Non solo. Visto che nella vicenda sarebbero coinvolti latitanti, Ranucci si propone di usare i suoi contatti con alti funzionari dei Servizi Segreti e capi dei Ros dei carabinieri. Ovviamente il vicedirettore di Raitre nega tutto, la Gabanelli giura sulla sua onestà e la sinistra denuncia il tentativo di ridimensionare Report. Ma dalla Lega a Iv sono in arrivo interrogazioni parlamentari perché «è uno scandalo per il servizio pubblico», attacca il deputato Luciano Nobili. «Garantire la libertà d'inchiesta, no al giornalismo a tesi», aggiunge Massimiliano Capitanio. In serata Ranucci fa sapere che «è tutta una bufala passata in giudicato». Ma è un'altra storia.

ESCLUSIVO ! Oggi in edicola “Il Riformista” svela il “metodo-Report”: fatture false, latitanti, dossier di fango e 007 amici. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno l'11 Febbraio 2022.

Secondo le accuse del Riformista, dai documenti in loro possesso risulterebbe che il coordinatore di questo programma, avrebbe offerto dei soldi (pubblici) ad alcuni free lance che gli proponevano dei filmati per demolire la reputazione di un politico del Nord Italia.

di Redazione Politica

Il caso legato a Sigfrido Ranucci, il giornalista Rai che conduce Report, e lo scambio avuto con il parlamentare di Forza Italia e membro della commissione di vigilanza Rai, Andrea Ruggieri, sembra quasi nulla rispetto alla denuncia del quotidiano il Riformista dell’esistenza di una sorta di “sistema Report” . 

Ricordando la lettera anonima che accusava Ranucci di molestie in redazione, il deputato di Forza Italia (che è anche il nipote di Bruno Vespa)  ha reso noto in Commissione una serie di messaggi che il conduttore di Report gli avrebbe inviato immediatamente dopo la seduta in cui se ne era discusso. “Berlusconi è il top player del bullismo sessuale che adesca minorenni” avrebbe scritto Ranucci. Ed ancora: “Mi arrivano decine di segnalazioni sui tutti i politici, anche su di voi, tra uso di cocaina e scene da basso impero sugli yacht“. Ranucci avrebbe scritto un messaggio all’on. Ruggieri affermando di essere in possesso di ben 78.000 dossier sui politici, che nei messaggi definirebbe «riciclatori» e «merde», tirando in ballo anche Anna Falchi, la compagna del commissario di Forza Italia in Vigilanza RAI, e la figlia di lei. “Spero che capiti anche a loro”, gli avrebbe scritto Ranucci. 

Ma per i colleghi in commissione RAI e per l’ad Fuortes, le sorprese non erano finite. Dopo l’intervento dell’ On. Ruggieri, il senatore e capogruppo di Italia Viva Davide Faraone confermava le parole del collega deputato affermando di aver ricevuto anch’egli analoghi messaggi da parte di Ranucci. Nello stupore generale la senatrice Santanché e il deputato Mollicone di Fratelli d’Italia chiedevano l’immediata convocazione di Ranucci in commissione, mentre qualcuno (della sinistra) suggeriva la chiusura immediata dell’audizione. A quel punto il presidente della Commissione l’ on. Barachini ha invitato il collega Ruggieri a depositare i messaggi non solo in commissione ma anche alla Procura della Repubblica. Imbarazzante la replica del conduttore Ranucci (che è anche vicedirettore del Tg3) che ha diffuso in serata: “I miei non erano i messaggi di un vigilato a un vigilante, ma di un uomo a un altro uomo”.

Il quotidiano diretto da Piero Sansonetti ha annunciato ieri di essere entrato in possesso di documenti che svelerebbero il metodo con cui viene gestito e realizzato il programma Report (Rai Tre) condotto dal giornalista Sigfrido Ranucci che a partire dalla gestione post-Gabanelli, la trasmissione non fa più parte del Consorzio del giornalismo investigativo internazionale. Da questi documenti risulterebbe che il coordinatore di questo programma, avrebbe offerto dei soldi (pubblici) ad alcuni free lance che gli proponevano dei filmati per demolire la reputazione di un politico del Nord Italia.

La cosa più grave è che Ranucci non solo avrebbe offerto dei soldi, ma addirittura li avrebbe offerti con un raggiro, proponendo a questi free lance di mandare i filmati che incastravano il politico in forma anonima per posta, ed invece di vendergli, fatturandolo, un servizio privo di interesse, con immagini grezze, sulla Calabria. 

Il giornalista Ranucci conduttore di Report spiegherebbe che lui stesso avrebbe garantito il valore giornalistico del servizio sulla Calabria alla Rai e quindi avrebbe fatto autorizzare il relativo pagamento dall’ ente radiotelevisivo di Stato. In realtà l’intento reale sarebbe stato quello di archiviare le immagini della Calabria usando invece le immagini (spacciate come anonime) contro il politico. A quanto pare, secondo il Riformista sarebbe questo il metodo con il quale si fabbricavano dossier a spese del servizio pubblico radiotelevisivo.

A noi avevano detto che Report faceva giornalismo di inchiesta. Uno dei “freelance” avrebbe avvertito di Ranucci che lui non poteva nemmeno circolare in Italia (in pratica dichiarava di essere latitante) ma il conduttore-responsabile di Report gli avrebbe detto di non preoccuparsi perché gli avrebbe procurato un appuntamento addirittura con il generale Pasquale Angelosanto, comandante dei Ros dei Carabinieri.

Antonello de Gennaro. Giornalista professionista dal 1985 ha lavorato per importanti quotidiani e periodici, radio e televisioni nazionali in Italia ed all’estero. Pioniere dell’informazione sul web è ritenuto dei più grossi esperti di comunicazione su Internet.

Sigfrido Ranucci, bomba del Riformista: "Trattava per comprare filmati compromettenti su un politico del nord". Il Tempo il 10 febbraio 2022.

Novità sul caso legato a Sigfrido Ranucci, il giornalista Rai che conduce Report, e lo scambio avuto con il parlamentare di Forza Italia e membro della commissione di vigilanza Rai, Andrea Ruggieri. A sollevare un nuovo polverone e denunciare una sorta di "sistema Report" è il Riformista. 

Il sito del quotidiano diretto da Piero Sansonetti spiega di essere entrato in possesso "di documenti che riguardano il modo nel quale viene realizzato il programma di Rai Tre", si legge nell'articolo. In sintesi Ranucci avrebbe offerto dei soldi ad alcuni free lance che gli proponevano dei filmati "per demolire la reputazione di un politico del Nord Italia".

"Dossier" e "fango" che verrebbero ripagati in modo dubbio. "Non solo offriva soldi, ma li offriva con un raggiro. Cioè proponeva a questi free lance di fargli avere per posta e in forma anonima i filmati che incastravano il politico e poi di vendergli invece, fatturandolo, un servizio privo di interesse, anche immagini grezze, sulla Calabria".

Nei documenti in possesso del quotidiano lo stesso Ranucci spiegherebbe che avrebbe garantito personalmente "il valore giornalistico del servizio sulla Calabria alla Rai" per giustificare il pagamento ma poi "avrebbe archiviato la Calabria e usato invece le immagini contro il politico". Per il Riformista questa appare come la dimostrazione del "metodo con il quale si fabbricavano dossier a spese della Rai". A rendere più misteriosi i contorni della vicenda sono le parole di uno dei freelance protagonisti che al sito ha dichiarato di aver avvertito il conduttore di Report che uno dei giornalisti "non poteva nemmeno stare in Italia (evidentemente dichiarava di essere latitante)", ricevendo la risposta "di non preoccuparsi" perché Ranucci "gli avrebbe procurato un appuntamento con il capo dei Ros dei carabinieri".

Ranucci comprò video da un latitante". Felice Manti l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale. Il "Riformista": ce l’ha detto una fonte interna. La replica: "Querelo".

I servizi segreti e dietro i servizi di Report? L’inquietante ipotesi lanciata oggi da Aldo Torchiaro sul Riformista riaccende i riflettori su Sigfrido Ranucci, che secondo una fonte interna avrebbe ideato un giro di fatture false per pagare alcuni freelance che gli proponevano dei filmati per demolire la reputazione di un politico. Tipo il video di Matteo Renzi pizzicato con lo 007 Marco Mancini a un autogrill. Nel libro intervista con Alessandro Sallusti Lobby&Logge l’ex leader Anm Luca Palamara non ritiene plausibile la versione di Report, cioè che Renzi sia stato filmato «per caso» da una insegnante rimasta anonima. Secondo l’inchiesta del Riformista il meccanismo prevederebbe anche un raggiro ai danni della Rai, azienda senza controlli visto che «entrano 10mila cose»: l’acquisto con soldi pubblici di materiale inutilizzabile sulla Calabria ma ritenuto «giornalisticamente importante» in cambio di nastri compromettenti di dubbia provenienza (uno dei freelance sarebbe un latitante) e l’offerta da parte di Ranucci di un contatto con un non meglio identificato «capocentro» dei servizi segreti, a loro volta interessati a questo materiale. Un’ipotesi agghiacciante, secondo alcune voci corroborata anche da materiale audiovisivo, che Ranucci ovviamente respinge con forza: «È un file manipolato del 2014, su di me non troveranno neanche uno scontrino non pagato. Chi riprende sta roba lo querelo». Ieri è arrivata la solidarietà non scontata di Milena Gabanelli, che con Ranucci ha lavorato per 10 anni dal 2006 al 2016. «Sulla sua onestà non ho dubbi», ha detto l’ex conduttrice, declinando come «reazione umana» gli sms minacciosi e allusivi ai parlamentari della Vigilanza Rai Davide Faraone (Iv) e Andrea Ruggieri (Forza Italia). L’azzurro piccato ha replicato alla giornalista oggi in forza a La7 e Corriere della Sera: «Predica continenza e liceità dei comportamenti di chiunque poi fa un’eccezione, secondo il ben noto teorema “inflessibili solo con gli altri”». Ha fatto rumore dentro Viale Mazzini anche la conferma di vicedirettore ad personam di Ranucci da parte dell’ad Carlo Fuortes, nonostante i sospetti di mobbing, e la sperticata lode del numero uno UsigRai Daniele Macheda al «giornalismo d’inchiesta», soprattutto nella strampalata richiesta di pubblicare i verbali dell’audit secretati. «Così nessuno denuncerebbe più nulla», dice una giornalista Rai in attesa di contratto. «La porta del sindacato è aperta a tutti», replica Macheda al Giornale. Come a dire, chi ha qualcosa da dire su Ranucci venga allo scoperto. Felice Manti

(ANSA l'8 febbraio 2022) - Le affermazioni di Andrea Ruggieri su Sigfrido Ranucci "sono serie e gravi. Io non sono un giudice, sono un amministratore che ha rispetto delle leggi. Sono comunicazioni private non fatte nell'esercizio delle funzioni di Ranucci. 

Se il tutto fosse avvenuto in trasmissione sarebbe stata diverso. Il caso deve essere giudicato dalle autorità competenti, noi attiveremo l'audit, unico organo competente". Così l'ad Rai Carlo Fuortes dopo le accuse di Ruggieri in Vigilanza. Fuortes ha fatto sapere che "la lettera anonima contro Ranucci è stata oggetto di audit e le accuse non hanno trovato riscontro".

Lite su Ranucci, Ruggieri (FI): da lui minacce. La replica: falso. Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 9 Febbraio 2022.

Riesplode il caso Report in commissione di Vigilanza Rai. Ieri in occasione dell’audizione dell’amministratore delegato, Carlo Fuortes, il membro di Forza Italia, Andrea Ruggieri, ha denunciato di avere ricevuto «minacce e insulti» da Sigfrido Ranucci, conduttore di Report e vicedirettore di Rai3. Secondo Ruggieri, il 25 novembre scorso, il giorno dopo la sua rivelazione in commissione di una lettera anonima con accuse gravi a Ranucci, risultate poi infondate da una verifica in Rai, quest’ultimo gli avrebbe inviato messaggi «insultanti» e «minacciosi». Il giornalista avrebbe definito «comico» l’intervento di Ruggieri sulla lettera anonima «perché fatto da uno che ha come capo (Silvio Berlusconi, ndr) il top player del bullismo sessuale mondiale». Ranucci poi si sarebbe riferito ai direttori di alcuni giornali alludendo al fatto che, secondo segnalazioni arrivategli, adescherebbero minorenni.

Sempre secondo Ruggieri, Ranucci avrebbe millantato il possesso di 78 mila dossier anonimi su politici, anche di Forza Italia, alcuni sull’uso di droghe. «Infine — conclude l’esponente di FI — Ranucci mi ha rimproverato di non averlo avvisato prima (della lettera, ndr)». Il deputato e tutto il centrodestra hanno chiesto all’ad immediati provvedimenti. Ma Fuortes, non trattandosi di messaggi pubblici, ha rimesso tutto al giudizio della Procura, cui Ruggieri non si è ancora rivolto. Ranucci si difende: «A differenza di chi mi accusa, io i dossier anonimi che ricevo, e di cui ho fatto cenno a Ruggieri, li cestino. Non ne ho 78 mila, quelle sono le segnalazioni per email». Sugli epiteti a Berlusconi, dice di averli pronunciati in replica alle accuse di bullismo rivoltegli. Il giornalista nega di aver chiesto a Ruggieri di essere preavvisato sui dossier. Infine neanche Ranucci ha ancora denunciato Ruggieri e gli altri parlamentari che hanno svelato dossier risultati inattendibili: «Spero che se lo farò, non si sottrarranno al giudice in quanto parlamentari».

Sigfrido Ranucci: «Report non fa dossier, chiederò i danni. I messaggi? Inviati nel pieno del furore».  Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2022.   

Ranucci, ora anche Davide Faraone (Iv) l’accusa di avergli inviato messaggi minacciosi. «L’ho letto. Ma io non ho mai detto né scritto “ti scateno contro le telecamere”». E tutto il resto sì? I dossier messi da parte? «A Report non c’è nessuna centrale di dossieraggio, anzi, noi i dossier anonimi li cestiniamo. E fino, a prova contraria, l ’unico che è stato oggetto di dossier falsi, per ben due volte, sono io». Quindi ora denuncia Faraone? «Di certo chiederò il risarcimento danni nei confronti di tutti coloro che hanno diffuso e diffonderanno informazioni lesive della mia immagine e della mia dignità, così come di quelle dei miei cari». Ruggieri sta già scrivendo la querela contro di lei di suo pugno. «Io gli ho mandato messaggi nel pieno, lo ammetto, del mio furore perché era stata lesa la mia dignità. Ma erano messaggi privati: tra me e lui. La legge è chiarissima su questo punto: perché ci sia diffamazione devi parlare almeno davanti a due persone». Il direttore Minzolini invece l’ha già querelata per quelle accuse che sono emerse nei messaggi. «E ha sbagliato soggetto. Non sono stato io a diffondere quei messaggi, che peraltro dicevano tutt’altro». La Lega ha chiesto che la vicenda venga portata a conoscenza dei presidenti delle Camere perché facciano chiarezza. «Allora si facesse chiarezza anche sull’uso dei dossier anonimi da parte dei politici contro i giornalisti». Si sente difeso dalla Rai? «Sì, mi ha sempre riconfermato la fiducia». Le risulta che le puntate di «Report» diminuiranno? «Non ne so nulla. Chieda a Orfeo che dirige gli Approfondimenti. O a Fuortes». 

Ruggieri: «Ranucci non mi doveva inviare quegli sms, io sono Vigilante Rai». Antonella Baccaro su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.

Si allarga la querelle sul conduttore di Report accusato di molestie in redazione. «Se si fosse scusato, lo avrei capito. Non l’ha fatto e adesso, nel replicare, dice bugie, Inoltre non è corretto dire che si trattava di una conversazione tra privati»

Onorevole Ruggieri, questa storia dei messaggi non si ferma più.

«Pensi che se Ranucci mi avesse chiamato nei cinque giorni successivi all’invio di quei messaggi e si fosse scusato, io l’avrei capito». 

Invece?

«Invece non solo non l’ha fatto ma ora, nel replicare, dice un sacco di bugie». 

Per esempio?

«Che ci saremmo presi un caffè venti giorni prima della denuncia della lettera anonima, come per alludere a un rapporto tra me e lui che giustificherebbe l’invio di quei messaggi». 

Non è così?

«Io non lo conosco. Io sono il vigilante e lui il vigilato. Messaggi, tanto più se minacciosi, non sono ammessi». 

Sì, ma il caffè c’è stato?

«Ero in Rai ospite della Bortone e lui mi si è avvicinato per chiedermi qualcosa». 

Era proprio necessario tirare fuori in Vigilanza un dossier anonimo contro Ranucci?

«L’ha fatto Faraone e io, proprio per chiuderla lì, sono intervenuto per dire che l’avevo ricevuto anch’io ma, essendo anonimo, l’avevo cestinato. Ranucci doveva ringraziarmi». 

Ha condiviso la scelta dell’ad Rai Carlo Fuortes di rimettersi alla magistratura e avviare un audit interno?

«Non condivido che quella tra me e Ranucci possa considerarsi una “conversazione tra privati”, come l’ha definita lui. Mi aspettavo e mi aspetto qualcosa di più». 

Il M5S l’accusa di voler far fuori «Report».

«Il M5S si è distinto per sostenere inchieste roboanti cui deve la sua ascesa e discesa. Un conduttore del servizio pubblico che agisce in questo modo non può restare senza sanzione». 

Che fa? Censura?

«Ma basta! I veri potenti sono i conduttori tv che fanno il bello e il cattivo tempo. Che ora debbano pure fare le vittime è insopportabile».

Giovanna Vitale per "la Repubblica" il 9 febbraio 2022.

Scusi Ranucci, come le è venuto in mente di scrivere dei messaggi minatori a un commissario della Vigilanza che neanche conosceva?

«Quello che dice Ruggieri è falso. Gli ho pagato un caffè al bar di via Teulada 20 giorni prima della seduta parlamentare in cui lui e Faraone hanno tirato fuori la lettera anonima che mi accusava di molestie sessuali in redazione, risultate poi totalmente infondate. In quell'occasione avevo rappresentato al commissario di Fi la necessità di prestare attenzione al ruolo dell'informazione Rai. E lui mi aveva risposto: "Siete bravissimi. Fate una trasmissione pazzesca". Ci sono pure i testimoni». 

La conoscenza occasionale giustifica gli insulti e le accuse di abusi sessuali rivolte a Berlusconi?

«Rimettiamo in fila i fatti. Quando, a fine novembre, Ruggieri e Faraone parlano in Vigilanza della lettera anonima coll'intento di sdoganarla e darla in pasto ai giornali, io lo chiamo perché so che il Giornale stava scrivendo degli articoli per colpire Report. Lui non risponde. Quindi chiamo Barachini (presidente forzista della Bicamerale Rai, ndr ) e gli faccio: "Per cortesia parla con Ruggeri, cercate di fermare questa roba che è falsa". E Barachini replica: "Penso anch'io, tant'è che non gli ho dato seguito. Adesso sento Ruggieri". Dopo un po' lo richiamo e mi fa: "L'ho trovato poco disponibile"». 

E questo le dà il diritto di scrivere a un parlamentare, chiamato a vigilare sul servizio pubblico, minacciandolo di avere dossier sui politici che fanno uso di droghe?

«Io non ho minacciato nessuno. E poi scusi, se in un documento anonimo l'accusassero di essere una poco di buono che la dà in giro per fare carriera, lei come si sentirebbe? Ciò che mi hanno fatto è il primo caso al mondo di "Me too" senza il Me. Le persone che secondo quella lettera sono state molestate hanno negato tutto. Di che stiamo parlando?».

Me lo dica lei.

«Io penso che abbiano travalicato il loro compito di vigilanti. Potevano secretare la seduta e fare una comunicazione scritta alla Rai. Se hanno scelto di dare pubblicità a un anonimo è per ledere la mia dignità». 

Quindi rivendica i messaggi?

«Io ho scritto a Ruggieri per dirgli che aveva fatto una cosa vergognosa. Che per gettare fango su di me stavano coinvolgendo persone incolpevoli: la mia famiglia e la redazione di Report. E siccome mi si accusava di bullismo sessuale ho rimarcato come fosse comico che il rilievo arrivasse dall'esponente di un partito il cui capo è leader mondiale in materia». 

E i dossier sui coca party? In chat scrive di averne addirittura 78mila .

«È un altro falso. Io non ho mai usato l'arma dei dossier, ho detto anzi il contrario. Ho segnalato che pure a me arrivano tanti anonimi, ma che noi non li usiamo. Noi li abbiamo sempre cestinati». 

Lei è vicedirettore di Rai3, le pare un comportamento consono?

«Si tratta della reazione di uomo leso nella sua dignità personale e professionale da un atto che ha travalicato i compiti parlamentari».

Perciò lo rifarebbe?

«Il mio è stato lo sfogo privato di una persona ferita. Ho risposto non come vigilato ma come uomo». 

Lei ritiene che l'obiettivo degli attacchi sia la chiusura di Report?

«Io noto le coincidenze. Nel dicembre 2020 faccio un'inchiesta su Alitalia, Renzi, i suoi rapporti con Ethiad e il caso Air Force. E il 2 febbraio 2021 gira il primo dossier falso che accusa Report di aver pagato una società lussemburghese per confezionare servizi contro il leader di Iv. Il 3 maggio va in onda la puntata Renzi-Mancini e Iv rilancia quel dossier, da cui parte una selva di interrogazioni. Dopo un mese arriva la lettera anonima sulle molestie. Il 1° novembre trasmettiamo un altro servizio sui viaggi di Renzi in Arabia e il 24 la lettera spunta in Vigilanza. Mi chiedo se è normale che vengano usati dossier contro giornalisti, con l'unico scopo della loro sospensione o sostituzione». 

Deduco che non si pente di nulla.

«Forse non avrei usato la parola "merde". Mi è scattato quando mia figlia, che aveva letto online delle molestie, mi ha scritto: papà, cosa hai combinato? Loro sapevano che oggi l'ad avrebbe dato la notizia dell'audit Rai chiuso positivamente e mi hanno voluto colpire di nuovo».

Luca Fazzo per “il Giornale” il 10 febbraio 2022.

Si danno del tu, si scambiano tonnellate di whatsapp, si indignano quando le cose non vanno per il verso giusto, concordano le interviste, si creano alibi. Uno è Vincenzo Armanna, ex avvocato dell'Eni, già teste d'accusa nel processo ai vertici del gruppo, ora imputato di calunnia e indagato per complotto. 

 L'altro è il giornalista di Report che lo intervista per la trasmissione di Sigfrido Ranucci che il 15 aprile 2019 manda in onda una superinchiesta contro le malefatte dei vertici Eni. L'intervista ad Armanna è il piatto forte della puntata. Allora l'avvocato siciliano non è ancora finito nei guai, e le sue rivelazioni sugli affari oscuri del cane a sei zampe fanno un botto di share.

Ma ora la Procura di Milano ha depositato, nello sterminato materiale dell'indagine sul complotto contro Eni, anche i messaggi che Armanna e il giornalista si scambiano tra il 7 febbraio 2018 e l'8 dicembre 2019. Centinaia di messaggi che raccontano bene il backstage non solo dell'intervista ad Armanna ma dell'intero «sistema Report»: e che vengono alla luce proprio quando la trasmissione di Ranucci è accusata da membri della commissione di vigilanza Rai di metodi non ortodossi. 

Armanna ne emerge non come un intervistato ma come una sorta di consulente del programma. È lui, il mestatore del caso Eni, a indicare al giornalista le domande da porre, a indicargli le piste da seguire, persino a fornire i numeri di telefono. Tutto all'interno di un suo piano ben noto al giornalista: «Credo di averti detto quale fosse il mio interesse», gli scrive Armanna il 23 luglio, «non ti ho preso in giro».

L'analisi delle chat è contenuta nel rapporto che il 14 gennaio 2021 la Guardia di finanza invia ai pm milanesi dopo avere analizzato l'iPhone sequestrato ad Armanna. Nelle chat a ridosso della puntata di Report «si evince chiaramente che il giornalista sospetti un accordo tra Amara e lo stesso Armanna per fregare Granata (Claudio Granata, potente capo del personale Eni, ndr). 

"Buongiorno, ma non è che tu e Amara vi siete messi d'accordo per fregare Granata? Le vostre interviste sono fin troppo uguali". A tale affermazione Armanna risponde negando qualsiasi coinvolgimento con Amara (...) Come è noto, nonostante la perplessità del giornalista, il servizio va in onda il giorno 15.4.2019».

In più di un passaggio, reporter e «gola profonda» appaiono schierati dalla stessa parte: quella che punta alla condanna dei vertici Eni. Il 30 ottobre l'inviato di Report si infuria per una decisione del presidente del tribunale: «Ma scusa hanno bocciato la richiesta di sentire il vero Victor (presunto 007 nigeriano, ndr)? Ma siamo matti?». Gli risponde sullo stesso tono Armanna: «Comunque il presidente è venduto proprio, riusciremmo a farlo sentire lo stesso ma è proprio a favore di Eni il presidente... Pazzesco». 

Armanna tiene al corrente il giornalista di tutte le sue mosse giudiziarie, gli preannuncia le convocazioni in Procura, «sto andando dalla Pedio», gli dà le chiavi di lettura: «Posso dire che Granata è il braccio destro di Descalzi?» «Sì certo, è l'unico di cui si fida». Il top viene raggiunto la notte del 23 luglio. Armanna è stato appena colto in castagna a mentire ai giudici su un dettaglio chiave, la data della sua conoscenza con Amara. 

E chiede aiuto al giornalista per crearsi una spiegazione credibile: «A me basterebbe dire che tu mi facesti domande su quel documento e che ti confermai incontro e che sapevo fosse luglio (...) posso dirlo?». «Valuta tu. È vero che te ne ho parlato e chiesto di quel documento» «Posso dire che me lo girasti»? «Non è il massimo». «Solo se mi costringono a farlo dirò che ne ero a conoscenza perché mi chiedesti spiegazioni». «Ok». «È fondamentale per la mia credibilità».

Rai, veleni sui dossier. "Ranucci ha minacciato due parlamentari". Felice Manti il 9 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Ruggieri (Fi) contro il conduttore di "Report". "Da lui messaggi allusivi anche a Faraone".

«È vero, ho scritto a un politico che è una m... ma l'ho fatto da uomo a uomo, l'ho conosciuto e gli ho anche offerto un caffè». È un Sigfrido Ranucci arrabbiato quello che si sfoga con Il Giornale dopo la notizia che l'Audit Rai indagherà sugli sms che il conduttore di Report ha mandato a politici e giornalisti, ipotizzando 78mila dossier («segnalazioni, non dossier», ci corregge subito) su direttori di giornali e politici che «scopano ragazzine», «pippano e vanno in barca». Una violazione clamorosa del rigidissimo codice etico Rai, come ci conferma un dirigente che preferisce rimanere anonimo. E che rischia di costare caro a Ranucci. Financo l'incarico di vicedirettore Rai, prossimo alla scadenza e che potrebbe non essere rinnovato.

Ieri a scatenare il putiferio è stato il parlamentare di Forza Italia Andrea Ruggieri, che durante la Vigilanza Rai ha letto una serie di messaggi scambiati con il conduttore di Report Sigfrido Ranucci, accusandolo di «insulti e minacce» e chiedendo all'ad Carlo Fuortes, presente in aula per un'audizione, di intervenire nei suoi confronti ritenendolo non adatto a condurre un programma. Il manager ha parlato di «affermazioni serie e gravi» e annunciato l'attivazione dell'audit interno, mentre il giornalista ha negato le minacce e accusato i parlamentari di usare dossier falsi contro di lui per arrivare alla sua sostituzione. «Ero molto arrabbiato perché mia figlia aveva letto di quel dossier reso noto in Vigilanza Rai, quelle false accuse su di me anche sul tuo giornale. Tra l'altro nei messaggi con Ruggieri non parlavo del vostro direttore Augusto Minzolini, parlavo del direttore di un altro giornale, del Centro Italia», sottolinea Ranucci, che poi prova a discolparsi: «L'Audit sul falso dossier che mi accusa di aver avuto relazioni con alcune colleghe, di averle favorite e di aver mobbizzato altre colleghe è stato giudicato insussistente», gongola. In effetti, a quanto risulta al Giornale, solo una storica giornalista ex Report avrebbe confermato di essere stata mobbizzata per un servizio in pandemia mai andato in onda. «Era sciatto, fatto interamente su Skype mentre altre troupe erano fuori in giro a rischiare la vita, c'era il compagno in pigiama che usciva durante le riprese, l'audio era pessimo, non c'erano le domande al governatore Attilio Fontana sulla mancata zona rossa che avrebbe dovuto fare, e voleva pure 13mila euro. E poi non l'ho bocciato io ma la capostruttura Annamaria Catricalà», si lascia scappare Ranucci. Insomma, normale dialettica interna alla redazione non mobbing, è stata la conclusione dell'istruttoria, chiusa in tempi record, di cui Ranucci aveva stranamente contezza già da qualche giorno. «Ma nel servizio emergevano i meriti del gruppo ospedaliero, degli intensivisti trasferiti, dei pazienti nel tendone pagato dai Ferragnez. Non era a tesi, come piace a Ranucci... È un motivo per mandare via una collega?», si lamenta una giornalista che conosce la collega coinvolta, poi allontanata dalla trasmissione.

Ma neanche il tempo di esultare che su Ranucci piovono altre accuse gravissime. «Intanto quei messaggi sono stati inviati quando dell'Audit Rai nessuno sapeva nulla. Ora la Rai deve stabilire se è normale che un giornalista, un conduttore che dovrebbe essere imparziale, possa minacciare e calunniare leader politici e componenti della Vigilanza Rai e alcuni direttori di giornale, sostenere che Silvio Berlusconi è una specie di bullo sessuale - dice Ruggeri al Giornale - se è normale che un dipendente Rai riceva e conservi, come scrive nei messaggi, 78mila dossier sui politici. La sua difesa è patetica, io non sono ricattabile». La politica si mostra compatta a difesa di Ruggieri e Faraone. Luciano Nobili di Italia Viva parla di «indegno metodo Ranucci...incompatibile col servizio pubblico, una macchina del fango a spese dei cittadini». Ora cosa deciderà Fuortes? E l'Audit che ha appena «graziato» il conduttore, adesso cosa farà? Felice Manti

LA STORIA INQUINATA. Estratto dell'articolo di Augusto Minzolini per "il Giornale" il 9 febbraio 2022.  

P.s. Visto che, secondo qualche organo di informazione, lo stesso Ranucci o qualche dossier, non so come, mi tirerebbero in ballo, informo che ho presentato querele, come querelerò tutti quelli che in un modo o nell'altro citassero il mio nome in riferimento alla vicenda in questione.

Felice Manti per "il Giornale" il 9 febbraio 2022.

«È vero, ho scritto a un politico che è una m... ma l'ho fatto da uomo a uomo, l'ho conosciuto e gli ho anche offerto un caffè». È un Sigfrido Ranucci arrabbiato quello che si sfoga con Il Giornale dopo la notizia che l'Audit Rai indagherà sugli sms che il conduttore di Report ha mandato a politici e giornalisti, ipotizzando 78mila dossier («segnalazioni, non dossier», ci corregge subito) su direttori di giornali e politici che «scopano ragazzine», «pippano e vanno in barca».

Una violazione clamorosa del rigidissimo codice etico Rai, come ci conferma un dirigente che preferisce rimanere anonimo. E che rischia di costare caro a Ranucci. Financo l'incarico di vicedirettore Rai, prossimo alla scadenza e che potrebbe non essere rinnovato. Ieri a scatenare il putiferio è stato il parlamentare di Forza Italia Andrea Ruggieri, che durante la Vigilanza Rai ha letto una serie di messaggi scambiati con il conduttore di Report Sigfrido Ranucci, accusandolo di «insulti e minacce» e chiedendo all'ad Carlo Fuortes, presente in aula per un'audizione, di intervenire nei suoi confronti ritenendolo non adatto a condurre un programma. 

Il manager ha parlato di «affermazioni serie e gravi» e annunciato l'attivazione dell'audit interno, mentre il giornalista ha negato le minacce e accusato i parlamentari di usare dossier falsi contro di lui per arrivare alla sua sostituzione.

«Ero molto arrabbiato perché mia figlia aveva letto di quel dossier reso noto in Vigilanza Rai, quelle false accuse su di me anche sul tuo giornale. Tra l'altro nei messaggi con Ruggieri non parlavo del vostro direttore Augusto Minzolini, parlavo del direttore di un altro giornale, del Centro Italia», sottolinea Ranucci, che poi prova a discolparsi: «L'Audit sul falso dossier che mi accusa di aver avuto relazioni con alcune colleghe, di averle favorite e di aver mobbizzato altre colleghe è stato giudicato insussistente», gongola. In effetti, a quanto risulta al Giornale, solo una storica giornalista ex Report avrebbe confermato di essere stata mobbizzata per un servizio in pandemia mai andato in onda.

«Era sciatto, fatto interamente su Skype mentre altre troupe erano fuori in giro a rischiare la vita, c'era il compagno in pigiama che usciva durante le riprese, l'audio era pessimo, non c'erano le domande al governatore Attilio Fontana sulla mancata zona rossa che avrebbe dovuto fare, e voleva pure 13mila euro. E poi non l'ho bocciato io ma la capostruttura Annamaria Catricalà», si lascia scappare Ranucci. 

Insomma, normale dialettica interna alla redazione non mobbing, è stata la conclusione dell'istruttoria, chiusa in tempi record, di cui Ranucci aveva stranamente contezza già da qualche giorno. «Ma nel servizio emergevano i meriti del gruppo ospedaliero, degli intensivisti trasferiti, dei pazienti nel tendone pagato dai Ferragnez. Non era a tesi, come piace a Ranucci... È un motivo per mandare via una collega?», si lamenta una giornalista che conosce la collega coinvolta, poi allontanata dalla trasmissione. Ma neanche il tempo di esultare che su Ranucci piovono altre accuse gravissime.

«Intanto quei messaggi sono stati inviati quando dell'Audit Rai nessuno sapeva nulla. Ora la Rai deve stabilire se è normale che un giornalista, un conduttore che dovrebbe essere imparziale, possa minacciare e calunniare leader politici e componenti della Vigilanza Rai e alcuni direttori di giornale, sostenere che Silvio Berlusconi è una specie di bullo sessuale - dice Ruggeri al Giornale - se è normale che un dipendente Rai riceva e conservi, come scrive nei messaggi, 78mila dossier sui politici. La sua difesa è patetica, io non sono ricattabile». La politica si mostra compatta a difesa di Ruggieri e Faraone. Luciano Nobili di Italia Viva parla di «indegno metodo Ranucci...incompatibile col servizio pubblico, una macchina del fango a spese dei cittadini». 

Ora cosa deciderà Fuortes? E l'Audit che ha appena «graziato» il conduttore, adesso cosa farà? è Matteo Renzi per il servizio, che ha creato un polverone infinito, sull'incontro in autogrill con l'agente dei servizi segreti Marco Mancini. Ma è molto lungo l'elenco delle inchieste che hanno messo nei guai il giornalista che ha cominciato la sua carriera lavorando a «Paese sera» ed è approdato al Tg3 nel 1989. Prima di arrivare nella redazione di «Report» è stato inviato nei Balcani e ha seguito gli attentati dell'11 settembre a New York. 

Hanno fatto scalpore le sue inchieste sul traffico illecito di rifiuti, sulla mafia, sull'utilizzo di armi non convenzionali, come l'uranio impoverito, sull'uso, da parte dell'esercito americano, di agenti chimici durante i combattimenti a Falluja, in Iraq. Grande polemica ha suscitato la trasmissione dell'ultima intervista da lui rinvenuta del giudice Paolo Borsellino, in cui parlava dei rapporti tra Dell'Utri, Mangano e Berlusconi. Nel 2010 ha realizzato l'inchiesta che ha portato al ritrovamento e al sequestro della pinacoteca di Calisto Tanzi. Nel 2017 la Gabanelli gli ha lasciato il testimone della sua creatura. E, da allora, non c'è stata settimana senza servizi «bomba».

Sigfrido Ranucci si difende: "Minacce? Tutto il contrario. Forse non avrei usato la parola mer***". Libero Quotidiano il 09 febbraio 2022.

Sigfrido Ranucci si difende. Il conduttore di Report, il programma in onda su Rai 3, ha deciso di rompere il silenzio e replicare alle accuse arrivate da Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia e commissario di Vigilanza Rai. "Quello che dice Ruggieri è falso. Gli ho pagato un caffè al bar di via Teulada 20 giorni prima della seduta parlamentare in cui lui e Faraone hanno tirato fuori la lettera anonima che mi accusava di molestie sessuali in redazione, risultate poi totalmente infondate. In quell'occasione avevo rappresentato al commissario di Fi la necessità di prestare attenzione al ruolo dell'informazione Rai. E lui mi aveva risposto: 'Siete bravissimi. Fate una trasmissione pazzesca'. Ci sono pure i testimoni".

Eppure Ruggieri ha parlato di insulti e accuse di abusi sessuali in riferimento a Silvio Berlusconi. Anche su questo, a Repubblica si difende, "rimettiamo in fila i fatti. Quando, a fine novembre, Ruggieri e Faraone parlano in Vigilanza della lettera anonima coll'intento di sdoganarla e darla in pasto ai giornali, io lo chiamo perché so che il Giornale stava scrivendo degli articoli per colpire Report . Lui non risponde. Quindi chiamo Barachini (presidente forzista della Bicamerale Rai, ndr ) e gli faccio: 'Per cortesia parla con Ruggeri, cercate di fermare questa roba che è falsa'. E Barachini replica: 'Penso anch' io, tant' è che non gli ho dato seguito. Adesso sento Ruggieri'. Dopo un po' lo richiamo e mi fa: 'L'ho trovato poco disponibile'". 

Insomma, Ranucci nega di aver minacciato il parlamentare ma non di avergli inviato alcuni messaggi. A suo dire le chat erano al solo scopo di "dirgli che aveva fatto una cosa vergognosa. Che per gettare fango su di me stavano coinvolgendo persone incolpevoli: la mia famiglia e la redazione di Report. E siccome mi si accusava di bullismo sessuale ho rimarcato come fosse comico che il rilievo arrivasse dall'esponente di un partito il cui capo è leader mondiale in materia". Il fatto è noto: una fonte anonima accusava il conduttore Rai di molestie sessuali. Nulla di più falso per il diretto interessato, che non si pente di quanto quanto accaduto. Tranne che per un aspetto: "Forse non avrei usato la parola "m**e". Mi è scattato quando mia figlia, che aveva letto online delle molestie, mi ha scritto: papà, cosa hai combinato? Loro sapevano che oggi l'ad avrebbe dato la notizia dell'audit Rai chiuso positivamente e mi hanno voluto colpire di nuovo".

Sigfrido Ranucci, Pietro Senaldi: il contrappasso, l'inchiestista di Report sotto inchiesta. Chi la fa, l'aspetti. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 09 febbraio 2022.

Se non avete mai visto una puntata di Report, non vi siete persi nulla. Anzi, probabilmente sapete distinguere una notizia da una tesi politica, un'intervista da un taglia e cuci rimontato ad arte, un'indagine da un killeraggio. Già la settimana scorsa avevamo stigmatizzato il comportamento di Sigfrido, alias Segafredo, Ranucci, l'indegno erede di Milena Gabanelli nella conduzione dell'approfondimento d'inchiesta di Raitre del lunedì, trasformato da questo panzuto signorino dall'erre moscia, morbido nella dizione e nelle forme quanto ruvido nella professione, in uno sprofondo giornalistico. Il sinistrorso aveva paragonato Berlusconi a un virus, festeggiandone le dimissioni dall'ospedale con servizi e considerazioni vecchi di oltre dieci anni sulle serate di Silvio. Chi la fa, l'aspetti. Nella redazione di Segafredo è scoppiato uno scandalo Weinstein in minore, con giornaliste che lo accusano di essere state molestate. Siccome abbiamo visto con il metoo che molte di queste denunce poi si rivelano uno stalking ai danni del presunto maniaco, non abbiamo mai accusato il collega.

Il metodo Report non ci appartiene, come neppure il metodo Travaglio, che con Ranucci ha in comune la circostanza di finire spesso vittima dei propri teoremi e vedersi costretto, per difendersi, a utilizzare i medesimi argomenti ai quali ricorrono i suoi bersagli. Infatti il conduttore di Report sostiene di essere diffamato, come il direttore del Fatto Quotidiano ora afferma che le sentenze sono «scartoffie scritte da incompetenti», solo perché stavolta inchiodano il suo eroe Conte anziché Renzi, Salvini o Berlusconi. Veniamo al dunque. Per scuotere i palazzi ci vogliono dei matti senza peli sulla lingua. Gente che ha un coraggio che va oltre l'abitudine e il bon ton. Così, il deputato azzurro Andrea Ruggieri, che raramente va di fioretto, ma ancor più raramente manca l'affondo, in Commissione Vigilanza Rai ha fatto scoppiare il bubbone, chiedendo conto delle accuse mosse all'educanda Ranucci, che vorrebbe con le sue inchieste rieducare l'Italia, ma stante ad alcune sue collaboratrici dovrebbe invece andare almeno a lezione di Galateo. Lesa maestà, il Segafredo non ci sta a farsi affettare e, secondo quanto sostiene il parlamentare forzista, che specifica di avere tutto documentato, avrebbe reagito intimidendolo, insultandolo e rinfacciandogli l'amicizia con Berlusconi. Il tutto, per farlo desistere dal suo intento.

IN BUONA COMPAGNIA

Poiché una cosa tira l'altra, ed evidentemente Ranucci non gode di stampa amica né di sponsor disposti a mettere la mano sul fuoco per lui, il polverone si alza a dismisura e costringe il nuovo direttore generale della Rai a ignorare le simpatie politiche del giornalista, che sono poi le sue medesime, e ad annunciare un'inchiesta interna. Siamo in pieno periodo del terrore. Gli accusatori che finiscono sul banco degli accusati, con i loro fan che gli voltano le spalle. Abbiamo l'ex magistrato Davigo, potentissimo signore delle Procure e spietato capocorrente, che viene processato ogni giorno dagli ex colleghi del Fatto, i quali ormai lo dipingono come un pasticcione nei migliori dei casi, ben altro in ipotesi più realistiche. Poi c'è il leguleio Conte, capo del partito dei manettari, che viene destituito dai tribunali per aver fatto casino con le leggi che regolano M5S. Infine spunta Ranucci, il quale a corto di notizie si stava convertendo in moralizzatore e fustigatore dei consumi. Ma la transizione (poco verde e molto opaca) non gli è riuscita. Grazie Ruggieri. Sigfrido Ranucci, la testimonianza di Maurizio Gasparri: "Ero in Commissione, sono rimasto sconcertato". Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 09 febbraio 2022.

Una catena di reazioni. Dopo le rivelazioni esposte dal deputato di Forza Italia Andrea Ruggieri in Commissione Vigilanza sul tono e il contenuto degli sms ricevuti dal conduttore di Report (e vicedirettore di Rai3) Sigfrido Ranucci, un coro di voci si affolla nella richiesta di chiarimenti, oltreché nell'esprimere solidarietà al parlamentare. «Ero presente in Commissione Vigilanza», racconta a Libero il senatore azzurro Maurizio Gasparri, «e sono rimasto sconcertato da quello che ha detto Andrea Ruggieri. Anche io con Ranucci ho avuto confronti vivaci, ma il tono e l'atteggiamento di questi sms sono inaccettabili. Dunque ora bisognerà andare fino in fondo».

CHIESTA LA CONVOCAZIONE

Il sottosegretario alla Difesa, e deputato di Forza Italia Giorgio Mulè ragiona: «I messaggi inviati da Sigfrido Ranucci ad Andrea Ruggieri letti in Commissione vigilanza mi rattristano da giornalista e mi indignano da parlamentare e cittadino. A parti inverse si sarebbe scatenato un putiferio: si sarebbe parlato di aggressione alla libera stampa, di intimidazione, di volgari minacce. Tutto giusto. E allora - continua Mulè - non può esserci spazio per ipocrisie e partigianerie: la violenza in tutte le sue forme, specie se connotate come nel caso riferito dall'onorevole Ruggieri da un enorme pregiudizio verso Forza Italia e il suo leader Silvio Berlusconi, va condannata senza alcuna riserva. È quello che chiunque abbia a cuore il normale confronto democratico e il ruolo della stampa dovrebbe fare». Sempre dal centrodestra, si pronuncia da Fratelli d'Italia il deputato Federico Mollicone: «Ranucci venga subito convocato in commissione Vigilanza Rai, come abbiamo chiesto con il capogruppo Daniela Santanché, dopo le sconvolgenti e inquietanti vicende raccontate dal collega Ruggieri, cui va la nostra solidarietà. Un metodo di giornalismo a tesi che ora minaccia perfino, parlando di fantomatici dossier, persino insultando e minacciando un leader di partito. Il metodo Ranucci è contrario a qualsiasi forma di deontologia giornalistica».

PROTESTE BIPARTISAN

Le reazioni sono bi-partisan, e prese di posizione arrivano anche da Italia Viva. Il leader Matteo Renzi, anche lui più volte in polemica per dei servizi di Report che lo riguardavano scrive: «Esprimo solidarietà personale e istituzionale all'onorevole Ruggieri per le invereconde affermazioni di un conduttore del servizio pubblico». Il capogruppo Davide Faraone, dal suo canto osserva: «Non è tollerabile un simile comportamento, come quello denunciato dal collega Ruggieri, che anche io ho subito, da parte di un giornalista del servizio pubblico». Faraone, infatti, assieme a Ruggieri aveva dato notizia, qualche mese fa, in Commissione vigilanza del dossier anonimo che accusava Ranucci di presunte molestie sessuali all'interno della redazione del programma (documento su cui l'audit della Rai non ha rilevato alcun riscontro). «Dopo quello che è accaduto - prosegue Faraone - credo sia necessario un intervento da parte dei presidenti di Camera e Senato per tutelare l'onorabilità dei parlamentari che non possono diventare oggetto di minacce da parte di un vigilato, e della commissione di vigilanza stessa il cui valore deve essere riaffermato». Interviene anche il coordinatore nazionale del partito Ettore Rosato. Quello di Ranucci, scrive, è «un comportamento che, se fosse accertato, sarebbe intollerabile soprattutto perché tenuto da un giornalista del servizio pubblico. Mi auguro si faccia al più presto chiarezza sull'accaduto».  

Il direttore di Report verrà ascoltato in Commissione Vigilanza. Ranucci e i messaggi “con minacce” al deputato Ruggieri, la bomba che fa tremare il conduttore di Report: “Verificare esistenza dossier”. Marco Zonetti su Il Riformista l'8 Febbraio 2022.

Durante l’audizione dell’Ad Rai Carlo Fuortes in Commissione di Vigilanza, il deputato di Forza Italia Andrea Ruggieri ha sganciato la bomba dei messaggi inviatigli dal conduttore di Report e vicedirettore di Rai3 Sigfrido Ranucci contenenti “insulti diffamatori e minacce e allusioni sul possesso di dossier” riguardanti i parlamentari. La denuncia dell’onorevole Ruggieri, confermata anche dal collega senatore di Italia Viva Davide Faraone, anch’egli a suo dire destinatario di analoghi messaggi da parte di Ranucci, ha scatenato un putiferio durante l’audizione dell’amministratore delegato Rai che ha annunciato l’attivazione dell’audit interno. I commissari di Fratelli d’Italia in Vigilanza, la senatrice Daniela Santanchè e il deputato Federico Mollicone, hanno chiesto per primi la convocazione di Sigfrido Ranucci in commissione, offrendo solidarietà ai colleghi Ruggieri e Faraone. Abbiamo interpellato l’onorevole Mollicone per approfondire l’argomento.

Dopo la rivelazione dell’onorevole Ruggieri sui presunti messaggi di Ranucci, il suo partito ha preso subito una posizione netta chiedendo di audire il conduttore di Report…

Sì, perché noi siamo garantisti e, seppur convinti che Andrea Ruggieri dica la verità, è giusto sentire anche l’altra campana. In altri termini, non usiamo il metodo Ranucci, altrimenti avremmo chiesto la sua defenestrazione immediata.

Cosa intende per “metodo Ranucci”?

Un metodo di giornalismo a tesi, che va contro qualsiasi deontologia professionale, come più volte abbiamo ribadito nei question time, come sul caso Mori e sulla strage di Bologna. Ovviamente, essendo Ranucci anche vicedirettore di Rai3, è lui stesso a dare la risposta sul suo operato, in un circolo vizioso di inaudito conflitto d’interesse. Non siamo peraltro solo noi a sottolineare le controversie del suo metodo giornalistico. La puntata dedicata alla strage di Bologna e ai giudici Falcone e Borsellino è stata stigmatizzata pubblicamente dal Coordinatore nazionale dei Familiari delle Vittime di Mafia e la puntata su Berlusconi, appena uscito dall’ospedale, ha suscitato le critiche di Aldo Grasso.

Qualcuno potrebbe sospettarvi di ruggini con Report, visto che la trasmissione si è occupata spesso di Fratelli d’Italia…

Chi lo pensa si sbaglia. Non agiamo per partito preso, visto che per esempio abbiamo lodato la puntata dedicata al piano pandemico, che invece la stragrande maggioranza aveva criticato. Purtroppo però è stata un’eccezione alla regola, che è quella della costante violazione del codice deontologico e della corretta informazione giornalistica, ovvero quella di citare le fonti e soprattutto di verificarle. E la questione dei messaggi intimidatori al collega Ruggieri, se verificata, è di una gravità incommensurabile. Marco Zonetti

Parla il deputato di Forza Italia. Ruggieri: “Messaggi di Ranucci ingiustificabili, li porterò in procura”. Marco Zonetti su Il Riformista il 9 Febbraio 2022.  

Nel novembre scorso, in occasione dell’audizione dell’amministratore delegato Rai in commissione di Vigilanza, il senatore di Italia Viva Davide Faraone aveva rivelato l’esistenza di una lettera anonima che accusava il conduttore di Report e vicedirettore di Rai3 Sigfrido Ranucci di molestie sessuali, chiedendo a Carlo Fuortes di avviare un’inchiesta interna che ha poi visto il giornalista scagionato da ogni addebito.

All’epoca il deputato di Forza Italia, Andrea Ruggieri, aveva detto di aver cestinato la lettera in quanto anonima, invitando la Rai a fare chiarezza, a tutela del buon nome dell’azienda, di Report e del conduttore. E tuttavia ieri, in Vigilanza, il commissario di FI ha sbalordito tutti raccontando dei messaggi privati che gli avrebbe inviato Ranucci immediatamente dopo l’audizione di Fuortes del novembre 2021. Messaggi di fuoco con «insulti diffamanti» a Berlusconi «adescatore di minorenni e top player del bullismo sessuali», ai politici che si dividono «tra uso di cocaina e scene di basso impero sugli yacht», e oggetto di ben «78000 dossier» dei quali sarebbe in possesso il giornalista.

Onorevole Ruggieri, oggi ha sganciato un’autentica bomba…

Ho semplicemente fatto il mio dovere di deputato eletto dai cittadini e di commissario della Vigilanza Rai. Tutto ciò che ho dichiarato durante l’audizione dell’Ad Fuortes corrisponde al vero, tant’è che depositerò i messaggi minatori di Ranucci, oltre che in Vigilanza, anche alla Procura. Qui non si parla soltanto delle intimidazioni da parte del conduttore di una trasmissione Rai, il che sarebbe già grave, ma anche di un vicedirettore di rete.

Che a breve dovrebbe ricevere l’investitura di vice della superdirezione approfondimento. Lei ritiene che dovrebbe essere sospeso?

Non ingerisco minimamente nelle scelte dell’Ad Fuortes, perché in questo caso spetta a lui decidere.

Però Fuortes ha dichiarato che, nel caso, si tratterebbe di scambi privati fra lei e Ranucci e che quindi la Rai non c’entrerebbe nulla…

Non è così. Io sono deputato della Repubblica 24 ore su 24, così come, oltre a essere conduttore di Report, Ranucci è vicedirettore di una rete Rai 24 ore su 24, essendo un dirigente in forza al Servizio Pubblico. Per giunta, fra me e lui non intercorrono né intercorrevano rapporti di confidenza tali da giustificare quei toni. Sono state tirate in ballo perfino la mia compagna e sua figlia, con l’augurio che capiti anche a loro. Una cosa inaccettabile, inqualificabile, che – da deputato della Repubblica e da commissario della Vigilanza – non potevo non denunciare.

Il senatore pentastellato Primo Di Nicola ha alluso al fatto che, guarda caso, le sue rivelazioni sono arrivate nel momento in cui l’inchiesta sulla lettera minatoria veniva archiviata senza addebiti contro Ranucci…

Della lettera non me ne importa nulla, tant’è che quando mi arrivò la cestinai come dissi in Vigilanza. Per giunta, se vogliamo dirla tutta, io invitai a fare chiarezza su quella lettera proprio per tutelare Report, lo stesso Ranucci e la Rai, azienda nella quale ho lavorato per anni, e che rispetto con tutto me stesso. Quei messaggi minacciosi e calunniosi sono ingiustificabili sotto ogni punto di vista, a maggior ragione nel momento in cui io ho agito a difesa del suo onore e di quello della Rai.

I 5 stelle l’accusano di voler sabotare Report, che considerano il fiore all’occhiello del giornalismo investigativo…

Non voglio sabotare proprio nulla. Come le ho già ribadito, io difendo il buon nome della Rai pagata dal canone dei cittadini. Quanto al “fiore all’occhiello”, basta informarsi per sapere che, a partire dalla gestione di Ranucci, la trasmissione Report non fa più parte del Consorzio del giornalismo investigativo internazionale. Ci sarà un motivo, no? Per giunta, cosa se ne fa il vicedirettore di Rai3 dei 78.000 dossier che ha detto di possedere sui parlamentari della repubblica? Io quella lettera che lo accusava di molestie la gettai nel secchio della spazzatura senza pensarci due volte. Lui? Marco Zonetti

Le accuse del deputato Ruggieri. Ranucci: “Ho 78mila dossier sui politici”, è bufera sul conduttore di Report. Marco Zonetti su Il Riformista il 9 Febbraio 2022.  

Reduce dai successi stratosferici del Festival di Sanremo, l’amministratore delegato Rai Carlo Fuortes non si sarebbe mai aspettato che la sua audizione in commissione di Vigilanza si sarebbe trasformata in un thriller ricco di colpi di scena. Nessuno dei senatori e dei deputati presenti riusciva a credere alle proprie orecchie quando – nel rivolgersi a Fuortes – il deputato di Forza Italia Andrea Ruggieri, in tono pacato ma perentorio, sganciava la bomba dei messaggi privati che gli avrebbe inviato Sigfrido Ranucci, conduttore di Report e vicedirettore di Rai3.

Ricordando la lettera anonima che accusava Ranucci di molestie, il commissario di Forza Italia in Vigilanza ha snocciolato una serie di messaggi che il conduttore di Report gli avrebbe inviato immediatamente dopo la seduta in cui se ne era discusso. «Berlusconi è il top player del bullismo sessuale che adesca minorenni» gli avrebbe scritto Ranucci. E ancora: «Mi arrivano decine di segnalazioni sui tutti i politici, anche su di voi, tra uso di cocaina e scene da basso impero sugli yacht». Ranucci avrebbe scritto a Ruggieri di essere in possesso di ben 78000 dossier sui politici, che nei messaggi definirebbe «riciclatori» e «merde», tirando in ballo anche la compagna del commissario azzurro in Vigilanza, e la figlia di lei. «Spero che capiti anche a loro», gli avrebbe scritto Ranucci.

Per gli sbigottiti colleghi in commissione e per l’ad Fuortes, i colpi di scena non erano terminati. Poco dopo, il senatore di Italia Viva Davide Faraone confermava infatti le parole del collega deputato asserendo di aver ricevuto messaggi della stessa natura da parte di Ranucci. Nel brusio generale di quella che sembrava la scena clou di Testimone d’accusa, la senatrice Santanché e il deputato Mollicone di Fratelli d’Italia chiedevano la solerte convocazione di Ranucci in commissione; mentre altre voci suggerivano la chiusura immediata dell’audizione. A quel punto il presidente Barachini ha invitato Ruggieri a depositare i messaggi in commissione e alla Procura e ha chiesto un parere all’ad Rai Fuortes. L’amministratore delegato della Rai ha replicato che «le accuse a Ranucci non sono state riscontrate» e che comunque «sono serie e gravi. Io non sono un giudice, sono un amministratore che ha rispetto delle leggi. Sono comunicazioni private non fatte nell’esercizio delle funzioni di Ranucci. Se il tutto fosse avvenuto in trasmissione sarebbe stato diverso. Il caso deve essere giudicato dalle autorità competenti, noi attiveremo l’audit, unico organo competente». Una posizione che però non ha convinto i parlamentari.

Matteo Renzi, leader di Italia Viva, ha espresso «solidarietà personale e istituzionale all’onorevole Ruggieri per le invereconde affermazioni di un conduttore del servizio pubblico. Mi auguro che la Rai prenda una posizione forte e immediata». Interpellato dal Riformista, il segretario della Commissione di Vigilanza Michele Anzaldi (Iv) ha dichiarato: «Se dovesse essere tutto confermato come esposto e se tra Sigfrido Ranucci e l’onorevole Ruggieri non vi è un rapporto di cordialità e consuetudine, sarebbe gravissimo e – prima delle Autorità – dovrebbero intervenire i presidenti di Camera e Senato a tutela del ruolo e dell’ambiente di lavoro della Vigilanza e dei suoi commissari».

Più perentori i Fratelli d’Italia che, tramite il commissario in Vigilanza Mollicone, hanno ricordato che «il dossieraggio è un reato» e che quello di Ranucci è «un metodo di giornalismo a tesi che ora minaccia perfino, parlando di fantomatici dossier, persino insultando e minacciando un leader di partito». Al Riformista, Federico Mollicone ha poi dichiarato che, se tutto fosse confermato, saremmo di fronte a un reato di competenza del Copasir.

Il senatore grillino Primo Di Nicola, vicepresidente della commissione di Vigilanza, ha difeso Ranucci, sottolineando che le accuse di Ruggieri sono capitate a fagiolo dopo che Fuortes aveva annunciato che l’inchiesta interna sulla lettera anonima che accusava il conduttore di Report di molestie sessuali si era conclusa senza scoprire alcunché. Debolissima, e in difesa, la replica del conduttore che arriva in serata: «I miei non erano i messaggi di un vigilato a un vigilante, ma di un uomo a un altro uomo». Si fidava evidentemente della solidarietà e del silenzio tra maschi. L’affaire Report ha offuscato l’altra polemica che aveva tenuto banco in commissione fino alla rivelazione di Ruggieri, ovvero il taglio dell’edizione notturna del Tgr.

Carlo Fuortes ha smentito il segretario dell’Usigrai che, nella stessa sede, aveva parlato di atteggiamento tetragono da parte dell’azienda. Il vertice Rai ha invece sottolineato come egli avesse sollecitato vari incontri con il sindacato, che tuttavia avrebbe mostrato un irrigidimento e il rifiuto a sedersi al tavolo del confronto. Fuortes ha poi affermato di sentirsi nel giusto, dal momento che il taglio porta risparmio per i contribuenti senza licenziamenti e che sarà il tribunale a decidere chi ha ragione tra lui e il sindacato. «Da parte dell’azienda c’è disponibilità totale» ha ribadito. Marco Zonetti

Caso Report, Ranucci a Faraone: «Da te solo fango, ti risponderò come sappiamo fare». YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 09 febbraio 2022.

Dopo la rivelazione dei messaggi inviati da Ranucci al deputato di Forza Italia, Andrea Ruggeri, compaiono nuove chat dello stesso tenore inviate al senatore Davide Faraone.

Entrambi sono accusati dal conduttore di Report di gettare fango su di lui e sulla sua redazione. Ranucci oggi ha spiegato che non ha mai parlato di Minzolini, ma in un sms scrive: «solo chi ha un bullo sessuale come capo di un partito, e non è il tuo, può affidare una pagina del fango da un giornale diretto da uno che da direttore del Tg1 adescava ragazzine».

 L'ad Rai Carlo Fuortes, a quanto  apprende l'Adnkronos, ha comunicato al consiglio di amministrazione la lista dei vicedirettori di genere. Per la Direzione Approfondimento, timonata da Mario Orfeo,  vicedirettori sono Paolo Corsini, Andrea Sallustio, Elsa Di Gati,  Massimiliano De Santis, Ilaria Capitani. Nominati vicedirettori ad personam Milo Infante e Sigfrido Ranucci.

Nuove chat svelano un agguerrito scambio di messaggi tra il senatore di Italia viva, Davide Faraone e il conduttore del programma inchiesta Report Sigfrido Ranucci.

I messaggi risalgono allo scorso novembre quando il deputato renziano, insieme al forzista Andrea Ruggeri, ha chiesto spiegazioni all’ad della Rai Carlo Fuortes in commissione Vigilanza in merito a una lettera anonima (rivelatasi poi infondata secondo un audit interno della Rai) in cui Ranucci veniva accusato di mobbing e molestie sessuali nei confronti di alcune sue colleghe.

La richiesta di spiegazioni dei parlamentari è stata recepita come un attacco alla trasmissione investigativa che ha immediatamente pubblicato un comunicato in difesa di Ranucci: «Consideriamo ridicole e offensive le parole riportate in pubblico tratte da una lettera anonima che mettono in discussione la professionalità di colleghi e colleghe». Il giorno dopo il presunto “attacco” fatto dai due parlamentari, il giornalista Rai scrive sia a Ruggeri (ieri abbiamo dato conto dello scambio tra il conduttore e il forzista) sia a Faraone, di cui oggi Domani può pubblicare il testo integrale.

I MESSAGGI A FARAONE

«Quello che hai fatto ieri è gravissimo. Hai buttato fango su di me, e poco importa, al vostro particolare ci sono abituato. Quello che è gravissimo è avete dato la possibilità di gettarlo sulla vita di professioniste brave che hanno famiglia. Vergognatevi», è il messaggio che il 25 novembre Ranucci scrive al deputato di Italia viva. Faraone: «Quando vuoi ne parliamo, nessun problema».

«Dovevi farlo prima semmai. Ti avrei detto che appena l’ho ricevuto ho presentato io denuncia», replica Ranucci, aggiungendo: «Pure io ho una lettera anonima che fate uso di cocaina, ma mica chiedo di verificare. Pensi che a me non arrivino dossier su di voi pieni di merda? Non li ho mai presi in considerazione». Faraone si difende: «Non parlerei solo di quello, parlerei anche degli errori che commetti attaccando persone perbene e di come queste persone soffrono e di come soffrono i loro famigliari». Ranucci: «Quali? Non dire cazzate. Majorano le puttanate su Renzi me offre da anni. Mai prese in considerazione».

A quel punto il senatore ex Partito democratico tenta la via del dialogo chiedendo di approfondire la questione davanti a un caffè, ma il conduttore di Report non ne vuole sapere. E attacca duro: «Dopo quello che hai fatto con il cazzo. Vi risponderemo la mia squadra e io come sappiamo fare. Solo il nostro lavoro».

Faraone considera la frase una minaccia neanche velata: «Così scritto sembra una minaccia più che altro». «No...solo l’esercizio di funzione di controllo della stampa sulla politica» è la replica di Ranucci.

La discussione tra i due poi si sposta su un episodio che vede implicati il senatore e un giornalista di Report. «Una telecamera attaccata addosso per tre giorni alla Leopolda a chiedermi conto sulla mia interrogazione sui vaccini? Ma ti sembra normale? L’interrogazione è una mia prerogativa, non un’offesa a qualcuno», scrive Faraone.

«Non era un’interrogazione ma una serie di minchiate. Neppure l’avete vista – risponde ancora Ranucci – Comunque almeno sei stato onesto. L’interrogazione sul bullismo sessuale è dovuta alle domande che il mio inviato ti ha fatto. Comunque solo chi ha un bullo sessuale come capo di un partito, e non è il tuo, può affidare una pagina del fango da un giornale diretto da uno che da direttore del Tg1 adescava ragazzine», scrive Ranucci. Una presunta calunnia a un giornalista importante che Ruggeri aveva identificato, sia sugli sms sia ieri in Commissione di Vigilanza, in Augusto Minzolini.

Ieri Ranucci in un’intervista al Giornale aveva invece smentito che nei messaggi con Ruggeri si riferisse a Minzolini. «Nei messaggi con Ruggieri non parlavo del vostro direttore Minzolini, parlavo del direttore di un altro giornale, del Centro Italia», ha spiegato mentre Minzolini annunciava querele.

In realtà, leggendo ora i Whatsapp che il conduttore ha inviato a Faraone, sembra che Ranucci parlasse proprio del direttore del Giornale: se Minzolini ha ripreso la vicenda della lettera anonima contro Ranucci e se è stato per anni a capo del Tg1, non risultano che attuali direttori di quotidiani del Centro Italia abbiano mai diretto il primo telegiornale italiano. Contattato da Domani per un chiarimento sulla questione Ranucci ha detto: «Su questa cosa non dico niente perché era un discorso privato e non la commento. Ne risponderà davanti un tribunale chi le ha tirate fuori».

DOPO LA RIVELAZIONE DI RUGGERI

L’8 febbraio è stato il forzista Andrea Ruggeri a leggere i messaggi ricevuti da Ranucci, definiti come «minacciosi», durante l’audizione della Commissione Vigilanza Rai. Sulla questione L’ad Fuortes ha invece detto: «Il caso deve essere giudicato dalle autorità competenti, noi attiveremo l'audit, unico organo competente» ha detto.

Sempre nella giornata di ieri Ranucci si è difeso giustificando il tenore dei messaggi inviati a Ruggeri: «Non c’è stata nessuna minaccia da parte mia. Quello non è il messaggio di un vigilato a un vigilante, anche se adesso fa comodo farla passare così, ma il messaggio di un uomo a cui è stata lesa la dignità personale che stigmatizza con il vigilante il metodo che ha usato».

VICEDIRETTORE

Ruggieri si era lamentato chiedendo se Ranucci fosse adeguato per ricoprire il ruolo di vicedirettore ma alla fine è stata confermata. Oggi l'ad Rai Carlo Fuortes, a quanto  apprende l'Adnkronos, ha comunicato al consiglio di amministrazione la lista dei vicedirettori di genere, passaggio legato alla  trasformazione della Rai da reti a generi. I nuovi direttori di genere sono già noti. Oggi è stata la volta dei  loro vice. Per la Direzione Approfondimento, timonata da Mario Orfeo,  vicedirettori sono Paolo Corsini, Andrea Sallustio, Elsa Di Gati,  Massimiliano De Santis, Ilaria Capitani.

Nominati vicedirettori ad  personam Milo Infante e Sigfrido Ranucci. Per la Direzione Intrattenimento Prime Time, guidata da Stefano  Coletta i nuovi vicedirettori sono Claudio Fasulo, Fabio Di Iorio,  Federica Lentini, Raffaella Sallustio, Giovanni Anversa. Per la  Direzione Intrattenimento Day Time, guidata da Antonio Di Bella,  vicedirettori sono Adriano De Maio, Angelo Mellone, Marco Caputo,  Federico Zurzolo, Silvia Vergato.

Per la Direzione Cultura ed  Educational, guidata da Silvia Calandrelli, i nuovi vicedirettori sono Rosanna Pastore, Lorenzo Ottolenghi, Cecilia Valmarana, Giuseppe  Giannotti, Piero Alessandro Corsini. Infine per la Direzione Cinema e  Serie TV, a capo della quale c'è Francesco Di Pace, un unico vicedirettore che è Giorgio Buscaglia.  

YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.

Lisa Di Giuseppe per editorialedomani.it l'8 febbraio 2022.

Sigrido Ranucci è furioso. Siamo alla fine del novembre 2021, e in Commissione di vigilanza sulla Rai i parlamentari di Italia viva e Forza Italia Andrea Ruggieri hanno appena tirato in ballo un vecchio ma inedito esposto anonimo in cui si fa riferimento ad alcuni comportamenti inappropriati del conduttore di Report nei confronti di alcune giornaliste. 

Quando la notizia diventa pubblica, il vicedirettore di Raitre prima parla di «fango per fermarci», poi scrive a Ruggieri messaggi di fuoco su Whatsapp. «Quello che tu e Faraone avete fatto ieri è vergognoso. A me potete buttare tutto il fango che maneggiate, ma che abbiate coinvolto persone innocenti e brave professioniste è indegno dal punto di vista umano parlamentare. Poi detto da uno che ha come capo (Silvio Berlusconi, ndr) il top player mondiale di bullismo sessuale è comico. Ripreso da un giornale (il quotidiano Il Giornale, ndr) che ha come direttore uno che secondo segnalazioni arrivate in redazione adescava le minorenni è ancora più comico». 

É questo il primo messaggio di uno scambio durissimo tra Ranucci e Ruggieri, che oggi ha letto parte dei messaggi in Commissione denunciandone «la gravità» e «il tono minaccioso». Annunciando che farà denuncia e che li depositerà, oltre che alla presidenza della commissione e alla direzione generale della Rai, anche in procura. Il conduttore, contattato da Domani, preferisce non commentare la vicenda.

Partiamo dal principio. Dopo che l’esposto contro Ranucci su presunte molestie è venuto alla luce (Ranucci aveva subito fatto una denuncia ai carabinieri per diffamazione), nel mese di gennaio è partita un audit interno della Rai: ieri durante la sua audizione l’amministratore delegato Carlo Fuortes ha spiegato che l’azienda si è rivolta alle due donne che avrebbero subito attenzioni non gradite, identificate nella lettera anonima, le quali hanno però negato ogni atteggiamento fuori luogo del conduttore.

A sorpresa, però, oggi è intervenuto anche il parlamentare forzista, membro della Commissione di vigilanza. Svelando che Ranucci gli aveva mandato a fine novembre alcuni messaggi «minacciosi». Una scelta che il deputato definisce inopportuna, considerato che si tratta di un contatto tra il controllore (un membro della commissione di vigilanza, appunto) e il controllato (Ranucci è dipendente della Rai). 

Il successore di Milena Gabanelli nello scambio con Ruggieri è tranchant. «Pure a me arrivano dossier anonimi su politici che usano cocaina, pensa se usassi lo stesso metro» scrive il conduttore. «Bastava che mi telefonassi prima». 

Ruggeri replica: «Se proprio dobbiamo parlarne, io per primo ho snobbato la lettera, in forza di un principio di correttezza che tu non usi e non useresti mai, al contrario. E l’ha tirata fuori Faraone, non io. Io mi sono limitato a dire quello che dice il Fatto, cioè che credendo la lettera un pizzico inverosimile la Rai avrebbe dovuto appurare e tutelarti alla svelta. Il tuo messaggio rivela un pregiudizio politico per il mio capo, come lo chiami tu, ma questo non mi sorprende.

Solo che lui non ha avuto mai bisogno di bullizzare nessuno. Quanto al direttore de Il Giornale “adescare minorenni” è un concetto vago, e allusivo. “Metodo Report” diciamo. Dopo di che, tu usi eccome lo stesso metodi di cui ti lamenti. Non ci prendiamo per il culo. Non mi pare che chiami nessuno per fare verifiche preventive sulle cazzate che fai dire a gente improbabile che metti in onda. Dopo di che, hai dossier su parlamentari che pippano? E mandali in onda no?  A me che mi frega...io ieri ti ho praticamente difeso, lo hanno capito tutti, non era dovuto. Non mi aspetto un grazie, ma nemmeno un sms come il tuo. E comunque caro mio contieniti, che qui non si spaventa nessuno».

Ranucci però non ci sta. Crede che Ruggieri e Faraone siano i principali responsabili di una campagna stampa che lo vuole infangare. La loro colpa è quella di aver fatto uscire la notizia di un report anonimo e diffamatorio nei suoi confronti. E così lancia accuse pesanti al deputato di Forza Italia: «Sei tu e il tuo capo pratici di bullismo sessuale. E dici il falso: io dossier anonimi non ne ho mai usati. Anche se ne arrivano a decine sui politici...tutti...tra uso di cocaina e scene da basso impero su yacht. Io ho una dignità. Ti giro i commenti sdegnati delle donne di Report. Non ho bisogno del tuo aiuto. Avete diffuso una lettere consentendo di parlarne schermati dal vostro istituto (la Commissione di vigilanza, ndr) a dei giornalisti»

Gli sms e gli insulti tra il conduttore e il parlamentare continuano. Ruggieri: «Apprendo che la tua redazione è un call center di segnalazioni varie». Ranucci: «78mila. Ne arrivano anche su di voi, come normale». Ruggieri: «Eh ma solo a te arrivano, agli altri programmi no. Ti hanno preso per un riciclatore?». Ranucci: «No, i riciclatori siete voi. Con me vanno male. Con voi gli va meglio. Pure con l’altro dossier». Ranucci gira infine al deputato un messaggio della moglie, che allega l’articolo de Il giornale sulla lettera anonima con le presunte molestie. «Da mia moglie e mia figlia. Siete delle merde. Spero che un giorno ti possa accadere la stessa cosa davanti alla tua compagna e tua figlia».

Ruggieri, dopo aver condiviso lo scambio davanti agli altri membri della commissione di Vigilanza, si è chiesto polemicamente se fosse opportuno che Ranucci continui a essere vicedirettore di Rai3 e conduttore di Report. Anche gli altri parlamentari hanno insistito a lungo sul punto: il centrodestra ha domandato di convocare in commissione Ranucci, la senatrice Maria Alessandra Gallone di Forza Italia ha chiesto la sospensione temporanea del conduttore dal ruolo di vicedirettore. A difesa di Ranucci si è schierato invece Primo Di Nicola, rappresentante del Movimento in Commissione. 

Fuortes ha spiegato di non avere, da amministratore delegato e datore di lavoro di Ranucci, gli strumenti adatti a intervenire, rinviando l’intervento al momento in cui dovesse esserci una «causa fondata». «Il caso deve essere giudicato dalle autorità competenti, noi attiveremo l'audit, unico organo competente» ha detto.

Estratto dell’articolo di Youssef Hassan Holgado per editorialedomani.it il 9 febbraio 2022.

Nuove chat svelano un agguerrito scambio di messaggi tra il senatore di Italia viva, Davide Faraone e il conduttore del programma inchiesta Report Sigfrido Ranucci.

I messaggi risalgono allo scorso novembre quando il deputato renziano, insieme al forzista Andrea Ruggeri, ha chiesto spiegazioni all’ad della Rai Carlo Fuortes in commissione Vigilanza in merito a una lettera anonima (rivelatasi poi infondata secondo un audit interno della Rai) in cui Ranucci veniva accusato di mobbing e molestie sessuali nei confronti di alcune sue colleghe.

La richiesta di spiegazioni dei parlamentari è stata recepita come un attacco alla trasmissione investigativa che ha immediatamente pubblicato un comunicato in difesa di Ranucci: «Consideriamo ridicole e offensive le parole riportate in pubblico tratte da una lettera anonima che mettono in discussione la professionalità di colleghi e colleghe». 

Il giorno dopo il presunto “attacco” fatto dai due parlamentari, il giornalista Rai scrive sia a Ruggeri (ieri abbiamo dato conto dello scambio tra il conduttore e il forzista) sia a Faraone, di cui oggi Domani può pubblicare il testo integrale.

«Quello che hai fatto ieri è gravissimo. Hai buttato fango su di me, e poco importa, al vostro particolare ci sono abituato. Quello che è gravissimo è avete dato la possibilità di gettarlo sulla vita di professioniste brave che hanno famiglia. Vergognatevi», è il messaggio che il 25 novembre Ranucci scrive al deputato di Italia viva. Faraone: «Quando vuoi ne parliamo, nessun problema». 

«Dovevi farlo prima semmai. Ti avrei detto che appena l’ho ricevuto ho presentato io denuncia», replica Ranucci, aggiungendo: «Pure io ho una lettera anonima che fate uso di cocaina, ma mica chiedo di verificare. Pensi che a me non arrivino dossier su di voi pieni di merda? Non li ho mai presi in considerazione».

Faraone si difende: «Non parlerei solo di quello, parlerei anche degli errori che commetti attaccando persone perbene e di come queste persone soffrono e di come soffrono i loro famigliari». Ranucci: «Quali? Non dire cazzate. Majorano le puttanate su Renzi me offre da anni. Mai prese in considerazione». 

A quel punto il senatore ex Partito democratico tenta la via del dialogo chiedendo di approfondire la questione davanti a un caffè, ma il conduttore di Report non ne vuole sapere. E attacca duro: «Dopo quello che hai fatto con il cazzo. Vi risponderemo la mia squadra e io come sappiamo fare. Solo il nostro lavoro».

Faraone considera la frase una minaccia neanche velata: «Così scritto sembra una minaccia più che altro». «No...solo l’esercizio di funzione di controllo della stampa sulla politica» è la replica di Ranucci. 

La discussione tra i due poi si sposta su un episodio che vede implicati il senatore e un giornalista di Report. «Una telecamera attaccata addosso per tre giorni alla Leopolda a chiedermi conto sulla mia interrogazione sui vaccini? Ma ti sembra normale? L’interrogazione è una mia prerogativa, non un’offesa a qualcuno», scrive Faraone.

(…) L’8 febbraio è stato il forzista Andrea Ruggeri a leggere i messaggi ricevuti da Ranucci, definiti come «minacciosi», durante l’audizione della Commissione Vigilanza Rai. Sulla questione L’ad Fuortes ha invece detto: «Il caso deve essere giudicato dalle autorità competenti, noi attiveremo l'audit, unico organo competente» ha detto.

Sempre nella giornata di ieri Ranucci si è difeso giustificando il tenore dei messaggi inviati a Ruggeri: «Non c’è stata nessuna minaccia da parte mia. Quello non è il messaggio di un vigilato a un vigilante, anche se adesso fa comodo farla passare così, ma il messaggio di un uomo a cui è stata lesa la dignità personale che stigmatizza con il vigilante il metodo che ha usato».

·        Tiziana Alla.

Chi è Tiziana Alla, la giornalista Rai attaccata da Donnarumma dopo Germania-Italia. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 15 giugno 2022.

In Rai dal Duemila, è stata la voce dell’Italia ai Mondiali femminili del 2019 ed è bordocampista da marzo. Il precedente con Mandorlini nel 2012: «Le critiche alle giornaliste sportive non sono di merito ma basate su un preconcetto». 

Una domanda, la risposta irritata di Gigio Donnarumma e la giornalista della Rai Tiziana Alla è diventata, suo malgrado, un argomento di dibattito, o un trend topic come si dice oggi. Tutto nasce dopo il 2-5 dell’Italia con la Germania di martedì 14 giugno. Alla dice al portiere che non è la prima volta che gli capitano certi errori coi piedi (il riferimento è al gol preso dal Psg contro il Real Madrid in Champions quest’anno), lui si inalbera («Quello era fallo. Ma se volete dare la colpa a me, fatelo pure. Sono il capitano, mi prendo ogni responsabilità. Vado avanti a testa alta»), lei mantiene la calma e spiega: «Ho parlato solo di imparare dagli errori del passato, non volevo insinuare nulla». Ma Gigio a quel punto non sta più ascoltando. «Ti ripeto, quello era fallo, ma va bene così». E se ne va.

La difesa di Piccinini

Ne è seguito dibattito. Con tante critiche a Gigio e una difesa pubblica di Alla arrivata da Sandro Piccinini, uno dei telecronisti sportivi italiani più esperti e famosi, che ha twittato: «Donnarumma si dimostra incapace di comprendere i propri errori, un limite non da poco per un giocatore del suo livello. Complimenti a Tiziana Alla, non molti colleghi avrebbero fatto quella domanda». Lei ha ringraziato così: «Mai cercato le polemiche fine a se stesse. So soltanto che le domande bisogna farle».

Chi è Tiziana Alla

Ma chi è Tiziana Alla? Laureata in Scienze Politiche, ha studiato alla Scuola di giornalismo di Urbino. La sua passione per lo sport, e per il calcio in modo particolare, è nata quando era una bambina, trasmessale dal papà che spesso la portava allo stadio. «Fin da piccola andavo allo stadio con lui e mi sono appassionata dell’atmosfera. Poi crescendo ho imparato a seguire e capire il gioco e non ho più lasciato lo stadio — ha raccontato tempo fa in un’intervista —. Non chiedetemi per chi tifavo perché è meglio non lasciarlo trasparire. A pallone giocavo con altri bambini da piccola, ma mai in una squadra».

In Rai dal 2000

Le sue prime esperienze sono state nella carta stampata, dove ha lavorato per dieci anni a Il Messaggero, occupandosi di cronaca, al mensile Bici Sport e al Corriere dello Sport. Il passaggio alla Rai è arrivato nel 2000, occupandosi di sport presso la redazione di Rai International. Nel 2006-2007 ha cominciato a fare le sue prime telecronache e nel 2012 è passata a Rai Sport.

La voce dei Mondiali

Il grande salto di qualità professionale avviene nel 2019 , quando viene scelta per commentare le partite della Nazionale femminile ai Mondiali. In quei giorni raccontò così il suo approccio a un fenomeno che cominciava a crescere e che era ancora poco conosciuto: «Bisogna studiare l’avversario di turno dell’Italia, di cui quasi sempre non sai nulla. Io non mi sono mai interessata di calcio femminile per cui per me è tutto nuovo: cerco di capire l’evoluzione del movimento nel Paese in questione e di concentrarmi sulle calciatrici più famose, con umiltà». Lavora con successo e quando a marzo 2022 il nuovo direttore di Rai Sport, Alessandra De Stefano, decide di cambiare sceglie proprio lei per il ruolo di bordocampista della Nazionale: Tiziana Alla subentra così ad Alessandro Antinelli, che lascia il ruolo dopo 12 anni. 

Il precedente 10 anni fa

La vicenda Donnarumma non è la prima del genere per Alla. Nel dopo partita di un Verona-Varese del 2 giugno 2012, era stata infatti maltrattata e offesa da Andrea Mandorlini, l’allenatore dell’Hellas Verona, in un episodio che alcuni testimoni (e poi il Comitato di redazione di Rai Sport) avevano definito «inqualificabile». Del difficile ruolo delle giornaliste sportive Tiziana Alla aveva parlato così: «C’è un pregiudizio diffuso anche nel pubblico: a Rai International avevamo la possibilità di avere un contatto diretto con gli spettatori via mail e ricordo che molta gente si lamentava della voce femminile. La cosa che mi infastidisce è che non erano critiche di merito, dovute al fatto che avessi sbagliato qualcosa, ma solo basate su un preconcetto. Ancora adesso trovo critiche del genere sui social, sia riferite a me che in generale».

·         Tiziana Panella.

Fabio Fabbretti per davidemaggio.it il 3 gennaio 2022. Tiziana Panella è positiva al Covid ed è lei stessa ad annunciarlo, in un racconto – nero su bianco sul Corriere – quasi straziante. La sua non è una positività qualunque poiché, spiega, “c’è anche il soggetto fragile, sono io”.

La giornalista, conduttrice di Tagadà su La7, racconta che tutto è partito dalla cena della vigilia di Natale in famiglia, a Caserta, dove è tornata insieme alla figlia dopo due anni; ci tiene a dire di averlo fatto dopo aver completato il ciclo di vaccinazioni ed essersi sottoposta a tampone.

“Il 24 a cena, c’è una specie di cappa. Il figlio di mio fratello è positivo, mio fratello non c’è (…) Mi sveglio ed è Natale e sto male e resisto. Il 26 sono a Roma. I sintomi non li riconosco, forse è un’influenza, una intossicazione. Intanto, mi metto in isolamento, aspetto, mi sembra di stare meglio, poi di nuovo male.

La cena del 24 ha colpito, arriva la notizia del primo positivo, il secondo, il terzo, io sarò la quarta. Strike, focolaio familiare. Tutto come da manuale, sembra una puntata di Tagadà. C’è anche il soggetto fragile, sono io”.

Scrive la Panella, che non nasconde il suo personale incubo dovuto al suo stato di salute: “D’accordo con i medici che mi seguono, continuo la mia terapia abituale che dovrebbe aiutarmi anche contro il Covid. Non basta, sto male. Alziamo il dosaggio“.

Il tutto mentre “spia” la figlia dentro casa, separate da un vetro perché lei fortunatamente è negativa. Poi arriva la sera del 31 dicembre, l’ultimo dell’anno nonché l’ultimo discorso di Sergio Mattarella come Presidente della Repubblica. Tiziana ammette uno sconforto mai provato prima: “Parla Mattarella di questa infinita giornata buia, dei medici, della disperazione, delle bare. Comincio a piangere. Piango di paura, di sofferenza fisica, di solitudine. La solitudine può essere una buona compagna di viaggio (…)

Ma la solitudine della malattia è un’altra storia. Sento il sangue che pompa sotto la pelle e la pelle brucia, mi fa male tutto dai reni alle dita delle mani. La gola è piena di spilli, sullo sterno mi hanno piazzato una pietra, la testa è una trottola che gira e pesa. Ho paura". 

Tiziana Panella e il Covid: «Sono stata tanto male e ho pianto di paura. Non è un raffreddore». Tiziana Panella su Il Corriere della Sera il 3 gennaio 2021.

Tiziana Panella, giornalista televisiva di Tagadà su La7, racconta la malattia: «La cena del 24 dicembre ci ha colpito. Strike, focolaio familiare»

Non è un raffreddore! Ho cominciato a stare male il giorno di Natale. Ma male male, all’improvviso. Dopo due anni, sono tornata con mia figlia a Caserta dai miei genitori. Insomma, ciclo completo di vaccinazioni, booster, tampone negativo... si può fare. Tasso di euforia alla partenza altissimo, mia figlia felice. 

Il 24 a cena, c’è una specie di cappa. Il figlio di mio fratello è positivo, mio fratello non c’è. In compenso arriva Babbo Natale che, causa Covid, fa un giretto veloce e poi riparte con le renne. 

Mi sveglio ed è Natale e sto male e resisto. Il 26 sono a Roma. I sintomi non li riconosco, forse è un’influenza, una intossicazione. Intanto, mi metto in isolamento, aspetto, mi sembra di stare meglio, poi di nuovo male. 

La cena del 24 ha colpito, arriva la notizia del primo positivo, il secondo, il terzo, io sarò la quarta. Strike, focolaio familiare. Tutto come da manuale, sembra una puntata di Tagadà. C’è anche il soggetto fragile, sono io. 

D’accordo con i medici che mi seguono, continuo la mia terapia abituale che dovrebbe aiutarmi anche contro il Covid. Non basta, sto male. Alziamo il dosaggio. Spio i rumori di mia figlia dentro casa, mi manca. La mia camera da letto affaccia sul giardino, mia figlia mi saluta attraverso il vetro. Lei è negativa. Siamo appiccicose noi due e lei è negativa. Sono contenta e sono anche scontenta. Vorrei aprire la porta e farla salire sul letto, vorrei mangiare tutto il cioccolato che abbiamo sotto l’albero e vedere un film brutto insieme, che lei si addormenta e io non riesco a spegnere. 

Arriva il 31 dicembre. C’è Mattarella e mi parla . D’accordo parla alla Nazione e io dovrei impegnarmi ad interpretare ogni pausa, ogni parola detta e anche quelle non dette, soprattutto quelle... Ma sono distratta, vedo un uomo solo, in piedi in una stanza vuota, che pesa le parole, le soffre. Quasi subito arriva il maledetto Covid. 

Parla Mattarella di questa infinita giornata buia, dei medici, della disperazione, delle bare. Comincio a piangere. Piango di paura, di sofferenza fisica, di solitudine. La solitudine può essere una buona compagna di viaggio. Supremazia assoluta sul telecomando, pigrizia senza sensi di colpa, nessuno da strattonare nel sonno perché russa, l’ultima maschera assurda e inutile che mi hanno regalato, sembro una strega ma domani sarò bellissima. Conosco la solitudine del cuore e della pelle e lo considero un buon affare, prezzo congruo. Ma la solitudine della malattia è un’altra storia. Sento il sangue che pompa sotto la pelle e la pelle brucia, mi fa male tutto dai reni alle dita delle mani. La gola è piena di spilli, sullo sterno mi hanno piazzato una pietra, la testa è una trottola che gira e pesa. Ho paura.

Mia figlia ha organizzato una super cena sushi. Io in camera, lei in giardino, in mezzo la porta di vetro. Si è vestita per me ed è bellissima. Fa freddo fuori e quindi si cambia. Pigiama e piumino, è perfetta. Non mi reggo in piedi, mi rimetto a letto e aspetto concentrata la mezzanotte. Non devo piangere e infatti non piango. Lei stappa una bottiglia mignon che una amica-sorella ci ha portato, ci strusciamo spalle a spalle in giardino e dietro le mascherine urliamo: vaffanculo 2021.

Videochiamata ai Panella quarantenati e sono libera. Voglio dormire, ma non c’è modo di fermare le lacrime. Sono sopraffatta. Guardo la mia camera accogliente e so che se non fossi vaccinata sarei in terapia intensiva. Sento la solitudine di chi ha lottato in altre stanze, magari voleva urlare mentre non aveva aria per respirare. È disperante, per chi è nella stanza, per chi è oltre il vetro. Sono morti così, da soli, in tanti, troppi. Le ho raccontate in trasmissione le bare di Bergamo e non trovavo le parole. Adesso quelle storie, quelle vite, quelle solitudini mi feriscono senza rimedio. Mentre scrivo sto meglio, i farmaci stanno facendo il loro lavoro, il corpo risponde. Piano piano recupero le forze. Mi era già successo in passato di sentirmi vicina, vicinissima, al burrone. Guardare giù è terrorizzante, ma il burrone sa blandire. Promette pace, è un imbroglio. Sarà per un’altra volta. Felice anno nuovo, abbiate cura di voi.

·        Vincenzo Mollica.

Domenica in, Vincenzo Mollica e la confessione clamorosa sui direttori del Tg1. Enrico Mentana gongola.  Giada Oricchio su Il Tempo il 03 aprile 2022.

“Mi sono tenuto la possibilità di mandarli a fan***o”. Vincenzo Mollica show a "Domenica In", il programma domenicale di Rai1. giornalista, disegnatore e autore, memoria storica dello spettacolo in Italia, si è raccontato nel corso della puntata del 3 aprile tra aneddoti, ricordi e battute. Provato dalla malattia nel fisico, ma nemmeno un grammo nell’anima o nella mente ha reso omaggio alla moglie Rosmery, grande amore della vita: “Ormai non vedo più un ca**o, guardo il mondo attraverso gli occhi di mia moglie e mia figlia”.

In studio a omaggiarlo Mogol, Stefania Sandrelli ed Enrico Mentana. Il direttore del Tg LA7 ha ricordato gli inizi insieme a Mollica al Tg1, poi Mara Venier ha chiesto: “Sei andato d’accordo con tutti i direttori?”. Mollica ha risposto fulminante: “Sì perché mi sono sempre tenuto la possibilità di mandarli a fan**lo”.

Una dichiarazione inaspettata e sincera che ha suscitato risate in studio. Poco dopo, Giorgio Panariello si è collegato dalla sua abitazione per festeggiare l’amico, ha salutato tutti (“Mentana ormai lo vedo tutti i giorni”) lasciando per ultima Mara Venier che lo ha pizzicato: “Ma a me non me saluti?!”. Mentana non ha perso l'occasione ed ha rilanciato la battuta di Vincenzo Mollica: “Ti voleva far fare la fine dei direttori del Tg…”. Solo un gioco che si è concluso con una dichiarazione d’amore reciproca tra Venier e Panariello.

Da oggi.it il 7 agosto 2022.

«Fellini mi ha insegnato l’arte di vedere, di capire il senso delle cose che vedevo. Con Camilleri, che aveva il glaucoma come me, negli ultimi tempi facevamo un gioco. Siccome un giorno vedevamo solo nebbia e luce e quello successivo solo penombra e buio, ogni tanto mi chiedeva: “Vincenzino, come è oggi la giornata?”. E io: “Luce piena”. “Bene, allora andiamo d’accordo…”. Una delle ultime volte mi disse: “Vincenzino, vieni qui che ti voglio abbracciare”. E io: “Certo Andrea, se ci incontriamo”. Poi, grazie all’aiuto della sua assistente, ci abbracciammo. È stato un abbraccio che durerà per sempre».

OGGI, in edicola da domani, pubblica un’ampia intervista che Vincenzo Mollica ha rilasciato al Festival della Parola e in cui racconta aneddoti su molti dei grandi che ha intervistato, da Gaber a Fellini, da Sordi a De André, da Fiorello a Vasco Rossi.

E rivela che cosa vorrebbe come epitaffio sulla sua tomba: «A mia moglie Rosa Maria, con la quale l’anno prossimo festeggeremo i 50 anni di matrimonio e che continuo ad amare in modo straordinario, ho detto: “Quando io schioppo non dovete mettere la foto di Vincenzo Mollica, ma quella di Vincenzo Paperica con la seguente didascalia: “Qui giace Vincenzo Paperica, che tra gli umani fu Mollica”».

Televisione, Vincenzo Mollica si racconta e della moglie dice: “Le ho dettato l’epitaffio”. Valentina Mericio il 07/08/2022 su Notizie.it.

L'amato critico televisivo Vincenzo Mollica ha parlato della sua malattia. Con la moglie si prepara a festeggiare i 50 anni di matrimonio 

Nonostante sia ormai andato in pensione più di un anno fa Vincenzo Mollica rimane ancora uno dei personaggi più amati, complice non solo la sua grande preparazione ed esperienza, ma anche la sua voce inconfondibile che faceva sentire lo spettatore come a casa.

Il noto critico televisivo, nel corso di una lunga intervista rilasciata al settimanale “Oggi” ha parlato apertamente della sua malattia con la quale convive da anni. In quanto alla moglie ha dichiarato che si sta preparando a festeggiare i 50 anni di matrimonio. Ha rivelato anche che sa già cosa vorrà scritto sulla tomba. 

Vincenzo Mollica parla della malattia che lo ha colpito 

Per ciò che riguarda la malattia che lo ha colpito, Vincenzo Mollica ha raccontato alcuni aneddoti molto curiosi e perlopiù poco conosciuti.

Al grande Camilleri aveva detto:  “Fellini mi ha insegnato l’arte di vedere, di capire il senso delle cose che vedevo”, dice Mollica […] Con Camilleri, che aveva il glaucoma come me, negli ultimi tempi facevamo un gioco. Siccome un giorno vedevamo solo nebbia e luce e quello successivo solo penombra e buio, ogni tanto mi chiedeva: ‘Vincenzino, come è oggi la giornata?’. E io: ‘Luce piena’. ‘Bene, allora andiamo d’accordo….”

“Ho già dettato l’epitaffio”

Non ultimo il critico televisivo ha spiegato cosa vorrebbe che venisse scritto sulla sua tomba: “Quando io schioppo non dovete mettere la foto di Vincenzo Mollica, ma quella di Vincenzo Paperica con la seguente didascalia: “Qui giace Vincenzo Paperica, che tra gli umani fu Mollica””. Vincenzo Paperica, nell’universo Disney di Paperopoli, è un cronista con la passione per il cinema. 

·        Vincenzo Palmesano.

Vincenzo Palmesano: «Ogni mattina mi vesto bene: se dovessero ammazzarmi, devono trovarmi in ordine». Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2022.

Il cronista casertano licenziato dai boss della mafia: «Minacciano me e la mia famiglia, mi hanno creato il vuoto intorno». 

«Gli devi dire che non nomina più a Lello Lubrano che lo lasciasse stare in grazia di Dio» dice il boss Vincenzo Lubrano intercettato in merito al figlio Lello, ucciso nel 2002 dal clan dei casalesi. Pignataro Maggiore — Caserta, 2003: Lubrano parla di Vincenzo Palmesano, giornalista del Corriere di Caserta (oggi Cronache di Caserta). Nello specifico il boss chiede al nipote, Francesco Cascella, di intercedere col direttore del giornale affinché Palmesano non scriva più. Da allora Vincenzo Palmesano, sessantaquattro anni, giornalista professionista vittima di reato di tipo mafioso, non scrive su nessuna testata, e del suo caso ne hanno parlato solo Roberto Saviano e Nadia Toffa.

Quando diventa giornalista Enzo Palmesano?

«Entro in un giornale a ventiquattro anni».

Il suo giornalismo?

«Analizzare gli apparati di potere, i collegamenti».

Effetti?

«Se scrivi di Totò ‘o killer o di Ciruzzo ‘o pazzo non succede niente, quelli sono carne da macello per i clan. Se invece tocchi il sistema — imprenditori, medici che contemporaneamente alla camorra si dedicano all’opera filantropica — lì arrivano i problemi».

Che tipo di problemi?

«Da quarantasei anni non c’è stato giorno che io non sia stato indagato o imputato. Accusa ricorrente: diffamazione a mezzo stampa».

Ultima notizia pubblicata sul «Corriere di Caserta»?

«Il sindaco Giorgio Magliocca s’incontra col boss. Ovviamente la notizia scritta così sarebbe stata bloccata. Allora m’ingegno: chiamo il ragazzo che si occupa delle pagine per avvisarlo che consegnerò il pezzo all’ultimo. Intanto mando titolo, occhiello e sommario su altro».

Argomento?

«Un pezzo sugli assessorati nel quale a metà scrivo che uno di questi che mira all’assessorato è tra quelli che dicono che il sindaco ha incontrato il boss. Due righe. Nella confusione di chiusura giornale nessuno se ne accorge, l’articolo viene pubblicato».

Conseguenza?

«Il Corriere di Caserta non pubblica più un mio pezzo».

Da tempo tuttavia — come emergerà dagli atti processuali — lei non era gradito ai clan.

«Hanno sempre cercato di fermarmi: querele, minacce».

Una querela?

«Seguo come giornalista una manifestazione ambientalista, e mi ritrovo querelato per adunanza, blocco stradale, e interruzione di pubblico ufficio».

Manifestazione ambientalista?

«Dalle mie parti la questione ambientalista è un atto politico. I Casalesi, i Nuvoletta aggrediscono le persone e l’ambiente. I loro affari sono nel cemento, e nei rifiuti».

Esempio?

«La Centrale termoelettrica di Sparanise voluta da Nicola Cosentino. Ero io l’unico a oppormi. Poi Saviano che non aveva ancora scritto Gomorra».

Saviano.

«Se Gomorra fosse uscito anche solo sei mesi dopo, Saviano non avrebbe più scritto da nessuna parte. Lui è stato più veloce di loro, è diventato troppo famoso per essere messo a tacere, e loro hanno dovuto agire per altre vie».

Come le accuse di plagio?

«Sui giornali locali parlano di plagio, in realtà Saviano è stato chiamato in giudizio, tra l’altro, per aver citato in Gomorra, come fonte di un virgolettato, un “giornale locale” invece del Corriere di Caserta (o Cronache di Napoli, giornale gemello, ma edizione napoletana). Uno degli articoli del Corriere di Caserta riportati da Saviano titolava: “Nunzio De Falco re degli sciupafemmine” e celebrava le doti amatorie del boss. De Falco, che è morto nel suo letto qualche giorno fa, è stato il mandante dell’assassinio di Don Peppe Diana».

Nessun intervento politico contro la Centrale?

«Se il senatore Matteo Salvini avesse fatto sul serio durante la campagna elettorale in Emilia Romagna, sarebbe andato a citofonare all’Hera Spa per porre domande sui rapporti economici di Cosentino con la Calenia Energia di Caserta in merito alla Centrale».

Nicola Cosentino?

«Detto “Il sottosegretario della malavita”. Aveva le chiavi della Reggia di Caserta dal Prefetto, ufficialmente: “Per fare jogging”».

Quando emerge la verità su Palmesano?

«2009, “Operazione Calè”: esce la notizia che il sottoscritto è stato cacciato dal Corriere di Caserta per intervento del boss Vincenzo Lubrano».

In che modo esce?

«Grazie alle intercettazioni ambientali, e alle dichiarazioni del pentito Giuseppe Pettrone, braccio destro del boss Pietro Ligato. Pettrone riferisce che l’ordine del clan era: “Fare il vuoto intorno a Palmesano”».

Intercettazioni ambientali?

«Se non ci fosse stato un microfono nella villa bunker di Lubrano, non si sarebbe saputa la verità. Quelle intercettazioni registrano conversazioni con vari soggetti non identificati, tranne uno».

Chi?

«Un noto imprenditore».

L’imprenditore?

«Nominato di recente Commendatore della Repubblica».

Nell’intercettazioni Lubrano la paragona a Siani: «A Marano uccisero Siani, ebbero sette ergastoli. Quello pure lo stesso rompeva il cazzo a tutti quanti, vedeva a uno di quelli là magari a prendere il caffè, prendeva e scriveva, quello si è stufato e l’hanno ucciso. Hanno avuto sette ergastoli. Adesso, dico io, perché devo prendere l’ergastolo per un uomo di merda di quello?».

«Appunto».

Cosa significa per lei l’«Operazione Calè»?

«Dopo sei anni in cui solo io penso che ci sia stata un’azione punitiva dei clan nei miei confronti, ecco, dopo sei anni di isolamento e di dubbio».

Quel giorno?

«Cercano di bruciarmi la macchina».

Il tempo dopo l’epurazione?

«I miei tabulati telefonici parlano: anni interi in cui non mi telefona nessuno».

Motivo?

«Qualsiasi persona a me vicina entra nel mirino».

Anche i figli?

«Il maggiore lavorava in una ditta edile. Il boss Pietro Ligato minaccia l’imprenditore per farlo cacciare».

Cacciato?

«Sì».

Dove scrive Palmesano al momento?

«Ogni tanto sui blog locali».

Una notizia sul blog?

«L’ associazione “Gruppo sociale La felicità” — con sede in un bene confiscato alla camorra, intitolato a Franco Imposimato — sindacalista, fratello del magistrato, per il cui omicidio è stato condannato all’ergastolo Lubrano, fa capo alla moglie del figlio di Vincenzo Lubrano. Il Comune ha affittato un immobile intitolato a Imposimato alla nuora del suo assassino».

A quel punto?

«Se preparo un pezzo simile, richiedo l’ultimo documento un attimo prima di consegnare. L’intervallo tra il ritiro del documento al Comune e l’uscita del pezzo è il momento veramente pericoloso. Il momento in cui loro sanno che stai scrivendo».

Quando Palmesano non scrive sui blog locali?

«Faccio volantini. Settecento, ottocento volantini da me distribuiti in paese».

Una notizia sui volantini?

«Denuncio la famiglia di camorra che su Facebook fa campagna elettorale per il sindaco».

Campagna elettorale?

«Mettendo mi piace alle iniziative del politico. Un capomafia che mette mi piace sotto la campagna elettorale di un candidato sindaco».

Lei conia la definizione «La Svizzera dei clan» per Pignataro Maggiore. «A Pignataro succede tutto ma non si sa mai niente. Riina latitante? Cercato a Corleone, stava a Pignataro. L’imprenditore Ludovico Zambeletti sequestrato dai Lubrano? Nascosto a Pignataro».

Minacce da lei ricevute negli anni?

«La mafia vera è composta di persone che non hanno bisogno di mettere le bombe. Gente che non deve dire: “Io ti sparo”».

Dunque?

«Quando passo nella piazza del paese, una persona del clan — importante che sia sempre la stessa per significare che non è un caso — quella persona urla: “Si sente puzza di merda”. Ogni volta».

Lei cambia tragitto?

«Mai».

Altre intimidazioni?

«Proiettili. Ancora grazie alle rivelazioni di Pettrone si scopre che Ligato in persona mi ha spedito uno dei tanti proiettili dall’ufficio postale di Vitulazio».

Le paure di Palmesano?

«Ho messo in conto la possibilità di perdere ogni cosa: famiglia, casa».

La sua vita oggi?

«Leggo libri, vado in biblioteca. Ogni mattina mi lavo e mi vesto bene, fosse solo per stare in giardino a guardare i gatti».

Perché?

«Se quel giorno dovessero ammazzarmi, devono trovarmi in ordine».

·        Vittorio Feltri.

Dagospia. Da "I Lunatici - Radio2" il 2 dicembre 2022.

Vittorio Feltri è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'una e un quarto e le due e venti circa.

Feltri ha parlato un po' di se: "Come sto? Sono vivo e questo è già un bel successo. Sono stato risparmiato dal Covid, ho fatto quattro vaccini, sono riuscito a sopravvivere e questo è già un risultato molto importanti.

Come ho iniziato a fare il giornalista? Da bambino non volevo andare all'asilo, i miei mi hanno tenuto a casa, avevo una zia che disturbavo ogni cinque minuti perché volevo leggere i giornali ma non sapevo leggere. Andavo da lei ad ogni parola, con pazienza mi ha insegnato a leggere e scrivere è stato il passo successivo.

Da quel momento ho pensato che avrei fatto il giornalista e sono stato di parola con me stesso. Il primo articolo lo scrissi per 'L'eco di Bergamo', feci un pezzo su un regista bergamasco, Olmi, che poi è diventato importantissimo. Poi sono stato assunto a 'La notte', ho lasciato un posto fisso in un ente pubblico dell'amministrazione provinciale per fare il giornalista.

Ho lasciato il posto fisso e pubblico per andare a fare il giornalista. Ero un impiegato, mi sono licenziato. Poteva sembrare una stupidaggine ma sentivo la voglia di fare un altro mestiere. Il lavoro dell'impiegato non appassionava, sono stato il precursore dei fannulloni, non facevo molto nel mio ufficio. Ero talmente scontento che non riuscivo a impegnarmi. Poi invece da giornalista mi sono impegnato".

Ancora Feltri: "I quotidiani non vendono più le copie di un tempo, le vendite si sono frantumate, di settimanali ne sono rimasti pochi, le aziende incassano poco e pagano poco, quindi questo lavoro è diventato poco attraente. Siamo in una crisi profonda, oggi sconsiglierei ad un ragazzo di intraprendere la strada del giornalismo, perché non ha sbocchi. A un giovane che oggi decidesse di abbandonare un posto fisso per fare il giornalista lo sconsiglierei con modi bruschi. Le edicole son quasi tutte chiuse. Questo rattrista, ma il mondo è cambiato, ma dobbiamo adattarci alla realtà. Rapporto con i social? Ogni tanto uso twitter, ma niente di più. Mi parlano tutti di Instagram, ma qualcosa segue la mia segretaria. Io neanche guardo. Non so neanche usare bene il telefonino. Sono vecchio".

Sul primo amore: "Il rapporto con le donne? Se piaccio, non me ne sono mai accorto. Sono sposato con una donna che mi ha salvato la vita. Siamo sposati da 55 anni. Qualche distrazione me la sono presa anche io, come tutti. Non si è trattato di tradimenti autentici ma di diversificazioni.

Il tradimento autentico è quando uno si innamora, lascia la moglie e i figli, va da un'altra parte. Sono cose che bisogna evitare perché non servono. Io queste cose le ho sempre evitate e sono ancora con mia moglie, con la quale mi trovo benissimo. Il primo amore? Giovanissimo, alle medie avevo vinto un concorso con un tema. Mi avevano costretto ad andare anche nelle aule femminili, perché all'epoca non esistevano le classi miste.

Mi sono messo a leggere il tema a queste ragazze, tutte applaudivano entusiaste, tranne una, che sembrava annoiata. Era bellissima, si chiamava Maria Luisa. Me ne innamorai, fu la mia prima volta. Abbiamo fatto anche scherma insieme, poi lei è andata all'università, io lavoravo.

Mi sono laureato anche io in scienze politiche, ma si tratta di un cortese omaggio che mi hanno fatto. Gli esami li sostenevo in un modo ridicolo. Chiacchieravo del più e del meno. Se mia moglie ha mai scoperto le diversificazioni? Qualche volta sì, mi ha beccato e si è anche molto arrabbiata".

Sulla morte: "Ci penso spesso, anche perché sono vecchio. Ho 79 anni. Guardo tutti i giorni i necrologi e dopo i 75 76 anni i morti fioccano che è una meraviglia. Dopo la morte non c'è assolutamente niente. Quelli che parlano del paradiso mi fanno sorridere. Pensi a quanti miliardi di persone si ritroverebbero in paradiso. E poi cosa si fa in paradiso? Si fanno tutto il giorno le lodi al signore. E' una cosa che io voglio evitare. In paradiso non conoscerei nessuno. Preferirei l'inferno".

Vittorio Feltri: «Mia moglie morì di parto, mi ritrovai con due gemelline. Di Pietro? È stato un mio amico». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2022.

Qual è il suo primo ricordo? «La morte di mio padre Angelo. Avevo sei anni. Lui, 43».

Di cosa morì? «Morbo di Addison. Ora si guarisce con due iniezioni di cortisone. Due ore prima di andarsene volle vedere per l’ultima volta mio fratello Ariel, mia sorella Mariella e me. Per benedirci, tipo patriarca biblico. Non so se mi riconobbe. Nel corridoio vidi una donna di spalle appoggiata al muro, che piangeva e sobbalzava nel suo vestito verde. Era mia madre».

Cosa faceva sua madre? «Vendeva la pasta Combattenti. La sera mi mettevo alla finestra ad aspettare il suo ritorno. Quando la vedevo arrivare, mi precipitavo di corsa giù dalle scale e la abbracciavo stretta. Poi c’era il maestro».

Quale maestro? «Si chiamava Angelo Dolci, ed era davvero dolcissimo. Mi veniva a prendere a casa e mi portava a scuola in sidecar, con gli occhialoni da pilota della Wehrmacht. A 14 anni sono andato a lavorare».

Quale lavoro? «Fattorino: consegnavo chincaglieria, cristalleria, ceramiche. Poi vetrinista. La domenica sera arrotondavo al piano bar Don Rodrigo di Lecco».

Anche pianista? «Non ero granché, ma usavo gli spartiti della fisarmonica, che sono più semplici. Suonavo le canzoni di Gaber: “Porta Romana bella, Porta Romana...”. Cinquantamila lire a notte. Tanto tempo dopo, con Gaber diventammo amici. Era un ragioniere, come Montale: intelligentissimo. “Destra-sinistra” me la fece sentire mentre la stava scrivendo; “il cesso è sempre in fondo a destra” è mia».

A 14 anni smise di studiare? «Ricominciai grazie a un prete. Si chiamava Angelo come mio papà, era il direttore della biblioteca di Bergamo alta. Mi passava i libri giusti. Parlavamo solo bergamasco e latino. Ancora oggi, quando devo scrivere un articolo, penso in latino. Il giorno prima della maturità, don Angelo mi diede da tradurre una versione di Tito Livio».

E poi? «All’esame diedero lo stesso brano di Tito Livio. Non ho mai capito se il prete avesse avuto una premonizione o una soffiata. Poi vinsi un concorso alla Provincia. Quando mi arrivò la notizia bestemmiai atrocemente. Ero dispiaciuto: volevo fare il giornalista».

E lo fece lo stesso. «Don Angelo mi raccomandò all’Eco di Bergamo. Primo articolo, intervista a un giovane regista del posto: Ermanno Olmi. Poi Nino Nutrizio mi chiamò alla Notte».

Com’era Nutrizio? 

«Un esule istriano, scampato alle foibe. Mi dava del voi: “Collaborate all’Eco da quasi quattro anni e non vi hanno ancora assunto; questo mi fa pensare che siate un cretino. Ma vi darò una possibilità”».

La Notte era il regno della cronaca nera. 

«Una prostituta di Bergamo fu uccisa a coltellate. Entrai in casa sua, c’era la figlia, una bambina di quattro anni, con una fetta di panettone in mano, seduta nella pozza di sangue della madre... ( Vittorio Feltri piange). Scrissi il pezzo. Il giorno dopo comprai La Notte, guadagnai col cuore in gola l’ultima pagina con la cronaca di Bergamo, e non trovai nulla. Umiliato, ripiegai il giornale, e vidi il mio articolo in prima pagina a nove colonne. Una felicità indescrivibile».

Primo amore? «Da ragazzo vinsi un premio per il miglior tema, e mi mandarono a leggerlo in una classe femminile. Alla fine applaudirono tutte, tranne una. La guardai di brutto e incrociai due occhi stupendi. Era Maria Luisa Trussardi».

Vi fidanzaste? «Qualche bacino, seduti sul muretto... Poi mi innamorai di un’altra Maria Luisa. Lei rimase subito incinta. Matrimonio riparatore. Vado emozionato in ospedale, e dal reparto maternità esce un’infermiera con due fagottini. “Oh che belle bambine, qual è la mia?”. “Tutte e due” risponde l’infermiera».

E lei? «Stavo per svenire. Mi fecero una misteriosa iniezione, e passai dalla disperazione all’euforia. Chiamai le gemelline Laura e Saba, come il mio poeta prediletto. Ma la disperazione ritornò in fretta».

Cosa accadde? «Mia moglie morì per le conseguenze del parto. A vent’anni. Cosa potevo fare con due neonate? Le portai al brefotrofio. Mi guardai attorno, c’erano molte impiegate. Scelsi quella con le gambe più belle. La corteggiai, e la sposai. Ha fatto da madre alle bambine, le sarò grato per sempre» ( Vittorio Feltri indica la signora Enoe, che ha preparato il coniglio con la polenta e assiste alla conversazione).

E avete avuto altri due figli: Fiorenza, che fa la farmacista, e Mattia, che è uno dei più importanti giornalisti italiani. «Ho anche Paolo. È figlio della sorella di mia moglie, ma lo considero mio».

Si è parlato di qualche frizione tra lei e Mattia. «Ho amato Mattia fin dalla prima volta in cui l’ho preso tra le braccia. L’ho amato quando gli davo come compito guardare la sintesi delle partite alla Domenica sportiva e scriverci su i pensierini. Lo amo adesso. Vorrei solo che mi chiamasse di più».

Lei è cresciuto al «Prima all’edizione pomeridiana, il Corriere d’Informazione. Mi chiamò Gino Palumbo: “Tratti tu il tuo stipendio, o tratto io?”. “Tratta tu, direttore”. Aprii la busta con il contratto in macchina, un Maggiolone, e rischiai il testacoda: un milione! Più del doppio di quel che guadagnavo alla Notte».

Quando arrivò al ? «Con Piero Ottone, che era un direttore bravissimo. Scrivo il primo articolo, lui mi convoca, si fa trovare seduto sulla scrivania, e mi fa: “Il pezzo va bene. Peccato per quel congiuntivo...”. Mi sento morire. Rileggo l’articolo cento volte, lo faccio rileggere ai colleghi: nessuno capiva dove fosse il congiuntivo sbagliato».

Dov’era? «Molti anni dopo andai a intervistare Ottone, e glielo chiesi. Sorrise: non c’era nessun congiuntivo sbagliato. Era un trucco che usava per intimidire i novizi».

Com’è diventato di destra? «Io non sono mai stato di destra. Sono un borghese antifascista e socialista».

Ma battezzò Craxi il cinghialone. «Giorgio Fattori mi affida la direzione dell’Europeo, che mi accoglie con due mesi di sciopero. Non due giorni; due mesi! Ma tengo duro, e raddoppio le copie. Poi vado all’Indipendente e, sì, invento questa cosa del Cinghialone. Un po’ me ne sono pentito, però funzionava... Capii che Craxi non era un ladro quando andai a trovarlo al Raphael: mi aspettavo una suite imperiale; era la tana di un animale ferito. Poi abbiamo fatto pace. Da Hammamet mi telefonava ogni sera, e gli facevo la rassegna della giornata».

. «Il naso è quello».

Chi era la sua fonte ai tempi di Tangentopoli? «Di Pietro. Eravamo amici da quando lui scoprì il mostro di Leffe».

Il mostro di Leffe? «Di Pietro era pm a Bergamo. Lo prendevano in giro per i suoi modi rozzi, ma capii subito che era un investigatore formidabile. Ruvido, cattivo, scaltro: all’americana. C’è questo signore di Leffe che nel 1983 uccide la suocera, la sotterra in montagna, ammazza moglie e figlia e le mura in casa. Poi scappa in Germania, da dove manda cartoline firmate pure dalle defunte, per sviare le indagini. Ma Di Pietro, da geniaccio qual è, intuisce tutto, fa irruzione in casa, trova i cadaveri. E passa la notizia soltanto a me».

Lei però ruppe con Di Pietro e andò a dirigere il di Berlusconi. «Mi offrirono di fare il condirettore di Montanelli, e ovviamente rifiutai. Allora mi proposero la direzione; ma io guadagnavo mezzo miliardo l’anno all’Indipendente, e l’offerta non mi soddisfaceva. Così mi alzai e me ne andai. Mi attardai all’ascensore, nell’attesa di essere richiamato. Cominciai a pensare: questi non mi richiamano mica...».

Chi erano questi? «Fedele Confalonieri e Paolo Berlusconi. Invece Paolo mi inseguì: “Facciamo 700 milioni?”. Più tardi Silvio mi offrì il 7% del Giornale, compreso il palazzo di via Negri; e quando me ne andai, vendetti tutto. Berlusconi mi ha fatto ricco. Per questo non posso parlarne male...».

Può invece. Qual è il suo bilancio in politica? «Positivo. Ma ha tenuto comportamenti troppo disinvolti. E in politica a queste cose ti inchiodano».

Lei prese il posto di Montanelli, mandato via in malo modo. «Ma non abbiamo mai rotto. Di me diceva: è come avere un figlio drogato. Gli stavo simpatico: io ero il boxeur, lui il fiorettista. Non ho mai perso l’abitudine di andare a cena a casa sua, in viale Piave. E sa come l’ho riconquistato?».

Come? «Montanelli aveva girato un film, “I sogni muoiono all’alba”, ambientato nella Budapest invasa dai carri armati sovietici. Solo che il film non si trovava più. Mia moglie lo recuperò nell’archivio di Rete4; io lo portai a Indro, e passammo una serata bellissima a rivederlo».

Sua moglie lavorava a Rete4? 

«Io sono il fondatore di Rete4, che nacque a Bergamo e si chiamava Video Delta. Andava malissimo. Pensai di risollevarla con i film di don Camillo e Peppone. Angelo Rizzoli me li vendette per due lire: il Paese va a sinistra, disse, e Guareschi non lo vuole più nessuno. Invece fu un trionfo. Così la nostra tv finì prima alla Mondadori, poi a Berlusconi».

Sua moglie lavorava per lui? «Sì; ma non lo sapeva nessuno. Fino a quando un giorno, in Mediaset, Silvio chiese: dov’è la moglie di Feltri? “Sono io” rispose Enoe. Per tutti era la signora Bonfanti, il suo cognome da ragazza».

Lei Feltri ha lavorato anche con Biagi. «Poteva essere un po’ carogna, ma in tv era il numero uno. Sembrava un parroco. Efficacissimo».

L’imitazione di Crozza le piace? «Sono io che imito lui».

Seriamente. «Non mi riconosco. Io non sono così. Non ho nulla contro le donne, le considero migliori di noi, ho sempre avuto medici donne: una donna mi ha operato per il tumore e mi ha salvato. Non ho nulla contro i gay, e ovviamente contro i neri. Le nere poi mi piacciono molto: il mio più grande rammarico è non averne mai sedotta una».

Ma lei sa essere molto duro. «Non sono duro. È che sono incapace di mentire».

Dicono che ami solo i cavalli. «Non li frusto mai: non serve. Parlo, e loro capiscono. Soprattutto se appena nati gli hai soffiato nelle narici, le froge. Allora sarà il tuo cavallo per tutta la vita».

Con Salvini avete rotto. «Lui ha rotto con me, me l’ha scritto per sms. Lo trovo abile, ha portato la Lega dal 4% al 34; ma poi ha perso lucidità».

E lei si è innamorato di Giorgia Meloni. «Ma non ho mai scritto una riga per compiacerla. Le riconosco qualità di leader. Come capo di governo deve ancora dimostrare tutto».

Quale consiglio le darebbe? «Non rompere con l’Europa. Approcciarsi con garbo. L’Europa è un grande condominio; e noi siamo l’inquilino moroso. L’ultimo che può dire: da domani facciamo il c... che ci pare».

Ignazio La Russa o Lorenzo Fontana? «La Russa si atteggia a mussoliniano, ma in fondo è un liberale. Un vitalista che ama le donne. Questo Fontana non è roba per me».

Renzi? «Molto bravo. Abolire una Camera era giusto. Però i governi perdono sempre i referendum».

Cos’è per lei Milano? «Il cervello del Paese; ma non ha gambe, né pugni. Non sa imporsi. È sottorappresentata nella politica e nella cultura».

E la Lombardia? «A Milano sono un po’ fighetti; infatti votano Sala. Gli altri lombardi sono più ruspanti. Mi piacerebbe candidarmi alle prossime regionali. Fare qualcosa per la mia piccola patria».

Cosa c’è dopo la morte? «Il cimitero. L’uomo ha bisogno di pensarsi immortale. Ma è un’illusione».

Vittorio Feltri. Francesco Melchionda per perfideinterviste.it il 17 giugno 2022.

(…)

A che età, se lo ricorda, ebbe il suo prima rapporto sessuale?

A quattordici anni.

Le piacque?

Non tanto!

Perché fece flop?

Perché pensi che la fica sia una cosa bella e, invece, è un po’ disgustosa. Poi, però, ho cambiato idea…

Ha sempre dichiarato, senza ipocrisia, di non essere mai stato un uomo fedele, men che meno da marito. E’ stato più un dongiovanni o un Casanova?

Né l’una né l’altra cosa… Non ho mai tradito mia moglie in senso tecnico, però ho diversificato. Mi è venuto sempre spontaneo frequentare e fare l’amore contemporaneamente anche con altre donne. Dio santo, che c’è di male? Anche a lei sarà capitato, suvvia… 

In un articolo, e penso di ricordare bene, ha scritto che l’ultimo rapporto sessuale con sua moglie Enoe, l’ha avuto nel lontano 1982… Diceva una puttanata?

No, è verissimo quello che ho scritto! E me lo ricordo anche bene perché quella sera l’Italia vinse i mondiali di Spagna. Festeggiai in modo opportuno… Lei che dice?

E poi? Cosa è successo? Non ha avuto più desiderio?

Assolutamente no! Ma io con mia moglie ho un bellissimo rapporto, stiamo insieme da oltre 50 anni insieme, senza di lei non potrei mai vivere. Francesco, il sesso e il congiuntivo, sono sopravvalutati!

Ma sua moglie, come reagisce alle sue continue fughe?

Beh, contenta non è…

Anche perché avrà amato anche altre donne…

Amato è una parola troppo impegnativa per me. 

Le è sempre piaciuto scopare o, pigro com’è, ha sempre avuto una certa riluttanza all’amplesso?

Allora, mettiamola così: la fatica è tanta, il piacere dura poco, e la posizione ridicola. Oggi, il solo pensiero di organizzare una scopata, mi manda in depressione.

Ma ce la fa a scopare oggi?

Beh, ogni tanto mi capita ancora…

Raro, ormai…

Raro, e, soprattutto, non lo perseguo! 

Bice Biagi, Maria Luisa Trussardi, Melania Rizzoli; quale donna, delle tre, l’ha fatta più soffrire?

Nessuna delle tre! Non ho mai sofferto per amore, mai… Con le donne ho provato piacere, divertimento e compagnia…

E delle tre quale ha amato di più?

Ho provato dei sentimenti, ma la parola amare mi sembra più adatta alle canzonette…

C’è stato un momento della sua vita in cui ha pensato di lasciare sua moglie?

Mai, perché sposare Enoe è stata una scelta definitiva, e non me ne sono mai pentito…

Qualcuno, maliziosamente, dice che ha “usato” la figlia di Enzo Biagi per fare carriera. E’ vero?

È una grandissima stronzata! Io, nella mia vita professionale, ho diretto otto giornali, e mi pare che i risultati li abbia ottenuti! E quello che ho avuto, soldi soprattutto, non penso proprio che li abbia avuti perché stavo con Bice Biagi. Sono gli editori che mi hanno scelto, ma solo perché li conveniva, perché sapevamo che, con me, avrebbero avuto un giornale solido economicamente e con le copie duplicate, triplicate. Basti pensare all’Indipendente o al Giornale… 

Aveva stima di Enzo Biagi?

Sì, molta. Era un uomo molto spiritoso, gradevole. E poi da lui ho imparato a farmi fare ottimi di contratti di lavoro.

Come mai si prende e si lascia con Melania Rizzoli, proprio come due bambini?

Avevamo litigato e, in un momento d’incazzatura, d’ira, via social l’ho punzecchiata. Mi sono fatto prendere la mano, ma ne sono subito pentito.

Lei è una persona rancorosa?

No, perché coltivare il rancore costa fatica. 

Parliamo un po’ dei giornali, direttore. Qual è stato, tra i tanti, il quotidiano che le ha regalato maggiori grane? E perché?

Il Giornale…

Immaginavo. Perché?

Perché quando Berlusconi è diventato Presidente del Consiglio una parte del Paese ha cominciato ad odiarlo, compresa una parte della Magistratura. Di conseguenza, una parte di quell’odio l’ho subito anche io. Ma non solo: in quegli anni, tante, troppe, sono state le querele ricevute. E  le dirò di più: pensavo di essere il primatista delle querele, ma ho scoperto che il record ce l’ha il mio amico Paolo Mieli, almeno così mi ha detto… 

Quante volte Berlusconi l’ha chiamata per lamentarsi di una delle sue numerose cazzate vergate in prima pagina?

Mai. Il Cavaliere è stato il miglior editore che io abbia mai avuto. Solo una volta, vedendo i dati di vendita, che erano più che brillanti, mi chiamò per congratularsi… E ricordo che, dopo aver raddoppiato le vendite, da direttore mandai a quel paese Urbano Cairo, che all’epoca era il responsabile della Pubblicità Mondadori… 

Perché? Cosa combinò Cairo…?

Glielo dico subito. Incontro Cairo e gli faccio: ma scusa, il Giornale va alla grande, e tu mi dai gli stessi soldi? Lo stesso giorno, faccio il contratto con le Pagine Gialle e mi danno quello che volevo: il doppio, che, all’epoca, ammontava a circa 24 miliardi di vecchie lire. Quando Berlusconi vide che il Giornale faceva i botti, che gli avevo fatto avere un contratto pubblicitario favoloso, e che, dulcis in fundo, non facevo neanche le note spese, mi regalò il sei per cento del Giornale. Può ben immaginare, quando poi sono andato via, cosa sia stata la mia liquidazione… 

Quanto intascò?

Miliardi…

E cosa se ne fa di tutti questi soldi, visto che fa sempre la stessa vita, abitudinaria, magari anche un po’ monotona?

Per vivere bene…

Feltri, negli anni di Mani Pulite, è stato forcaiolo e giacobino. Lo faceva per convincimento o perché sapeva che, aizzando, i lettori sarebbero aumentati a dismisura?

Volevo dimostrare, che da direttore, valevo il triplo di Montanelli, cosa che anche lui sapeva, e che riconobbe. E poi perché volevo vendere tante copie. Diciamoci anche un’altra verità: non è che mi inventassi qualcosa di particolare, i partiti rubavano, e tanto! Dare del ladro ad un ladro, non era una cosa vergognosa!

Da attore protagonista, che idea s’è fatta di quella stagione? Si è pentito di qualcosa?

Si, quando ho dato del cinghialone a Craxi, o quando ho preso per il culo Martinazzoli, che in diversi editoriali lo appellavo con “omino”, “loculo”, “cipresso”. Da un punto di vista umano, sicuramente mi dispiace di aver usato termini sprezzanti, duri; ma, se restiamo in ambito giornalistico, non posso dire di aver sbagliato. 

Craxi, secondo lei, alla fine ha rubato si o non?

Secondo me, no! Diverse volte andai a trovarlo all’hotel Raphael, e mi aspettavo, in tutta onestà, di trovare il lusso, la raffinatezza. Invece, Craxi viveva in una camera un po’ squallida, trasandata, polverosa, e con i posa cenere pieni di cicche. Parlandoci ho capito che Bettino non rubava per sé stesso, ma tollerava che si rubasse per il partito! Quando poi andò in esilio, ad Hammamet, ogni tanto, verso le dieci di sera, mi telefonava per sapere come andavano le cose in Italia. E, in una di queste telefonate, a proposito di Berlusconi, lo ricordo come fosse ora, mi disse una cosa azzeccatissima e rivelatoria: Vittorio, Silvio è il più grande imprenditore in Italia, però lui non sa governare, deve regnare… Definizione perfetta. 

Ha fatto male, Craxi, a scappare? Non è stato codardo?

Assolutamente no. Cosa doveva fare, andare a San Vittore?

Beh, se non fai nulla, perché scappi?

A maggior ragione! Ti incazzi due volte…

E Vittorio Feltri, cosa avrebbe fatto? Sarebbe scappato a gambe levate?

Ma non c’è il minimo dubbio! 

Spesso, pubblicamente, mi capita di leggere delle punzecchiature a suo Mattia; cosa non le piace della scrittura di suo figlio?

Qualche volta mi capita di criticarlo perché la sua prosa è un po’ difficile, contorta… Gli manca la malizia, purtroppo…

Quella che ha lei…

Esattamente. Ma sa, io ho avuto un’altra vita, Mattia, invece, totalmente in discesa… 

E’ contento della carriera che ha fatto suo figlio?

Moltissimo! Temo, però, che nel prossimo giro di poltrone possa andare subito a dirigere Repubblica…

Perché ha timore?

Perché Repubblica è diventato un giornale illeggibile!

(…) 

Le sarebbe piaciuto dirigere il Corriere della Sera?

Moltissimo.

Perché non c’è riuscito? Cosa ha combinato? Sentiamo…

Io nulla! Ricordo che venne da me Montezemolo, all’epoca ambasciatore della famiglia Agnelli, per sondare la mia disponibilità. Ma, contemporaneamente, scoppia Mani Pulite alla Fiat. Suppongo che i magistrati di Torino non vedessero di buon occhio la mia direzione a via Solferino. 

Avesse potuto, qualche giornalista avrebbe rubato a Eugenio Scalfari?

Nei suoi tempi migliori, Paolo Guzzanti; ora fa pena… A proposito di Repubblica, mi fa tornare alla mente un ricordo divertente: il principe Caracciolo, all’epoca editore del gruppo Espresso, una volta mi invitò a cena a casa sua…

… Per fare cosa? Non aveva niente in comune con lei…

… Voleva indagare e sondare la mia disponibilità, dopo che io, al Giornale, avevo fatto dei numeri pazzeschi.

Per fare cosa, direttore?

Per dirigere Repubblica al posto di Scalfari! 

(…)

Qual è stato il politico che ha stimato di più in tutti questi anni?

Cossiga.

Perché?

Perché era un amico. Quando smise di fare il presidente della Repubblica, voleva fare il giornalista. Una volta venne a trovarmi a Milano e mi espresse questo suo desiderio… Aveva una scrittura un po’ contorta, ma, allo stesso tempo, scriveva delle cose anche divertenti. Dopo due anni divenne anche pubblicista. Festeggiammo al Trussardi, ed era felice come un bambino.

Perché picconava?

Perché si era reso conto che la vecchia politica era finita! Cossiga aveva le palle, e prima di tutti gli altri aveva capito tutto…

Ma era vero che soffrisse di disturbi bipolari?

Beh, un po’ matto era… 

(..)

I primi mesi di coabitazione con Sallusti sono stati difficili; ha dichiarato che la ignorava; e ora? Come va la convivenza?

Io Sallusti l’ho assunto quattro volte, e sottolineo quattro! Nessuno mi può dire che Sallusti l’ho trattato male! Chi cazzo è che ha il coraggio di assumerti quattro volte? Poi, quando è tornato a dirigere Libero, mi dava fastidio la poca visibilità che dava ai miei pezzi, e la trovavo una mancanza di rispetto.

Chi comanda a Libero, lei o lui?

Lui! Io non comando un cazzo, però lo stipendio lo prendo lo stesso.

Da mowmag.com il 26 maggio 2022.

Chiedere una opinione a Vittorio Feltri su qualsiasi tema dello scibile umano vale sempre la pena. Non solo perché è uno dei giornalisti più esperti e controcorrente del panorama italiano, ma anche perché spesso è in grado di interpretare “la pancia del Paese”. Lo abbiamo fatto e, come volevasi dimostrare, ne sono emersi diversi spunti interessanti sui principali temi di attualità che infiammano il dibattito. 

Dal soldato russo condannato in Ucraina alla nuova moda social della "Boiler Summer Cup", il direttore editoriale di Libero non si è sottratto a nessuna questione, ma in particolare verso il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, è stato piuttosto netto: “I magistrati stanno davvero esagerando, sono diventati abbastanza ridicoli: intervengono su tutto, sono diventati come dei... giudici popolari”.

Direttore Feltri, buongiorno.

Buongiorno a lei

Avrà letto il rinfocolarsi del dibattito sulle armi, dopo la strage di 19 bambini e 2 maestre a Uvalde, vicino San Antonio in Texas, da parte dello studente diciottenne Salvador Ramos, che per soprammercato, prima aveva ucciso pure la nonna. Il problema è la detenzione delle armi?

No, secondo me no. Per esempio in Italia, l'80% o anche qualcosa in più dei fatti di sangue avvengono con il coltello, quindi non è un problema di pistole e di fucili. Questi almeno sono i dati italiani. 

Quanto all'America, ha avuto sempre questa tendenza a far fare ai cittadini i cowboy, perciò mi stupisce relativamente che qualcuno perda la bussola e cominci a sparacchiare in giro alla cazzo come è accaduto e come accade da sempre negli Stati Uniti. 

Quindi è un problema culturale statunitense?

Secondo me sì. Poi sa, la mia è un'impressione maturata a distanza. Sono stato negli Usa, ma non un periodo così lungo per capirne la psicologia di massa. 

A proposito di giovani. Tommaso Biancuzzi, studente di lettere antiche e coordinatore nazionale Rete Studenti Medi, sostiene che bisognerebbe abolire il dress code a scuola. Un ragazzo, ad esempio, dovrebbe sentirsi libero di mettere lo smalto, o di poter venire in aula a braccia scoperte, in canottiera e pantaloncini, dato il caldo aumentato a causa del riscaldamento globale. Che regole bisognerebbe mantenere a scuola, a questo punto?

(Ride). Questo mi sembra un problema del filo di ferro, come si dice in Lombardia. Voglio dire: veramente minimo, che non vale la pena di essere esaminato. Questo ragazzo dice la sua, e ovviamente va rispettata l'opinione di tutti, persino quella di uno studente presuntuoso. 

Ma che a scuola ci si debba comportare in un certo modo, credo sia opportuno per tutti. Ricordo che quand'ero ragazzino tutta la classe era obbligata a indossare un grembiule nero, e non mi sembra che la nostra generazione abbia patito le pene dell'inferno per un abbigliamento imposto dalla superiore autorità scolastica. Non mi sembra il caso di montare una polemica, scusi il termine, su una cazzata. 

Ecco, forse le sembrerà tale anche l'ultima moda su Tik Tok: filmarsi mentre si cerca di rimorchiare ragazze in sovrappeso, una challenge a punti in cui la sfida è a colpi di chili delle ignare vittime. Difficile immaginare qualcosa di più misogino e psicologicamente violento, non trova?

Soprattutto a me sembra un'idiozia, adottata da questi ragazzotti più per divertirsi e sfottere che per umiliare per il peso. Dopodichè, questa è una mia impressione. Non ho elementi di sicurezza.

Lei non ha Tik Tok, immagino.

Non so neanche cosa sia.

Nel frattempo, parlando di cose serie, il ventunenne sergente russo Vadim Shishimarin, processato a Kiev per aver ucciso un civile, è stato condannato, reo confesso, all'ergastolo. È stato giusto così?

Secondo me è un'assurdità, perchè questo imbecille qui è comunque un soldato, era in guerra, evidentemente aveva ricevuto degli ordini, non credo che abbia agito di testa sua. Questo induce a pensare che la condanna abbia più che altro un valore simbolico, è stata una specie di vendetta. È la guerra che ha prodotto tutti questi casini, non certo questo ragazzotto.

Cioè la vede più come un'operazione mediatica, di propaganda bellica?

Sì, sì, io la vedo più così. Ma anche qui, gli elementi di giudizio sono scarsi.

Dobbiamo basarci su quel che ci dicono gli ucraini, sostanzialmente.

Già, in ogni caso condannare addirittura all'ergastolo mi pare una cosa paradossale. 

Venendo alla politica, ha sentito le dichiarazioni del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri su Draghi? Lo ha definito "un esperto di finanza", bocciando su tutta la linea la riforma Cartabia della giustizia. Fra un anno deve lasciare il posto al vertice della procura, lei dove lo vedrebbe bene?

A casa sua, come si dice a Milano. Io trovo che i magistrati stiano davvero esagerando, sono diventati abbastanza ridicoli: intervengono su tutto, sono diventati come dei... giudici popolari. Ogni fenomeno in Italia viene giudicato da questi signori. Lo abbiamo visto, l'esame sostenuto dagli aspiranti magistrati: non sanno nemmeno l'italiano elementare. Però in un certo senso spiega certi loro atteggiamenti, perchè è vero che gli analfabeti sono risultati la stragrande maggioranza nell'ultimo concorso, però non credo che quelli del concorso precedenti abbiano potuto brillare molto di più. Perciò il problema è di fornire ai giudici gli elementi culturali che impongano loro, quanto meno, di tenere la bocca chiusa.

Gratteri però ha un profilo riconosciuto, c'è chi lo paragona a Falcone.

Mah, non lo so... Ha sempre operato in Calabria, che non è proprio la regione che mi sta più a cuore, nel senso che non la conosco molto bene. Se si è comportato bene, sono contento per lui e per i cittadini, naturalmente. Ma queste critiche poteva risparmiarsele, visto il ruolo che ricopre. Non è un giornalista, è un magistrato. Può anche tenere la bocca chiusa. 

Oggi è il centenario della nascita di Enrico Berlinguer. A destra c'è chi, come Marcello veneziani, lo considera sopravvalutato, anzi decisamente mediocre. Lei come lo ricorda?

Io non ho mai avuto un apprezzamento entusiasmante per i comunisti, e siccome Berlinguer era comunista, lo metto nel mazzo e quindi lo considero assolutamente fuori da ogni logica.

È stato anche il politico che parlò per primo di "questione morale".

Più che altro lui si era inventato l'eurocomunismo, ma non ha mai spiegato che cosa cazzo fosse, 'sto eurocomunismo. Tant'è che è diventato famoso per una cosa inesistente. 

Il Corriere della Sera ha lanciato l'idea di un governo "rossonero", Pd- FdI, per il superiore bene dell'Italia fedele alla Nato e alla linea atlantista. In fondo non ha ragione, visto che per governare in Italia serve forse più il benestare di Washington che il voto di noi italiani?

Effettivamente c'è del vero in quello che lei dice. Certo è anche che mettere insieme il riso con la pasta non va molto bene. Io lascerei perdere. Mi sembra un'idea strumentale, finalizzata a emarginare la Lega e Berlusconi in modo che il centrodestra diventi una cosa molto piccola e quindi non sia in grado di competere dal punto di vista elettorale. Io conosco piuttosto bene la signora Meloni, credo proprio che si sarà fatta una risata a leggere questa roba. 

Niente governo "milanista", insomma.

Ma sì, che poi la Meloni di nero ormai non ha neanche le scarpe... 

E neppure al Pd è rimasto granchè di rosso...

Bah, ormai il Pd (ride)... è rosso solo di vergogna.

Vittorio Feltri: «Quando hai tante sfighe, ti abitui a reagire con forza e violenza». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 21 Maggio 2022.

Orfano di padre, ha smesso di andare a scuola alle Medie. Si è laureato lavorando, a 23 anni è rimasto vedovo con due bimbe neonate. E ora il tumore. Intervista a due voci (la seconda è della riservatissima moglie Enoe). Benvenuti in casa Feltri. 

Vittorio Feltri è nato a Bergamo il 25 giugno 1943, è direttore editoriale del quotidiano Libero. Qui è nel soggiorno della sua casa milanese

Vittorio Feltri mi accompagna nella visita guidata della sua casa con il cinismo che ci si aspetterebbe da lui, celebre per il sarcasmo e per i titoli strillati dei giornali che ha diretto. «Questa è mia la camera. Il segreto di un matrimonio riuscito sono le stanze separate». Guarda su, verso la scala. «Io ho separato anche i piani. Mia moglie Enoe dorme su». Quello che non ti aspetti è trovare appollaiati sulla testata del letto un gatto di peluche bianco e un porcellino di peluche rosa. Allineati sul camino: un gatto rosso, un pony bianco, un orso grigio, un gatto tigrato, un gufo, un leone e altre due bestiole non identificate. Chiedo: che ci fanno nella sua camera? Feltri fa spallucce, farfuglia che gli piacciono, che gli amici lo sanno e glieli regalano. Dirotta l’attenzione verso un plaid poggiato sul letto: «Qui dorme Ciccio, il mio gatto. La sera, mi segue. Si addormenta con me, si sveglia con me».

La cabina armadio è da rivista per gentleman ed è il suo orgoglio: «Compro tutto da solo, ho scarpe e abiti che hanno 30 o 40 anni, non ho mai cambiato taglia». Un avo di Ciccio compare nel ritratto di Feltri che campeggia in salotto, opera di Ulisse Sartini, artista del Papa. Sopra un divano, invece, c’è una scena di caccia inglese. I cavalli sono la passione di una vita: «Correvo al trotto, ho vinto delle gare e non ho mai usato il frustino. I cavalli, se li inciti con la voce, capiscono». Scuote la testa, intristito. «La gente non lo sa... Li frusta, li spaventa». Sospira. «Ne mantengo ancora due, vecchi. Sono diventati figli, non voglio sacrificarli». Casa Feltri rivela tenerezze e sentimentalismi inattesi: foto con Indro Montanelli al quale Feltri successe alla direzione del Giornale; foto di un’intervista giovanile a Giuseppe Prezzolini; foto di figli (quattro), nipoti (cinque), bisnipoti (due); Vittorio giovane che gioca a pallone, coi capelli al vento; una cartolina scritta nel 1943 dal papà per annunciare la sua nascita.

«È morto che avevo sei anni. Scriveva bene, vero? Era un impiegato, ma mi riconosco nel passo, nello stile». La moglie dirà: «Ultimamente, si commuove più facilmente». Lui: «Vero. Sì. Invecchiando». Si siede al piano, ricorda quando suonava nei pianobar («il pianista non era considerato come i cantanti, ma mi davano 50mila lire a sera, quando un bancario ne guadagnava centomila al mese»). Poi, suona Malafemmena: «Strimpello solo canzoni napoletane, la musica moderna non mi emoziona più».

Il tumore che ha scoperto di avere l’ha resa più sentimentale?

«Non è tutta ‘sta tragedia. Male che vada, crepo. Faccio ogni due anni una Tac e a me, che non ho niente di femminile, hanno trovato un cancro a una tetta. Mi è sembrata una presa in giro. Me l’hanno tolto, mi sono svegliato dall’anestesia, le due chirurghe mi hanno offerto champagne, mi sentivo bene e sono andato a lavorare senza tante storie».

L’ha rivelato per solidarietà a Fedez, malato anche lui, e l’ha fatto con spavalderia. Ha scritto su Libero : «Del mio tumore me ne sbatto». Poi, al Corriere , annunciando che lasciava il posto di consigliere comunale ottenuto con Fratelli d’Italia, sembrava più preoccupato. Ha detto: «Il cancro non è un foruncolo». Si aspettava che la lotta fosse meno dura?

«I primi quindici giorni sono stati difficili. Ho avuto qualche fastidio. Ora, devo fare la radioterapia, prendo pastiglie, ho sempre visite. Ma non sono un paziente, sono di più: pazientissimo. Faccio quello che devo, poi, vediamo».

Non è che ha usato la scusa del tumore per dimettersi perché in Consiglio si annoiava?

«Ho già la direzione editoriale di Libero, scrivo tutti i giorni e ora ho questo fastidio da curare, non ho tempo per un posto dove, peraltro, non ho trovato un ambiente accogliente: lì è tutta burocrazia, non c’è possibilità di confronti dialettici, è una noia terribile».

A Fedez, ha consigliato «affidati a tua moglie». È quello che ha fatto lei?

«Sì, perché, se non hai l’appoggio dalla moglie, ti senti solo, abbandonato, triste, non hai forza per reagire. Invece, il tumore va preso a pugni, aggredito. Io mi sono confidato, l’ho resa partecipe e lei ha reagito come una moglie e anche come una mamma. Mi è stata di grande aiuto. Il 15 giugno festeggiamo 55 anni di matrimonio». (Interviene Enoe, donna riservata, mai un’intervista, ma ora eccezionalmente presente, per lo più silenziosa. Dice: «Si affida troppo poco, non si confida, non vuole essere aiutato. Poi, qualche volta, lo fa e devo stare attenta a ciò che dico: può graffiare, come i gatti»).

Come dura così a lungo un matrimonio?

«Dura quando si riesce a trasformare il trasporto dell’inizio in una sorta di mutuo soccorso, aiutandosi a vicenda, e ad avere un affetto che vada al di là del sesso». 

Lei non ha mai nascosto d’aver tradito.

«Non ho tradito, ho diversificato». (Enoe, in salopette da giardinaggio, non dismette il sorriso serafico).

Qual è la differenza?

«Che non ho mai odiato mia moglie e con le altre non ho mai parlato male di lei né ho pensato di lasciarla. E che, credo di averla sempre fatta stare bene, di averle dato autonomia finanziaria. Poi, se avesse diversificato anche lei, non vorrei saperlo, ma capirei».

Confessando la malattia, ha scritto che in sala operatoria, pensava a quanto era «bona» la chirurga. La dottoressa non si è offesa?

«Doveva offendersi se le davo della poco di buono. Siamo amici e sono felice di essere stato operato da due donne, mi fido di più delle donne in tutto».

Da qui a dirsi femminista quanto ce ne corre?

«Costituiscono una categoria che non mi piace, mi sembrano eccessivamente conformiste. Ciò non toglie che trovi le donne mediamente più brave di noi in ogni campo. Hanno avuto accesso al lavoro e all’università tardi e ora ci tengono a dimostrare a sé stesse e agli altri che si impegnano».

Con la parità come è messo? In casa, quanto ha aiutato?

Enoe: «Apparecchia, sparecchia. Adesso, molto di più. Prepara i sughi per la pasta. Ha un suo tocco speciale. Sa fare bene quelli napoletani. Aiutava anche quando i bambini sono un po’ cresciuti e sono tornata a lavorare».

Lui: «È stata vent’anni a Mediaset con un ruolo di responsabilità e nessuno ha mai saputo che era mia moglie».

Enoe: «Poi, un giorno, è passato Silvio Berlusconi, ha chiesto dov’era la moglie di Feltri e tutti mi hanno scoperta».

Feltri, l’anno prossimo, compie 80 anni. Che effetto fa?

«Brutto. Sono tanti. Però meglio invecchiare che morire giovani».

Di che cosa ha più paura ora: dell’età, della morte, della malattia?

«La morte non mi rallegra e soprattutto mi spaventa la modalità con cui arriva: la malattia, la sofferenza il letto, il confessore che viene a rompere. Però, più di tutto, mi fa paura la salute di mia moglie: se in casa non la vedo per un quarto d’ora, mi preoccupo».

Enoe: «Vero: non mi vede e urla come un matto».

Lui: «Temo che si sia sentita male. Fino al 2019, stava a Bergamo e io la raggiungevo il fine settimana, poi, da casa, erano usciti i figli, ci stavamo facendo anziani, ho voluto che venisse a Milano, ho comprato una casa col giardino anche qui».

I figli sono quattro: due vostri e due gemelle nate dal primo matrimonio, con sua moglie morta di parto.

«Avevo 23 anni e non sapevo dove sbattere la testa. Ho cercato di individuare una nuova moglie. Lavoravo al brefotrofio di Bergamo, portavo le gemelle con me, Enoe faceva la maestra lì. L’ho studiata, mi sembrava adatta, ci ho messo sei o sette mesi a convincerla a sposarmi. Ho fatto la scelta giusta».

Lei quanto si è occupato dei figli?

«Ho trovato lavoro a tutti e a tutti ho regalato un appartamento».

Intendevo da piccoli.

«Non ho mai dato uno schiaffo, mai fatto una predica, ho cercato di dare il buon esempio. Con loro è cresciuto anche il figlio della sorella di mia moglie, ragazza madre. Gli ho voluto bene come un figlio mio».

Il terzogenito Mattia, direttore dell’ HuffPost , si rifiutò di ospitare un intervento di Laura Boldrini critico nei suoi confronti. Ha apprezzato?

«L’intenzione sì, ma ho pensato che avesse sbagliato. Gli ho detto: dovevi pubblicare e chiedermi la replica. Faccio il giornalista: ero in grado di rispondere».

Sua nuora Annalena Benini, anche lei giornalista, attaccò un pezzo di Libero e lei, rispondendole a mezzo stampa, non fu tenero. Avete fatto pace?

«L’ho mandata a quel paese e, da allora, non l’ho più vista».

(Enoe: «Non dire così: ogni tanto, viene. Non di frequente, anche perché tu non hai un bellissimo carattere»).

Da dove le arriva questo carattere «non bellissimo»?

«Ho avuto una vita che mi ha messo il lubrificante addosso. Orfano di padre, ho smesso di andare a scuola dopo le medie. Ho fatto il vetrinista, l’impiegato, il pianobar, ho preso il diploma e la laurea studiando da solo e lavorando. Sono rimasto vedovo, come dicevo. Quando hai tante sfighe, ti abitui a reagire con forza e con violenza».

Si è sempre professato ateo, la malattia l’ha riconciliata con la fede?

«No, non sono anticlericale, ho amici preti, devolvo l’8 per mille alla Chiesa Cattolica, ma non credo nell’esistenza di Dio. Però, quando guardo Ciccio, il gatto, a volte, penso: solo Dio poteva farlo così bello».

Vittorio Feltri: «Il cancro non è un foruncolo, mi dimetto da consigliere. Dagospia su Meloni? Una palla». Maurizio Giannattasio su Il Corriere della Sera il 3 Maggio 2022.

Feltri, capolista FdI, ha lasciato il Consiglio comunale di Milano a causa della malattia: «La terapia è lunga e impegnativa, mi dispiace per la gente che mi ha votato. Con Matteo Salvini rapporti sempre pessimi, ma nei sondaggi è crollato: avevo ragione io. Giuseppe Sala un sindaco sgangherato: Milano è in mano ai delinquenti». 

Vittorio Feltri, giornalista, 78 anni

Dopo sei mesi e mezzo, Vittorio Feltri, direttore editoriale di Libero, si dimette da consigliere comunale di Fratelli d’Italia. La decisione arriva dopo la scoperta di un tumore al seno.

Direttore, come ti sei accorto della malattia?

«Ho fatto una tac con liquido di contrasto ed è venuto fuori questo cancro. Se vogliamo ci sarebbe anche un lato comico: pur non avendo niente di femminile mi è venuto il cancro a una tetta».

Da qui la decisione di lasciare l’aula consiliare.

«Il cancro non è un foruncolo. La terapia è abbastanza lunga e impegnativa. Non posso andare in Consiglio comunale, in clinica, al giornale. In più visto che la mia utilità in aula era praticamente pari a zero non ho sofferto più di tanto. Mi dispiace per la gente che mi ha votato. È ciò che mi crea più disagio, ma sono anche convinto che le persone capiscano: un malato di cancro ha il diritto di curarsi».

Dagospia ha scritto che in realtà hai colto la palla al balzo dopo che Giorgia Meloni si era lamentata del tuo intervento sul fascismo alla conferenza programmatica di Fratelli d’Italia. È vero?

«Non è vero. È una palla. Anzi la Meloni mi ha mandato dei messaggini tra cui uno in cui mi scrive che mi adora».

Perché questa scelta di candidarti in Consiglio comunale?

«Non volevo provare nulla di nuovo, sennonché sono amico di Giorgia Meloni da un po’ di anni. L’ho incontrata un giorno a Milano negli uffici di La Russa e mi ha detto che sarebbe stato bello se mi fossi candidato con FdI. In un momento di debolezza mentale le ho detto di sì».

Difficile credere che gli altri partiti del centrodestra non ti abbiano proposto candidature romane.

«Alle ultime elezioni politiche Berlusconi mi aveva offerto il posto di senatore, ma piuttosto che andare a Roma vado in ospedale».

I rapporti con Salvini sono sempre pessimi?

«Sono pessimi solo perché l’ho criticato. Gli ho semplicemente detto che quando ha lasciato il primo governo Conte se ne è andato senza spiegare il perché. Poi passa un anno e torna al governo con gli stessi e in più con i comunisti. È chiaro che agendo in questo modo sgangherato ha perso una montagna di voti. Non lo dico io, lo dicono i sondaggi. Era al 34 per cento ora è al 16. Chi ha ragione, io o lui?».

Torniamo al Consiglio comunale di Milano. Come sono i rapporti con il sindaco Beppe Sala?

«Lo conosco da anni, non ho nulla di particolare contro di lui. Mi sembra però un sindaco sgangherato».

Anche lui?

«Continua a fare le piste ciclabili, incrementa i monopattini, non chiama le forze armate come si faceva una volta per presidiare i vari punti della città e creare un deterrente. Ora Milano è allo sbando, in mano ai delinquenti, piccoli e grandi, giovani e vecchi. Poi fa l’acqua del sindaco, quando l’acqua non è del sindaco, semmai di Milano. Mi fa innervosire».

Un bilancio finale di questi 6 mesi e mezzo. Ne è valsa la pena?

«No, perché il funzionamento del Consiglio è solo di facciata. Non conta niente. Le decisioni vengono prese da un’altra parte. Fa tutto il sindaco».

Vittorio Feltri controcorrente: "Perché dico sì al saluto romano, giù le mani da Donna Assunta". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 04 maggio 2022.

Donna Assunta Almirante, morta a cento anni al termine di una vita intensa (era considerata la madrina della destra nazionale) a conclusione del suo funerale svoltosi la scorsa settimana, è stata omaggiata dai dolenti con l'ormai famoso saluto romano, braccio destro proteso in avanti. E giù polemiche come se quel gesto innocuo simboleggiasse un rifiuto della democrazia, un insulto alla Costituzione e chi più ne ha ne metta. Non sono mancati commenti giornalistici grondanti indignazione, e numerose sono state le proteste, quasi che le esequie fossero state una manifestazione indegna di nostalgia per il ventennio di Mussolini.

L'antifascismo di maniera è entrato nel costume italiano come il raffreddore, basta uno starnuto e subito parte l'allarme Covid. Il conformismo è talmente diffuso che la gente lo ha acriticamente digerito quale caffè. Non c'è verso di raddrizzare le gambe ai cani, per cui non ci illudiamo che i progressisti e gli amanti del politicamente corretto si diano una regolata e capiscano di essere talmente regressisti da non rendersi conto di avere la testa bacata da un passato che la gente di oggi neppure conosce. Un piccolo dettaglio merita di essere citato in proposito. Il saluto romano usava ai tempi di Giulio Cesare e dell'imperatore Adriano, un grande, quando la stretta di mano, poco igienica, non era stata inventata.

Pertanto se il suddetto saluto è definito romano che cavolo c'entra con il fascismo, che nacque qualche anno dopo rispetto alla gloriosa epoca imperiale? Siamo talmente rimbambiti da attribuire a un gesto storico e classico l'abitudine poi divenuta cara alle camicie nere non si sa bene perché, anche se il duce non ha mai nascosto le sue simpatie per la romanità. In conclusione, la stretta di mano tanto amata e frequente sarebbe da abolire. Non solo poiché favorisce la trasmissione di ogni microbo e impone lavaggi ripetuti. C'è di più: è sgradevole l'umidità trasmessa dalle dita. Saluto romano tutta la vita. 

Vittorio Feltri, al Sud ci sono più disoccupati che in tutta Europa? Le colpe della politica. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 04 maggio 2022.

Alcuni giornali ci informano che nel Sud italiano ci sono più disoccupati che nel resto d'Europa. Lo provano le statistiche. Io, un paio di anni fa, durante il programma televisivo di Mario Giordano, affermai senza alcuna acrimonia che gran parte del Meridione è inferiore al Nord, dove per "inferiore" intendevo ovviamente riferirmi non certo al cervello di chi è nato sotto Roma, bensì alla organizzazione economica e sociale. Un problema questo che non avevo inventato io per denigrare i cosiddetti "terroni", ma che vari valenti meridionalisti avevano esaminato in un remoto e anche recente passato. Non so perché mi viene in mente Corrado Alvaro, grande scrittore che analizzò in modo mirabile la situazione calabrese. Rammento il titolo di un suo capolavoro: «Gente d'Aspromonte». Chi non lo ha letto si appresti a farlo.

Oggi l'inferiorità del Mezzogiorno in confronto al Settentrione è dimostrata da copiosi dati relativi alle difficoltà di questa nostra amata e vituperata parte d'Italia. Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, purtroppo, sono in fondo alla classifica della occupazione patria. Non è per me una novità, e non dovrebbe esserlo per qualunque italiano che abbia a cuore lo sviluppo omogeneo della Nazione. Certamente non ho la bacchetta magica per risolvere il dramma della arretratezza di alcune zone per altri versi brillanti della penisola. Tuttavia qualche suggerimento in proposito si può avanzare. La disoccupazione non nasce per caso, bensì dalla scuola e dall'apprendistato, che non funzionano più. L'istruzione professionale oramai è tramontata e i ragazzi di 15 anni non frequentano più le botteghe allo scopo di imparare un mestiere. È del tutto evidente che un giovane il quale non sappia fare un qualsivoglia lavoro non ne trovi uno che gli consenta di vivere decentemente. Questo è un concetto facile da digerire benché nessuno se ne renda conto. Un cenno particolare poi merita l'artigianato, adesso incomprensibilmente trascurato nonostante sia noto a qualunque imbecille che il nostro Paese sia il secondo in Europa nell'ambito della manifattura.

Ciò specificato, c'è poco da aggiungere per illustrare le pene del Sud, al quale non mancherebbe nulla per crescere, se soltanto disponesse di una classe politica attenta a incrementare il tessuto produttivo anziché badare esclusivamente a interessi di casta. Sono consapevole che è più agevole raccattare voti elargendo il reddito di cittadinanza a chiunque, anziché predisporre le condizioni per favorire la cultura del lavoro, danneggiata più che mai da un assistenzialismo interessato e demotivante.

Lettera di Sandro Rota a “Libero quotidiano” il 22 aprile 2022.

Caro Vittorio Feltri, mi permetto di disturbarla per dirle che recentemente ho letto un suo articolo riguardante l'obbligo di un genitore a lasciare i propri beni ai figli nella misura del 75 per cento dell'intero patrimonio. Concordo con lei: questa legge, cioè la "legittima" che regola le vicende ereditarie. 

Io mi chiamo Sandro Rota (non mi nascondo dietro a un dito), ho sposato una santa donna - che purtroppo è morta - dalla quale ho avuto tre figli, due maschi e una femmina. I miei pargoli, pungolati da me, hanno studiato. Una volta adulti si sono cercati un posto di lavoro che ovviamente non hanno trovato. 

Glielo ho trovato io a tutti e tre dato che avevo ed ho molte conoscenze, essendo un professionista non dei più scassati. Naturalmente nessuno del terzetto si è degnato di ringraziarmi. Considerava dovuto il mio atto.

Mi dissi: vabbè, sono ragazzi. Poi si sono sposati e hanno razzato. A questo punto a ciascuno di essi ho regalato una buona casa per agevolarli. Si sono giustamente intestati gli immobili, ovviamente pagati da me, li hanno occupati e tuttora li occupano ma non si sono neppure sognati di ringraziarmi. 

Ripeto: atti dovuti. Il padre, cioè il sottoscritto, è valutato come una Cassa di risparmio che distribuisce soldi senza l'obbligo di restituirli. 

Le piace, Feltri, la mia storia? Che ne dice? C'è una appendice che non voglio trascurare. Ogni mio rampollo ha generato un figlio, in un caso due. Ragazzi carini, studiosi ed educati. Mi è sembrato doveroso provvedere anche ai nipoti, a ciascuno dei quali ho regalato un monolocale a Milano, non a Foggia. Non ho speso poco, soldi miei.

Immaginavo che i miei figli festeggiassero la donazione. Macché. Anche stavolta nemmeno un freddo ringraziamento. 

Mi domando come sia possibile ricevere senza mai dare un segno di gratitudine. Io da mia madre ho ricevuto in eredità la gotta di cui avrei fatto volentieri a meno, però l'ho accompagnata vecchia alla tomba sulla quale ho pianto, non perché le spese funerarie fossero a mio carico, bensì perché soffrivo della sua scomparsa. 

Ogni tanto in casa mia si svolge un raduno di famiglia, per esempio a Pasqua e Natale e non solo. Mi fa piacere avere intorno a me tante persone, e all'inizio della festa sono di buon umore. L'intera brigata parla e parla, ciascuno narra i fatti suoi accalorandosi: ci fosse un pirla che mi chiede come sto e se i miei malanni mi concedono una tregua. Io, il vecchio, sono parificato a un soprammobile indegno di qualsiasi attenzione.

Non partecipo alla conversazione perché nessuno mi ascolta, se apro la bocca quello che mi esce interessa meno del miagolio del gatto, che tra l'altro è l'unico essere che ormai amo. Caro Feltri, ho all'incirca la sua età e sento di potermi fidare di lei. Tra poco mi toccherà fare testamento e l'idea di devolvere i miei considerevoli risparmi, frutto di fatica e dedizione alla professione, ai miei figli che mi dedicano a malapena alcuni sguardi di commiserazione, mi ripugna. Cosa farebbe al mio posto? Sia sincero. 

Risposta di Vittorio Feltri

Caro Sandro Rota, la sua triste vicenda non mi sorprende anche se mi addolora, perché somiglia in qualche modo alla mia. Più che darle un consiglio sulla stesura del testamento, vorrei dirle che non vale la pena di pensare a quello che succederà dopo la nostra morte, che speriamo lontana ma che sappiamo essere vicina. 

Conviene rassegnarsi alla realtà, e la realtà è che l'umanità fa schifo da sempre, dalle origini del mondo. E siccome anche i nostri figli sono esseri come chiunque, non dobbiamo aspettarci da loro granché. È già bello che non si diano da fare per accelerare la nostra dipartita. 

Io dalle mie creature non mi attendo nulla, per fortuna non leggono neppure ciò che scrivo da 60 anni, altrimenti scoprirebbero che sono peggiore di loro. Di me e del mio lavoro se ne fregano allegramente. Ne godono i frutti? Non più perché io lascio ogni bene a mia moglie, l'unica che mi abbia aiutato. L'ingratitudine cui lei accenna la conosco bene. Nella mia vita ho diretto otto o nove giornali, non ricordo, e avrò assunto e portato alla ribalta una cinquantina di giornalisti. Solo uno si ricorda di me e ancora mi ringrazia: Mario Giordano. Per concludere, occorre sapere che due genitori sono in grado di allevare 10 figli, ma 10 figli non sono capaci di accudire papà e mamma vecchi, che finiscono regolarmente all'ospizio.  

Vittorio Feltri, la malattia. Parla la figlia Laura Adele: «Mio padre sta bene, non perderà la sua grinta». Donatella Tiraboschi su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.

Il messaggio della figlia del giornalista sui social, che conforta follower e amici sulle condizioni del papà.

Come sta Vittorio Feltri? Dopo la lettera aperta con cui il giornalista bergamasco aveva confidato di essere malato, interviene sui social con toni rassicuranti la figlia Laura Adele. «Siete in tanti a chiedermi di mio padre. Sta bene e non perderà la sua grinta!», afferma la figlia, confortando i suoi follower e amici di famiglia sulle condizioni del papà.

«Non è che fai i salti di gioia, ma — sarà che sono vecchio e so benissimo che può succedere, alla mia età o anche prima — ti rassegni subito», aveva affermato Feltri parlando della diagnosi. «Io poi non ho fatto nessuna scena: sono andato in ospedale, mi sono fatto operare e dopo mezz’ora ero fuori (...). L’ho scoperto a febbraio e ho fatto l’operazione il 1° marzo, tanto che ho ancora un po’ di indolenzimento. Mi hanno trovato un nodulo al seno. Pur essendo un maschio ho un tumore tipico delle donne, roba da matti, io che di femminile non ho assolutamente nulla. Pur non avendo le tette mi è venuto il cancro alle tette». 

Feltri aveva rivelato della malattia nei giorni scorsi, mandando così un incoraggiamento dalle pagine di Libero a Fedez, dopo che il rapper ha annunciato di avere un tumore. Adesso Feltri deve affrontare le terapie previste in casi come questi: «Ora l’intervento è stato fatto, adesso devo fare delle terapie per evitare altri guai, ma le faccio tranquillamente e vediamo come va a finire». Anche il messaggio di Laura Adele va in questa direzione, per il sollievo di quanti volevano sincerarsi della salute del padre.

Il giornalista scrive al rapper una lettera di incoraggiamento. Feltri scrive a Fedez dopo l’annuncio della malattia: “Fai a pugni con la sfiga, io ho il tumore”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Marzo 2022. 

“Caro Fedez, ho letto dei tuoi problemi di salute, ne sono dispiaciuto e spero si risolvano presto. Sei un giovane di talento, hai una bella famiglia e comprendo il tuo stato d’animo di fronte alla malattia. Tutti siamo preoccupati dell’integrità del nostro corpo e tentiamo di tenerlo in forma per vivere sereni”. Vittorio Feltri ha esordito così una lettera scritta a Fedez dalle colonne di Libero, il giornale di cui è fondatore e direttore editoriale.

I due non potrebbero essere più diversi eppure il giornalista ha deciso di scrivere al rapper dopo aver saputo della malattia del cantante. E in questa occasione ha rivelato di essergli vicino più che mai: l’ha invitato a lottare rivelando che anche lui ha un tumore. Ha ricordato quel loro primo incontro in occasione di una puntata del programma “Mucchio selvaggio”, in cui ha provato simpatia per Fedez, “anche se condivido un decimo delle tue esternazioni”: “Per cui sento di confidarmi su un tema che ci accomuna. Quello della salute perduta”.

Feltri ha così racconta che, a 78 anni, è sempre stato in ottima salute, fino all’emergere, con l’ultima tac, di un nodulo al petto e della successiva diagnosi: cancro. Così il suo primo intervento, “in sala operatoria, mezzo biotto, pieno di vergogna”, e dice di essere poi tornato subito a lavorare “senza confidare niente a nessuno”: “Invece ora dico chiaramente a te e a tutti che ho il cancro, perché mai dovrei dichiararlo a bassa voce, in fin dei conti la mia non è una malattia venerea”.

E infine il caloroso incoraggiamento: “Ti prego, non farti intimidire dal morbo col quale hai iniziato una battaglia che potrai vincere con l’aiuto di Sanculo (…). Non sono capace di consolarti, caro Fedez, però ti segnalo che io del mio tumore me ne sbatto i coglioni. Finché starò al mondo litigherò con chiunque, perfino col cancro. Dammi retta, non piangere, fai a pugni con la sfiga, avrai ragione tu”.

Intanto oggi Fedez è tornato a “farsi vedere” sui social dopo l’annuncio della malattia. Il post è tutto per suo figlio Leone, che oggi compie 4 anni. Nel giorno della festa del papà, il cantante celebra anche il compleanno del suo primo figlio. “Tanti auguri amore mio, oggi voglio solo dirti grazie. Grazie per aver riempito di gioia questi 4 anni insieme, grazie per avermi fatto crescere come persona più di quanto io possa aver fatto con te. Il tempo vola ma io ti tengo stretto, più che mai. Auguri Leoncino”, il messaggio di Fedez.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Vittorio Feltri, "ho un cancro: lo dico chiaramente a tutti". La lettera a Fedez: "Fai a pugni con la sfiga, vincerai tu". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 19 marzo 2022.

Caro Fedez ho letto dei tuoi problemi di salute, ne sono dispiaciuto e spero si risolvano presto. Sei un giovane di talento, hai una bella famiglia e comprendo il tuo stato d'animo di fronte alla malattia. Tutti siamo preoccupati della integrità del nostro corpo e tentiamo di tenerlo in forma per vivere sereni. Una volta mi hai intervistato con garbo per la televisione che dirigi, e ammetto di essermi divertito a rispondere alle tue domande. 

Al termine del programma, rammento, mi hai chiesto di salutare al telefono tua moglie, la famosa Ferragni, e io le parlai. Dissi: signora, sono stato mezza mattina con suo marito, ma ho pensato solo a lei. La signora e anche tu rideste, era una frase scherzosa. Poi ti ho seguito con simpatia anche se condivido un decimo delle tue esternazioni. Io d'altronde ho molte opinioni ma non ne condivido neanche una, quindi non posso concordare con le tue. Ciò non mi impedisce di avere simpatia per te, per cui sento di confidarmi su un tema che ci accomuna. Quello della salute perduta. 

Io ho 78 anni, non ho mai avuto disturbi. Ogni 24 mesi mi sottopongo ad esami di laboratorio, voglio controllare che tutto vada bene. I responsi sono sempre andati bene, polmoni perfetti nonostante fumi da secoli come una ciminiera, fegato in ordine benché trinchi qualche bicchiere, perfino il cervello - e il particolare è sorprendente - funziona a meraviglia. Ma l'ultima verifica con la tac, metodo di contrasto dalla testa ai piedi, mi ha riservato una sorpresa spiacevole. Referto: nodulo al petto, parte sinistra (la sinistra mi è sempre stata sulle palle). Per me la parola nodulo non significava niente. Non mi sono spaventato. 

Ma la mia chirurga, una bella ragazza, mi ha detto che bisognava approfondire. Va bene, approfondisci e non rompermi. Svolto l'accertamento con un ago, il medico, Paola Martinoni, emette la sentenza: cancro, bisogna intervenire col bisturi. Lei è una chirurga oltre che essere bona, e il primo di marzo mi trovo in sala operatoria, mezzo biotto, pieno di vergogna. Anestesia totale, quindi il risveglio. Nessun dolore. Mi riportano in camera sveglio ed entra nella stanza un cameriere che mi porge una coppa di champagne offerto dalla équipe medica. Bevo e mi sento subito benone. Mi rivesto e me ne vado non prima di aver salutato Paola ed averla ringraziata, la guardo e i miei pensieri in quel momento non sono stati di carattere clinico. Dato che certe donne mi piacciono ancora molto anche se non ricordo il motivo. Uscito dalla clinica mi sono recato al giornale, sedendo alla scrivania dove mi trovo pure in questo momento che ti scrivo. E ho lavorato come sempre senza confidare niente a nessuno. Non ne ho sentito il bisogno. 

Invece ora dico chiaramente a te e a tutti che ho il cancro, perché mai dovrei dichiararlo a bassa voce, in fin dei conti la mia non è una malattia venerea. Caro Fedez uno come te non ha peli sulla lingua e ha il diritto di esprimere i suoi timori e le sue ambasce. Ti prego, non farti intimidire dal morbo col quale hai iniziato una battaglia che potrai vincere con l'aiuto di Sanculo. Non deprimerti, i malanni fanno parte della natura che è nostra nemica, dobbiamo batterla con la volontà, una risorsa personale che non abbisogna della pietà di chi ci guarda con commiserazione per prevalere sulla sventura. Non sono capace di consolarti, caro Fedez, però ti segnalo che io del mio tumore me ne sbatto i coglioni. Brutta frase, ma vera. Finché starò al mondo litigherò con chiunque, perfino col cancro. Dammi retta, non piangere, fai a pugni con la sfiga, avrai ragione tu. 

Vittorio Feltri: "La vita un dono di Dio? Se fosse vero...". Condannati a morte, lo sfogo del direttore. Libero Quotidiano il 20 marzo 2022.

"Gli amici cattolici mi dicono che la vita è un sacro dono di Dio. Se fosse vero, il Padreterno non ci condannerebbe a morte nell’istante stesso in cui veniamo al mondo. Tutti siamo destinati a crepare, chi prima e chi dopo. Bel regalo quello divino". Così Vittorio Feltri twitta sul suo profilo sul pensiero cattolico e la vita umana. Un pensiero amaro, vero, reale che arriva dopo l'articolo confessione del fondatore di Libero.

Vittorio Feltri, prendendo spunto dall'annuncio di Fedez di essere ammalato, ha scritto in un editoriale tutta la sua vicinanza al cantante e svelando che lui stesso è alle prese con un tumore. Una confessione inaspettata pubblicata in un’ articolo. "Ti prego, non farti intimidire. Non deprimerti, i malanni fanno parte della natura che è nostra nemica, dobbiamo batterla con la volontà. Non sono capace di consolarti, però ti segnalo che io del mio tumore me ne sbatto i co*****. Brutta frase, ma vera. Finché starò al mondo litigherò con chiunque, perfino col cancro", le parole di Feltri.

Barbara Visentin per il “Corriere della Sera” il 20 marzo 2022.

Con una lettera aperta pubblicata sulla prima pagina di «Libero», Vittorio Feltri ha voluto mandare un suo personale incoraggiamento a Fedez, dopo che il rapper ha annunciato di avere un importante problema di salute. 

L'ha invitato a non farsi intimidire e a non abbattersi, usando il suo tono cinico, ma mettendoci in più un insolito calore. Sarà che il giornalista, 78 anni, ha rivelato di avere lui stesso una malattia e di essere da poco stato operato per un tumore. Per poi concludere: «Finché starò al mondo litigherò con chiunque, perfino col cancro».

Come mai si è rivolto a Fedez?

«Lo conosco, ho scoperto che ha questa malattia, e anche se non ha precisato di cosa si tratti si è capito che non è certo un raffreddore. E così ho voluto incoraggiarlo a modo mio». 

Ha deciso anche di rivelare di avere appena avuto un cancro.

«Per essere credibile dovevo dire che ho avuto anche io un problema. Era per dargli conforto».

Ha scritto che prova simpatia per Fedez, nonostante abbiate idee diverse. Cosa vi accomuna?

«Ha una certa schiettezza che mi avvicina a lui e un modo di fare che non mi dispiace. Poi io in verità detesto anche i tatuaggi, ma il discorso è un altro. 

Uno che ha due figli, una moglie… Mi sembrava giusto fare una cosa di questo tipo, un po' di calore gliel'ho voluto dare. Per il resto non me ne frega dell'effetto che fa. Di quello che pensano gli altri, alla mia età, sono in grado di sbattermene».

Invita Fedez a non deprimersi. Lei come ha affrontato la diagnosi?

«Non è che fai i salti di gioia, ma - sarà che sono vecchio e so benissimo che può succedere, alla mia età o anche prima - ti rassegni subito. Io poi non ho fatto nessuna scena: sono andato in ospedale, mi sono fatto operare e dopo mezz'ora ero fuori».

Quando ha saputo della malattia?

«L'ho scoperto a febbraio e ho fatto l'operazione l'1 marzo, tanto che ho ancora un po' di indolenzimento. Mi hanno trovato un nodulo al seno. Pur essendo un maschio ho un tumore tipico delle donne, roba da matti, io che di femminile non ho assolutamente nulla. Pur non avendo le tette mi è venuto il cancro alle tette». 

Ora cosa la aspetta?

«L'intervento è stato fatto, adesso devo fare delle terapie per evitare altri guai, ma le faccio tranquillamente e vediamo come va. Devo confessare di non avere avuto nessun contraccolpo psicologico depressivo, assolutamente no. Ho reagito, adesso vediamo un po'. Di solito queste cose finiscono male, ma pazienza».

A volte finiscono bene.

«Ci sono tante persone che guariscono e tante che vanno al cimitero. Ma quando hai il cancro pensi che il tuo è grave e di quello degli altri non te ne frega. Agli altri dici "vedrai che ce la fai" e tutte queste frasi fintamente consolatorie e irritanti». 

È vero che dopo l'intervento, in ospedale, le hanno offerto dello champagne?

«Pensate che scriva delle balle? Ho scritto anche il nome della dottoressa, mi smentirebbe in cinque minuti». 

È sempre convinto che non smetterà di fumare?

«Le sigarette non c'entrano. Io ogni due anni faccio una tac total body, un termine orrendo. Non si sono neanche accorti che sono un fumatore, gliel'ho detto io. Non ho assolutamente nulla, né al fegato né al cervello né ai polmoni». 

Quando si lascerà alle spalle questo periodo cosa farà?

«Non farò niente. Se il pericolo sarà allontanato sarò più sereno. Ma non ho mai smesso di lavorare, anche il giorno dell'operazione sono uscito dall'ospedale alle 16 e sono andato direttamente a lavorare, senza dire niente a nessuno. Non mi piace raccontare i fatti miei, l'ho fatto per Fedez». 

Lei e Fedez vi risentirete?

«Non lo so, non c'è un'amicizia stretta, ma una reciproca simpatia. Lui è molto giovane e questo gli darà anche un'energia che gli servirà per guarire». 

Il suo messaggio, comunque, è di ricacciare le lacrime e affrontare la malattia?

«La commozione è umana, ma piangersi addosso non serve a niente. Il pianto a me viene quando vedo i bambini in guerra in questi giorni. Quasi quasi, dopo due anni, preferivo il Covid».

Caro Feltri, il tuo cancro perderà. Massimiliano Parente il 20 Marzo 2022 su Il Giornale. 

Caro Vittorio Feltri, come al solito per te, come per me, non esiste distinzione tra pubblico e privato, odiamo la privacy (cosa avranno poi da nascondere i fissati con la privacy non si sa, forse che si scopra che hanno una vita insulsa, al di là di quanto vogliano far credere sui social). Quindi mi sento autorizzato a rendere pubblica la nostra ultima conversazione telefonica. L'ultima volta che ci siamo sentiti (in genere ci sentiamo una volta a settimana per parlare del più e del meno, in genere di donne, o di cazzate che ci fanno ridere, ma da un po' non rispondevi, mi stavo preoccupando), mi hai parlato di questo nodulo al seno, che poi era un tumore, per il quale ti sei operato, e eri veramente incazzato. Era come se ce l'avessi col tumore: un tumore, a me, ma come ti permetti?

Non sono un medico, sono uno scrittore, ma anche ipocondriaco, e ho visto tutte le puntate di Doctor House, e ti ho fatto delle domande di routine, se c'erano metastasi, se era grave, ma tu mi hai risposto secco: «Vorrei vedere tu se avessi un cancro». Mi rendo conto, il cancro è lo spauracchio di tutti, tant'è che quando muore qualcuno di tumore si dice sempre morto «di una lunga malattia», o «di un male incurabile», la parola è impronunciabile, un tabù. Non per te, che chiami le cose con il loro nome, da sempre, e in questo sei diventato un maestro del giornalismo.

Ma da quanto mi hai detto, non è niente di grave. Ti assicuro, mio papà è morto di un tumore aggressivo alla prostata dopo dieci anni dalla diagnosi, dopo «una lunga malattia» appunto. Non fumava, non beveva. Tu bevi da sempre quello che ti pare, fumi molto (una volta ti ho chiesto «quanto fumi?» e hai risposto «più che posso», strepitoso come sempre, e io ti ho preso ad esempio), polmoni sani, fegato sano, hai settantotto anni e non hai mai avuto niente, quel cancrino non è niente, ti assicuro, credo te l'abbia detto anche la tua amica oncologa Paola, ma mi pare alla fine lo abbia capito anche tu. Rivolgendoti a Fedez hai scritto

ieri, nel tuo editoriale, «non sono capace di consolarti caro Fedez, però ti segnalo che del mio tumore me ne sbatto i coglioni».

E poi, Vittorio mio, c'è la guerra in Ucraina, siamo usciti dal Covid, manca solo un asteroide, e non penso proprio che un nodulo tumorale al petto, operato, senza metastasi, con tutti i controlli che ti fai annualmente, sia un pericolo per te, e per tutti noi. Perché, conoscendoti, mentre tu potresti fare tranquillamente a meno di Vittorio Feltri, noi no. E poi ricordati una cosa: sono sempre i sani che muoiono, i salutisti, i vegetariani, quel piccolo tumore ha scelto la persona sbagliata, col cavolo che ti uccide. È battuto in ritirata. Continua a bere, a fumare, e a essere quello che sei. Noi non possiamo fare a meno di te. Almeno per i prossimi trent'anni. Quel tumore l'hai già mandato affanculo.

Francesco Specchia per "Libero Quotidiano" il 22 gennaio 2022.

Chiamatelo giornalismo eretico, con una strana coppia di scribi. «Berlusconi troppo vecchio per fare il presidente della Repubblica? Ho detto che ha l'età del dattero ed è vero, non è che me lo invento io. Io credo che sia altamente improbabile che ce la possa fare...». Quando Vittorio Feltri a Accordi e disaccordi (sul Nove, venerdì in seconda serata dopo Crozza che fa Feltri) commenta, aguzzo, il Romanzo Quirinale, Marco Travaglio increspa un sorriso.

Fa un certo effetto vedere, a ripetizione, nel programma di Luca Sommi e Andrea Scanzi, il direttore editoriale di Libero e il direttore del Fatto Quotidiano che fanno l'uno il contrappunto all'altro, in un'imperlata di analisi politiche lievi e nodose che talora sfiorano la pura gag. 

L'esperimento del canale Nove è quello di shakerare i mondi simmetrici di Feltri e Travaglio nella critica agli argomenti di attualità quotidiana. «Che, in realtà sono due: Covid e Colle», dice Feltri «mi hanno chiamato da Discovery e mi hanno offerto cinque puntate di incontro-scontro con Travaglio il quale è un ottimo giornalista che scrive benissimo, e che io stimo. Ne è uscito qualcosa di curioso».

Curioso, di sicuro. Sicchè ecco i due discettare delle mille vite di Draghi e delle possibilità quirinalizie di Berlusconi; delle carte segrete della Meloni e delle posizioni basculanti di Salvini («Che cambia idea ogni 25/30 minuti», continua Feltri). Feltri e Travaglio accarezzano bene l'audience della rete, lanciata dal traino di Maurizio Crozza. Per quanto all'apparenza opposti, i due giornalisti sono molto più simili tra loro di quanto si pensi.

Conosciutisi all'epoca in cui Feltri dirigeva Il Borghese e Travaglio vi collaborava (entrambi uscivano da esperienze finite, rispettivamente col QN e con La Voce), entrambi sono nati e cresciuti nel culto di Indro Montanelli. Entrambi conoscono il senso dell'ironia e della scrittura affilata. Entrambi -volendo, ognuno dalla propria barricata sono matti come cavalli. Accordi e disaccordi scivola via sul filo dell'attualità politica servita al popolo. Feltri, nel solco di un esperimento simile, vanta un precedente agli inizi del 2000: il programma W l'Italia in coppia con Sandro Curzi su Stream, chez Ilaria D'Amico. L'implacabile attrazione degli opposti.