Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA CULTURA

ED I MEDIA

SESTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scienza è un’opinione.

L’Anti-Scienza.

Alle origini della Vita.

L’Intelligenza Artificiale.

I Benefattori dell’Umanità.

Al di là della Luna.

Viaggiare nello Spazio.

Gli Ufo.

La Rivoluzione Digitale.

I Radioamatori.

Gli Hackers.

Catfishing: la Truffa.

La Matematica.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Libero Arbitrio.

Il Cervello Allenato.

Il Cervello Malato.

La Sindrome dell'Avana.

Le Onde Celebrali.

Gli impianti.

La disnomia.

La nomofobia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Geni.

Il Merito.

Ignoranti e Disoccupati.

Laureate e Disoccupate.

Il Docente Lavoratore.

Decenza e Decoro a Scuola.

Una scuola “sgarrupata”.

Gli speculatori: il caro-locazione.

Discriminazione di genere.

La Scuola Comunista.

La scuola di Maria Montessori.

Concorso scuola truccato.

Concorsi truccati all’università.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutti figli di…Neanderthal (nord) e Sapiens (Sud).

Come si usano.

Sapete che…?

Epifania e Befana.

Il Carnevale.

Gioventù del cazzo.

Gli Hikikomori. 

La Vecchiaia è una carogna…

Gemelli diversi.

L’Ignoranza.

La Rimembranza.

La Nostalgia.

Gli Amici.

La Fiducia.

Il Sesso.

Il Nome.

Le Icone.

Il Linguaggio.

La Fobia.

Il Tatuaggio.

Il Limbo.

Il Potere nel Telecomando.

Gli incontri casuali di svolta.

I Fantozzi.

Ho sempre ragione.

Il Narcisismo.

I Sosia.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Ghosting: interruzione dei rapporti.

Gli Insulti.

La Speranza.

Il Dialogo.

Il Silenzio.

I Bugiardi.

Gli stolti.

I Tirchi.

Altruismo.

I Neologismi.

Gli Snob.

I Radical Chic.

Il Pensiero Unico.

La Cancel Culture.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La P2 Culturale.

L’Utopia.

Il Cinema di Sinistra prezzolato.

Il Consenso.

I Negazionismi.

I Ribelli.

Geni incompresi.

Il Podcast.

Il Plagio.

Ladri di Cultura.

Il Mecenatismo.

I Beni culturali.

Il Futurismo.

I Bronzi di Riace e di San Casciano dei Bagni.

I Faraoni.

La Pittura.

Il Restauro.

Il Collezionismo.

La Moda.

Il Cappello.

Gli Orologi.

Le Case.

La Moto.

L’Auto.

L’emoticon.

I Fumetti.

I Manga.

I Giochi da Tavolo.

I Teatri.

Il direttore d’orchestra.

L’Arte in tv.

La Cultura Digitale.

Dalla cabina al selfie.

I Social.

La scienza, la cultura ed i social. I Divulgatori.

La Capitale della Cultura.

Oscar made in Italy.

I Balbuzienti.

Cultura Stupefacente.

I pseudo intellettuali.

Le lettere intellettuali.

L’Artistocrazia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Alberto Angela.

Aldo Busi.

Aldo Nove.

Alessandro Baricco.

Alessandro Manzoni.

Alfred Hitchcock.

Amy Sherald.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea G. Pinketts.

Andrea Palladio.

Andrea Pazienza.

Annie Ernaux.

Antonella Boralevi.

Antonio Canova.

Antonio de Curtis in arte Totò.

Antonio Pennacchi.

Arturo Toscanini.

Banksy.

Barbara Alberti.

Billy Wilder.

Carlo Emilio Gadda.

Carlo Levi.

Carlo Linati.

Carmen Llera e Alberto Moravia.

Cesare Pavese.

Charles Baudelaire.

Charles Bokowski.

Charles M. Schulz.

Chiara Valerio.

Crocifisso Dentello.

Dacia Maraini.

David LaChapelle.

Dino Buzzati.

Donatello.

Elisa De Marco.

Emil Cioran.

Emilio Giannelli.

Emilio Lari.

Ennio Flaiano.

Ernest Hemingway.

Espérance Hakuzwimana. 

Eugenio Montale.

Eva Cantarella.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli. 

Fernanda Pivano.

Francesca Alinovi.

Francesco Guicciardini.

Francesco Tullio Altan.

Francisco Umbral.

Franco Branciaroli.

Franco Cordelli.

Franz Peter Schubert.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriel Garcia Marquez.

Gabriele d'Annunzio.

Georges Bataille.

George Orwell.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel.

Giacomo Leopardi.

Gian Paolo Serino.

Gian Piero Brunetta.

Giampiero Mughini.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Ansaldo.

Giovanni Verga.

Giuseppe Pino.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Ungaretti.

Giuseppe Verdi.

Grazia Deledda.

Guido Gozzano.

Guido Harari.

Ian Fleming.

Ignazio Silone.

Indro Montanelli.

Italo Calvino.

Jane Austin.

John Le Carré.

John Williams.

José Saramago.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lawrence d'Arabia.

Leonardo da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Leopoldo (Leo) Longanesi.

Luciano Bianciardi. 

Luchino Visconti.

Louis-Ferdinand Céline.

Marcel Proust.

Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis.

Marcello Marchesi.

Marco Giusti.

Mario Picchi e Aldo Palazzeschi.

Mario Praz.

Massimiliano Fuksas.

Maurizio Cattelan.

Maurizio de Giovanni.

Melissa P.: Melissa Panarello.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michele Rech, in arte Zerocalcare.

Nietzsche.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Orson Welles.

Pablo Picasso.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Scarpa.

Renzo Piano.

Riccardo Muti. 

Richard Wagner.

Roberto Benigni.

Robert Byron.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Sacha Guitry.

Saint-John Perse.

Salvatore Quasimodo.

Sebastián Matta.

Sergio Leone.

Staino.

Stephen King.

Susanna Tamaro.

Sveva Casati Modignani.

Tiziano.

Truman Capote.

Umberto Boccioni.

Umberto Eco.

Valentino Garavani.

Vincent Van Gogh.

Virginia Woolf.

Vittorio Sgarbi.

Walt Disney.

Walt Whitman.

William Burroughs.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

La Sociologia Storica.

Il giornalismo d’inchiesta.

I Martiri.

Se questi son giornalisti...

Il Web e la Legione di Imbecilli.

Gli influencer.

Le Fallacie.

Le Fake News.

Il Nefasto Amazon.

I Censori.

Quello che c’è da sapere su Wikipedia.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Gli Oscar comunisti.

Lo Streaming.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Pizzo di Stato.

Mediaset.

Il Corriere della Sera.

Il Gruppo Editoriale Gedi.

Primo: la Verità del Il Giornale.

Alberto Matano.

Alda D'Eusanio.

Aldo Cazzullo.

Alessandra De Stefano.

Alessandra Sardoni. 

Alessandro Giuli.

Andrea Scanzi.

Andrea Vianello.

Beppe Severgnini.

Bernardo Valli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Longhi.

Bruno Vespa.

Camillo Langone.

Carlo De Benedetti.

Cecilia Sala.

Cesara Buonamici.

Claudio Cerasa.

Corrado Formigli.

Davìd Parenzo.

Diego Bianchi in arte Zoro.

Elisa Anzaldo.

Emilio Fede.

Ennio Simeone.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Biagi.

Ettore Mo.

Fabio Caressa.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Fiorenza Sarzanini.

Franca Leosini.

Francesca Fagnani.

Francesco Giorgino.

Gennaro Sangiuliano.

Giacinto Pinto.

Gian Paolo Ormezzano.

Gianluigi Nuzzi.

Gianni Minà.

Giorgia Cardinaletti.

Giovanna Botteri.

Giovanni Floris.

Giovanni Minoli.

Giovanni Tizian.

Giuliano Ferrara.

Giuseppe Cruciani.

Guido Meda.

Ivan Zazzaroni.

Julian Assange.

Hoara Borselli.

Lamberto Sposini.

Laura Laurenzi.

Lilli Gruber.

Lina Sotis.

Lucio Caracciolo.

Luigi Contu.

Luisella Costamagna.

Marcello Foa.

Marco Damilano.

Marco Travaglio.

Maria Giovanna Maglie.

Marino Bartoletti.

Mario Calabresi.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.  

Maurizio Costanzo.

Michele Mirabella.

Michele Santoro.

Michele Serra.

Milo Infante.

Mimosa Martini.

Monica Setta.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo del Debbio.

Paolo Zaccagnini.

Pierluigi Pardo.

Roberto D'Agostino.

Roberto Napoletano.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Alla.

Tiziana Panella.

Vincenzo Mollica.

Vincenzo Palmesano.

Vittorio Feltri.

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

·          Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

Shadows of Liberty, il documentario che svela il sistema mediatico americano. Federico Mels Colloredo su L'Indipendente il 3 dicembre 2022.

Shadows of Liberty è un documentario del 2012 della durata di 93 minuti, diretto dal regista canadese Jean-Philippe Tremblay, che attraverso immagini di repertorio e interviste con noti giornalisti e personaggi pubblici tra cui il fondatore di WikiLeaks Julian Assange, l’attore e attivista Danny Glover, la giornalista investigativa Amy Goodman, l’ex conduttore di CBS News Dan Rather e lo scrittore e produttore televisivo David Simon; rivela la straordinaria verità dietro i mezzi di informazione: censura, insabbiamenti, manipolazione e controllo aziendale. Il regista intraprende un viaggio attraverso gli antri più oscuri dei media statunitensi, dove la loro schiacciante influenza ha distorto il giornalismo e ne ha compromesso i valori. Storie dove giornalisti, attivisti e accademici forniscono resoconti scioccanti di un sistema mediatico allo sbando. I media statunitensi sono controllati da una manciata di corporazioni che esercitano uno straordinario potere politico, sociale ed economico. Avendo sempre permesso che le trasmissioni fossero controllate da interessi commerciali, l’allentamento dei regolamenti sulla proprietà dei media, iniziato sotto la presidenza Reagan, continuato con Clinton e proseguito da Bush, ha portato alla situazione attuale in cui cinque mega corporazioni controllano la stragrande maggioranza dei media negli Stati Uniti. Queste aziende non solo non danno la priorità al giornalismo investigativo, ma possono reprimerlo e lo fanno ogni volta che i loro interessi sono minacciati.

Il documentario inizia con tre giornalisti le cui carriere sono state distrutte a causa delle storie che hanno raccontato, come Roberta Baskin giornalista investigativa che negli anni 90, con lo scoop sullo sfruttamento, le cattive condizioni di lavoro e bassissimi salari in una fabbrica Nike in Vietnam, fece infuriare la CBS quando Nike diventò co-sponsor principale dei Giochi Olimpici Invernali dove la CBS aveva investito molto per acquisire i diritti di trasmissione esclusivi. Kristina Borjesson, un’altra giornalista della CBS, che si era spinta troppo oltre nelle sue indagini investigative, fu tempestivamente dimessa dal suo incarico, dopo che la rete ha intensificato le sue ricerche sul disastro del volo TWA 800 nel 1996, intralciando le indagini e mettendo a tacere le teorie secondo cui il volo TWA 800 è stato abbattuto da un esplosivo artificiale, non da un guasto meccanico. Gary Webb, la cui storia collega il sostegno degli Stati Uniti e della CIA ai Contras, gruppi armati controrivoluzionari nicaraguensi e l’enorme diffusione di cocaina e crack negli anni 80, fu screditata e cestinata dal New York Times e dal Washington Post. In seguito risultò che la sua storia era vera, ma Webb perse il lavoro e nel 2004 in circostanze ancora poco chiare si tolse la vita.

Shadows of Liberty è un documentario d’accusa che si mostra come una critica sobria e incisiva del sistema mediatico americano, chiedendosi perché hanno lasciato che una manciata di potenti società scrivessero le notizie, evidenziando in modo efficace come e perché il consolidamento aziendale dei media mina la democrazia. Il titolo del film è ispirato a Thomas Paine, rivoluzionario, politico e filosofo illuminista considerato uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti d’America che alla fine del settecento scrisse: ««Quando l’uomo perde il privilegio del pensiero l’ultima ombra della libertà lascerà l’orizzonte». Il documentario è disponibile sottotitolato in italiano su YouTube. [di Federico Mels Colloredo]

Estratto dell’articolo di Nanni Delbecchi per "il Fatto quotidiano" il 2 dicembre 2022.

La tv italiana è soggetta a regime feudale, tutto un invitarsi e uno scambiarsi cortesie tra i feudatari e i loro valvassini, l'ultimo grido è il conduttore oggi opinionista in un altro salotto, domani nel suo salotto dove invita come opinionista il conduttore che lo aveva invitato.

Non avrai altra realtà fuori da quella che il video racconta, eppure qualche record di autoreferenzialità è attingibile: martedì sera su Rai3 Il cavallo e la torre ha piantato la sua bandierina. A questo format di stretta attualità e di tradizione nobile (La cartolina di Andrea Barbato, Il Fatto di Enzo Biagi), Marco Damilano ha dato un tocco di ricettività intima, vagamente sepolcrale. Punta sull'ospite del giorno. E chi era l'ospite del giorno, nel chiaroscuro caravaggesco di Rai3? Lucia Annunziata, conduttrice su Rai3.

E qual era il fatto del giorno? La presentazione del nuovo libro di Lucia Annunziata, L'inquilino, che Annunziata aveva appena presentato a Quante storie, su Rai3. (…)

Non varrebbe la pena occuparsi di questa goccia se non fosse così rappresentativa del mare. La sinistra si stupisce della rovinosa emorragia di consensi, del "Paese consegnato alla destra", ma dovrebbe stupirsi del contrario per come si ostina a vedere solo se stessa, autoreclusa nella propria egemonia terminale. Se il resto del mondo o è fascista o non esiste, perché dovrebbe esistere lei per il resto del mondo?

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 2 dicembre 2022.

Comincio a credere che le manifestazioni d'ipocrisia, per quanto nascoste, siano un lubrificante sociale essenziale, non ne possiamo fare a meno, non solo in tv.

Devo ai frammenti di «Blob» alcune riflessioni.

A #cartabianca ennesimo penoso show di Alessandro Orsini: al di là delle sue idee, ha tratti compulsivi, impossibile discutere con lui. Le liti, si sa, nei talk portano ascolti ma è più facile nascondersi dietro l'ipocrisia e sventolare le bandiere del «confronto», della «libertà d'espressione». Sempre meglio che assumersi la responsabilità di invitarlo. Leggo che la conduttrice Bianca Berlinguer ha chiesto scusa all'on. Lupi. Chi ha invitato Orsini?

A «Ballando con le stelle» ormai le liti fra giurati e ballerini sono una componente della trasmissione; adesso anche fra giurati e giurati. Le liti, si sa, portano ascolti ma è più facile dare la colpa al ballo, alle prestazioni, alle barzellette di Iva Zanicchi. Mai che Milly Carlucci si assuma la responsabilità di qualcosa.

Duro sfogo di Paola Ferrari che ha affidato all'Adnkronos la sua amarezza per non essere stata coinvolta nel progetto sui Mondiali di Calcio in corso in Qatar: «Ora ho molta amarezza, sono stata completamente tolta dai Mondiali dalla Rai, mi hanno tolto tutto dalla sera alla mattina senza alcuna giustificazione da parte dell'azienda, che non mi ha minimamente difeso».

Altro che liti fra prime donne! Quest' azienda deve ancora dirci com' è possibile che una dipendente (articolo 2) possa vendere, sia pure in compartecipazione, all'azienda da cui dipende un prodotto televisivo. Non uno che si assuma la responsabilità di dire qualcosa, magari è normale così. Si potrebbe andare avanti all'infinito, quasi ogni spezzone di «Blob» lascia intravedere lo stigma della dissimulazione disonesta, la parente più stretta dell'indignazione.

Amadeus sa bene che un brano diventa popolare solo con la radio. Prima di annunciare il cast al completo, Amadeus ha tenuto a sottolineare ancora una volta che sceglie le canzoni del Festival di Sanremo con un criterio radiofonico. Paolo Giordano il 27 Novembre 2022 su Il Giornale.

Prima di annunciare il cast al completo, Amadeus ha tenuto a sottolineare ancora una volta che sceglie le canzoni del Festival di Sanremo con un criterio radiofonico: «Penso se quella canzone potrà avere un successo radiofonico. Se uno pensa che io mi chiuda in una sala di incisione con le casse, no. Io salgo in macchina e scelgo le canzoni ascoltandole mentre guido e a volte mi faccio anche dei viaggi apposta per ascoltare le canzoni».

E non a caso ha annunciato che il Prima Festival, in onda su Raiuno prima della gara, sarà condotto da nomi essenzialmente radiofonici ossia Andrea Delogu (Radio2), gli Autogol (anche loro su Rai Radio2) e Jody Cecchetto (foto) che anche durante la settimana sanremese continuerà a trasmettere su Rtl 102.5 e Radio Zeta (Suraci dixit). Vedremo che cosa si inventeranno.

Ma nel frattempo loro rappresentano un altro tassello della visione di Amadeus (finora premiata dai risultati). Nell'epoca in cui si parla di piattaforme streaming e del volano Tik Tok come degli unici motori di popolarità della musica, perché Amadeus continua a guardare alla radio? È un nostalgico? I cosiddetti beneinformati dicono che la radio sia alla fine ma lui continua a costruirci sopra le canzoni del futuro? In realtà Amadeus è perfettamente cosciente della distinzione tra quantità (i miliardi di streaming) e qualità (gli ascolti mirati, selezionati, raccontati). I primi fanno quasi soltanto fatturato. Gli altri fanno soprattutto opinione e poi successo e talvolta pure fatturato. E se, partendo dalla radio, si può anche diventare «virali», è meno frequente il percorso inverso. La radio e la tv sono ancora (non si sa per quanto) detonatori del successo trasversale che serve a raggiungere il maggior numero di persone. La cosiddetta «musica liquida» crea il successo «verticale», che ha numeri altissimi ma difficilmente diventa «nazionalpopolare». Ma per essere di tutti, una festa deve essere per forza popolare.

R. Cro. per il “Corriere della Sera” il 16 novembre 2022.

Con il nuovo anno scolastico torna nelle scuole secondarie superiori «Il quotidiano in classe», il progetto educativo promosso dall'Osservatorio permanente giovani-editori. In decine di migliaia di classi gli insegnanti riprenderanno la lezione settimanale dedicata alla lettura critica e comparata di tre diverse fonti giornalistiche, per sviluppare la capacità di pensiero dei ragazzi e fornire quel pluralismo delle opinioni utile a far capire ai ragazzi i diversi punti di vista su uno stesso fatto e di maturarne uno proprio.

In questa edizione partecipano al progetto il Corriere della Sera , La Repubblica , Il Sole 24 Ore , La Stampa, La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino, Il Messaggero, Il Secolo XIX, Il Gazzettino, Gazzetta di Parma, L'Arena, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi, Gazzetta del Sud, Il Giornale di Sicilia, Corriere delle Alpi, Gazzetta di Mantova, Messaggero Veneto, La Provincia Pavese e la Tribuna di Treviso . 

L'adesione al «Quotidiano in classe» prevede che l'insegnante interessato possa partecipare a corsi di formazione gratuiti per illustrare i modelli didattici. Terminata questa fase i prof inizieranno le lezioni in classe mostrando agli studenti come la stessa notizia possa esser letta diversamente dalle testate. Un istituto di ricerca monitorerà gli effetti del progetto. 

L'iniziativa è da anni sostenuta da 18 fondazioni di origine bancaria, oltre all'Acri. «Crediamo in una scuola che alleni i giovani a ragionare, non semplicemente a memorizzare», commenta il presidente dell'Osservatorio permanente giovani-editori Andrea Ceccherini.

«Abbiamo bisogno di fornire agli studenti strumenti critici senza data di scadenza, metodi e processi intellettuali innovativi che migliorano nel tempo, capaci di far trovare loro le soluzioni ai problemi complessi che affronteranno nella vita, usando la propria testa, l'ultima assicurazione che gli resta se vorranno essere più liberi». «Questo progetto - dice Ceccherini - vuole essere uno strumento in più nelle mani di quegli insegnanti visionari che vogliono cambiare la scuola italiana».

In Italia: i giornalisti non informano; i professori non istruiscono. Essi fanno solo propaganda. Sono il megafono della politica e delle vetuste ideologie e quelli di sinistra son molto solidali tra loro. Se fai notare il loro propagandismo e te ne lamenti, si risentono e gridano alla lesa maestà, riportandosi alla Costituzione Cattomassonecomunista. In natura i maiali, se ne tocchi uno, grugniscono tutti, richiamando il loro diritto di parola.

Scritto tanti anni fa, ma ancora attuale. John Swinton, redattore capo del New York Times, 12 aprile 1893. “In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so pure io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che se lo facesse esse non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattr’ore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza, e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so pure io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali”.

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere? Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici.

Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista.

Un tempo non si buttava niente. Tutto si riciclava. Un tempo si era solo rigattieri senza speranza. Si acquistava e si rivendeva roba vecchia, usata, fuori uso o fuori moda, specialmente vestiti, masserizie e simili. La rigattierìa era ciarpame vecchio senza valore, oggetti di scarto.

Oggi, in nome del consumismo sfrenato, alla faccia dei comunisti desunti, non si butta il vecchio o rotto cialtrame, ma tutto quello che in casa non trova posto o non viene usato. I figli crescono? La tecnologia avanza? I vestiti son fuori moda? Via tutto. Roba nuova, oltretutto ancora imballata, la ritrovi nelle oasi della raccolta differenziata dei rifiuti. A regalarla agli altri, sia mai. Anzi buttata…E poi chi la vuole? A proporla diventa un'offesa. Il consumismo sfrenato anche per chi non ha da mangiare… Dove siamo arrivati. I conformisti e conformati, poi, se ti vedono a razzolare intorno a quei beni buttati, ma utilizzabili, ti prendono per un “Barbone” che rovista nei rifiuti.

Oggi si è solo Antiquari. Il rigattiere, a differenza dell’antiquario, non seleziona e non valorizza; semplicemente, rimette in circolazione dei beni che possono avere ancora una loro funzione. Ed oggi le cose vecchie vanno solo al macero. Vale per le cose; vale per le persone.

È ora di dirselo, l’uomo comune è una merda. Dopo la Teoria della classe disagiata, minimumfax continua ad analizzare la società italiana contemporanea, ma questa volta si parla della Gente, quella variopinta galassia di umanità rabbiosa, che odia la Casta e non si fida più di nessuno, ma che è ormai al centro della politica italiana, scrive Andrea Coccia il 24 Ottobre 2017 su L’Inkiesta. Non è passato nemmeno un mese dall'uscita in libreria di Teoria della classe disagiata, il libro con cui Raffaele Alberto Ventura ha cercato di descrivere la traiettoria e lo scacco a cui è soggetta la classe creativa e intellettuale, minimumfax torna ad affrontare la realtà con un libro che per molti versi alla Teoria di Ventura è speculare. Si tratta de La gente. Viaggio nell'Italia del risentimento e raccoglie l'esperienza di reporter di Leonardo Bianchi, uno che negli ultimi anni si è fatto notare per le sue scorribande pubblicate da Vice, Internazionale, ValigiaBlu, ed è sostanzialmente un ritratto, multiforme e sfaccettato come il soggetto di cui parla, di una parte della società che probabilmente per i disagiati di Ventura è “fuori dalla bolla”, ma che rappresenta una grande parte dell'Italia e non solo. Dal movimento dei Forconi ai neofascisti delle periferie romane, dai complottisti agli anti gender fino ai giustizieri della notte de noartri, difensori improvvisati dell'ordine pubblico e paladini della legittima difesa, ma anche buongiornisti, gonzonauti e boccaloni di ogni tipo: la galassia della Gente — che altri chiamano la Ggente, con la doppia — è dispersa per tutta la penisola, da Nord a Sud, e pure al Centro, non fa distinzione geografiche, né campanilistiche. Il denominatore comune di questa ggente è la rabbia, il risentimento, il richiamo all'autorità — della polizia, delle armi, della legittima difesa — e il rigetto verso qualsiasi cosa c'entri con l'autorevolezza, la conoscenza e l'intellettualità. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. Quello di Leonardo Bianchi è un gran lavoro, ma d'altronde lo è sempre stato. A differenza di quello teorico di Ventura, il suo ha le radici ben piantate nella cronaca, nei volti e nelle vite dei personaggi che mette in scena — e che non di rado racconta in maniera decisamente cinematografica — ma nello stesso tempo riesce a non privarsi della profondità, del tentativo di uscire dall'hic et nuncunendo i puntini e cercando di vedere il quadro complessivo. Per qualcuno la Ggente sarebbe l'ultima evoluzione del Popolo, quell'entità che è entrata a piedi uniti nella politica a partire dall'epoca delle rivoluzioni, ma forse è qualcosa di più complesso. Per cercare di definirlo Bianchi ne traccia tre grandi caratteristiche: il forte risentimento verso la cosiddetta Casta; la rabbia esasperata, indignata, ma soprattutto non imbrigliata in una ideologia di partito; e la tendenza a inventare e a credere a teorie del complotto e versioni alternative nei campi della storia, della geopolitica, della medicina. Eppure, la sensazione che resta dopo la lettura dei reportage di Bianchi è che più che al popolo, questa gente somigli alla folla, quella entità che iniziò ad apparire nell'immaginario collettivo intorno alla metà dell'Ottocento, descritta nel celebre racconto di Edgar Poe, l'Uomo della folla. È probabilmente più da quella massa variegata ma indistinta, da quel flusso che figliò poi nel Novecento la società di massa dell'omologazione e dell'individualismo apolitico che nasce il gentismo e la gente. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. I popoli erigevano monumenti ai propri eroi e ci si raccoglieva intorno al momento delle proprie rivendicazioni politiche, la gente, che non ha nemmeno più grandi rivendicazioni da fare, la strada la teme, la guarda di sottecchi dalle finestre dei piani alti di qualche caseggiato popolare, covando rabbia, rancore, risentimento. Con il popolo una volta si poteva immaginare di costruire delle comunità, con la gente, ora, non si costruisce nulla, ma al contrario, si distrugge.

Orridi conformismi linguistici. Te la do io la narrazione: da Virgilio a oggi come cambia l’arte di raccontare i fatti. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 14 Agosto 2022 

Ci fu un’epoca felice in cui la parola “narrativa” non esisteva. E neanche “narrazione” come suo pallido sostituto. Al massimo, la “Narrativa” era la targhetta da libreria per separare i libri di filosofi a dai polizieschi. Poi però a causa del fenomeno Erasmus una generazione ha cominciato a sostituire “obbligatorio” con mandatory e non vi dico i whatever it takes. Ma laggiù, sulle rive del New York Times, si annidava la maledetta “narrative”. Sembra la nostra narrativa, ma è quell’altra cosa che ormai ci impesta. Da un decennio i viaggiatori da e per Bruxelles avevano già scoperto la parola “dossier”, che è francese, ma è passata all’inglese e non puoi più dire argomento, fascicolo, questione. Dossier is a dossier. Amen. E agenda naturalmente. Non la famosa agenda rossa di Borsellino in cui ci doveva essere una massa di informazioni passategli dall’amico-fratello Giovanni Falcone mentre inquisiva il riciclaggio del tesoro russo in Italia che ha portato al trionfo degli oligarchi nell’ex Unione Sovietica. No, l’Agenda che è spuntata in Italia è proprio quel che si intende con il significato latino: “le cose da fare”, e non “come fare le cose”. Quello, semmai, è il manuale delle giovani marmotte. Di qui l’equivoco: Draghi ha una “agenda” segreta? È una palese idiozia. “Di che colore?”, chiedono a destra. “Rosso”, rispondono a sinistra. Avete sbagliato tutti, dice Draghi: l’agenda sono io, perché sono credibile, inutile affollarsi da Buffetti.

La “narrazione”, traduzione italiana di “narrative” (la cui “V” va pronunciata “F” se usiamo l’inglese British) oggi tutti abbiamo capito che cosa sia: non il veritiero ed attendibile racconto dei fatti come accaddero, senza omissioni, aggiunte e manipolazioni. No. La narrazione è una edizione di uno o più eventi, dopo essere stati sistemati in uno “script” (sceneggiatura). La sequenza dei fatti che accadono, delle parole che si dicono e scrivono, delle immagini che si raccolgono ha poco senso finché una parte di questi materiali non è tratta in modo tale da collegare, integrare, accordare alterare forzare, scoraggiare con elementi dubitativi capaci di far vacillare un’opinione formata mettendola in crisi. Questo Covid andava trattato con vaccini e mascherine, precauzioni e disciplina, oppure alla Boris Johnson che se l’è beccato due volte e alla fine ha dovuto dimettersi dopo con una campagna mediatica da molti considerata di scuola russa? Non lo sappiamo. Dipende da come scriviamo, impaginiamo, titoliamo, poniamo l’enfasi del bene e carichiamo lo stigma del male, ovvero glissiamo, deridiamo, omettiamo.

È insieme una artigianalità e un doppio fondo. Il pubblico pagante e la pubblicità che lo insegue chiedono emozioni. I talk show italiani hanno necessità di rissa gridata per far salire l’Auditel e l’importanza degli argomenti o della qualità di quel che viene detto è assolutamente secondaria e anzi spesso di gran fastidio. Quando, dopo molti anni sono tornato a dirigere un giornale di provincia, ho scoperto che da decenni la ricerca delle informazioni è sostituita dai social nutriti da versioni già manipolate. L’operazione più antica e riuscita fu quella di Virgilio che per conto di Ottaviano inventò una storia di Roma che legasse il suo editore alla dea Venere per costruire un passato del suo committente che lo rendesse discendente di Enea e di zia Venere. Il vincitore nella sanguinosa rissa militare che seguì l’assassinio di Cesare, aveva scelto per sé un titolo preso in prestito dal verbo “augeo” che vuol dire aumentare e si battezzò l’aumentatore, Augustus per potersi aumentare patrimoni e un curriculum vitae.

Vladimir Putin sta riscrivendo la storia per quelle migliaia di ucraini che ha catturato e deportato in lontani villaggi, cambiando i loro nomi, lingua e libri di storia. Usando cioè la stessa tecnica sperimentata da Mussolini con gli abitanti del Sud Tirolo. Aveva trovato un accordo con Hitler con cui si consentiva agli abitanti di lingua tedesca dell’Alto Adige di trasferirsi in Germania. Chi rimaneva avrebbe dovuto accettare l’annichilimento dei nomi così come il paesaggio: il lago Carer See sarebbe diventato lago di Carezza e la polizia fascista si sarebbe trasformata in polizia etnica. Per questo i sudtirolesi hanno un ricordo abominevole del fascismo italiano. Si può modificare il ricordo della storia recente? È proprio per questo che serve la narrazione, o narrative, che prima si chiamava “linea editoriale”. La narrazione è la propaganda.

E questo prodotto, la narrazione che diventa propaganda, fu ciò che avvenne a Repubblica, di cui ancora molto si parla in seguito alla morte di Eugenio Scalfari. E poiché oggi sono pochissimi gli antichi protagonisti sopravvissuti di quell’epoca, a discettare Repubblica sono specialmente coloro che non furono tra quelle mura, che non sospesero la loro vita nelle lunghe e straordinarie mattinate, quando tutto l’universo, la storia, la politica, l’arte, l’economia, la cronaca nera, la poesia e la matematica passavano al vaglio di una ciurma capitanata da Scalfari prima che arrivassero trasferimenti a ondate dal quotidiano del Pci Paese Sera, contrattati direttamente a Botteghe Oscure. Avevo parecchi amici in quel giornale che mi raccontavano come si formassero le liste dei candidabili. Fra cui lo staff dei redattori capo, guidato dal livornese Franco Magagnini, che prima cosa – e giustamente dal loro punto di vista – espulse me dal gruppo dei redattori capo, poiché rappresentavo il nucleo iniziale dei socialisti ribelli e degli extraparlamentari.

Cito questo episodio solo per dire che Repubblica, su cui si appuntavano tutti gli occhi dei politici che speravano di orientare questo clamoroso giornale dove volevano loro, vedevano un continuo ondeggiamento politico che durò per anni prima di stabilizzarsi ma di cui una sola cosa era sicura: il giornale dettava legge a tutti gli altri giornali quanto a narrazione, o “narrative” o propaganda. Tutto era confezionato genialmente e in modo orientato, ogni storia aveva senso nel suo senso politico ed era inebriante surfare. Con spregiudicata leggerezza i fatti sui quali i giornali tradizionali avevano i piedi di piombo. Noi eravamo corsari perché di tutto avevano obbligo, fuorché dire la verità. Eugenio Scalfari lo teorizzava: “Noi facciamo campagne: abbiamo un nemico e siamo un vascello da guerra”. Poiché gli anni Ottanta furono quelli dell’orientamento sdraiato sul Pci di Enrico Berlinguer, io mi stufai dopo un po’ e fui mandato a dare una mano a Nello Ajello che guidava il supplemento Satyricon in cui scrissi un pezzo su una ministra dei beni culturali che si dovette dimettere perché diceva seriamente “A ogni Pier sospinto”.

Un esempio recente? Alberto Sordi in versione nobile romano reazionario e antisemita. Che cosa ricordano tutti per immediata associazione? Il celebre verso “Io so’ io e voi nun siete un cazzo”. Quel verso è il marchio del film e dell’epoca e sullo schermo lo declama magistralmente e con disprezzo Sordi. Purtroppo, quel verso non c’entra niente col marchese del Grillo perché fa parte di un sonetto di Giuseppe Giachino Belli sulla Restaurazione: quando il re mandò il suo boia a leggere nelle piazze il nuovo editto dei principi restaurati che diceva “io so’ io e voi non siete un cazzo, sori vassalli buggiaroni, e zitto^ Io la vita nun ve la do: io ve l’affitto… E il popolo chinava la testa mormorando “è vero, è vero”. Non riuscirete a far capire ad inglesi e americani che l’espressione latina “Qui pro quo” vuol dire fischi per fiaschi, lucciole per lanterne, e non vuol dire “io ti do questo, tu dammi quello”, che semmai sarebbe “Do ut des”.

Schiodare dai pregiudizi politici ma anche linguistici o tradizionali di un gruppo è un’impresa quasi impossibile. E riconoscere un prodotto avanzatissimo della manipolazione che è qualcosa di più di una bugia, è quasi impossibile. Una fabbricazione non è una menzogna, ma un’opera giardiniera come i bonsai: non è affatto un diverso punto di vista, una narrazione alternativa o come anche si dice pudicamente in Italia una “linea editoriale”. Una fabbricazione è un fondale di realtà inventata. molto simile a quello vero, ma con alcune correzioni che lo rendono diverso. Come mai? Perché di più in Italia che altrove nel mondo occidentale? L’Italia uscì dalla guerra divisa da zone di influenza: militari, ideologiche e religiose, in bilico sul crinale di una guerra civile che ancora cova sotto le ceneri e che ha dovuto essere costantemente disinnescata attraverso compromessi.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Gli antimoderni che dicono no a ogni novità. Vincenzo Trione su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.  

C’è un ampio gruppo di intellettuali di sinistra impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma e iniziativa che riguardi i beni culturali

Le concessioni dei siti archeologici per i concerti (Circo Massimo per i Måneskin e Caracalla per l’opera lirica)? Il trasferimento della Biblioteca di Storia dell’arte da Palazzo Venezia a Palazzo San Felice (a Roma)? Lo spostamento della Biblioteca Nazionale di Napoli all’Albergo dei poveri? E ancora: il patrimonio dei libri di Umberto Eco diviso tra Brera e Università di Bologna? Il prestito all’estero di alcuni capolavori? L’esposizione delle straordinarie sculture della controversa famiglia Torlonia? E l’arena da costruire al Colosseo? Domande diverse alle quali la risposta è sempre la stessa. «Io preferirei di no», come ripete il Bartleby di Melville.

Potrebbe essere, questa, la battuta utilizzata dai tanti iscritti all’ampio, diffuso e trasversale partito degli antimoderni di sinistra. Nella maggior parte dei casi, si tratta di intellettuali che condividono inclinazioni conservatrici. Da anni questo partito è in azione, impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma dei beni culturali. Pur indossando la maschera dei progressisti, gli animatori del gruppo sembrano non essere mai usciti dal Novecento.

Mirano a non intaccare lo status quo, attenti a non alterare consuetudini oramai ridotte a ritualità svuotate di senso, afflitti da un passatismo rigido, ostili nei confronti di ogni avanguardia e di ogni contaminazione, interpreti di un’Italia che guarda soprattutto dietro di sé, ancorata al culto dell’antichità e del Rinascimento. I rischi insiti nelle sistematiche e prevedibili interdizioni sono chiari. Incapaci di farsi coscienze critiche, gli antimoderni di sinistra tendono a valutare in modo pregiudiziale iniziative e provvedimenti volti ad alterare l’ordine delle cose, senza entrare davvero nel merito di quelle proposte. Voci di un Paese che troppo spesso vive il presente non come opportunità né come domanda aperta, ma come inciampo della storia.

Gianni Bonina per “Libero quotidiano” il 4 luglio 2022.  

Se nell'Ottocento Rubempré di Balzac poteva pensare che per diventare famoso gli fosse necessario scrivere un romanzo, oggi la regola è che per scrivere un libro bisogna essere già celebri. Di conseguenza un autore di talento si vede scavalcato, nelle scelte di editori e agenti letterari, anche da un concorrente di Masterchef che abbia avuto i suoi cinque minuti di notorietà. 

In libreria e negli store book arriva perciò ogni piacioneria e faciloneria, per modo che chiunque si sente legittimato a scrivere un libro, non occorrendo più qualità ma corrività. Il risultato è l'inondazione di testi inediti che si riversa su case editrici e agenzie letterarie costrette ad alzare dighe nei modi più diversi e strenui. 

La più curiosa è della Laura Ceccacci Agency che gratuitamente accetta solo i primi tre testi inoltrati per email a inizio di ogni mese, cosicché ha qualche labile chance chi è più abile su internet che chi sappia scrivere meglio. A volerne qualcuna in più occorre pagare, così da avere una scheda di lettura da conservare come effimero attestato.

Al pari della Ceccacci operano tutte le agenzie, non più solo letterarie ma soprattutto di servizi editoriali, compresi corsi di scrittura ed editing. Del resto, se incassano non più di 30 centesimi per ogni libro di 20 euro che si vende, quando ne pagano in media 100 al lettore cui affidano un inedito da valutare, farsi pagare equivale a sopravvivere. 

Ma avverte Giulio Mozzi, pioniere delle scuole di scrittura: «Le agenzie che campano principalmente con una frazione dei diritti guadagnati dagli autori sono necessariamente serie, quelle che campano con i soldi che prendono direttamente dagli autori sono dubbie». Sono dunque in gran parte dubbie?

Persino la storica Ali, oggi Tila, si fa pagare ed è anzi la più cara. Una sua scheda può costare mille euro se l'inedito supera appena i 350 mila caratteri. Anche se tra le prime in Italia, The Italian Literary Agency è aperta a tutti. 

Chiusa invece a chiunque è la Roberto Santachiara, che non ha nemmeno un sito web né una pagina Facebook. Impossibile raggiungerla se non tramite la vecchia posta ordinaria. «Di norma non parlo della mia attività - si schermisce Santachiara. - Il fatto è che non amo molto la pubblicità e in generale preferisco non apparire». Il fatto veramente è che a Santachiara non piacciono gli esordienti e gli sconosciuti. Così fan tutti gli agenti, che forse più degli editori vanno oggi sul sicuro.

«L'autore sicuro non esiste - ribatte Stefano Tettamanti, agente di lungo corso della Grandi & Associati. - Se per sicuro s' intende bravo, allora verso di lui si orientano tutti». Il problema è però che a essere bravo è chi vende, perché a decretare il talento è il mercato. Per arrivare prima a conquistarlo, oggi più di ieri, l'autore si rivolge sempre più non alle agenzie ma agli editori. 

Dice Ugo Marchetti, navigato agente della Emmeeerre: «Penso che alcuni esordienti preferiscano inviare le proprie opere direttamente agli editori anche per evitare di pagare i costi dei lavori propedeutici alla presentazione dei testi. Per moltissimi agenti è diventata ormai una consuetudine chiedere un contributo d'ingresso (talvolta sostanzioso e magari non vincolato alla proposta di un mandato di rappresentanza) per le schede di valutazione e le eventuali indicazioni di microediting. 

Un agente deve saper ascoltare ma, per esperienza, sa che è difficile lavorare con esordienti che, a detta loro, hanno scritto "un capolavoro che venderà almeno centomila copie».

Ma poi succede proprio questo: che, come per Volevo i pantaloni di Lara Cardella, 100 colpi di spazzola di Melissa P., La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano e per ultimo Le otto montagne di Paolo Cognetti, esordienti abbiano successo per ragioni proprie del mistero dell'editoria e che siano innanzitutto gli agenti a correre loro dietro. 

Di regola però succede quanto confessa Tettamanti: «Credo che gli unici a mostrare interesse per gli esordienti siano gli esordienti stessi. Gli agenti letterari se ne infischiano, non parliamo degli editori. I famigliari degli esordienti poi li strozzerebbero, prima e dopo l'esordio». Una boutade che sottende l'allergia degli agenti nei confronti dei principianti. 

Chi valuta i testi gratuitamente e non fornisce schede di valutazione (ma lascia che a pagamento l'esordiente possa rivolgersi alla Scuola Palomar che le fa da prima istanza) è l'americana Vicky Satlow che promette: «Per chi sente il bisogno o il desiderio di rivolgersi ad un'agenzia, le mie porte sono sempre aperte».

Una vera rarità nell'attuale scenario, com' è anche nel caso della Piergiorgio Nicolazzini, che valuta testi in generale senza imporre prezzi e condizioni, ma non lascia invero le sue porte sempre spalancate. 

A fare pagare ogni servizio, secondo anche la cura dedicata al testo, è la Mala Testa che non ha alcuna remora a proclamare sul proprio sito come la passione di chi lavora nel mondo dei libri non sia di per sé una ricompensa. Lo pensava già negli anni Ottanta anche Pier Vittorio Tondelli, scrittore pronto a parlare dei suoi libri solo se pagato bene.

Gli agenti letterari hanno da allora imparato come si fa e anziché i talent -scout si sono addetti a fare i talent-school. Tettamanti può così, in nome della categoria, lasciarsi sorprendere dalla svolta: «Dice davvero? Ma è sicuro? Non me ne ero accorto, ora però quasi quasi ci penso».

Addio Quarto Potere? Analisi sui fatti più rilevanti della comunicazione politica, fake news, censura. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Giugno 2022.  

Il terzo grado della Fox. Chi è James Goldston. Al Washington Post l’inclusione è difficile. Il velo delle grandi narrazioni. Ci pensa Boris. Parità di genere ed evoluzione del giornalismo. La digital transformation di ABC. Il nuovo editoriale di Storyword*, una sintesi ragionata delle notizie più significative apparse sui media, nazionali ed internazionali, sull’informazione e la comunicazione nell’epoca digitale.

“Io sono un’autorità su come far pensare le persone”. Recitava così il celebre personaggio Charles Foster Kane, magnate della stampa, nel film “Quarto Potere” di Orson Welles. Un ritratto di come il mondo dell’informazione fosse in grado di influenzare, muovere l’opinione pubblica portando avanti un modo di pensare e fare giornalismo che faceva della persuasione una delle sue caratteristiche principali. Oggi, però, in un contesto mediatico del tutto rinnovato e digitalizzato c’è da chiedersi quanto il lettore medio di giornali e quotidiani tenga conto delle pagine di opinione.

Una risposta arriva dalla Gannett Co., la più grande catena di giornali degli Stati Uniti, editore di Usa Today e oltre 250 quotidiani, che ha iniziato a ridurre nei propri quotidiani le pagine di opinione che starebbero allontanando i lettori, perdendo il loro potere di convogliare il pensiero e la percezione delle notizie. “I lettori non vogliono che siamo noi a dire loro cosa pensare”, hanno dichiarato i redattori, provenienti dalle redazioni di Gannett di tutto il Paese, secondo quanto riporta The Washington Post.

Oggi i fruitori di notizie vivono in una infosfera in cui ogni giorno si è costantemente bersagliati da input e notizie provenienti dall’utilizzo dei social. Un fattore che ha portato “il pubblico contemporaneo a non essere in grado di distinguere tra notizie obiettive e contenuti di opinione” ha scritto il comitato editoriale di Gannett. Il segnale lanciato si avvicina alla volontà di rimodernizzare un’informazione spesso polarizzata istituzionalmente. Non è la prima volta che The Washington Post affronta il tema di un giornalismo proiettato verso un minor uso dell’opinione ma più di racconto dei fatti senza sfumature (vedi Editoriale 80) che, però, non sempre si concilia con la parte più democratica del mondo della stampa che, come spiegava David Jordan, direttore della politica editoriale della BBC, “dovrebbe rappresentare tutti i punti di vista”, sottolineando l’impegno a diversificare le prospettive (vedi Editoriale 66). 

Il terzo grado dell’americana Fox

Il Washington Post ha messo in evidenza che i giornalisti che rivolgono più domande e cercano maggiore confronto con la Casa Bianca sono i corrispondenti di Fox News, con l’intenzione di aprire costantemente dibattiti su argomenti come il Covid-19, l’Afghanistan, l’immigrazione, i posti di lavoro o qualsiasi altra tematica su cui l’emittente basa la sua narrazione. Nonostante l’obiettivo di Fox News sia quello di rafforzare le proprie tesi e convinzioni, come ad esempio le elezioni truccate del 2020, dalla Casa Bianca credono comunque che sia importante per i lettori e i telespettatori avere informazioni complete e concrete sull’attualità che a volte però richiedono un lungo tira e molla con alcuni giornalisti critici. Fox News certamente abbraccia come primario linguaggio quello dello scontro con l’obiettivo di polarizzare il dibattito e dare un’immagine semplice e immediata dei propri messaggi (vedi Editoriale 50, 74 e 81). In un mondo in cui il modo di comunicare è fatto di rapidità, immediatezza e in molti casi anche di superficialità, sembra difficile oggi poter sostenere un confronto e dibattito costruttivo, come vorrebbe incentivare la Casa Bianca. Cosa comporta però dare ampia voce e quindi visibilità a fonti e personaggi che potrebbero sostenere e promuovere fake news e teorie complottiste? 

Chi è James Goldston

Le sei udienze sull’assalto al Congresso degli Stati Uniti avvenuto il 6 gennaio 2021 verranno trasmesse in diretta tv dai maggiori canali nazionali e James Goldston, ex presidente della ABC News, è stato assunto come responsabile di rete per presentare al grande pubblico il processo in corso. Goldston come spiega il New York Times, avrà un ruolo cruciale nel rendere il più possibile fruibili le udienze, vagliando e modificando le immagini dalle telecamere del corpo della polizia, i video di sorveglianza del corridoio e i filmati grezzi di un documentarista: ore e ore di registrazioni che hanno ripreso l’insurrezione.

Goldston è entrato nel mondo dei telegiornali come produttore, ottenendo infine il primo posto in ABC News, posizione che ha ricoperto per sette anni fino a dimettersi all’inizio del 2021. Ha lasciato la sua prima impronta importante su ABC News come produttore esecutivo trasformando il programma “Nightline”, il telegiornale della notte, più piacevole e meno incentrato sulla politica. Gli ex colleghi di Goldston hanno affermato che quando ha preso il timone come presidente di ABC News nel 2014 ha apportato diverse modifiche alla rete che hanno segnato un cambiamento culturale. Tuttavia, il suo lavoro ha attirato l’ira dei repubblicani, che si sono chiesti se la Commissione abbia aggirato le regole del Congresso coinvolgendolo senza darne il dovuto preavviso. Il leader della Camera repubblicana, Kevin McCarthy, ha accusato i democratici di aver assunto Goldston per dare un’immagine della rivolta del 6 gennaio totalmente diversa dalla realtà. L’ex presidente di ABC News avrà dunque un compito arduo: aiutare i membri del Congresso coinvolti a raccontare e riformulare gli eventi di quel giorno presentandoli a una nazione sempre più stanca e divisa.  

Al Washington Post l’inclusione è difficile

Che cosa porta un giornale come il Washington Post a passare dalle grandi inchieste come il Watergate alle ripicche per battute innocue sui social? È questa la domanda da cui parte un articolo de Linkiesta che rivela lo stato di salute un po’ precario che sta affrontando ultimamente il giornalismo americano (e non solo). Nei giorni scorsi il Washington Post è stato al centro dell’attenzione, non grazie a una buona indagine, ma a causa di un “bisticcio” interno tra colleghi che è poi sfociato nel licenziamento di una cronista, Felicia Sonmez, nell’occhio del ciclone da quando il giornalista David Weigel ha ritwittato una battuta sessista. Il Post aveva sospeso Weigel lasciandolo un mese senza stipendio. Ma il retweet, che Sonmez ha messo in luce per prima, ha poi di fatto sconvolto la vita all’interno della redazione del giornale. Sonmez, che nel 2021 ha citato in giudizio il giornale per discriminazione (la causa è stata recentemente respinta e lei ha intenzione di ricorrere in appello), nell’ultimo periodo è stata schietta su questioni legate all’iniquità in redazione.

Nei suoi commenti pubblici era stata molto critica nei confronti della leadership del Post, inclusa la direttrice Sally Buzbee, insieme a molti dei suoi colleghi. Alcuni dei suoi colleghi sono andati su Twitter per chiedere a Sonmez di smettere di attaccare il Post sui social media. Jose A. Del Real, un giornalista, ha risposto sabato dicendo che il tweet di Weigel era “terribile e inaccettabile. Ma – ha aggiunto – unire internet per attaccarlo per un errore che ha commesso in realtà non risolve nulla”. Buzbee ha tentato due volte di reprimere le lotte intestine pubbliche attraverso dichiarazioni, incluso un severo promemoria rilasciato più volte ai dipendenti. In quel memorandum, Buzbee ha delineato le regole che tutti i membri dello staff dovrebbero seguire: “Non tolleriamo che i colleghi attacchino i colleghi né faccia a faccia né online – ha scritto Buzbee -. Il rispetto per gli altri è fondamentale per qualsiasi società civile, inclusa la nostra redazione”. Poco importa come si risolverà la questione in oggetto, ma occorre forse domandarsi come si è ridotto un giornale che faceva grandi inchieste a farsi notare principalmente per i gossip interni.

Il velo delle grandi narrazioni 

Tendenza naturale di una società, anche a seguito dell’emancipazione di una classe sociale (come avvenuto nel dopoguerra con la classe operaia), è quella di proteggere un risultato e un benessere conseguito, inevitabilmente a discapito dell’uguaglianza sociale. Secondo Thomas Piketty, “ogni epoca produce, quindi, un insieme di narrative e di ideologie contraddittorie, finalizzate a legittimare la disuguaglianza”. Soprattutto al fine, scrive la politologa Nadia Urbinati su Domani, di far credere al singolo componente della società che la sua posizione nella scala sociale sia quella che più gli si addica, poiché giusta, proporzionata, meritata, destinata, affinché non minacci i privilegi di chi si trova al gradino superiore. Nella democrazia, la narrativa che giustifica la disuguaglianza tra uguali (per diritto) ha radici nel merito: uguali per legge, diseguali per risultati conseguiti. L’individuo accetta che ciò che possiede è il frutto della sua sconfitta in una battaglia tra pari. Il perdente non merita nulla di dovuto, ma riceve dal vincente per “benevolente” scelta filantropica. In questa narrativa, tuttavia, del merito si considera solo il punto di arrivo, e mai quello di partenza, che cela disuguaglianze sostanziali. In un altro editoriale di Domani, si spiega che, per tali ragioni, rimuovere il velo delle grandi narrazioni (anche se edificanti, e anche in tempo di guerra) è il solo modo per rimanere vigili sugli interessi del potere. Il soft power dello storytelling cela l’hard power dello spazio economico. In queste dinamiche, i media acquistano il ruolo dei partiti, cercando di spartirsi un’audience, e i partiti si “de-partitizzano”, perdono colore, per parlare indistintamente al “pubblico”. I media, rendendosi partigiani di idee, perdono così la loro funzione di monitoraggio delle dinamiche di potere, mentre i partiti, affamati di audience, perdono la funzione rappresentativa di specifici interessi. 

Ci pensa Boris Johnson

Nel Regno Unito di Boris Johnson nasce il Centro per le tecnologie emergenti e la sicurezza (CETas), una nuova struttura dell’Alan Turing Institute, con l’obiettivo di monitorare le minacce ibride e la disinformazione russa. L’articolo di Formiche descrive la missione del CETas, una squadra di “cacciatori di bufale” che conterà scienziati, analisti, criminologi ed esperti di cybersecurity. L’obiettivo non è solo quello di stanare la propaganda russa (vedi Editoriale 76 e 85), ma di “produrre ricerca sulla tecnologia emergente e la sicurezza nazionale, sviluppare un network interdisciplinare di stakeholders, supportare direttamente la comunità della sicurezza nazionale inglese”, come si legge sul sito.

Paul Killworth, vice consigliere scientifico per la sicurezza nazionale inglese, in un’intervista alla BBC, ha sottolineato l’importanza della data analysis e delle nuove tecnologie per stanare la campagna di disinformazione russa, che comprende video del presidente Zelensky, prodotti con la tecnologia deep-fake, che invita i suoi concittadini a deporre le armi. Le fake russe non si fermano soltanto all’Occidente, ma si estendono anche a Cina, India, Africa e Medio Oriente. Un’arma vincente per contrastare la propaganda russa si è rivelata il ricorso all’open source. Come dimostra il gruppo di neolaureati della California che, nella sera del 23 febbraio, ha notato per primo su Google Maps il movimento delle truppe russe attraverso il confine e ha twittato la notizia. Quali saranno le frontiere delle nuove guerre? E quale la chiave di lettura fondamentale per comprenderle? Sicuramente l’Osint (Open source intelligence) si è dimostrata centrale nella guerra russa in Ucraina, dagli spostamenti nelle trincee alle batterie di equipaggiamento militare fino alle pattuglie di sabotatori. 

Parità di genere ed evoluzione del giornalismo

Se il ruolo di giornalismo e informazione è riuscire a rappresentare la realtà, allora necessita di voci e punti di vista differenti, e, in quest’ottica, la parità di genere non è un obiettivo fine a sé stesso. A sottolinearlo è Rolling Stone, che, prendendo ispirazione dal recente studio sulla leadership femminile nei media di 12 Paesi pubblicato dal Reuters Institute, ha fotografato la situazione italiana, caratterizzata da una media di giornaliste censite pari al 42% del totale ma da numeri decisamente più bassi nei ruoli apicali: per quanto riguarda i quotidiani si contano solo tre direttrici, Agnese Pini (a capo di tutte le testate del gruppo Monrif), Nunzia Vallini (Giornale di Brescia) e Norma Rangeri (il Manifesto), mentre i direttori dei sette telegiornali delle maggiori reti televisive e dei cinque giornali online più seguiti sono, senza eccezioni, uomini.

Alcuni studiosi citati nel report del Reuters Institute hanno sottolineato come le direzioni femminili scelgano le notizie in maniera differente da quelle maschili, dedicando, in generale, maggiore attenzione a diseguaglianze sociali di lunga data, interne ed esterne al mondo dei media. Le testimonianze delle vicedirettrici Serena Danna (Open) e Stefania Aloia (Repubblica) e dell’Head di Chora Francesca Milano confermano la tendenza, già sottolineata dagli accademici, della maggiore sensibilità ad alcuni temi, ed evidenziano come, mentre al di fuori del mondo dei media persistono ancora stereotipi come quello della donna angelo del focolare, all’interno le carriere femminili, almeno fino ai ruoli di vicedirettrice o caporedattrice centrale, siano possibili. Resta necessario, però, quel passo in più verso le posizioni apicali, da riservare non a quote rosa ma a professioniste valide e in grado di togliere, come ricorda Aiola, quelle “incrostazioni mentali su questioni legate alla parità, alla responsabilità della parola. Questioni sulle quali i lettori e soprattutto le lettrici, specie quelli più giovani, ormai sono molto attenti”. Profili sicuramente non rari in quel 42% di giornaliste. 

La digital transformation di ABC

Come riportato dal Guardian, gli archivisti e i bibliotecari di ABC sono rimasti spiazzati dopo aver appreso che il management ha deciso di tagliare 58 posizioni, portando i giornalisti a dover fare le ricerche e archiviare le proprie storie autonomamente. Inoltre, alcune fonti hanno confermato al Guardian che ulteriori 17 posizioni negli archivi verranno abolite negli uffici di alcune parti dell’Australia, comprese Sydney e Melbourne. Lo staff della biblioteca di ricerca continuerà a supportare programmi investigativi come “Four Corners” e “Background Briefing”, ma non sarà disponibile per le notizie quotidiane o le coproduzioni. ABC ha dichiarato che dopo aver fatto delle valutazioni, è stato determinato che il lavoro svolto da alcuni lavoratori degli archivi non è più necessario, si è evoluto o può essere affidato ad altri dipendenti che ricoprono altre posizioni. Altre 4 posizioni saranno di troppo nel team di post-produzione, perché alcuni processi verranno automatizzati  e ABC ha dichiarato che il ridimensionamento fa parte della transizione verso il digitale e i servizi on-demand, nonché per raggiungere l’obiettivo di aumentare velocità ed efficienza. Alla luce di alcuni dati che certificano la direzione verso il digitale intrapresa, la ABC propone di introdurre 30 nuovi ruoli, tra cui “content navigators” che lavoreranno in redazione per assistere i giornalisti nell’utilizzo degli archivi ABC digitalizzati. Così come gli archivi, nel 2018 sono state smantellate anche le biblioteche dei suoni e dei riferimenti, delle quali i bibliotecari conoscevano profondamente la collezione e suggerivano musica per programmi e documentari programmi.

*Storyword è un progetto editoriale a cura di un gruppo di giovani professionisti della comunicazione che con diverse competenze e punti di vista vogliono raccontare il mondo della comunicazione globalizzato e in costante evoluzione per la convergenza con il digitale. Storyword non è una semplice rassegna stampa: ogni settimana fornisce una sintesi ragionata dei contenuti più significativi apparsi sui media nazionali ed internazionali relativi alle tecniche e ai target di comunicazione, sottolineando obiettivi e retroscena. Redazione CdG 1947

Milano, scandalo comunista: "Bella Ciao", ecco a cosa hanno costretto i bimbi di 2° elementare. Miriam Romano Libero Quotidiano il 05 giugno 2022.

In piazza gli iscritti dell'Anpi, con bandiere tricolore e fazzoletti al collo. Gonfaloni a lutto e i soliti volti noti nel mondo della sinistra milanese. Ieri a Milano si sono celebrate le funzioni funebri per Carlo Smuraglia, presidente onorario dell'Anpi ed ex partigiano, avvocato e parlamentare, morto lo scorso 30 maggio a 98 anni.

La camera ardente è stata allestita a Palazzo Marino, sede del consiglio comunale, per onorare l'ex partigiano con un tributo simbolico del capoluogo lombardo. Una cerimonia che si è svolta, quasi fino alla fine, senza troppi fronzoli. Cuscini di rose rosse sulla bara, qualche biglietto lasciato in ricordo del defunto.

Pochi presenti. Forse per colpa in parte del ponte e del brutto tempo. Ma tutti si aspettavano qualche persona in più. Landini, Camusso, Emanuele Fiano, Pagliarulo, non sono mancati. Tutto è filato liscio, fin quando in piazza Scala, dove alla spicciolata si dirigevano i pochi iscritti all'Anpi, non è arrivata pure una scolaresca. Bambini di seconda elementare di una scuola milanese. Una mattinata che per loro doveva essere dedicata a una gita scolastica. Erano diretti all'acquario civico di Milano, insieme alle loro insegnanti. Ma hanno deviato, in parte, il percorso.

INDOTTRINATI

Si sono fermati davanti alla camera ardente. Un po' confusi i bimbi si sono guardati attorno. Nessuno di loro conosceva Smuraglia. Nessuno di loro, molto probabilmente, della seconda guerra mondiale, di conflitti e della storia del nostro paese, sapeva nulla. Troppo piccoli per capire e per sapere. I programmi scolastici della seconda elementare si fermano molto prima. Eppure, si sono trovati nel mezzo di quella piazza insieme agli iscritti all'Anpi che celebravano la Resistenza. Così i membri dell'Anpi si sono stretti attorno a quella scolaresca e hanno fatto partire a sorpresa il canto Bella, ciao.

I bimbi ancora più confusi.

Al centro dell'attenzione della piazza, di microfoni e telecamere di giornalisti che riprendevano l'evento. Sono diventati protagonisti all'improvviso di quella cerimonia. Qualcuno di loro, conoscendo le parole della canzone, si è unito al coro. Le maestre non hanno esitato a intonare Bella, ciao, pure loro. Hanno eseguito l'intera canzone, tra applausi dei presenti e sguardi ancora più attoniti dei bambini. Per quei bimbi Bella, ciao è un canto come un altro, senza significato.

Eppure, viene da chiedersi se i genitori di quei piccoli alunni fossero d'accordo a fargli prendere parte alla cerimonia. E se, addirittura, madri e padri ne fossero a conoscenza. I loro bimbi sono diventati protagonisti della giornata insieme all'Anpi. Bella, ciao, infatti, è sicuramente un inno dei partigiani. Ma è pure una canzone carica di contenuti politici, considerato «l'inno dei comunisti». È dunque giusto che vada per bocca di bambini piccoli e inconsapevoli? La scolaresca è arrivata in piazza Scala ieri mattina guidata dalle maestre. Le insegnanti ci hanno tenuto ad assicurare che i bambini non hanno imparato Bella, ciao a scuola.«"Non siamo state noi a insegnarglielo. Gli alunni che conoscevano la canzone, infatti, non l'hanno imparata tra i banchi di scuola. Ma molto probabilmente l'hanno sentita cantare dai loro genitori. È un canto famoso e semplice da ricordare per i bambini», hanno spiegato. Sempre con Bella, ciao, bandiere di Rifondazione Comunista e il pugno chiuso, saluto comunista, alla fine della cerimonia, la folla ha salutato la salma di Smuraglia fino al carro funebre.

"A diciassette anni fui assunta come cronista in un quotidiano di Firenze. E a diciannove o giù di lì fui licenziata in tronco (…).

Mi avevano ingiunto di scrivere un pezzo bugiardo su un comizio d'un famoso leader nei riguardi del quale, bada bene, nutrivo profonda antipatia anzi avversione(..).

Pezzo che, bada bene, non dovevo firmare. Scandalizzata dissi che le bugie io non le scrivevo, e il direttore (…) rispose che i giornalisti erano pennivendoli tenuti a scrivere le cose per cui venivan pagati. "Non si sputa nel piatto in cui si mangia". Replicai che in quel piatto poteva mangiarci lui, che prima di diventare una pennivendola sarei morta di fame, e subito mi licenziò.

(…). No, nessuno è mai riuscito a farmi scrivere una riga per soldi. Tutto ciò che ho scritto nella mia vita non ha mai avuto a che fare con i soldi". Oriana Fallaci

Vademecum. Come sopravvivere all’era della distrazione di massa. Oscar di Montigny su L'Inkiesta il  31 Dicembre 2021. Se continueremo a distrarci pur di non confrontarci con noi stessi e con le nostre mancanze sicuramente lasceremo spazio ad altri che godranno della nostra superficialità.  

Secondo una ricerca effettuata dall’agenzia di analisi Oxford Economics, la piattaforma YouTube, considerando l’indotto, contribuisce alla creazione del nostro Pil per 190 milioni di euro su base annua. Ad averne vantaggi dunque non sono solo i cosiddetti creator, alcuni dei quali divenuti vere e proprie celebrità con platee da milioni di iscritti, ma anche tutto il sistema Paese. Sì, perché ci sono in ballo 15mila posti di lavoro che danno occupazione alle maestranze più disparate che comunque necessitano e concorrono alla produzione dei contenuti video: dagli esperti di montaggio sino agli stylist, passando per la comunicazione e la promozione commerciale.

D’altro canto, sia in termini generali sia a livello europeo, la percentuale dei professionisti che, proprio dall’uso della piattaforma video, ha avuto un booster per il raggiungimento degli obiettivi è piuttosto elevata (il 75% circa), e in effetti su YouTube oggi ci si forma, si impara, si migliora, tant’è che ogni giorno si registra la presenza di 122 milioni di utenti attivi che diventano oltre due miliardi su base mensile.

Cosicché è per soddisfare il bisogno di nuove conoscenze di questo infinito esercito di assetati di sapere che ogni minuto vengono caricate su YouTube 500 ore di contenuti. È un bene? È un male? Dipende da quale prospettiva si sceglie per approcciare l’argomento. Se, per esempio, consideriamo quella del bisogno di apprendimento non possiamo che leggere positivamente il dato tutto italiano che vede 9 utenti su 10 dichiarare di utilizzare la piattaforma per accrescere le proprie conoscenze. Tant’è che diversi tra i canali italiani con un buon seguito in termini di iscritti sono di divulgazione scientifica. Tuttavia, se invece consideriamo che a fronte di questa nostra bulimia di formazione e informazione, ulteriormente stressata dalla pandemia, esiste il non piccolo rischio di accedere a notizie, nozioni e informazioni non obiettive, o peggio false, la prospettiva si capovolge.

E qui sono illuminanti quanto preoccupanti i dati che Censis ha recentemente reso pubblici e che evidenziano le percentuali dei nostri connazionali che hanno adottato l’abitudine di informarsi sui social: il 12,6% lo fa su YouTube (tra i giovani la quota è del 18%), il 3% su Twitter (che diventa 5% tra i più giovani), addirittura 14 milioni e mezzo (il 30,1% dei 14-80enni) utilizzano Facebook, con quote che raggiungono il 41,2% tra i laureati, il 39,5% dei soggetti con età compresa fra 30 e 44 anni, il 33% delle donne. E anche se in genere i social vengono integrati ad altre fonti di informazione, è la formula “in genere” che nasconde il trend: 4 milioni e mezzo di italiani si informano solo su queste piattaforme digitali.

Le tecnologie digitali, che hanno letteralmente rivoluzionato il nostro stile di vita oggi si sono radicate talmente tanto da diventarne egemoni e invece noi, che potenzialmente potremmo accedere a ogni branca del sapere in tempo reale, ci auto-limitiamo l’orizzonte di interazione alle community che la pensano come noi e che ci forniscono notizie adattate alle nostre tendenze e inclinazioni. Nessuna generazione umana ha mai neanche lontanamente avuto a disposizione questo potenziale di conoscenze eppure, la realtà e la nostra percezione di essa non sono mai state così distanti perché le preferiamo il piccolo mondo della sottocultura condivisa a scapito, ovviamente, del potenziamento delle nostre capacità di discernimento rispetto a quello che accade intorno a noi.

Se a questo aggiungiamo poi che gli infiniti stimoli a cui siamo sottoposti in rete hanno naturali ripercussioni anche a livello neurologico, il passo successivo è di consumare tutto “a bassa risoluzione”. Oramai siamo capaci di ascoltare musica mentre scorriamo i social, di seguire un podcast mentre giochiamo online. Il che vuol dire che siamo sì capaci di fare attenzione a tre, quattro anche cinque attività contemporaneamente ma l’attenzione prestata a ciascuna è necessariamente scarsa. E questo pregiudica la nostra capacità di andare oltre uno sguardo superficiale sul mondo, e spesso pregiudica in partenza anche la stessa qualità dei prodotti culturali.

Assecondare l’era della distrazione di massa al punto da foraggiarla è più facile di investire tempo, attenzione e energia per approfondire, per andare al nocciolo delle questioni e acquisire consapevolezze. Tuttavia, se continueremo a distrarci pur di non confrontarci con noi stessi e con le nostre mancanze sicuramente lasceremo spazio ad altri che godranno delle nostre superficialità e insufficienza.

È difficile prevedere l’impatto dell’accelerazione tecnologia sulle nostre vite, eppure alcune analisi, concentrate più sulla funzionalità che sull’effetto sui nostri cervelli, ci riescono. Stiamo sostanzialmente trasformando i nostri processi neurologici da percorsi di natura lineare a percorsi di natura esponenziale. Ma anche se stessimo semplicemente attivando nuove funzionalità già insite nel nostro programma di umani, non possiamo non affermare che, anche se ci vorrà del tempo, la trasformazione della nostra specie e ben più che iniziata. Sta a noi, alle scelte che facciamo o non facciamo ora, renderla evolutiva o involutiva. 

Propaganda e realtà. Il 2021 delle fake news in Europa e la cattiva lezione di Putin. Francesco Cundari su L'Inkiesta il  31 Dicembre 2021. Matteo Castellucci. Secondo il Center for European Policy Analysis, il Partito comunista cinese sta copiando alcuni aspetti della strategia della disinformazione di Mosca, ma ha un controllo dei media più coerentw rispetto al Cremlino, che a volte ha messaggi contrastanti persino rispetto a fonti governative come il ministero degli Esteri. Anche nel 2022, il mondo dovrà fare i conti con un’altra pandemia: la disinformazione. Il progetto Eu vs Disinfo del Servizio europeo per l’azione esterna (EEAS) nel 2021 ha scoperto più di 2.700 casi di fake news da parte della Russia ai danni dell’Europa. Quelli censiti sono solo la punta dell’iceberg. In tempo di guerre ibride come la crisi dei migranti sul confine tra Polonia e Bielorussia, un terzo di quest’offensiva riguarda l’Ucraina, al centro anche delle più recenti manovre militari. Ma il vero problema è che Russia e Cina hanno imparato a vicenda, in alcuni casi allineandosi, nelle tecniche di mistificazione e propaganda, come dimostra uno degli ultimi studi del Center for European Policy Analysis (CEPA). 

Il Cremlino, insomma, ha fatto scuola. Si è concentrato soprattutto contro Kiev, in parallelo all’escalation di questo autunno. In particolare, con un ribaltamento della realtà, Mosca sta cercando di deformare l’immagine dell’Ucraina, descritta come un paese aggressivo e abbandonato dagli alleati, tanto per fomentare l’opinione pubblica domestica contro il nemico, sempre nella retorica di una dittatura che si sente una «fortezza assediata», quanto per cercare di legittimare a livello internazionale le sue (prossime?) mosse. 

Per dare un’idea della potenza di fuoco pro-Cremlino, ogni settimana lo Ukraine Crisis Media Center di Kiev deve provare a disinnescare sul suo sito nuove, divisive falsità. È un mondo al contrario, di cui non arriva eco nella nostra bolla social, dove è l’Occidente a manovrare minacciosamente vicino alle frontiere, con gli Stati Uniti pronti a provocare un incidente nella regione. Prove? Nessuna. 

Confinare con la Russia crea più del «mal di testa» di un meme virale del profilo Twitter ufficiale dell’Ucraina. Una nazione satellite come la Bielorussia ha replicato le strategie della sorella maggiore. Il regime di Lukashenko ha incarcerato più di 260 giornalisti. Oltre a censura e repressione, i media di Stato hanno cominciato a incoraggiare la violenza contro gli attivisti e hanno comprato spazi pubblicitari su YouTube per mandare come «ads» prima dei video della piattaforma le false confessioni estorte ai prigionieri politici, che in totale sono più di mille. 

Quasi nessuno, a Minsk, si fida delle notizie ufficiali. Appena il 12,7% della popolazione, secondo le stime. Ma, come spiega il filosofo anglo-ghanese Kwame Anthony Appiah, «la disinformazione russa funziona non perché le diamo credito ma perché ingenera una generalizzata sfiducia tale per cui tutte le notizie possono essere derubricate a fake news, perfino quelle vere» (potete leggerlo nell’ultimo Linkiesta Magazine).  

Il dato davvero preoccupante è la convergenza, sempre più organica, tra Russia e Cina. Le prove generali sono state all’inizio nella pandemia, nella primavera 2020, quando le teorie cospirative fatte circolare dalla galassia filorussa facevano comodo pure al gigante asiatico per mettere a tacere l’ipotesi di un’origine cinese del coronavirus. Nel 2021 l’allineamento si è ripetuto, segnala il report di fine anno dello EEAS, che in passato per le stesse accuse era stato modificato dopo le pressioni di Pechino. Entrambe le potenze hanno negato le violazioni ai diritti umani subite dalla minoranza degli Uiguri, entrambe hanno sfruttato il caos in Afghanistan per danneggiare l’immagine dell’Occidente «traditore». 

Già nel 2020, anche su Linkiesta, era stata segnalato un mutamento nella linea di Pechino: sta(va) cioè imparando dalla Russia come fare propaganda in Europa. Non era una suggestione. Il fenomeno è stato riscontrato e studiato a fondo dal Center for European Policy Analysis, in una mappatura intitolata «Jabbed in the back» (qui la ricerca completa), letteralmente «Vaccinati alle spalle», un gioco di parole che sostituisce alla «pugnalata» della frase fatta il vaccino. Il cambio di segno, infatti, è avvenuto durante l’emergenza coronavirus. 

In passato, il Partito comunista cinese aveva promosso campagne di disinformazione globali centrate su temi specifici e strettamente legati alla Cina, per esempio il Tibet, Hong Kong e Taiwan. Durante la pandemia, si è prima concentrato sul negare che il focolaio numero zero fosse Wuhan (in effetti, questo è un tema che coinvolge in modo diretto il regime e le sue responsabilità), poi sull’efficacia della risposta della repubblica popolare e i suoi successi nel contenere i contagi. 

«Anche se ci sono prove limitate di una esplicita cooperazione – si legge nell’analisi del CEPA –, esempi di sovrapposizione delle narrative e di amplificazione circolare della disinformazione dimostrano che la Cina stia seguendo una “ricetta” russa, declinata con caratteristiche cinesi. […] Le operazioni delle due nazioni autoritarie si sono evolute nel corso degli ultimi 18 mesi e continueranno a farlo con la diffusione di varianti, vaccini e inchieste sull’origine del virus». 

Non è finita. In realtà, anche il Cremlino ha appreso qualcosa dalla Cina. Oltre a rispolverare parte dell’armamentario di epoca sovietica, Mosca sta aumentando la sua presenza mediatica in regioni strategiche, per puntellare il suo soft power e, in particolare, costruire una reputazione di affidabilità scientifica per la sua formula, il vaccino Sputnik V. Pechino non ha copiato alla Russia le fake news come strumento prediletto, anche perché ha un miglior controllo dei media, più coerenti di quelli del Cremlino, che a volte ha diffuso messaggi contrastanti persino rispetto a fonti governative come il ministero degli Esteri. 

Il tono di Pechino è poi rimasto «positivo», con l’obiettivo di mostrare la Cina come parte della soluzione, e non del problema, Covid-19. Non a caso, nella fase iniziale sono stati glorificati gli aiuti e le spedizioni di mascherine e altro materiale sanitario ai paesi in difficoltà, Italia inclusa. Gli sforzi si sono però concentrati sull’Africa, tanto che gli utenti di questo continente hanno reso media cinesi come Xinhua, China Daily, People’s Daily, e il Global Times tra le cinque pagine con più seguito al mondo su Facebook. Riempiendo questo vuoto, la Cina si è comprata credibilità quando ha criticato l’assenza dell’Occidente, che sicuramente non ha brillato per altruismo nella distribuzione di vaccini, da queste aree. 

Russia e Cina si completano a vicenda per quanto riguarda le sfere d’influenza. La propaganda cinese sta bersagliando le nazioni in via di sviluppo, anche se fatica ancora ad attecchire in Europa, dove è però più forte quella russa. Mosca, anche sotto l’ombrello del network televisivo RT, si è specializzata nella segmentazione. In un primo momento, i contenuti restano neutri e informativi per creare una patina di affidabilità e capitalizzare un bacino di utenti, poi vengono disseminati messaggi diversi a seconda dell’orientamento del pubblico, di solito anglofono. Viene così coperto uno spettro che va dall’estrema destra alla sinistra radicale. Il paradosso è stato ridicolizzare all’estero le stesse soluzioni, come i lockdown, che venivano adottate in patria dal governo di Vladimir Putin.

Infine, notano gli studiosi, la Cina ha risorse mostruosamente superiori a quelle russe. Eppure, finora il Cremlino ha ottenuto risultati migliori, soprattutto in termini di polarizzazione. Ma sembra che Pechino stia imparando la «lezione» di Putin. 

·        La Sociologia Storica.

La Sociologia. Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 15 novembre 2022.

L'avvocato Bruno Kessler nell'autunno del 1962 ha trentasei anni. Fianchi largheggianti. Mani tozze. Robusta facondia. Gran cacciatore. Un democristiano di intelligenza visionaria. È nato povero, a Cogolo di Pejo, in val di Sole, e da due anni presiede la Provincia di Trento, cattolica e contadina, la più arretrata nel Nord in tumultuosa crescita. La Dc vorrebbe farne la sede della facoltà di scienze forestali, sede distaccata della Cattolica: il Trentino non è del resto ricco di boschi? 

A Kessler la scelta pare riduttiva. Si batte per una scienza della modernità, che formi i tecnocrati del futuro: una facoltà di Sociologia, la prima in Italia. […]

È solo con il suo coraggio. Persino l'unico consigliere del Pci, Sandro Canestrini, lo osteggia. Piega le resistenze come una furia, in sei mesi la facoltà è istituita: in via Verdi, alle spalle del Duomo. «No al Trentino piccolo e solo» è il suo mantra. Una scommessa. Una grande storia dell'Italia del boom. 

Sociologia, questa sconosciuta, è un azzardo anche per gli studenti, alle prese con un titolo di studio che inizialmente non è nemmeno riconosciuto. Ci si può iscrivere dagli istituti tecnici, un richiamo irresistibile per i figli della piccola borghesia. Il primo anno gli iscritti sono 226, espressione di un ceto nuovo.

Giungono dall'America, come Larry e Garry, da Napoli come Paolo Sorbi, da Venezia come Marco Boato e Checco Zotti, alcuni già sposati e con esperienze da operai come il torinese Mauro Rostagno, un Dio della contestazione, che al Covent Garden di Londra aveva scaricato cassette di mele. Bussano perfino i preti, come Piergiorgio Rauzi, il primo di nove sacerdoti- studenti. […] 

Kessler ingaggia uno squadrone di docenti: Francesco Alberoni, il suo amico Beniamino Andreatta, i giovanissimi Romano Prodi, Pietro Scoppola, Mario Monti, Chiara Saraceno e il marito Gian Enrico Rusconi. Lo studio della società può iniziare.

Ma poi irrompe il Sessantotto e scompagina i piani. Anche quelli di Kessler. Fino a quel momento si andava in facoltà in giacca e cravatta, ora Trento s' incendia nella contestazione. È un fronte d'impronta cattolica che perciò affascina gli altri movimenti studenteschi. Rostagno conia parole d'ordine che resistono tuttora: «Noi non vogliamo trovare un posto in questa società, ma creare una società in cui valga la pena trovare un posto».

Il rettore Alberoni viaggia in Spider e tiene lezioni a casa sua. Il collegio di Villa Tambosi viene ribattezzato Casa del popolo Rosa Luxemburg. Si contestano l'invasione di Praga e le condizioni di lavoro delle commesse all'Upim. Cattolici del dissenso interrompono le prediche. Femministe d'antan, come Silvia Motta, Giovanna Pompili, Leslie Leonelli, Elena Medi, Marianella Pirzio Biroli, formano l'avanguardia del femminismo nostrano. 

[…] I riferimenti sono Charles Wright Mills, Theodor W. Adorno e Max Horkheimer. Va in scena un enorme Carnevale intellettuale. La Dc mormora, i trentini sono a disagio. Come in ogni rivoluzione non mancano asprezze ed eccessi. Andreatta definisce i contestatori «Hitlerjugend». Scoppola, colmo di paura, rinuncia all'insegnamento. Franco Venturi paragona i comportamenti dei giovani a quelli degli squadristi.

Studiano a Trento Renato Curcio e Mara Cagol, i futuri fondatori delle Brigate Rosse, il che nella vulgata fa della facoltà la culla del terrorismo italiano. Ma le Br nasceranno a Milano nel 1970, dove i due studenti innamorati si saranno stabiliti dopo aver abbandonato l'università. Cagol morirà in un conflitto a fuoco nel 1976. Il '68, rivoluzione del costume, quindi spazza via l'Italia delle residue incrostazioni fasciste.

Fino a quel momento sono in vigore leggi come quelle che consentono l'adulterio maschile, purché commesso fuori dal tetto coniugale, e puniscono quello femminile. La pillola è ammessa solo come regolatore dei cicli mestruali. Poi il Sessantotto passa, ma Sociologia resta, confermando l'intuizione di Kessler. Ha cambiato il destino di un luogo, Trento. E questa è un'altra storia nella storia.

La Sociocrazia,  da Wikipedia, nota anche come Governance Dinamica, è un sistema di gestione che ha lo scopo di arrivare a soluzioni che creino sia un ambiente socialmente armonioso che organizzazioni ed imprese produttive. Si distingue per l'uso dell' "assenso" piuttosto che il voto a maggioranza nel momento della presa di decisioni, e per il momento di dibattito che avviene, prima del momento decisionale, tra le persone coinvolte che hanno un rapporto di collaborazione, conoscenza e uno scopo comune.

La Sociocrazia (originalmente chiamata: Metodo Sociocratico dell’Organizzazione in Cerchi, in inglese: Sociocratic Circle-Organization Method o SCM) è stata sviluppata in Olanda da Gerard Endenburg, ingegnere elettronico e imprenditore, ed è una revisione dell'approccio originario sviluppato da Betty Cadbury e Kees Boeke, educatori e attivisti pacifisti.

Origini.

La parola Sociocrazia deriva dal latino socius, che significa compagno, collega o associato, e dal greco kratein che significa potere, come riferito nella desinenza usata in diversi termini che specificano dove risiede il potere come in aristocrazia, plutocrazia, democrazia e sociocrazia.

Il termine fu coniato nel 1851 dal filosofo francese Auguste Comte, come parallelo alla sociologia, la scienza che studia come le persone si organizzano in sistemi sociali. Comte supponeva che un governo guidato da sociologi avrebbe usato metodi scientifici per soddisfare i bisogni di tutte le persone, non solo quelli della classe dominante. Il sociologo americano Lester Frank Ward, in un articolo del 1881 per la rivista Penn Monthly, sostenne attivamente una Sociocrazia per sostituire la competizione politica creata dal voto a maggioranza.

Ward ampliò successivamente il suo concetto di Sociocrazia nei libri Dynamic Sociology (1883) e The Psychic Factors of Civilization (1892). Ward riteneva che un pubblico altamente istruito fosse essenziale se un paese doveva essere governato in modo efficace e prevedeva il tempo in cui la natura emotiva e faziosa della politica contemporanea avrebbe lasciato il passo a una discussione molto più efficace, spassionata e scientifica sulle questioni e le problematiche. La democrazia si sarebbe così evoluta in una forma più avanzata di governo, la Sociocrazia.

Sociocrazia nel XX secolo

Il pacifista olandese, educatore e operatore di pace Kees Boeke e sua moglie, l'attivista pacifista inglese Beatrice Cadbury, aggiornarono e ampliarono le idee di Ward a metà del XX secolo, implementando la prima struttura organizzativa sociocratica in una scuola a Bilthoven, in Olanda. La scuola esiste ancora: si chiama “Werkplaats Kindergemeenschap” (Laboratorio Comunitario dei Bambini). Boeke vide nella Sociocrazia una forma di gestione o management che presupponeva l'equivalenza degli individui e si basava sul consenso. Questa equivalenza non è espressa con la legge democratica di "un uomo, un voto" ma piuttosto dal gruppo di individui che, ragionando insieme, arrivano ad una decisione che soddisfi ognuno di loro.

Per rendere operativi gli ideali sociocratici, Boeke usò il processo decisionale basato sul consenso, originariamente impiegato dai Quaccheri, che lui descrisse come una delle prime organizzazioni sociocratiche. L'altra organizzazione era la sua scuola, di circa 400 studenti e insegnanti, in cui le decisioni erano prese da tutti coloro che lavoravano insieme, tramite "dibattiti" settimanali che avevano lo scopo di trovare una soluzione mutualmente accettata. Gli individui di ciascun gruppo, arrivati a quel punto, si impegnavano a rispettare la decisione. "Una qualsiasi iniziativa può essere portata avanti solo quando si raggiunge un accordo comune, e l'atmosfera che si viene a creare è completamente diversa da quella che scaturisce dalla decisione a maggioranza".

Boeke definì tre "regole di base": (1) Gli interessi di tutti i membri devono essere considerati e l'individuo deve rispettare gli interessi della collettività. (2) Nessuna azione può essere intrapresa se non c’è una soluzione che tutti possano accettare, e (3) tutti i membri devono accettare queste decisioni quando prese unanimemente. Qualora un gruppo non riuscisse a prendere una decisione, questa è data in carico ad un gruppo di rappresentanti di “livello superiore”, scelti da ciascun gruppo. Le dimensioni di un gruppo decisionale non dovrebbero superare le 40 persone, con commissioni più piccole formate da 5-6 persone che prendano decisioni più di “dettaglio". Per gruppi più numerosi, viene scelta, dallo stesso gruppo, una struttura di rappresentanti per poter prendere decisioni.

Questo modello dà molta importanza al ruolo che gioca la fiducia. Affinché il processo risulti efficace, i membri che formano il gruppo devono fidarsi l'uno dell'altro e, viene affermato, che questa fiducia si costruisce nel tempo, a condizione che si utilizzi questo metodo decisionale. Quando applicato al governo della cosa pubblica, le persone "saranno portate a interessarsi a coloro che vivono a loro vicine". E solo quando le persone hanno imparato ad applicare questo metodo a livello locale, nei loro quartieri, si può instaurare un livello superiore di gestione sociocratica. A quel punto i rappresentanti sarebbero eletti dai più alti livelli locali per costituire un "Assemblea mondiale di concertazione".

"Tutto dipende da uno spirito nuovo che irrompe tra gli uomini. Può essere che, dopo i molti secoli di paura, sospetto e odio, sempre più uno spirito di riconciliazione e fiducia reciproca si diffonda nel mondo. La pratica costante sia dell'arte della Sociocrazia che dell'educazione ad essa necessaria sembra il modo migliore per far progredire questo spirito, da cui dipende la vera soluzione di tutti i problemi del mondo."

Nella pratica contemporanea

Tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, Gerard Endenburg, un ingegnere elettronico ed ex allievo della scuola di Boeke, sviluppò ulteriormente e applicò i principi nell’azienda di ingegneria elettronica/elettrotecnica di proprietà dei suoi genitori, che avrebbe poi ereditato. Endenburg volle replicare in un ambiente di lavoro l'atmosfera di cooperazione e armonia che aveva sperimentato nella scuola di Boeke. Inoltre riconobbe che in un ambiente produttivo di tipo industriale, con una forza lavoro varia e mutevole, non ci si poteva aspettare che i lavoratori si fidassero l'un l'altro prima che potessero prendere decisioni. Per risolvere questo problema, Endenburg lavorò per analogia per integrare la sua comprensione della fisica, della cibernetica e del pensiero sistemico con lo scopo di sviluppare ulteriormente le teorie sociali, politiche ed educative di Comte, Ward e Boeke. Attingendo alla sua competenza nei principi di funzionamento di sistemi meccanici ed elettrici, la applicò ai sistemi umani.

Dopo anni di sperimentazione e applicazione, Endenburg sviluppò un metodo organizzativo formale chiamato "Sociocratische Kringorganisatie Methode" (Metodo Sociocratico di Organizzazione in Cerchi) da ora SKM. Il metodo di Endenburg era basato sul processo di feedback (retroazione circolare), quindi fu chiamato "processo di feedback causale circolare", ora definito comunemente come processo di feedback loops. L’SKM utilizza una gerarchia di cerchi corrispondente a unità o reparti di un'organizzazione, ma è una gerarchia circolare: i collegamenti tra ciascun cerchio si combinano per formare circuiti di feedback che collegano tutta l'organizzazione.

Tutte le decisioni sulle linee guida, quelle che riguardano l'allocazione delle risorse e vincolano le decisioni operative, richiedono l’assenso di tutti i membri di un cerchio. Le decisioni operative quotidiane vengono prese dal leader operativo, rispettando le linee guida stabilite nelle riunioni del cerchio. Le decisioni sulle linee guida, che riguardino le aree di responsabilità di più di un singolo cerchio, sono prese da un cerchio più alto, formato dai rappresentanti di ogni cerchio collegato. Questa struttura di cerchi collegati, che prendono decisioni in base all’assenso, mantiene l'efficacia di una gerarchia, preservando l'equivalenza tra i cerchi e tra i loro membri.

Endenburg iniziò a testare e modificare la sua applicazione dei principi di Boeke a metà degli anni '60. Verso la metà degli anni '70, Endenburg iniziò a fornire consulenza ad altre aziende per applicare i suoi metodi e arrivò a collaborare e lavorare con organizzazioni di molti generi.

Negli anni '80, Endenburg e la sua collega Annewiek Reijmer fondarono il Sociocratisch Centrum (Centro Sociocratico) a Rotterdam, e iniziarono ad aiutare altre organizzazioni in Olanda ad adottare l'approccio.

Principi essenziali

Il metodo di Endenburg per prendere decisioni su linee guida fu originariamente diffuso sulla base di quattro principi essenziali, per sottolineare che il processo di selezione delle persone per ruoli e responsabilità era anche esso soggetto all’ assenso. Come spiegato a seguire, adesso è insegnato come Endenburg originariamente sviluppò il metodo su tre principi:

L'assenso governa il processo decisionale sulle linee guida (principio 1)

Le decisioni vengono prese quando non ci sono "obiezioni significative" rimaste, cioè quando c'è assenso informato da parte di tutti i partecipanti. Le obiezioni devono essere ragionate, argomentate e basate sulle competenze di chi lavora proficuamente alla realizzazione degli obiettivi dell'organizzazione. Tutte le decisioni sulle linee guida (dette anche policy aziendali) sono prese con l’assenso, al gruppo è lasciata la possibilità di decidere con l'assenso l'utilizzo di un metodo decisionale diverso. All'interno di queste linee guida, le decisioni operative quotidiane vengono normalmente prese nel modo tradizionale. Generalmente, le obiezioni sono benvenute per aver modo di ascoltare il punto di vista di ogni membro. Questo processo è talvolta chiamato "raccolta delle obiezioni".  Viene sottolineato nel metodo, che concentrarsi fin dall’inizio sulle obiezioni conduce a un processo decisionale più efficiente.

Organizzazione in cerchi (principio 2)

L'organizzazione sociocratica è composta da una gerarchia di cerchi semi-autonomi. Questa gerarchia, tuttavia, non costituisce una struttura di potere come accade nelle gerarchie autocratiche, poiché l’area di responsabilità di ogni cerchio è delimitata. Ogni cerchio ha la responsabilità di eseguire, misurare e controllare i propri processi nel raggiungimento dei propri obiettivi. Ha inoltre l’autorità su uno specifico ambito all'interno delle linee guida dell’intera organizzazione. I cerchi sono anche responsabili del loro proprio sviluppo (in inglese) e dello sviluppo di ciascun membro. Viene abitualmente chiamata "educazione integrale" (in inglese), il cerchio e i suoi membri sono tenuti a determinare ciò che devono sapere per rimanere competitivi nel loro campo e raggiungere gli obiettivi del loro cerchio.

Doppio collegamento (principio 3)

Gli individui che agiscono da collegamento sono membri a pieno titolo nei processi decisionali sia del proprio cerchio che del cerchio collegato superiore. Il leader operativo di un cerchio è per definizione un membro del cerchio superiore collegato e rappresenta l'organizzazione nel suo insieme nel processo decisionale del cerchio che conduce. Ogni cerchio elegge anche un rappresentante per rappresentare gli interessi del cerchio nel cerchio superiore collegato. Questi collegamenti formano un circuito di feedback tra i cerchi.

Al livello più alto dell'organizzazione, esiste un “cerchio superiore” ("top circle"), analogo a un consiglio di amministrazione, tranne per il fatto che funziona seguendo le linee guida dell’organizzazione in cerchi invece che imporsi al di sopra di essi. Tra i membri del cerchio superiore sono inclusi esperti esterni, che collegano l'organizzazione al contesto esterno. In genere questi membri hanno competenze di giurisprudenza, governo, finanza, comunità e ciò che riguarda la missione dell'organizzazione. In una società di capitali, potrebbe anche includere un rappresentante selezionato dagli azionisti. Il cerchio più elevato comprende anche l'amministratore delegato (CEO) e almeno un rappresentante del cerchio della direzione generale. Ognuno di questi partecipa pienamente al processo decisionale del cerchio superiore.

Elezioni per assenso (principio 4)

Il quarto principio estende il principio 1. Gli individui vengono eletti a ruoli e responsabilità tramite una discussione aperta e trasparente, seguendo gli stessi criteri dell’assenso usati nelle decisioni sulle linee guida. I membri del cerchio possono nominare se stessi o altri membri del cerchio argomentando le ragioni della loro scelta. Dopo questa fase, le persone possono (e spesso lo fanno) cambiare le loro nomine; la persona che facilita la discussione, a questo punto propone la persona per la quale sono state presentate le argomentazioni più rilevanti. I membri del cerchio possono obiettare a questa proposta e può seguire un'ulteriore discussione. Se per un ruolo ci sono molte persone adatte a ricoprirlo, questa discussione potrebbe richiedere diversi giri di parola. Quando ci sono meno persone qualificate per il ruolo, il processo porterà a convergere più rapidamente su una. Il cerchio può anche decidere di scegliere qualcuno che non è al momento un membro del cerchio.

I "tre principi"

Nelle prime formulazioni dell'SKM (Metodo Sociocratico dell'Organizzazione in Cerchi), Endenburg definiva tre principi e considerava il quarto, elezioni per assenso, non come un principio separato ma come un metodo basata sull'assenso per prendere decisioni quando ci sono più opzioni possibili. Lo considerava quindi parte del primo principio - l’assenso governa il processo decisionale sulle linee guida - ma molte persone fraintendevano il fatto che le elezioni delle persone a ruoli e responsabilità sono allocazioni di risorse e quindi decisioni sulle linee guida. Al fine di enfatizzare l'importanza di prendere queste decisioni con l’assenso durante le riunioni del cerchio, Endenburg lo separò in un quarto principio.

Assenso e Consenso

La Sociocrazia distingue tra i termini "assenso" e "consenso" per sottolineare che non è previsto che le decisioni del circolo producano "un consenso". Assenso non significa accordo o solidarietà. Nella Sociocrazia l’assenso è definito come "nessuna obiezione", le obiezioni sono valutazioni sull’efficacia della linea guida nel realizzare gli scopi dell'organizzazione. I membri che discutono di un'idea, e che si basano sul principio dell’assenso, si chiedono se è "sufficientemente buona per ora, sufficientemente sicura per essere provata". [10] Se la risposta è negativa, vuol dire che c'è un'obiezione da porre, che inizia la ricerca di un adattamento e una evoluzione della proposta originale per risolvere l’obiezione e trovare l’assenso.

Il co-fondatore del Sociocratisch Centrum (Centro Sociocratico), Reijmer, ha riassunto la differenza come segue: "Per avere il consenso, devo convincerti che ho ragione, per avere l’assenso tu ti chiedi se puoi vivere con la decisione".

Interdipendenza e trasparenza

I principi sono interdipendenti tra loro e, per far sì che un'organizzazione funzioni in modo sociocratico, è necessaria l'applicazione di tutti loro. Ognuno supporta l'applicazione e la buona riuscita degli altri. I principi richiedono inoltre trasparenza nell'organizzazione. Essendo il processo decisionale distribuito in tutta l'organizzazione, tutti i membri dell'organizzazione devono avere accesso alle informazioni. L'unica eccezione è la conoscenza di informazioni proprietarie e di tutte quelle che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza dell'organizzazione o dei suoi clienti. Tutte le transazioni finanziarie e le decisioni sulle linee guida sono trasparenti  per i membri dell'organizzazione e per i clienti dell'organizzazione.

Oltre ai principi essenziali, le organizzazioni sociocratiche applicano il processo di feedback “pianifica-agisci-misura” nella progettazione dei processi di lavoro e, nelle aziende, la retribuzione si basa su uno stipendio base a livelli di mercato, con pagamenti a lungo e a breve termine calcolati in base ai risultati ottenuti dal cerchio. Le pratiche operative delle organizzazioni sociocratiche sono compatibili con le migliori pratiche della teoria gestionale contemporanea aziendale.

Bevilacqua e la sua visione della «sociatria», ovvero la cura responsabile della società. Antonio Rossello, 14 Giugno 2020 su weeklymagazine.it.

Possiamo affermare di non essere d’accordo. Negare però può dimostrarsi anche in un modo di celare l’evidenza delle cose.

Il coronavirus, nel giro di poche settimane, si è trasformato da problema lontano a minaccia seria e controllabile soltanto con severi lock-down di cui l’Italia si è resa apripista in Occidente, stravolgendo la nostra vita quotidiana. È comprensibile che ci siano state confusione, ansia e paura tra la popolazione.

Sfortunatamente, questi fattori hanno anche alimentato la crescita di una confusione sociale. C’è chi afferma che quanto la politica, corroborata da campioni della virologia militante e sussidiata da immancabili interessi occulti, ha messo in atto sia a tratti illegittimo. Lo starnazzo mediatico assordante intanto confonde vieppiù le idee ad una cittadinanza già prima smarrita, meno attrezzata per un uso critico delle informazioni e della conoscenza. È abbastanza sconfortante il complottismo esasperato che, pregno di tautologie e contraddizioni , ormai ovunque giganteggia.

In antitesi ad una costante del nostro tempo, che è il «coro di bocche chiuse», forgia della distanza dall’impegno, è di pochi una visione risolutiva che passa attraverso un tema inedito per la nostra contemporaneità: interrogarsi su quale sia la cura più efficace per nostra società locale e globalizzata, che sulle questioni più importanti si mostra indifferente e, molto spesso, irresponsabile. Per troppa pigrizia, e per resistenza al cambiamento?

Con un background piuttosto variegato che forse lo ha reso resiliente al punto di essere stimolato da questi tempi foschi, consulente della pubblica amministrazione, ma anche impresario culturale e professore, fiero della sua passione per la lirica e la gastronomia, di cui la sua terra è culla, una vita talora scandita da scelte anticonformiste e originali, ad un passo dall’idealismo di romantica memoria, è quella di Sergio Bevilacqua.

E proprio in questa indeterminazione, il sociologo originario di Reggio Emilia, trova la verve intellettuale per superare un clima in cui non può prevalere l’indifferenza rispetto alle questioni più importanti che coinvolgono le nostre vite. Quindi, ipotizza uno scenario per le scelte pubbliche, attraverso un excursus non banale, e per questo valido, su concetti che nessuna analisi logico-epistemologica dovrebbe permettersi di ignorare. Un processo che può rappresentare la via per nuove forme di responsabilità e partecipazione al governo delle nostre vite, delle nostre società e del nostro destino, espungendo da esso le insidie tanto dovute al crasso materialismo quanto al protervo cinismo.

Bevilacqua, da maestro della versatilità, fuori da un’area sociale conformista, talora capziosa, ha saputo così cucire insieme un significativo spazio di espressione sulla sua pagina Facebook e tra l’altro sulla chat « Il Politico Conservatore», il think tank di cui è fondatore su Whatsapp, aperto a contributi qualificati sulle politiche sociali. Nelle intenzioni si tratterebbe di creare le condizioni per elevare noi tutti dalla posizione di spettatori a un cammino emancipativo, che è allo stesso tempo locale e planetario. Lo scopo è migliorare la cooperazione civile-culturale attraverso un approccio multidisciplinare che combini esperienze e know-how.

E si è rivelato il modo straordinariamente coerente, di chi ha patrimonializzato ogni sua esperienza, anche la più stravagante, in uno strumento chiave per accrescere la propria competenza, per identificare in questo momento di crisi l’opportunità di cambiare finalmente il paradigma economico, trasformando la società dei consumi in una società capace di rispondere ai bisogni reali delle persone. Un’occasione che in pratica ci forzerà a cercare soluzioni più adattive ad alcune necessità che non possiamo ulteriormente ignorare, permettendoci di riattribuire il corretto valore alle cose, di riformulare la nostra gerarchia di valori e priorità.

La leadership che potrebbe essere definita come l’abilità di sfruttare una crisi per ottenere il più grande effetto possibile, e lo è stata se pensiamo a come fu affrontata la Grande Depressione negli anni Trenta con la creazione di efficaci modelli di welfare state, come si pone innanzi al dilemma dell’innovazione sociale? L’imponenza dei mezzi finanziari che, a livello europeo ma non solo, sono in corso di stanziamento fa sì che oggi si possano vedere attorno a noi i germogli di una discontinuità rispetto alle incongruenze dei tempi passati.

Il rischio non sarà di cozzare nei connotati di un’Arcadia ormai perduta e mitica, irriconoscibili in campo economico nella nostra era, in questo impero del digitale, dove ogni cosa è sempre più in funzione dell’immediato utilitarismo? Comunque, Bevilacqua si propone di offrirci la più dettagliata ed attenta diagnosi, attraverso uno studio molto scrupoloso della congiuntura. Esiste dunque un’opportunità in tal senso, senza che essa appaia la fisionomia di un’inguaribile utopia.

Si pone tuttavia una questione di «sociatria», di cura responsabile della società. Infatti, solo la costruzione innovativa di un’impalcatura ortopedica, cioè di una ricongiunzione del legame fra cittadini e forme di governo democratico, può ricostituire la base di una prospettiva di qualità di vita e giustizia sociale. Un humus culturale da ricreare; quello che abbiamo non solo si mostra obsoleto, ma non è più adatto alla contingenza, foriero di un deterioramento, con il quale possiamo prevedere soltanto parossismi sociali di un’intensità mai vista.

Possiamo anche non trovarci d’accordo con tutto questo. Obiettare è pur sempre un gesto compatibile con una nostra presenza attiva. Negare però può dimostrarsi anche in un modo di celare l’evidenza delle cose. Una negazione per svincolarci alle nostre responsabilità. Neghiamo per indifferenza, appunto.

Sergio Bevilacqua e la Sociatria Organalitica. ANTONIO ROSSELLO su Corriere Nazionale.net il 22 agosto 2022.

Perché alcune figure in diversi ambiti si sono intestardite con la Sociatria? Questo non me lo sono mai del tutto spiegato. Forse c’è un elemento indubbiamente metateorico, cioè, detto in parole comprensibili, vogliono qualche cosa di meno astratto della filosofia, della sociologia stessa. Insomma, una prassi?

Non sarà passata inosservata ai lettori la mia intervista esclusiva dal titolo “La sociatria in quanto salute sociale” pubblicata lo scorso 1° agosto. Ne è stato protagonista John Fordham, uno studioso statunitense oggi autonomamente dedito a questo approccio in divenire alle scienze sociali, rientrando in un novero di figure maggiori da me individuate: i sociologi Sergio Bevilacqua e José Luís Zamora e gli artisti Ivan Cuvato e Pedro Reyes. Non mancano però ulteriori interessi emergenti, specialmente in campo artistico, come si evince da tutta una serie di articoli da me curati per queste pagine.

Ad inserirsi nel vivace dibattito in corso sul tema, questa volta è proprio Sergio Bevilacqua,  cui avevo già dedicato un pezzo uscito nel giugno 2020 su WeeklyMagazine, il quale risponde alle mie seguenti domande.

D: Bevilacqua, Lei si definisce il padre della “Sociatria Organalitica”: ci può brevemente spiegare di che cosa si tratta? Può ripercorrere alcune fra le principali fasi della sua esperienza scientifica e personale in merito?

R: La Sociatria Organalitica nasce nel quadro della ricerca di un metodo scientifico per l’intervento sul soggetto societario, svolta da me e qualche decina di miei collaboratori dagli anni ’70 ai giorni nostri. Lo scopo è di fornire alla Sociologia una via teorica e pratica di applicazione specifica del metodo sperimentale. Sociatria, dunque, come clinica delle società, e Organalitica come riferimento al metodo dell’organalisi, applicazione alle società umane del metodo lessurgico clinico nato in psicanalisi. Dopo un’applicazione emblematica avvenuta tra il 1979 e il 1981, sono stati trattati col metodo organalitico molte centinaia di casi di società umane, dimostrando efficacia pratica e contenuti teorici coerenti, alla luce della natura di sistemi aperti a razionalità limitata basati su stati stazionari propri delle società umane. È stato così fornito un nuovo fondamento alla Sociologia, che da questa esperienza mutua un più alto grado epistemologico e una maggiore effettività in termini di sapere. L’approccio cerca, come nella fisica, la coerenza tra il livello minimo della sociologia, le unioni duali, con il livello massimo, la dimensione di specie nel suo rapporto con l’ambiente. 

Sergio Bevilacqua

D: Sì, d’accordo, intanto però, oltre a Lei e ad altri studiosi di formazione sociologica, altri esponenti, specialmente in campo artistico, si appellano alla Sociatria. Veda, ad esempio, il Maestro Ivan Cuvato, noto influencer, con le sue performance di denuncia sociale, che divengono non solo espressione di libertà civile, ma anche di vita … Che cosa ne pensa?

R: Nell’ambito dell’approccio sociatrico organalitico applicato all’arte, si evidenzia il tema della catarsi artistica quale funzione clinica. Essa è ben conosciuta a livello di clinica individuale, in particolare nell’ambito psichiatrico. Ma si può considerare la catarsi artistica anche una medicina sociatrica? Che la catarsi abbia una funzione di cambiamento di stato nell’umano lo si sa dalla notte dei tempi, dalle Dionisie di Pericle nell’antica Grecia, e anche che ciò possa avvenire a livello di società. È quindi provato un requisito, fondamentale. L’intero ciclo sociatrico deve considerare però anche scopi specifici e risultati. Quindi esiste un percorso molto avvincente per gli artisti che si propongono questa vocazione, come Ivan Cuvato ad esempio. 

Ivan Cuvato

D: Almeno fra gli addetti ai lavori, è noto che vi è una branca della Sociologia, denominata Sociologia Clinica, rivolta al miglioramento della qualità della vita delle persone attraverso la valutazione critica delle opinioni, delle idee, dei vissuti e delle esperienze delle stesse. Qual è il rapporto della Sociatria con essa? Vi sono similitudini o sovrapposizioni?

R: Nel campo sociatrico è presente un ambito specifico, che vede l’intervento sulla società umana per risolvere problemi di tipo individuale. Ciò è presente già da tempo nella clinica individuale, con la denominazione istituzionale di Sociologia clinica. L’approccio sociatrico dà il suo contributo su tale argomento vedendo le società umane come soggetti autonomi interattivi e considerando l’intervento sempre nel quadro anche di equilibri di sovra sistema societario.

Sergio Bevilacqua, sociologo clinico ed esperto di psicanalisi, è consulente di grandi organizzazioni pubbliche e private in Italia e all’estero, nonché editore e articolista su varie testate. È autore del volume “Introduzione alla sociatria. La nuova sociologia clinica di società e persone” (Ed. IBUC, Reggio Emilia, ISBN: 8898355300  2018). 

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La Sociosofia è la soluzione di tutti i problemi sociali, economici e politici per tutto il mondo.

I tempi sono ormai maturi per un autentico cambiamento.

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È ormai giunto il momento di svegliarsi, di guardare in faccia la realtà, per comprendere che non siamo vittime di fatalità, e poi di agire di conseguenza. Creare un mondo nuovo, riorganizzando la nostra vita, è possibile.

Tutto dipende dal pensiero. Il pensiero è energia creativa, e se viene nutrito con l'informazione obiettiva e con la conoscenza delle verità e dei retroscena, esso diventa una vera e propria potenza di cambiamento.

E per ottenere appunto questo Mario Haussmann mette a disposizione uno strumento di formidabile efficacia:

Il Manifesto della Sociosofia. 

La Sociosofia propone il metodo pratico con il quale diventa facile raggiungere la felicità collettiva. 

Che tutti abbiano salute

Che tutti siano in pace tra loro

Che tutti siano realizzati

Che tutti siano prosperi

Lasciate che tutti siano felici

Lasciate che tutti siano liberi dal dolore

Lasciate che tutti vedano dovunque la realtà

Lasciate che nessuno abbia preoccupazioni

(Dal Ramayana) 

I Sociosofi

I sociosofi sono il gruppo in crescita di persone che vivono la Sociosofia. Essi conoscono le cause vere delle disfunzioni sociali ed anche il metodo pratico per creare un mondo completamente nuovo in cui la felicità collettiva possa essere stabilita attraverso condizioni generali di vita che favoriscano la felicità degli individui. 

Sotto il simbolo della stella arcobaleno si riuniscono le persone che sono convinte che sia assolutamente necessario dar vita a nuovi sistemi sociali, economici e politici in armonia con le leggi della Natura. 

I sociosofi sono il popolo della stella arcobaleno, i costruttori del futuro, della giustizia e dell'armonia che tutti sognano. Essi sono i pionieri di un nuovo mondo, le avanguardie di una società libera e prospera. Essi sono coloro che hanno appreso che cosa fare per attuare la grande trasformazione e come farlo.

Predicano unicamente il buon senso e lo mettono in pratica quotidianamente.  

I sociosofi stanno attivamente edificando un nuovo ordine sociale in sintonia con le leggi naturali, universali ed eterne.

Sociosofi sono coloro che si sono resi conto che bisogna essere liberi per poter essere felici.

La Sociosofia è il futuro.

E tu? Sei parte del problema o della soluzione?

I sociosofi sono coloro che sono divenuti parte della soluzione.

La Sociosofia è la saggezza della gente. I sociosofi sono la soluzione.

Per essere sociosofi bisogna sapere e conoscere.

Il Manifesto della Sociosofia è la sintesi di tutto quello che bisogna sapere per poter prendere attivamente parte alla grande opera di trasformazione del nostro mondo.

In questo libro vengono svelati i segreti che dotano ogni individuo di potere personale e di libertà d'azione.

Con la conoscenza che si acquista leggendo questo testo basilare della Sociosofia si vedono molti aspetti della vita quotidiana in una prospettiva del tutto inedita, che ci permette di decodificare la realtà in cui viviamo.

Veniamo così dotati degli strumenti che ci rendono autonomi ed emancipati e che ci consentono di adottare comportamenti nuovi e più proficui. Sapere che cosa rende sventurato il mondo e che c'è una semplice via d'uscita da tutte le angustie cambia la vita a chiunque.

Nel Manifesto della Sociosofia sono raccolte tutte le informazioni che ci permettono di essere attivamente parte della soluzione, per questo motivo i sociosofi consigliano sempre vivamente a tutti la lettura del Manifesto della Sociosofia.

Per essere parte della soluzione e non del problema! Intervista al dr. Antonio Giangrande, figura poliedrica, scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’”Associazione Contro Tutte le Mafie” e di “Tele Web Italia”, il quale è autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Viaggio nella Sociosofia: i dintorni di una (eventuale) ancora giovane scienza sociale. Antonio Rossello il 6 marzo 2022 su Weeklymagazine.it ed il 10 marzo 2022 su Trucioli.it

Viaggio nel mondo della Sociosofia: i dintorni di una (eventuale) ancora giovane scienza sociale. Comprendiamo gli autori e le opere che si sono ad oggi occupati di questo neologismo della lingua italiana e spagnola.

Introduzione – In questo articolo, intendo parlare di un termine della lingua italiana, ed anche spagnola, ignorato o, comunque, non sufficientemente trattato sui testi ufficiali: la «Sociosofia», un vocabolo composto ibrido, il quale deriva dal latino societas (società… unione, alleanza, vincolo) e dal greco σοφία (sapienza, saggezza). 

Attraverso una ricerca in rete, ho potuto verificato che, invece, le corrispondenti forme inglese, Sociosophy, e francese, Sociosophie, risultano menzionate già nei secoli passati da una pluralità di fonti. Una di esse, il volume in lingua inglese, dal titolo: «Tradition, Modernity, Counterculture: An Asian Perspective» (Ed. Visthar, Bangalore, India, 1998), scritto da Sebastian Kappen, filosofo e teologo della liberazione indiano, riporta la definizione a mio avviso più convincente di Sociosofia: «Saggezza riguardo alla società», che sembra esorbitare l’ambito delle scienze sociali propriamente dette ed insinuarsi in un ulteriore, più profondo, significato.La «Sociosofia» nel mondo ispanico attuale.

José Angel Bergua Amores –

Sullo scenario ispanico, europeo e americano, pare quindi essere soltanto José Angel Bergua Amores, professore di Sociologia, all’Università di Saragozza, ad avvalersi significativamente del termine in sue due pubblicazioni: «Estilos de investigación social : técnicas, epistemología, algo de anarquía y una pizca de sociosofía» (Ed. Prensas de la Universidad de Zaragoza, Saragozza, Spagna, 2011) (NdR– letteralmente: «Stili di ricerca sociale: tecniche, epistemologia, un po’ di anarchia e un accenno di sociosofia») e «Sociosofia» (Ed. Anthropos, Barcellona, Spagna, 2017). 

Qui, l’autore sviluppa un punto di vista sociosofico che, superando il trascendentalismo patriarcale, così come l’immanentismo matriarcale, si ispira all’archetipo fratriarcale, che in origine esprime il predominio del fratello maggiore nei confronti delle sorelle ancora nubili, secondo una concezione risalente a 2500 anni fa nella civiltà occidentale. Con questo proposito, egli scrive sopra classici dell’esoterismo come Richard Guénon, Julius Evola, e il «Corpus Hermeticum» (1ª ed. originale: 1050 circa) di Ermete Trimegisto, oltre a flirtare con lo Gnosticismo e lo Sciamanesimo. Con questa (ri)scrittura pone il sociale al posto dell’essere e dispiega un’ampia gamma di concetti destinati a comprendere, in termini riflessivi, e a trasformare, in termini politici, il mondo contemporaneo. 

Da queste premesse, la Sociosofia può continuare l’approccio che nella Modernità ha dato origine alla sociologia e assicurare che l’essere è il sociale, aggiungendo che né la società o l’ordine istituito, né le socialità o i poteri istitutivi da soli, rendono conto di ciò che è Sociale. 

Il Sociale ha dunque un carattere sacro. Il sociologo Émile Durkheim, nella sua fondamentale opera dedicata a «Le forme elementari della vita religiosa. Il sistema totemico in Australia» (1ª ed. originale: 1913) aveva mostrato che tale sacralità sussiste soltanto da un punto di vista essoterico, nella misura in cui i fenomeni religiosi vengono creati all’interno di una società per conferirle coesione (ovvero, in primo luogo, la religione funziona come una specie di «cemento» sociale). Invece, Bergua Amores la concepisce anche in modo esoterico, a differenza dei pensatori classici e delle teorie dell’esoterismo, secondo cui l’essere era cosmico o naturale ed esclusivamente foriero di conseguenze individuali. Seppur riformulato, in quanto scevro da una pregressa attenzione al sociale, ricevendo solo l’influenza archetipica, l’esoterismo può dunque unicamente consentire di elaborare le conoscenze e la prassi che il nuovo approccio socio-filosofico esige.

La «Sociosofia» in Italia. 

Venendo quindi all’ambito italiano, nonostante le assai differenti prospettive teoriche propugnate, ad evocare la Sociosofia nei propri lavori sembrano esservi stati, almeno negli anni recenti, solo i tre intellettuali, che tratteremo secondo l’ordine cronologico di pubblicazione dei relativi lavori.

Francesco Giacomantonio (2012) 

Cominciamo con Francesco Giacomantonio, dottore di ricerca in Filosofie e teorie sociali contemporanee, in possesso del Master di II livello in Consulenza etico-filosofica, già docente a contratto in corsi di sociologia presso l’Università di Bari, che annovera un nutrita esperienza nell’ambito della stesura di volumi inerenti scienze sociali, come collaboratore di riviste specializzate. Sulla scorta di studi istituzionali di sociologia teorica e filosofia politica successivi al suo dottorato e alle sue altre specializzazioni, nel 2010 Giacomantonio si accinse alla scrittura della sua opera «Sociologia e sociosofia. Dinamiche della riflessione sociale contemporanea» (Ed. Asterios, Trieste, 2012), poi pubblicata con il patrocinio della fondazione Max Horkheimer di Lugano in Svizzera. Confortato dal parere di colleghi di ambito accademico, scelse di includere nel titolo il termine «Sociosofia», che all’epoca gli risultava ancora inutilizzato in Italia da altri, senza però preludere a implicazioni metafisiche, esoteriche, mistiche o di persuasione politica. È pertanto un testo orientato ad analizzare lo stato della sociologia contemporanea, a seguito delle varie interpretazioni che nel tempo ha dato di sé stessa e degli ambiti e fenomeni di cui si occupa. 

In tal senso, ancora in questo inizio di XXI secolo, il suo statuto come scienza non cessa di alimentare discussioni intorno tanto alle ragioni di un politeismo teoretico e della ricerca più avveduta, quanto alla misura in cui sia anche ammissibile elaborare visioni del mondo, della dimensione sociale della realtà umana. 

Sorgono interrogativi circa la piattaforma di senso (teorico, pratico, culturale) riflessa dalla sociologia del XXI secolo, dopo le vicende del XX secolo: un tempo problematico ossessionato dalla propria finitezza, incapace di produrre sistemi teorici comprensivi o di credere in essi, governato dalla brutale imposizione di interessi economici, pervaso da visioni apocalittiche, anomia, alienazione ed edonismo insensibile, assordato infine dal suono ruggente di fiumi di parole senza senso. 

In particolare, Giacomantonio tratteggia il problema della riflessione sociale – nelle sue dimensioni fenomenologiche, epistemologiche e, in generale, culturali -, confrontando le maggiori posizioni di sociologia, filosofia sociale e teoria sociale nella tradizione del XX secolo, per individuarne un senso rispetto all’evoluzione del mondo attuale, per comprenderne, in modo equilibrato, le dinamiche tra concetti e fenomeni. 

L’esito è paradossale: quantunque Karl Marx, .Georg Simmel , Émile Durkheim e Max Weber avessero già ravvisato il malessere dell’età moderna, lo stato di salute della tarda modernità pare addirittura più cagionevole. Tuttavia, difendendo una concezione sociologica fondata sull’articolazione, sull’apertura e sulla cura, l’autore offre una via d’uscita, sebbene provvisoria: una sociologia che si renda, almeno in parte, «sociosofia». 

Non bastando soltanto i modelli analitici o funzionalisti, alla base di una simile ispirazione, in contesti sia accademici che pratici, pone il «costruttivismo sociale» de «La realtà come costruzione sociale» di Peter Ludwig Berger e Thomas Luckmann (1966), la «Teoria critica» della «Scuola di Francoforte» e il «Post-strutturalismo» di Michel Foucault. 

Si denota, così, una prospettiva consapevole dei propri limiti epistemologici ma tesa a fornire alla mente moderna un minimo di significatività sociale e quindi esistenziale. Si delinea un possibile percorso, lontano dall’apatica indifferenza tra teorie della società e sociologie prive di visione e di autocoscienza. In quest’ottica, «articolazione, apertura e cura» sono dunque i tre pilastri di una possibile declinazione della sociologia contemporanea come «Sociosofia».

Mario Haussmann (2016 e 2019)- Introduciamo, a questo punto, l’autore che pare avere maggiormente puntato sul termine «Sociosofia»: è Mario Haussmann, che si autodefinisce un pioniere sociosofo. Essendo basata sui tre volumi del monumentale «Il Manifesto della Sociosofia» (Ed. Shiva, 2016) e sul più snello «Introduzione alla Sociosofia. La dottrina del -buon senso» (Ed. Verdechiaro, Baiso, RE, 2019), la sua opera configura come un vero e proprio trattato sistematico, i cui lineamenti essenziali sono i seguenti. 

La prima considerazione riguarda le riflessioni di Karl Marx tratte da «Le Tesi su Feuerbach» (un suo breve scritto elaborato nell’aprile del 1845, e riportato alla luce nel 1888 dal fido Friedrich Engels dopo la sua morte), il cui motivo dominante è la necessità per la filosofia di passare dalla interpretazione del mondo alla prassi. In quest’ultimo atto sta la missione della filosofia. Il senso ultimo della critica filosofica è quello di contribuire al cambiamento del mondo. Secondo Haussmann, dovrebbe identicamente valere per i sociologi, siccome la sociologia è una scienza strana, la quale, a differenza di tutte le altre, si limita a descrivere i problemi, senza veramente disporsi a risolverli. 

A una simile manchevolezza può però rimediare la «Sociosofia», che si pone in quanto «Scienza e Dottrina del Buon Senso». Nel neologismo che la designa, in luogo del suffisso «-logia» (ossia «studio», «trattazione», «dottrina» o «discorso») compare «-sofia» (o anche «sophia»), con il più pregnante significato di «intelligenza», «saggezza» o «sapienza». 

Rispetto alla sociologia, la Sociosofia non costituisce una scienza fine a sé stessa, ma una prassi il cui nobile obiettivo è quello di promuovere e affermare tecniche, metodologie e soluzioni di modificazione sociale, di migliorare le condizioni di vita degli uomini, nessuno escluso, agendo direttamente sulla radice economica e politica delle disfunzioni sociali. 

In questa ottica, la Sociosofia riconsidera specifici aspetti della civiltà occidentale, ridefinendo in chiave olistica concetti quali: libertà, sfruttamento, coercizione, morale, politica e convivenza civile. 

Essa assume a modello di ispirazione la Natura, quale migliore esempio di armonia, si pone come forza ideale in grado di prospettare soluzioni idonee ad evitare ogni imminente disastro sociale, favorendo una evoluzione verso condizioni sociali più eque, più prospere, più stabili, in linea con il desiderio comune sviluppare il proprio potenziale, non tradendo le aspirazioni del cuore. 

Ne viene che il filo conduttore nonché l’Essenza della Sociosofia sono riassumibili come: etica nel pensiero; etica nell’azione; etica nella relazione. Da queste premesse, occorre avviare una rivoluzione della Coscienza, cosicché tutti comprendano che un vivere diverso e migliore è non solo possibile ma anche facile da raggiungere. Una simile idea può generare uno tsunami in grado di penetrare ogni resistenza, assicurando le risorse necessarie a realizzare un mondo nuovo in cui l’economia, la politica ed il divenire sociale siano intonati ai principi naturali. 

Mirco Mariucci (2019) 

Veniamo, infine, a Mirco Mariucci, saggista e fondatore dei blog Utopia Razionale e Animus Flutes, il quale ha all’attivo diverse pubblicazioni. Tra di esse, il «Trattato di Sociologia» (Ed. Youcanprint, Lecce, 2019) – suddiviso in 4 volumi ed in 7 parti: Teoria ed Ecologia; Lavoro; Economia; Società, Utopia ed Esoterismo -, frutto di ricerche durate 7 anni. In quest’opera complessa, dapprima l’autore prende atto che la sociologia è nata come disciplina che ha il compito di analizzare spiegare e interpretare la società, cercando d’individuarne funzionamento, mutazioni ed eventuali criticità, al fine di concepire e proporre soluzioni per migliorare le condizioni di vita di tutti gli esseri viventi che ne fanno parte. Dopodiché, enuclea quanto ritiene esserne le leggi fondamentali, opponendosi ad ogni concezione che si limiti a guardare la società nel modo più possibilmente distaccato ed oggettivo, con la presunzione che spetti ad altri il compito di individuare criticità e soluzioni. Arriva, dunque, a formulare un nuovo paradigma economico ed illustra una sua concezione di società ideale: l’Utopia Razionale. Argomento dopo argomento, l’immaginario collettivo viene decostruito. Analisi, previsioni e soluzioni si susseguono delineando un quadro unitario. Il fine è di donare all’umanità una nuova visione del mondo, da impiegare come motore ideale per trasformare la realtà sociale in senso rivoluzionario. 

Venendo agli aspetti che maggiormente riguardano il presente articolo, nel primo capitolo del suo «Trattato», Mariucci ulteriormente ritiene la sociologia sia soltanto una disciplina e non una scienza. Nella sua ipotesi, se si accettano le definizioni correnti di scienza (scienza esatta, dura e molle), la sociologia dovrebbe essere classificata come scienza molle. Cionondimeno, definire una scienza molle non ha alcun senso, aldilà del valore tangibile di cui possono essere anche dotate discipline non scientifiche. Si pensi, ad esempio, alla filosofia che, pur non essendo una scienza, è da porsi al di sopra delle scienze, essendone madre, musa e guardiana. Ma questo è soltanto uno degli innumerevoli, e non meno importanti, compiti svolti dalla filosofia. Pertanto, una sorte analoga dovrebbe spettare alla sociologia, sebbene il suo scopo sia più specifico rispetto a quello della filosofia, e precisamente consista nel prendersi cura della società e dei suoi membri. All’uopo, ci si dovrebbe infine più propriamente riferire alla sociologia, nell’accezione proposta, ridefinendola come «Sociosofia».

Conclusioni- Questo viaggio nel mondo della Sociosofia e dintorni deve necessariamente concludersi qui. La constatazione finale è che, al di là di qualche comune generica afferenza nell’ambito dei saperi sociali e di una coincidenza etimologica, dal punto di vista semantico pare proprio che ognuno degli autori trattati esponga una propria concezione di Sociosofia. In sostanza, fatte le dovute precisazioni in termini euristici, epistemologici ed ermeneutici, emergono differenze tali da rendere del tutto distinte ed indipendenti ogni singola linea di pensiero prima considerata. 

Senza dubbio, tutto può essere normale in una (probabile) scienza ancora giovane, obbligata a colmare i vuoti delle proprie conoscenze empiriche con speculazioni teoriche. Seguendo un metodo valutativo razionale di acquisizione elementi che concorrono a formare un giudizio sulle nuove espressioni dell’intelletto umano, una tale assunzione comporta che sarebbe opportuno dare ascolto alle singole voci e valorizzarle in un mosaico di variazioni ontologiche, che sfuggono alle categorizzazioni a priori. 

A tal fine il nostro invito ai singoli autori ad illustrare direttamente la propria prospettiva di Sociosofia in una serie di articoli monotematici ad essi dedicati e da pubblicare nel quadro della programmazione redazionale di medio periodo. Il primo sarà a cura di Mario Haussmann. Antonio Rossello 

La «Sociosofia» secondo Mario Haussmann. Antonio Rossello il 13 Marzo 2022 su WeeklyMagazine.it

Come anticipato nel mio saggio: «Viaggio nel mondo della Sociosofia: i dintorni di una (eventuale) ancora giovane scienza sociale», recentemente pubblicato su queste pagine, uno degli autori citati, Mario Haussmann, partecipa al dibattito intorno alla «Sociosofia» con un suo contributo.

LA SOCIOSOFIA – di Mario Haussmann (*)

La Sociosofia è stata definita come la «scienza e dottrina del «buon senso». In quanto scienza essa differisce dalla sociologia, poiché questa si limita a studiare e descrivere i fenomeni sociali, mentre la Sociosofia si spinge oltre, nel campo della trasformazione sociale, indicando metodologie concrete per migliorare le condizioni di vita di tutti.

La dottrina della Sociosofia è contenuta nel nome stesso, composto di due parti. La prima, «socio-», si riferisce alla gente, alla sfera sociale, a ciò che riguarda noi tutti, e la seconda, «sofia», significa «saggezza, conoscenza, intelligenza», cioè il «buon senso» appunto. Sociosofia è quello che l’etologia chiama «intelligenza di stormo», il buon senso della gente, la «mente di gruppo», che è chiaramente superiore a quella di ogni singolo membro e che determina e definisce nell’inconscio collettivo la saggezza di un popolo.

Lo scopo della Sociosofia e il suo punto centrale è la Felicità. Infatti, il buon senso ci dice che ciò che ogni essere vivente desidera anzitutto è essere felice, veramente e completamente felice. E la felicità dell’individuo è un fattore concreto, verificabile e misurabile con metodi scientifici come, ad esempio, le analisi sociologiche o le tecniche di diagnosi medica nucleare (PET e MRI). Si può dire, quindi, che l’obiettivo della Sociosofia sia la massimizzazione della felicità per tutti.

A tal fine la Sociosofia si interroga su quali siano i parametri fondamentali perché gli esseri possano raggiungere tale condizione. E le risposte alle quali giunge sono strabilianti, da tanto che sono logiche e semplici. Poiché l’uomo e inserito nel tessuto sociale, dal quale viene plasmato fin dalla nascita e con il quale interagisce per tutta la vita, la Sociosofia ha identificato i punti chiave sui quali bisogna agire per raggiungere il traguardo della massima felicità.

La metodologia utilizzata per trovare queste soluzioni è stata l’osservazione dei processi naturali, l’identificazione delle leggi di natura che li regolano e l’applicazione di tali principi universali agli ambiti della convivenza civile. La nostra Madre Natura ha trovato evolutivamente le soluzioni più efficienti, durature ed anche eleganti per ogni problema e utilizzando i suoi metodi nell’ambito umano e sociale, possiamo risolvere tutti i problemi politici, economici e sociali in maniera semplice, rapida e indolore.

Come il benessere di ogni creatura che popola un biotopo dipende dallo stato generale dello stesso, il benessere dei singoli cittadini dipende dal bene comune, dal livello di benessere e di civiltà raggiunto da tutta la società in cui vivono. Quindi, in primis, deve essere garantito il bene comune di tutta la società, quale base e fondamento del benessere del singolo. Il concetto di «felicità interna lorda” o FIL indica il metro a cui orientarsi e deve sostituire l’attuale parametro guida del PIL, al quale contribuiscono anche eventi che riducono drasticamente il livello di felicità, come incidenti o catastrofi. E come modo per incrementare la FIL non abbiamo altra scelta che seguire «la via della Natura», adattando il funzionamento dei nostri meccanismi sociali ai suoi principi universali.

Da questo punto di vista appare evidente che l’ostacolo maggiore al raggiungimento del bene comune è costituito da un errore strutturale della moneta, che ne inficia la funzione di carburante dell’economia e perverte tutto il sistema monetario (e quindi tutta l’economia) in direzione opposta alla massima felicità per tutti. La Sociosofia propone un nuovo tipo di valuta, creato in armonia con la Legge Naturale, come prefigurato dal genio monetario misconosciuto Silvio Gesell, che essendo libera da fenomeni usurari e al servizio reale della gente, permette il veloce raggiungimento del benessere economico per tutti e la diffusa prosperità crescente.

Poiché oggigiorno nessuna forza politica sarebbe minimamente in grado di mettere in pratica una riforma monetaria di tale portata, la Sociosofia intende introdurre anche un nuovo sistema politico, studiato in modo da essere in armonia con il funzionamento della Natura e che sia in grado di mantenere tutte le promesse di libertà, autodeterminazione e sovranità dei cittadini, che l’ormai obsoleta democrazia partitica e parlamentare non è mai riuscita a mantenere.

Allo scopo di garantire a tutti la felicità individuale, tutti i sistemi sociali, come giustizia, istruzione, sanità, ecc., necessitano di essere armonizzati con i principi universali. Applicando tali principi ad ognuno di questi campi, la Sociosofia ha elaborato concetti del tutto innovativi per ognuno di essi, che nel loro insieme creano lo scenario di un nuovo mondo, di pace, felicità, salute, benessere e prosperità senza limiti per tutti i suoi abitanti.

Nel campo della giustizia, per esempio, va rifatto tutto. Il diritto non può più essere arbitrario, ma deve essere unitario e basato su solide fondamenta filosofiche e scientifiche. Per garantire la felicità, tutte le leggi devono conformarsi ai principi universali, ai valori umani, essere limpide e comprensibili a tutti, in modo da avere l’approvazione generale. Il diritto penale va sostituito con un diritto “riparatorio”, capace di riaggiustare gli squilibri sociali creati dal crimine.

In un’ottica sociosofica l’educazione non ha la funzione di indottrinare la gioventù, riempire le menti delle nuove generazioni con nozioni funzionali al sistema e preparare i ragazzi allo svolgimento di determinate mansioni professionali, bensì il compito della scuola è quello di sviluppare al massimo le funzioni intellettive e i talenti peculiari di ogni bambino, di mettere in grado gli alunni di soddisfare da soli la loro naturale sete di conoscenza e di risolvere autonomamente i loro problemi, nel rispetto dei fondamentali valori, quali la verità, la rettitudine, l’amore, la pace e la non violenza. Cioè la scuola ha il compito di insegnare a vivere bene, intelligentemente ed eticamente la propria vita.

Prendendo spunto dalla Natura, che è maestra nel creare efficienza, robustezza e sicurezza di funzionamento, la Sociosofia indica una via per ricreare tutti i nostri sistemi sociali in analogia ai sistemi naturali. In altre parole, essa mostra la strada indicata dal buon senso per giungere dalla penuria all’abbondanza, dalla schiavitù alla libertà, dai timori e dagli affanni alla felicità, duratura e generale.

Appare quindi evidente che la Sociosofia non rappresenta semplicemente una generica proposta di miglioramento, che non si tratta di una qualche riforma o innovazione. Essa costituisce il progetto completo per un mondo migliore, più bello da viverci. Si tratta di un programma di semplice attuazione, la cui unica premessa è il raggiungimento di un numero critico di persone informate a riguardo. E con la diffusione della Sociosofia questo numero aumenta costantemente, fino a rendere inevitabile il mutamento storico prospettato.

In sintesi, la Sociosofia rappresenta il passaggio da un mondo che tramonta ad uno che sorge, la transizione epocale dal mondo com’era finora, fatto di potere e della prevaricazione di un essere umano su un altro, ad un mondo di completa libertà e sovranità individuale, nel quale sia possibile la completa fioritura del potenziale creativo insito in ogni essere umano. L’arrivo della Sociosofia rappresenta un evento di una portata inimmaginabile, per il quale non esistono paragoni in tutta la storia.

Letteratura per approfondire l’argomento: 1.) Il Manifesto della Sociosofia – è il testo base, nel quale tutte le tematiche sociosofiche sono esposte dettagliatamente e 2.) Introduzione alla Sociosofia – è una breve panoramica delle suddette tematiche.

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(*) Biografia

Il dott. Mario Haussmann è ricercatore, sociosofo, autore dell’opera monumentale «Il Manifesto della Sociosofia» e soprattutto è un pioniere di un nuovo mondo migliore. Sin da giovanissimo egli percepiva che il mondo in cui viviamo non era come dovrebbe essere e si domandava perché gli esseri viventi su questo pianeta dovessero soffrire, essendo condannati a vivere una vita diversa da quella che vorrebbero.

La ricerca della risposta a questa domanda lo ha condotto a studi approfonditi e a compiere molti viaggi, durante i quali incontrò sciamani di tutto il mondo e autentici precettori di saggezza. Nel 1995 avvenne l’incontro decisivo, quando uno straordinario Maestro gli conferì l’incarico di andare a fondo alla domanda, raccogliere tutte le informazioni che conducono alla risposta e farle conoscere a tutti. Nel 1999 chiuse lo studio di pubblicità e consulenza aziendale che dirigeva da 15 anni per dedicarsi a tempo pieno a questo compito.

In anni di costante lavoro il dott. Haussmann è giunto a risultati concreti. Attraverso i suoi libri fornisce la chiave d’accesso ad un futuro meraviglioso e mette chiunque in grado di collaborare alla nascita di un nuovo mondo armonioso e molto più piacevole in cui vivere di quello attuale. Nel 2016 ha pubblicato il risultato del suo lavoro ne «Il Manifesto della Sociosofia», un libro monumentale che ha avuto immediatamente una profonda risonanza. Su richiesta dei lettori del «Manifesto» e per soddisfare il desiderio dei sociosofi di accelerare la diffusione del nuovo ideale ha infine pubblicato nel 2019 per i tipi di Verdechiaro Edizioni un libro più succinto sull’argomento intitolato «Introduzione alla Sociosofia». Tuttora egli dedica tutte le sue energie a rendere note a quante più persone possibile le innovative tesi sociosofiche, alle quali ha consacrato tutta la propria esistenza.

Igor Belansky e la Sociatria: illustrazione e mondi individuali e sociali. ANTONIO ROSSELLO su Il Corriere Nazionale il 20 agosto 2022.

La particolare prospettiva in cui muove la ricerca espressiva del noto illustratore genovese.

Igor Belansky ha letto con estremo interesse la mia recente intervista, su il Corriere Nazionale, al dr. Antonio Giangrande, figura poliedrica, scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’”Associazione contro tutte le mafie” e di “Tele Web Italia”, il quale è autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

E proprio le complesse e sofferte battaglie civili condotte da Giangrande sono state motivo di forte coinvolgimento per il noto illustratore, che ispirandosi ad esse ha realizzato la rappresentazione in anteprima. In essa emergono a tutta forza quel suo tipico tratto poco incline ai virtuosismi, lo stile crepuscolare o grottesco che trasmette dissonanze, senza incorrere nella banalità della provocazione. Vi è dunque, piuttosto, il thauma, l’angosciante stupore, la tensione dialettica tra fascino e turbamento nella destabilizzante indeterminatezza delle cose, che spiana la strada alla domanda più che alle risposte, come quando si sprofonda negli oscuri meandri che conducono fino alle più ignote regioni dell’inconscio. Da qui, la voglia di scuotere l’indifferenza, che rappresenta sempre più il male della società moderna.

Evocativo il titolo: “Potere e moltitudine“. Vi si coglie la contrapposizione tra le figure più grandi dei potenti che, con sicurezza ostentata, sovrastano una folla magmatica, disperata, in cui si scorge l’accenno alla morte. Pare la plastica raffigurazione dell’inconscio collettivo, visto come quell’invenzione di Carl Gustav Jung, prestata poi alla teoria politica e delle scienze sociali italiane tra Otto e Novecento, che è più che mai inibita, gettata nell’inazione, eterodiretta in questo tempo postmoderno. Drammatico l’interrogativo: cosa muove l’imprevedibile azione delle «masse» e quali sono le motivazioni profonde che in alcune, eccezionali stagioni spingono gli individui a compiere atti eroici completamente disinteressati o crimini efferati, all’apparenza del tutto irrazionali?

Igor Belansky – Potere e moltitudine

A parte certi, sempre più pochi ed isolati, impavidi paladini della resistenza sociale, ai nostri giorni per la stragrande maggioranza delle persone diventa sempre più difficile prendere posizione o schierarsi. Oggi si è portati ad indignarsi. A sconcertarsi. Ad esprimere giudizi sommari. Ma subito dopo si è capaci di farsi prendere dall’indifferenza. Subentra a quel punto una voluta ignoranza sui fenomeni che ci circondano. Li minimizziamo. Questo non vuole Belansky.

Non a caso, come ho già avuto modo di affermare in un articolo sul settimanale online WeeklyMagazine, nella particolare prospettiva in cui orienta la sua ricerca espressiva, in condivisione con altri esponenti emergenti delle Arti Visive, l’illustratore genovese punta infatti all’affermazione di un concetto, la «Sociatria» (ossia «la cura della società»), attraverso il quale l’Arte può generare una via di verità, alimentando la mente, rieducare o, quantomeno, scongiurare la crescente e pericolosa carenza di pensiero, oltre che tendere ad avvicinare la persona alla virtù, sino a ritrovare in senso un più ampio un rispetto dell’umanità.

Sulla stessa lunghezza d’onda, pare anche essere il sociatra americano John Fordham, che, dal suo gruppo Facebook Sociatry – for societal health., così commenta la summenzionata intervista a Giangrande:

I loved this. I gained the impression that he does what he does, because it’s his calling in life. It’s a “labor of love” which he’s driven to pursue & construct. (tr.: Mi è piaciuto molto. Ho avuto l’impressione che faccia quello che fa perché è la sua vocazione nella vita. È un “lavoro d’amore” che è spinto a perseguire e costruire).

La Sociologia Storica.

Intervista di Antonio Rossello ad Antonio Giangrande. 

1.       Dottor Giangrande, Lei nel suo recentissimo volume “ANNO 2022 LA CULTURA ED I MEDIA SECONDA PARTE” menziona l’illustratore, sempre più spesso prestato alla penna su questa ed altre testate online, Igor Belanky per via del suo articolo “Dittatura” pubblicato da Weeklymagazine il 24 Luglio 2022.  Da cosa è stato colpito? La sua comunicazione sintetica ed essenziale è più efficace delle più lunghe e forbite concioni di altri redattori?

R. In quelle frasi vi è il sunto del rapporto tra Potere e Povertà. I poveri hanno bisogno di speranza. Il Potere promette di realizzarla. Più i poveri sono ignoranti più è grande il laccio che li lega al Potere. Più i poveri rimangono tali e ignoranti più il Potere padroneggia. Per questo il Potere elemosina i poveri, non li evolve in benestanti. 

2.       Non trova che in Italia la gente non legga molto ma parli troppo, cosa poco utile quando bisogna scegliere, decide cosa fare e con chi? La colpa è della scuola, del mondo della cultura, della politica o dei media? O di una crescente indifferenza…? Questi mi pare siano gli aspetti che Lei tratta nel summenzionato volume…

R. Il principio del sostentamento dei poveri ha portato questi a pretendere diritti, non a chiedere, ed allo stesso tempo a non sottostare ai doveri. L’ignoranza porta a parlare, ad ostentare ed imporre, non a leggere ed imparare. Si studia per poter migliorare e per poter dire a chi parla: cosa dici?!?

Purtroppo, poi, se qualcuno cerca di leggere, non trova fonti per poterlo soddisfare. La Cultura ed i Media sono in mano al Potere: economico e politico. Si scrive quello che è permesso: dall’editore; dai partiti di potere composte dalle eminenze grigie di mafie, massonerie e caste e lobby. 

3.       In generale, di cosa si occupa con i suoi saggi?

R. Se Giorgio dell’Arti, con i suoi “Cinquantamila” parla dei protagonisti,

Se Wikipedia riporta la contemporaneità e la storia per argomento o protagonisti.

Se Dagospia, twnews o Msn notizie riportano la contemporaneità per cronologia.

Io con le mie ricerche giornaliere vado oltre ognuno di loro.

Parlo di storia e contemporaneità cronologica, per Tema suddiviso per Argomenti, di fatti e protagonisti.

Mi occupo di tutti gli aspetti del nostro mondo contemporaneo. Racconto il presente ed il passato per poter migliorare il futuro a colui che legge: che sa e parla. Faccio parlare i protagonisti di oggi. Uso fonti credibili ed incontestabili, rapportandoli tra loro in contraddittorio. Uso l’opera di terzi per l’imparzialità. Questo anche per aggirare la censura e le querele.   

4.       E con la Sua web tv? E’ il tentativo di offrire informazione alternativa rispetto al cosiddetto mainstream?

R.  Nei miei saggi parlo degli italiani. La mia web tv è solo rappresentazione dell’Italia, come territorio. L’Italia è bella per quello che è, tramandato dai posteri, che va distinta da chi oggi vi abita.  

5.       Ci può raccontare come è nata quella che mi pare sia la Sua passione civile?

R. Sono figlio di poveri che ha voluto emanciparsi. Volevo elevarmi socialmente. Ciò nonostante: i poveri dal basso ed il Potere dall’alto mi tirano giù. Per i miei genitori, come per tutti i poveri, non vale essere, ma avere. Ed i figli sono braccia prestati allo sfruttamento. Non mi hanno fatto studiare. A 32 anni dopo l’ennesima bocciatura ad un concorso pubblico truccato, ho deciso di studiare per migliorare. Diploma di ragioniere, da privatista 5 anni in uno presso un istituto pubblico e non privato, laurea in giurisprudenza 4 anni in due, presso la Statale di Milano, lavorando di notte per poter frequentare e studiare di giorno. 6 anni di professione forense non abilitato. Abilitazione cercata per 17 anni e mai concessa in esami farsa. La mia ragione non è stata riconosciuta nella tutela giudiziaria, nonostante ad altri nelle stesse condizioni, sì. La mia colpa? Essermi reso conto che la Giustizia non è di questo Stato e in quei 6 anni volevo porre rimedio alle ingiustizie nelle aule del Tribunale. Mi son reso conto che la mafia era dentro quelle aule e non fuori. Oggi non posso rimediare alle ingiustizie, perché non ho potere. Mi rimane solo che raccontarle ai posteri ed agli stranieri. 

6.       Qual è il bilancio della Sua attività in tal senso, presente e passata, nei vari ruoli che riveste?

R. Se parlo al presente è fallimentare. Sono un disoccupato presidente di una associazione antimafia che scrive e viene letto tantissimo in tutto il mondo, anche con le anteprime dei miei libri, ma non vende, perché sono relegato in un angolo dalla P2 culturale: ossia da quella eminenza grigia che non vuole che si cambino le cose, informando correttamente la gente e fa parlare chi sa. In ogni caso ognuno pensa per sé, per questo la gente è interessata ai suoi interessi ed a risolvere i propri problemi, anziché cambiare le sorti dei loro figli. 

7.       Ci può accennare come, dal Suo punto di vista di attento osservatore, appaiono le attuali vicende sulla scena nazionale e internazionale?

R. Da sempre l’essere umano ha sentito l’esigenza di avere la cosa altrui. O compra o ruba. Da sempre vi sono state guerre di conquista. Atti di bullismo nei confronti dei più deboli. A volte si usa l’arma del nazionalismo, altre volte è la religione ad imporre la violenza. La reazione delle forze non schierate è stata quella del menefreghismo e quella dell’utilitarismo. In questo senso tutto il mondo è Italia. Riscontro a mio giudizio delle fazioni.

Quelle che dicono: che me ne fotte a me.

Quelli che dicono: qui ci guadagno.

Pochi sono quelli che per altruismo difendono le vittime dai bulli.  

8.       Una nota metodologica o, se vuole, concetto. Sui siti internet specializzati, i suoi saggi sono quasi sempre categorizzati nel genere “sociologia”. Mi pare che Lei conduce una ricerca sociologica, per denunciare i mali intrinseci, le dissonanze della nostra società contemporanea… nelle sua formazione e nelle Sue motivazioni, forse generazionali,  vi è qualche richiamo alla Scuola di Francoforte,  alla sua Dialettica negativa, Horkheimer,  Adorno, Marcuse…

R. Il socialismo, radice unica dei regimi comunisti, nazisti e fascisti ha usato le masse per poter egemonizzare il mondo. L’uso della religione per manipolare le masse povere per fini politici è anch’esso socialismo. Lo statalismo è il loro strumento, la povertà è l’arnese.

Io credo che, invece, l’individuo deve essere padrone del proprio destino e deve essere messo in grado di decidere per il suo meglio, senza danneggiare gli altri. Tanti individui ben informati, divenuti benestanti, avranno tutto l’interesse ad intraprendere azioni per tutelare lo status quo. I loro rapporti, tra loro e loro con il Potere, saranno regolati da poche leggi. Credo che i 10 comandamenti siano sufficienti a regolare il tutto. 

9.       Ed ancora quale ritiene sia oggi lo stato dell’arte della Sociologia? E’ al corrente dell’esistenza in Italia e all’estero di approcci emergenti alle Scienze sociali, quali la Sociatria, la Sociosofia, la Sociocrazia o la Sociurgia, di cui anch’io ho parlato in precedenti articoli? Che cosa ne pensa, sono destinati a superare, o quanto meno integrare, riformare la Sociologia? Se c’è una Sua via autonoma ed innovativa, come la definirebbe o battezzerebbe con termine sintetico?

R. Io mi definisco sociologo storico: Racconto il presente ed il passato, confrontandoli tra loro per evidenziare delle differenze, ove ci fossero, o per indicare la ciclica apparizione dei difetti, ossia i corsi ed i ricorsi storici. Il tutto affinchè si migliori il futuro. L’individuo colto e correttamente informato è il perno centrale, tanti fanno una massa e ne indirizzano le mosse. Il vero senso di “uno vale uno”. Diversa è la massa pecorile o topile che viene guidata da un pastore o da un pifferaio.   

10.   Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria. Abbiamo appreso di Sue molteplici prese di posizione, in differenti occasioni e sedi, sul tema della giustizia. Può parlarcene?

R. La verità storica è quella reale ed imparziale cercata e trovata attraverso tutte le fonti poste in contraddittorio senza influenze esterne.

La verità mediatica è quella verità propinata come tale ma che è influenzata da interessi economici, politici, o di caste, lobby, mafie e massonerie deviate.

La verità giudiziaria è quella che emerge dalle aule dei tribunali, in cui le prove sono tali se permesse e dove vi è piena disparità tra accusa e difesa. I giudizi sono fonti di interesse clientelare e parentale, di colleganza, di retroguardia culturale. 

11.   Concludendo? Ha dei rimpianti o è contento di ciò che fa?

R. Rimpianti No! Per niente. Contento sì. Da 20 anni scrivo e sono ad oggi circa 350 libri tra tematici ed aggiornamenti annuali.

Da Gesù Cristo in poi, i grandi uomini, che hanno lasciato traccia di loro, non erano riconosciuti tali nella loro epoca. Tantomeno erano profeti nella loro terra.

Io ringrazio la mia famiglia che mi sostiene, affinchè tanto ignorato e osteggiato in vita, tanto sarò ricordato per le mie opere da morto. E si sa, chi si ricorda non muore mai.

La Sociurgia.

La “Zattera della Medusa” e la Sociurgia. Antonio Rossello il 31 ottobre 2022 su Corrierenazionale.net.

Pubblichiamo il testo integrale della relazione del critico d’arte Marco Pennone in occasione dell’inaugurazione della “Sociurgia – dall’Opera d’Arte all’Opera Sociale”, a Bubbio (AT), lo scorso 29 ottobre.

La “Zattera della Medusa” e la Sociurgia di Marco Pennone

Anche chi ha una sia pur sommaria cognizione della Storia dell’Arte, non può non ricordare un’opera che è presente e largamente commentata in tutti i testi scolastici: si tratta de “La Zattera della Medusa”, il gigantesco (cm. 716 x 491) olio su tela dipinto tra il 1818 e il ’19 da Théodore Géricault (1791-1824), conservato nel Museo del Louvre, di cui è una delle più note attrattive; il quadro è diventato un’icona della pittura romantica, arrivando ad esercitare evidenti influenze su artisti del calibro di Delacroix, Turner, Courbet, Monet.

Il mito greco della Gorgone dallo sguardo magnètico non c’entra niente col dipinto: occasione dell’enorme tela fu infatti un episodio di cronaca: il naufragio della fregata francese “Medusa”, nel 1816, davanti alle coste della Mauritania. Molti uomini dell’equipaggio si salvarono sulle scialuppe; altri – quelli della ciurma – s’imbarcarono su una grandissima zattera: di 150 ne rimasero vivi solo 15, dopo giorni e giorni di convivenza forzata in condizioni estreme, inenarrabili episodi di violenza e perfino di cannibalismo. Géricault fece moltissimi disegni preparatori e studiò nei minimi dettagli l’anatomia dei personaggi della zattera, ispirandosi addirittura al “Giudizio Universale” di Michelangelo. Inutile dire che l’opera suscitò una enorme impressione negli spettatori, sia per la sua grandiosità sia per il tragico tema umano e sociale che raffigurava.

Ebbene, questa celeberrima opera mi ha ispirato una metàfora dell’Arte, dei suoi creatori e della “condition humaine”, per citare il capolavoro di André Malraux. Il tutto per fare poi un collegamento con la Sociurgia, intesa come idea e metodo per comprendere tutti gli aspetti della vita, partendo dall’Arte per arrivare ai suoi riflessi sulla Società. Le opere d’Arte (la pittura, la scultura, la ceramica, l’architettura, ma anche le opere letterarie e quelle musicali: insomma, includiamo tutte le Arti, secondo la visione idealistica crociana), i loro Autori ed anche gli spettatori-lettori-fruitori-ascoltatori, cioè tutti noi, sono un po’ come il carico imbarcato su una gigantesca, immensa zattera che solca lo sconfinato Oceano del Tempo e dello Spazio: cioè – come facilmente si può capire – la nostra amata Terra, perennemente in balìa dei flutti e degli eventi atmosferici avversi. Ogni opera – dalle maggiori alle minori o minime, da quelle famose a quelle del tutto ignorate – ha una sua gènesi, una sua storia, un suo messaggio, un racconto di vita vissuta, di pensieri, di sogni: tutte cose ugualmente degne di nota e di attenzione. Alcune opere navigano saldamente, altre vacillano, altre cadono nell’acqua e si perdono. Altre ancora, che sembravano perdute, vengono riportate a galla e restaurate…

Ne abbiamo fatta di strada, da quando i nostri antenati affidavano il loro bisogno di Arte alle pareti delle grotte, musei di pietra. Ci siamo evoluti, siamo cambiati, e l’Arte è cambiata con noi. Dal Figurativo all’Impressionismo; dall’Espressionismo all’Astratto; dall’Informale all’Arte Povera, fino ad arrivare alla “Digital Art”… Ma la funzione dell’Arte resta salda e fedele a se stessa: condividere con gli altri, con la Società, e trasmettere ai posteri, fino ai più lontani pronipoti, la Bellezza, la Cultura, l’Umanità. Senza questi Valori, l’uomo vivrebbe ancora nella Preistoria. Vedere un’opera d’Arte, leggere un libro, ascoltare una musica sono cose che ci fanno crescere, sognare, conoscere i loro Autori e le loro idee, regalandoci in continuazione emozioni e appagando il nostro bisogno interiore di spiritualità. Ogni opera d’Arte racconta il mondo del suo creatore, la sua essenza di uomo o di donna; ci trasmette un  contenuto con il linguaggio universale delle immagini, del colore, dei volumi spaziali, delle parole, delle note, dei gesti, della danza… L’Arte eleva l’uomo verso la conoscenza, la riflessione autonoma, il ragionamento, il dialogo e il confronto con gli altri. Per questo ogni opera d’Arte appartiene alla Sociurgia, in quanto è inserita nella Società in cui è stata concepita (anche quelle che rifiutano ogni inserimento o incasellamento, come ad esempio le opere dei Decadenti); solca l’Oceano sconfinato del Tempo e dello Spazio con l’umanità intera, per arricchire ogni singolo individuo dal punto di vista spirituale e – di conseguenza – tutta la Società come insieme di singoli individui.

Tanta acqua è passata sotto i ponti dal 1953, quando Arnold Hauser, influenzato dall’ideologia marxista, scrisse la “Sozialgeschichte der Kunst und Literatur” (trad. it. da Einaudi, 1955, col titolo limitativo di “Storia Sociale dell’Arte). Secondo i dettami della Sociurgia, dall’opera d’Arte si perviene all’Opera Sociale poiché l’Arte ha una sua natura sociale, è capace di suscitare affetti, sentimenti, moti e stati d’animo, sia positivi che negativi (amore, ira, invidia, gioia, solitudine, superbia, imitazione…): l’Arte è un qualcosa di sociale, di “politico”, in quanto – per richiamare Aristotele – inserita in una “pòlis”, in una “città”, piccola o grande che sia. L’Artista Sociale può modificare la realtà delle cose, generando un “miglioramento”, attraverso il concetto estetico – quanto mai soggettivo e dibattuto – di “Bello” (proprio quella Bellezza che salverà il mondo, secondo Dostoevskj) ed influenzando in tal modo l’ambiente circostante. E l’educazione, in questo processo, ha e deve rivestire un ruolo di primaria importanza, affinché le giovani generazioni siano consapevoli dell’immenso patrimonio che ci è stato trasmesso e sentano il dovere, a loro volta, di trasmetterlo.

Rete Sociale un valore relazionale per il BeneComune in “sociurgia”. Antonio Rossello il 3 novembre 2022 su Corrierenazionale.net.

Andrea Tomasi[i], Consigliere delegato alla Comunicazione e PR Comitato di Comunicazione e Pr – dell’“Associazione FareRete – Innovazione Il Bene Comune – Il Benessere e la Salute in un Mondo Aperto a Tutti – Michele Corsaro” – Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale[ii], rilascia un’intervista in esclusiva alle nostra testate Corriere Nazionale e Stampa Parlamentare. I temi trattati sono il punto di vista dell’Associazione e lo stato delle sue attività rispetto al concetto di “sociurgia” [iii] , oltre elementi quali le “reti sociali” , ossia in ambito sociale l’ampiamente nota accezione di tutte le relazioni esistenti tra persone, anche se queste non necessariamente si incontrano nello stesso momento e nello stesso luogo,  e i “beni relazionali” [iv], come definiti dalla cosiddetta “Sociologia relazionale” (Prof. P. Donati). 

Rete Sociale un valore relazionale per il BeneComune in “sociurgia”

D.1) Qual è oggi a parer tuo la funzione della rete sociale? Può esprimere un valore in termini di “sociurgia”?

R.1) Le reti sociali svolgono a più livelli una funzione di “sociurgia”, contrastando l’individualismo e il relativismo, costruendo una cultura inclusiva e attenta alle differenze e promuovendo società aperte e partecipate. In particolare, oggi le reti sociali sono chiamate a svolgere la loro missione in un mondo che è sempre più “connesso” nella realtà tecnologica, dalla quale esse possono ottenere vantaggi sul piano logistico e comunicativo, e rispetto alla quale possono offrire ai partecipanti una modalità profondamente umana di vivere il rapporto tra persona e rete.

Un primo livello è quello di temperare la spinta all’individualismo, che è tra le principali caratteristiche umane del nostro tempo. Il coinvolgimento in una rete sociale supera le tentazioni di logiche competitive, esclusive, narcisistiche, e offre, anche attraverso un uso competente dei social e di internet, un luogo di una vera socializzazione.

L’esperienza comunitaria delle reti sociali è un antidoto alle community virtuali e costituisce una inversione di rotta rispetto alla disintermediazione di internet, che sostituisce la rete ai corpi sociali intermedi.

Un secondo livello è quello dell’offrire ai partecipanti un luogo di maturazione culturale in cui prendere consapevolezza della complessità dei problemi e superare il relativismo. I fenomeni legati alle trasformazioni sociali, digitali e ambientali presentano una complessità che può essere affrontata solo con un vasto coinvolgimento di energie, sia nella fase del comprendere, che in quella del proporre soluzioni, che nel momento della realizzazione. Le reti sociali sono potenti facilitatori di acquisizione di consapevolezza e di mobilitazione di energie.

D.2) Le civiltà tradizionali erano dure, nondimeno esse arrecavano un reale appagamento agli uomini di essenza tenace che avevano il coraggio di accettare quelle dure condizioni. Gli altri, più deboli, acquisivano tuttavia, all’interno di quell’ambiente, il massimo che potevano raggiungere di accrescimento interiore. Da ciò non consegue però che essi ne ottenessero appagamento.

Le civiltà moderne rifiutano tutto ciò che è sofferenza. Esse cercano di togliere dalla vita dell’uomo tutte le difficoltà, tutti i dolori. Le donne – o gli uomini – sono perfino arrivate a non accettare più le sofferenze della maternità. È una bevanda intollerabile. Le civiltà moderne soccomberanno per questo rifiuto di soffrire?

R.2) Il tema della sofferenza è sfidante per la cultura contemporanea. Il mondo occidentale manifesta una pericolosa deriva di negazione della realtà, quando ritiene di poter eliminare la sofferenza, o perfino la morte, superando con la tecnologia i limiti della natura umana. E quando ciò non è possibile, si preferisce la scorciatoia di eliminare chi è portatore di sofferenza, sopprimendo il nascituro nel grembo della madre o rivestendo di pietosa compassione l’eutanasia. Eppure in quest’epoca si moltiplicano le fonti di sofferenza. Accanto alle sofferenze ben note, che appartengono da sempre alla natura umana, le sofferenze della malattia, della morte, della povertà, della solitudine, della perdita dei diritti umani, si sviluppano forme di sofferenza che prosperano in rete, dovute alla violenza che non è solo verbale e virtuale, ma diventa umiliazione, incitamento all’odio, nei confronti di persone e gruppi sociali, e nuove forme di solitudine provate pur nella connessione permanente. Per rompere il cerchio della sofferenza, che può portare alla distruzione di sé, la via d’uscita non è l’indifferenza ma la costruzione di circuiti di incontro e di accompagnamento, favoriti da reti sociali che generosamente mettono a disposizione risorse di persone, di attenzione, di cura.

D.3) Oltre la nostra che è una società ancora capitalista e alla fine questo sistema mi pare NON abbia funzionato, in una società auspicabilmente più equa, le reti sociali possono assolvere una funzione dell’uguaglianza di possibilità e della ridistribuzione di ricchezza?

R.3) Le reti sociali possono svolgere un compito importante sul versante della creazione di opportunità, soprattutto con interventi nell’ambito della formazione, della promozione culturale e della costruzione di reti di sostegno amicale quando ci fossero situazioni contingenti di difficoltà. L’evoluzione tecnologica rappresenta da questo punto di vista una sfida ancora piena di incognite riguardo alle trasformazioni nel mondo del lavoro, ai cambiamenti del welfare e delle attività di cura. Affrontare il progresso tecnologico con un approccio partecipativo e inclusivo può facilitare la maturazione delle soluzioni migliori dal punto di vista dei costi umani e sociali e può contribuire ad attuare i principi della giustizia sociale, pur in un tempo di profondi e rapidissimi cambiamenti.

D.4) Consideri che la relazione possa rappresentare realtà materialmente emergente, tale da restituire veri e propri “beni relazionali”? In tal senso, qual è la tua esperienza nell’ambito del movimento che presiedi?

R.4) In un tempo ricco di connessioni e povero di relazioni autentiche, l’impegno comune in una rete sociale permette di costruire relazioni con un valore concretamente sperimentabile. L’ accoglienza, la solidarietà, la condivisione, la cooperazione, la progettualità, la generatività sono beni squisitamente relazionali che hanno allo stesso tempo un grande rilievo sociale. E atteggiamenti come l’ascolto, l’empatia, il confronto di idee libero e rispettoso, costruiscono relazioni personali senza le quali sarebbe più difficile ogni prospettiva di convivenza civile. 

NOTE:

[i] Andrea Tomasi, Consigliere delegato alla Comunicazione e PR Comitato di Comunicazione e Pr – dell’“Associazione FareRete – Innovazione Il Bene Comune – Il Benessere e la Salute in un Mondo Aperto a Tutti – Michele Corsaro” – Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale (*), rilascia un’intervista in esclusiva alla nostra testata. Docente dell’Università di Pisa, 69 anni, sposato e padre di tre figli. Ha tenuto vari corsi informatici, tra cui Sistemi Informativi, Progettazione di siti web. Attualmente tiene il Corso di Informatica per le Discipline Umanistiche. Ha diretto importanti progetti nell’ambito dei Beni Culturali e delle iniziative informatiche della Conferenza Episcopale Italiana. Tra le pubblicazioni recenti:

Tomasi. “Intelligenza Artificiale: dall’imitazione alla sostituzione dell’uomo? Prospettive e problemi aperti”. In: A. Fussi, Etica, emozioni, intelligenza artificiale. Ed. ETS, 2021.

Tomasi. “Umanesimo tecnologico: una necessità per l’uomo d’oggi.” PARADOXA, luglio/settembre 2022, pp. 63-76.

Tomasi, “L’ecologia antropocentrica della laudato si’ e l’umanesimo tecnologico di Romano Guardini”, Rivista Idee, Lecce, 2020.

Tomasi. “Una rete per tutti? Abitare la rete per trasformare le community in comunità”, Ed. Pharus, Livorno, 2018.

È membro del Consiglio Direttivo di FareRete InnovAzione BeneComune e di WECA, Associazione Web Cattolici Italiani.

[ii] L’ Associazione FareRete InnovAzione BeneComune, con i suoi progetti e con la sua azione culturale ha sperimentato concretamente nel tempo il valore di operare per il benessere delle persone negli ambiti Salute, Ambiente, Lavoro, Educazione, Diritti e Doveri di Cittadinanza. 

[iii] “Sociurgia”. In alcuni ambienti della società civile, culturali ed artistici si sta discutendo e portando avanti la concettualizzazione di un termine innovativo: «sociurgia» (un nome composto ibrido, latino e greco, che da societas, ossia «società», + έργον, ossia «opera», letteralmente significa «opera sociale»). Si denota quindi una funzione sociale attiva, operante, in cui la promozione e la divulgazione costituiscono una dimensione che sul fronte di cultura, arte, tradizione… inferisce tutto il resto, la conoscenza, la curiosità, la relazione, i valori sociali. Quella interdipendenza naturale, necessaria, etica che non concepisce cultura, arte, ossia tutto ciò che attiene lo spazio dello spirito, appunto, come luogo a parte, elitario e autoreferenziale, ma come bene pubblico. Mezzo comune di progresso e civiltà. Forse nulla di sostanzialmente nuovo, ma una rinnovata dialettica tra contenuti e forme, utile a creare movimento per recuperare dal passato insegnamenti, dalla presente nuova linfa e tentare di oltrepassare contraddizioni sotto gli occhi di tutti.

[iv] In Italia il concetto di “Bene Relazionale” è stato introdotto dal Prof. Pierpaolo Donati, esponente della cosiddetta Sociologia Relazionale, autore di numerose pubblicazioni in materia. Vedasi ad esempio il suo articolo divulgativo: Avvenire, 12 settembre 2019, “Società. Beni relazionali che generano beni comuni”

Società. Beni relazionali che generano beni comuni. Pierpaolo Donati giovedì su Avvenire il 12 settembre 2019. Ci sono beni che non sono né cose materiali, né prestazioni: sono i "beni relazionali"

Da alcuni anni le scienze sociali hanno 'scoperto' un tipo di beni che non sono né cose materiali, né idee, né prestazioni, ma consistono di relazioni sociali, e per tale ragione sono chiamati 'beni relazionali'. Gli esempi concreti sono praticamente infiniti, e vanno dalle relazioni a livello interpersonale fino al benessere sociale di una intera comunità. Si tratta di chiarire che cosa siano queste realtà, come nascano e che cosa a loro volta generano. Interessa capire quale sia l’apporto pratico che questi beni possono dare a una 'vita buona' e a una 'società buona'.

Molti, quando parlano di beni relazionali, pensano ai rapporti interpersonali fatti di simpatia, buoni sentimenti e calore umano. In realtà, i beni relazionali sono molto di più, e anche di diverso, da questo. Hanno un valore economico, sociale e politico, così come una valenza morale e educativa. Di quali beni parliamo? Senza dubbio si tratta di beni come l’amicizia, la fiducia, la cooperazione, la reciprocità, le virtù sociali, la coesione sociale, il perdono dato e ricevuto, la solidarietà e la pace quando non sono il risultato di una tregua o di accordi momentanei fra interessi contrapposti ma consistono nel condividere relazioni di mutuo rispetto e valorizzazione. Possiamo però pensare anche a relazioni societarie molto più complesse, come il clima di lavoro nelle aziende, il senso di sicurezza o insicurezza nella zona in cui abitiamo, le relazioni tra famiglia e lavoro. In tutti questi casi, le relazioni sociali possono essere percepite come beni oppure come mali relazionali.

Di solito siamo tentati di attribuire il bene delle relazioni agli individui, dopotutto sono gli individui che sono amici oppure no, che hanno fiducia negli altri oppure no, che cooperano o meno, che contraccambiano i doni ricevuti o non lo fanno, che sono virtuosi o meno, che sanno perdonare oppure sono vendicativi, e così via. La moralità viene di solito imputata alle singole persone. Ma qui è il punto: senza mettere in dubbio l’importanza della moralità individuale, si tratta di comprendere che non possiamo concepire i beni relazionali come prodotti degli attributi morali delle singole persone, perché nel caso dei beni relazionali la moralità è riferita alle relazioni di cui sono fatti. Fare questo passaggio dall’individuale al relazionale non è semplice.

Prendiamo il caso dell’amicizia. Molti la intendono come una relazione che dipende dalle intenzioni soggettive. Ma non è così. Certamente l’amicizia sgorga dalla persona umana, e solo da essa, ma non può essere un fatto soggettivo. L’amicizia fra Ego e Alter è il riconoscimento di qualcosa che non appartiene a nessuno dei due pur essendo di entrambi. Essa è, come la società, di tutti e due, e al contempo di nessuno di essi. Questa realtà dell’amicizia è un prototipo di una forma sociale che, in via generale, costituisce l’essenza di tutti i beni relazionali. È così che i beni relazionali creano beni comuni. I beni relazionali, però, non sono beni pubblici, così come non sono beni privati. Sono beni comuni in quanto sono relazioni fra consociati. I beni relazionali possono essere prodotti e fruiti soltanto assieme da chi vi partecipa su un piano di adesione e impegno personale.

Sia i beni pubblici sia i beni relazionali sono 'comuni' nel senso di non essere divisibili e frazionabili, ma i primi sono basati su una condivisione vincolata (sharing costrittivo), mentre i secondi sono basati su una condivisione volontaria (sharing scelto). Questa distinzione si riflette nella loro differente relazionalità. Nei beni pubblici non è richiesta ai soggetti partecipanti la stessa relazionalità che invece è richiesta e necessaria nei beni relazionali. Questa diversità è decisiva per la qualità della vita sociale. Nel caso dei beni pubblici, poiché la relazionalità non è richiesta, ciascuno partecipa e usufruisce di questi beni individualmente, per conto proprio (pensiamo alle strade, alle piazze o ai mu- sei), e dunque ciò che è comune lascia separati gli individui come tali. Nel caso dei beni relazionali, invece, essendo la relazione necessaria, viene richiesta una cooperazione, con tutte le difficoltà, ma anche i vantaggi che comporta. a categoria dei beni relazionali illumina in modo nuovo il senso e la portata dei diritti umani. Prendiamo, per esempio, il diritto alla vita (umana). Ebbene, la vita umana è oggetto di godimento e quindi di diritti non in quanto bene privato, individuale nel senso di individualistico, né pubblico nel senso tecnico moderno, ma propriamente come bene comune dei soggetti che stanno in relazione. Quando ci appelliamo, per esempio,

Dal diritto del bambino di avere una famiglia, ci appelliamo ad un diritto che non è né 'privato' (o 'civile' nel senso dei diritti civili emersi a partire dal Settecento), né 'pubblico' (o politico nel senso di statuale), ma è essenzialmente umano. Che categoria di diritti è quella dei 'diritti umani' (distinti da quelli 'civili' e politici)? La risposta è che i diritti propriamente umani sono intrinsecamente relazionali, sono diritti a quelle determinate relazioni che umanizzano la persona. I n ogni caso, il bene relazionale consiste nel fatto che due o più soggetti interagiscono fra loro prendendosi cura della loro relazione condivisa dalla quale derivano dei benefici che essi non possono ottenere altrimenti. Prendiamo il caso della relazione di coppia come bene relazionale. Affinché si istituisca una coppia, i partner si devono dare fiducia reciproca. L’evoluzione della coppia nel tempo è segnata dalla stabilizzazione o meno della fiducia come legame (molecola sociale). Se il legame viene vissuto come bene relazionale, esso darà i suoi frutti, quali sono il benessere e la felicità dei partner, gli eventuali figli, e così via. La fiducia come azione reciproca dei partner è un prerequisito per generare il bene relazionale (il legame condiviso). Quando diventa una struttura stabile di aspettative reciproche sostanzia il bene relazionale dei partner. In breve, la fiducia diventa un bene relazionale quando entrambi i partner, al di là degli stati d’animo e delle azioni di ciascuno, si prendono cura della loro relazione senza mettere in dubbio le aspettative reciproche che la costituiscono.

Non si tratta solo di mettere in evidenza il ruolo di 'collante' del tessuto sociale, di integrazione e solidarietà sociale, che i beni relazionali possono svolgere. Si tratta, anche e soprattutto, di vedere come dai beni relazionali dipenda la stessa identità personale e sociale degli individui, correggendo l’idea diffusa secondo cui l’identità delle persone sia frutto solamente delle loro scelte individuali. In una società che tutti definiscono individualista e liquida, assistiamo all’esplosione delle relazioni sociali, alimentata dalle tecnologie digitali. Le relazioni interpersonali vengono svuotate, e però anche ricreate continuamente. Questo processo genera tanti mali relazionali, e però anche nuovi beni, che non solo dipendono dalle relazioni sociali, ma consistono di relazioni sociali.

·        Il giornalismo d’inchiesta.

Giornalismo 3.0. Cosa vuol dire essere giornalisti oggi. Domenico Ferrara il 10 Novembre 2022 su Inside Over.

Cosa vuol dire oggi fare il giornalista? In un’epoca in cui la disintermediazione e i social la fanno da padroni e in cui la rete ha decuplicato le possibilità di accesso all’informazione da parte di chiunque, la risposta non è affatto semplice. E si schianta con una domanda e una passione per il giornalismo che restano comunque molto alte. Ma quali sono i requisiti che deve avere un giovane che nel 2022 vorrebbe intraprendere questo mestiere? Lo abbiamo chiesto a chi di giovani ne ha visti e ne vede passare davanti ogni anno tantissimi. Venanzio Postiglione infatti oltre a essere il vice direttore del Corriere della Sera è anche fondatore e direttore della scuola di giornalismo Walter Tobagi di Milano.

Cosa vuol dire oggi fare il giornalista?

Vuol dire divertirsi. Sperimentare. Provare a coinvolgere i giovani. Immaginare il mondo nuovo. Siamo nel cuore di una rivoluzione: molto faticoso ma anche entusiasmante.

Qual è il percorso migliore per diventarlo?

Frequentare una Scuola di giornalismo. Sono in tutta Italia e a Milano ne abbiamo tre, legate a Statale (la Tobagi), Cattolica e Iulm. Si entra per merito e si impara il mestiere come è adesso. Importanti e interessanti anche i percorsi delle Academy organizzate dalle aziende editoriali.

A livello formativo c’è una laurea o altro che consiglia?

Giurisprudenza e Lettere su tutte. Ma in realtà va bene qualsiasi laurea e c’è anche una grande richiesta di comunicazione scientifica.

Lei è direttore della Scuola di giornalismo Walter Tobagi, quanto è importante il ruolo delle scuole per chi si avvicina alla professione?

Fondamentale. Per tenere alto il senso e il valore della nostra professione e per formare giovani pronti a tutto: web, carta, video, radio, social. Non c’è luogo dove si possa imparare tanto e in tempi rapidi.

Con la nostra Academy stiamo notando che c’è molta richiesta di formazione e di qualità a prescindere dai canali tradizionali, si iscrivono molti. Può essere una strada utile per coltivare talenti?

Sì. Sicuramente si. I cacciatori di talenti sono i veri benemeriti del nostro Paese. La frattura tra competenze e aziende si rimargina anche con le Academy e sempre con la formazione.

È importante saper utilizzare tutti i mezzi di comunicazione o è meglio approfondirne uno?

Tutti. Perché ogni cosa potrà servire. Con il digitale al primo posto.

Lo stesso discorso può valere per le aree di competenza: meglio avere uno spettro più ampio o puntare sulla verticalità?

Il giornalista, il comunicatore deve orientarsi in ogni campo. E poi, certo, una competenza specifica e molto approfondita può fare la differenza.

Dal punto di vista economico è ancora una professione che lei consiglierebbe a un giovane e perché?

Così così. L’aspetto economico non è quello di un tempo. Ma chi è veramente bravo andrà sempre avanti, sono fiducioso.

Qual è lo stato attuale dell’informazione on line secondo Lei?

Una lunga fase di passaggio. Ma il pubblico ha capito che l’informazione digitale di qualità va pagata, e non parliamo di cifre alte. Siamo sommersi dalle informazioni ma abbiamo l’esigenza, vitale, di capire cosa è vero e cosa è falso. Siamo entrati nell’epoca della fiducia. Bene così, senza spaventarsi.

Come immagina il mondo dell’informazione tra vent’anni? Che ruolo avrà internet?

L’informazione autorevole e credibile vincerà. Internet sarà la regina assoluta e i giornalisti professionisti ci saranno. Non semplice. Ma le grandi sfide sono così, si fa una gran fatica.

Pensa che i social network sostituiranno le testate tradizionali e che il giornalista debba puntare solo sul brand personale?

Le testate tradizionali possono farcela se portano avanti tutte le piattaforme, allo stesso tempo, con gli investimenti giusti sul digitale. Il brand personale è un aspetto del mondo nuovo: purché sia giornalismo e non cabaret. 

"Il giornalista d'inchiesta come un investigatore". Parola di un ex agente della Digos. Agente e analista per la Digos Gianluca Prestigiacomo, racconta la sua esperienza. E sarà uno degli ospiti della Academy di InsideOver. Gianluca Zanella il 4 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Passare oltre trent’anni tra le fila della Digos per poi diventare giornalista. È esattamente ciò che ha fatto Gianluca Prestigiacomo, per certi versi un unicum. Agente e analista per la Digos di Venezia dagli anni Ottanta fino al 2021, nella sua carriera ha attraversato fasi delicate della nostra storia repubblicana. In prima persona, tanto per citarne alcuni, si è occupato di casi particolarmente spinosi come lo scandalo Iran – Contras, che ha visto nell’Italia un importante crocevia; si è occupato del traffico d’armi tra il nostro paese e l’ex Jugoslavia; si è occupato di Brigate rosse e di eversione nera, affiancando il magistrato Felice Casson in importanti inchieste che hanno toccato l’organizzazione semi-clandestina Gladio, la strage di Peteano e quella di Piazza Fontana, nell’ambito della quale, per un certo periodo, si è occupato della custodia di Carlo Digilio, lo “zio Otto”, artificiere dell’ordigno che ha dato il via alla cosiddetta strategia della tensione. In un recente libro, Prestigiacomo ha anche raccontato l’esperienza che più di tutte l’ha segnato nel profondo: il G8 di Genova dove, alla testa del corteo delle Tute bianche di Luca Casarini, ha assistito alla genesi dei violentissimi scontri che hanno portato alla morte di Carlo Giuliani. Una carriera intensa, costellata di importanti successi professionali e di immancabili intrighi da cui ha sempre cercato di tenersi alla larga, operando nel pieno rispetto delle istituzioni e con grande senso del dovere. Eppure Prestigiacomo non ha mai nascosto la sua vera passione: quella per il giornalismo, al punto che, una volta andato in pensione, non ha aspettato neanche un giorno e si è buttato a capofitto in una nuova avventura professionale. Ospite del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver nella prima giornata, quella del 15 ottobre, gli abbiamo fatto qualche domanda.

Da studente credevi che il tuo destino sarebbe stato quello di lavorare in una redazione, invece sei finito nella Digos. Ci racconti com’è andata?

È stata una decisione maturata nell’ambito delle mie “scorribande” giovanili, o meglio, del mio impegno politico da studente. Ero iscritto alla Figc, all’epoca noi studenti eravamo molto coinvolti da quello che accadeva tutto intorno a noi, dallo scenario politico particolarmente complesso della fine degli anni Settanta. Durante le manifestazioni notavo spesso la presenza di agenti in borghese di quello che prima era l’Ufficio politico e che poi è diventato Digos. Ero affascinato dal ruolo che svolgevano, un ruolo di mediazione per cercare di non far sfociare le manifestazioni in exploit di violenza. Poi un giorno, semplicemente, sono stato avvicinato da uno di loro. Io, studente di sinistra, vengo arruolato da quella branca della polizia da sempre considerata di destra. Sin da subito mi sono accorto di quanto ciò non corrispondesse alla realtà. Nonostante questo non ho mai abbandonato la mia passione per il giornalismo e nel 2007, mentre ero ancora in servizio, mi sono iscritto all’ordine.

Di casi come il tuo non devono essercene molti: un agente Digos impegnato in attività molto particolari che, allo stesso tempo, coltiva la passione per il giornalismo. Nella tua attività, qual è stato il rapporto con la stampa?

Il mio rapporto con i giornalisti è sempre stato un rapporto d’ufficio, più che personale. Nonostante questo ho sempre avuto rapporti cordiali e di stima e ancora oggi sono rimasto in contatto con dei giornalisti con cui ho avuto a che fare negli anni della mia attività. Al di là dei rapporti, in alcuni casi c’è stata collaborazione. Ho sempre sostenuto – e i fatti mi hanno dato ragione – che un buon rapporto con i giornalisti, anche a volte di tipo personale, è importante. O meglio, è importante che almeno un bravo giornalista sia a conoscenza di quello che si sta facendo in ambito investigativo, perché qualora dovesse accadere qualcosa, almeno c’è qualcuno che sa. Chiaramente dev’esserci fiducia, una fiducia costruita nel tempo, dove ciascuna delle due parti – inquirente e giornalista – resti nell’ambito delle proprie competenze, senza forzature e senza che uno dei due venga “usato” dall’altro. Un giornalista può scrivere quello che vuole, anzi, dovrebbe essere la regola, la libertà di stampa dev’essere al primo posto, però nel rapporto tra organi inquirenti e giornalismo intervengono altre dinamiche. Se il giornalista viene a conoscenza di meccanismi investigativi in atto, certamente può fare uno scoop e darne notizia. Ma a quel punto potrà dire addio a qualsiasi collaborazione con gli inquirenti. Se al contrario saprà aspettare il momento giusto, beh, questo è il primo passo verso un percorso fatto di reciproca fiducia e lealtà.

Ti è mai capitato un caso in cui un’attività giornalistica d’inchiesta abbia dato importanti spunti per voi investigatori?

Certo, per ovvi motivi di riservatezza mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Quello che posso dire è che ci sono stati degli ambiti specifici in cui l’attività giornalistica è stata importante e anche d’aiuto. I giornalisti e le giornaliste d’inchiesta, almeno quelli e quelle che ho conosciuto io, spesso hanno delle motivazioni talmente forti, una determinazione tale che svolgono un lavoro investigativo quasi alla pari di quello degli investigatori veri e propri.

Tu sei stato in prima fila al G8 di Genova. Essendo in borghese, hai preso anche delle manganellate e hai potuto vedere con i tuoi occhi l’inferno. In quell’occasione, nei giorni e nei mesi successivi, come si è comportato il giornalismo?

La stampa in quell’occasione ha fatto il proprio mestiere. È stato grazie alla stampa se certi fatti sono emersi. Penso alle violenze alla caserma di Bolzaneto. Anzi, se devo dire come la penso, è stata quella una delle ultime occasioni in cui la stampa ha dato davvero prova di libertà. Poi le cose sono cominciate a cambiare.

Cosa intendi?

Sostengo che ci siano due diversi modi di fare giornalismo. C’è chi si accontenta, chi fa l’impiegato e si limita a timbrare il cartellino. E poi c’è il reporter, il giornalista d’inchiesta. Ecco, da dieci anni a questa parte, ma forse anche di più, i primi sono diventati più dei secondi. E questo per una ragione molto semplice: le redazioni non investono più sulle qualità dei singoli, non rischiano più, sono diventate molto spesso pavide. È un male tutto italiano, questo. Le testate sono troppo spesso vincolate a una fazione politica e questo incide pesantemente sulla qualità del giornalismo, ma non solo. Si tratta proprio di una questione economica e legale: le testate non hanno più la voglia o la possibilità di finanziare un lavoro d’inchiesta e, soprattutto, non offrono la necessaria copertura legale. Parlo di questo con cognizione di causa.

Spiegaci meglio...

Il giornalismo d’inchiesta dà fastidio, c’è poco da fare. Spesso il lavoro dei giornalisti è inibito dalla minaccia di querela. A quel punto il direttore impone uno stop. L’ho vissuto sulla mia pelle. Qualche tempo fa ho proposto a un importante giornale un lavoro d’inchiesta piuttosto delicato e molto ben documentato. Inizialmente c’è stato interesse, poi sono iniziati i tentennamenti, alla fine, nel corso di una telefonata, il mio referente mi ha detto “se te la senti, vai avanti”. In pratica mi ha comunicato sottilmente che il giornale non si sarebbe assunto la responsabilità di fronte alle possibili, anzi, più che probabili querele. A quel punto chi me lo faceva fare?

«Un osservatorio su informazione e democrazia per difendere le nostre libertà». Il segretario generale di Reporters sans frontières presenta la nuova iniziativa: «Contro la minaccia delle intelligenze artificiali, per costruire uno spazio digitale che possa liberarci dal controllo delle grandi potenze commerciali private e dei regimi dispotici». Christophe Deloire su L'Espresso il 22 Settembre 2022.

Creare un nuovo Osservatorio potrebbe sembrare una sorta di scappatoia. Quante organizzazioni, istituite cogliendo l’opportunità del momento, non fanno altro che soffermarsi sulla realtà, osservarla con il binocolo o la lente di ingrandimento, per evitare di passare concretamente all’azione? La creazione di un Osservatorio può anche, a volte, rappresentare una manovra tattica per guadagnare tempo, trascinare per le lunghe una questione spinosa, fiaccare volontà e velleità collettive, per evitare, infine, di risolvere un problema. Ma «nessun problema può essere risolto nell’assenza di soluzioni», diceva un politico passato alla storia, e per questo motivo un Osservatorio potrebbe, in realtà, rivelarsi ben prezioso.

Tuttavia, per risolvere i grandi problemi a cui l’umanità è confrontata, non ci servono nuove strutture che girano, infruttuosamente, su se stesse. Dobbiamo, invece, rivelare e spiegare urgentemente la gravità dei problemi che ci attanagliano, per offrire nuovi punti di riferimento e cercare di mettere d’accordo, nella misura del possibile, il maggior numero di attori coinvolti, incitandoli ad agire, se questo è ciò che la situazione richiede. Chi potrebbe oggi affermare che il Gruppo internazionale di esperti sul clima (IPCC) è un organismo inutile? Questo ci offre elementi difficilmente contestabili sull’aumento generale delle temperature e sui possibili scenari che ci attendono, ed è anche diventato il fulcro di una nuova mobilitazione.

Come ha dichiarato il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, in occasione di una riunione con il Forum sull’informazione e la democrazia e con Reporters sans frontières (RSF), nello scorso mese di dicembre: «Inizio veramente a pensare che vi è oggi una minaccia per l’umanità ancora più grande del riscaldamento climatico…e questa minaccia è l’intelligenza artificiale». Ora, se vogliamo evitare un’accelerazione della perdita del controllo democratico sulle nuove tecnologie, dobbiamo mettere insieme tutte le ricerche effettuate al riguardo nel mondo, produrre, in altre parole, una «meta-ricerca». E creare una sorta di “IPCC del caos informativo”.

L’Osservatorio sull’informazione e la democrazia, la cui struttura sarà presentata questa settimana a New York, e che sarà formalmente istituito nei prossimi mesi, avrà come compito quello di produrre una valutazione periodica dell’universo dell’informazione e della comunicazione, della sua struttura, evoluzione e del suo impatto sui processi democratici. Questo osservatorio potrebbe così diventare un collegamento tra due mondi che, spesso, non parlano la stessa lingua: quello della ricerca e quello della politica. Se necessario, potrebbe anche trasformarsi in un’agenzia di rating delle piattaforme digitali. Questo organismo, concepito da un gruppo presieduto da Angel Gurría, ex segretario generale dell’OCSE, e da Shoshana Zuboff, autore del best-seller Il capitalismo della sorveglianza, e di cui faceva parte anche Maria Ressa, insignita del premio Nobel per la pace 2021, offrirà ai responsabili politici una chiave di lettura comune sullo stato della ricerca attuale e offrirà uno slancio nuovo alla mobilitazione collettiva.

Tutto questo non è, tuttavia, un fine in sé. L’obiettivo non è di sapere in che salsa algoritmica saranno mangiate le nostre democrazie, e non è neanche quello dello scontro. La vera vocazione di questa iniziativa è quella di costruire uno spazio digitale che possa liberarci dal controllo delle grandi potenze commerciali private e dei regimi dispotici. Come? Riunendo i governi dei paesi democratici affinché lavorino insieme all’emanazione di direttive per regolamentare quel vuoto normativo causato dall’incredibile velocità dei processi evolutivi e dei cambiamenti di paradigma. Al di là del diritto, manca la stessa dottrina giuridica, ed è proprio questo vuoto che siamo chiamati oggi a riempire.

In quattro anni, siamo già riusciti ad ottenere l’avvio di un Partenariato sull’informazione e la democrazia, sottoscritto da 45 paesi, a cui si aggiungeranno presto altre nazioni: un testo che definisce alcuni principi generali per lo spazio globale dell’informazione e della comunicazione. Abbiamo, inoltre, creato un organismo di applicazione guidato dalla società civile: un Forum sull’informazione e la democrazia, che ha, appunto, come obiettivo la nascita di un nuovo Osservatorio, e che ha iniziato a fornire ai governi dei paesi democratici le basi normative per una nuova regolamentazione comune.

Le prime 350 raccomandazioni del Forum, che sono servite come base per le nuove disposizioni delle istanze europee, già adottate o che lo saranno presto, saranno discusse a livello internazionale dai ministri degli Affari esteri di numerosi paesi, durante il secondo Vertice per l’informazione e la democrazia (il 22 settembre a New York). Durante questo incontro, organizzato dalla Francia in concomitanza con l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sarà avviata anche una discussione sulle modalità di contrasto alle “infodemie” e su un “New Deal per il giornalismo”.

Gli Stati saranno sufficientemente proattivi nella ricerca di soluzioni in grado di salvare le nostre democrazie? Ormai, non basta più deplorare o condannare le evoluzioni che stanno mettendo a repentaglio i nostri processi di deliberazione e le nostre libertà. I nostri governi e presto, se questo sarà possibile, anche i nostri parlamenti disporranno di un quadro normativo ad hoc e, grazie all’Osservatorio, anche di un organismo che lo tutelerà. La creazione di “gruppi tecnici”, costituiti dalle amministrazioni competenti, è già prevista. Il caos informativo non è ineluttabile. Ci basta, per contrastarlo, seguire il filo della costruzione democratica, ed imporla anche allo spazio digitale.

Christophe Deloire, presidente del Forum sull’informazione e la democrazia e segretario generale di Reporters sans frontières (RSF)

Giornalisti e procure: l’inchiesta sotto indagine”. Il caso di Paolo Mondani di Report. Roberto Rinaldi su Articolo21 il 27 Settembre 2022

L’acronimo DIG sta a significare Documentari Inchieste Giornalismo, e si riferisce al DIG Festival 2022 “Stay Gold” il più importante festival europeo dedicato al giornalismo investigativo e di reportage che si è tenuto a Modena dal 22 al 25 settembre scorso dedicato a Populismi e democrazie, crisi politica e climatica, libertà di espressione, diritti civili e focus sull’Italia al voto: sono questi i temi su cui si sono concentrati oltre 80 eventi, tra workshop, anteprime cinematografiche, incontri sull’arte e concerti. Nei quattro giorni della manifestazione si è parlato di conflitti, propaganda e giornalismo, delle grandi crisi del tempo in cui viviamo attualmente, di autoritarismo tecnologico.

Un’edizione dedicata alla memoria di Matteo Scanni giornalista, documentarista, a lungo direttore della Scuola di Giornalismo dell’Università Cattolica prematuramente scomparso il 27 gennaio scorso. Alberto Nerrazzini, giornalista investigativo è il presidente di DIG che nella presentazione del programma ha confermato «il supporto al giornalismo investigativo e la crescita della sua grande comunità composta da autori, giornalisti e cittadini che non si accontentano e vogliono essere consapevoli, informati, liberi e incorruttibili»

Di particolare interesse i talk come “My life undercover. Giornalisti sotto copertura” con Mads Brügger, Sacha Biazzo, Alberto Nerazzini, Corrado Formigli, e “Giornalisti e procure: l’inchiesta sotto indagine” con Giorgio Meletti, Giuseppe Giulietti, Alberto Nerazzini, Paolo Mondani, Fabrizio Franchi che già dalla presentazione aveva le caratteristiche di un dibattito incalzante su quanto è difficile per i cronisti che si occupano di inchieste in una nazione dove la ricerca della verità dei fatti viene ostacolata: «La solitudine troppo silenziosa dell’inchiesta in Italia. Partendo dal caso paradigmatico, nel maggio scorso, della Procura di Caltanissetta che ordina ai militari della Dia, nelle ore immediatamente successive alla messa in onda di una nuova inchiesta sulla Strage di Capaci, di perquisire l’abitazione e la redazione di Paolo Mondani, inviato di Report Rai3, sequestrando anche telefonini e computer, un incontro per fotografare e denunciare il declino dell’informazione nel nostro Paese.

Libertà di espressione, tutela delle fonti, segreto professionale. Ma anche indipendenza, autocensura, tutele legali e contrattuali del giornalista». Ad introdurre il dibattito è intervenuto Alberto Nerazzini che ha messo subito il dito nella piaga: «Le Procure non indagano più. Il sistema Giustizia in Italia è allo sbando anche se sulla carta abbiamo il sistema giudiziario migliore». Proiettato sullo schermo in alto al tavolo dei relatori appariva il “Decreto di perquisizione locale e personale e sequestro” della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta. Direzione Distrettuale Antimafia, commentato così dal presidente di DIG: «In poche righe è rappresentato il dramma di mette sotto indagine chi indaga».

Paolo Mondani è giornalista professionista. Ha lavorato per quotidiani italiani e network italiani ed esteri. Per la Rai, nel 1997, ha collaborato agli Speciali di Raidue. Inoltre, tra il 1999 e il 2002, ha lavorato come inviato per Circus, Raggio Verde, Sciuscià, Emergenza Guerra e Sciuscià edizione straordinaria. Nel 2003 è inviato e coautore di Report, su Rai Tre. Nel 2006 collabora, come inviato, ad AnnoZero su Rai Due. Dal 2007 è di nuovo nel Team di Report. Autore dell’inchiesta andata in onda su Report il 30 maggio 2022 “La pista nera” che ha svelato la presenza di Stefano Delle Chiaie, il fondatore di Avanguardia Nazionale, sul luogo della strage di Capaci del 23 maggio del 1992 e i suoi contatti con esponenti mafiosi. «Il 29 aprile, un mese prima che il mio servizio venisse trasmesso da Report, vengo convocato dalla Procura di Caltanissetta e mi viene detto che “sto facendo un lavoro che do fastidio” alla presenza di un gruppo di sostituti procuratori e di uno dell’Antimafia nazionale.

La cosa singolare è che io – racconta Paolo Mondani – non avevo ancora mandato in onda nulla. Mi chiedono cosa io avevo intenzione di far vedere in televisione e mi anticipano, testuali parole che “tutto quello che verrà trasmesso verrà smentito dalla Procura”. Nel servizio si parla di eventuali mandanti della strage di Capaci e nelle indagini che coinvolgevano eventuali mandanti ed esecutori si era trascurato un particolare importante, quello della presenza di Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale coinvolto nella strategia della tensione e deceduto nel 2019. Le indagini condotte anche prima della strage in cui perse la vita Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, presagivano cosa sarebbe poi accaduto. Un collaboratore di giustizia non viene creduto e spariscono le prove. La compagna di questo uomo è la sorella dell’autista di Delle Chiaie e racconta che spesso andava a Palermo dove si incontrava con boss mafiosi».

Nella informativa scaturita da quell’incontro veniva dichiarato il coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie nella strage di Capaci del 23 maggio 1992. L’ex brigadiere Walter Giustini ascoltato dalla procura nazionale Antimafia aveva spiegato che sarebbe stato possibile arrestare Totò Rina 13 mesi prima della strage ma una parte della magistratura ha scelto la strada della restaurazione, della sedazione narrativa. Quello che è accaduto a Palermo è una storia di documenti spariti, di nascondimento delle prove. Paolo Mondani racconta con estrema pacatezza quanto è accaduto prima che il suo servizio giornalistico per Report andasse in onda: «Sono stato pedinato, registrato, intercettato». 

A fronte delle proteste dell’Ordine dei Giornalisti e della Federazione della Stampa, della redazione di Report, il decreto di perquisizione viene ritirato ma resta l’amarezza di vedere come il lavoro di un giornalista che indaga venga osteggiato da chi dovrebbe avere tutto l’interesse di arrivare alla verità sulle stragi di mafia. Giorgio Meletti ha lavorato per numerosi giornali tra i quali Il Secolo XIX, Il Mondo, Corriere della Sera, Tg La7, Il Fatto Quotidiano e, negli ultimi due anni scrive per il Domani. «Mi vanto di entrare nei palazzi di giustizia solo come imputato in considerazione che non mi occupo di cronaca giudiziaria ma di economia. Purtroppo noto che il giornalismo giudiziario tende a sminuire e a non irritare le sue fonti, che non sono altro che i giudici. Ci sono atti giudiziari che erano stati depositati due anni prima che cadesse il ponte Morandi di Genova e solo sul Fatto Quotidiano, dove a quel tempo lavoravo, erano stati pubblicati. Purtroppo c’è una normalizzazione e i giornalisti giudiziari sono allo stesso tempo carnefici e protagonisti».

La parola poi è passata a Giuseppe Giulietti che ha spiegato come si percepisca «l’assenza di dibattito e che prima della Rete esiste l’Agorà. Come dice bene il fratello di Giancarlo Siani (ucciso a Napoli nel 1985, ndr) “bisogna arrivare il giorno prima e non dopo”. Il giornalismo d’inchiesta non è sotto attacco solo in Italia ma è un problema internazionale e penso a Putin, Bolsonaro, Steve Bannon. Una delle cause è quella della disintermediazione perché il mediatore dell’informazione diventa un ostacolo». Il presidente della Federazione nazionale della stampa ha fatto poi una proposta per quanto accaduto a Paolo Mondani: «Un esposto alla Procura per quello che ha subito perché il pedinamento e le intercettazioni a suo carico sono illegali». Il dibattito si è concluso con l’intervento di Fabrizio Franchi consigliere nazione dell’esecutivo dell’Ordine dei Giornalisti. «Noi giornalisti siamo soli e non abbiamo chi ci tutela. Subiamo il peccato originale che deriva dalle inchieste su Tangentopoli. Purtroppo è saltata la politica e subiamo anche le querele temerarie», ricordando che anche nel suo caso aveva subito una querela che si era trascinata per anni in Tribunale.

Il rapporto tra i media e la giustizia? Complicato e non sempre corretto. Gianluca Zanella su Inside Over il 20 settembre 2022.

Spesso si parla del rapporto tra i media e casi di cronaca, interrogandosi su come i primi possano influenzare – in modo tanto positivo quanto negativo – i secondi. Certamente non è un tema semplice, le sfaccettature sono molte e non è possibile delineare uno schema preciso. Ne abbiamo parlato a lungo con tre interlocutori molto particolari, tutti prossimamente ospiti del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver: Giada Bocellari, avvocato di Alberto Stasi [in carcere con l’accusa di aver ucciso la sua fidanzata, Chiara Poggi, ndr], Gabriele Bardazza, consulente che da 25 anni ricostruisce eventi catastrofici per consulenze tecniche in ambito penale e civile [disastro del Moby Prince, incendio del Norman Atlantic, ecc, ndr] e Massimiliano Gabrielli, avvocato cassazionista del foro di Roma, specializzato in difesa di parte civile in processi sui disastri e mass tort [protagonista, tra gli altri, nel processo penale sulla Costa Concordia, Rigopiano, torre piloti di Genova e Strage di Viareggio, ndr].

Punti di vista spesso convergenti, ma con significative differenze. In ogni caso, molto interessanti per capire come il mestiere del giornalista venga interpretato da attori fondamentali all’interno di un’inchiesta da sviluppare. La prima domanda l’abbiamo posta all’avvocato Bocellari, chiedendole se, dal suo punto di vista, ci sono stati casi in cui i media hanno indirizzato negativamente l’andamento di un processo:  “Si. Il delitto di Cogne [l’uccisione del piccolo Samuele per cui è stata poi condannata sua madre, Annamaria Franzoni, ndr] è stato il primo caso che a livello di avvocatura si è studiato in questo senso. È stato il primo caso mediatico per come lo intendiamo oggi, seguito poi dal delitto di Novi Ligure [Il massacro di una donna e di suo figlio da parte degli allora adolescenti Erica e Omar, ndr]. Da lì si è iniziato a capire che certe tematiche potevano interessare il pubblico. Invece che leggere il giallo c’era il caso di cronaca nera da seguire passo dopo passo, soltanto che il problema, secondo la mia personalissima opinione, è che non si riesce a distinguere la cronaca giudiziaria da qualcosa che invece non è cronaca, ma è fiction”.

Un’esperienza, la sua, vissuta in prima persona, da quando – prima lavorando per lo Studio Giarda, poi in autonomia – ha iniziato a occuparsi dell’omicidio di Garlasco. Da quel momento, suo malgrado, anche l’avvocato Bocellari si è vista più volte sotto i riflettori: “Ci sono programmi televisivi, per esempio, che non fanno cronaca giudiziaria, ma qualcosa di diverso. Programmi che hanno iniziato a fare un processo parallelo, pubblico, che è molto più veloce di un vero processo. I tempi della giustizia, che tu faccia l’abbreviato o che tu vada in Corte d’assise, comunque richiedono mesi. Il processo mediatico è immediato, perché innanzitutto i concetti vengono banalizzati, vengono depurati da tutte le questioni che sono tipiche del processo penale. A me è capitato più di una volta di parlare con dei giornalisti e dire “scusate, ma dal punto di vista tecnico quello che dite non è corretto. La risposta è “ma questo la gente non lo capirebbe”. Se tu fai un processo parallelo a quello penale, togliendo però tutte le garanzie che l’imputato può avere, non spiegando i tecnicismi che invece dovresti spiegare, allora cosa stai facendo?”.

“Il tema è molto complesso”, aggiunge l’avvocato Bocellari, “e richiederebbe una tavola rotonda vera, seria e tra più competenze. Parto dal presupposto che io sono profondamente convinta dell’importanza del giornalismo in generale e soprattutto della cronaca. È fondamentale, è un diritto di tutti quello di essere informati di quello che accade nelle aule. Il problema è più etico. I giornalisti dovrebbero capire dove finisce la cronaca e dove inizia qualcosa che è tutt’altro. Mi ricordo che parlando con esponenti di un noto programma televisivo, che è in un certo senso l’emblema della deriva di cui sto parlando, dissi “vi rendete conto che voi di fatto consentite che delle persone vengano condannate ancora prima di essere processate?” la risposta è stata “con il nostro share teniamo in piedi la rete”. Come a dire: dei diritti del tuo assistito non ce ne frega niente. Il problema è informare o tenere alto lo share? Siamo su due piani diversi”.

Sul tema del rapporto media/verità è molto interessante il punto di vista di Gabriele Bardazza che, tra le varie attività di cui è stato importante attore, ha fatto parte dell’ultima Commissione d’inchiesta sul disastro del Moby Prince, fornendo, assieme agli altri membri, un contributo fondamentale per il raggiungimento di una verità reclamata dai parenti delle vittime per 31 anni: “La narrazione dei fatti”, ci dice Bardazza, “qualche volta diventa una narrazione tossica, ovvero una narrazione che introduce degli elementi che – proprio per l’abilità del giornalista – risultano poi essere estremamente suggestivi e che magari in qualche misura possono anche essere veri, ma che poi distolgono da quella che è la verità”.

Si sta parlando, in questo caso, dell’eventualità che un convincimento del giornalista possa influire sul suo lavoro di divulgazione. Una trappola in cui è molto facile cadere e da cui è invece difficile uscire, se non a costo di mettere in discussione il proprio lavoro e fare mea culpa. Gabriele Bardazza porta come esempio proprio quello della narrazione sul disastro del Moby Prince: “Nell’immaginario collettivo, ancora oggi, si è trattato di un evento determinato dalla presenza di nebbia e per la distrazione dell’equipaggio intento a guardare una partita di calcio. Questi due elementi – il primo entrato in qualche misura nel processo, il secondo neanche mai comparso su un documento – hanno influito pesantemente nell’accertamento della verità”.

Soffermandoci su questo punto specifico, abbiamo chiesto al dott. Bardazza se, dal suo punto di vista, certe notizie “depistanti” [e si sottolineano le virgolette, ndr] nascano per caso o se talvolta emerga il sospetto che il/la giornalista di turno si sia prestato a un gioco perverso con consapevolezza: “È un bel tema. Io penso che in alcuni casi possano essere somministrate delle false notizie. Ma nel caso del Moby Prince credo si sia trattato solo di una leggerezza. Nello specifico, il giorno dopo il disastro, un giornalista del Tg1, in chiusura del servizio, disse che al momento della collisione tra il traghetto e la petroliera Agip Abruzzo era in corso una partita di calcio. E pose in forma dubitativa il fatto che, forse, l’equipaggio potesse essersi distratto. Questa supposizione cristallizzò nella mente dell’uditorio un fatto in realtà indimostrabile e del tutto fuorviante rispetto poi all’accertamento dei fatti”.

Ricordiamo, infatti, che il lavoro dell’ultima Commissione d’inchiesta ha stabilito in modo lapidario che a determinare il disastro non è stata né la nebbia né tantomeno la distrazione dell’equipaggio, bensì una manovra disperata per evitare la collisione con un terzo naviglio, al momento ancora non identificato, che il Moby Prince ha trovato improvvisamente sulla sua rotta di navigazione.

“Ci sono tanti altri casi”, aggiunge Bardazza, “in cui la narrazione di alcuni fatti assolutamente veri ha poi oggettivamente allontanato o fatto focus su una verità che in realtà non aveva niente a che fare con la verità vera”.

Anche lui – che del caso si è occupato – cita a esempio il delitto di Garlasco: “Pensiamo alla questione delle impronte latenti delle scarpe di Alberto Stasi nella villetta in cui si è consumato il delitto: Il 5 settembre 2007 [l’omicidio avviene il 13 agosto precedente, ndr] vengono fatti i rilievi sul pavimento per trovare le impronte latenti di Alberto Stasi. Nel momento in cui emerge il fatto che su quel pavimento le impronte non sono visibili, sui giornali la notizia che passa è “non ci sono le impronte di Alberto Stasi”. Sembra un dettaglio, ma cono due concetti profondamente diversi. 1) non le vedo 2) non ci sono. La conclusione che ne viene data è immediata: quindi Stasi non è mai entrato da scopritore in quella casa, ha mentito. Questo passaggio segna il processo in maniera significativa”.

Bardazza però non demonizza la stampa e, nello specifico, il giornalismo d’inchiesta. Tutto il contrario. E per dimostrare quanto esso sia importante talvolta per il disvelamento della verità in casi controversi, cita un altro famoso caso: “Pensiamo alla vicenda di Hashi Hassan, incarcerato per l’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e scagionato grazie a un’inchiesta di Chiara Cazzaniga, che ha svolto una vera e propria attività investigativa, ha messo in fila gli elementi, si è accorta che qualcosa non tornava ed ha approfondito. Ecco, quando il giornalista ha acquisito tutto il materiale su un caso e ha avuto modo di studiarlo, quando dietro un servizio giornalistico c’è un lavoro rigoroso, serio, che non punta al sensazionalismo…  allora sì che si può parlare di vero giornalismo d’inchiesta”.

Diventa ancora più interessante, a questo punto, ascoltare cosa pensa l’avvocato Massimiliano Gabrielli sul tema. Interessante perché, nel panorama giudiziario italiano, Gabrielli rappresenta per certi versi un unicum, certamente il precursore di un certo modo di intendere il mestiere di avvocato. Al centro di grossi casi in qualità di avvocato di parte civile, confrontandosi spesso con veri e propri colossi e mettendo in atto non solo una difesa verso i più deboli, ma quasi una battaglia ideologica per punire questi colossi con l’unico linguaggio che conoscono – quello del denaro – Massimiliano Gabrielli ha sperimentato in tempi non sospetti un metodo per unire al mestiere da avvocato nella sua veste classica un’appendice mediatica che, negli anni, gli ha conferito non solo una certa notorietà, ma gli ha permesso di raggiungere dei risultati assolutamente non scontati. “Ho sempre creduto nello sviluppo di nuove forme di comunicazione”, ci racconta, “anche attraverso canali alternativi a quelli troppo spesso addomesticati, e credo che l’allargamento della platea degli addetti all’informazione sia un beneficio per contribuire allo spirito di civiltà che rende più vicina e comprensibile la Giustizia”.

L’avvocato Gabrielli fa riferimento alla creazione di tre blog che, nel corso di altrettanti processi [quello per i disastri della Costa Concordia e della torre piloti di Genova e quello per l’incendio del traghetto Norman Atlantic, ndr], gli hanno consentito di raccontare in presa diretta, ovviamente dal suo punto di vista, cosa accadeva udienza dopo udienza, con un linguaggio semplice e accessibile a tutti. Un attivismo, il suo, più volte censurato dagli stessi colleghi e, in un caso, anche da una procura, ma che nessuno ha mai potuto definire deontologicamente scorretto.

Come intende il rapporto con i media un professionista che in prima persona ha compreso quando la pressione mediatica possa influire sugli esiti di un processo? “Se parlate con un avvocato di parte civile come me, vi confermerà che le cause si fanno e si vincono dentro ma anche, o soprattutto, fuori dalle aule. Questa è la mia esperienza. Il caso Costa Concordia aveva un’attenzione mediatica straordinaria, che ha influenzato a favore nostro anche i tempi del processo. In tutti i casi di cui mi sono occupato in cui c’è stata pressione mediatica, a me ha sempre giovato. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con i giornalisti e credo che, nello specifico, il giornalismo d’inchiesta – se fatto bene ed entro i limiti della correttezza – può contribuire ad accendere i riflettori della giustizia su un cold case, come anche a svegliare la coscienza sociale e l’attenzione degli investigatori su prassi e condotte illecite che rischiano di passare inosservate come se tutto fosse nella normalità: un caso tra i tanti è Mafia capitale scaturito anche grazie all’inchiesta di Lirio Abbate”.

In particolare, l’avvocato Gabrielli ritiene importante il ruolo della stampa nei casi di mass tort, ancor più in particolare quando l’attenzione viene focalizzata sulle parti deboli di questo tipo di processi: le vittime.

“Alla base dei grandi disastri come quello dell’hotel Rigopiano, della discoteca di Corinaldo, della stazione di Viareggio, giusto per citarne alcuni, c’è una questione di denaro. Le grandi società spesso risparmiano sui livelli di sicurezza a vantaggio dell’utile, creando il terreno fertile per il verificarsi degli incidenti. Le Procure, spesso, perseguono l’obiettivo più immediato e certo, esercitando l’azione penale sui responsabili in prima linea, evitando di guardare verso l’altro, ai vertici societari. Ed è qui che entrano in gioco gli avvocati di parte civile, nel ruolo di spinta ed allargamento delle visuali, vicariando il lavoro del Pubblico Ministero. Ma per fare ciò bisogna interpretare questo ruolo come quello di accusa privata, in modo attivo e senza limitarsi ad andare in scia al pm restando nelle retrovie delle aule, in attesa della sentenza. Nel processo penale purtroppo però le parti civili sono ancora oggi viste come ospiti scomodi, e spesso un fastidio se interferiscono con l’andamento del processo condotto da giudici e pm contrapposti ai difensori degli imputati. Per avere giustizia vera e completa le parti civili non devono stare nel mezzo, ma sopra le altre parti, la visione delle parti offese e del lato umano della vicenda, in questo tipo di processi, non solo è fondamentale, ma è soprattutto il modo di garantire che si ricordi sempre che alle spalle del fatto reato e delle responsabilità penali, c’è la morte di persone innocenti e oltre il processo resta la sofferenza delle famiglie delle vittime. E nel 99% delle volte, a consentire questa visione è proprio il giornalismo”.

Cosa possiamo dire in conclusione? Certamente emerge – tanto in positivo, quanto in negativo – l’importanza dei media, il peso che possono avere sull’opinione pubblica, ma anche sugli attori dei processi, su chi deve decidere se una persona meriti o meno il carcere o su chi deve decidere se punire un colosso societario per la morte di persone innocenti. Tutto questo dovrebbe far riflettere e non sarebbe insensato aprire una discussione sull’opportunità o meno di regolamentare – e magari porre un freno – alla spettacolarizzazione fine a sé stessa. Di certo ne gioverebbe il giornalismo. Quello vero.

Come muoversi su un campo minato: il giornalismo d’inchiesta secondo gli avvocati Cornia e Milani. Gianluca Zanella il 15 Settembre 2022 su Inside Over.  

Il paragone può senz’altro sembrare azzardato, ma rende bene l’idea. Fare giornalismo in generale, ma più nello specifico fare giornalismo d’inchiesta, equivale a muoversi su un campo minato. Ne sono convinti anche gli avvocati Carlotta Cornia e Marco Milani, rispettivamente avvocato civilista e penalista dello studio Sinopoli, che saranno ospiti il 22 ottobre nel secondo appuntamento del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver.

Cosa accade quando non c’è la possibilità di confermare un fatto di cui si è già scritto? Come comportarsi nel caso in cui si venisse in possesso di documenti che dovrebbero essere coperti da segreto? Chi risponde di un errore che porta a una denuncia per calunnia? Prendendo spunto da casi reali e da situazioni in cui ogni giornalista potrebbe ritrovarsi nel corso della propria attività, i due avvocati spiegheranno quali sono i limiti entro cui è lecito muoversi e cosa accadrebbe nel caso in cui questi limiti venissero superati.

“Difficilmente a una domanda secca, del tipo, «cosa posso fare nel caso che…», c’è una risposta univoca” ci dice l’avvocato Cornia, “bisogna valutare le situazioni caso per caso”.

Poniamo allora un caso se non reale, almeno verosimile. Una procura della Repubblica sta conducendo delle indagini nel massimo riserbo. Quello di cui si sta occupando non deve trapelare, pena: la compromissione delle indagini. Per qualche ragione, documenti riservati (atti d’indagine, trascrizioni d’interrogatori, ecc.) escono fuori dalle segrete stanze e arrivano, per vie traverse, nelle mani di un giornalista, che non può sapere se sia lui l’unico detentore di quei documenti, dunque non può nemmeno sapere se lo scoop è assicurato o se arriverà per secondo. Di una cosa si può essere certi: casi del genere rappresentano il sogno e allo stesso tempo l’incubo di qualsiasi giornalista d’inchiesta. Il sogno di portare a casa la notizia che tutti i colleghi gli invidieranno e l’incubo di muoversi alla cieca e non sapere con chi si troverà a competere.

C’è anche una terza incognita, che spesso viene sottovalutata: in cosa potrebbe incorrere, il giornalista, se pubblicasse quel materiale di cui è venuto in possesso? “Il mio consiglio da avvocato?”, ci dice l’avvocato Marco Milani, “Non pubblicare. Ma mi rendo conto che le dinamiche sono molto più complesse. A questo punto, è necessario fare una valutazione sui rischi e sui benefici. E soprattutto condividere questa valutazione con la redazione, l’editore e, ovviamente, con l’avvocato”.

Per gli iscritti al corso si tratterà di un’occasione preziosa per non muoversi alla cieca in un settore dove non mancano trappole e, perché no, anche le contraddizioni. Pensiamo, per esempio, al rapporto tra il giornalista e la fonte. “Si potrebbe dedicare un intero corso solamente a questo” aggiunge l’avvocato Milani, a conferma della difficoltà di fornire risposte granitiche: “Anche in questo caso, bisogna valutare i singoli accadimenti, ed è quello che cercheremo di fare il 22 ottobre in aula”.

E se bisogna valutare i singoli accadimenti, vale la pena prendere in esame dei precedenti esemplari. Nel suo ultimo libro, La verità sul caso David Rossi, Davide Vecchi [anche lui ospite del corso, nrd] racconta per esempio un episodio unico nel suo genere, ma che riflette plasticamente quanto sostenuto dall’avvocato Milani: il 22 febbraio del 2017, durante il dibattimento nel corso del processo per la morte del manager di MpS precipitato da Rocca Salimbeni nel 2013, il giornalista Augusto Mattioli, che nell’estate del 2013, come molti altri colleghi, era venuto a conoscenza dell’esistenza di una serie di email particolarmente importanti per fare luce su alcuni punti oscuri della vicenda, venne costretto a rivelare il nome della sua fonte, cioè della persona che gli aveva parlato delle email in questione.

Sul fatto che la tutela della fonte sia quasi un aspetto sacro del mestiere di giornalista ci sono pochi dubbi. Dopotutto, chi si fiderebbe più di un giornalista che, ricevuta una notizia, brucia la propria fonte? Ovviamente nessuno. E il giornalista smetterebbe di lavorare. Tuttavia Mattioli era all’epoca giornalista pubblicista e, sebbene numerose sentenze riconoscano la tutela della fonte anche ai giornalisti pubblicisti, in quel caso la procura di Siena fece eccezione, distinguendo i diritti e i doveri dei pubblicisti da quelli dei giornalisti professionisti. Insomma, prima si parlava di contraddizioni. E se non è una contraddizione questa.

Su una cosa, tuttavia, gli avvocati Cornia e Milani sono categorici: al di là delle mille sfaccettature di questa professione e al di là di casi limite e, appunto, delle contraddizioni, la regola aurea del giornalista dev’essere sempre quella di poter dimostrare quanto si è scritto: “prima di pubblicare una notizia”, dice l’avvocato Cornia, “è fondamentale avere a disposizione effettiva e immediata le fonti utilizzate. Questo a tutela propria, della redazione tutta e dell’editore”.

Insomma, il giornalismo d’inchiesta può essere esaltante, ma senza una rete di protezione ad ammortizzare le cadute diventa un gioco pericoloso. Ed è proprio questo che si cercherà di trasmettere nella giornata di corso dell’Academy. Certo sarebbe ingenuo pensare di poter coprire nell’arco di poche ore tutto lo scibile giurisprudenziale, ma certamente saranno gettate le basi per una presa di consapevolezza di quelli che sono i diritti, gli obblighi e le cautele che possono blindare il lavoro giornalistico.

Autore GIANLUCA ZANELLA

“Un lavoro che ti dà la possibilità di fare la differenza”: Alessandro Politi e il giornalismo d’inchiesta. Gianluca Zanella il 9 Settembre 2022 su Inside Over. 

Tra i giornalisti d’inchiesta più promettenti nel panorama italiano degli ultimi anni, non può non essere annoverato Alessandro Politi. Milanese, classe 1988, Politi può vantare una carriera di tutto rispetto, costellata di importanti scoop e molti illustri riconoscimenti. Già collaboratore di Oggi e de ilFattoQuotidiano.it, il suo comincia a essere un volto noto con l’ingresso a Le Iene, dove nel 2018 debutta con un’inchiesta sul mondo degli steroidi. Particolarmente abile nell’infiltrazione e nelle tecniche di registrazione e videoregistrazione occulta, Politi s’inoltra sin da subito nel torbido, affrontando di petto casi di cronaca nera come la morte del calciatore Denis Bergamini, l’incendio della ThyssenKrupp, la strage nazista di Fucecchio (sarà proprio lui a individuare e intervistare in Germania l’ultimo nazista protagonista dell’eccidio ancora in vita). Dal 2021 approda a Rai Uno presso il programma Storie Italiane, condotto da Eleonora Daniele. Qui, Alessandro Politi realizza servizi e collegamenti in diretta principalmente su casi di cronaca nera. Ospite il 12 novembre per il corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver, gli abbiamo fatto qualche domanda.

Quando hai deciso – e perché – di fare il giornalista?

Sono figlio di giornalisti e ho scritto il mio primo articolo a 15 anni. Mi verrebbe da dire che non potevo non diventare un giornalista. La passione, però, è esplosa intorno ai 22 anni quando stavo per conseguire la laurea magistrale in giurisprudenza ed ho cominciato ad avvicinarmi al giornalismo d’inchiesta. È stato amore a prima a vista.

Cos’è, dal tuo punto di vista, il giornalismo d’inchiesta? In cosa differisce dagli altri tipi di giornalismo?

Mi sono occupato anche di Moda, di viaggi e Life-style ma niente di tutto questo mi ha mai entusiasmato come il giornalismo investigativo, che, dal mio punto di vista è “il” giornalismo. Si differenzia dalle altre tipologie perché ti permette “di fare la differenza”, ovvero di poter contribuire a migliorare la società in cui viviamo o quanto meno a sensibilizzare il pubblico su questioni rilevanti.

Qual è il confine sottile che distingue il giornalismo dal gossip? Ci sono limiti che nel giornalismo sarebbe meglio non varcare?

Difficile definire il gossip come giornalismo. Io mi considero un purista della professione e, per quanto mi riguarda, al netto del fatto che si dovrebbero rispettare le carte deontologiche sempre e comunque – anche se è un principio spesso disatteso da molti – se la popolazione a cui si propinano contenuti sempre più trash e beceri si sta analfabetizzando, sicuramente la colpa è anche di chi fa il nostro mestiere.

Da giornalista investigativo, prima per le Iene e ora per la Rai, ti sei occupato di molti argomenti complessi e, perché no, pericolosi: ci racconti qualche aneddoto? Hai mai avuto paura?

Chi dice che non ha paura a occuparsi di casi di mafia, pedofilia, omicidi irrisolti o comunque di cronaca nera, mente o non ha mai fatto davvero questo lavoro. Mi è capitato tante volte di lavorare sotto copertura. Probabilmente la volta in cui mi sono più spaventato è stato quando in Turchia mi sono infiltrato all’interno delle fabbriche del falso, aziende che spesso lavorano per le organizzazioni criminali. L’ho fatto per documentare la produzione e il traffico di abiti e prodotti griffati contraffatti, dato che ormai il grosso della produzione del fake Made in Italy ha delocalizzato ad Istanbul per aggirare i tanti controlli fatti in Italia dalle forze dell’ordine. Ricordo che, dopo aver convinto un losco personaggio a permettermi di raggiungere la loro azienda, abbiamo fatto circa 2 ore di taxi arrivando in un sorta di paesino sperduto nel nulla. Sembrava di essere a Beirut, in una zona che aveva subito bombardamenti. Attorno a me e al mio collega soltanto macerie e deserto. Internet non prendeva più bene, ma sono riuscito ad inviare a mio padre una foto del trafficante e la posizione in cui ci trovavamo che la diceva lunga sulla pericolosità della situazione e sul mio stato d’animo: “Papà, se tra due ore non mi senti più manda qualcuno, ti voglio bene”.

O anche quando sono andato in Egitto, pochi mesi dopo la morte di Giulio Regeni, sempre sotto copertura, a documentare il traffico di steroidi anabolizzanti tra quel Paese e l’Italia. Ovviamente sempre utilizzando false identità e camere nascoste. Ricordo che sono dovuto rientrare 3 giorni prima perché le mie numerose domande avevano destato l’attenzione di “qualcuno” e ho ancora ben presente cosa ho provato mentre passavo in fretta e furia davanti al carcere diretto all’aeroporto: guardando fuori dal finestrino del taxi ho avuto un brivido di terrore, pensando che sarei potuto finire lì dentro se mi avessero scoperto a riprendere di nascosto i loro traffici illeciti.

Qual è il servizio di cui vai maggiormente fiero?

Devo essere sincero? Tutti. Io amo profondamente ogni mia singola inchiesta. In ogni mio lavoro metto anima e corpo, per me non è semplice “lavoro”, ma è la mia vita. Ne sono letteralmente affascinato, quasi ossessionato. Se proprio dovessi sceglierne uno tra tutti, probabilmente opterei per il mio lungo lavoro d’inchiesta relativo al caso Thyssenkrupp, dove abbiamo fatto emergere dettagli ed elementi inediti che hanno scosso l’Italia e la Germania. Ho lavorato mesi e mesi a quell’inchiesta e i risultati sono stati clamorosi.

Parlaci degli strumenti indispensabili per un giornalista d’inchiesta…

Passione, sangue freddo e coraggio. Tanto coraggio. Bisogna essere lucidi, preparati a tutto e soprattutto tenere sempre bene a mente che non si deve mai sposare una tesi e convincersi che sia per forza quella giusta, altrimenti si corre il rischio di perdere per strada pezzi fondamentali e dettagli che forse avrebbero permesso di giungere prima e senza fare errori alla verità vera. È poi fondamentale documentarsi con grande scrupolosità e attenzione ai dettagli. Dal punto di vista tecnico invece ovviamente sono fondamentali le micro, cioè i ferri del mestiere. Sicuramente due telefoni cellulari e due Sim e delle telecamere nascoste o almeno registratori facilmente occultabili di alta qualità. Io ho un kit di telecamere nascoste fatto su misura (ve li mostrerò durante la nostra lezione).

L’inchiesta del passato che avresti voluto firmare? Perché?

Mi sarebbe piaciuto indagare sin dall’inizio sulla morte di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. In effetti poi l’ho fatto, scoprendo i retroscena legati al mancato utilizzo di un dispositivo che forse avrebbe potuto salvare la vita ad entrambi, ma che misteriosamente non gli venne mai installato: il bomb jammer. Non sono un tecnico,ma per bomb jammer s’intende un’apparecchiatura di sicurezza, già in uso da decenni, volta a disturbare le frequenze radio e in grado di bloccare, ad esempio, l’azione dei telecomandi a distanza per gli esplosivi.

Perché hai accettato di partecipare al corso della Academy?

Perché tra i doveri/piaceri di un giornalista c’è anche quello di trasmettere la propria passione e le proprie esperienze e non solo quello di raccontare fatti. Vi svelerò quindi anche alcuni “trucchi del mestiere”, dettagli inediti relativamente alle mie inchieste undercover e qualche curiosità su come utilizzare al meglio le telecamere nascoste.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

Autore GIANLUCA ZANELLA

“È ora di riscoprire il giornalismo d’inchiesta”: l’intervista a Luca Fazzo. Gianluca Zanella il 26 agosto 2022 su Inside Over.

Parlare di giornalismo d’inchiesta con un giornalista d’inchiesta è sempre stimolante. A seconda dell’interlocutore, di volta in volta emergono punti di vista che magari non sono molto diversi tra loro, ma che lasciano trasparire delle sfumature che sono poi la cifra personale che ciascuno mette nel proprio mestiere, quella caratteristica che rende il lavoro di quel giornalista a suo modo unico.

Ospite del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver il 5 novembre, con una lezione in cui si parlerà del modo in cui un giornalista deve muoversi all’interno di un tribunale e di come sia possibile ricavare una notizia in breve tempo dagli atti di un processo che magari contano qualche migliaio di pagine, Luca Fazzo, già inviato di Repubblica e dal 2007 cronista di giudiziaria per Il Giornale, e autore di due libri (da Manager calibro 9 è stato tratto il film di Netflix Lo spietato, con Riccardo Scamarcio), ha scambiato con noi qualche battuta su quello che è il giornalismo d’inchiesta dal suo punto di vista: “Il giornalismo d’inchiesta, per come la vedo io, è tutto quello che va al di là delle verità ufficiali. Al di là dei comunicati e delle conferenze stampa, al di là di quello che è in qualche modo propaganda. Il giornalismo d’inchiesta è quello che va oltre le apparenze. Un lavoro difficilissimo”.

In Italia è possibile fare giornalismo d’inchiesta?

Io non credo che ci siano poteri forti in grado di inibire un lavoro di inchiesta verificato. Quello che rende difficile fare giornalismo d’inchiesta in Italia è piuttosto la contiguità, il timore reverenziale che abbiamo come categoria, purtroppo, verso i poteri costituiti. Quando qualcuno ha avuto in questo Paese il coraggio e le capacità di fare giornalismo d’inchiesta, io penso che abbia potuto farlo liberamente. Capacità e coraggio, però, sono doti che nessuno crea da zero.

Qual è stato il periodo d’oro, se c’è stato, del giornalismo d’inchiesta in Italia?

Temo di poter dire che è un periodo lontano. Per trovare forme vere di giornalismo d’inchiesta dobbiamo risalire addirittura agli anni Sessanta o Settanta. Tutto quello che arriva dopo è giornalismo di qualità, piacevole, ecc, però direi che oggi un giornalismo d’inchiesta come quello di allora appare sporadicamente, per cui sarebbe ora che ci si cominciasse a mettere mano.

A livello non solo italiano ma in generale nella storia del giornalismo d’inchiesta internazionale, qual è secondo te una delle inchieste che hanno davvero fatto la storia?

Tutti dicono il Watergate, ma in realtà il tanto celebrato Watergate altro non è se non una storia di rapporti privilegiati tra settori pubblici e settori dell’informazione; io credo che abbiamo, nella contemporaneità, nei tanti mezzi che la modernità offre anche al nostro mestiere, esempi importanti. Penso che tutto il fronte WikiLeaks sia stato veramente condizionante, che abbia davvero costretto i poteri forti – che poi sono le nostre vittime predestinate – a cambiare atteggiamento. Non a emendarsi ma se non altro a stare più attenti.

Quello che sta succedendo a Julian Assange può essere un campanello d’allarme per futuri sviluppi del giornalismo o è una cosa che in Italia non si può verificare?

I colleghi mi ammazzeranno, ma in questi anni ho visto veramente pochi giornalisti, in Italia, pagare prezzi non dovuti per inchieste fatte seriamente. È vero che il giornalista spesso è un uomo solo di fronte a poteri spesso più forti di lui, ma io credo che in Italia – e forse anche nel nostro piccolo mondo di riferimento europeo – un lavoro fatto bene abbia veramente pochi avversarsi in grado di zittirlo.

La tua inchiesta a cui sei più legato e perché.

È una domanda difficilissima. Nella mia carriera professionale è ovvio che il mio marchio di fabbrica sia quello di aver partecipato all’indagine su Mani Pulite, Tangentopoli, all’inizio degli anni Novanta. Fu un’esperienza, oltre che politica e giudiziaria, anche giornalistica. Un’indagine raccontata da un piccolo, ristretto gruppo di giornalisti di cui io ebbi la fortuna di fare parte. Fu un’esperienza profondamente formativa, imparammo a fare i conti con problematiche per noi trentenni assolutamente inesplorate, dopodiché ci si dovrebbe domandare: fu giornalismo d’inchiesta? No, non lo fu. Viaggiammo per mesi e anni a rimorchio dell’indagine giudiziaria. Io vorrei sperare che l’inchiesta più importante della mia vita sia quella che devo ancora fare.

Domanda che abbiamo fatto anche ad altri partecipanti: I corsi come quello sul giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver possono dare un input a qualcuno che ha il sacro fuoco del giornalismo per tirarlo fuori?

Io penso proprio di si, quello che tu definisci il sacro fuoco è una cosa che hanno in tanti, ed è molto bella, molto nobile. Ma il sacro fuoco ha poi bisogno, per viaggiare, di camminare su gambe robuste, con conoscenze tecniche, conoscenza dei contesti in cui ci si muove, quindi, se questi corsi sono in grado di fornire le capacità tecniche a un coraggio insito dentro le persone, perbacco se possono avere utilità.

Il giornalismo d’inchiesta secondo Davide Vecchi: “La parola d’ordine è l’imprevedibilità”. Gianluca Zanella il 19 Agosto 2022 su Inside Over.

Il telefono che non dorme mai, poca differenza tra notte e giorno, un’infinità di informazioni, nomi, dettagli, soffiate. Piste false e piste vere, terreni scivolosi, scalate dall’esito imprevedibile, grossi tonfi e pochi risultati. Presentato così, il giornalismo d’inchiesta ha decisamente poco appeal. Solamente un masochista potrebbe pensare il contrario. Eppure sono in molti a credere in questa professione, a non lasciarsi intimorire dalle difficoltà che a volte si innalzano come un muro. Tra questi molti, alcuni nomi spiccano su tutti. Le ragioni sono diverse e quasi mai nette. E non sempre la notorietà è un bene, se si pensa che il giornalista d’inchiesta dev’essere come un investigatore: invisibile. Ci sono giornalisti che iniziano il loro percorso quasi per caso, macinando chilometri sotto il sole o sotto la pioggia, indifferentemente, per poi ritrovarsi al timone della nave, alla direzione di un giornale. È il caso di Davide Vecchi. Giornalista d’inchiesta prima a l’Espresso, Adnkronos e poi Il Fatto quotidiano, oggi direttore delle testate del gruppo Corriere e de Il Tempo. La si potrebbe definire una carriera da manuale, costellata da inchieste importanti, su tutte – in ordine temporale – quella sullo scandalo MpS e sulla morte di David Rossi. Davide Vecchi sarà ospite del corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver il 19 novembre. Per l’occasione, abbiamo scambiato con lui qualche parola.

Quante vite vive un giornalista d’inchiesta?

Una. La sua. E allo stesso tempo molte altre. Ogni giorno, a seconda degli argomenti, delle inchieste che si stanno portando avanti, si vive una vita nuova. Non è la tua, ma il giornalismo d’inchiesta ti fa entrare nella vita degli altri, ti fa calare in realtà diverse dalla tua. E devi fare attenzione, muoverti con cautela. Devi approfondire, conoscere, provare a comprendere e alla fine, solo alla fine, raccontare.

Questa dicotomia, questo muoversi continuamente tra un piano personale e un piano privato che appartiene alla sfera di un altro individuo, come condiziona l’unica vita del giornalista? Come si fa a “staccare” davvero?

Non si può “staccare”. La parola chiave nella vita di un giornalista d’inchiesta è: imprevedibilità. L’unica vera conseguenza di questa vita è l’imprevedibilità. Ti faccio un esempio: se c’è una procura in giro per l’Italia che sta facendo un’operazione importante e che riguarda un’inchiesta che stai seguendo, appena lo vieni a sapere prendi e vai. Nessuno ti avvisa prima. Non esistono ferie, non esistono compleanni, rimpatriate tra amici. Si va a giornate, a momenti. E in un attimo cambia tutto. La vita del giornalista è all’insegna dell’incognita, anzi, a costo di ripetermi, dell’imprevedibilità. Questo ha ovviamente anche dei lati positivi: non ti annoi mai.

Quali sono le rinunce e quali sono, al contrario, le cose che si ottengono con questo stile di vita?

Personalmente non so a cosa ho rinunciato perché, appunto, avendovi rinunciato non saprei neanche dirlo. Quello che si ottiene… beh, è un lavoro che varia sempre, non è mai ripetitivo. Com’è che si dice? Fare il giornalista è sempre meglio che lavorare. È una verità, per certi versi.

Quando nasce il tuo interesse verso il mondo del giornalismo?

Non saprei… è un interesse nato per caso. Ho iniziato a fare questo mestiere per caso e, sempre per caso, ho iniziato ad appassionarmi agli approfondimenti. Qualsiasi tipo di approfondimenti. Sono sempre stato una persona molto curiosa, mi sono sempre fatto molte domande. A forza di farmi queste domande, ho dovuto trovare anche il modo di darmi delle risposte, ecco forse come nasce il mio interesse verso il mondo del giornalismo.

L’inchiesta a cui sei maggiormente legato?

La primissima. Quella fatta tra il 1999 e il 2000 per l’Espresso dove andavo a indagare sul collegamento tra la morte di Francesco Narducci, il medico trovato morto nel lago Trasimeno, e i delitti del Mostro di Firenze. È un’inchiesta a cui ho lavorato un mese. All’epoca non c’erano i telefonini e ricordo che girai per le campagne toscane per venti giorni con una foto segnaletica di questo medico, che era morto agli inizi degli anni Ottanta, andando casa per casa per verificare alcune notizie. Mi avevano detto che lui aveva un’abitazione da quelle parti. Adesso non ricordo più come sia andata a finire, ma ricordo che riuscii a ricostruire tutti i rapporti e le relazioni che questo medico aveva in quella determinata zona fiorentina. Ne nacque un’indagine fatta dalla procura di Firenze insieme a quella di Perugia, vennero anche arrestate delle persone.

Corsi come quello della Newsroom Academy che ti vedrà ospite hanno la capacità di indirizzare chi voglia avvicinarsi alla professione giornalistica verso una strada giusta o almeno quella di accendere il sacro fuoco della curiosità?

Si, la differenza è sempre quella: il sacro fuoco. Chi pensa di voler fare il giornalista perché lo ritiene un lavoro come un altro, a mio avviso è meglio che cambi idea, che si cerchi una professione diversa. Quello del giornalista – in particolare del giornalista d’inchiesta – non è un lavoro normale. Non ha orari, non ha regole, non ha giorni fissi. Non richiede nulla di specifico salvo un interesse personale, il sacro fuoco, appunto. Una volontà e una curiosità profonda. Sconsiglio vivamente di farlo a chi non è mosso da una volontà ferrea. In questo mestiere serve l’interesse, serve la curiosità, la voglia di raccontare, di scrivere, di instaurare rapporti personali con chiunque, di parlare con le persone. Ma tutto questo deve venire naturale, non può nascere da costrizione.

Cioè non si può insegnare?

È un mestiere che s’impara facendo. Un po’ come fare i falegnami. Certamente è utile avere qualcuno che ti dia un esempio, che ti indirizzi, ma poi sta alla volontà del singolo. Gli errori e le insidie sono tantissime. Noi giornalisti abbiamo un enorme potere, che è quello di distruggere la vita alle persone solo ed esclusivamente con una frase sul giornale, quindi bisogna sempre fare molta attenzione. E per fare molta attenzione bisogna studiare, imparare, conoscere. E questo s’impara con la pratica. Ma i sacrifici sono tanti. Questi sacrifici si sopportano solo se c’è una passione di base. Se non c’è passione, diventa una vita insostenibile.

Parla Giannuli: “Vi racconto i misteri d’Italia”. Gianluca Zanella l'11 agosto 2022 su Inside Over.  

La storia d’Italia – come quella di ogni altro Paese – è fatta di luci ed ombre. Più ombre, a dire il vero. E a saperlo bene, perché in quelle ombre si è mosso con il piglio dell’investigatore e la sapienza dello studioso di razza, è sicuramente il professor Aldo Giannuli, docente universitario, storico e analista, nonché consulente per molte Procure in alcuni dei casi più torbidi della nostra storia repubblicana. Nel corso della sua trentennale carriera, Giannuli ha avuto il merito di compiere importanti scoperte, scavando in archivi il cui accesso non sempre è facile, dove muoversi dà l’idea di essersi perduti in un labirinto di minoica memoria. Importanti scoperte che hanno permesso non solo alla giustizia di fare grandi passi avanti, ma che hanno fornito il materiale fumante su cui decine e decine di giornalisti d’inchiesta hanno plasmato le loro storie. Sua, tanto per dirne una, è la scoperta dell’ “Anello”, o “Noto servizio”, un servizio segreto parallelo la cui attività emerge in controluce in numerosi fatti di cronaca (e di sangue) più o meno recenti. Sua è anche la scoperta dell’archivio segreto di via Appia, a Roma, dove Silvano Russomanno, braccio destro di Federico Umberto d’Amato, il ras dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, conservava la documentazione relativa alla sua attività e a quella del suo ufficio. Insomma, Aldo Giannuli l’indole del segugio ce l’ha nel sangue e proprio per questo sarà lui, insieme al giornalista Marcello Altamura, ad aprire il corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver, il 15 ottobre. Per l’occasione, gli abbiamo fatto qualche domanda.

Quali sono i casi di cronaca che hanno innescato le più grandi inchieste italiane?

Quante ore ho a disposizione? In primo luogo io indicherei i grandi processi di mafia degli anni Quaranta, quando iniziano le istruttorie di alcune stragi (nel caso di Portella della Ginestra si va a giudizio negli anni Cinquanta), poi ci sarà il seguito dell’istruttoria sul caso Pisciotta (Gaspare Pisciotta, presunto killer di Salvatore Giuliano, morto avvelenato nel carcere dell’Ucciardone nel 1954, ndr). E altri casi minori. Parliamo sempre di stragi, non di cose leggere. Poi ci sono stati alcuni processi di corruzione che sono stati importanti alla fine degli anni Cinquanta. Tipo il caso il caso Giuffrè, che segna già un passaggio, perché si passa dalla corruzione sporadica a quella frequente, insistente (Giovanni Battista Giuffrè, al centro di uno scandalo sull’utilizzo di fondi che sarebbero serviti alla ricostruzione dei beni ecclesiastici danneggiati nel corso della Seconda guerra mondiale, ndr).

D’accordo, ma nell’immaginario collettivo queste sono storie che appartengono a un passato percepito ormai come lontano. Quali sono, al contrario, i casi (e le inchieste) che ancora oggi fanno tremare i polsi a qualcuno?

Beh, ci sono ovviamente i grandi processi di strage: Piazza Fontana, Brescia, che appunto avranno uno sviluppo fino ai giorni nostri. Processi ripetuti, ecc… Di questo gruppo fa parte anche Bologna.

Su Bologna ci torniamo. Altri grandi casi?

Ripeto: quante ore ho a disposizione? Vediamo: negli anni Settanta abbiamo enormi scandali come quello del Petroli e di Italcasse. Su entrambi lavorò il giornalista Carmine “Mino” Pecorelli, che dalle pagine del suo Op (Osservatorio politico, ndr) non si limitava a fare inchiesta ma anche a lanciare messaggi. C’è poi il grande processo sulla P2, che ha fornito un’infinità di materiale ai giornalisti dell’epoca e, perché no, anche a quelli di oggi. Per non parlare del caso Moro.

Venendo proprio ai giornalisti, in questo calderone dove troviamo di tutto: delitti eccellenti, stragi, servizi segreti, massoneria, mafia e altre amenità, che ruolo ha avuto il giornalismo d’inchiesta?

Dipende. Dipende dai momenti. Per la verità il giornalismo d’inchiesta in Italia si è sempre ridotto a iniziative individuali, per esempio sul caso Pisciotta l’inchiesta che fece l’Europeo fu fondamentale; sui casi di scandali degli anni Cinquanta, fine anni Sessanta, ha avuto un ruolo importante l’Espresso. Sui casi di strage è stata per lo più la contro-informazione ad avere un ruolo molto importante. Mani Pulite è una cosa diversa: in quel caso il giornalismo va al carro di quello che fa la magistratura, negli altri casi tu hai un giornalismo d’inchiesta che sopravanza e spesso stimola le inchieste della magistratura. Su Mani Pulite è un po’ il contrario.

Ci vedi l’inizio di una degenerazione della professione?

Non dico che inizia una degenerazione, ma dico che le iniziative della magistratura condizionano il giornalismo, che si limita a riferire. A fare da megafono.

Nella tua attività di consulente per le Procure, qual è stato il caso dove pensi di aver profuso le principali energie?

Il caso su cui ho lavorato di più è stato sicuramente Brescia (strage di Piazza della Loggia, ndr). Per questa strage ho fatto una cosa come 51 o 52 relazioni. Però per me è stata molto importante anche l’inchiesta del magistrato Guido Salvini, che è la premessa nel processo su Piazza Fontana. Lì sono stato suo consulente. Ultimamente, poi, ho avuto Bologna (la strage della stazione del 2 agosto 1980, ndr) come caso importante.

Dov’è che hai trovato più il torbido? Qual è stato, secondo il tuo punto di vista, il periodo più nero per la storia d’Italia?

Dobbiamo fare la “torbid parade”? Beh, quando si inizia a scavare in un archivio è come immergersi in un abisso oceanico: non sai mai quale mostro marino possa sbucare fuori dal buio. Comunque, se devo dire dov’è che ho trovato il torbido, è nella corruzione. Si è passati dalla corruzione sporadica a quella frequente. Poi a quella diffusa, a quella generalizzata e a quella sistemica, che in parte è rientrata, ma forse ha solo cambiato fisionomia dopo la fine della Prima Repubblica. Nel corso della Prima Repubblica, appunto, lo scandalo tipico era quello delle grandi opere pubbliche, dopo invece hai avuto per lo più una forte insistenza di casi di scandali finanziari. Quindi anche di coinvolgimento delle istituzioni in giochi di questo genere.

Nella corruzione vedi il male endemico dell’Italia?

Si, quello permanente. In qualche modo si tratta di una parabola che fino a un certo punto ha avuto un crescendo, poi si è arrestata ed è un po’ cambiata, ma in realtà mai vinta.

Gli archivi più ostici con cui hai avuto a che fare, le maggiori resistenze, se ne hai trovate?

Ci sono delle resistenze proprio istituzionali, perché ci sono archivi dove c’è il segreto Nato e non vale la normativa italiana.

Su quali?

Alcune segreterie. Le segreterie di Sicurezza, quelle dei rapporti con la Nato, lì non ci puoi entrare. Ci sono alcuni archivi dove proprio istituzionalmente non puoi avvicinarti. Per esempio quello della Corte Costituzionale, che non ha un grande interesse. Però c’è per esempio quello della Presidenza della Repubblica: lì ci fu una procura, quella di Roma, che non è che chiese di entrare, chiese “se noi vi chiedessimo di vedere il registro dei visitatori del presidente della Repubblica” – dovevano vedere quante volte fosse andato Licio Gelli – “voi cosa ci rispondereste?” quindi una pre-domanda. La risposta fu praticamente “che c’avete le pigne in testa”. Il discorso finì lì.

Che presidente c’era all’epoca?

Non è questione di quale presidente ci fosse. Si trattava di un arco di anni che abbracciava tutti gli anni Settanta. E questo, cioè la pre-richiesta della Procura di Roma, accade negli anni Duemila. Poi c’è l’archivio dei carabinieri che ti sfugge tra le mani come un’anguilla; vai al comando generale e ti dicono: “sì, ma questo è un archivio amministrativo, per la direzione informativa dovete vedere a livello di Legione o Regione”. Vai a livello di Regione e ti dicono: “No, ma qui devi vedere a livello di compagnia”, vai a livello di compagnia e ti dicono “vai a vedere le stazioni”. E tu dovresti andarti a vedere qualcosa come 7mila stazioni d’Italia. Quindi in realtà c’è sempre qualcosa che sfugge tra le mani. Buona l’accoglienza nell’archivio della Finanza; discreto quello del ministero degli Interni; già molto più corazzato quello del Servizio segreto militare.

La strage alla stazione di Bologna. Arriveremo mai a una verità indiscutibile?

Intanto ci sono alcune condanne, quindi un po’ alla volta, a livello di esecutori, alla verità ci siamo arrivati. Il problema è che 40 anni dopo cosa vai cercando? È ovvio che più di qualche attuale settantenne, che all’epoca era venticinque/trentenne, cosa vuoi trovare? E infatti l’inchiesta di Bologna ha lambito, con prove documentali, figure come Federico Umberto d’Amato e Gelli, ma che te ne fai? Sono morti tutti e due e da un bel po’.

Però non possiamo ignorare che, al di là della verità di cui parli, ci sono studiosi, giornalisti, scienziati che mettono in discussione gran parte della ricostruzione giudiziaria, puntando il dito verso la cosiddetta “pista internazionale”, che vorrebbe la strage compiuta non dai neofascisti ma, sintetizzando al massimo, dai palestinesi o comunque da un gruppo di persone legate al terrorista internazionale Carlos Ramirez Sanchez, “lo sciacallo”. Al di là di posizioni ideologiche, tu cosa ne pensi?

Quella è una cosa che non sta in piedi. Anche se bisogna dire che i pasticci sono stati molti, anche perché c’è stata manipolazione dei corpi di reato. Certo, dobbiamo vedere se la Cassazione conferma le sentenze cui si è arrivati, ma quello può essere l’ultimo atto. Dopodiché anche a trovarlo un altro iniziato – e forse può venir fuori – comunque si tratterebbe di una figura di secondo piano e, in ogni caso, meno di 65 anni non li avrebbe. Come pretendi dopo mezzo secolo di trovare un testimone che ti dica “sì sì, io il signore me lo ricordo, era all’angolo della tabaccheria e aveva una borsa marrone”. Se te lo dicesse tu dubiteresti sul fatto che sia una deposizione vera?

Dunque bolli come inattendibile sotto ogni punto di vista la pista internazionale? Questo è un terreno scivoloso, saranno in molti a non essere d’accordo.

Assolutamente sì, confermo quello che ho già detto: non sta in piedi da nessuna parte, non è stato mai prodotto nulla di credibile a sostegno. Ogni volta che si è tentato di rilanciare la cosa, è franata miseramente.

Attendiamo su questo le repliche che sicuramente ci saranno e a cui daremo volentieri spazio, ma adesso avviamoci a conclusione: ritieni che corsi come quello di cui sarai ospite possano essere utili a indirizzare le persone verso la professione giornalistica?

Sì, a condizione che si capisca che quella del giornalista è una professione che sta cambiando. I giornali e i mass media più importanti stanno facendo finta di non capire che l’urto forte che è venuto dal web e in particolare da YouTube sta cambiando il mondo della comunicazione. E infatti si comincia a parlare proprio di “comunicazione” al posto di “informazione”.

E non credi che parlando di comunicazione anziché di informazione si rischi una degenerazione o comunque un appiattimento della professione?

Il rischio c’è, certo. Ma il rischio c’è anche se non ti evolvi!

Il giornalismo d’inchiesta secondo Peter Gomez, ospite della Newsroom Academy. Gianluca Zanella su Inside Over il 3 Agosto 2022. 

Il 15 ottobre comincia il corso di giornalismo d’inchiesta della Newsroom Academy di InsideOver. Sette appuntamenti presso la sede de IlGiornale.it, iscrizioni aperte già da ora e un limite di 20 iscritti. Un’occasione unica per apprendere le tecniche, conoscere gli strumenti, imparare a muovere i primi passi in un settore dell’informazione affascinante e, perché no, avventuroso. Tanti gli ospiti in calendario. Quello della giornata conclusiva – il 26 novembre – è Peter Gomez, che dopo aver mosso i suoi primi passi proprio a IlGiornale di Indro Montanelli ha avuto una carriera che l’ha portato a essere prima co-fondatore de Il Fatto quotidiano e poi direttore del Fattoquotidiano.it. Abbiamo avuto il piacere di scambiare con lui qualche parola. Ne è uscita un’intervista interessante sotto diversi punti di vista, che non fa che accendere ancora di più la curiosità per quello che condividerà nel corso dell’appuntamento di fine novembre.

Peter, cos’è il giornalismo d’inchiesta? O meglio, quand’è che un giornalista può essere definito un giornalista d’inchiesta?

Il giornalista può essere definito d’inchiesta quando va al di là delle notizie che vengono recuperate dalle fonti ufficiali. Un esempio: arrestano qualcuno, c’è un’ordinanza, se tu ne pubblichi il contenuto fai il cronista giudiziario. Ma se all’interno di quell’ordinanza ci sono dei nomi, delle storie e tu poi le sviluppi per conto tuo parlando con delle persone, facendo delle visure camerali, approfondendo delle piste alternative, ecco, allora diventi un giornalista d’inchiesta. Oppure quando, partendo da qualsiasi altro tipo di notizia, la approfondisci con tutti i mezzi che hai a disposizione. È qualcosa che va al di là della notizia secca che ci offre la cronaca tutti i giorni, è la ricerca che parte da una notizia per arrivare a una storia più grande.

In Italia siamo nelle condizioni di poter fare giornalismo d’inchiesta? Qual è lo stato di salute generale del giornalismo?

Lo stato di salute del giornalismo è cattivo. Ma non parlerò delle questioni politiche, di chi sono gli editori, ecc. Il vero punto è che oggi il giornalista è povero. L’inchiesta ha due caratteristiche: 1) non sai se ti porterà a un risultato; 2) non sai a quale risultato ti porterà. Paradossalmente potresti iniziare a lavorare su un’inchiesta che ti porta sul tuo editore, conosco colleghi a cui è successo. Per un giornale, dal punto di vista economico, l’inchiesta è un problema. Perché tu fai lavorare tanti giorni una persona su una storia e non sempre la storia arriverà a casa. Ed essendo le redazioni povere di persone, povere di soldi, spesso non se lo possono permettere. Tant’è vero che il giornalismo d’inchiesta lo fanno sempre più spesso i freelance. Ma i freelance hanno un problema: anche loro vengono pagati generalmente poco. È dura fare il freelance in Italia e per fare un’inchiesta c’è bisogno di soldi, perché magari devi comprare dei biglietti aerei, devi sostenere spese per portare la gente fuori a cena, spostarti, e se l’inchiesta è su scala nazionale, le spese vive aumentano e questo è un problema.

Corsi come quello dell’Academy di InsideOver o altre iniziative simili sono in grado di fornire gli strumenti o svegliare il sacro fuoco nascosto in chi si iscrive?

Si, secondo me si. Tutti i giornalisti di inchiesta hanno elaborato un proprio metodo. Il metodo può essere suggerito, tante cose possono essere spiegate, per esempio le ricerche d’archivio, quali fonti sollecitare, dal punto di vista tecnico si possono fare tante cose e si possono spiegare anche le cose che non vanno fatte. Se posso citare un episodio che riguarda un fatto molto recente e che mi ha fatto molto arrabbiare: i rapporti dei servizi segreti, in genere, non possono essere utilizzati dai giornalisti. Non perché sia vietato, ma perché i rapporti dei servizi segreti, per chi li ha visti, sono semplicemente delle veline, dei pezzi di carta. Su quel rapporto se c’è scritto che tu che mi stai intervistando sei un noto trafficante d’armi, se io dico che i servizi segreti dicono che tu sei un noto trafficante d’armi, tu mi porti in tribunale e io non avrò che un pezzettino di carta con nessun potere legale, senza un timbro, nulla, praticamente una lettera anonima, e tu vincerai la causa.

Ti riferisci alla notizia lanciata da La Stampa riguardo i possibili rapporti tra la Lega e la Russia?

Anche. Quella notizia poteva certamente essere pubblicata, l’aveva fatto precedentemente La Verità con altre modalità, tralasciando il fatto che è buona creanza tra colleghi, quando la notizia è importante, citarsi. Insomma, siamo tutti giornalisti. Ma al di là di questo, se tu hai mano una velina che ti racconta fatti del genere, quello che mi aspetto da un giornalista è che faccia delle telefonate. Il giornalista, in questo caso, ha chiamato l’ambasciata russa? Ha fatto altre cose che andavano fatte? Non è che siamo dei semplici passacarte. Possiamo esserlo nel momento in cui le carte sono ufficiali: arriva un’ordinanza di custodia cautelare, meglio che ci lavoriamo, ma se pubblichiamo quello che ci sta scritto dentro abbiamo fatto cronaca giudiziaria. Il resto è molto scivoloso. Molto. Mi ricordo che molti anni fa mi ritrovai in mano – perché me li diede un direttore de l’Espresso – dei rapporti dei servizi segreti sulla situazione in Albania. E scrivevano peste e corna del governo allora in carica, parliamo di più di vent’anni fa. Dicevano che il tale ministro trafficava droga, che l’altro aveva a che fare con i contrabbandieri, ecc. Io andai dal mio direttore dicendo “noi questa cosa non la possiamo pubblicare così”. Io avevo in mano dei pezzi di carta che magari erano anche giusti, perché non dubito dei nostri servizi segreti, ma noi dopo quando il ministro albanese tal dei tali ci querela cosa facciamo?

Nel giornalismo d’inchiesta c’è sempre il pericolo che la cosiddetta fonte non dia nulla per nulla, che ci sia sempre un interesse dietro. Come fa il giornalista d’inchiesta a discernere quando si tratta di un gesto di pura generosità e quando c’è dietro un “non detto” che può strumentalizzare il suo lavoro?

Il gesto di pura generosità non esiste. O quasi. Anche quando i carabinieri o la polizia fanno una conferenza stampa, lo fanno non solo per informare, ma per dimostrare che sono stati bravi, che hanno arrestato i ladri, gli spacciatori, ecc. Quando qualcuno ti da una notizia, c’è sempre un interesse dietro. Noi possiamo fare due cose: la prima è verificare che la notizia sia vera. Noi siamo come un Juke box, se la notizia è vera e ha interesse pubblico la diamo. La seconda cosa, se c’è invece un interesse losco dietro, del tipo che io do una notizia sul mio avversario politico perché lo voglio danneggiare politicamente, il giornalista d’inchiesta dovrebbe accendere un faro e al momento giusto (il giornalismo d’inchiesta è come il maiale, non si butta via niente) quel tipo di informazione – ricordarti come ti è arrivata la notizia, in quale momento, ecc. – magari può essere utilizzata in un altro articolo. Ma di base quello che possiamo fare è verificare che le notizie siano vere o meno. Perché l’interesse di qualcuno c’è sempre. E poi succedono delle questioni particolari: magari tu diventi amico di una fonte e anche la fonte ti considera suo amico. Insomma, si instaura un rapporto sincero. Magari ti dirà delle cose chiedendoti di non scriverle, e qui inizia il dramma del giornalista: rovinarti l’amicizia e la fonte dando la notizia o mantenere l’amicizia e non dare la notizia? Qui decide la sensibilità di ciascuno di noi.

Quando hai deciso di fare il giornalista?

Mio padre e mio nonno erano grandissimi lettori di giornali. Lavoravano entrambi in pubblicità. Mio nonno era un grande amico di Montanelli e faceva il pr internazionale. Quindi avevamo la casa sempre piena di giornali. Poi avevo una prozia che aveva lavorato a Radio Londra e che è stata una grande scrittrice storica. Insomma, noi i giornali, la carta stampata, i libri ce l’avevamo nel sangue. Io però non pensavo di fare il giornalista, ma durante il primo anno di università, Giurisprudenza, avevo una fidanzatina, mia compagna di corso. A un certo punto vado negli Stati Uniti un paio di mesi, una vacanza lunga, e le scrivo delle lettere. Quando torno lei mi dice “tu che mi scrivi delle lettere così belle – lettere d’amore – ma perché non fai il giornalista?”. Io risposi qualcosa tipo “boh”. Lei mi disse che vicino casa sua avevano aperto una scuola di giornalismo, era una delle prime in Italia. Io faccio l’esame di ammissione, che era una prova scritta, e arrivo primo su circa duecento persone. L’esame orale era una formalità. All’epoca era molto facile, non era come adesso. Metà della scuola, dopo il primo stage del primo anno, ha trovato posto in un giornale. I giornali erano in ascesa, avevano bisogno di giornalisti. I freelance erano pochi, dopo uno o due anni era sicuro che trovavano lavoro in un giornale. Dovevi essere proprio cretino per non riuscire a fare il giornalista. Adesso è molto diverso.

Qual è l’inchiesta a cui sei maggiormente legato?

Non so se si tratta dell’inchiesta a cui sono maggiormente legato, ma è una delle prime che ho fatto e l’ho fatta proprio mentre lavoravo a Il Giornale. Credo addirittura negli anni Ottanta. Succede che tramite un collega arriva la notizia che era stato trovato all’interno di un albergo un signore morto di overdose da eroina con il buco nel braccio ma senza la siringa. Quindi non poteva essersela procurata da solo. Da lì parte un lavoro fatto da me e dalla redazione e scopriamo che questo signore era iscritto a un club che si chiamava “Club della dolce morte”, un antesignano delle associazioni pro-fine vita, pro eutanasia. Allora c’era a Milano un’amministrazione socialista che affittava a questa associazione uno spazio dalle parti della Galleria a pochissimi soldi. Io a un certo punto prendo una delle due macchine che erano nella disposizione de Il Giornale e vado a parlare con il presidente di questa associazione, che viveva in una villa poco fuori Firenze. Questo presidente era un medico molto anziano. Entro in casa sua e lo trovo al telefono che dice a una tizia: “Signora, le avevo detto che trenta pastiglie non bastano”. Capisco che sta parlando con un’aspirante suicida. Riesco a farmela passare e faccio l’intervista all’aspirante suicida che non era riuscita nel suo intento. Questa è stata fortuna, che in un’inchiesta è elemento fondamentale. Essere al posto giusto nel momento giusto. A quel punto scrivo la storia, sia della donna aspirante suicida, sia del medico, che poi finiscono sotto processo, e io vengo sentito come testimone. Ecco, non è l’inchiesta più importante che ho fatto, però ci sono tutto gli elementi. Partito da una notizia l’ho sviluppata, poi si è aggiunta la fortuna e infine ho portato a casa il risultato.

Nellie Bly moriva 100 anni fa, chi era la prima giornalista d’inchiesta della storia. Chiara Barison su Il Corriere della Sera 26 gennaio 2022.

Dagli inizi al Pittsburgh Dispatch, passando per la prima guerra mondiale, fino al giro del mondo in 72 giorni.  

«Non ho mai scritto una parola che non venisse dal mio cuore. Non lo farò mai». Cuore, ma anche testa. È così che Nellie Bly è diventata la prima giornalista d’inchiesta della storia. Scomparsa il 27 gennaio di 100 anni fa, nasce in un'epoca in cui la considerazione che la società ha delle donne non oltrepassa i contorni del ruolo di angelo del focolare. È proprio la sua indignazione per un editoriale di Erasmus Wilson, pubblicato nel 1885 sul Pittsburgh Dispatch e intitolato "What girls are good for?" in cui si dice che «le donne appartengono alla sfera domestica e il loro compito è cucire, cucinare e crescere i bambini: quelle che lavoravano sono una mostruosità», che le permetterà di diventare ciò per cui ancora oggi la ricordiamo. L'articolo è la risposta alla lettera di un padre che – definendosi «ansioso» a causa delle cinque figlie adulte ma ancora nubili – si rivolge al giornale per avere consigli sul da farsi. Le parole di Wilson suscitano lo sdegno di molte donne, ma è la lettera firmata da «una ragazza sola e orfana» ad attirare l’attenzione del direttore del quotidiano George Madden. Entra così a far parte della redazione. Ma chi era Nellie Bly?

Come una canzone

Nellie Bly è in realtà la protagonista di una canzone del 1850 scritta da Stephen Foster, che Elizabeth Cochrane sceglie come pseudonimo per firmare i suoi articoli. Il padre, un mugnaio diventato ricco grazie alla proprietà di alcuni terreni, muore improvvisamente quando Elizabeth ha solo 6 anni. La madre decide di trasferirsi a Pittsburgh, dove sposa un uomo violento con problemi di alcolismo e dal quale divorzia dopo essersi rivolta al tribunale accusandolo degli abusi subiti. Nellie nel frattempo studia per diventare maestra – una delle poche professioni aperte alle donne – ma è poco convinta. Ma quando si presenta l'occasione di entrare a far parte della redazione del Pittsburgh Dispatch la coglie senza pensarci due volte.

Dalla parte delle donne

Il filo rosso che unisce tutti i suoi articoli è un'attenzione spasmodica per le discriminazioni a danno del sesso femminile. Denuncia le condizioni di lavoro che sono costrette ad accettare le donne e mette in luce le storture del lavoro minorile, all'epoca legale anche in tutto l'Occidente. Dà voce alle donne quando lo Stato della Pennsylvania vuole ridurre ulteriormente le possibilità di ricorrere al divorzio. Scava così tanto da diventare un personaggio scomodo: le minacce dei finanziatori del giornale di tagliare i fondi, fanno sì che per un periodo Bly si dedichi alle pagine di moda e giardinaggio, almeno fino a quando non convince Madden a sceglierla come corrispondente dal Messico. Anche nel Paese che confina con gli Stati Uniti però inizia a ficcare il naso dove non dovrebbe, raccontando la storie di povertà e corruzione. Dopo sei mesi la sua attività giornalistica le costa l'espulsione. Una volta tornata a Pittsburgh, siccome viene riassegnata alle pagine di costume, decide di partire per New York.

Dieci giorni in manicomio

Arrivata nella Grande Mela, si rivolge a Joseph Pulitzer per farsi assumere nel giornale da lui diretto, il celebre New York World. «Sono lieta di poter affermare che la Città di New York ha stanziato una fondo annuo di più di 1 milione di dollari per la cura dei malati. Ho così la soddisfazione di sapere che i poveri infelici avranno cure migliori grazie al mio lavoro». Bly commenta così gli effetti provocati dal suo articolo sulle condizioni in cui versano le pazienti del manicomio femminile Blackwell’s Island. Inscenando uno squilibrio mentale, si fa ricoverare per dieci giorni documentando le condizioni disumane in cui si vive all'interno: cibo andato male e violenze sono all'ordine del giorno, così come il ricovero di persone perfettamente sane di cui i familiari si vogliono sbarazzare. Si interessa poi alle carcerate, alle operaie e alle domestiche, guadagnandosi il titolo di "Migliore reporter d'America".

Il giro del mondo

Nel 1889 convince Pulitzer a finanziarle il giro del mondo dando vita a un'esperienza senza precedenti nel mondo del giornalismo. Per 72 giorni il quotidiano pubblica un suo articolo, oltre a dare vita a una lotteria per coinvolgere i lettori a indovinare quando la giornalista sarebbe tornata a New York. Cinque anni dopo l'impresa da record, sposa l'industriale Robert Livingston Seaman e mette da parte il giornalismo fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Rimasta vedova, dopo essersi occupata per un breve periodo degli affari del marito, torna a scrivere diventando la prima donna a documentare gli orrori del fronte austriaco. Muore a 57 anni - il 27 gennaio 1922 a New York - a causa di una polmonite.

·        I Martiri.

Giornalisti di tutto il mondo, per favore, non unitevi! Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico su L'Indipendente il 3 novembre 2022.

Seguo inevitabilmente i quotidiani del mainstream. Mi piace informarmi, c’è stato anche un periodo in cui compravo Il manifesto e La verità, applicando all’estremo la teoria che spiegavo in Università: “in medium stat virtus” (tradotto: La virtù sta nel mezzo). Un motto spesso sbagliato ma nel campo dell’informazione in quel caso quasi perfetto. Se qualcuno è curioso vada a cercare come titolavano La Stampa e L’ Unità ai tempi della guerra in Vietnam, su fronti opposti. In quel caso fare la media non portava da nessuna parte. Dovevi scegliere.

Ai nostri giorni c’è invece una specie di redazione condivisa, il partito unico del giornalismo. Tranne qualche eccezione, anche bella (ad esempio, la testata su cui scrivo), che conferma la regola.

La pandemia ha cambiato le carte in tavola e ha prodotto un generale martellamento, un logorio della paura e dell’allarme che ha condizionato irreparabilmente le coscienze e i sistemi nervosi.

Ora bisogna mantenere alta la guardia, ed evitare il rintronamento, l’oscuramento di qualsiasi visione oggettiva o critica, l’attività manipolatrice di castrazione.

Scovare altre fonti di potenziale contagio di nuovi virus, insistere sul fatto che il Covid non è finito, enfatizzare non le notizie davvero gravi ma i rischi e le tesi più nere: questo il compito di chi vuole il controllo, col sostegno dei media.

Ora tocca alla bomba atomica, l’Armageddon della informazione, non strillato però come ai vecchi tempi, ma fondato sul genere thriller.

Il grande Alfred Hitchcock sosteneva che al cinema bisognava spaventare le donne così gli uomini le abbracciavano. La suspense era il meccanismo di attrazione, sì perché l’attrazione muove la macchina del marketing e del dominio.

Oggi ho letto che si fanno previsioni percentuali sull’uso della atomica da parte della Russia. Siamo al 30 per cento.

La cocacolonizzazione dei consumi ha portato alla necessità di visione alterate, alle enfasi artificiose, agli automatismi nei consumi, all’oblio di qualsiasi visione spirituale, alla difficoltà nei rapporti interpersonali.

Il lavorio ideologico sui luoghi comuni ha fatto sì che tutti parlino di argomenti che non conoscono, che tutti abbiano una idea qualunquista di futuro. La verità è diventata un fatto statistico, l’effetto di sondaggi manipolati.

La vera democrazia ha invece bisogno di tesi opposte, di alternative, di visioni che provochino anche discussioni, contestazioni, facendo piazza pulita delle menate ipocrite degli schieramenti e delle retoriche da parte di chi perde le elezioni.

Il cielo comunque è sempre più blu, anche se le tempeste, i terremoti, gli tsunami, ci raccontano i grandi quotidiani, sono dietro l’angolo.

Sapete che cosa vi dico? Si fa davvero fatica ogni giorno a credere diversamente.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Giornata contro i crimini sui giornalisti: quei 30 italiani uccisi per aver raccontato la verità. Dai fotoreport uccisi nelle zone di guerra alle vittime di mafia e terrorismo rosso: dal dopoguerra a oggi sono morti 30 operatori dell'informazione solo in Italia. Rosa Scognamiglio il 2 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La Giornata contro i crimini sui giornalisti

 Giornalisti uccisi dalle mafie

 I cronisti dell'Ora

 Vittime delle Brigate Rosse

 Reporter morti sul campo

 Fotoreporter uccisi nelle zone di guerra

 Il caso di Andy Rocchelli

 Inviati e operatori di ripresa

Il mondo non è ancora un luogo sicuro per chi cerca la verità. Ce lo ricorda la Giornata mondiale contro i crimini sui giornalisti che si celebra oggi, 2 novembre, per la nona volta. Una commemorazione che quest’anno, con il conflitto armato tra Russia e Ucraina sul confine orientale dell’Europa, assume ancora più rilevanza. Basti pensare che nel 2022, nella sola città di Kiev, sono stati uccisi 32 reporter (lo ha reso noto il ministro ucraino della Cultura e della politica dell’informazione, Alexander Tkachenko, lo scorso 6 giugno tramite Telegram). Non solo. Secondo i dati diffusi dalla Federazione dei giornalisti (Ifj) durante il general meeting di Mascate (Oman), negli ultimi tre anni sono stati uccisi 203 operatori dell’informazione in tutto il mondo, con il Messico che si conferma il Paese più pericoloso al mondo in cui esercitare la professione: Article 19, l’organizzazione internazionale per "la libertà di parola e il diritto di essere informati", ha registrato 16 vittime da gennaio ad agosto 2022. È una scia di sangue inarrestabile.

La Giornata contro i crimini sui giornalisti

La prima edizione della Giornata mondiale contro i crimini sui giornalisti fu indetta dall’Unesco, nel 2013, in memoria di due giornalisti francesi uccisi in Mali, a novembre dello stesso anno. Secondo quanto riferì, al tempo, la Federazione Nazionale Stampa Italiana, i reporter di Rfi (Radio France Internationale), Ghislaine Dupont (giornalista di 51 anni) e Claude Verlon (cameraman di 55 anni), furono rapiti e poi uccisi da un commando di quattro uomini mentre si stavano recando a Kidal da Bamako, la capitale del Mali, per intervistare un portavoce del gruppo separatista Tuareg, promotore del Movimento nazionale per la liberazione di Azawad (Mnla). I corpi crivellati dei due reporter furono ritrovati a circa 12 chilometri da Kidal accanto a una macchina. Nel 2009, quattro giornalisti avevano perso la vita nel massacro di Maguindanao, nelle Filippine, tutt’oggi considerato "il più grave attacco mortale della storia" agli operatori dell’informazione. In Italia, dal Dopoguerra ad oggi, sono stati uccisi 30 giornalisti, dei quali 11 in agguati mafiosi e attentati terroristici. Vogliamo ricordarli tutti.

Giornalisti uccisi dalle mafie 

Giuseppe Impastato

Nato a Cinisi (Palermo), Giuseppe Impastato fondò, quando aveva appena 17 anni, il giornalino L’idea Socialista su cui raccontava le lotte dei disoccupati, dei contadini e degli edili. Nel 1976, attraverso le frequenze di Radio Aut, denunciò i traffici illeciti dei mafiosi nella sua città natale e nella vicina Terrasini. Nel ‘78 si candidò alle elezioni comunali con la lista Democrazia Proletaria. Fu ucciso, all’età di 30 anni, nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978. Il suo corpo, sopra una carica di tritolo, fu adagiato sui binari della ferrovia e fatto saltare in aria. Il 5 marzo del 2001, la Corte d’Assise di Palermo condannò per il delitto, di matrice mafiosa, il boss Gaetano Baldamenti e il vice Vito Palazzolo a 30 anni di reclusione.

Giancarlo Siani

Nato nel 1959 a Napoli, Giancarlo Siani era un giornalista pubblicista in attesa di assunzione che, purtroppo, arrivò solo dopo la sua morte. Sin da giovanissimo dimostrò di avere una spiccata inclinazione per il lavoro d’inchiesta collaborando con alcuni periodici partenopei. Si interessò di lavoro ed emarginazione ma soprattutto di camorra. Divenne corrispondente de Il Mattino presso la sede distaccata di Castellammare di Stabia. Il 10 giugno 1985 pubblicò un articolo in cui scrisse che l’arresto del boss Valentino Gionta era stato possibile per via di una “soffiata” che il clan dei Nuvoletta aveva fatto ai carabinieri. Fu la sua condanna a morte. Il 23 settembre dello stesso anno, all’età di 26 anni, fu ucciso sotto casa con dieci colpi di pistola alla testa. Il 15 aprile 1997, la Corte d’Assise di Napoli condannò all’ergastolo i tre mandanti dell’omicidio: i fratelli Lorenzo e Angela Nuvoletta, e Luigi Baccanti. La stessa pena fu comminata anche ai due esecutori materiali del delitto, Ciro Cappuccio e Armando del Core.

Mario Francese

Mario Francese era un giornalista di cronaca nera del quotidiano Il Giornale di Sicilia. Si occupò soprattutto delle mafie pubblicando per primo i nomi dei boss corleonesi che, verso la fine degli anni ‘70, scalarono le gerarchie di Cosa Nostra. Fu ucciso la sera 26 gennaio 1979 a colpi di pistola sotto la sua abitazione. Per circa 20 anni, la morte di Francese è rimasta impunita. Fino a quando il figlio Giuseppe riuscì a ottenere giustizia. Il processo ai responsabili, cominciato nel 2001, si concluse in Cassazione nel 2003. Per l’omicidio furono condannati a 30 anni di carcere Totò Riina, Leoluca Bagarella (lo sparatore), Raffaele Ganci, Francesco Madonia e Michele Greco. Al processo bis fu confermato l'ergastolo anche per Bernardo Provenzano.

Giuseppe Alfano

Detto "Beppe", Giuseppe Alfano era originario di Barcellona Pozzo di Gotto. Lavorò come giornalista pur non essendo iscritto all’Ordine (attribuzione che gli fu conferita dopo la morte). Insegnante di educazione tecnica e corrispondente del quotidiano catanese La Sicilia, si occupò di criminalità organizzata avviando un’indagine sul traffico internazionale di armi nella zona del Messinese. La notte del 3 gennaio 1993, fu freddato con tre colpi di pistola calibro 22 mentre era alla guida della sua auto, una Renault 9. Per il delitto fu condannato all’ergastolo il boss locale Giuseppe Gullotti.

Mauro Rostagno

Nato e cresciuto a Torino nel 1942, Mauro Rostagno visse tra l’Italia, la Germania e la Francia. Sociologo, giornalista, si trasferì in India per qualche tempo. Tornato in Italia, nel 1981, fondò a Trapani una comunità per il recupero di tossicodipendenti. Nel frattempo cominciò a denunciare gli intrighi tra la mafia e le amministrazioni locali attraverso le frequenze dell’emittente Radio Tele Cine. Fu ucciso nel 1988 in un agguato mafioso a Contrada Lenzi, all’interno della sua vettura. A 32 anni dalla sua uccisione, nel novembre del 2020, la Corte d’Assise d’Appello di Palermo confermò l’ergastolo per il boss Vincenzo Virga.

Giuseppe Fava

Classe 1925, Giuseppe Fava diventò un giornalista professionista nel 1952 dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza. Realizzò numerose inchieste giornalistiche collaborando con importanti testate nazionali, tra cui Espresso Sera. Durante la sua carriera maturò una vocazione artistica per la pittura e la letteratura. Vinse due premi letterari: il primo con il romanzo "Cronaca di un uomo"; il secondo con "La violenza". Nel 1980 assunse la direzione del Giornale del Sud, a Catania. La sera del 5 gennaio 1984 fu freddato con 5 colpi di pistola alla nuca mentre stava andando a prendere la nipote al teatro Stabile. Nel 2003, la Cassazione condannò all’ergastolo il boss Nitto Santapaola.

I cronisti dell'Ora 

Giovanni Spampinato

Ragusano, classe 1946, Giovanni Spamipinato fu un cronista di spicco dell’edizione palermitana del quotidiano “L’Ora” realizzando numerose inchieste. Nel febbraio del 1972 si occupò dell’assassinio del costruttore Angelo Tumino, avvenuto a Ragusa, finendo così sulle tracce di Roberto Campria, collezionista d’armi nonché figlio dell’allora presidente del tribunale locale. Un intreccio di storie e affari loschi che segnò la condanna a morte di Spampinato. La sera del 27 ottobre del 1972, Campria uccise il giornalista a colpi di revolver. Al processo, l’imputato ammise le proprie responsabilità sostenendo che la vittima lo avesse diffamato in alcuni articoli. Fu condannato a 14 anni di reclusione ma ne scontò solo 8. 

Mauro De Mauro

Nato a Foggia nel 1921, Mauro De Mauro era un vice questore di Polizia. Si dedicò al giornalismo a partire dalla fine degli anni ‘40 diventando un cronista d’eccellenza del quotidiano “L’Ora”. Si occupò della tragica morte del presidente Eni Enrico Mattei (avvenuta a Bascapè, 27 ottobre 1962), vicenda di cui tornò a interessarsi l’anno successivo su richiesta del regista Francesco Rosi (l’autore del film Il caso Mattei). La sera del 16 settembre 1970, svanì nel nulla mentre stava tornando a casa, in un quartiere residenziale di Palermo. La figlia di De Mauro, Franca, raccontò agli investigatori di aver visto il padre parlare con alcuni uomini poi, poco dopo, rimettersi alla guida della sua Bmw. L’auto fu ritrovata ma non il giornalista. Negli anni successivi, alcuni pentiti di mafia raccontarono che De Mauro fu ucciso per ordine di Cosa Nostra.

Cosimo Cristina

Anche la morte del giornalista Cosimo Cristina, corrispondente dell’Ora e dell’Ansa, resta un mistero. Giornalista pubblicista dal 1958, collaborò con Il Giorno, Corriere della Sera e Gazzettino di Venezia. Durante il periodo di attività realizzò alcune inchieste sui rapporti tra mafia e politica nella zona delle Madonie. La sera del 3 maggio 1960 uscì di casa e non vi fece più ritorno. Il cadavere venne ritrovato lungo la strada ferrata della linea Palermo Messina, due giorni dopo la denucia di scomparsa sporta dalla famiglia. Gli inquirenti dell’epoca archiviarono il caso come suicidio. Ma il vice questore di Palermo Angelo Mangano, indagando sulle mafie, fece riaprire il fascicolo ventilando l’ipotesi di omicidio. Una pista che, però, naufragò ben presto schiantandosi contro il muro dell’omertà.

Vittime delle Brigate Rosse 

Carlo Casalegno

Carlo Casalegno, 60 anni, era il vicedirettore del quotidiano La Stampa. Il 16 novembre del 1977 fu assassinato in un agguato ordito dalla Brigate Rosse mentre stava rincasando: morì dopo 13 giorni di agonia. Nelle settimane precedenti all’attentato, aveva ricevuto una serie di minacce e una bomba al giornale, circostanza che lo aveva costretto a spostarsi con gli uomini della scorta assegnata ad Arrigo Levi, il direttore de La Stampa. Il giorno in cui fu ucciso, per via di alcuni impegni, aveva deciso di tornare a casa da solo. Una scelta che gli costò cara la pelle. Fu freddato con una Nagant 7,62 nell’androne del suo palazzo. A sparare fu Raffaele Fiore, esponente di spicco della colonna brigatista torinese. Con lui c’erano anche Piero Panciarelli, Patrizio Peci e Vincenzo Acella, anch’essi terroristi rossi. Nel 1983, l’omicidio di Casalegno venne inserito in un maxi processo contro le Brigate Rosse. Il 29 luglio dello stesso anno, Raffaele Fiore e Vincenzo Acella furono condannati al carcere a vita. Otto anni al pentito Patrizio Peci mentre Panciarelli era morto durante un’operazione dei carabinieri.

Walter Tobagi

Walter Tobagi cominciò la carriera da giornalista giovanissimo, lavorando come redattore della Zanzara, lo storico giornale del liceo "Parini" di Milano. Si distinse per le sue abilità di scrittura e, subito dopo il diploma, entrò a far parte della redazione del quotidiano "Avanti!". Da lì seguirono altre collaborazioni con quotidiani di rilievo nazionale tra cui il Corriere della Sera. Si interessò di temi sociali e politica ma soprattutto di vicende legate al terrorismo delle Brigate Rosse degli Anni di Piombo. Firmò la sua condanna a morte nella primavera del 1980, quando in diversi articoli iniziò a delineare la crisi del terrorismo rosso. "Non sono samurai invincibili", scrisse delle Br, una frase che suona come un testamento. Tobagi fu ucciso la mattina del 28 maggio del 1980 in un agguato pianificato dal gruppo “Brigata XVIII Marzo”. Ad aprire il fuoco furono Marco Barone, a capo dell’organizzazione, e Mario Marano, che spararono al giornalista in via Salaino a Milano. Aveva 33 anni. Nel 1983, nell’ambito del processo ai componenti del processo al collettivo rosso, Barone fu condannato a 8 anni e 9 mesi di reclusione (era diventato un collaboratore di giustizia) mentre Mario Marano incassò una pena di 20 anni e 4 mesi (poi ridotti a 12 in Appello).

Reporter morti sul campo 

Almerigo Grilz

Nato a Trieste nel 1977, Almerigo Grilz è stato il primo giornalista italiano caduto sui campi di battaglia dalla fine della Seconda guerra mondiale. Elemento di spicco del Fronte della Gioventù, e vero punto di riferimento per il mondo culturale di destra italiano, abbandona la politica per occuparsi esclusivamente di gioranlismo come inviato di guerra - "freelance", come amava definirsi - in Afghanistan, Libano, Cambogia, Filippine e Angola. Nel 1983 fondò insieme ai colleghi Gian Micalessin e Fausto Biloslavo Albatros Press Agency, un’agenzia stampa che si occupa di fenomeni bellici nel panorama internazionale. Fu ucciso nel 1987 in Mozambico, colpito da un proiettile mentre stava immortalando con la videocamera gli scontri tra i miliziani del fronte Renamo e quelli del governo. A lui è stata intitolata una strada sul lungomare di Barcola (Trieste).

Maria Grazia Cutuli

Maria Grazia Cutuli fu una delle inviate di spicco del Corriere della Sera, riconoscimento che le venne attribuito dopo la sua morte. Dopo aver esordito come cronista al quotidiano La Sicilia, passò al settimanale regionale Sud collaborando con la rete televisiva Telecor International. Successivamente si trasferì a Milano dove frequentò la scuola di giornalismo. Cominciò a interessarsi di politica internazionale trasferendosi, per circa un anno, in Rwanda. Morì in Afghanistan all’età di 39 anni sulla strada che collega Jalabad a Kabul. Un gruppo di uomini armati bloccò l’auto su cui stava viaggiando Maria Grazia con altri quattro colleghi. I reporter furono dapprima fatti scendere dall’auto e poi uccisi con scariche di Kalashnikov.

Vittorio Arrigoni

Scrittore e blogger, Vittorio Arrigoni lasciò l’impiego nell’azienda di famiglia per dedicarsi alle missioni di cooperazione umanitaria tra i Paesi dell’Est Europa, Perù e Africa. Nel 2002 si trasferì nella striscia di Gaza. Cominciò a scrivere articoli da Gaza per Il Manifesto e altre testate. Ottenne la notorietà internazionale con il blog "Guerrilla Radio" su cui pubblicava i suoi reportage. Il 14 aprile 2011 fu sequestrato all’uscita di una palestra da un commando palestinese jihadista. Un video pubblicato su YouTube testimoniò che era stato bendato e legato. Fu ucciso il giorno successivo al rapimento, all’età di 36 anni. "Restiamo umani" è il motto che accompagna la sua produzione giornalistica.

Antonio Russo

Originario di Francavilla a Mare, Antonio Russo era un cronista freelance con una consolidata esperienza all’estero. Dal ‘95 si occupò della guerra in Kosovo lavorando come inviato per Radio Radicale dove rimase fino al 31 marzo del 1999. Fu ucciso in Georgia, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2000. Il cadavere fu ritrovato sul ciglio di una strada di campagna a Tiblisi. Addosso i segni di atroci torture. Le attrezzature, i filmati e gli appunti che aveva con sé non furono mai ritrovati. Fu svaligiata anche la camera d’albergo in cui alloggiava. Le circostanze della morte non sono mai state chiarite.

Gabriel Grüner

Era un giornalista italiano (originario della provincia di Bolzano) di lingua tedesca. Sin da subito si affermò come inviato speciale di guerra collaborando con il settimanale tedesco Stern. Divenne esperto dei conflitti nei Balcani ma, durante la sua breve e intensa carriera, fece tappa anche in Algeria, Somalia, Sudan e Afghanistan. Morì all’età di 35 anni il 13 giugno del 1999. Fu ucciso a colpi d’arma da fuoco esplosi da un cecchino al check point di Passo di Dulje, nel Kosovo Occidentale.

Enzo Baldoni

Nato e cresciuto a Città di Castello (Perugia), Enzo Baldoni cominciò a lavorare come giornalista freelance a partire dal 1996 collaborando con Linus, Specchio della Stampa e Venerdì della Repubblica. Si trovava da circa due settimane in Iraq quando nel 2004 fu rapito da un’organizzazione fondamentalista islamica vicina ad Al Qaeda mentre si trovava a bordo di un convoglio umanitario diretto a Najaf. Fu ucciso dopo un ultimatum all’Italia affinché ritirasse le truppe entro 48 ore. La data e il luogo della brutale esecuzione a cui fu sottoposto restano tuttora incerte. Le sue spoglie furono riconsegnate alla famiglia nel 2010.

Marcello Palmisano

Marcello Palmisano era un operatore di ripresa Rai profondamente innamorato del suo lavoro. Aveva 55 anni quando, nel 1995, durante un servizio realizzato dal Mogadiscio per il Tg2 con la giornalista Carmen Lasorella, rimase coinvolto in una sparatoria tra la scorta di cui erano stati dotati i due reporter e un gruppo di uomini armati. Gli undici sparatori furono tutti identificati ma mai assicurati alla giustizia.

Guido Puletti

Nacque in Argentina da padre italiano e madre di origini anglo iberiche. Si trasferì in Italia dove, nel 1981, cominciò a collaborare con il quotidiano Brescia Oggi. Successivamente maturò un interesse per i nuovi assetti politici e sociali nell’Europa dell’Est. La guerra in Jugoslavia diventò centrale nella sua attività giornalistica. Morì in Bosnia, dove lavorava anche come volontario, all’età di 40 anni, il 29 maggio del 1993. Il convoglio su cui viaggiava fu assalito. Nell’agguato persero la vita anche uno studente di 21 anni, Sergio Lana, e l’imprenditore cremonese Fabio Moreni.

Fotoreporter uccisi nelle zone di guerra

Raffaele Ciriello

Raffaele Ascanio Ciriello nacque a Venosa il 2 agosto del 1952. Si laureò in Medicina ma poi si dedicò alla sua grande passione: la fotografia. Cominciò a lavorare come fotoreporter verso la fine degli anni ‘90 documentando il dramma della guerra in Somalia e in altre parti del mondo. Morì il 13 marzo 2002, freddato a colpi di mitra. Lasciò la moglie e la figlia di soli 18 mesi.

Fabio Polenghi

Originario di Monza, Fabio Polenghi morì all’età di 48 anni mentre stava lavorando a un reportage in Thailandia sul movimento antigovernativo delle "camice rosse". Il 19 maggio del 2010, si ritrovò nel mezzo di uno scontro sanguinoso tra l’esercito thailandese e i manifestanti. Nella mischia, fu colpito al petto da un proiettile che non gli lasciò scampo.

Simone Camilli

Simone Camilli nacque a Roma il 28 marzo 1979. Figlio di un giornalista Rai, conseguì la laurea in Scienze storico-religiose, presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma. Durante gli studi accademici cominciò a collaborare come fotoreporter con varie testate tra cui Asia News e Associated Press (Ap). Si interessò di politica ma soprattutto di guerra e conflitti internazionali: dall’indipendenza del Kosovo (2008) alla Seconda guerra in Ossezia del Sud (2008). Morì il 13 agosto 2014 a Gaza. L’autopsia accertò che il 35enne morì per via delle ferite riportate a seguito dell’esplosione di un ordigno.

Il caso di Andy Rocchelli 

Professione fotoreporter. Andrea Rocchelli (altrimenti noto come Andy) faceva parte del collettivo di fotografi "Cesura" di cui era stato egli stesso co-fondatore. Nato e cresciuto a Pavia, dopo la laurea specialistica al Politecnico di Milano, viaggiò moltissimo tra Africa, Russia ed Europa. Le sue foto furono acquisite da agenzie stampa di rilievo internazionale e poi pubblicate su testate di prestigio come Le Monde, The Wall Street Journal e Novaja Gazeta. Morì all’età di 30 anni, il 24 maggio 2014, nelle vicinanze della città di Sloviansk, in Ucraina Orientale, mentre stava filmando il dramma dei civili durante il conflitto in Donbass. Fu ucciso da una scarica di mortaio durante gli scontri tra l’esercito e la Guardia nazionale ucraina. Con lui perse la vita anche il giornalista Andrej Mironov (un giornalista russo iscritto al Partito Radicale) mentre un altro fotoreporter, il francese William Rougelon, rimase gravemente ferito.

Inviati e operatori di ripresa 

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

Romana, classe 1961, Ilaria Alpi iniziò la sua carriera di giornalista come reporter dal Cairo per i quotidiani Paese Sera e L’Unità. Successivamente diventò una delle inviate di punta di Rai 3 documentando la guerra in Libano, Kuwait e Somalia. Fu uccisa assieme al cameraman Miran Hrovatin, fotografo e operatore di ripresa, in un agguato. Un duplice omicidio che si consumò il 20 marzo del 1994 a opera di un commando somalo. Al tempo, Ilaria Alpi si stava occupando di traffico internazionale d’armi e rifiuti tossici illegali. Dal 2015 è stato istituito un premio giornalistico che porta il suo nome, assegnato ogni anno alle migliori inchieste realizzate sui temi della solidarietà e della pace.

Marco Lucchetta, Dario D’Angelo e Alessandro Ota

Marco Lucchetta, classe 1952 di origini triestine, aveva ben chiaro che il dovere di un giornalista fosse quello di documentare la realtà. Dopo aver esordito come cronista sportivo, dalla fine degli anni ‘80 cominciò a occuparsi di cronaca entrando a far parte della Rai, nella sede regionale del Friuli-Venezia Giulia. Dal 1991 lavorò come inviato dalla Jugoslavia immortalando il dramma umano che si consumava durante il periodo della guerra. Nel 1994 partì per la Bosnia. Prima di rientrare a Trieste, a gennaio dello stesso anno, decise di fare tappa a Mostar Est per completare un lavoro di reportage che aveva cominciato tempo addietro. Morì durante un bombardamento. Nell’attentato persero la vita anche il tecnico di ripresa Dario D’Angelo e l’operatore Alessandro Ota.

Italo Toni e Graziella De Palo

I corpi di Italo Toni e Graziella De Palo non sono mai stati ritrovati. Entrambi svanirono in circostanze pressoché misteriose da Beirut, dove si erano recati per documentare le condizioni dei profughi e la situazione politico-militare in Libano. La mattina del 2 settembre 1980 uscirono dall’albergo in cui alloggiavano e non vi fecero più ritorno. Fu avviata un’inchiesta che, però, si concluse senza alcun esito.

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Antonio Giangrande: Se questi son giornalisti...

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In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra è , pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti. Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA? Antonio Giangrande: “stavolta io sto con Roberto Saviano”.

Intervento di Antonio Giangrande, scrittore tarantino, autore di decine di saggi d’inchiesta.

Lo scrittore napoletano, autore di “Gomorra” e “Zerozerozero”, è accusato di aver inserito delle frasi altrui nei suoi libri, tratte da fonti non citate. Saviano si difende: “è cronaca…e la cronaca appartiene a tutti”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Come far sì che si parli di questioni delicate e pericolose che gli scribacchini non fanno? Come si fa a far conoscere situazioni locali e temporali su tutto il territorio nazionale e raccontate da autori poco conosciuti?

Quello che succede quotidianamente davanti ai nostri occhi è quello che vedono tutti e non ci sono parole diverse per raccontarlo. I racconti sono coincidenti. Possono cambiare i termini, ma i fattori non cambiano. Gli scribacchini, poi, nel formare i loro pezzi, spesso e volentieri si riportano alle veline dei magistrati e delle forze dell’Ordine.

Ergo: E’ una bestialità parlare di plagio.

E poi, l’informazione di regime dei professionisti abilitati alla conformità non è tutta un copia ed incolla?

Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Come per esempio: si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Quegli stessi mussulmani che in casa loro i cristiani li trucidano. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi.

A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire….diamo proposte e non proteste. Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno si è bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane. E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS? Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.

E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti. Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.

La sinistra usa la stessa solidarietà adottata con i migranti come nella lotta alla mafia: farsi assegnare i beni confiscati e farli gestire da associazioni o cooperative vicine a loro a alla CGIL o a Libera, che è la setta cosa.

Io ho trovato un sistema affinchè non sia tacciato di mitomania, pazzia o calunnia: faccio parlare chi sul territorio la verità scomoda la fa diventare cronaca ed io quella realtà contemporanea la trasformo in storia affinchè non si dimentichi.

Io generalmente non sto con Saviano: per il suo essere di sinistra con quello che comporta in termini di difetti ed appoggi. La sinistra, per esempio, non dice che mafia ed antimafia, spesso, sono la stessa cosa, sol perché l’antimafia è da loro incarnata. Ma stavolta io sto con Saviano perché la verità appartiene a tutti e noi abbiamo l’obbligo di conoscerla e divulgarla. Saviano ha raccontato una realtà conosciuta, ma taciuta. Verità enfatizzata e strumentalizzata dalla sinistra tanto da renderla nociva. Può aver appreso da scritti altrui? Può darsi. Basta che sia verità. Se qualche autore vuol speculare sulla verità raccontata, allora la sua dignità vale quanto la moneta pretesa. Se poi chi critica ed aizza mesta nel fango, questi vuol distogliere l’attenzione sulla sostanza del contenuto, anteponendo artatamente la forma. Ed i lettori, in questa diatriba, non guardino il dito, ma notino la luna.

Io, da parte mia, le fonti le cito, (eccome se le cito), per dare credibilità alle mie asserzioni e per dare onore a chi, nelle ritorsioni, è disposto con coraggio a perdere nel nome della verità in un mare di viltà. I miei non sono romanzi, ma saggi da conoscere e divulgare. Perché noi dobbiamo essere quello che noi avremmo voluto che diventassimo. E delle critiche: me ne fotto. Dr Antonio Giangrande

Estratto dell’articolo di Nicola Borzi per “il Fatto quotidiano” il 28 novembre 2022.

Per i lettori o per gli inserzionisti? Per chi scrivono i giornali? Secondo i giornalisti, dovrebbero essere i primi, secondo manager e inserzionisti i secondi. […] Piombati nella spirale del crollo delle vendite, i quotidiani si aggrappano alla pubblicità, finendone ostaggio. 

Gli inserzionisti hanno ormai scavalcato "la muraglia cinese" che un tempo separava i contenuti dall'advertising, si infiltrano e occultano negli articoli, perché la pianificazione dei budget pubblicitari comprende sempre più spesso forme "innovative" che i tecnici chiamano "brand journalism" o "native advertising" ma che i vecchi cronisti definivano spicciamente "marchette". 

[…] Ossigeno per i conti delle testate che però mette in discussione l'integrità e la residua credibilità del giornalismo. […] Pubblicità occulte vengono inserite in articoli, video, post pubblicati dalle maggiori testate. Ne ha messe in fila molte, negli ultimi anni, la testata specializzata online Professione Reporter […]

L'elenco è sterminato: solo per citare alcuni casi, Repubblica (Gedi), 5 novembre 2019, "Pasta frolla, Nutella e ingegneria, la ricetta del biscotto da 120 milioni"; Repubblica, 24 luglio 2022, "Una carbonara per Ferragni" (con sette pubblicità nell'articolo); Repubblica, 6 febbraio 2020, "Pane e Nutella. La via italiana di McDonald's". La Stampa (Gedi), 15 maggio 2020: "Riaprono gli Apple store". La Gazzetta dello Sport (Cairo), intervista a Federer con sponsor Barilla in vista e domanda sulla pasta preferita, guarda caso quella prodotta dall'azienda di Parma.

Corriere della Sera (Cairo), 10 giugno 2021: "Il Ct Mancini firma una collezione per Paul & Shark". Corriere della Sera, 17 maggio 2022, intero numero "dedicato" alle Ferrovie dello Stato con articoli per due pagine (delle quali una di intervista all'ad Luigi Ferraris) e richiamo in prima, più paginate di pubblicità. 

[…] I comitati di redazione, ovvero le rappresentanze sindacali interne delle redazioni di Repubblica, Corriere e altre testate, hanno preso pubblicamente posizione contro il fenomeno, ma sinora non sono riusciti a fermare questa deriva. […]

[…] nel giornalismo, nonostante i tentativi di segnalare questi contenuti, esiste una 'zona grigia' di cui tutti sanno ma che formalmente non viene denunciata in cui i grandi investitori riescono a ottenere dai giornali spazi che sono evidentemente pubblicitari ma come tali non vengono mostrati. 

[…] Il brand journalism è un settore che si sta sviluppando velocemente perché le aziende hanno bisogno per i loro uffici comunicazione di cronisti che facciano questo lavoro con ottica giornalistica. […] il native content è un segmento che affonda le unghie nella debolezza della contabilità e dei bilanci delle aziende editoriali italiane […] 

Francesco Storace per "Libero quotidiano" il 24 novembre 2022. 

Pd, Cinque stelle, Terzo Polo: spazio signori, c'è un quarto partito a sinistra e si chiama Fnsi. È la federazione della stampa italiana, una specie di soviet che ora si è messa in testa di sabotare la premier Giorgia Meloni. 

Tutti quei giornalisti che si inchinavano al passaggio di Giuseppe Conte e Mario Draghi; quelli che applaudivano in piedi l'ingresso di SuperMario in conferenza stampa consentendogli di scegliersi le domande a cui rispondere; quelli che obbedivano al premier pentastellato a cui se osavi chiedere conto di ciò che non faceva, rispondeva al cronista: «Venga a farlo lei»; tutti costoro ora si sfogano contro la nuova presidente del Consiglio. Hanno sparso saliva a ondate quando c'erano gli altri premier, adesso fanno gli inferociti. E minacciano: l'altra sera il comunicato delirante della Fnsi.

«Chi ricopre cariche pubbliche ha il dovere di rispondere alle domande. Né può pensare di liquidare con insinuazioni e dietrologie i giornalisti che cercano di ottenere risposte, perché questo in democrazia è un preciso dovere per chi fa informazione. INACCETTABILE Va per questo respinta con forza, perché inaccettabile nella forma e nella sostanza, la reazione della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, alle richieste dei giornalisti di rivolgerle altre domande al termine della conferenza stampa di presentazione della manovra economica». 

Con tanto di avvertimento minatorio: «Non sarebbe male se i cronisti prendessero l'abitudine, come pure talvolta è avvenuto in passa to, di non partecipare o abbandonare i comizi camuffati da conferenze stampa». Insolenza allo stato puro. Il web è pieno di immagini di rettori che si prostrano all'arrivo del ministro della Salute Speranza; di Formigli che dà lezioni alla Melo ni «troppo aggressiva» (lo dice proprio lui...); o di chi leccava il premier Draghi dicendogli «se non ci fosse lei saremmo terrorizzati».

Figuracce su figuracce e ora vengono a fare i duri e puri con il primo premier donna nella storia della Repubblica. Non è che un po' sessisti sono quelli che lo dicono sempre agli altri?

 La conferenza stampa dello scandalo è stata caratterizzata da perle inaccettabili. Vogliono fare domande, dicono, e poi quello che esce dalla boccuccia ai signori dei media cani da guardia (prima erano da salotto) è «lei non può fare una presentazione così lunga della manovra di bilancio».

Oppure la polemica con la Francia «non le ha insegnato nulla»? No, queste non sono domande, ma esibizioni di arroganza che non c'entrano nulla con il mestiere dell'informazione. In realtà ci troviamo di fronte ad una stampa che in campagna elettorale tifava apertamente contro la paventata vittoria del centrodestra e adesso pretende, ad un mese dal voto, i miracoli che hanno atteso invano e silenti in undici anni di sinistra al potere senza voti.

Che dire, se il destino è contro di noi, peggio per lui... E adesso i giornaloni non si capacitano di dover raccontare una politica che semplicemente attua il programma elettorale con cui ha conquistato la maggioranza dei consensi nelle urne. Forse la Meloni dovrebbe agire come faceva Conte: apparire all'improvviso su Facebook, pretendere di interrompere la programmazione televisiva alla vista della sua pochette, dare vita - quelli sì - a monologhi interminabili, e concedersi a poche, gradite domande subito dopo (quando era possibile).

Draghi appariva - ma guai a chiedergli un'opinione - più disponibile, ma se gli facevi una domanda sensata - ad esempio sulle sue ambizioni per il Colle - rispondeva nettamente: «Non rispondo». E nessun sindacalista della Fnsi pro poneva il sabotaggio del premier. A proposito: alla Meloni rimproverano persino le querele presentate contro gli la insultava quando stava all'opposizione. Adesso si limita a mandarli al diavolo. Dovrebbero essere contenti anziché piagnucolare.

A.V. per "Libero quotidiano" il 24 novembre 2022.  

Anche Rula Jebreal si schiera dalla parte di Roberto Saviano. La conduttrice tv, che in campagna elettorale e subito dopo le elezioni del 25 settembre aveva attaccato pesantemente Giorgia Meloni paventando l'arrivo di un regime in caso di vittoria del centrodestra, ieri è tornata su Twitter ad accusare la leader di Fratelli d'Italia con un post in lingua inglese: «Agendo come un autocrate, il primo ministro italiano coglie ogni opportunità per intimidire e denigrare i giornalisti. I giornalisti che fanno eco alla sua propaganda vengono nominati ministri della cultura e portavoce del governo... mentre i giornalisti che la denunciano vengono minacciati, vittime di bullismo e censurati».

Il tutto corredato dal video nel quale il premier, due giorni fa, critica i giornalisti che l'avevano accusata di non rispondere ad abbastanza domande al termine dell'illustrazione della manovra di bilancio. Subito dopo il voto, Rula Jebreal aveva tirato in ballo una vecchia storia che riguardava il padre di Giorgia Meloni, con cui peraltro il premier non ha più contatti da quando era bambina. 

Su Twitter Rula Jebreal aveva raccontato la storia dell'uomo, arrestato per narco traffico quasi 30 anni fa dopo aver abbandonato le figlie: «Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali, NON colpe collettive». Parole che avevano provocato l'indignazione anche di molti esponenti della sinistra.

Dagospia il 22 Novembre 2022. Da “Un Giorgio Da Pecora”.

Il confronto della premier Meloni coi cronisti al termine della conferenza stampa di oggi sulla manovra? “La sollecitavo a prendere molte più domande, visto che la legge di Bilancio è la principale legge dello Stato. C’è un metodo ormai, l’ho seguita in tutti i viaggi fatti finora e lei tutte le volte ha fatto le stesse cose, dicendo che aveva un impegno e non poteva prendere troppo domande”. A parlare, ai microfoni di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Ilario Lombardo, giornalista de 'la Stampa', che oggi, al termine dell'incontro del governo con i media, ha criticato la possibilità di poter fare poche domande alla premier.

Giorgia Meloni ha sostenuto di non poter rispondere ad altre domande perché attesa da un altro incontro. Questa motivazione è a suo avviso pretestuosa? “Diversi indizi fanno una prova. Ci intravedo un metodo, una strategia, visto che lei fa delle introduzioni più lunghe dei suoi predecessori poi c'è la tagliola dei tempi e finisce che le domande diventano due, tre o cinque, come avvenuto oggi”.  

Lei ha chiesto alla premier di tagliare sui tempi l’introduzione. “La presentazione della manovra è durata 75 minuti, un record degli ultimi anni. Il senso della conferenza stampa è fare domande, non è un convegno”. Meloni ha detto “non mi pare che non siamo disponibili, mi ricordo che in altre situazioni siete molto meno assertivi”. A cosa si riferiva secondo lei? “Non lo so ma è gravissimo che un’istituzione come la presidenza del Consiglio si permetta di accusare una categoria che è lì solo per fare domande. Questo trucchetto è assolutamente inaccettabile per un presidente del Consiglio”.

Secondo lei Giorgia Meloni vuole poche domande? “E’ così. Tanto che dopo aver fatto scoppiare la polemica si è messa a braccia conserte, col volto un po’ nervoso, e ha preso altre quattro o cinque domande”. 

Giorgia Meloni contro i giornalisti, Ilario Lombardo: "E' il suo metodo". Libero Quotidiano il 22 novembre 2022

Protagonista della conferenza stampa di Giorgia Meloni, oltre che la manovra, il botta e risposta con un giornalista. Non è infatti passato inosservato il rimprovero di Ilario Lombardo al presidente del Consiglio che prontamente ha replicato. "Guardi, fermo restando che non mi pare che non siamo disponibili. Mi ricordo che in altre situazioni siete stati molto meno assertivi - ha tuonato la premier -. Lei dice ‘tagliamo l’introduzione', ma è una legge di bilancio, non penso che lei si aspetti che la presentiamo in quattro minuti. Non vi ricordo così coraggiosi in altre situazioni...". 

Parole che non sono piaciute alla firma de La Stampa, che ha ben pensato di rispondere. Sì, ma ai microfoni di Un Giorno da Pecora. In collegamento con Rai Radio1, Lombardo spiega: "La sollecitavo a prendere molte più domande, visto che la legge di Bilancio è la principale legge dello Stato. C’è un metodo ormai, l’ho seguita in tutti i viaggi fatti finora e lei tutte le volte ha fatto le stesse cose, dicendo che aveva un impegno e non poteva prendere troppo domande". 

Ma non finisce qui, perché al giornalista non è bastata la giustificazione della leader di Fratelli d'Italia impegnata in un altro incontro. "Diversi indizi - prosegue - fanno una prova. Ci intravedo un metodo, una strategia, visto che lei fa delle introduzioni più lunghe dei suoi predecessori poi c'è la tagliola dei tempi e finisce che le domande diventano due, tre o cinque, come avvenuto oggi". Insomma, Lombardo contesta il fatto che "la presentazione della manovra è durata 75 minuti, un record degli ultimi anni. Il senso della conferenza stampa è fare domande, non è un convegno". Ecco allora la colata di insulti: "Non lo so ma è gravissimo che un’istituzione come la presidenza del Consiglio si permetta di accusare una categoria che è lì solo per fare domande. Questo trucchetto è assolutamente inaccettabile per un presidente del Consiglio". A maggior ragione - conclude - dato che "si è messa a braccia conserte, col volto un po’ nervoso, e ha preso altre quattro o cinque domande". 

Meloni, "rissa" coi giornalisti? Retroscena: la frase che ha scatenato il caos. Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 24 novembre 2022

Giorgia Meloni presenta la prima manovra del suo governo. Gli occhi del mondo sono fissi sul merito di una legge che è già uno snodo cruciale per un esecutivo sorto solo da un mese: l'attenzione degli osservatori internazionali è morbosa sui conti, la tenuta finanziaria, le misure anti-crisi previste. Al netto, ovviamente, della curiosità sul tasso di discontinuità con la precedente gestione Draghi.

Dopo un'ora di presentazione - con il premier affiancato dai ministri coinvolti direttamente nella stesura - giungono le domande della stampa. Tutto fila liscio, con il botta e risposta vivace su questioni inerenti al cuneo fiscale, al reddito di cittadinanza e così via. Spunti e appigli per mettere sotto pressione il governo però non sembrano essercene: del resto né i falchi di Bruxelles né le solite agenzie di rating hanno avuto argomenti per tuonare sulla legge di Stabilità del destra-centro.

A un certo punto arriva la domanda di un cronista del Foglio che mette in mezzo la "pedagogia" sul dossier Ong. Proprio così: ossia, citiamo, se lo scontro con la Francia «le ha insegnato ad avere un approccio meno propagandistico nei confronti dei Paesi partner». Da questo momento la conferenza stampa assume un'altra piega. La risposta del presidente del Consiglio non si limita all'appunto sul modo, discutibile, con cui la questione è stata posta («Guardi è una vita che voi volete "insegnarmi" qualcosa. C'è modo e modo di fare le domande...») ma è stata l'occasione per ribadire la postura - sua, del governo e dunque dell'Italia - rispetto alle questioni internazionali.

«Non mi ha insegnato niente (la reazione francese, ndr) - questa la precisazione -. Perché credo di avere fatto il mio lavoro, come sempre, difendendo gli interessi di questa Nazione. E non mi pare, differentemente da come è stato raccontato per troppo tempo, che stia crollando qualcosa qui intorno da quando è arrivato il nostro governo». Anzi, se «si parla di fare delle riunioni Ue per affrontare il tema dell'immigrazione» è perché l'Italia ha posto il problema «dei suoi diritti». Siparietto concluso da parte della stampa? Al contrario. Dopo aver risposto a un'ulteriore domanda, Meloni ha chiesto di poter andare via perché attesa a un incontro con Confartigianato.

LA PROTESTA - A questo punto è scattata la protesta di alcuni cronisti: la richiesta è di poter fare altre domande. I toni nei suoi confronti del premier tornano a scaldarsi: c'è chi è arrivato addirittura a lamentare i tempi dell'introduzione del suo intervento. Insomma, un altro "insegnamento". La replica di Meloni non si è fatta attendere: «Ma questa è una legge di Bilancio! Penso che nessuno si aspetti che presentiamo la manovra in quattro minuti. Siamo persone seri». «Anche a Bali», ha aggiunto la voce in sala, «c'è stato spazio solo per tre domande». «Avevo un incontro con Xi Jinping», ha risposto a sua volta. E prima ancora Meloni non le ha certo mandate a dire a chi ha avuto da ridire proprio sulla modalità della conferenza stampa: «Fermo restando che non mi sembra che non siamo disponibili... mi ricordo che in altre situazioni siete stati molto meno "coraggiosi" e assertivi. Mettiamola così...». 

I RIFERIMENTI STORICI - I riferimenti storici della punzecchiatura di Giorgia - che è rimasta a rispondere ancora alle domande - sono noti. È rimasto celebre, e non proprio da manuale del giornalismo "watch-dog", l'applauso scrosciante degli stessi cronisti parlamentari alla conferenza stampa di fine di Mario Draghi (e lo stesso accadde con Carlo Cottarelli e il suo trolley, quando rimise l'incarico esplorativo dopo qualche giorno). Non si ricordano poi, sempre in riferimento all'ex premier, strali o contestazioni nel giorno in cui SuperMario stabilì a quali domande non rispondere (come quelle sul Quirinale). Andando più indietro con i governi non vi è traccia di gesti plateali - come quello invocato ieri dalla nota della Fnsi contro Meloni, chiedendo la prossima volta di abbandonare la conferenza stampa - quando imperversava il metodo Conte-Casalino. Celebre la battuta dell'ex portavoce dell'allora premier 5 Stelle contro un tweet di un giornalista del Foglio che aveva preso di mira ironicamente la sua gestione di una manifestazione contro i vitalizi: «Adesso che il Foglio chiude, che fai? Mi dici a che serve il Foglio? Perché esiste?». Tutt' altro che morbido, infine, fu lo stesso Conte con un giornalista che in piena crisi pandemica osò chiedergli semplicemente lumi sull'operato del commissario Arcuri: «Se lei ritiene di far meglio», questa la risposta, «la terrò presente».

Maurizio Belpietro per “La Verità” il 23 novembre 2022.

Fino a ieri la principale preoccupazione dei giornaloni e dell'opposizione riguardava la tenuta dei conti pubblici. «Con le loro promesse Meloni e soci ci manderanno in malora», era l'ottimistica conclusione di certi accorati editoriali con cui si invitava la maggioranza a non fare danni. 

«Se si tocca la Fornero, anticipando l'uscita dal lavoro di chi ha meno di 42 anni di contributi, si scassa il bilancio dell'Inps», era l'obiezione della sinistra e di alcuni centri studi politicamente orientati. E ora che il consiglio dei ministri ha varato una manovra prudente, senza fare troppo deficit, ma investendo due terzi dei soldi a disposizione in misure che attenuino il rincaro delle bollette?

Adesso che a Palazzo Chigi si è deciso di rinviare la riforma previdenziale a tempi migliori, ritoccando solo il necessario? Nel momento in cui si mette mano al Reddito di cittadinanza, riducendo la platea dei beneficiari? Beh, ovvio: neanche quello va bene. 

Così, gli stessi che prima predicavano cautela per evitare che lo spread salisse, adesso accusano l'esecutivo di mancanza di coraggio e scarsezza di visione. In particolare, un assaggio del doppiopesismo di stampa e opposizione lo si è visto ieri, con i commenti a caldo dopo il varo della legge di bilancio.

 Con una certa dose di ironia lo ha notato anche Giorgia Meloni, che rispondendo alle domande dei cronisti ha replicato alle contestazioni in conferenza stampa dicendo di non ricordarsi tanta assertività ai tempi del governo Draghi. 

Da parte nostra, possiamo aggiungere che altrettanta condiscendenza fu usata quando il premier era Giuseppe Conte, ma anche Matteo Renzi e Paolo Gentiloni dai giornalisti sono sempre stati trattati con i guanti bianchi. Le domande erano felpate, e invece di incalzare il capo del governo, la maggior parte dei rappresentanti della stampa annuiva.

Tutto ciò per dire il clima che ha accolto la Finanziaria: se con Mario Monti la stampa e le forze politiche erano adoranti, scambiando per tagli di spesa perfino le tasse, con Giorgia Meloni improvvisamente giornali e partiti d'opposizione hanno cambiato stile. La trasformazione più clamorosa riguarda il giudizio sul reddito di cittadinanza. Quando fu introdotto, il Pd votò contro e i principali centri studi lo giudicarono una follia che avrebbe creato un buco nel bilancio dello Stato. 

Prima che cadesse il secondo governo Conte, anche i grillini si resero conto che la legge aveva bisogno di manutenzione. Ma ora che il governo Meloni ha deciso di cambiare le regole, limitando la misura alle sole persone che non sono in grado di lavorare, apriti o cielo. Il leader grillino, che dopo essere stato avvocato del popolo da qualche mese, per guadagnare consensi, si è trasformato in tribuno della plebe, minaccia di mobilitare la piazza e si dichiara pronto a tutto.

A sollecitare manifestazioni di protesta è anche l'uomo che ha perso qualsiasi cosa poteva perdere, ossia Enrico Letta, il quale dimentico delle posizioni contrarie del suo partito, adesso difende il reddito di cittadinanza. 

E Renzi e Calenda? Anni fa spararono a zero contro il reddito di cittadinanza, ma ora che bisogna recuperare consensi, e soprattutto attaccare il governo, la musica è cambiata: adesso urge demolire la manovra per demolire il governo. In conclusione, se si sgombra il campo dalle chiacchiere e dalle polemiche di partito, che cosa resta?

Una Finanziaria fatta in un mese (ricordate quando Draghi fece capire che non aveva alcuna voglia di prepararla e qualcuno ipotizzò il rischio di un esercizio provvisorio?), con pochi soldi perché la gran parte erano già impegnati, ma con obiettivi precisi: le bollette, le pensioni, il cuneo fiscale, la card e l'assegno unico per i nuclei familiari con maggiori necessità, la revisione del reddito di cittadinanza. 

A qualche economista colorato tutto ciò ovviamente non piace. Abbiamo sentito con le nostre orecchie Carlo Cottarelli dire in tv che l'intervento sulle pensioni premia interessi particolari. Secondo il professore, che è andato in pensione a 59 anni, chi di anni ne ha 62 e sulle spalle ne ha 41 anni di contributi regolarmente versati, evidentemente ha interessi particolari.

Per lui e quelli come lui forse si devono regalare soldi, con il reddito di cittadinanza, a chi di anni magari ne ha trenta e i contributi non li ha mai pagati. Con il che si capisce quanto strumentali siano le critiche. Per dirla con la Meloni: quanto sono assertivi certi esperti quando non hanno di fronte né Monti né Draghi.

Meloni, porcheria del Fatto in prima pagina: "Mica potete rompere il ca***". Libero Quotidiano il 23 novembre 2022

La stretta del governo sul reddito di cittadinanza proprio non va giù al Fatto Quotidiano. La manovra, illustrata da Giorgia Meloni in conferenza stampa, prevede che i percettori del sussidio considerati “occupabili”, cioè tra i 18 e i 59 anni, potranno continuare a riceverlo solo per i primi otto mesi del 2023, agosto compreso. Poi alla prima offerta di lavoro congrua rifiutata, il reddito sarà tolto. Infine dal 2024 il reddito non ci sarà più. 

La misura tanto cara al Movimento 5 Stelle, quindi, sta per essere eliminata del tutto. Al Fatto non l'hanno presa bene, tanto che la prima pagina di oggi ospita una vignetta velenosa contro Giorgia Meloni. Il premier, ritratto come se stesse parlando in conferenza stampa, dice: "Siamo poveri, siamo poveri gne' gne' gne' e mica potete rompe 'r caz*o, tutto il tempo che c'ho da fa' 'o statista io...". A corredo le parole "Under-dog over the top", con chiaro intento ironico rispetto a quanto la Meloni disse nel suo discorso di fiducia in Parlamento. La vignetta in questione ricalca in modo sarcastico anche i botta e risposta che il premier ha avuto in conferenza con alcuni giornalisti. 

Il Fatto, insomma, illustra la Meloni come una persona indifferente rispetto ai problemi dei più fragili. Peccato, però, che la manovra sia stata fatta proprio per quelle persone lì. Lo ha scritto lei stessa su Twitter: "Orgogliosa del lavoro di questo Governo e di una manovra scritta in tempi record. Una legge di bilancio coraggiosa e concreta, che bada al sodo e offre una visione sulle priorità economiche. Favorire la crescita, aiutare i più fragili, investire nelle famiglie, accrescere la giustizia sociale, sostenere il nostro tessuto produttivo, scommettere sul futuro: questa la nostra ricetta per ridare forza e visione all'Italia".

Clickbait e segugi. L’operaia morta in fabbrica, le notizie frivole e il giornalismo che non se la passa benissimo

È vero che ognuno vede il suo pezzettino di mondo, ma i siti dei quotidiani generalisti hanno dato pochissimo spazio alla donna stritolata nella vetreria. E invece bisognerebbe evidenziare che è una roba mostruosa, più del gatto di Taylor Swift. Guia Soncini su L’Inkiesta l’8 Novembre 2022

Elenco non esaustivo dei titoli che ieri pomeriggio, sulla homepage del sito di Repubblica, erano più in evidenza dell’operaia d’una vetreria che nella notte, in provincia di Piacenza, era morta stritolata da un macchinario. (È una selezione perché, prima di lei, sulla homepage di Repubblica c’erano più di cento notizie, tutte invero più cogenti, e la lista intera sarebbe troppo lunga). 

Greta Thurnberg che cambia carriera; Rihanna che ha l’esaurimento; Checco Zalone dice che Giorgia Meloni sa comunicare; la Champions; gli Europei; Staino in ospedale; il tizio che ha chiesto a Gessica Notaro di sposarlo; il superbonus e il «boom per le villette»; «Torna il caldo»; «L’autunno apre le porte a tre virus: è in arrivo la triplendemia»; «Levante con la figlia al pronto soccorso»; «Re Carlo gela Andrea»; «Disegna una svastica sulla cattedra»; «Un giorno nella vita di Elon Musk»; «Damiano ferma il concerto dei Mäneskin per disperdere la calca»; «Balotelli mostra il dito medio»; «Il gatto amato da Ed Sheeran e Taylor Swift potrebbe essere messo al bando nel Regno Unito»; «Matilde Gioli a Fieracavalli: “Un amore nato sul set, ora cavalcare è una passione”»; subito sopra l’operaia deceduta, un’intervista a Giovanni Malagò sul grave scandalo delle ginnaste che devono essere magre. 

Tutti vediamo solo il nostro piccolo pezzo di mondo, lo sappiamo. È la ragione per cui esiste l’espressione, infondata ma diffusissima, «l’unico paese al mondo che». Ha adattamenti locali in tutto il mondo, mica esiste solamente «solo in Italia»: chiunque legga opinionisti americani legge continuamente che l’America è un paese polarizzato; il resto del mondo, invece. 

Tutti vediamo solo il nostro piccolo pezzo di mondo e c’illudiamo sia il mondo intero. E quindi, diranno i miei venticinque lettori, il tuo piccolo pezzo di mondo è il sito di Repubblica? Macché. Stavo recuperando un programma televisivo della sera prima, e ho visto un paio di spot incredibili. Uno non ricordo neanche di che prodotto fosse, ma prometteva di fare del «bagnetto» (sì, insomma: del momento in cui lavate i puccettoni di mamma loro) «un momento di espressione del sé». Ho pensato distrattamente: ah, vedi, pensavo fosse un momento di transizione da zozzi a puliti. 

Poi c’era uno spot di cibo per cani, e prometteva cibo scientifico ma naturale, e la passatista in me si è detta ma possibile ci tocchi vivere dentro la sacralizzazione di cani e bambini, possibile che adesso neanche coi cani ce la si possa più cavare dandogli gli scarti della carne. 

Quasi quasi stavo per fare il solito pezzo su questo tempo sbandato, sulla dittatura dei puccettoni umani e di quelli canini, sulla tizia australiana che dice che in quanto «mamma di cane» (non sarò io a tradurre: cagna) ha diritto anche lei ai permessi retribuiti per prendersi cura del suo puccettone peloso, e che non va più fuori a cena perché le dispiace lasciarlo solo a casa. 

Avevo anche una vecchia vignetta perfetta del New Yorker, da citare. Nel disegno un infermiere usciva sdegnato da una sala operatoria con un cane al guinzaglio, col tono offeso di quelli che si risentono se gli fai notare che forse il loro cane non dovrebbe spulciarsi vicino al tuo cibo. «Andiamo, evidentemente a certa gente non piacciono i cani», era la battuta della vignetta, prima della quale t’immaginavi chirurghi che gli avessero detto che insomma, la sala operatoria era sterile e il suo puccettone peloso no. 

Ma in un sussulto di senso del dovere ho aperto il sito del Corriere: metti che sia successo qualcosa e io come al solito non ne sia al corrente. L’operaia morta sul lavoro stava un po’ sotto, prima di lei c’era una decina di notizie. Quasi tutte notizie che in gergo si dicono «hard», roba seria: la Meloni, Al Sisi, i migranti, le elezioni americane di metà mandato, la flat tax. Ma, subito sopra all’operaia, c’era un tal Ringo. Non il biscotto e non il batterista dei Beatles: un biondo che diceva d’aver avuto molte donne, d’aver sperperato miliardi, e che non gli piacciono i Mäneskin. 

È stato allora che ho scoperto sotto quante decine di notizie ce l’aveva Repubblica: quando ho pensato ma che cialtroni questi del Corriere, scommetto che Repubblica l’operaia morta ce l’ha in apertura. Voglio dire: c’è qualcosa di più rilevante, per la politica di sinistra, del fatto che nel 2022 la gente muoia in fabbrica? Usiamo «distopia» per qualunque stronzata e non per il fatto fuori dal tempo e dalla sensatezza e dalla civiltà che, in un’epoca che trascorriamo a cianciare di lavoro in remoto e di oppressione rappresentata dall’iva sugli assorbenti, ci sia gente che muore in fabbrica o nei cantieri o comunque in posti nei quali fa lavori più faticosi e meno remunerati di noialtri che ci sentiamo sfruttati se non ci danno il permesso per andare a casa dal cane? 

È stato così che sono andata su Repubblica e l’operaia morta era un titoletto così in fondo che dovevi proprio cercarla per trovarla, e ci saranno certo delle ragioni per questa scelta (banalmente: che i lettori d’un giornale di sinistra cliccano più sui Mäneskin che sull’operaia morta; più sulla crisi di nervi di Rihanna che sull’operaia morta; più sul gatto di Ed Sheeran, sull’ira di re Carlo, sul ritorno del caldo, che sull’operaia morta) – ma. 

Ma forse ognuno vede il pezzettino di mondo che vuole vedere ma anche quello che gli fanno vedere. Forse ho sempre sbagliato a credere che il pubblico fosse responsabile e padrone delle sue scelte. Forse l’operaia che nel 2022 muore in fabbrica gliela devi mettere a tutta pagina, devi fargli capire che è una roba mostruosa, devi farlo sentire in colpa se non se ne interessa e se non ci clicca e se non chiede alla politica di occuparsene adesso, subito, ieri. Forse le influencer devono occuparsene almeno quanto dell’iva sugli assorbenti o dell’incredibile renitenza degli allenatori a lasciar ingrassare le ginnaste, forse devono pensare a gesti dimostrativi più efficaci del tagliarsi la ciocca in solidarietà alle iraniane, anche se proprio non so quali. Forse, se la comunicazione siamo noi, sarà ora che siamo all’altezza del compito. Forse, caro giornalismo italiano, se queste cose devo dirtele io, sei messo veramente male. 

Da liberoquotidiano.it il 4 novembre 2022.

Prosegue senza soluzione di continuità la guerra tra Franco Di Mare, direttore di Rai 3, e Striscia la Notizia. Di Mare infatti ha annunciato di aver querelato il tiggì satirico ideato da Antonio Ricci per "aver mostrato le sue palpatine in diretta", spiega la redazione di Striscia. E così ecco che proprio Striscia, nella puntata in onda su Canale 5 giovedì 3 novembre, serve la sua vendetta contro Di Mare... 

"È un tipetto molto vendicativo, come si evince dalle immagini che vi mostriamo". Ed ecco che Striscia mostra nuovamente le immagini del momento in cui, in televisione, Giovanna Botteri rivelò un aneddoto molto piccante e imbarazzante: quando Franco Di Mare ballò su un tavolo con un paio di slip leopardati. E il direttore, come si nota dalla sua faccia, aveva gradito il giusto la rivelazione.

Tentò di negare la performance, "ovviamente non è vero, non è possibile", disse. Dunque, passò alla controffensiva: per rappresaglia ecco che iniziò a spifferare particolari maliziosi proprio su Giovanna Botteri. "L'hai voluta tu... quando eravamo in Kossovo, in una brutta situazione, avevamo auto e un po' di scorte, ma la benzina finiva. E quando ci serviva qualcosa, benzina o aiuti materiali, bisognava andare da uno dei comandanti. Il quale aveva una passione per Giovanna, che è una bella donna adesso e immaginate che mula era 20 anni fa. Allora lei prendeva la sua migliore camicetta e la sbottonava un po', andava lì e tornava con la benzina. Non avrei mai voluto dirlo, ma...", concludeva Di Mare.

E Striscia, rilanciando il video, rimarca. "Il Di Mare è un tipetto molto vendicativo, come mostra questo video in cui ripesca una vecchia storia con Giovanna Botteri da Mara Venier". Avrà ragione Striscia?

Da striscialanotizia.mediaset.it il 7 novembre 2022.

Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) Valerio Staffelli consegna il Tapiro d’oro a Sonia Grey per aver “molestato” l’ex direttore di Rai3 Franco Di Mare, che ha definito la palpatina in studio alla sua co-conduttrice di Unomattina (Rai1, 2004) «un banale scherzo fra colleghi» in risposta alle «“molestie” che Sonia mi faceva ogni mattina».

«Hai mai sentito in trent’anni di televisione – dice Sonia Grey, rivolgendosi al tapiroforo Staffelli – che ho il vizietto di molestare? Ti sembra che potessi arrivare in studio all’alba per preparare cinque, sei ore di diretta e andare a palpare tutti i giorni il signor Franco Di Mare?». 

«Subivo davanti a tutti. Cercavo di sdrammatizzare, cosa potevo fare? Io giovane donna di spettacolo appena arrivata in Rai. Lui direttore, importante giornalista, tutti gli agganci ai piani alti. Sono stanca di essere tirata in ballo da Di Mare», conclude Grey.

Striscia la Notizia, Sonia Grey: "Di Mare? Subivo davanti a tutti", caos in Rai. Libero Quotidiano l’8 novembre 2022

Prosegue la querelle tra Striscia la Notizia e Franco Di Mare. Nei giorni scorsi, con quanto accaduto a Jessica Morlacchi e Memo Remigi, il tg satirico di Canale 5 è tornato sul caso Di Mare. Peccato però che il direttore di Rai3 non abbia apprezzato il video in cui lo si vede palpeggiare l'ex collega Sonia Grey. E dopo aver ricevuto una denuncia, Striscia va direttamente dalla Grey. È Valerio Staffelli a consegnarle il Tapiro d’oro. 

Il motivo? A detta di Di Mare lo avrebbe "molestato". Da qui la "palpatina" in studio alla sua co-conduttrice di Unomattina. "Palpatina" definita "un banale scherzo fra colleghi" in risposta alle ironiche "molestie" che – disse – "Sonia mi faceva ogni mattina". "Hai mai sentito in trent’anni di televisione che ho il vizietto di molestare? - replica lei nella puntata in onda lunedì 7 novembre -. Ti sembra che potessi arrivare in studio all’alba per preparare cinque, sei ore di diretta e andare a palpare tutti i giorni il signor Franco Di Mare?".

Da qui l'accusa: "Subivo davanti a tutti. Cercavo di sdrammatizzare, cosa potevo fare? Io giovane donna di spettacolo appena arrivata in Rai. Lui direttore, importante giornalista, tutti gli agganci ai piani alti. Sono stanca di essere tirata in ballo da Di Mare“.

Sonia Grey accusa Franco Di Mare di molestie. "Subivo tutti i giorni". La Repubblica l’8 Novembre 2022.

'Striscia' tira fuori un vecchio video di 'Unomattina' in cui il giornalista e la conduttrice si danno dei pizzicotti sul fondoschiena. Lui commenta: "Scherzi tra colleghi". Ma la showgirl: "Dovevo fare buon viso a cattivo gioco, ero solo una donna di spettacolo, lui aveva agganci ai piani alti"

"Non era affatto un gioco, non ho mai avuto il vizietto di molestare nessuno, possibile che Franco Di Mare non abbia altre motivazioni?". Sonia Grey commenta così le dichiarazioni con cui il giornalista e attuale direttore di Rai 3 aveva replicato a un video, mandato in onda da Striscia la notizia a pochi giorni dal caso Memo Remigi, protagonisti il giornalista e la showgirl a Unomattina, una edizione di alcuni anni fa, che si danno buffetti sul fondoschiena a vicenda. Di Mare, attualmente direttore di Rai 3, aveva parlato di uno "scherzo tra colleghi" ma Sonia Grey non la pensa così e chiarisce la propria posizione ai microfoni di Striscia che le ha consegnato un Tapiro d'oro.

"Mi sono stancata di questa ricostruzione distorta e mistificata dei rapporti fra me e Franco Di Mare e per questo ho già interessato il mio legale per decidere come procedere" ha scritto Sonia sul suo profilo social. E il post è stato pubblicato in concomitanza con la consegna del Tapiro". Quanto alla spiegazione fornita dal giornalista, "davvero Franco Di Mare non ha altre motivazioni? In trent’anni di carriera si è mai sentito che io, Sonia Grey, ho il vizietto di molestare qualcuno? Direi proprio di no - risponde la showgirl a Valerio Staffelli - Ti sembra che potessi arrivare in studio all’alba per preparare cinque, sei ore di diretta e andare a palpare tutti i giorni il signor Franco Di Mare? Appena vedi uno come Franco Di Mare ti devi trattenere perché c'hai l’impulso? Sono stanca. Ho sempre cercato di fare buon viso a cattivo gioco. Io donna di spettacolo, lui direttore, un importante giornalista di guerra con tutti gli agganci ai piani alti".

Grey aggiunge di aver provato a lungo imbarazzo, di aver cercato di fare buon viso a cattivo gioco ma "una volta ho fatto un errore e mi ha derisa per non so quanto. Io subivo davanti a tutti - aggiunge - alla fine lui era un uomo importante, io una giovane conduttrice appena arrivata in Rai". Perché abbia deciso di dirlo solo adesso? Perché, spiega, "ora sono uscita da quel contesto, faccio tutt’altro e quindi sono in tutt’altra posizione e poi perché sono stufa che questo signore continui a tirarmi in ballo, perché non si fa. Io penso che un uomo la debba smettere di toccare il sedere in pubblico a una donna, soprattutto quando le due posizioni sono così distanti".

Tra i primi commentatori, Salvo Sottile, che ha twittato: "Possibile che esistano ancora credenze mesozoiche secondo le quali toccare il c**o a una donna (per giunta in tv) è 'solo uno scherzo'? Ma che messaggio passa così? Che se scherzi puoi farlo? Io (anche) da telespettatore li trovo 'scherzi' di pessimo gusto".

Il caso del senatore. Molestie, questione troppo seria per il giornalismo italiano. Angela Azzaro su Il Riformista il 23 Settembre 2022 

Più si legge sulla vicenda che vede coinvolto un senatore della Repubblica, più la questione – serissima – delle molestie e del potere che si esercita passa in secondo piano. Ciò che prevale non è tanto l’appurare i fatti, ma dare in pasto ai lettori, condita con pruderie e voyeurismo, una storia che avrebbe meritato ben altro rispetto. Sia che le accuse siano vere, sia che le accuse siano false prima di dare il risalto mediatico che in questo caso è stato dato andrebbero vagliate meglio, proprio nel rispetto di tutte le parti in causa. Garantismo? No, buon giornalismo.

Dal Metoo siamo state poste davanti a questo crinale: le sacrosante denunce da una parte, la strada della giustizia dall’altra e in mezzo la narrazione di giornali e tv. Lo abbiamo chiamato processo mediatico. Purtroppo questa logica, se all’inizio è riuscita a scalfire il muro di omertà, via via ha preso la piega della giustizia sommaria, dei processi di piazza e soprattutto delle speculazioni tese, non a denunciare un modello di società, ma a vendere e a fare audience. Le storie che abbiamo letto negli anni, persa la cornice dei diritti che le dovrebbe inquadrare, diventano macchine del fango che poi spesso si ritorcono contro le donne. Certo, non si deve tacere. È compito del mondo dell’informazione raccontare, approfondire, fare giornalismo d’inchiesta. Ma della vicenda di cui abbiamo letto in questi giorni sui giornali non convince prima di tutto il modo e i tempi in cui è stata resa nota. Se proponi il servizio pochi giorni prima delle elezioni diventa molto difficile che non si sollevi la questione di essere un attacco politico, per screditare le persone e i partiti coinvolti.  E questo non fa il gioco di chi denuncia, ma semmai la rende meno credibile, meno autorevole.

Poi i fatti. Quelli che andrebbero trattati, sempre, con grande cura e attenzione perché nessuno dovrebbe usare il proprio mestiere per stimolare risposte di pancia, per aizzare la piazza, per chiedere di scagliare la prima pietra. Questo è vero per tanti ambiti della cronaca e della politica. Ma più che mai lo è per un tema così importante, in un Paese dove il numero di femminicidi è sempre altissimo. Dovremmo avere una cura maggiore. Dovremmo sapere che il cambiamento necessario passa in primo luogo dalla capacità che la politica, l’informazione, la cultura hanno nel costruire un discorso pubblico che non faccia nessuna concessione al voyeurismo e alla giustizia sommaria.

Tante intellettuali da anni ci avvertono di questi rischi e continuano a battersi contro le molestie. La scrittrice canadese Margaret Atwood (sta uscendo la quinta stagione della serie il Racconto dell’ancella tratta dal suo romanzo) lo ha detto molto bene: attente a non fare concessioni alla caccia alle streghe perché le streghe siamo e restiamo sempre noi. Lea Melandri, fin dall’esplodere del Metoo, ci aveva avvisate: si tratta di un fenomeno che tende a spettacolizzare il tema delle molestie e della violenza sulle donne. Rispetto al dibattito del passato, l’attenzione mediatica è scemata, ma quando se ne parla si cade sempre nelle stesse trappole e negli stessi stereotipi. Eppure bisogna continuare a denunciare, parlare, chiedere che la politica metta questo tema al centro della propria riflessione e delle proprie proposte. Non lo fa, purtroppo. Ma la strada della spettacolarizzazione, del guardare dal buco della serratura, non genera cambiamento. Non produce consapevolezza. Scrive solo una nuova brutta pagina di giornalismo.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Totalitarismo extra-giudiziario. L’affaire Richetti non è un caso di presunte molestie, ma di dossieraggio a fin di bene. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 22 Settembre 2022.

Nel tribunale parallelo dell’internet, le accuse al politico, maschio e di potere, diventano credibili (nonostante siano strampalate) proprio per il genere e il ruolo del presunto colpevole

Accettare di discutere del “caso Richetti” come di un episodio scabroso, sospeso del limbo di un futuribile e solo ipotetico accertamento giudiziario, significa di fatto accettare la legittimità della giurisdizione parallela del tribunale dell’Internet.

Di più, significa accettare che qualcuno, anzi chiunque possa essere rapito a mezzo stampa da un’Anonima Sequestri di ricattatori politicamente corretti e costretto a pagare il riscatto della resa e il pegno dell’obbedienza, in cambio della salvezza di quel che resta della vita privata, dopo la distruzione della reputazione pubblica. «Non sei un molestatore? Ma almeno ammetti di essere un porco?».

Soprattutto, accettare di parlare di questo caso con la bocca a culo di gallina dei progressisti doc – «La verità la decidono i giudici, però sono accuse gravi, Richetti deve fare chiarezza e non attaccare la donna che l’accusa» – significa accettare che il dossieraggio finto-femministico, che l’informazione dovrebbe denunciare, non propalare, sia qualcosa di diverso dal vecchio dossieraggio sessuale risciacquato nell’acqua santa dell’indignazione woke, di cui occorre dire che è una paranoia molesta, ma anche una straordinaria rendita mediatica per gli utilizzatori finali – i media, chi se no? – dell’eccitazione voyeuristica e del moralismo pecoreccio.

Per questo, di fronte a un boccone così succulento, come quello cucinato da Fanpage, smerciato sui menu di molta stampa e consegnato all’opinione volubile di amici e nemici, l’unica cosa politicamente e deontologicamente decente è di alzarsi da tavola e lasciare a ingozzarsi del fiero pasto i campioni del cannibalismo mediatico. E dire che quella sbobba è immangiabile e i suoi appetenti sono tossici. Non si tratta di fare gli schifiltosi, ma proprio di non volere e non volersi avvelenare. Non si tratta di non parlarne – infatti ne parlo – ma di parlarne per quello che è, cioè veleno.

Per chiunque faccia il mestiere o abbia l’hobby di scrivere delle cose della politica e del potere, domandarsi, fosse pure in interiore homine, se la storia raccontata sia vera oppure no, pur mancando un qualunque elemento in grado di distinguerla da un esercizio di political fiction, è un errore professionale, oltre che una colpa morale. Già rassegnarsi a percorrere il labirinto delle ombre disegnato dalla denuncia di una vittima senza volto a un carnefice senza nome (ma ovviamente riconoscibilissimo) è cadere nell’abisso della giustizia prêt-à-porter, con codici processuali e sostanziali alternativi a quelli che in uno stato di diritto, con una informazione responsabile, possono credibilmente inchiodare un molestatore o una calunniatrice alla responsabilità dell’abuso o della menzogna.

In un’Italia, in cui è ormai normale sostenere che la presunta innocenza di un accusato, di fronte a un’accusa non ancora dimostrata in giudizio, sia inversamente proporzionale alla gravità del reato e che l’onore della prova sia, per così dire, “a requisiti ridotti” quando c’è da mettere a posto un mafioso, un assassino o un molestatore, i reati sessuali provocano in modo particolare rigurgiti inquisitori. Non si può andare troppo per il sottile e l’accusato, soprattutto, deve stare al posto suo. Infatti, anche in questo caso, il fatto che Richetti abbia protestato la propria innocenza e accusato l’accusatrice di mendacio ha comportato un’ulteriore accusa di intimidazione e protervia maschilista nei suoi confronti. Come si permette di accusare chi l’accusa di un reato così orribile!

Però, anche questo fenomeno, cioè questa relativizzazione del principio di non colpevolezza è a valle del cedimento alla logica del delitto d’autore, per cui un uomo, a maggior ragione un uomo di potere, è sempre un potenziale molestatore o stupratore, come uno zingaro è sempre un potenziale ladro. Si può discutere, insomma, se e quanto la sua “potenza” diventi “atto”, ma non che rappresenti la sua più profonda e insidiosa identità. Così il politicamente corretto straborda nel razzismo e in quella sorta di totalitarismo penale extra-giudiziario del dossieraggio scandalistico a fin di bene, pedagogico e ovviamente dalla parte delle donne e contro il maschilismo cisgender.

Quindi la libera stampa non ha il diritto di indagare e raccontare vicende “sporche” per trarne la morale o per far luce sui delitti nascosti nelle oscure trame del potere? Sì, ma ne ha il diritto solo nella misura in cui ne porta anche la responsabilità, che è quella di tirare il sasso senza nascondere la mano, di far luce sulle vicende oscure, non di ingombrare tutto il cielo della politica con la coltre del sospetto, non di compravendere confessioni ricattatorie e avvertimenti a mezzo stampa, come quelli che l’accusatrice di Richetti – e da quel che dice, di mezza politica italiana – ha iniziato a lanciare da varie testate nazionali, che non sono né meglio né peggio di Fanpage e giocano al medesimo gioco magari pure convinte, oltre che di fare numeri importanti, di fare l’unico giornalismo possibile in questi tempi grami.

Mondo Gabibbo. Il senatore, la tizia-senza-nome e i tre giorni del condor che ci possiamo permettere. Guia Soncini su L'Inkiesta il 19 Settembre 2022

Che abbia ragione Richetti o la sconosciuta che lo accusa di molestie, quello che è certo è che abitiamo un tempo in cui la combinazione di esibizionismo e infantilismo rende verosimile anche ciò che appare del tutto implausibile

Questo è un articolo sui tre giorni del condor, ove per «condor» s’intende l’uccello che gli uomini non sanno evidentemente tenersi nelle mutande, e – data questa caratteristica intrinseca fornita loro dai gameti (assieme all’interesse per le partite di calcio e all’incapacità di distinguere il malva dal pervinca) – il fatto che a quel punto sia molto difficile giudicare un’accusa di molestie a meno che non si ragioni per slogan.

Se si ragiona per slogan è tutto più semplice: le donne non mentono mai (si vede che io sono un uomo), credete alle vittime, e altre amenità. Se si prova a ragionare è in genere impossibile sapere come sia andata (è quel che rende i reati sessuali così complicati da giudicare: è molto raro che ci siano prove inoppugnabili in un senso o nell’altro). Però si può osservare il contorno, che come spesso accade è assai più affascinante del resto.

Riassunto minimo della vicenda per chi, beato lui, vivesse nella capanna di Unabomber e non avesse passato il finesettimana a ricevere (e inviare) centinaia di messaggi sulla vicenda Matteo Richetti vs Tizia di cui non sappiamo il nome.

Giovedì sera Fanpage pubblica l’articolo apparentemente più insensato della storia del giornalismo (ma è lunedì e siamo ancora qui a parlarne, quindi avevano ragione loro). Una tizia di cui non si fa il nome accusa un senatore di cui non si fa il nome d’averla molestata, minacciata, e altre amenità. A corredo ci sono presunti messaggi del senatore: il nome e la foto profilo vengono cancellati dalle foto dei messaggi, ma non abbastanza accuratamente da non far ricevere a tutti noi, nella mattinata di venerdì, decine di messaggi che dicono «Pare sia Richetti». Questo nonostante nella prima versione dell’articolo, poi corretto, si dica che nel 2018 il molestatore recidivo era già nello stesso partito in cui è ora (Azione, che nel 2018 non esisteva).

Poi sui messaggi fotografati nell’articolo ci torniamo, ora passiamo a sabato mattina. Quando Carlo Calenda invia un po’ a chiunque la denuncia che Richetti ha presentato nel dicembre 2021 contro un’ignota. La denuncia, da lui inviata a chi si occupa d’informazione sembrandogli discolpante di Richetti, è un capolavoro di commedia all’italiana che immediatamente attira assai più l’attenzione degli sceneggiatori che dei cronisti.

Sono cinque pagine, tre delle quali consistono nella trascrizione d’un messaggio WhatsApp lungo come un romanzo breve, inviato a Richetti da una che egli dichiara di non sapere chi sia. La signora sembra però sapere benissimo chi è Richetti. Tra i momenti letterariamente migliori del messaggio, quello in cui definisce l’amante (presunta, se garantismo dev’essere) di Richetti «nana» e «mongoloide», e quelli in cui scrive «Amore», sempre e solo maiuscolo. C’è anche il passaggio in cui questa figura a metà tra Adèle Hugo e una bollitrice di conigli dice di sé «io sono un personaggio pubblico, mi conoscono tutti»; purtroppo ciò non rappresenta un indizio, nell’universo in cui siamo tutti famosi per quindici like.

Il direttore di Fanpage pubblica un secondo articolo (questa volta firmato da lui; il primo era firmato dal «team Backstair», giacché senso del ridicolo l’è morto) in cui si costerna s’indigna s’impegna, dice che Calenda ha pubblicato dati sensibili, che non è affatto detto che la tizia (anonima) della denuncia fatta da Richetti sia la stessa tizia (anonima) che hanno intervistato loro, ma non risponde alla domanda che tutti ci stiamo a quel punto facendo da due giorni: Fanpage ha verificato che i messaggi fotografati siano in effetti partiti dal telefono di Richetti? (Due anni fa Ben Smith scrisse sul New York Times un articolo pieno di dubbi sui riscontri e le verifiche fatti da Ronan Farrow, smanioso di scoop, nei suoi pezzi sul MeToo. Ma Ronan Farrow scrive sul New Yorker, e Fanpage è testata d’onore).

Il direttore non risponde alla domanda principale anche perché la curiosa posizione di Fanpage è: ma noi mica abbiamo detto sia Richetti. Curiosa fino a un certo punto, cioè il punto in cui Richetti annuncia una querela contro Fanpage, che a quel punto può replicare: sei tu che ti sei riconosciuto, mica noi che ti abbiamo accusato. (Se il New York Times e il New Yorker avessero pubblicato degli articoli in cui scansavano le querele omettendo il nome di Harvey Weinstein, non sarebbe mai esistito il MeToo).

Tutto il mondo è Gabibbo – le presunte vittime che invece di andare in commissariato vanno dalle testate scandalistiche, i politici che si twittano l’un l’altro «vergognati» – e quindi la domenica la passiamo a osservare lo spettacolo d’arte varia.

La Murgia che usa il solito trucco retorico delle donne che per forza non denunciano perché guarda come le aggrediscono poi (ove accusata di qualcosa che ritiene infondato, sono ragionevolmente certa che Michela Murgia se ne starebbe zitta e buona per non inficiare il diritto del querelante al monopolio delle versioni dei fatti).

Calenda che, nel ruolo di Vito Corleone, twitta teste di cavallo: «Conserviamo quanto hanno scritto non solo i giornali ma anche scrittrici e militanti di partito. A futura memoria di un Paese dove il giornalismo ha perso ogni etica».

Richetti che corregge il tiro e dice che sì, in effetti la tizia l’ha incontrata e sa chi è, e ha presentato ulteriori denunce per precisarlo. Quindi quella che gli scriveva cinquecento righe di recriminazioni sulla loro grande storia d’amore non aveva trovato il suo numero per caso: chi l’avrebbe mai detto.

Osserviamo lo spettacolo d’arte varia al centro della scena, che ci distrae da quel contorno che mi sembra invece molto più importante, se vogliamo capire non chi abbia torto e chi ragione nello specifico caso, ma come funzioni il tempo che abitiamo.

Gli screenshot nel pezzo di Fanpage sono di uno che scriverebbe, a una tizia che avrebbe molestato, che tanto lei non può denunciarlo perché lui ha l’immunità. Non distraetevi col dito del «non è tecnicamente vero»: guardate la luna del «ma chi è il coglione che lascerebbe una prova scritta del genere, nell’era dello screenshot e dell’inoltro?». La risposta è: chiunque.

La ragione per cui la prima reazione di tutti alla lettura di quell’articolo è stata «vabbè, ma allora è scemo» è che quell’incontinenza lì è perfettamente plausibile, nell’epoca in cui uomini politici si sono giocati carriere per aver mandato in giro foto del proprio uccello. È probabilmente anche la ragione per cui Fanpage ha preso per veri quei messaggi: che abitiamo l’epoca che unisce l’immanenza del non sapersi tenere l’uccello nei pantaloni a quella del non capire che non devi lasciare prove in giro.

S’instagrammano i rapinatori, cosa vuoi che abbiano discrezione quelli che non se lo tengono nelle mutande. Non esiste più l’inverosimiglianza. Nel 1992 Jeremy Irons incontrava per dieci secondi Juliette Binoche ed era immediatamente pronto a ferire a morte il figlio, con cui lei era fidanzata, e lasciare la moglie, perché scoparsela diveniva da subito la sua unica ossessione. Noi guardavamo “Il danno” sullo schermo del cinema e pensavamo: sì, vabbè, ma chi ci crede, sei un parlamentare cinquantenne, mica un dodicenne privo di lobi frontali.

Trent’anni dopo, leggiamo che un senatore italiano telefonerebbe a una tizia vista mezza volta singhiozzando «Non riesco a chiudere occhio senza di te, dobbiamo essere felici insieme», indistinguibile da un diciottenne senza inibizioni e raziocinio, e pensiamo che sì, magari verrà fuori che non è vero ma, nella tragica combinazione di esibizionismo e infantilismo che ci caratterizza, mica è inverosimile.

Il Grande Romanzo Italiano. Vi prego, date il premio Strega alla coppia Fittipaldi-Rogati. Guia Soncini su L'Inkiesta il 22 Settembre 2022.

Verso la fine di una campagna elettorale noiosetta è arrivato, inaspettato, il capolavoro. L’intervista su Domani della Mata Hari della Camilluccia tocca e supera i confini della letteratura e ci regala un momento di monomaniacalità condivisa che ci mancava da anni

Ci sono periodi in cui si vive (dovrei dire «si soffre», ma sarebbe insincero) di monomaniacalità condivisa. Sanremo. I mondiali di calcio. Quelle cose che devi proprio essere il tipo che mi-si-nota-di-più per piccarti di non seguirle.

Vorrei quindi farvi un elenco non esaustivo dei periodi di monomaniacalità condivisa della mia vita di lettrice, quelli in cui la mattina prestissimo compulsavo i giornali per leggere cosa scrivessero dell’ossessione stagionale, e per il resto del giorno con chiunque parlassi sapevo che aveva letto le stesse cose e stava seguendo gli stessi avvenimenti. I momenti in cui si congedava la cronaca, ed entrava la letteratura.

La settimana in cui morì Diana Spencer, e tutti gli editoriali erano dolenti, e L’Unità titolava «Scusaci, principessa», e tutti si contrivano sull’averla uccisa noi (ma noi chi? Ah, noi lettori di tabloid che le davamo da vivere), e poi arrivò Arbasino e scrisse che «la solita casalinga di buon senso continuerà a osservare noiosamente che chi si imbarca in una carriera regale – o monacale, o parlamentare, o didattica, o infermieristica, o camionistica – sa benissimo che cavoli si dovrà sobbarcare», e mancavano ancora ventiquattr’ore al funerale e improvvisamente capimmo la settimana di scemenza collettiva che avevamo attraversato.

La settimana in cui morì John Kennedy jr, e i giornali italiani proprio non riuscivano a capire chi fosse la sorella di lui e chi quella di lei, chi morta e chi viva, si confondevano tra le caroline, sbagliavano le vocali, e a Capri («Dov’eri quando finì il Novecento?» «A Capri per il weekend») in piazzetta ero l’unica italiana che arrivava all’edicola presto, tra americani che si facevano tradurre i giornali dai camerieri (abbiamo vissuto un tempo senza la Cnn sul telefono, e i camerieri saranno stati pure fluent ma ti facevano pagare un cappuccino diecimila lire).

L’estate in cui ogni mattina trovavo trascrizioni di «stamo a fa’ i froci col culo degli altri» e altre meraviglie per cui sembrava fosse tornata la stagione dell’oro del grande cinema italiano, e per fortuna ero in un albergo per ricchi dove se pretendevo i giornali all’alba non mi facevano pernacchie così quando arrivavano i primi sms che commentavano le intercettazioni di Stefano Ricucci ero preparata (abbiamo vissuto stagioni senza le foto degli articoli su WhatsApp, noi sì che siamo temprati dalle privazioni).

L’estate di Avetrana, quella che ci fece apparire le nostre famiglie tutto sommato normali e affettuose, quella che ci fece capire che quale grande omologazione, i brutti esistono ancora, i brutti e poveri, i fisiognomicamente proletari, quelli che ti pare non possano che essere cattivi; e quindi quella ragazzina potrebbero averla ammazzata tutti. L’estate seguita da un autunno a dire però hai visto la cugina com’è dimagrita, un po’ di galera farebbe bene anche a noi: oggi ci darebbero il 41 bis per body shaming.

L’autunno del MeToo, quando ogni mattina si correva sul sito del New York Times per scoprire se quel giorno avevano messo in mezzo un altro cretino che faceva l’elicottero con l’uccello davanti a tizie lì per lì allibite e che poi invece di raccontarlo ridendo alle amiche l’avrebbero raccontato contrite a un’intervistatrice; o se invece era il giorno in cui disseppellivano l’ultima molestia perpetrata da Harvey Weinstein: a un certo punto mancava praticamente solo la testimonianza postuma di Lauren Bacall.

L’estate in cui due turisti americani, non si capisce come e perché, ammazzano un carabiniere a Trastevere, e niente ma proprio niente in quella storia torna, ma ogni mattina ci sono nuove foto sempre più inimmaginabili fuori da un film di Fincher di questi ragazzetti che fanno i gradassi sui social, perché nel frattempo sono arrivati i social, e il lavoro dei giornali è diventato perlopiù recuperare dalle nostre bacheche i nostri esibizionismi scellerati.

E poi questa fine estate qui, quella della Rogati, o chiunque sia la tizia che secondo Fanpage sarebbe stata molestata da un senatore. Al cui proposito, ricevo da Striscia la notizia e integralmente trascrivo: «Gentile Guia Soncini, abbiamo letto la sua rubrica L’avvelenata del 19 settembre sulla questione Richetti/Fanpage. Tutto il mondo è Gabibbo, tranne il Gabibbo: la storia delle presunte molestie che coinvolge il senatore Richetti era stata proposta al Gabibbo mesi fa, ma dopo essersi consultato con il Tapiro d’oro, aveva deciso di non dare visibilità televisiva al caso. Siamo affranti per gli sviluppi della vicenda, perché pensavamo che con il Gabibbo si fosse toccato il fondo». 

E poi questa fine estate qui, quella di Fittipaldi. Emiliano, ascoltami. Ti devo fare le mie scuse. Io non sapevo tu potessi diventare la mia brama del mattino. Io ti avevo sottovalutato. Io, fino a Lodovica Mairè Rogati, non sapevo che la Sharon Stone delle sciroccate fosse un personaggio che la letteratura italiana – dagli osservatori superficiali scambiata per cronaca, dagli osservatori paranoici scambiata per complotto politico – potesse produrre.

Diceva sempre Arbasino, in un altro articolo micidiale su Diana Spencer, che «in queste faccende, la psicologia delle masse è attentissima anche per istinto animale», ed è il battito animale che all’alba degli ultimi tre giorni ha fatto comparire sul mio telefono commenti agli articoli di Fittipaldi o richieste di foto degli stessi. Un amico a New York mette la sveglia apposta, credo, oppure mi chiede «ti prego mandami l’intervista» prima di andare a dormire, non so, fatto sta che tra le sette e le otto pretende la sua dose di letteratura fittipaldica.

Da quando voialtri a Domani (un giornale che nessuno di noi si era mai filato; certo, c’era Walter Siti, ma lo leggevamo con calma al pomeriggio: aveva a che fare con la riflessione intellettuale più che con l’istinto animale), da quando, dicevo, avete deciso di bullizzare quei poverini di Fanpage, da quando ogni giorno tu (posso darti del tu?), Emiliano, scrivi dieci cartelle che sono diventate il saluto al sole di tutti quelli che conosco, il risveglio è una meraviglia.

Ieri, poi. Ieri tutto si è azzerato. «Rossella O’Hara non era bella, ma gli uomini se ne accorgevano raramente allorché soggiogati dal suo fascino come i gemelli Tarleton». «Chiamatemi Ismaele». «È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo facoltoso debba sentire il bisogno di prendere moglie». «Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono niente, non è niente». Tutti gli incipit della storia della letteratura come la conoscevamo fin qui, spazzati via da «Lodovica Mairè Rogati chiama in mattinata».

Ieri, la Mata Hari della Camilluccia parlava. Diceva cose meravigliose, completamente prive di lobi frontali (signora Rogati, è un’iperbole, non mi metta nella lista delle sue querele: ho capito in questi giorni che se le ritirasse tutte i tribunali italiani smetterebbero d’essere intasati). Se una ci prova il senatore mica si tira indietro. E secondo lei la Rogati [in terza persona, nota di Soncini; più volte, sempre nota di Soncini]. Aldo Moro era il padrino di battesimo di mia sorella. Federico Fellini mi ha vomitato sul tappeto.

I blog che si trovano in giro per l’internet, quelli in cui qualche cronista oggettivo che sicuramente non è la Rogati stessa scrive cronache della vita della Rogati in cui ella viene definita come minimo «la bellissima» e si racconta che gli uomini tentano il suicidio per lei, quei blog sono niente in confronto a un’intervista in cui Lodovica Rogati nel ruolo di Lodovica Rogati parla con aggettivi altrettanto alati di una tizia che chiama «la Rogati».

Credevamo che la letteratura fosse morta, credevamo che la campagna elettorale fosse noiosissima, poi è arrivato il capolavoro. Se al prossimo Strega non premiate come coautori del Grande Romanzo Italiano coloro che hanno creato la nostra monomaniacalità di fine estate (e inizio autunno: vi prego, mica vorrete farla finire) 2022, non so proprio cosa organizziate dei premi letterari a fare. Già me li vedo: Lodovica fa il discorso, Emiliano ingolla il liquore. La letteratura è viva, viva la letteratura.

Caccia al nero. Così le trasmissioni populiste costruiscono le notizie sensazionalistiche. L'Inkiesta il 22 Settembre 2022.

Il libro, edito da Chiarelettere, svela i retroscena della propaganda mediatica di destra. L‘autore è un giornalista che ha lavorato al suo interno per anni e che ha deciso di restare anonimo 

«Ma qui dentro bisognerebbe buttarci una bomba, cazzo. Mica lavorarci!»

Per un attimo, finalmente, potei godermi il suono limpido della mia voce. Fu una sensazione piacevole, di autentica liberazione. Eravamo in una saletta di montaggio, nel cuore degli uffici televisivi, ma con la porta chiusa dal di dentro.

Manuel si mise a ridacchiare. «Bisognerebbe» concordò, «bisognerebbe…»

Manuel era un giovane montatore assunto con contratto a tempo indeterminato, il che faceva di lui una persona felice. Era nato in Spagna da padre asturiano e madre giamaicana, era mulatto e portava i dread come Bob Marley. Perciò gli volli subito bene. Mi confidò che un suo bisnonno aveva partecipato alla grande rivolta di Oviedo del 1934, quando i minatori avevano preso a fucilate la borghesia in nome del soviet universale. Erano cose che avevo letto sui libri di storia, e a sentirle raccontare lì mi vennero i brividi lungo la schiena. Certo, se la nostra televisione fosse esistita nel 1934, noi saremmo stati tra quelli che si sarebbero presi delle giuste schioppettate.

Manuel era decisamente di sinistra, ma era una di quelle persone che pretendevano di poter scindere la vita lavorativa dalle proprie convinzioni personali. Faceva ciò che gli veniva chiesto, gli sembrava corretto così e tutto filava liscio. Era senza dubbio un gran lavoratore.

Quel giorno mi mostrò alcuni degli ultimi servizi che aveva montato. Uno in particolare mi lasciò di stucco. Era stato girato in un quartiere multietnico di una grande città del Sud Italia. Il giornalista, con la troupe al seguito, si intrufolava in un caseggiato fatiscente, dove alcuni anziani si lamentavano della presenza degli immigrati e della sporcizia. La telecamera indugiava a lungo sui cumuli di spazzatura sparsi nel cortile, poi il reporter iniziava a braccare gli extracomunitari. Li inseguiva fin sulla soglia degli appartamenti, gridando loro domande idiote sullo spaccio di droga e altre presunte attività illecite.

«Questa la chiamiamo musica tensiva» mi informò Manuel stoppando il servizio.

«Eh?»

«Musica tensiva. Serve a sottolineare la drammaticità del pezzo. Qui da noi la usiamo parecchio».

Era la stessa musica inserita nel mio servizio sul reddito di cittadinanza, e somigliava molto a quella che avevo notato nel servizio sui minimarket asiatici del collega Tizio. Evidentemente li producevano tutti con lo stampino.

«Ma che c’è di drammatico in questa roba? Voglio dire, ci sono quattro vecchi razzisti, un po’ di pattume in un cortile e un tizio che tampina la gente su per le scale».

Manuel scoppiò a ridere. «E tu non sai che fatica trovare gli unici quattro razzisti del circondario! Quello lì è un quartiere di compagni, tutta gente per bene. Su dieci interviste abbiamo dovuto buttarne via otto, cazzo. È stato un bordello che non ti immagini».

«E perché?»

«Ma perché la gente difendeva gli immigrati, ovviamente. Il giornalista ha dovuto girare come un matto, con Ginevra impazzita che lo chiamava ogni cinque minuti. Era il servizio d’apertura della puntata, mica poteva saltare».

«E quelle altre voci? Le avete cestinate tutte?»

La mia domanda dovette suonare piuttosto ingenua, perché Manuel mi lanciò uno sguardaccio a metà tra il sorpreso e l’impietosito.

«Ma tu hai capito che televisione facciamo qui?» chiese secco.

«Be’, grosso modo…»

«Questa è televisione politica» sbottò. «Noi cavalchiamo l’elettorato di destra. Gli immigrati sono cattivi, gli zingari rubano e il sindacato si frega i soldi pubblici. La gente che ci guarda questo vuole, e noi questo le diamo».

«Ma è uno schifo» mi lasciai sfuggire.

«E lo dici a me, cazzo, che sono pure mezzo negro?»

Ben presto scoprii che quasi tutti i montatori erano come Manuel, e anche molti tecnici e persino qualche giornalista. Ovviamente non credevano a una virgola di ciò che facevano: crederci sarebbe stato da folli, vedendo ciò che accadeva nel dietro le quinte. Lo facevano e basta, con lo stesso grado di coinvolgimento emotivo di un operaio mentre aziona la pressa. La loro era una forma di sopravvivenza mentale, e il fatto che fosse dichiarata e condivisa rendeva il tutto molto più semplice.

Manuel mi spiegò poi alcune altre cose che dovevo sapere.

Ad esempio la questione delle piazze. Il nostro era un programma che pretendeva di parlare al popolo – qualsiasi cosa ciò volesse dire –, perciò venivano allestite le piazze. C’era un giornalista in diretta e attorno a lui alcuni cittadini ai quali veniva data la parola durante i collegamenti con lo studio. I cittadini erano sempre più o meno incazzati, e in genere prendevano a male parole i politici ospiti della puntata. L’effetto era notevole, sembrava che alla gente comune venisse finalmente data la possibilità di spernacchiare il potente di turno. Di fatto, i confronti con le piazze erano tra i momenti più seguiti dell’intera trasmissione.

«Capirai, è tutto costruito a tavolino» sbuffò Manuel armeggiando col mouse.

«Cioè?»

«Le persone vengono selezionate una per una. Sanno già cosa devono dire, e pure quando».

«Intendi che sono degli attori?»

«Ma no, che attori!» saltò su d’improvviso. «Qui non ci sono attori! La gente è tutta vera, naturalmente. Ma ti pare?»

Ancora una volta Manuel sembrò quasi offeso. Stava sulla difensiva, come se le mie domande avessero il potere di sminuirlo personalmente agli occhi del mondo.

Per un attimo mi fece tenerezza: era chiaro che simili conversazioni gli costavano parecchia fatica.

«Supponiamo» continuò «che ci sia da mettere su una piazza contro l’aumento delle tasse. Hanno un politico di sinistra in studio ed è appena andato in onda un bel servizio commovente su qualche imprenditore del cazzo tartassato dal fisco. Mi segui? Be’, a questo punto ci vuole la piazza. E che fanno? Tirano fuori le loro agende e chiamano un bel po’ di associazioni di negozianti. Si fanno mettere in contatto con i tizi più incazzati, quelli che per pagare le tasse non hanno potuto far operare la madre morente, roba così. Li briffano uno a uno e li convocano nello stesso posto. Poi funziona come un set, con quelli dietro le quinte che danno la parola prima a uno e dopo all’altro, a seconda di cosa va detto. Conclusione: il politico in studio riceve un bel po’ di merda, e come vedi è tutta merda vera».

«Diciamo vera, sì, ma accuratamente selezionata» azzardai.

«Bravo! Cazzo, è questo il punto, no? Perché mentire, quando puoi selezionare le verità che ti piacciono di più?»

Era un principio che si stava riproponendo con una certa frequenza, dovevo appuntarmelo da qualche parte. Manuel scoppiò in una gran risata. Avevamo scoperto l’uovo di Colombo, e la cosa sembrava divertirlo da matti.

Che le piazze funzionassero proprio in quel modo me lo avrebbe confermato direttamente chi le organizzava. Era un gruppo di tre o quattro ragazzi, tutti decisamente in gamba, con un gran pelo sullo stomaco e un immenso bacino di contatti. Erano capaci, nel giro di pochissimo tempo, di mettere in piedi qualsiasi genere di platea addomesticata: professionisti rimasti senza lavoro, comitati anti-immigrazione, cittadini imbufaliti contro il degrado, nazivegani, fondamentalisti cattolici, disoccupati, cassintegrati. Facevano una vita d’inferno, tra sfilze di telefonate e logoranti trasferte in giro per l’Italia. Il copione di puntata era la loro Bibbia quotidiana. Il successo della trasmissione gravava in buona parte sulle loro spalle.

Marco era uno dei veterani del gruppo. Lo conobbi all’uscita dalla mensa. Come tutti lì dentro, aveva un fare straordinariamente simpatico. Sapeva chi ero perché aveva visto il mio primo servizio in tv, e subito mi invitò a prendere un caffè.

«Tu sei quello nuovo, eh?» esordì allungandomi le bustine dello zucchero. Anch’io sapevo chi era lui, Manuel me ne aveva parlato almeno venti volte. Sapevo che si era laureato in Scienze della comunicazione ma non era mai riuscito a diventare giornalista. Ogni tanto scriveva articoletti di costume per qualche testata online, spesso firmandosi con uno pseudonimo. Era un grande appassionato di storia della televisione e di cultura nazionalpopolare. Amava intervistare le vecchie glorie del tubo catodico, di cui conosceva vita, morte, miracoli e un infinito numero di aneddoti. Non scriveva per niente male, mi aveva assicurato Manuel, ma era anche ben conscio del fatto che campare di quella roba era praticamente impossibile. Perciò era finito a fare ciò che faceva.

«Sei finito dentro il più grande bordello della televisione italiana» sorrise. Era la stessa cosa che mi ripetevano quasi tutti, Marco però lo disse con un tono particolarmente compiaciuto. Gli risposi che per il momento stavo solo cercando di ambientarmi e di capire come giravano le cose. Lui continuò a sorridere e a fissarmi negli occhi, con l’aria di chi la sa molto lunga. «Mi hanno detto che ti occupi delle piazze» sorrisi a mia volta. «Già, la rogna peggiore di tutte. E che ti hanno detto delle piazze?» «Be’, che è un gran casino».

Non avevo intenzione di sbilanciarmi più di tanto. A differenza di Manuel, Marco non mi ispirava alcuna simpatia. Doveva avere circa la mia età, ma dimostrava almeno dieci anni in più. Aveva il culo basso, i capelli radi e un paio di occhiali dalla montatura dorata e sottile, decisamente fuori moda. Forse neppure lui era di destra, ma doveva essere una di quelle persone che, dopo aver chiuso la porta di casa, se ne fregano di tutto ciò che accade nel mondo.

«Un gran casino, sì» annuì Marco. «Ma calcola che senza le piazze non saremmo il programma che siamo. La gente devi farla sentire protagonista, non ci sono cazzi. Se no stai a fare il solito salotto di sinistra, con Landini, Cacciari e altri personaggi del genere. La gente è incazzata, no? La gente vuole dire la sua e noi le diamo la possibilità di farlo».

Poi iniziò a parlarmi del suo lavoro. Scoprii che Manuel non aveva affatto esagerato: Marco e i suoi colleghi erano innanzitutto degli ottimi sceneggiatori, in grado di selezionare qualsiasi categoria umana e di ridurla forzatamente al cliché di sé stessa.

«Il grosso lo fai con le telefonate. Devi capire in un attimo chi ti trovi di fronte. Devi capire se è “parlante”, come diciamo noi, cioè se funziona bene davanti alla telecamera. Quelli che parlano lentamente li scarti subito. Scarti anche quelli che tendono ad aprire mille parentesi, o che parlano il politichese e cose del genere. È tutta gente che non va bene. Devono saper esprimere un concetto chiaro, preciso, senza andare troppo in profondità nelle cose. È il popolo, no? Il popolo dice pane al pane e vino al vino, senza fronzoli, come direbbe mia nonna. È questo che ci piace.»

Marco non faceva giornalismo, faceva spettacolo. Il fatto che la realtà potesse spesso rivelarsi complessa sembrava esulare dalle sue preoccupazioni. L’importante era che A dicesse A, B dicesse B e C, se non aveva nulla di chiaro da dire, se ne stesse zitto.

«A volte facciamo fare dei cartelli» mi spiegò. «Anche quelli devono contenere messaggi semplici. Che so? “Basta tasse”, oppure “No all’immigrazione”. La gente deve mostrarli durante le dirette. Poi viene stabilita una scaletta degli interventi. Tizio deve dire questo e questo, Caio questo e quest’altro. Il giornalista si limita a far girare il microfono, ma siamo noi che selezioniamo le storie e decidiamo quali mandare in onda».

Guardai Marco, con quella sua faccia un po’ sfigata da vecchio topo di videoteca, e d’improvviso mi venne in mente il passaggio di un libro che avevo letto tanti anni prima: l’autobiografia di Victor Serge. Quella sera sarei andato a ripescarlo e avrei scovato di nuovo il brano che mi interessava.

Dopo essersi scontrato con Stalin, Serge aveva dovuto abbandonare l’Unione Sovietica ed era tornato in Europa occidentale. Con lui c’era il figlio adolescente, che era cresciuto nel mito della Rivoluzione russa e per la prima volta metteva piede in un paese capitalista. I due erano a passeggio nel centro di Bruxelles e si fermarono di fronte a un negozio di scarpe.

«Allora, questa grande costruzione appartiene a un uomo che può farne ciò che vuole?» chiese il ragazzo.

«Sì, il suo nome è scritto sull’insegna» rispose Serge.

«Questo signore ha probabilmente una fabbrica, una casa di campagna, delle automobili.»

«Per lui solo?»

«Insomma, sì…»

Al giovane sovietico dovette sembrare folle. «Ma per cosa vive quell’uomo? Qual è lo scopo della sua vita?» chiese.

Era una domanda meravigliosa, e io ora la riflettevo su Marco: per cosa viveva quell’uomo? Qual era lo scopo della sua vita? Intanto il bar si era ormai svuotato. Finita la pausa pranzo, quasi tutti i dipendenti del gruppo erano tornati nelle rispettive redazioni. I nostri discorsi riecheggiavano nel silenzio, di fronte al bancone sgombro, mentre i camerieri, in bustina bianca con il logo aziendale ricamato all’altezza della fronte, rimettevano diligentemente a posto tazze e tazzine.

Mi chiesi se avessero origliato qualcosa, che ne pensassero e se si fossero fatti anche loro delle domande su di noi. Ma dalla gentilezza affettata con cui ci sorrisero al momento di pagare dedussi che in fondo non doveva fregargliene granché.

Andati in scena i vizi della sinistra. Tredici interminabili minuti di puro delirio. Tutto in diretta sulla tv di Stato e quindi tutto gentilmente offerto dai contribuenti. Francesco Maria Del Vigo il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.

Tredici interminabili minuti di puro delirio. Tutto in diretta sulla tv di Stato e quindi tutto gentilmente offerto dai contribuenti. A sei giorni dal voto Marco Damilano, ex direttore dell'Espresso prontamente arruolato da viale Mazzini con un lauto stipendio, ha pensato bene di ospitare nella sua striscia quotidiana il filosofo francese Bernard-Henry Lèvy, più noto per la chioma grigia artatamente scarmigliata che per la materia (del medesimo colore) sottostante e, da ieri, celebre anche per essere riuscito a infilare un numero enciclopedico di idiozie e insulti in un arco temporale così breve. Ah, un dettaglio non da poco: tutto questo negli ultimi, delicatissimi, giorni di campagna elettorale.

Per il sofisticato intellettuale Salvini è «patetico» e «ridicolo», ma soprattutto è un traditore della patria che tresca con Putin. Ovviamente tutto sostenuto senza lo straccio di una prova e senza un contraddittorio, anzi con l'opera di vassallaggio del conduttore. Ne ha per tutto il centrodestra: la Meloni - dice lui - non la conosce, ma per sicurezza la insulta comunque; Berlusconi è una sua vecchia ossessione e non perde certamente questa occasione per attaccarlo. Ma soprattutto se la prende con quell'aggeggio fastidioso e plebeo che si chiama democrazia. L'intellettuale - più bilioso e stizzito del solito - lo dice chiaramente: l'elettorato non va sempre rispettato. O meglio, va rispettato solo quando rispetta le regole: cioè svolta a sinistra. Altrimenti merita lo sdegno altezzoso di Levy che, per infiocchettare il delirio, ricorda come Mussolini, Hitler e Putin abbiano vinto le elezioni. Il paragone è talmente folle che il conduttore chiede coraggiosamente «il permesso di dissentire almeno sul suffragio universale». Eh, almeno su quello...

Però, tutto sommato, dobbiamo ringraziare Bhl (lui ama farsi chiamare così). La puntata di lunedì del «Cavallo e la torre» è stata un formidabile affresco dei vizi della sinistra più insopportabile e radical chic: snobismo, superficialità di analisi, disprezzo del popolo e della democrazia, odio antropologico nei confronti di tutto quello che gravita al di fuori del salotto della propria abitazione. Un mix, talmente esplosivo, di fronte al quale la piccineria del giornalista che non vede l'ora di far sputtanare l'Italia dal filosofo straniero diventa un peccato veniale. Il problema è che queste pagliacciate le paghiamo noi, cornuti e mazziati, che versiamo il canone per farci insultare. E, per favore, non parlate mai più di par condicio: ieri la Rai la ha fatta esplodere definitivamente.

"Puntata a senso unico", "Dimissioni": bufera in Rai per il caso Damilano. L'intervista al filosofo francese Bernard Henri Lévy su Rai Tre diventa un caso politico. La Lega chiede le dimissioni dell'ad Carlo Fuortes, Fdi invoca l'Agcom. L'Usigrai: "Puntata a senso unico a una settimana dalle elezioni". Alessandra Benignetti il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.  

"Salvini patetico e ridicolo, un personaggio di una debolezza straordinaria". E ancora: "L’Italia è la culla dell’idea repubblicana e merita di meglio di Salvini, Meloni e Berlusconi". Poi, il paragone con i regimi autoritari e il giudizio sul voto popolare: "Non bisogna rispettare l’elettorato, quando gli elettori portano al potere Mussolini, Hitler o Putin la loro scelta non va rispettata". L’intervista dell’ex direttore dell’Espresso Marco Damilano al filosofo francese Bernard Henri Lévy, andata in onda ieri su Rai Tre durante la trasmissione Il Cavallo e la Torre, è già diventata un caso.

La protesta dell'Usigrai

Un caso politico e un caso anche ai piani alti di viale Mazzini, visto che, a cinque giorni dalle elezioni politiche, il fatto che la striscia di approfondimento serale del terzo canale del servizio pubblico abbia mandato in onda quindici minuti di insulti verso i partiti di centrodestra e i loro elettori senza contraddittorio non è passato inosservato. A protestare è il sindacato Usigrai che parla di "puntata a senso unico". "Il pluralismo nel servizio pubblico – osserva l’organizzazione - deve applicarsi anche alle trasmissioni di rete come Il Cavallo e la Torre. E pensare che il conduttore, scelto all'esterno dell'azienda nonostante si potesse contare fra quasi 2000 profili interni, era stato presentato dall'Ad Carlo Fuortes come ‘il giornalista più adeguato’ per ‘informare, intrattenere, fornire strumenti conoscitivi, restando fedeli al sistema di valori aperto e pluralista che il nostro Paese e l'Europa hanno saputo sviluppare in questi decenni’".

Damilano sotto accusa

"Ci chiediamo dove fosse il valore del pluralismo nella puntata di ieri", protesta il sindacato. Le stesse considerazioni vengono fatte dal senatore di Forza Italia, Alberto Barachini, presidente della Commissione di Vigilanza Rai. Quanto accaduto durante la trasmissione di Damilano, spiega il parlamentare azzurro, "ha rappresenta una palese, plurima violazione della normativa sulla par condicio, in spregio dei basilari principi di pluralismo, imparzialità ed equilibrio che devono orientare il servizio pubblico". Quello del filosofo francese di origini algerine, incalza, è stato un "lungo e violento monologo diretto ad alcuni soggetti politici" e "un grave attacco contro la democrazia italiana, rappresentata come un Paese esposto a derive autoritarie e anticostituzionali".

A far discutere è anche l’atteggiamento del giornalista che, fa notare Barachini, "non solo è stato incapace di arginare la violenza verbale del suo ospite in piena par condicio e di riequilibrare l'evidente faziosità dello stesso, ma ha contribuito alla distorsione del dibattito con la sua premessa e con domande tendenziose". A protestare è anche Lettera22, un’altra associazione di categoria che accusa Damilano di non aver "minimamente arginato l'attacco veemente del filosofo francese, neanche quando è arrivato ad affermare che in alcuni casi, cioè quando il voto non corrisponde alle sue preferenze politiche, bisognerebbe abolire la democrazia".

La Lega chiede le dimissioni di Fuortes

Parallelamente, si infiamma la polemica politica. "Sulla Rai c’è stato un comizio di Damilano, pagato mille euro a puntata, contro la Lega. Vi sembra normale in un servizio pubblico percepire mille euro a puntata? Un operaio li vede in un mese, non in dieci minuti la sera su Rai3. È normale che lo paghino gli italiani? I comizi se li paga chi fa i comizi", aveva protestato stamattina Matteo Salvini ai microfoni di Radio Anch’io. E ora i parlamentari della Lega chiedono le dimissioni immediate dell’ad Carlo Fuortes.

"Pluralismo, imparzialità ed equilibrio del servizio pubblico radiotelevisivo sono stati sfregiati ripetutamente e senza ritegno. Tutto questo, a pochi giorni dal voto. Inaccettabile e imperdonabile in una democrazia", tuona il vicesegretario della Lega, Lorenzo Fontana. A chiedere un passo indietro all’amministratore delegato sono anche i deputati Luca Toccalini ed Elena Maccanti, quest’ultima componente della commissione di vigilanza Rai, il senatore Alberto Bagnai e il vice ministro alle Infrastrutture, Alessandro Morelli.

Fdi: "Ora intervenga l'Agcom"

"Il servizio pubblico italiano ospita (o paga? La domanda è ufficiale) uno scrittore francese - noto qui per aver difeso il pluriomicida terrorista comunista Cesare Battisti dall'ipotesi di estradizione - per spiegarci in due minuti l'idea di democrazia della sinistra e per paragonare un'Italia a guida centrodestra ai peggiori regimi. Consiglio di ascoltarlo, è illuminante. Se invece non vi va, sintetizzo in poche parole: se gli italiani - votando - scelgono Fratelli d'Italia o la Lega non vanno rispettati. Sipario", ha scritto Giorgia Meloni sulla sua pagina Facebook pubblicando il video della "lezione di democrazia" di BHL.

Diversi esponenti di Fratelli d’Italia, tra cui Daniela Santanché, invocano l’intervento dell’Agcom, mentre il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, dello stesso partito commenta laconico: "In piena campagna elettorale un filosofo socialista francese ospitato in una trasmissione del servizio pubblico ci viene a dire che la democrazia non conta niente. È un paradosso? No è la Rai".

Rai, è bufera sul comizio anti destra. Damilano e Henri Lévy sparano contro Meloni e Salvini. La Lega: Fuortes si dimetta. Laura Rio il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.

A furia di cavalcare cavalli imbizzarriti, Marco Damilano ne è stato travolto. L'ospitata di lunedì sera del filosofo francese Bernard-Henri Lévy potrà costare cara al giornalista planato in Rai da La7 per realizzare la striscia quotidiana su Raitre Il cavallo e la torre. Una raffica di reazioni indignate e polemiche di tutto lo schieramento di centro destra, del sindacato giornalisti Rai e della Vigilanza parlamentare per le parole durissime usate dall'intellettuale «liberale» contro Meloni, Salvini e Berlusconi. Una rivolta che arriva a chiedere da parte di molti esponenti leghisti le dimissioni dell'amministratore delegato Rai Carlo Fuortes. E, stavolta, da questo guaio non ne uscirà facilmente.

In sostanza Lévy ha sostenuto che in Italia sarebbe in arrivo una ventata di fascismo che va fermato, che il suffragio può non essere rispettato se il voto è sbagliato, che il leader della Lega è «patetico e ridicolo», un «traditore della patria» e che è stata una «ignominia» il suo viaggio in Russia. Damilano ha cercato blandamente di chiarire che queste sono idee del filosofo d'Oltralpe e di dissentire dalle sue affermazioni sul rispetto del voto popolare, non abbastanza però per fermare la valanga di contestazioni. Soprattutto perché siamo a pochi giorni dal voto e nella trasmissione non c'era possibilità (non è previsto) di contraddittorio. E, per rimediare, ieri sera, ha invitato Giovanni Orsina, politologo, docente alla Luiss, per fargli dire che, naturalmente, non c'è pericolo di fascismo in Italia e che è anti producente gridare «al lupo al lupo». Ma non gli servirà per far dimenticare Lévy.

«L'Italia merita più di Salvini, Meloni o Berlusconi - aveva detto nello specifico il filosofo francese - . C'è una tentazione fascista in Europa e in particolare nei prossimi giorni in Italia. Quando gli elettori portano al potere Mussolini, Hitler o Putin la loro scelta non è rispettabile. Un fascista che arriva alle urne non si converte automaticamente in democratico». Alla domanda sulle responsabilità dell'élite europea e della sinistra per «aver lasciato dilagare il populismo nelle periferie», il filosofo aveva replicato: «Ma smettiamola. È colpa dei tecnici europei se Salvini va segretamente a Mosca e negozia il futuro dell'Italia nel retro bottega con inviati dell'ambasciata russa?».

La reazione della Meloni è lapidaria: «Il servizio pubblico italiano ospita (o paga?) uno scrittore francese noto per aver difeso un terrorista come Cesare Battisti per paragonare l'Italia ai peggiori regimi. Consiglio di ascoltarlo, è illuminante». Tradotto: fa il gioco dei suoi avversari portandogli voti.

Salvini ne approfitta per ribadire che bisogna cancellare il canone Rai, come già fatto a Pontida domenica: «È normale che gli italiani paghino uno mille euro a puntata (per dieci minuti) per fare un comizio contro la Lega?».

Il presidente della Commissione vigilanza Rai, Alberto Barachini, fa notare che «quanto accaduto nella trasmissione rappresenta una palese, plurima violazione della par condicio, in spregio dei basilari principi di pluralismo, imparzialità ed equilibrio che devono orientare il servizio pubblico». Inoltre «il conduttore non solo è stato incapace di arginare la violenza verbale del suo ospite, ma ha contribuito alla distorsione con domande tendenziose». Anche l'Usigrai, il sindaco aziendale dei giornalisti, ha reagito con fermezza: «E pensare - scrive - che Damilano, scelto dall'esterno, era stato presentato da Fuortes come il giornalista più adeguato per informare, intrattenere e fornire strumenti conoscitivi restando fedeli al pluralismo...». Insomma, l'ex direttore dell'Espresso (contrattualizzato in Rai poco dopo essere uscito dal settimanale) è rimasto vittima di se stesso e delle sue ideologie e di una pressione fortissima dal primo annuncio dello sbarco nella tv di Stato. Ora si vedrà come questo passo falso segnerà il suo futuro in azienda. E, soprattutto, come ne uscirà l'ad Carlo Fuortes il cui destino, in caso di vittoria del centrodestra, è segnato. Al galoppo fuori dalla Rai.

Da corriere.it il 24 settembre 2022.

Rissa in diretta a «L’aria che tira» su La7 tra Luca Telese e Alessandro Sallusti. Mentre il direttore di Libero stava parlando Telese lo ha interrotto mandandolo su tutte le furie: «Ma basta! Ma vuoi stare zitto? Io t’ho interrotto? Smettila di essere quello che sei! E che caspita! Fai demagogia, coi comunisti non si può parlare!» ha detto uno scatenato Sallusti prima di abbandonare il collegamento con la trasmissione

Meloni, "Domani" in lutto: la clamorosa rosicata di De Benedetti in prima pagina. Libero Quotidiano il 26 settembre 2022

Il giornale Domani è a lutto. Sulla prima pagina del quotidiano edito da Carlo De Benedetti campeggia un disegno realizzato da Marinella Nardi di Giorgia Meloni in una espressione tra il severo e l'antipatico. Un ritratto inquietante sotto il quale c'è il titolo: "Siamo davvero pronti?", "per vincere ha cercato di rassicurare ma non c'è nulla di rassicurante".  

L'editoriale di Curzio Maltese è titolato "In attesa del nuovo governo - Ci tocca già rimpiangere l'Italia di Mario Draghi", un articolo di nostalgia pura per l'ex premier. In un passaggio, si legge: "Draghi ha tracciato un sentiero fondamentale per il nostro paese che alcuni leader proveranno a ripercorrere, anche se lui non ci sarà più a guidarli. Per nostra fortuna, continuerà ad avere un ruolo importante in Europa. Giorgia Meloni ha già detto che batterà i pugni sul tavolo e che 'la pacchia è finita'. Con tutte le crisi che attraversano l'Italia e l'Europa, la presidente di Fratelli d'Italia crede di poter fare la voce grossa. La verità è che avrà difficoltà molto serie a governare".

E ancora: "La scuola italiana cade a pezzi; il paese non ha una strategia per contrastare la crisi climatica; l'immigrazione è un problema serio che la destra pensa di affrontare con i blocchi navali. Figurarsi cosa potrà fare Meloni sul gas con i governi europei. Una leader che ha deciso di non togliere la fiamma dal suo simbolo e che fatica a frenare i suoi militanti nel fare il saluto romano, non ha nessuna credibilità per essere forte nel continente". E conclude: "Sarà un ottobre freddo e buio"

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 25 settembre 2022.

Vorrei essere governato da una persona che non dà del tu a Barbara D'Urso (ce n'era uno, l'hanno disarcionato). Sarà difficile, perché i leader dei partiti che sono andati nel salotto della D'Urso si sono abbandonati, senza distinzioni, a toni confidenziali, si sono lasciati cullare dal suo tono intimistico, hanno sorriso complici alle sue domande: «Sì, però scusami presidente», «Dicci la verità», «Dimmi, dimmi», «Scusami se mi permetto», «Fai un appello, segretario». 

Non è il caso di fare gli schizzinosi o appellarsi a una presunta grammatica politica. D'Urso fa il suo mestiere e lo fa anche bene: esige che l'ospite si rivolga alla sua spettatrice ideale, «la comare Cozzolino di Laurenzana», versione in minore della casalinga di Voghera. Il tu confidenziale diventa così una visione della vita, una morale.

Quando la politica insegue la tv (con l'apporto dei social) succede che anche la politica si trasformi nel trash più collaudato. Come abbiamo potuto constatare in questi anni, il travaso dal populismo televisivo a quello politico è stato immediato e devastante e i programmi che coltivano il populismo e la sua rivalsa sono ormai tanti. Purtroppo, non si governa con il «live sentiment» né con il tu. Si governa solo con il lei, con il senso di responsabilità nei confronti dei problemi reali.

Da iltempo.it il 24 settembre 2022.

Non finisce bene l’intervista di Enrico Mentana a Marco Rizzo. A due giorni dalle elezioni del 25 settembre il giornalista e direttore del Tg di La7 ospita i leader della politica per un faccia a faccia e quello con il fondatore di Italia Sovrana e Popolare scatena un parapiglia e una pesante lite nel corso della puntata de L’ultima parola. A scatenare la rissa è una battuta al veleno di Rizzo: 

“È la prima volta che vengo invitato da lei e dal Tg di La7 prima delle elezioni e sono qui solo perché lo prevede la legge”. Mentana non ci sta: “Non lo prevede la legge e comunque lei è stato invitato varie volte nei programmi di La7”. 

Da la7.it il 24 settembre 2022.

Giuseppe Conte: "Abbiamo studiato questa riforma, gliela dico qui in anteprima". La battuta del Direttore Mentana: "La fermo prima che tiri fuori le pentole"

Giampiero Mughini per Dagospia il 21 settembre 2022.

Caro Dago, premesso che l’apparizione sugli schermi televisivi deve essere garantita a tutti e vi devono essere rappresentate tutte le opzioni politiche, confesso di non avere visto la puntata della striscia televisiva di Marco Damilano in cui lo scrittore francese Bernard-Henry Lévy ha tuonato contro le destre italiane e contro la loro probabile vittoria politica. 

Naturalmente non mi associo alla polemica dell’Usigrai che non perde occasione per vantare che di geniali giornalisti “interni” alla Rai ce n’è caterve e che non c’è alcun bisogno di invitare degli “esterni”. Vorrei ben vedere che la Rai fosse una specie di Fort Alamo che nessun giornalista o intellettuale proveniente da fuori può violare. Ben vengano i Bernard-Henry Lévy se hanno qualcosa da dire e da aggiungere. Ovvio che poi dovrà essere chiamato un altro - possibilmente di pari grado - che testimoni posizioni opposte a quelle di Lévy.

Solo che il punto è proprio questo. Non c’è nessuna prova tangibile che Lévy conosca bene la situazione italiana. Lo dimostra a tutta forza il fatto che lui sia stato tra gli intellettuali “parigini” più accaniti nel difendere il destino di un criminale pluriomicida quale il terrorista rosso Cesare Battisti, uno che ai loro occhi splendeva di luce propria per avere scritto un paio di romanzi gialli non cattivi da leggere. 

Quegli intellettuali francesi non sapevano nulla di nulla, credevano che Battisti fosse un martire della causa del proletariato che la polizia e la magistratura italiano perseguitavano. Del resto è così che in Francia hanno accolto (con il padrinato di François Mitterrand) un bel po’ di assassini del terrorismo rosso che nel frattempo hanno i capelli bianchi, corpi malandati, e che forse a questo punto andrebbero lasciati dove sono: e questo perché nella fattispecie la magistratura italiana non sta perseguitando nessuno ma solo facendo il proprio dovere.

C’è stato un tempo nei caffè intellettuali parigini in cui a credere che in Italia il centro del mondo fosse “Il Manifesto” (il quotidiano di cui sono stato uno dei dodici fondatori e da cui mi sono dimesso dopo tre mesi) e i suoi (notevoli) intellettuali. Così come l’Italia politico-intellettuale spiava ogni mossa di Jean-Paul Sartre e niente affatto di Raynond Aron (che in fatto di analisi del reale lo sovrastava), così a Parigi era grande il risalto intellettuale di una Rossana Rossanda (che qui ricordo con affetto), non certo di Norberto Bobbio di Renzo De Felice tanto per citarne due. 

Tutto questo per dire di non cadere nel provincialismo di andare a cercare fuori dai nostri confini qualcuno che non ha assolutamente nulla da dire sulle nostre vicende e sui nostri guai. Che sono tanti.  

Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 21 settembre 2022.

L'ultima parola spetterà oggi all'Autorità per le comunicazioni (Agcom). Ma il duro attacco al centrodestra italiano, accusato di fascismo dal filosofo francese Bernard-Henri Levy nella puntata di lunedì scorso de Il cavallo e la torre , condotto su Rai3 da Marco Damilano, ha già prodotto un tentativo di riequilibrio nella puntata di ieri. 

Levy, intervistato sul tema della legittimità del voto popolare, aveva definito il leader della Lega, Matteo Salvini, «patetico e ridicolo» e i suoi «traditori della patria che negoziano il futuro del Paese nel retrobottega con inviati dell'ambasciata russa», mentre lo stesso leader «prepara segretamente un viaggetto a Mosca per andare a negoziare il suo futuro politico». Per il filosofo «c'è una tentazione fascista in Europa, in particolare in Italia, e bisogna prenderla di petto». Levy ha sostenuto che l'Italia merita di più di Salvini, Meloni o Berlusconi. E ha detto che «non bisogna sempre rispettare l'elettorato: un fascista che arriva al potere non si converte automaticamente in democratico».

«Sono sue parole» ha preso le distanze Damilano, dissentendo sul suffragio universale: «Qui la campagna elettorale non è in mano a un partito che vuole cancellare la democrazia». Un concetto ripetuto dal conduttore a fine puntata: «L'Italia non è la Russia di Putin». 

Precisazioni che non hanno convinto Alberto Barachini (FI), presidente della commissione di Vigilanza Rai, che ha denunciato «una palese, plurima violazione della normativa sulla par condicio, in spregio dei basilari principi di pluralismo, imparzialità ed equilibrio». Damilano è stato accusato di «non aver arginato Levy», mentre la rete è stata criticata per «l'assenza di controllo editoriale». «Insulti, nessun confronto, dieci minuti di invettiva verso Salvini, la Lega e il centrodestra, pagata con i contributi di tutti gli italiani» ha rincarato Andrea Crippa, vice di Salvini. Giorgia Meloni ha postato l'intervista su Facebook: «Il servizio pubblico italiano ospita (o paga? La domanda è ufficiale) uno scrittore francese - noto qui per aver difeso il pluriomicida terrorista comunista Cesare Battisti dall'ipotesi di estradizione - per paragonare un'Italia a guida centrodestra ai peggiori regimi. Consiglio di ascoltarlo, è illuminante. Se invece non vi va, sintetizzo in poche parole: se gli italiani, votando, scelgono FdI o Lega non vanno rispettati. Sipario». Dai partiti sono giunte richieste di dimissioni dell'ad Carlo Fuortes. E mentre l'Usigrai è insorta contro l'assenza di pluralismo, ieri Damilano, ribadendo di aver preso le distanze da alcune affermazioni del filosofo, ha ospitato il docente Luiss Giovanni Orsina. Che ne ha confutato le tesi, definendo «ridicola» l'affermazione che il fascismo sia alle porte. Sul finale il conduttore, citando Brecht, è tornato sul dovere di rispettare il voto.

Le elezioni e la par condicio. “Con l’intervista a Henry Lévy, Marco Damilano ha fatto il suo lavoro” parla Michele Anzaldi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Settembre 2022. 

Onorevole Anzaldi, la destra ha attaccato la Rai per l’intervista di Marco Damilano a Bernard-Henry Lévy, arrivando a chiedere le dimissioni dell’Ad Fuortes. Che ne pensa?

Damilano ha un curriculum giornalistico di tutto rispetto e ha fatto semplicemente il giornalista: ha invitato un grande intellettuale di caratura internazionale per parlare delle impressioni dall’estero in vista delle elezioni italiane. Difficile pensare che, anche alla luce del collegamento e della traduzione simultanea in diretta, avrebbe potuto comportarsi diversamente. D’altronde il format della trasmissione prevede un unico ospite e infatti il giorno dopo è avvenuto il bilanciamento con l’intervista ad un intellettuale di diversa area culturale. Addirittura ad avere l’ultima parola in una data più vicina al voto è stato l’ospite ritenuto più vicino al centrodestra, quindi a lamentarsi dovrebbero essere gli altri.

Secondo lei, quindi, non c’è stata violazione di Par Condicio?

Vedendo come questa Agcom sta applicando le regole in questa campagna elettorale, una eventuale sanzione contro Damilano sarebbe davvero incomprensibile, a maggior ragione avendo bilanciato il giorno dopo. Nei tg Rai, in particolare nelle prime settimane di campagna elettorale, abbiamo assistito a violazioni plurime e conclamate, senza che l’Authority abbia fatto nulla, e anzi ha dato alle tv un’ulteriore settimana per mettersi in regola, arrivando quindi di fatto alla fine della campagna. Da inizio agosto avevo chiesto all’Authority di garantire il pluralismo fin da subito, facendo rientrare dalle ferie chi doveva vigilare, ma non è stato fatto nulla. Per settimane il Terzo Polo è stato oscurato, mentre al centrodestra è stato garantito il 50% degli spazi, ma l’Agcom non è intervenuta per chiedere il rispetto vero della Par Condicio.

Ad attaccare Damilano è stata anche l’Usigrai, che fin da subito ha contestato l’assunzione esterna. Su questo ha condiviso il sindacato dei giornalisti Rai?

La Rai in questi anni ha assunto una miriade di collaboratori esterni con curriculum discutibili se non totalmente inesistenti, addirittura senza alcuna esperienza televisiva. Assunzioni di chiaro stampo politico, sulle quali molto spesso sono stato lasciato solo a denunciare. Damilano, invece, ha una professionalità indiscutibile, è un giornalista autorevole e un personaggio televisivo affermato da tempo. Dopo tanti anni di scippi da parte della concorrenza, per la prima volta è stato la Rai a sottrarre un volto alle tv commerciali. Un’operazione di successo, tanto è vero che in Vigilanza ho fatto i complimenti all’azienda e nessuno ha obiettato nulla.

Crede che la richiesta di dimissioni a Fuortes sia l’antipasto di quello che succederà se la destra vincesse le elezioni?

La destra in Rai ha 5 direttori su 8, la Lega è il primo partito negli spazi televisivi nei tg, Rai1 ha addirittura tentato di organizzare il faccia a faccia Meloni-Letta esaudendo i desiderata della leader di Fdi e del segretario Pd: vogliono ancora di più? Mi pare che Fuortes li stia già accontentando in tutto. La Lega ha avuto il presidente per tre anni con Foa, ha un consigliere in Cda e i direttori di alcuni tg fanno la corsa a farsi i selfie con Salvini, ben visibili in rete. Direi che i partiti di destra abbiano ampiamente partecipato alla lottizzazione selvaggia di questi anni in Rai, basta leggere cosa scrive oggi il Foglio proprio sulla Lega e su Isoradio”.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

 Antonella Baccaro per il Corriere della Sera il 23 settembre 2022.

Il Pd insorge il giorno dopo la decisione dell'Agcom (Autorità per le comunicazioni) di sanzionare la trasmissione Rai Il cavallo e la torre , condotta su Rai3 da Marco Damilano che ha ospitato le esternazioni del filosofo francese Bernard-Henri Levy. 

Per il Nazareno la delibera «è grave e incomprensibile nei modi e nei tempi, colpisce la libertà di espressione e completa una gestione profondamente insoddisfacente della materia da parte del Consiglio Agcom, alla prima prova importante nazionale di applicazione della Legge 28/2000».

Per il partito di Enrico Letta, «poteva essere sufficiente la misura rimediale del messaggio di avvenuta violazione», mentre andrebbe sanzionata «l'informazione parziale, scorretta e non veritiera in alcuni telegiornali dell'emittenza privata contro il Pd e il segretario». Il Pd si riserva ogni azione utile contro la «disparità di trattamento» e proporrà al nuovo Parlamento una riforma della legge e del ruolo di Agcom, a partire dai meccanismi di nomina. Che oggi spetta al Parlamento per quanto riguarda i quattro consiglieri. E al premier, d'intesa con il ministro dello Sviluppo economico, per il presidente. L'ultimo, Giacomo Lasorella, è stato scelto dal premier Giuseppe Conte, insieme con il ministro grillino Stefano Patuanelli.

Michele Anzaldi, membro della commissione di Vigilanza Rai (Iv), condanna «il passaggio diretto di due esponenti politici dal Parlamento all'Authority» (Antonello Giacomelli, Pd e Massimiliano Capitanio, Lega, ndr ). Il partito di Salvini, con il deputato della Luca Toccalini, contrattacca: «Caro Pd, la Rai non è cosa vostra, ma di tutti gli italiani. Dopo la puntata vergognosa e a senso unico andata in onda nella striscia di Damilano contro Salvini e la Lega, la decisione dell'Agcom di sanzionare Il cavallo e la torre è sacrosanta».

Spiega così il proprio voto contrario alla delibera dell'Agcom su Damilano la consigliera Elisa Giomi: «Non si è tenuto conto del fatto che il conduttore nel corso della stessa puntata ha preso ripetutamente le distanze dalle affermazioni del suo ospite» e «che anche in apertura della puntata immediatamente successiva ha nuovamente preso le distanze dalle affermazioni di Levy».

Lo “scusone” di Marco Damilano per l’intervista “anti-destra”: ira sul volto e aria da offeso. Marta Lima su Il Secolo d'Italia il 23 settembre 2022.

Dallo “spiegone”, specialità della casa quando faceva l’ospite fisso a “Propaganda Live” su La 7, allo “scusone” che ieri sera è stato convinto a fare su Rai Tre per le clamorose sviste nella conduzione nel suo programmi. Più cieca ideologia che sviste, in realtà, quelle di Marco Damilano, costretto a fare pubblica ammenda per la sua intervista a senso unico al filosofo francese Bernard Henry-Lévy, a spese dei contribuenti, autore di una invereconda sequela di insulti e accuse al centrodestra a pochi giorni dal voto.

La censura dell’Agcom e lo “scusone” di Marco Damilano

Il richiamo e la censura dell’Agcom, dopo la puntata di lunedì de Il Cavallo e la Torre, imponeva scuse e ammissione della “faziosità” di quella puntata, ed ecco che ieri sera Damilano, piuttosto che compiere un gesto eroico da paladino della libertà dimettendosi dal lauto contratto, ha pronunciato la formula richiesta con la faccia contrita, prezzante e l’aria da offeso. “Non è stato assicurato il rispetto dei principi di pluralismo, obiettività, completezza, correttezza, lealtà, imparzialità dell’informazione nel corso del programma andato in onda su Rai 3 il 19 settembre 2022″, ha letto imbarazzatissimo in apertura del programma l’ex direttore dell’Espresso, paracadutato in Rai e sistemato in prima serata a fare da megafono alla sinistra a pochi giorni dal voto, tra i malumori dei validissimi giornalisti che da anni fanno informazione a Viale Mazzini.

La Costituzione e la libertà di informazione a senso unico

Damilano ha poi chiuso con un motto garibaldino. “Questo l’Agcom, con delibera numero 33522, ordina di comunicare. Fatto, andiamo avanti!”. La puntata si è poi chiusa con un commovente richiamo di Marco Damilano alla Costituzione, da pelle d’oca. “Libertà di informazione e di espressione del pensiero. E almeno su questo, credo, non ci sia par condicio“. Intanto, il giornalista aveva incassato la solidarietà del Pd, a proposito dell’autonomia giornalista e della libertà di stampa.

Marco Damilano, come ha letto le scuse su Rai 3: l'ultima vergogna. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 23 settembre 2022

Stavolta Marco Damilano era rosso anche in faccia. Gli è toccato leggere, con arroganza, l'umiliante (per lui) decisione dell'Autorità per le comunicazioni davanti ai telespettatori di cui si vanta. La carnevalata messa in scena contro il centrodestra assieme a Bernard-Henri Levy è stata una vergogna. E l'Agcom lo ha punito.

Lui, stizzito, ha dovuto dirlo agli ascoltatori, aggiungendoci la parolina libertà. Ma pretendeva lui le scuse? Il servizio pubblico radiotelevisivo non può permettersi di fare quello che gli pare, e soprattutto a una manciata di giorni dal voto del 25 settembre. Ci sono norme che regolano la par condicio e con la sua trasmissione Damilano le ha violate tutte. Lo dice proprio l'Agcom, che non è una pericolosa centrale della destra eversiva. Il conduttore de Il Cavallo e la Torre ha dunque dovuto fare ammenda pubblicamente. Quelle sei parole le ha pronunciate inghiottendo amaro: pluralismo, obiettività, completezza, correttezza, lealtà e imparzialità. Sono i requisiti principali della par condicio, violati in maniera clamorosa. Noi tutti paghiamo il canone, ieri sera chi li ha messi da parte lo ha dovuto ammettere in tv. E ci voleva perché proprio il canone è una delle tasse più odiate dagli italiani, paghiamo per far parlare male di noi, dice la maggioranza dei cittadini che col voto di domenica certificherà l'orientamento prevalente nel nostro Paese.

Ma non è mica finita, perché c'è l'altra parte della commedia. Inscenata dal Pd, a conferma che i giornalisti rossi non si toccano, soprattutto nel fortino Rai. La delibera dell'Agcom che ha ordinato a Damilano di riparare alla pessima figura, è stata votata da tutti i consiglieri, tranne quella nominata dal Parlamento come membro dell'Authority proprio dal Movimento Cinque stelle, Elisa Giomi. «Bisogna dire di no», è stato l'ordine del Nazareno nonostante lo spettacolo osceno andato in onda su RaiTre. Ed è stata dimostrata l'obbedienza politica a Enrico Letta. Abbastanza pittoresco, potremmo dire. Il lavoro sporco lo devono fare gli ex alleati...

Non pago, il Pd è andato addirittura oltre. Arrivando al ricatto, per vendicarsi comunque dell'Agcom che ha osato punire la Rai. «Il Partito Democratico si riserva ogni azione utile per la valutazione complessiva della possibile disparità di trattamento, in questa competizione elettorale, e proporrà al nuovo parlamento una riforma della L. 28/2000 e del ruolo di Agcom, a partire dai meccanismi di nomina». Cioè, quei commissari dell'Authority vanno cacciati, come si permettono di sanzionare un compagno, la Rai, il nostro fortino? È la commedia dell'assurdo, è la rappresentazione plastica di un metodo partitocratico che pretende ancora di mettere la mani non solo sulla Rai, ma persino sull'autorità di garanzia. Il Pd sarà in minoranza nel prossimo Parlamento e tutti lo sanno. Il suo ricatto resterà lettera morta e serve solo a far vedere di saper alzare la voce. Ma resta grave il tentativo di intimidire chi sta semplicemente facendo il mestiere di controllo che gli assegna la legge. Che volle proprio la sinistra nel 2000, su input dell'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. «Vogliamo le regole». «E se poi non stanno bene cambiamo chi le deve far rispettare». 

Ma è una musica stonata. Già avevano steccato malamente, al Pd, contro la proposta salviniana di abolizione del canone Rai, e ora pretendono di fucilare sul campo l'Autorità. Non va affatto bene, ribattono dalla Lega, perché il servizio pubblico radiotelevisivo "non è cosa vostra": «Dopo la puntata vergognosa e a senso unico andata in onda nella striscia di Damilano contro Salvini e la Lega, la decisione dell'Autorità garante nelle comunicazioni di sanzionare Il cavallo e la torre è sacrosanta. Il fatto che ora i signori del Nazareno pretendano la riforma della stessa Agcom e, udite udite, addirittura il sistema delle nomine - arte in cui proprio i Dem sono maestri assoluti - è il sintomo più evidente di un partito terrorizzato dalla sconfitta elettorale. Scacco matto in arrivo». A parlare è un giovane deputato leghista, Toccalini. Ma il Pd è già vecchio...

Laura Rio per “il Giornale” il 23 settembre 2022.

Alla fine Marco Damilano ha recitato il «mea culpa». Ieri sera, in apertura del suo programma Il cavallo e la torre di Raitre ha detto - come stabilito dall'Agcom - che l'ospitata di Bernard Henry-Lévy ha violato «i principi di pluralismo, obiettività, completezza, correttezza, lealtà e imparzialità dell'informazione» necessari durante la campagna elettorale. 

Ha recitato l'ordinanza dell'Autorità con un'aria un po' sprezzante, velocemente, chiosando: «Fatto. Andiamo avanti». Come a dire: caso chiuso. E poi, alla fine della puntata, ha ricordato l'articolo 21 della Costituzione sulla libertà di pensiero, per dire insomma che ha sì ubbidito, ma che non ritiene di aver sbagliato.

Il filosofo francese - lo ricordiamo - intervistato lunedì da Damilano aveva detto che in Italia corriamo il rischio del ritorno del fascismo, che Salvini è un «traditore» vicino ai russi e che il voto popolare non sempre va rispettato. Parole che hanno scatenato le ira del centrodestra e che hanno portato l'Authority a esprimersi contro la trasmissione. 

Il caso, comunque, non è così chiuso. Prima di tutto perché questa faccenda rimarrà una macchia nella - finora - breve carriera dell'ex direttore dell'Espresso in Rai e ogni suo passo futuro sarà messo sotto la lente d'ingrandimento, figuriamoci poi se vince il centrodestra. In secondo luogo perché ha scatenato il dibattito sulla par condicio, la legge che obbliga le tv e le radio a garantire parità di trattamento e rappresentanza all'interno delle trasmissioni.

In una nota il Partito Democratico sostiene che «la decisione di Agcom è grave e incomprensibile nei modi e nei tempi, colpisce la libertà di espressione e completa una gestione profondamente insoddisfacente della materia da parte del Consiglio Agcom. L'Authority ha emanato, a maggioranza, una sanzione su una singola trasmissione in ragione delle opinioni liberamente espresse e chiaramente attribuibili ad un ospite. Al tempo stesso non è ancora intervenuta su palesi e gravi casi di informazione parziale, scorretta e non veritiera in alcuni telegiornali dell'emittenza privata contro il Partito democratico e il segretario Letta».

Il Pd proporrà al nuovo Parlamento «una riforma della legge 28/2000 e del ruolo di Agcom, a partire dai meccanismi di nomina». Risponde la Lega con le parole di Luca Toccalini, responsabile Giovani del partito: «Caro Pd, la Rai non è cosa vostra, ma di tutti gli italiani. La decisione dell'Autorità è sacrosanta. Il fatto che ora i signori del Nazareno pretendano la riforma della stessa Agcom è il sintomo più evidente di un partito terrorizzato dalla sconfitta elettorale».

Il fatto paradossale è che a chiedere la riforma della legge è il Pd che, all'epoca, quando si chiamava Pds, ne fu artefice insieme all'Ulivo. Però, ora che viene fatta rispettare per un giornalista che sta dalla stessa parte politica, non va più bene. Quando ci si riferisce ai «meccanismi» di nomina, si intende che gli attuali commissari sarebbero tutti di parti politiche non vicine al Pd. E anche questo ha del paradossale perché la delibera ha avuto un solo conto contrario (su 5 componenti, di cui un ex esponente del Pd): quello di Elisa Giomi, professoressa di sociologia, secondo cui «il conduttore ha preso efficacemente le distanze dalle dure affermazioni dell'ospite».

Da codacons.it il 16 settembre 2022.

Il giornalista di RaiSport Alessandro Antinelli e la stessa Rai finiscono denunciate ad Antitrust, Agcom e Commissione parlamentare di vigilanza per la possibile fattispecie di pubblicità occulta. A presentare oggi un esposto il Codacons, che segnala una presunta indebita pubblicità ad un marchio di abbigliamento – di cui lo stesso Antinelli sarebbe testimonial – nel corso di alcune trasmissioni della rete. 

Antinelli avrebbe indossato in più occasioni e vistosamente giacche ed abbigliamento recante il logo del marchio dell’azienda di abbigliamento “Manuel Ritz” durante le proprie apparizioni in tv, come ad esempio nel corso delle partite Italia-Germania del 4 giugno 2022, Italia–Ungheria del 7 giugno e Inghilterra–Italia dell’11 giugno – scrive il Codacons nell’esposto – Il giornalista, oltretutto, risulterebbe essere stato testimonial e protagonista di campagne e spot pubblicitarie proprio per l’azienda di abbigliamento Manuel Ritz.

Come noto al servizio pubblico Rai è da sempre assolutamente vietato ogni tipo di pubblicità occulta, poiché volta a inficiare il rapporto di fiducia tra i cittadini-telespettatori e il fornitore del servizio di informazione; il divieto di pubblicità occulta riguarda tanto le trasmissioni quotidiane che gli appositi spazi giornalistici. 

Singolare appare la circostanza secondo cui il Direttore del programma, Alessandra De Stefano, e la responsabile del team di RaiSport, Donatella Scarnati, non sembrerebbero avere effettuato i dovuti controlli omettendo di verificare la giusta e corretta condotta del giornalista.

Una tale forma di pubblicità occulta potrebbe essere idonea a modificare indebitamente il comportamento economico dei consumatori – si legge ancora nell’esposto del Codacons – e a restringere l’ambito del mercato della libera concorrenza, in violazione anche della tutela coordinata con la libertà di iniziativa economica, realizzando la possibile fattispecie prevista dagli articoli 20, 21, 22 e 23 del d.lgs. n. 206/2005. 

Per tale motivo il Codacons ha denunciato il giornalista Alessandro Antinelli e la Rai ad Antitrust, Agcom e Commissione di vigilanza Rai, chiedendo di aprire un procedimento sul caso e, se riscontrate violazioni o illeciti, procedere alle sanzioni previste dalla legge.

Nella RAI i giornalisti non perdono il vizietto delle pubblicità occulte. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Settembre 2022 

Come noto al servizio pubblico Rai è da sempre assolutamente vietata ogni tipo di pubblicità occulta, poiché volta a inficiare il rapporto di fiducia tra i cittadini-telespettatori e il fornitore del servizio di informazione; il divieto di pubblicità occulta riguarda tanto le trasmissioni quotidiane che gli appositi spazi giornalistici. Ma in Rai nessuno controlla...

Il giornalista di RaiSport Alessandro Antinelli e la stessa Rai sono stati denunciati all’ Antitrust, Agcom ed alla Commissione parlamentare di vigilanza per la possibile fattispecie di pubblicità occulta. A presentare oggi un esposto il Codacons, che ha segnalato una presunta indebita pubblicità ad un marchio di abbigliamento – di cui lo stesso Antinelli sarebbe testimonial – nel corso di alcune trasmissioni della rete.

Antinelli avrebbe indossato in più occasioni e vistosamente giacche ed abbigliamento recante il logo del marchio dell’azienda di abbigliamento “Manuel Ritz” durante le proprie apparizioni in tv, come ad esempio nel corso delle partite Italia-Germania del 4 giugno 2022, Italia–Ungheria del 7 giugno e Inghilterra–Italia dell’11 giugno – scrive il Codacons nell’esposto – Il giornalista, oltretutto, risulterebbe essere stato testimonial e protagonista di campagne e spot pubblicitarie proprio per l’azienda di abbigliamento Manuel Ritz. 

Come noto al servizio pubblico Rai è da sempre assolutamente vietata ogni tipo di pubblicità occulta, poiché volta a inficiare il rapporto di fiducia tra i cittadini-telespettatori e il fornitore del servizio di informazione; il divieto di pubblicità occulta riguarda tanto le trasmissioni quotidiane che gli appositi spazi giornalistici.

Appare singolare la circostanza secondo cui il Direttore del programma, Alessandra De Stefano, e Donatella Scarnati la responsabile del team di RaiSport, non sembrerebbero avere effettuato i dovuti controlli omettendo di verificare la giusta e corretta condotta del giornalista.

Nell’esposto del Codacons si legge che una tale forma di pubblicità occulta potrebbe essere idonea a modificare indebitamente il comportamento economico dei consumatori e a restringere l’ambito del mercato della libera concorrenza, in violazione anche della tutela coordinata con la libertà di iniziativa economica, realizzando la possibile fattispecie prevista dagli articoli 20, 21, 22 e 23 del d.lgs. n. 206/2005. Per tale motivo l’ associazione di consumatori ha denunciato il giornalista Alessandro Antinelli e la Rai alle Autorità Antitrust ed Agcom ed alla Commissione di vigilanza Rai, chiedendo di aprire un procedimento sul caso e, se riscontrate violazioni o illeciti, procedere alle sanzioni previste dalla legge.

Lo scorso 9 settembre la direttrice di RAI SPORT Alessandra De Stefano ha inviato una lettera di chiarimento sulla vicenda: ” Non esiste nessuna sponsorizzazione e nessun accordo pubblicitario riguardante il collega Antinelli che mi ha spiegato nel dettaglio tutta la vicenda che risale al 2015/2017. Antinelli mi ha riferito inoltre di aver informato, seppur solo verbalmente, l’allora direttore di Rai Sport Gabriele Romagnoli. Il collega non ha percepito neanche un centesimo e mai preso parte a campagne pubblicitarie del marchio”. “Ho chiesto ad Antinelli di non apparire più in diretta indossando simboli – continua la De Stefano – anche minimi, che possano fare riferimento ad un qualsivoglia brand e mi riservo nelle prossime ore di ricordarlo a tutti i giornalisti della testata “.

la direttrice di RAI SPORT Alessandra De Stefano

“Il collega ha commesso un errore in totale buona fede. Ha capito. Si è scusato” spiega la De Stefano che però racconta qualcosa di incredibile ” Questa mattina al telefono ho chiamato un membro dell’attuale CDR per invitarlo a non indossare più un capo sponsorizzato con il quale è andato in onda durante le dirette anche ieri. L’immagine di Rai Sport va tutelata sempre per questo già da mesi con l’Azienda stiamo lavorando per fornire capi d’abbigliamento con il marchio Rai a tutti i  colleghi che vanno in video soprattutto quando si trovano in trasferta. Lo faremo anche per i prossimi Mondiali di Calcio a Doha e per lo Sci”.

In passato altri giornalisti RAI erano stati sanzionati per le loro pubblicità ingannevoli. Uno di loro Franco Di Mare, venne sanzionato con la “censura“ dal Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio nella riunione dello scorso 21 febbraio 2011, incredibilmente in seguito è stato nominato persino direttore rete (RAITRE). A raccontare la vicenda da cui partì il procedimento fu Beatrice Borromeo su Il Fatto Quotidiano.

L’Ordine dei Giornalisti del Lazio aveva appiedato nel 2005 Marco Mazzocchi, conduttore all’epoca dei fatti della Domenica Sportiva: due mesi di sospensione dalla professione per alcuni spot pubblicitari. Mazzocchi si difese: “E’ un’ingiustizia”. Ed il Cdr Raisport invece di associarsi alla decisione deontologica dell’ Ordine commento incredibilmente: “Si guardi a casi analoghi“

Leggete cosa scrivevano i giornalisti sindacalisti del servizio pubblico radiotelevisivo: “Il Cdr di Raisport in una nota prende atto della sospensione di Marco Mazzocchi, ma richiama anche l’attenzione degli istituti di categoria su casi analoghi di colleghi che operano nell’emittenza privata nello spirito di una reale ‘par condicio’. ”Il Cdr di Rai Sport, d’intesa con l’Usigrai, prende atto della sospensione dalla professione per due mesi a carico del collega Marco Mazzocchi dopo che il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ha deciso di non accogliere la richiesta del collega di sospendere la sanzione comminata dall’Ordine regionale del Lazio. Un errore, ammesso dallo stesso Mazzocchi, che ha comunque devoluto in beneficenza il compenso ricevuto, sanzionato in maniera assai severa in base al principio, in cui chi lavora a Rai Sport si riconosce pienamente, che i giornalisti non devono fare pubblicità”. A tale riguardo conclude il comunicato: ”respingendo ogni tipo di strumentalizzazione della vicenda, il Cdr di Rai Sport richiama l’attenzione degli istituti di categoria su altri casi analoghi di colleghi che operano nell’emittenza privata, non per spirito di delazione, ma per un’ovvia par condicio nel rispetto di un principio basilare per i giornalisti italiani”. (ANSA). Della serie: così fan tutti…! 

L’ Antitrust aveva già condannato la Rai per pubblicità occulta, oltre ad una sanzione amministrativa di 57.100 euro, per comportamenti reiterati di ingannevolezza ai danni dei consumatori. Il 18 novembre 2005, l’ associazione di consumatori Adusbef,a seguito di diversi interventi di “Striscia la Notizia” denunciava all’ Antitrust una fattispecie di pubblicità non trasparente all’ interno del programma “Isola dei famosi 3” andato in onda su Raidue,in merito alle immagini del marchio “Gatta ci Cueva” marchio ideato e promosso dalla moglie del giornalista, impresso sugli indumenti del giornalista Massimo Caputi, ripreso durante i collegamenti con l’ isola di Saman (Santo Domingo),diffuse il 26 settembre 2005. In seguito Massimo Caputi è passato al quotidiano IL MESSAGGERO dove per 7 anni è stato a capo dello Sport del quotidiano romano del gruppo Caltagirone Editore, salvo venire licenziato “per giusta causa”. 

La Rai era stata condannata a pagare 25 mila euro di multa per il programma “Occhio alla spesa” in onda su Rai 1 condotto da Alessandro Di Pietro. L’accusa è precisa: il conduttore aveva fatto pubblicità occulta alla pasta Aliveris. Le puntate sotto accusa erano 3, quella del 9 gennaio 2012 intitolata “I cibi della salute”, quella del 23 aprile, “La salute vien mangiando”, e quella del 28 maggio intitolata “Alimentazione. Salute. Benessere. Cibi e salute”. Nel corso dei programmi, recitava la sentenza, “vengono ripetutamente descritte in modo estremamente enfatico tutte le caratteristiche benefiche della pasta, vengono intervistati i professori Carlo Clerici e Kenneth D.R. Setchell direttori scientifici degli studi e clinici e soci della stessa società, vengono trasmessi servizi interamente registrati presso lo stabilimento di produzione della pasta Aliveris”.

Nel 2019 Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, ha attaccato Monica Setta, la conduttrice di “Uno Mattina in famiglia” in onda su Rai 1, sempre presente in prima alle manifestazioni leghiste ad applaudire Matteo Salvini. L’accusa anche in quel caso er di pubblicità occulta. Ecco il post del politico apparso su Facebook che sta creando polemiche, non solo sui social: “È normale che una conduttrice del servizio pubblico faccia pubblicità occulta agli indumenti, i gioielli e le scarpe che indossa in una trasmissione Rai, attraverso le sue pagine ufficiali sui social network?” si chiedeva Anzaldi ?

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Michele Anzaldi continuava: “Monica Setta, conduttrice di “Uno Mattina in famiglia” su Rai1, nelle sue pagine Instagram e Facebook fa promozione alle aziende che le forniscono scarpe, gioielli, vestiti, facendo esplicito riferimento con foto e hashtag alla trasmissione di Rai1“. Il post prosegue con alcune domande: «É stata autorizzata dalla Rai? C’è un accordo economico con la Rai o è una sua questione personale? Ci sono eventuali altri accordi economici di altro tipo? Se fosse in vigore il codice sui social, già votato all’unanimità dalla commissione di Vigilanza Rai e sul quale la Rai è ancora inadempiente, Monica Setta avrebbe potuto comportarsi così? Nelle aziende private cosa succederebbe di fronte a situazioni del genere?». Michele Anzaldi conclude: «È opportuno che la Rai e l’amministratore delegato rispondano».

Ricordate il vecchio slogan: “Rai di tutto di più” ? Forse sarebbe il caso di cambiarlo in “Rai di tutto di peggio”....! Redazione CdG 1947

Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 16 settembre 2022.

Arrivano le linguine all’astice. Vassoio di grande impatto cromatico tenuto a mezz’aria tipo feretro da Angelito e Dolores, la coppia di domestici filippini. Scatta un applauso. Il padrone di casa stappa una magnum di Louis Roederer. 

Adesso, immaginate: un finestrone spalancato sui tetti del ghetto ebraico, il riverbero delle luci giallastre di Portico d’Ottavia, cena seduta con sedici persone, tra cui un paio di architetti, un manager, un prete di quelli con l’abito nero di sartoria, un direttore della Rai, un vice-direttore della Rai, un inviato speciale della Rai.

Linguine squisite.

«Stavamo dicendo…» (il prete riattizza le chiacchiere).

«Dicevo — risponde pronto il direttore — che se un po’ conosco Giorgia…». S’infila subito anche il vice-direttore: «Guardate: a me Giorgia sta molto simpatica, è una tipologia umana che mi ispira… poi, se dobbiamo proprio raccontarcela bene, è una donna che ce l’ha fatta da sola…». 

E insomma è tutta una Giorgia di qua, Giorgia di là, andiamo avanti a parlare di elezioni e di quanto potrebbe accadere nel Paese e quindi pure a viale Mazzini e a Saxa Rubra, e loro — tipi che prima avevano confidenza stretta con nomi come Paolo (Gentiloni), Matteo (Renzi) e Dario (Franceschini) — adesso per nome chiamano la Meloni, e la chiamano per nome lasciando intendere stima certa, forse amicizia, sospetta complicità. Il prete sorseggia champagne, poi soffia nell’orecchio: «Sbaglio, o le pecorelle della Rai, anche stavolta, hanno già scelto il nuovo pastore?».

Non sbaglia, don.

È così che va. I segnali sembrano precisi. E, del resto, hanno una prateria.

L’altro giorno, su Libero, un articolo firmato da Francesco Storace è stato letto riga per riga, copiato, conservato su mille cellulari (Storace è un mitico personaggio della destra italiana: deputato, senatore, ministro, governatore del Lazio, profondo conoscitore delle dinamiche Rai e per questo soprannominato, quando fu il temuto presidente della Commissione di vigilanza, Epurator; adesso si è rimesso a fare il giornalista e non scrive mai niente per caso). 

Informa: in Rai, a destra, c’è praticamente il deserto. Aggiunge: «Basti pensare che nelle posizioni apicali — sono 25 — solo cinque non sono di marca Pd». Segue elenco: Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2; Paolo Petrecca, direttore di RaiNews; Alessandro Casarin direttore della Tgr; Marcello Ciannamea, direttore dei Palinsesti; Antonio Preziosi, direttore Rai Parlamento. Altre posizioni: Angelo Mellone, vice-direttore di Rai DayTime; Nicola Rao, vice al Tg1; Paolo Corsini, vice all’approfondimento.

Intanto, qui a cena, siamo al secondo: rombo con patate (un filo salate). Diamo per scontato che per gli otto elencati da Storace siano pronti salti importanti. Sangiuliano è rimasto in azienda, e non sarà senatore di Fratelli d’Italia, perché devono avergli promesso o il Tg1, o persino qualcosa di più. 

Uno dei commensali, vecchio amico dell’amministratore Carlo Fuortes, conoscendone il carattere, pensa non sia il tipo da accettare troppi compromessi. Così finiamo a parlare di Giampaolo Rossi: lui sì che può chiamarla Giorgia. Consigliere personale, marinettiano, vero esperto di tv, uno che vuole bene alla Rai, potrebbe diventarne o amministratore o presidente (Marinella Soldi sa già tutto). Pettegolezzo: gira voce che la Meloni sia rimasta dispiaciuta di essersi ritrovata sul sito Dagospia la foto di Petrecca abbracciato a Salvini dopo un comizio a Cosenza (era considerato in quota Fratelli). Cena divertente. Uno ricorda di quando Piero Vigorelli festeggiò la prima vittoria di Berlusconi camminando nei corridoi della Rai avvolto in una bandiera di FI. Allora racconto quello che mi ha detto Bianca Berlinguer: e cioè che, dopo ogni ribaltone, «la Rai resta comunque, pur con qualche conflitto, un’azienda dove resistono spazi di autonomia. A patto, ovviamente, di volerne usufruire».

Il punto è questo. Michele Anzaldi, da dieci anni segretario in Vigilanza, prima rutelliano, poi renziano, severo e implacabile, spiega sempre che in Rai, in realtà, esistono solo «tipi da Margherita e tipi da Udc. Che, in due minuti, con un saltino, diventano o di sinistra, o di destra». 

Ridono tutti. La padrona di casa ha fatto arrivare le sfogliatelle da Napoli. I tre della Rai smettono di parlare della Meloni, e concordano sul fatto che i più bravi giornalisti dell’azienda siano Antonio Di Bella e Mario Orfeo. Il manager aggiunge Andrea Vianello. Giro di Calvados (Christian Drouin, roba seria). Quello della Rai più giovane mi si siede accanto, voce di velluto: «Amico mio, senti… ma avresti per caso il cellulare di Giorgia?».

Da ansa.it il 5 settembre 2022. 

Il gup di Roma ha rinviato a giudizio l'imprenditore Renato Soru, ex governatore della Sardegna, ed altri nell'ambito del procedimento relativo al fallimento del quotidiano l'Unità. Il processo è stato fissato al prossimo 13 febbraio. 

Nei confronti di Soru ed altri l'accusa è di bancarotta per distrazione e per dissipazione. Soru, difeso dall'avvocato Fabio Pili, compare nel procedimento per il suo ruolo di socio svolto dal 2008 al 2015 in relazione alla gestione del quotidiano.

Dagonews il 6 settembre 2022.

C’è qualcosa di stonato nella valanga di inviti a ritirarsi rivolti dai giornali italiani a Plácido Domingo, ufficialmente nato a Madrid il 21 gennaio 1941, ma in molti sostengono qualche anno prima. L’atto di nascita è andato perduto fomentando la leggenda. Comunque, a quasi 82 anni (forse cinque in più), con moglie, figli, nipoti e una valanga di iniziative potrebbe darsi a quelle senza appannare la straordinaria carriera. 

Ma, si sa, sono in molti a non riuscire a smettere e temere l’horror vacui e, tra questi, vanno annoverati più o meno tutti i giornalisti e commentatori che negli ultimi giorni, specie dopo il flop di Verona, hanno scritto articoli invitando Domingo a smettere “perché è venuta l’ora”. 

Lo scrittore Ferdinando Camon (Urbana, 14 novembre 1935) giovedì primo settembre 2022 tuona dalle pagine di “Avvenire”, dove non cessa di inviare pezzi alla redazione Cultura: “Deve ritirarsi. Ma sarebbe stato meglio se si fosse ritirato prima”. 

Per una volta “il Giornale” e “Il Fatto quotidiano”, quasi sempre di opposto parere, sono d’accordo. A unirli è Katia Ricciarelli (Rovigo, 18 gennaio 1946) che interviene consigliando a Domingo di smettere (“Ad una certa età meglio smettere”). Esatto, peccato che l’abbiamo vista l’anno scorso protagonista in tv nel “Grande Fratello vip”: appanna maggiormente la carriera Domingo in Arena o la Ricciarelli che canticchia nell’arena del Grande Fratello?

Al Corriere, a scrivere due articoli è la giornalista Giuseppina Manin, in pensione da circa dieci anni ma incapace di lasciare la “penna” ai più giovani: “Domingo, l’incapacità di dire basta”, appunto, basta. Simile “La Stampa”, dove il 31 agosto a parlare del “Tragico Domingo, fine di un mito” è Egle Santolini, anch’essa collaboratrice in pensione. 

Il primo settembre, su “la Repubblica”, interviene Francesco Merlo (Catania, 8 aprile 1951), anche lui formalmente in pensione da anni, ma editorialista: “più la voce è stata grande più merita il riposo”. Amen. Sebbene, va detto, Merlo stigmatizzi, giustamente, la mancanza di rispetto verso una leggenda. 

Insomma, visto da che pulpito vengono le prediche a Domingo non resta che continuare in buona compagnia, almeno in Italia, di giornalisti, scrittori e portieri come Buffon…

Giovanna Predoni per tag43.it il 7 settembre 2022.

Si respira una brutta aria nei corridoi che contano di Repubblica, dopo la tirata d’orecchie subita dal direttore Maurizio Molinari e arrivata direttamente per mano del padrone, John Elkann. Motivo del contendere, il trattamento riservato dal quotidiano fondato dal compianto Eugenio Scalfari a Giorgia Meloni, presa di mira con una campagna stampa ad hoc iniziata in concomitanza con l’avvio dell’altra campagna, quella elettorale.

Mentre si agita lo spauracchio fascista, la Meloni vola nei sondaggi

Il continuo sventolio dell’imminente spauracchio fascista che si materializzerebbe con la vittoria del centrodestra a trazione Fratelli d’Italia ha stufato l’editore, che avrebbe chiesto un cambio di linea. 

Del resto la Repubblica ha persino sorpassato a sinistra, almeno in tema di anti-melonismo, l’altro giornale del gruppo Gedi, La Stampa del direttore Massimo Giannini. Una presa di posizione considerata prevenuta ed eccessiva da parte di Elkann, non fosse per altro che la battaglia è destinata a essere persa: la Meloni vola nei sondaggi e secondo le fresche rilevazioni di Swg per La7 ha appena raggiunto picchi mai toccati, veleggiando intorno al 25,8 per cento. 

La lezione dell’Avvocato Gianni Agnelli: «Noi siamo sempre filo governativi»

Pare inevitabile insomma che Fdi prosegua col vento in poppa per diventare l’azionista di riferimento della futura maggioranza di destra che guiderà l’Italia, a prescindere dall’eventualità che Giorgia riesca a ricoprire in prima persona la carica di premier.

E allora, qual è il senso di inimicarsi così tanto il prossimo esecutivo? John si ricorda bene gli insegnamenti che ascoltava in famiglia da giovane e che provenivano dal nonno: Gianni Agnelli ha sempre rivendicato con orgoglio la pragmatica filosofia di casa Fiat, ricordando: «Noi siamo governativi e istituzionali per definizione». 

E pazienza se oggi Fca è diventata a trazione francese, il discorso può essere esteso all’altro business di famiglia, quello dei giornali. Senza considerare che molti degli stabilimenti automobilistici strategici per Fca sono ancora in Italia e potrebbero aver bisogno di incentivi e sostegni… 

La linea aspra: inchieste sul passato, pericolo di deriva autoritaria, foto estreme

Da quanto è caduto il governo Draghi, Molinari ha picchiato duro sulla Meloni, ospitando anche in prima pagina la firma di Paolo Berizzi, giornalista da sempre molto attivo sul tema dei rigurgiti neofascisti, e srotolando inchieste sul passato della leader di Fdi, tra «anime nere, uomini della fiamma e impresentabili». 

Il pericolo, secondo il quotidiano, sarebbe quello di una svolta autoritaria sul modello orbaniano, con una «internazionale reazionaria al lavoro per piegare le regole delle democrazie occidentali e trasformarle in autocrazie». Addirittura una foto pubblicata in apertura di giornale, con il faccione di Giorgia e il titolo “Il diktat”, è stata accusata di bodyshaming e di contenere allusioni sessuali.

In edicola le cose non vanno bene: netta crisi di copie rispetto al 2021

Che dietro questa profonda riflessione del nipote dell’Avvocato sulla linea editoriale ci sia anche la questione della crisi delle copie vendute? Non è un mistero che la Repubblica da tempo vada male: secondo i dati Ads, a giugno 2022 la direzione Molinari garantiva una diffusione, tra cartaceo e digitale, di 134 mila copie, con un inquietante -15 per cento rispetto ai dati di un anno prima. 

Guardando le sole vendite in edicola, le cose vanno pure peggio, con 83 mila copie e un -20 per cento alla casella del confronto con giugno 2021. Una strategia che insomma sembra essere lose-lose: non frena l’emorragia di lettori e ha l’unico risultato di inasprire i rapporti con la donna che dal 25 settembre potrebbe governare il Paese. Ecco perché Elkann vorrebbe aggiustare la rotta. Prima che sia troppo tardi.

Le regole dell’ Ordine per i giornalisti candidati e l’informazione in campagna elettorale. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Settembre 2022 

Si legge che un giornalista evitare di assumere posizioni politiche di parte e di palesare in ogni modo le proprie simpatie e i propri orientamenti elettorali. E quale legge lo prevede ?

L’Ordine dei giornalisti ha pubblicato sul suo sito un vademecum destinato ai cronisti alle prossime elezioni. In una serie di faq (frequent answer e question) , l’Ordine fornisce indicazioni su come il giornalista deve comportarsi in campagna elettorale, in particolare se candidato, “al fine di rispettare il principio del pluralismo e dell’equilibrio nell’informazione”. Norme però non regolamentate da alcuna Legge.

Ad esempio si legge che un giornalista candidato può continuare a svolgere la sua attività, senza occuparsi di politica né andare in video o radio; se è un direttore responsabile, è opportuno che durante la campagna elettorale venga sostituito dal vicedirettore nelle funzioni di guida della testata. Ed ancora il cronista dovrebbe poi astenersi dal condurre eventi a favore di un singolo candidato e in ogni caso chiarire che si tratta di una prestazione professionale. O evitare di assumere posizioni politiche di parte e di palesare in ogni modo le proprie simpatie e i propri orientamenti elettorali. 

Lasciatecelo dire: siamo alla follia ! Un giornalista a parere nostro è un cittadino come gli altri, ed è quindi tenuto a rispettare solo la Costituzione e le Leggi. Non delle norme anticostituzionali e quindi illegittime. Ecco l’elenco completo delle faq.

Un giornalista candidato alle prossime elezioni politiche può continuare a svolgere la sua attività? Il giornalista candidato può continuare a svolgere la propria attività lavorativa a condizione che non si occupi di politica e in particolare di argomenti che possano avere riflessi e ricadute sul voto. Tuttavia, la prestazione del giornalista sui servizi di media audiovisivi di cui alla legge 28/2000 deve essere sospesa durante la campagna elettorale anche nel caso in cui si riferisca a materie non attinenti. Infatti, l’apparizione in video (o audio, nel caso della radio) costituisce di per sé un indebito vantaggio per il giornalista-candidato.

Un direttore responsabile, candidato alle elezioni per il rinnovo del Parlamento, può continuare a svolgere il suo ruolo? E’ opportuno che dal momento della candidatura e sino alla conclusione delle elezioni la direzione della testata sia affidata al vice direttore. Il giornalista potrà ottenere gli stessi spazi sul giornale, televisione, radio o sito web degli altri candidati.

Un giornalista invitato a presentare una serata elettorale organizzata da un candidato, come si deve comportare? Il giornalista dovrebbe astenersi dal condurre eventi a favore di un singolo candidato. Nel caso dovesse accettare l’incarico dovrebbe comunicare in modo evidente e chiaro che si tratta di una prestazione professionale e non di una presa di posizione personale.

Un giornalista che entra in possesso di una notizia “sensibile” su un candidato alle elezioni a pochi giorni dal voto come si deve comportare? Il giornalista è tenuto a rivelare le notizie nel momento in cui ne viene a conoscenza. Nel periodo elettorale dovrà fare in modo, nel caso si tratti di una notizia negativa che potrebbe danneggiare il candidato, che l’interessato abbia la possibilità di replicare nei tempi previsti dalla campagna elettorale.

Un deputato uscente, e nuovamente candidato, organizza un incontro per illustrare l’attività svolta nel corso del mandato a pochi giorni dalle elezioni. Il giornalista come deve comportarsi? Il giornalista dovrà riportare l’attività svolta dal deputato/candidato in modo professionale e senza eccessi e sensazionalismi per quanto riguarda l’attività svolta riportando eventualmente in modo sobrio gli aspetti inediti della campagna elettorale.

Un giornalista può esternare le proprie simpatie politiche partecipando a meeting o eventi nella veste di semplice cittadino? Il giornalista durante la sua attività, e in particolar modo nel corso della campagna elettorale, mantiene un atteggiamento professionale ed evita di assumere posizioni politiche di parte, anche quando presenzia ad eventi a titolo personale.

E’ opportuno che un giornalista mostri le proprie simpatie politiche indossando o esibendo gadget elettorali? Il giornalista evita di palesare in ogni modo le proprie simpatie e i propri orientamenti elettorali.

Una testata organizza un confronto elettorale tra i vari candidati di un Collegio elettorale. Come comportarsi in caso di rinuncia da parte di uno dei candidati? Il moderatore dell’incontro all’inizio del confronto elettorale ricorderà che tutti i rappresentanti candidati alle elezioni sono stati invitati e che il tale candidato di quell’area politica ha preferito non intervenire al confronto.

Le varie testate hanno da tempo profili social propri. Il silenzio elettorale vale anche per le piattaforme web? Le norme che regolano la diffusione di notizie relative alle prossime elezioni e ai vari candidati valgono anche per i profili social delle testate stesse. Va specificato che si deve trattare di testate giornalistiche ricomprese nell’ambito di applicazione delle norme che disciplinano il silenzio (art. 9 della legge n. 212 del 1956 e s.m.i. e art. 9 bis del d.l. n. 807/1984, convertito in legge 4 febbraio 1985, n. 10), da cui sono esclusi quotidiani e periodici. La violazione del silenzio ai sensi di queste norme esula dall’ambito di applicazione della legge n. 28/2000, e dunque dalla competenza dell’Autorità, risultando invece suscettibile di valutazione, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 212/1956, da parte delle Autorità prefettizie.

Diritto all’oblio: può venir meno nel momento in cui un cittadino decide di candidarsi? Il giornalista dovrà valutare con attenzione la notizia che in condizioni normali non dovrebbe essere pubblicata bilanciando il diritto all’oblio all’eventuale interesse pubblico con riferimento alle elezioni.

Un giornalista può schierarsi politicamente sui propri profili social privati? Il giornalista rispetta sempre e comunque le regole deontologiche anche sui social e piattaforme personali, come previsto dal Testo unico dei doveri del giornalista.

Un giornalista può svolgere il ruolo di addetto stampa di un candidato o di un gruppo politico? Il giornalista che sceglie o accetta di svolgere il ruolo di addetto stampa per un candidato alle elezioni sospende la sua attività di giornalista presso testate giornalistiche o comunque interrompe la scrittura di articoli di politica elettorale per testate giornalistiche.

Come regolarsi in ordine alla diffusione dei risultati di sondaggi? Con riferimento ai sondaggi, oltre al Testo Unico dei doveri del giornalista, va applicato il regolamento allegato alla delibera 256/10/CSP di AGCOM, che ne costituisce una specificazione. Inoltre, con riferimento ai sondaggi politico elettorali nel corso della campagna elettorale, trova applicazione la legge 28/2000. Per cui, oltre ai doveri di trasparenza da rispettare nella diffusione sui mezzi di comunicazione (nel caso dei sondaggi, AGCOM ha competenza sia sugli SMAV che sulle testate giornalistiche in generale), va rispettato il divieto di diffusione nei 15 giorni antecedenti al voto.

Come effettuare le segnalazioni relative alle violazioni di competenza dell’Autorità? La legge 28/2000 stabilisce, all’art. 10, che solo i soggetti politici interessati sono legittimati a segnalare le violazioni all’AGCOM, all’emittente privata o all’editore presso cui è avvenuta la violazione, al competente comitato regionale per le comunicazioni, al gruppo della Guardia di finanza nella cui competenza territoriale rientra il domicilio dell’emittente o dell’editore. Le segnalazioni all’Autorità vanno inoltrate all’indirizzo di posta elettronica certificata agcom@cert.agcom.it. L’Autorità procede anche d’ufficio a valutare le presunte violazioni della legge 28/2000 e delle delibere attuative.

Come segnalare eventuali violazioni deontologiche dei giornalisti? Eventuali violazioni deontologiche possono essere segnalate ai Consiglio territoriale di disciplina istituito presso la sede di ogni Ordine regionale dei giornalisti.

I primi cronisti parlamentari erano dei "Capitan Fracassa". Arnaldo Vassallo concepì un giornale corsaro assieme ad amici. Da quella redazione passarono D'Annunzio e Trilussa. Giancristiano Desiderio il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.

Le testate giornalistiche di fine Ottocento erano più affascinanti e fresche, addirittura ironiche bisogna pur riconoscerlo delle attuali: Capitan Fracassa, Don Chisciotte della Mancia, Folchetto, Il Torneo. Non sono esempi presi a caso e sono stati scelti da Adriano Monti Buzzetti Colella per svolgere la sua ricerca sulle origini del giornalismo parlamentare con il lavoro, insieme istruttivo e divertente, Reporter col cilindro (Giubilei Regnani). Giulio Andreotti, che con uno scritto del 2008 firma la Prefazione del testo, osserva che si tratta di una «particolarissima storia d'Italia» e nota che con una «documentazione inedita» si dà rilievo a un metodo di lavoro giornalistico che ancora oggi può risultare utile per riconsiderare e migliorare il giornalismo che si aggiunga con l'avvento dell'informazione in «tempo reale» e «irreale» ha visto prima il declino e poi la scomparsa della nobile figura del cronista parlamentare.

Come diceva l'Ariosto aprendo il suo gran poema? Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie, l'audaci imprese io canto. E la stessa cosa ha fatto Adriano Monti Buzzetti Colella, che ha un nome che sembra una marcia d'orchestrali, che ha raccontato amori, duelli, penne, sfide, maneggi, imprese e fallimenti dei giornali e dei giornalisti italiani che hanno la stessa data di nascita dell'Italia tutta unita, senza l'esclusione della stessa Roma dei Papi che con l'ingresso dei bersaglieri il 20 settembre 1870 diventò di fatto la nuova capitale del Regno. Il lavoro di Adriano Monti sia concessa l'abbreviazione che è un noto problema giornalistico che è di stanza al Tg2 come vicecaporedattore della Cultura, ricopre un quindicennio circa di storia giornalistica e parlamentare: dal 1876, quando la Sinistra storica va al governo, al 1892 quando esplode lo scandalo della Banca Romana. Il protagonista di questi anni non è né Francesco Crispi e nemmeno l'inventore del trasformismo Agostino Depretis, che pure fu ben otto volte presidente del Consiglio, bensì Luigi Arnaldo Vassallo. Chi è? Il pioniere del giornalismo moderno. Un genio. Sa usare la penna e la matita, scrive e disegna, titola, critica, fustiga, inventa e con Capitan Fracassa, concepito e finanziato nel caffè-birreria Morteo in via del Corso a due passi da Palazzo Chigi, trasforma il giornalismo del tempo in un'attività insieme professionale e letteraria. Le cose andarono così. Si ritrovarono una sera, come spesso accade tutt'oggi, quattro amici al bar ed erano tutti giornalisti o praticavano l'insana abitudine di frequentare redazioni e altri postriboli: Federico Napoli, Gennaro Minervini, Peppino Turco e, appunto, Vassallo che veniva da Genova ma si era ambientato bene nella nuova Roma in cui si incrociavano le penne e le spade. Luigi Arnaldo Vassallo, che firmava un po' ovunque con lo pseudonimo di Gandolin ossia vagabondo, tirò fuori l'idea fissa di ogni giornalista di razza: «Facciamo un giornale tutto nostro». E così misero giù il progetto: redazione, sede, battaglie e nome geniale: Capitan Fracassa. Dove si fermarono? Dove ci si ferma sempre: i soldi. Ma in quel momento entrò il banchiere Moisé Bondi. Gli esposero l'idea e il banchiere, che si era trasferito da Firenze a Roma, che non era fesso, altrimenti non poteva essere banchiere, prese a volo l'occasione di avere un giornale: «Ecco diecimila lire». Una cifra enorme per l'epoca e della quale non volle mai la restituzione.

È il caro vecchio problema del finanziamento dei giornali che genera come scrisse una volta Vittorio Feltri nella Prefazione al libello di Tito Giliberto Penne Sporche l'omissione, la distrazione, l'autocensura, il conformismo, la vigliaccheria. Tutti difetti del giornalismo nostrano (non solo nostrano) che, però, non furono di Gandolin e del suo Capitan Fracassa che finì per fracassare non poco l'anima ai potenti di turno. Perché, in fondo, il mestiere del giornalista, come disse una volta un decano dei cronisti parlamentari come Guido Quaranta, consiste «nel rompere i coglioni a tutti».

Vassallo fu il direttore del giornale e il Fracassa, con i suoi articoli e con i suoi «pupazzetti» oggi diciamo vignette divenne «il centro intellettuale della nuova Roma». Non a caso per la redazione passarono, per citarne solo alcuni, Gabriele D'Annunzio, Edoardo Scarfoglio, Edmondo De Amicis, Matilde Serao, Cesare Pascarella, Trilussa mentre lo stile, lo pseudonimo, i «pupazzetti» vennero letteralmente copiati dagli altri quotidiani romani. Tutti lo cercano e tutti lo vogliono dirà il Vate di Luigi Arnaldo Vassallo perché «sa cogliere il lato ridevole degli uomini e delle cose e in un sol gesto o in sol motto o con un segno solo della matita rappresentarlo». Appunto, un genio.

Che più? Molto, molto altro perché il libro, di cui qui si è dato un piccolo assaggio, è una miniera d'oro di notizie e di disegni su un tempo lontano ma non troppo della nostra storia patria, politica e giornalistica, che come avvertiva l'avvertito Giulio Andreotti scrivendo all'autore andrebbe riscoperta per rinfrescare l'aria delle stanze del giornalismo contemporaneo, così conformista, così «corretto», così privo della santa ironia del Capitan Fracassa.

Luca Di Carmine per tag43.it il 25 agosto 2022.

Una paginata di Libero piena di elogi per Veronica Gentili, intervistata sui temi della politica, e non solo. Che poi da quel quotidiano uno non se lo aspetta: proprio la Gentili non aveva dato dell’ubriaco a Vittorio Feltri? Striscia la notizia la beccò mentre affermava: «È talmente ubriaco che non riesce a parlare. Dice cose da sussidiario con il delirio. Che spettacolo, ma quanto ha bevuto?», ricevendo come risposta da Feltri una serie di frasi indimenticabili, a partire da «Veronica Gentili è simpatica come una zanzara tigre sullo scroto».

Nel testo, la conduttrice Mediaset parla di Silvio Berlusconi, certo in toni molto diversi da quelli utilizzati quando lei scrive per il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio: «Lui è stato il re della televisione, ora ha scoperto la potenza dei social e la sta sfruttando. Forza Italia deve connotarsi e gli spazi sono pochi». Non mancano considerazioni critiche per Enrico Letta: «La demonizzazione del nemico è un po’ un tic a cui ciclicamente si aggrappa la sinistra. 

Ma la verità è che la legittimazione di Giorgia Meloni, come avversario credibile, è arrivata proprio dal Partito democratico in questi anni. La strategia può avere un senso solo in chiave esterna, facendo perno sui temi che spaventano di più i partner europei e internazionali. Dai tempi dell’asse gialloverde si è capito una cosa: se non sei accreditato all’estero, non governi in Italia. Meloni sta facendo tesoro di quella esperienza altrui e si sta comportando di conseguenza». 

La fatica però si sente, anche nei comodi studi del Cavaliere: «Dire che l’estate sia un periodo tranquillo per l’informazione politica è un luogo comune. Tutto è un po’ cambiato. Dall’anno del Papeete e del crollo del governo gialloverde. Agosto è diventato un mese impegnativo». Però si occupano gli spazi, se gli altri stanno in ferie durante i mesi estivi. Vero Veronica?

Clemente Pistilli per repubblica.it il 24 agosto 2022.

Più che tirare il Carroccio, caricandolo di voti, Antonio Angelucci sembra essercisi accomodato sopra per farsi trasportare nuovamente in Parlamento, dove non mette quasi mai piede ma dove ha un seggio garantito da 14 anni. L’ex portantino dell’ospedale San Camillo di Roma, diventato poi imprenditore della sanità, editore e immobiliarista, dopo tre legislature con Forza Italia è stato candidato nel plurinominale dalla Lega, al primo posto sia in Lazio 1 che in Lazio 2.

Un posto sostanzialmente blindato, su cui a quanto pare non hanno potuto proferire verbo gli esponenti regionali del partito e su cui ha deciso in autonomia Matteo Salvini. I rapporti tra il ras delle cliniche e Denis Verdini sono annosi e sarebbe bastata al “Capitano”, fidanzato con Francesca Verdini, una parola del “suocero” per assicurare altri cinque anni da parlamentare al 77enne di Sante Marie. 

Angelucci da parlamentare ha un record: quello dell’assenteismo. Nella scorsa legislatura si è presentato solo al 3,2% delle sedute a Montecitorio. Non si ricordano suoi particolari interventi in aula. Non presenta atti di sindacato ispettivo e, fatta eccezione per una proposta di legge sull’ippoterapia, non sembra particolarmente interessato neppure al fronte legislativo.

In quattordici anni nel Lazio sicuramente non è stato uno dei portatori di voti per Forza Italia e non si ha memoria di un suo improvviso impegno per quella Lega che da partito del Nord ambisce, o forse ambiva, a diventare il primo partito di centrodestra a livello nazionale. Ma per Salvini ora come per Silvio Berlusconi prima tutto questo non conta e il seggio per Angelucci, editore dei quotidiani Libero e Il Tempo, è garantito. 

Il parlamentare è imputato per tentata corruzione, relativamente a una mazzetta da 250mila euro che nel 2017 avrebbe offerto all’assessore regionale alla sanità Alessio D’Amato, per ottenere il via libera al pagamento dei crediti alla clinica San Raffaele Velletri, alla quale la Regione aveva già revocato l’accreditamento. Sempre per quella clinica è stato processato e poi assolto dall’accusa di una maxi truffa al sistema sanitario.

L’onorevole è stato inoltre condannato in primo grado a un anno e quattro mesi per falso e tentata truffa, relativamente ai finanziamenti pubblici ricevuti nel 2006 e nel 2007 da Libero e dal Riformista, ed è infine in corso una delicata indagine sui tanti morti, durante la prima ondata del Covid, al San Raffaele di Rocca di Papa.

Nel 2011 Angelucci concesse un prestito milionario a Denis Verdini, in difficoltà per i debiti contratti con il Credito Fiorentino. L’ex uomo forte del centrodestra in Toscana sarebbe stato inoltre l’artefice dell’incontro a Montecitorio tra l’onorevole imprenditore e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, per discutere di sanità. Tra una cena da PaStation e una colazione al bar Ciampini, i rapporti tra Angelucci e Verdini sarebbero stati sempre intensi e avrebbero pesato nella candidatura.

Licenziata perché non si tinge più i capelli. Scoppia il caso alla tv canadese. Novella Toloni sabato 20 agosto 2022 su Il Giornale

Sui social network la foto di Lisa LaFlamme dietro al bancone del CTV News, il telegiornale del più grande network televisivo canadese privato, è diventata l’emblema di una battaglia contro la discriminazione, che sta infiammando il Canada da giorni. Da dodici anni la giornalista e conduttrice 58enne era il volto delle tg dell’emittente CTS, ma il suo contratto è stato rescisso di punto in bianco - a due anni dalla scadenza - sembra per colpa dei suoi capelli grigi. E apriti cielo.

LaFlamme non è riuscita neppure a salutare i telespettatori, onore che era spettato invece ai suoi predecessori e ai colleghi di altre emittenti. Lo ha fatto privatamente, attraverso un videomessaggio pubblicato su Twitter, dove ha espresso il suo rammarico per l’addio improvviso: "Sono scioccata e rattristata. A 58 anni pensavo ancora che avrei avuto molto tempo per raccontare storie che hanno un impatto sulla nostra vita quotidiana".

Secondo i tabloid canadesi, l’arrivo del nuovo direttore del telegiornale, Michael Melling, avrebbe generato uno scossone all’interno della redazione del CTS News e i rapporti con LaFlamme si sarebbero fatti subito complicati. La giornalista, 58 anni, aveva alle spalle anni di servizio come inviata e corrispondente e avrebbe avuto da ridire su alcuni tagli e cambiamenti apportati da Melling, il quale - per contro - avrebbe iniziato a puntare l’attenzione sul colore dei capelli della storica anchorwoman canadese. 

Da un paio di anni, infatti, Lisa LaFlamme ha smesso di tingersi i capelli, apparendo in video con il suo naturale colore grigio. Una scelta dettata dalla pandemia, che le aveva reso impossibile recarsi dal parrucchiere, ma che lei aveva definito liberatoria: "Alla fine ho detto: 'Perché preoccuparsi dell'età? Sto diventando grigia'. Onestamente, se avessi saputo che poteva essere così liberatorio, l'avrei fatto molto prima".

La sua decisione non sarebbe, però, piaciuta al neo direttore, il quale in più di un'occasione avrebbe manifestato il suo disappunto sia davanti a lei sia di fronte ai colleghi. Così la rescissione del suo contratto - a due anni dalla naturale scadenza - ha scatenato la polemica. Sui social network il suo licenziamento è stato visto come un abuso, ma soprattutto come una discriminazione sessista e di età. Come era prevedibile, le critiche hanno travolto l'emittente, che ha motivato la scelta come una "decisione aziendale" ma poi, per salvarsi dalla bufera, ha offerto a Lisa LaFlamme altre forme di collaborazione. Dalla Bell Media, la società madre di CTV, però, hanno fatto sapere di avere aperto un'indagine interna per accertare l’eventuale discriminazione.

Sergio Carli per blitzquotidiano.it il 16 agosto 2022.

Le vendite in edicola dei giornali quotidiani italiani nel mese di giugno confermano la crisi. 

Un altro dieci per cento del mercato si è dileguato. Se continua così, a colpi di 100 mila copie perse ogni anno, nel giro di una dozzina d’anni non ci sarà più una copia di carta in circolazione. 

Che fine farà la più o meno libera ma abbastanza variegata informazione professionale nella nostra cara Italia? Resteranno le varie “Bestie” e i social network, roba buona per gli zombie di Beppe Grillo. 

Forse alla masnada di incapaci che affolla destra e sinistra senza soluzione di continuità va meglio così. Da come si sono comportati Governi e Parlamenti da Berlusconi in giù si direbbe che questo è il destino riservato dal Potere Politico alla stampa italiana. Una lenta e inesorabile morte per inedia.

Un po’ i giornalisti se la sono cercata. Hanno esultato è un po’ contributo alla morte della Democrazia Cristiana sognando un futuro comunista guidato da gente come Massimo D’Alema che teorizzò: guardate la tv, non leggete i giornali. 

Il rapporto fra politici e giornali è difficile da sempre e sotto tutte le latitudini  L’unico che in questi ultimi 20 anni ha provato a fare qualcosa fu, ai tempi del primo governo Prodi, Arturo Parisi, che fu sottosegretario all’editoria. Il frutto del suo lavoro fini come l’Okawango per la secolare litigiosità dei toscani. Poi di peggio in peggio. 

Se non c’era Draghi ai poveri giornalisti avrebbero portato via anche le pensioni.

Sarebbe invece indispensabile in questo momento di tragica crisi un duplice intervento pubblico. Uno finalizzato a una drastica riduzione del costo del lavoro, fiscalizzando gli oneri sociali. 

L’altro con una gestione coordinata, centralizzata della innovazione tecnologica. Non con soluzioni improbabili come la Netflix italiana. Come ieri la forza dei giornali erano le rotative e i furgoni della distribuzione, acciaio e ferro e motori, domani tutto dipenderà da quell’impalpabile, misterico, indefinibilmente arcano regno del software.

I risultati di questa auspicabile evoluzione sembrano purtroppo modesti. A fronte di poco più di 1,1 milioni di copie vendute in edicola nel giugno del 2022, gli abbonamenti digitali sono stati 439 mila, appena 25 mila in più sul 2021. Cioè: l’edicola vende un 10% in meno di copie di carta mentre quelle digitali non prendono momento, crescendo solo del 6%. 

A fronte dei 25 mila abbonamenti in più, ci sono 126 mila copie perse in edicola. All’interno del numero ci sono miglioramenti e peggioramenti ma qui mi limito al dato complessivo.

Negli anni ‘60 e ‘70 i giornali erano dati per spacciati. Poi arrivò la legge 81 del 1981, che inaugurò un ventennio glorioso, si arrivò a vendere sette volte il numero di copie di oggi.

Ma allora c’erano gli odiati democristiani. E c’era Giovannini.

Giampiero Mughini per Dagospia il 20 agosto 2022.

Caro Dago, il tuo sito registra puntualmente come da un anno all’altro continui a precipitare verso il basso il numero di copie vendute dei quotidiani di carta. Lo fa non senza una vena di sadismo, la tua rivalsa alla supponenza con cui la buona parte dei giornali di carta accolsero vent’anni fa la nascita del tuo sito online. Sta via via succedendo ai giornali di carta e ai giornalisti che ci lavorano quel che tra fine Ottocento e metà del secolo scorso accadde alle zolfatare e alla caterva di operai che ci lavoravano, che l’intero loro segmento produttivo sparisse nel nulla.

“I giornali sono morti e sepolti”, mi dice l’edicolante dal quale compro ogni mattina i miei cinque quotidiani e che pure si trova in una posizione commercialmente eccellente. Dirimpetto alla Stazione Trastevere, un sito dove il pubblico di passaggio è tanto. Ebbene se c’è qualcuno che la mattina mi sta precedendo nel rivolgersi a quell’edicola, non è che sta comprando i giornali e bensì i biglietti della metropolitana. Nell’albergo di Procida dove ho trascorso una settimana di vacanze, un albergo atto alla buona borghesia le cui 15 stanze erano tutte occupate, io ero l’unico ad aver chiesto di procurarmi i quotidiani ogni mattina.

Trent’anni fa, ai tempi in cui lavoravo al Panorama che vendeva settimanalmente oltre mezzo milione di copie, se mi trovano sul vagone di un treno ad alta velocità un passeggero su due stava sfogliando il Panorama o l’Espresso. Oggi nessuno, la più parte sta cliccando chissà che. E del resto sarà anche quella una delle ragioni della crescente semi analfabetizzazione del prossimo con cui ci imbattiamo ogni giorno e di cui è un sintomo allarmante il degrado del nostro discorso pubblico corrente. Un discorso dove impazzano, nelle piazze e persino nei talk-show televisivi, quelli che le sparano più grosse di tutti

Fermo restando che online c’è una quantità enorme di materiale utile e talvolta indispensabile _ a cominciare da questo sito di cui mi sto avvalendo _, stiamo assistendo all’agonia di un intero segmento produttivo. Non credo di sbagliare quando dico che sui giornali italiani sono stati radi gli accenni al fatto che l’istituto pensionistico dei giornalisti italiani, l’Inpgi, è tecnicamente fallito ed è stato dunque assorbito dall’Inps. 

Detto in parole più prosaiche, d’ora in poi sarà il contribuente italiano a pagare almeno in parte le pensioni di noi giornalisti in pensione. Com’è noto sono i giovani giornalisti al lavoro che con i loro contributi pagavano le pensioni dei giornalisti ultrasessantacinquenni andati in pensione. 

Ebbene, oggi un giovane giornalista al lavoro paga il più delle volte dei contributi che attengono a stipendi miserrimi con i quali andrebbero pagate le pensioni di quelli che sono andati in pensione dieci o venti o trent’anni fa, e che nella buona parte dei casi avevamo stipendi più che decenti. Semplicissimo, un sistema pensionistico siffatto non è sostenibile. Se non è un’agonia questa.

Quando io sono arrivato a Roma all’alba dei Settanta, i giornali di carta mi hanno assicurato dapprima due pasti al giorno cui aggiungere più tardi un po’ di companatico e più tardi ancora del vino di qualità. Oggi leggo di ragazzi che collaborano a siti online e che vengono pagati tre o cinque euro al pezzo. 

Avessi un figlio le cui intenzioni sono quelle di scrivere su un giornale di carta (quello che per me resta il lavoro più ambito), mi lancerei giù dal balcone dalla disperazione. Non oso guardare negli occhi chi mi si avvicina a dirmi che quello, il lavoro nei giornali di carta, è il suo sogno. Lo sta dicendo uno che se non avesse al mattino la carta dei quotidiani da sfogliare e da stropicciare, si sentirebbe morire. E’ forse questo il sintomo più vero nell’indicare quanto sono vecchio e decrepito.

Perché diffidare delle donazioni ai siti e del giornalismo a gettone. Redazione  Rec News il 15 agosto 2022

Da decenni si dibatte sui danni causati al settore dell’informazione d proliferazione dei fondi per l’Editoria. I temi sono tra i più svariati: con che criteri vengono assegnati? Ricevere finanziamenti non pone le testate in condizione di sudditanza che finisce con l’impattare sull’imparzialità del lavoro svolto? Si tratta di un problema mai superato, che avrà soluzione solo con il taglio questo tipo di contributi che ormai non provengono solo dal governo e dalle sue ma anche dall’Ue, dalle big tech, dalle big pharma e da presunti filantropi, dalle multinazionali.

 In teoria le piccole testate digitali (quelle che non hanno un quotidiano cartaceo a distribuzione collegato, per intenderci) dovrebbero essere al riparo da queste infiltrazioni, ma non è così. Anzitutto perché molti siti sono finanziati direttamente da partiti vecchi e nuovi, senza che ci sia – allo stato – alcun obbligo di indicare in gerenza il loro legame con la politica. Il che è un bel problema: il lettore inconsapevole si trova spesso sui siti che si dicono “indipendenti” o che fanno gli gnorri con frasi tipo “non siamo una testata giornalistica” o “siamo solo un blog”, per poi trovarsi di fronte a un prodotto aggiornato giornalmente che è diretta e calcolata emanazione di gruppi di pressione, di think-thank e di piattaforme finanziatrici.

Racket editoriale

La situazione peggiora quando questi siti – compresi quelli mainstream – si prestano a una sorta di racket editoriale portato avanti tramite la richiesta insistente e incessante di donazioni. C’è chi chiede di essere pagato in nome della “libertà”, chi per far fronte a costi crescenti” e chi chiede soldi mentre racconta di essere “senza padroni”. Ci sono quelli che “non vogliamo chiudere” e quelli che “siamo gli unici a regalarti il nostro giornalismo indipendente”. Frasi roboanti e slogan da imbonitori che hanno lo stesso obiettivo: convincere i lettori a mettere mano al portafogli. Farli “donare” a tutti i costi mentre nel quotidiano combattono contro il carovita, l’aumento delle bollette e, in molti casi, la disoccupazione. Il culmine arriva nei casi in cui ci si richiama alla Verità, all’obiettività, all’oggettività, all’indipendenza per giustificare la richiesta di denaro: pecunia non olet, dicevano i romani, ma un po’ di olezzo quando si mischiano valori alti a commerci da mercanti nel tempio, si inizia a sentire.

Se le donazioni servono a finanziare nuovi partiti ed attività di propaganda elettorale.

Qualcuno potrà obiettare che questa situazione è causata dalla crisi dell’editoria e dalla precarietà che affligge molti comunicatori e colleghi. In parte è vero, ma che succede se il giornalista chiamato a essere obiettivo e ricettivo, subordina la propria attività alla ricezione o meno di una donazione, ovvero di una cifra in denaro? Che si verifica lo spettacolo indecoroso a cui molti stanno assistendo in questi giorni di campagna elettorale: giornalisti “a gettone” che si prestano a questo o a quel partito in base ai foraggiamenti ottenuti, o che – al contrario – si rifiutano di coprire determinati eventi o di fare un’intervista se prima non gli si dà una rinfrescata al (già gonfio) conto corrente. Si tratta di siti che spesso gestiscono flussi di denaro da centinaia di migliaia di euro, completamente al riparo dal Fisco perché si tratta, ufficialmente, di “donazioni”. Per le Elezioni Politiche del 25 settembre, poi, molti comunicatori stanno rivelando il loro vero volto, con il supporto diretto di determinati soggetti politici per conquistarsi un seggio in Parlamento e il conseguente inganno svelato: le donazioni non servivano a finanziare testate che si auto-dichiaravano indipendenti, ma a perseguire obiettivi politici e finanziare attività di propaganda elettorale.

Il vero giornalista è come il buon medico

Niente di più lontano, insomma, dal lavoro di giornalista. Che può – chiaramente – candidarsi e fare politica, ma ha il dovere di comunicare con chiarezza e senza sotterfugi la sua aspirazione. Molte volte pubblicamente ci è capitato di ricordare che questa professione non è diversa da quella del medico. Un dottore, fosse anche uno specialista privato, no può rifiutarsi di curare una persona o di offrire assistenza a chi ne ha bisogno, perché dal suo lavoro dipende la preservazione della salute degli individui e in alcuni casi la loro vita, un bene supremo che va sempre tutelato. Allo stesso modo il vero giornalista non può tapparsi orecchie e bocca perché non è arrivato il bonifico o la donazione è in ritardo: se lo fa non è credibile e non merita la fiducia che gli viene accordata. Va liquidato, perché l’indipendenza, piaccia o meno, non ha davvero nulla a che vedere con il monitoraggio del proprio conto corrente, anzi.

Indipendenza per un giornalista significa anche e soprattutto non avere nessun legame diretto con le proprie fonti di finanziamento, se queste non coincidono con i ricavi della testata con cui lavora: chi pretende “donazioni” da un’intervistato o da chi cura una rubrica, non è indipendente. Chi minaccia di chiudere un sito in risposta al ritardo di una donazione non è indipendente e non è la persona giusta per lotte politiche di ampio respiro, perchè tradisce obiettivi prevalentemente commerciali che mal si conciliano con determinati ideali e con piani di rinnovamento sociale. Rec News dir. Zaira Bartucca

"Sarà l'editore a nominare il direttore: spero scelga me". L’Unità torna in edicola, la sinistra secondo Sansonetti: “Libertà, uguaglianza e garantismo”. Redazione su Il Riformista il 4 Dicembre 2022

L’Unità tornerà in edicola nei primi mesi del 2023, a un anno dal centenario della fondazione, e il direttore del Riformista, Piero Sansonetti, commenta in collegamento con il Tg4 la rinascita dello storico quotidiano della sinistra che verrà rilanciato in edicola e sul web dall’editore Alfredo Romeo.

“La modernità per me è libertà e garantismo – precisa Sansonetti -. Due colonne, due temi sui quali la sinistra è sempre stata molto prudente, molto impaurita, raramente è riuscita a farli suoi. Penso che una sinistra moderna può rinascere e credo che ce ne sia un enorme bisogno Italia anche per la destra, che ha bisogno di una sinistra per crescere”.

Sansonetti, un po’ scaramanticamente, spiega che “al momento non sono il direttore dell’Unità. Sarà l’editore Romeo a nominare il nuovo direttore, devo dire che spero che nominerà me ma questo si vedrà successivamente”. Ma “quello che posso dire è che torni in edicola un giornale che abbia tutta la forza del passato: la forza di rappresentare la sinistra, i più poveri, anche quello che è rimasto (perché è rimasto tanto) della classe operaia”.

“La sinistra può crescere solo se riesce a tenere fortissimo il tema dell’equità sociale e dell’uguaglianza” conclude.

Da primaonline.it il 22 novembre 2022.

L’Unità, giornale fondato da di Antonio Gramsci nel 1924, da luglio scorso nelle mani del curatore fallimentare del Tribunale di Roma ha trovato un nuovo editore. 

Si tratta del Gruppo Romeo, già publisher de Il Riformista, che fa capo all’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, e dello stesso direttore del Riformista, Piero Sansonetti (che a L’Unità ha lavorato per 30 anni). 

Romeo e Sansonetti hanno infatti vinto la “gara” del curatore fallimentare offrendo 910 mila euro – superando i 900mila messi sul tavolo da Silvio Pons, presidente della Fondazione Gramsci – e assicurandosi la titolarietà della testata. L’operazione non prevede obblighi verso la corposa ex redazione del quotidiano che dal fallimento ha ancora delle pendenze sospese. 

Sansonetti sta già cercando un direttore per la “nuova” Unità. Romors riferiscono che dovrà essere di area Calenda o zone politiche limitrofe. 

L’intenzione è riportare il giornale in edicola all’inizio del nuovo anno.

Claudio Bozza per il "Corriere della Sera" il 24 novembre 2022.  

«Lo slogan sarà questo: "Torna Gramsci, torna l'Unità "», annuncia solenne Piero Sansonetti, che sarà il direttore di questa «resurrezione» (la quarta) del giornale fondato dal padre del Pci, 98 anni fa. Alfredo Romeo, re degli appalti inciampato in più di un'inchiesta (Consip compresa), ha appena acquistato la testata all'asta fallimentare, dopo il tracollo dell'era Renzi. L'offerta vincente? Circa 910 mila euro, all'ultimo tuffo. Visto il profilo politico dell'editore, più d'uno ha ipotizzato una rinascita in versione liberal. 

«Ma non diciamo idiozie - ribatte il direttore in pectore -. È l'Unità e sarà l'Unità .

Sarà un giornale di sinistra, che in questo momento manca in Italia». A metà gennaio, nei piani di Romeo, il quotidiano tornerà in edicola: carta (12 o 16 pagine) e sito, con una decina di giornalisti; mentre il Cdr della vecchia Unità richiama l'attenzione sui 21 tra giornalisti e poligrafici che dall'1 gennaio sono rimasti senza ammortizzatori sociali.

 La gestione non può che essere quella dei «piccoli passi», specie vista la voragine lasciata dal precedente editore. La sede sarà in via della Pallacorda, a Roma, nell'immobile dell'editore dove c'è anche Il Riformista , oggi diretto sempre da Sansonetti e che avrà una nuova guida. 

Per Sansonetti, a 71 anni, «è il sogno della mia vita che si avvera», perché lui a l'Unità ci ha lavorato per più di 30 anni, coprendo tutti i ruoli possibili: da cronista a condirettore. E a chi gli chiede perché si è lanciato in questa affascinante, quanto rischiosa, avventura, replica così: «Il Pd sarà il nostro partito di riferimento, ma state certi che ne rivendicheremo autonomia. E avremo rapporti con tutti i partiti del centrosinistra».

Quindi anche con il M5S?

«Macché: i 5 Stelle sono di destra, non c'entrano niente con la sinistra. Sono qualunquisti e populisti: hanno approvato con la Lega i decreti Sicurezza, una cosa che più di destra non si può». La parola chiave sarà «socialismo», tanto che «il nostro principale editorialista sarà Michele Prospero, filosofo marxista: il Pd non si può salvare se non torna al socialismo».

Faro dell’informazione italiana per quasi un secolo intero. A 98 anni dichiarato il fallimento de l’Unità, come faceva ad esistere senza una sinistra? Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Luglio 2022.  

Il giudice ha dichiarato il fallimento dell’Unità. Aveva 98 anni. Era sopravvissuta al fascismo, all’imprigionamento dei suoi giornalisti e dirigenti, alla guerra fredda e alla fine del comunismo. Era stata fondata da uno dei maggiori intellettuali italiani del novecento, Antonio Gramsci. Aveva avuto grandi direttori, Come Ingrao, Alicata, Pajetta, Reichlin, Chiaromonte e Macaluso, tutti rami di quell’albero formidabile che fu il Pci. Ha formato e lanciato giornalisti tra i più celebri in Italia. E poi ha avuto collaboratori fantastici, come Calvino, Moravia, Natalia Ginzburg, Sibilla Aleramo, Caffé, Balducci. Ha resistito, impavida, a tutte le intemperie, ed è stata un faro nell’informazione italiana per quasi un secolo intero.

Alla fine è caduta: perché? Penso che sia caduta perché è scomparsa la sinistra, le sue idee, la sua forza, la sua liberalità, la sua tradizione. Il Pd non è stato mai in grado, da solo, di riprendere in mano quel gigantesco filone culturale della sinistra italiana. Ha finito persino per accodarsi, recentemente, al movimento qualunquista dei 5 Stelle. Come fa l’Unità ad esistere senza la sinistra? Soffoca. È successo così. E poi – come oggi denunciano il Cdr e il sindacato dei giornalisti – la sua agonia è stata protratta ogni oltre limite, a danno dei lavoratori. Questo è un requiem? Speriamo di no.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Fabio Castori per ilrestodelcarlino.it il 24 giugno 2022.  

"I licenziati livorosi, che triste categoria". Aveva scritto sui social la giornalista Selvaggia Lucarelli, riferendosi alla collega fermana Sandra Amurri. Una battuta al veleno che aveva scatenato uno scambio di ficcanti frecciatine finito ieri in tribunale. A Fermo, oltre all’imputata, la Lucarelli, e la parte offesa, la Amurri, anche due testimoni illustri: Marco Travaglio, direttore de "Il Fatto Quotidiano" e l’amministratrice delegata dello stesso giornale, Cinzia Monteverdi.

Il primo citato dalla difesa, la seconda dalla persona offesa. Ne è scaturita una bella commedia all’italiana dove sono volate battutine ironiche ma anche parole grosse, persino in strada. Insomma nessuno si è fatto mancare nulla. A difendere la Lucarelli, citata in aula per diffamazione, l’avvocato Lorenzo Puglisi. A rappresentare la parte offesa, invece, gli avvocati Francesco De Minicis e Simona Cardinali. Ma andiamo per ordine. 

Tutto inizia nell’agosto 2020 quando la Murri commenta sui social un articolo a firma della Lucarelli sulla storia d’amore tra l’ex compagna di Berlusconi, Francesca Pascale, e la cantautrice Paola Turci, citando anche l’omosessualità della cantante Fiorella Mannoia: "Satira convergente da Novella 3000. Trionfo dell’eleganza! Povero il mio ex giornale". 

Quindi la replica della Lucarelli: "I licenziati livorosi, che triste categoria. Peggio però sono quelli che fingono di non capire una battuta e strumentalizzano il femminismo e la solidarietà femminile per attaccare qualcuno (la Mannoia che è parecchio più intelligente di te l’ha capita senz’altro). Peggio ancora sono quelli che se ne stanno zitti finché prendono il loro stipendio in un giornale, poi quando vengono mandati via si scoprono improvvisamente coraggiosi e sputano veleno su ex colleghi. Amurri, fatti una vita".

La controreplica dell’Amurri: "Sappi che di ciò che hai scritto qui, essendo totalmente falso e diffamatorio, ne risponderai nelle sedi competenti, così avrò il piacere di conoscere le tue autorevoli fonti". 

E così è stato. Il nodo legale da sciogliere la questione che la Amurri non è mai stata licenziata da Il Fatto Quotidiano, quindi sarebbe diffamatorio l’appellativo "licenziata livorosa" e dannoso tanto da far richiedere alla parte offesa 30.000 euro di risarcimento. Arbitro della contesa il giudice Maura Diodato, che dovrà tenere conto delle due testimonianze. Travaglio suo malgrado ha dovuto ammettere: "L’avrei voluta licenziare, ma non ho potuto".

La Monteverdi alla domanda del giudice: "La Amurri è stata mai licenziata?", ha risposto in modo secco "no". Non licenziata livorosa 1 – Lucarelli 0. E palla al centro. Manco a dirlo. Fuori dal tribunale ancora frecciatine. "Girerai le foto a Dogospia? Mi raccomando passagli un resoconto della giornata", ha commentato la Lucarelli. "Vedi sei famosa, sono venuti qui per fotografarti. Stammi bene, ma non troppo. Bye bye", la risposta della Amurri. Finito qui? Neanche a parlarne. Si replica a novembre con altri testimoni e la seconda punta di questa infinita commedia all’italiana.

Da corriere.it il 29 maggio 2015.  

Emergono nuovi elementi sul «caso» dei vip spiati violando le loro credenziali di accesso al server di posta elettronica. Sotto accusa Selvaggia Lucarelli, Guia Soncini e Gianluca Neri alias Macchianera, tre tra i più noti blogger italiani, a processo con decreto di citazione diretta per concorso in intercettazione abusiva, detenzione e diffusione di codici di accesso (unica non contestata a Lucarelli), accesso abusivo a sistema informatico e violazione della privacy, tutti reati aggravati dall’aver tentato di guadagnarci. 

Tra le celebrities più monitorate da Gianluca Neri, attraverso l’utilizzo di dati sensibili, ci sarebbero anche il regista Paolo Virzì, Emanuele Filiberto di Savoia, l’ex calciatore Stefano Bettarini, il giornalista Paolo Guzzanti, la showgirl Melita Toniolo e la conduttrice Paola Perego. Dagli atti delle indagini risulterebbe, inoltre, che in alcune cartelle nella disponibilità di Neri erano contenuti anche dati di carte di credito. 

In uno scambio di sms con Gianluca Neri la blogger Selvaggia Lucarelli si sarebbe espressa così sul contenuto della posta elettronica della conduttrice Mara Venier e sulle 190 immagini relative alla 32ma festa di compleanno di Elisabetta Canalisi, all’epoca fidanzata di George Clooney: «Mara è noiosissima, mentre invece le foto di Clooney sono spettacolari», avrebbe commentato Lucarelli. 

Questo e altri messaggi dimostrerebbero, secondo la Procura, lo «spionaggio» effettuato dagli indagati ai danni della conduttrice televisiva e della showgirl Federica Fontana, nella cui posta c’erano le immagini scattate al party a Villa Oleandra, residenza di George Clooney. Anche Mara Venier è stata ascoltata dagli inquirenti, ma ha poi deciso di non presentare querela a differenza di Canalis e Fontana.

(ANSA il 29 maggio 2015) - "Habemus Scarlett". Così in un sms dell'ottobre 2010 Gianluca Neri, noto blogger col nome di 'Macchianera', si rivolgeva a Guia Soncini, anche lei imputata a Milano, assieme ad un'altra blogger, Selvaggia Lucarelli, con l'accusa di essere riuscita ad accedere "abusivamente" agli account di posta elettronica di alcuni personaggi del mondo dello spettacolo. 

L'ipotesi dell'inchiesta è che i tre blogger siano riusciti a entrare in possesso del contenuto di e-mail e dei dati sensibili di volti noti del piccolo e grande schermo come Mara Venier, Scarlett Johansson e Sandra Bullock, ma anche del regista Paolo Virzì e di Emanuele Filiberto di Savoia, e abbiano anche acquisito illegalmente 191 foto della festa di compleanno di Elisabetta Canalis del 2010 che si è tenuta nella villa di George Clooney. "Siamo su Paris Hilton", scrive sempre Neri nel dicembre 2010.

Nelle circa 600 pagine di atti depositati dal pm di Milano Grazia Colacicco sono contenuti una lunga serie di sms che i tre blogger si sarebbero scambiati (non ci sono, però, messaggi tra Lucarelli e Soncini). "Mara è noiosissima, mentre invece le foto di Clooney sono spettacolari", scrive Lucarelli in un sms a Neri. E la stessa blogger in un altro messaggio scrive: "Mi faccio paura da sola a volte". 

Secondo le indagini, dopo aver acquisito le foto della festa della Canalis usando codici e password dell'account della modella Federica Fontana, Lucarelli avrebbe cercato di vendere le immagini ad Alfonso Signorini di 'Chi', passando per il giornalista Gabriele Parpiglia e per un fotografo (entrambi non sono coinvolti nell'inchiesta, perché non erano consapevoli dell'acquisizione illecita degli 'scatti')

Maria Corbi per “la Stampa” il 29 maggio 2015.   

Complici senza conoscersi. Le giornaliste Selvaggia Lucarelli e Guia Soncini non si sono mai viste, mai telefonate, mai messaggiate. Non si stanno per niente simpatiche, ma avrebbero rubato, in concorso con il blogger Macchianera (alias Gianluca Neri) i segreti di Sandra Bullok e Scarlett Johansson, ma anche di Mara Venier e le foto del compleanno di Elisabetta Canalis a villa Oleandra quando era la fidanzata in carica di George Clooney. 

«Foto che mostrano gli interni della villa e la festeggiata che soffia sulle candeline», dice Neri. E chi le ha viste assicura che il vero scoop sarebbe nella tristezza degli arredi della villa più ambita del gossip. «Mai tentato di vendere nessuna foto, mai entrata nell’account di nessuno, faccio fatica anche con il mio», dice Guia Soncini. Anche la Lucarelli cade dalle nuvole: «mai fatto niente di quello che mi si accusa». 

A spiegare come siano andate le cose e come questa trama di una fiction il cui titolo potrebbe essere «imbranati», sia arrivata nelle aule di giustizie, lo spiega Macchianera: «Quando la polizia bussò alla mia porta, ormai 4 anni fa, spiegai subito che parecchi mesi prima trovai quelle foto in un file zip condiviso da qualcuno sul sito 4chan, dove vengono postate e-mail, documenti e foto di svariate personalità hollywoodiane “hackerate” in qualche modo». 

«E il link in questione era parte di una e-mail che la show girl Federica Fontana aveva inviato alle amiche allegando 191 foto scattate presso la villa Oleandra in occasione del compleanno della sua amica Elisabetta Canalis». 

Macchianera manda queste foto a Selvaggia Lucarelli, che sbadiglia mentre le guarda. «Foto di interni di una casa banale, di una che spegne le candeline», ricorda la blogger. Ma quando a cena con un giornalista del settimanale «Chi», Gabriele Parpiglia, gliene parla, questo si eccita. Le vuole portare al direttore Alfonso Signorini. Spiega alla Lucarelli che valgono un sacco di soldi perchè nessuno ha ancora visto gli interni di villa Oleandra. «Io ho rifiutato ovviamente», spiega la giornalista.

«Ma lui se le è scaricate comunque. Cosa avrei fatto io? Dal mio computer non è stato trovato nessun accesso a mail di altri. Non ho mai violato un account in vita mia, neanche quello di ex fidanzati». A questo punto però Signorini vuole pubblicare le foto. «E allora insiste inutilmente con la Lucarelli e attraverso di lei con me», ricorda Macchianera. «Ma ovviamente ho rifiutato anche io». 

Così, racconta nel suo blog il giornalista, i contatti per l’acquisto delle foto, passaggio necessario per la pubblicazione continuano in altre sedi tra altre tre persone. Ma mentre Soncini, Lucarelli e Macchianera vengono rinviati a giudizio, i tre che trattavano i 120mila euro vengono archiviati. 

«Non lo capisco», dice Macchianera che racconta come il computer che gli è stato sequestrato in quanto possibile corpo del reato all’epoca dei fatti neanche esisteva. «Ad oggi, dopo quasi cinque anni, non mi è stato ancora restituito. La motivazione è che rappresenterebbe il corpo del reato. Reato che sarebbe avvenuto nei giorni immediatamente precedenti e successivi al 13 ottobre 2010. Peccato che la fattura di acquisto sia del 1° luglio 2011. Per non dire che quel modello di Mac a quell’epoca ancora non esisteva, forse solo nella mente di Steve Jobs». 

E poi c’è Guia Soncini che non conosce la Lucarelli e che con Macchianera ha rapporti fatti per lo più di sms. «Non so perchè sono imputata io non ho mai tentato di vendere nulla e non ho mai tentato di fare scoop di nessun tipo in vita mia. Chi mi conosce sa che non cerco notizie ma le commento. E comunque non ho mai rubato niente a nessuno».

Dagotraduzione da The Hill il 22 giugno 2022.

Dire che c’è distanza tra molti giornalisti e il pubblico a cui si rivolgono è un grosso eufemismo, secondo un nuovo sondaggio del Pew Research Center, un centro studi statunitense indipendente. Secondo il Pew, il 65% dei quasi 12.000 giornalisti intervistati crede che i media facciano un ottimo lavoro nel «coprire le storie più importanti della giornata» e nel riportare le notizie in modo accurato. 

Ma una solida maggioranza del pubblico americano la pensa in maniera opposta, e solo il 35% degli intervistati si è detto d’accordo con queste affermazioni. È un divario di percezione di 30 punti!

E non finisce qui. Alla domanda se i giornalisti si comportino bene nello «svolgere il ruolo di sorveglianti dei leader eletti», il 52% dei giornalisti ha risposto sì. Ma questo numero è sceso precipitosamente quando a rispondere alla domanda sono stati i lettori: meno del 30% si è detto d’accordo. 

Ancora: il 43% dei giornalisti ha confermato di gestire e correggere la disinformazione in modo coerente, ma solo il 25% del pubblico la pensa allo stesso modo. Quasi la metà dei giornalisti (46%) ha affermato di sentirsi in contatto con i propri lettori, mentre solo un quarto del pubblico afferma la stessa cosa.

Allora perché questa disconnessione? Forse è una questione di posizione. La maggior parte dei media nazionalli si trova in due luoghi: New York e Washington Dc.

Durante le elezioni del 2020, solo il 9% degli elettori di Manhattan ha votato per Donald Trump. A Washington, il sostegno per Trump è stato del 5,4%. Chi vive in queste città o nelle sue vicinanze probabilmente è liberale. È naturale che la percezione dei problemi da parte di un giornalista sia conforme ai luoghi e alle persone con cui lavora e vive. 

Il giornalista di lunga data Bof Schieffer si è buttato su questo argomento alcuni anni fa, spiegando quanto siano isolati oggi i giornalisti. «Nel 2004, un giornalista su otto viveva a New York, Washington o Los Angeles» ha scritto Schieffer nel suo libro “Overload: Finding the Truth in Today’s Deluge of News”. «Oggi quel numero è diventato a uno su cinque».

Schieffer ha individuato un altro problema: la massiccia diminuzione dei giornalisti locali a causa della riduzione dei budget. «Anche se non ci sono soluzioni al problema, c’è una specie di consapevolezza generale in tutto il settore sul fatto che se i giornali locali chiudono e nessuno prende il loro posto nel sorvegliare i governatori locali, sperimenteremo la corruzione a livelli che non abbiamo mai visto».   

Dal 2004, circa 1.800 giornali hanno chiuso a causa del crollo della pubblicità e dei lettori che si sono rivolti al web. Un minor numero di giornalisti ed editori ha portato una minore fiducia perché la raccolta di notizie diventa sempre più confinata a due o tre città.

Complessivamente, secondo Pew, solo il 29% degli adulti statunitensi afferma di avere almeno una discreta fiducia nell’informazione che riceve. Nel 1976, nell’era post-Watergate, la fiducia nei media era del 72%, 43 punti in più! 

Un perfetto esempio della disconnessione tra alcuni giornalisti e il pubblico è quello che è successo con il giornalista della Cnn Don Lemon. «Alla CNN, non esprimiamo opinioni, pubblichiamo la storia e cerchiamo di rimanere in mezzo alla strada», ha detto di recente mentre era in onda. Ma durante lo stesso segmento, Lemon ha espresso questa opinione: «C'è un partito, in questo momento, che di fatto non sta operando, che ha fuorviato il popolo americano, ed è il Partito Repubblicano».

Nulla cambierà a breve. I giornali locali stanno tagliando sempre di più il personale mentre i profitti diminuiscono. Il risultato è che le testate giornalistiche online con sede quasi esclusivamente nell'azzurro di New York o di DC continuano ad espandersi. 

Un altro risultato dello studio del Pew potrebbe essere il più rivelatore: quando è stato chiesto di caratterizzare l'industria del giornalismo in una parola, il 74% dei giornalisti ha utilizzato una parola con una connotazione negativa, tra cui "caos" e "lotta". Altre parole citate includevano "di parte", "partigiano" e "stressante". Nonostante queste descrizioni, il 77% dei giornalisti intervistati ha affermato che sceglierebbe di nuovo la stessa carriera.

Uno studio del 2013 realizzato dai professori di giornalismo dell'Università dell'Indiana Lars Wilnat e David Weaver ha rilevato che solo il 7% dei giornalisti si identifica come repubblicano. Nel 2002, quel numero era del 18%. 

Quindi, se sei un repubblicano che fa un colloquio per un lavoro al New York Times, un giornale che non sostiene un candidato presidenziale repubblicano da 66 anni, o al Washington Post, che non ha mai sostenuto un candidato presidenziale repubblicano, è un pessima idea condividere la tua affiliazione al partito. 

Questo è lo stato dei media nel 2022, dove le bolle nella Grande Mela e nella capitale della nazione sono sempre più insonorizzate, e lasciano fuori il resto del mondo.

Da “Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” (stefanolorenzetto.it/) il 27 luglio 2022.

Editoriale di Massimiliano Panarari sulla Stampa: «Non stiamo parlando di cinghiali (di quelli ce ne stanno anche troppi in carne e ossa)». Professore, lei risulta nato a Reggio Emilia: anche se insegna alla Luiss, lasci perdere questi orribili romanismi. 

Più avanti: «E su Youtube cala il carico da novanta». Ne deduciamo che lei fu militesente e che non gioca a briscola: si cala il carico da undici (l’asso, che vale 11 punti), non da novanta. 

Da novanta è il pezzo di chi nella mafia gode di grande autorità o, tutt’al più, il pezzo di artiglieria del cannone contraereo utilizzato dall’Italia durante la Seconda guerra mondiale (90 ovviamente era il calibro).

Dagospia il 27 luglio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: 

Caro professor Panarari, temo che lei sia un lettore frettoloso. Sono stato io a farle notare che 90 si riferisce tutt’al più al «pezzo di artiglieria del cannone contraereo utilizzato dall’Italia durante la Seconda guerra mondiale».

Quindi la sua precisazione a Dagospia in che cosa consiste? 

Nell’aver copiato da Wikipedia che il cannone contraereo fu adottato dal Regio esercito italiano? 

Resta il fatto che le si contestava: il carico da 90 non si «cala», come lei hai scritto. 

Si calano le carte, non i proiettili. 

Alla prossima. 

Stefano Lorenzetto

LETTERA DI MASSIMILIANO PANARARI A DAGOSPIA il 27 luglio 2022.  

Caro Dottor Stefano Lorenzetto, buonasera, è un onore rientrare tra coloro a cui lei fa le pulci (ma non "pulciari", però, in questo caso, a proposito del romanesco). Il "ce ne stanno" riferito ai cinghiali nell'articolo su "La Stampa" richiama appositamente la lingua della città che si trova assediata dagli ungulati, diventati un problema quotidiano di cui si discute nella lingua comune di una città che amo profondamente (oltre a lavorarci, come lei ricorda: in UniMercatorum, in primis, e in Luiss). 

Il "carico da novanta" non rimanda alle carte da briscola, infatti, né men che meno alla criminalità organizzata, ma ha a che fare con l'esercito, seppure non con lo scomparso servizio militare di leva. Ovvero alla potenza di fuoco dell'allora moderno cannone calibro 90 che negli anni Quaranta venne adottato dall'artiglieria del Regio esercito italiano. 

Un saluto molto cordiale (e molto rispettosamente guardingo e attento per riuscire a parare o schivare possibili errori e refusi) Massimiliano Panarari

Fuga dalle notizie. Tra la guerra e la pandemia gli italiani si fidano sempre meno dell‘informazione. Benedetta Barone  su L'Inkiesta il 16 giugno 2022.

Il report annuale del Reuters Institute evidenzia gli andamenti del giornalismo in tutto il mondo. Nel nostro Paese, di fronte a un flusso di notizie maggiore sono tutti più stanchi e scettici. 

È consultabile da mercoledì 15 giugno il Digital News Report 2022, il report annuale del Reuters Institute di Oxford sull‘andamento dell‘informazione, online e non, in Europa, Asia, America Centrale, America Latina e Africa.

L’analisi ha coinvolto oltre 93mila persone in 46 diversi paesi e chiarisce i nuovi flussi di tendenza nel modo in cui cerchiamo, leggiamo e vogliamo le notizie, ma delinea anche di quali notizie abbiamo più bisogno.

Il dato più rilevante, per quanto riguarda l‘Italia, è l‘evidenziato passaggio al digitale a scapito delle testate giornalistiche cartacee. La rivoluzione in questo senso è stata più lenta che altrove, e per molti anni lo stesso mercato online continuava a essere dominato dai canali nazionali tradizionali. Nel 2022, per la prima volta, un organo di origine digitale, Fanpage, ha ottenuto la più ampia diffusione online tra i media coinvolti nel sondaggio (21%), superando un’agenzia di stampa tradizionale come l‘ANSA.

L’impatto della transizione digitale risulta anche dalla struttura del mercato. I ricavi pubblicitari online rappresentano ormai quasi la metà (49%) dei ricavi pubblicitari complessivi. Si tratta di una svolta in un sistema mediatico tradizionalmente caratterizzato da un settore televisivo particolarmente forte. Al tempo stesso, il calo del 31% del numero totale di copie cartacee e digitali vendute in quattro anni è una spia sempre più eloquente delle perdite dell‘editoria italiana. Millecinquecento edicole italiane (il 10% del totale) hanno chiuso nei primi sei mesi del 2020, mentre molte altre si sono ramificate e differenziate iniziando a fornire l’accesso a servizi pubblici o la vendita di cibi e bevande.

Insomma, l‘informazione si sposta su smartphone e pc. Ma questo, lungi dal rassicurare, è in realtà fonte di disagi e diffidenze, che gli ultimi tre anni di eventi catastrofici e mediaticamente ridondanti – il Covid e la guerra in Ucraina, per esempio – hanno accumulato e acuito.

Secondo il report, in tutto il mondo si registra una news avoidance, una fuga dalle notizie: il 38% della popolazione le evita. Il 43% accusa il sovraccarico di informazioni sull‘andamento della pandemia e questo rende il 36% di loro tristi o umorali ed esausto il restante 29%. Da altri punti di vista, non sono invece abbastanza imparziali (29%).

Nel nostro Paese, in particolare, solo il 13% considera le testate giornalistiche libere da influenze politiche e appena il 15% le considera affrancate da ascendenti di natura economica. La fiducia italiana nei confronti dell‘informazione è scesa del 5%. È un trend piuttosto sorprendente, considerando che durante i mesi più difficili della pandemia da coronavirus la credibilità nei confronti dei media e del loro ruolo sociale era molto cresciuta nella popolazione.

Sembra che il giornale a cui ancora si attribuisce maggior credito sia l‘agenzia ANSA, seguito da Il Sole 24 Ore e da SkyTg24, che pure perdono entrambi una posizione rispetto all‘anno precedente. L‘ultimo posto nella scala della fiducia spetta a Libero, mentre il Corriere della Sera si aggiudica il quarto.

Lo scorso anno, ultimo era Fanpage che pure raggiunge la copertura settimanale più ampia. 

La parola d‘ordine sembra quindi smettere di faticare per ottenere notizie, dato che il paywall è sempre meno popolare e vincono le testate che consentono una registrazione gratuita ai propri contenuti. Ma contemporaneamente, forse proprio a causa dell‘eccessiva fluidità informativa, nessuno sembra davvero contento: oltre ai problemi di fiducia prima citati, emergono anche numerosi crucci a proposito della privacy e del trattamento dei dati personali che accettiamo ogni volta che ci presentano dei cookie. Solo il 33% dice di essere a proprio ago a proposito degli e-commerce e appena il 25% a proposito delle piattaforme social.

Quotidiani orrori “A stretto giro” e altre insopportabili frasi fatte del giornalistese. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 30 Maggio 2022.

Luoghi comuni, espressioni trite e ritrite, scorciatoie linguistiche: la sciatteria della scrittura trova la sua massima espressione nella stampa. E i tempi stretti o la necessità di fare correzioni dell’ultimo minuto non sono una scusante.

“Lo chiameremo Andrea”. No, non è l’imitatissimo titolo del film girato da Vittorio De Sica giusto cinquant’anni fa: al posto di Andrea potete metterci qualsiasi altro nome, maschile o femminile; oppure potreste omettere “lo chiameremo” e far seguire Andrea o l’altro nome maschile o femminile dall’inciso “il nome è di fantasia”. Stiamo parlando di una delle più logore, insulse e inutili formulette a cui fa ricorso il giornalismo scritto e radiotelevisivo per tacere il nome vero del protagonista di un fatto di cronaca quando lo suggeriscono motivi di opportunità, in genere (ma non sempre) in quanto si tratta di un minorenne.

Logora perché ripetuta con compiaciuta disinvoltura ogni qualvolta se ne presenti l’occasione (alla faccia della fantasia…), come il doveroso ritrovamento della appagante frase fatta in cui ci si riconosce membri della medesima consorteria, tutti ugualmente capaci di padroneggiare gli arrugginiti strumenti del mestiere. Insulsa perché il fantasioso nome proprio potrebbe benissimo essere sostituito da nomi comuni come l’uomo, l’anziano, il ragazzo, il bambino, lo studente, l’operaio, il professionista (e relativi femminili). Inutile perché il bello (bello?) è che nella maggior parte dei casi, una volta fantasiosamente battezzato, quel tale Andrea o chi per lui non viene più nominato neppure per sbaglio.

Il lavoro del giornalista non è così semplice come i (non pochi, per lo più prevenuti) detrattori della professione tendono a credere: tempi stretti, notizie dell’ultimo momento, aggiornamenti e ribattute sono spesso all’origine di una prosa poco sorvegliata (nonché inzeppata di refusi; ma in questo caso non si può dire che non ci sono più i correttori di una volta: non ci sono e basta, per esigenze di bilancio). Nulla però obbliga all’uso compulsivo di formule trite, stucchevoli luoghi comuni e figure retoriche di imbarazzante banalità, che talvolta hanno pure la colpa grave di contagiare il linguaggio comune.

Tra queste ultime una delle più infestanti è senz’altro “a stretto giro”, che di per sé non vuol dire nulla, ma diventa (un po’ più) comprensibile in quanto versione ellittica della locuzione “a stretto giro di posta” che ci riporta ai tempi andati delle carrozze trainate dai cavalli, quando la risposta a una lettera urgente, per fare prima, veniva affidata allo stesso postiglione con cui la lettera era giunta.

Curioso il ricorso a un’immagine così obsoleta nel mondo ipertecnologico del real time, dove la posta cartacea è cannibalizzata da quella virtuale (rispondere “a stretto giro” a un’email non fa un po’ ridere?); e quanto meno discutibile l’estensione di questo uso figurato ai casi in cui la risposta avviene a voce, di persona o per telefono. Si dirà: è una frase idiomatica. Ma non sempre le frasi idiomatiche mantengono una reale efficacia comunicativa, a volte, come nel caso dello “stretto giro”, risultano gratuite e fastidiose.

Non sarebbe più lineare rinunciare ai barocchismi malacconci e dire semplicemente che la risposta è arrivata o arriverà “prontamente”, “immediatamente”, “sollecitamente”, “tempestivamente”, “non appena possibile”, “nel più breve tempo possibile”, “il prima possibile”?

È noto che molti giornalisti si sentono scrittori mancati. Ma ci sono anche quelli che covano una vocazione poetica inespressa e vedono rime ovunque: ovviamente, dove non ci sono. Amor fa rima con cuor nelle melense canzonette d’antan, ma che senso ha – mettiamo, parlando di calcio – dire che “bel gioco non sempre fa rima con risultati”? Dov’è la rima? Un uso traslato, d’accordo: infatti trasla il linguaggio nel dominio del ridicolo.

Rivelano invece insospettabili premonizioni patofisiologiche quelli che parlano di “cifre da capogiro”. Ma fortunatamente l’allarme è infondato: si è mai visto qualcuno colpito da vertigini davanti a un numero a nove, ma anche a diciotto cifre? Tutt’al più avrà qualche difficoltà a leggerlo, ma avvertire un malessere proprio no. Ammettiamo pure il capogiro, in funzione enfatica-superlativa, nei contesti espressivi ostentatamente “caricati” – ad esempio il lessico “esagerato” di Villaggio-Fantozzi – ma per il resto potremo lasciarlo tranquillamente alle premure terapeutiche di neurologi, otorinolaringoiatri e compagnia curante.

E che dire di certi incipit che regolarmente si ripresentano, come estenuati revenant linguistici, ogni volta con la presunzione dell’originalità? Come quello (un classico) che parte enumerando una serie di situazioni incresciose – relative a un luogo, a un ambiente di lavoro o altro – e dopo il punto, o i due punti, amaramente (ritualmente) ironizza: “benvenuti a… (o nel…)”.

Oppure (altro evergreen) quello che esordisce con un virgolettato – di solito una dichiarazione forte, o almeno impegnativa, quando non addirittura polemica – seguita, dopo la chiusura delle virgolette, da “parola di…”: reminiscenza forse delle letture dal Vangelo ascoltate a messa, se non degli spot televisivi di Francesco Amadori. Con variante cantautorale: “parole e musica di…”. E sub-variante luciobattistiana: “pensieri e parole di…”.

Ma il momento in cui la prosa giornalistica da involontariamente comica sprofonda nella sciatteria è quando dalla sacca degli attrezzi si cava l’avverbio “già”. Isolatamente preso, serve a esprimere assenso o constatazione, spesso accompagnati da rassegnato disappunto (“Te l’avevo detto che scrivere non è il tuo mestiere”. “Già…”); negli articoli più raffazzonati si presenta spesso, invece, in una impropria funzione di raccordo tra due periodi, interposto tra due parole identiche, per mediare il passaggio a un nuovo sviluppo. Così (inventiamo): “… qualcuno ha notato l’assenza di Renzi. Già, Renzi. Il leader di Italia viva ieri si è recato…”. Una sorta di anadiplosi, ma in questo caso non è una finezza stilistica, è il grossolano artificio di chi non si cura di “costruire” (di “articolare”) l’articolo e si limita a affastellare le informazioni così come gli vengono in mente.

Pare di vederlo, il tipo, con le dita sul mento, pensoso, sentenzioso, sussiegoso, magari financo burbanzoso, mentre pronuncia il suo “già”. Non si può sentire questo “già, Renzi” (o già qualunque altra cosa). Eppure tocca leggerlo. Lo chiameremo giornalistese (e non è un nome di fantasia).

Soncini si fa dei nuovi amici. In Italia ci sono ancora i giornali di una volta, approssimativi oggi come allora. Guia Soncini su L'Inkiesta il 2 Maggio 2022.

Pretendiamo un’informazione rigorosa sulla pandemia o sulla guerra ma non si riesce ad avere un rigore minimo nemmeno parlando di Jennifer Lopez e Ben Affleck. Rispetto alle testate che pago e che copiano da periodici spagnoli ancora più cialtroni che citano come fonte degli immaginari «medios americanos», Commenti Memorabili punto it è il Wall Street Journal

Il sesso vende? Nel 2022, col porno sul telefono senza neanche pagare, la vita sessuale degli altri ci procura ancora un frisson? È questa la ragione di quel che ho passato due giorni a cercare di capire, cioè come mai i giornali italiani siano così fessi?

Questo è un articolo in cui mi faccio nuovi amici nei giornali italiani. Questo è un articolo (un altro) su Jennifer Lopez e Ben Affleck. Questo è un articolo sulla scemenza di pretendere un’informazione rigorosa sulla pandemia o la guerra quando non si riesce ad avere un rigore minimo nemmeno parlando di temi meno complessi quali le vite degli attori.

Questo è un articolo sul fatto che, come quando le storie d’amore finiscono, non è colpa di nessuno. Non di chi commissiona gli articoli italiani, non di chi scrive gli articoli italiani, non di chi non è disposto a pagare per gli articoli italiani. Non è colpa di nessuno, è colpa di tutti, è colpa del sistema, del caso, delle cavallette, ormai è andata così, e la situazione non è recuperabile.

Solo che forse “ormai” non è l’avverbio giusto. Sono tre anni che non dico più che la qualità dei giornali italiani è precipitata. Da quando, nel 2019, dovendo scrivere del ventennale della morte di John Kennedy jr. e Carolyn Bessette (e pure di Lauren Bessette, la sorella di cui nessuno si ricorda mai: uno degli svantaggi quando tua sorella sposa il più figo del mondo e morite assieme), ho recuperato dal disordine la cartellina coi ritagli dei giornali dell’epoca.

Se all’epoca non vi eravate appassionati all’incidente, magari non ve ne ricordate: l’aereo guidato da John Kennedy jr cadde e risultò disperso quando qui era la notte fonda del venerdì, il che significa che i giornali italiani non fecero in tempo a scriverne il sabato. Non erano anni di internet: il pubblico apprese del mancato atterraggio dell’aereo dai tg del sabato, e le grandi firme dei giornali, scomodate a scrivere della maledizione dei Kennedy, ebbero tutto il tempo d’informarsi.

I giornali della domenica hanno intere pagine sulla questione, firmate dalle migliori menti che allora correvamo in edicola per leggere, e sono così pieni d’imprecisioni che passa la voglia di lamentarsi di quel che leggiamo oggi. Se gli unici articoli che abbiate mai letto sull’aereo caduto di Kennedy sono quelli pubblicati in Italia il 18 luglio del 1999, magari siete ancora convinti che Caroline Kennedy sia morta: in un giorno e mezzo, i nostri editorialisti non erano riusciti a capire neanche di chi era sorella e di chi era cognata la sorella e cognata che si trovava sull’aereo.

Tutto questo per dire che quando sabato alcuni rispettabili giornali italiani si sono sognati che ci fosse un accordo prematrimoniale tra Jennifer Lopez e Ben Affleck, e che in quell’accordo prematrimoniale ci fosse scritto che dovevano fare sesso almeno quattro volte a settimana (altrimenti? multa? divorzio?), e che di ciò valesse la pena far scrivere scrittrici d’un certo calibro, io mi sono fatta venire meno crisi isteriche di quelle che mi sarei fatta venire fino al 2019, quando ancora credevo d’aver da giovane abitato nella giornalistica via Gluck.

La prima cosa di cui mi sono ricordata è stato un tizio che fa i giornali con cui l’anno scorso stavo chiacchierando d’un altro tizio, uno che un tempo scriveva tantissimo e ora non si legge quasi mai. Quello con cui parlavo mi disse che certo, nessuno gli chiedeva articoli, perché quando lo chiami quello ti dice che la cosa di cui hai pensato di farlo scrivere è una stronzata, e quando riattacchi ti senti più scemo di quando hai chiamato, e nessuno vuol sentirsi scemo.

All’epoca avevo pensato a me (strano), e sempre a me (sempre strano) ho pensato sabato. Agli anni trascorsi a sentirmi proporre da capiredattori di scrivere di qualcosa che era evidentemente una stronzata, e a trasecolare perché a loro non pareva tale. Forse dovrei chiamarli e chiedergli retrospettivamente scusa per averli fatti sentire scemi: mica è colpa loro, se sono scemi. Mica è colpa loro, se avevano un buco in pagina e non gli veniva in mente un’idea più brillante per riempirlo.

Forse è come essere intonati: non capisci come si faccia a essere stonati, ma mica è un merito, t’è capitato di nascere intonata. T’è capitato di saper riconoscere le stronzate, ti sembra una dote che è ovvio avere. Se una tizia racconta che l’ex fidanzato cantante l’ha fatta abortire riempiendola di botte, riconosci nei dettagli del racconto gli indizi della stronzata, nel modo in cui ne scrive i segni dello squilibrio, e dici a chi ti chiede l’articolo: no, guarda, non è il caso. Quando un po’ di tempo dopo il cantante viene scagionato, chi di mestiere dovrebbe riconoscere le notizie ti chiede con gli occhioni sgranati: ma tu come facevi a saperlo? E tu, anni dopo, ancora ti domandi come avesse fatto lui a non capirlo subito, che non era vero niente. Tu che neanche sai cantare.

Ma il caso di sabato fa più ridere perché c’è una regola abbastanza ovvia riguardo alle celebrità anglofone: se c’è una notizia su di loro, ci sono testate anglofone che se ne occuperanno. Lo sa chiunque scriva in Italia di celebrità americane, anche perché quelle sono le testate da cui in genere scopiazza il proprio pezzullo. Se sabato, andando in giro per tabloid, cercavi di capire da dove avessero ripreso questa evidente stronzata, non trovavi niente: non un rigo su People, o su Us, o sul Mail. Nemmeno sul National Enquirer, che sarebbe stato grave (allora non sapete selezionare le fonti) ma almeno spiegabile.

Era un’esclusiva italiana? Qualcuno citava come fonte Esquire, che nell’edizione anglofona è uno dei giornali più belli del mondo e non poteva essere vero. E infatti l’articolo era, una settimana prima, sul sito di Esquire spagnolo, che a sua volta rimandava a Cosmopolitan spagnolo, che quanto a fonti fantasticava di «muchos medios americanos». I giornali americani immaginari.

Poiché gli spagnoli saranno pure più cialtroni di noi, ma Esquire scriveva questa puttanata una settimana prima, Cosmopolitan pure, persino Marca (un giornale di calcio) si era inventato la clausola prematrimoniale una settimana prima, mi sono andata a leggere tutti i siti italiani che avevano ripreso la scemenza del giorno, alla ricerca della risposta a «perché oggi».

E a un certo punto sono arrivata a commenti memorabili punto it, che non so bene cosa sia, un sito di meme, una di quelle cose moderne, un posto in cui le puttanate sarebbero fisiologiche.

E invece loro, al terzo paragrafo, scrivono: «La notizia continua a diffondersi a macchia d’olio attraverso tutti i social media […]. In realtà si tratta di una clausola che J. Lo e Ben Affleck avrebbero concordato nel 2002, quando si fidanzarono per la prima volta».

E i giornali che pago da decenni l’hanno ripescata per festeggiare il ventennale, o per consolarci dicendoci che anche i ricchi piangono e considerano scopare una cosa per cui stabilire i turni come per buttare giù l’umido. Ma soprattutto per dire a me, che mi ostino a pagare degli abbonamenti, che in confronto a loro Commenti Memorabili è il Wall Street Journal.

Da leggo.it l'1 maggio 2022.

Giorgia Meloni, nel discorso di chiusura della tre giorni della conferenza proframmatica di Fratelli d'Italia a Milano non ha risparmiato qualche frecciata alla stampa. La leader di FdI, ad un certo punto, dopo aver raccontato un aneddoto su una domanda di un cronista ad un delegato ha allargato le braccia, guardando incredula il pubblico in platea.“Domande lunari" le ha etichettate, mentre - quasi come una consumata attrice - faceva intuire ai delagati il suo sgomento. 

«Un giornalista - ha raccontato - ha chiesto a un delegato, “ma questa maglietta scura è un omaggio alle camicie nere?”... Ma cosa vuoi rispondere? Vi rendete conto che siete lunari: lo dico per la vostra professionalità. Mi vergogno a fare sta domanda, gli risponderei io. Pensano che con questi argomenti che fermeremo la guerra e la crisi? E che tutto questo interessa la gente? C'è chi fa riunioni di redazione per trovare qualcosa per non raccontare quello che sta succedendo».

«Voi sognate una destra sfigata - ha incalzato Meloni - cupa, invece siamo una destra vincente, rispettata, che ha al vertice una donna, mentre a sinistra le donne si devono accontentare dei ruoli che gli uomini danno loro. Non vi va giù. Voi raccontate le favolette, noi facciamo la storia»

Dall’account instagram di Giuseppe Candela il 29 aprile 2022.  

Archiviato per infondatezza della notizia di reato.

Dopo due anni e mezzo, ora che la giustizia, come si suol dire, ha fatto il suo corso, parlo io. Parto da un ringraziamento, sentito e doveroso, all'avvocato Piergiorgio Assumma, la cui professionalità è stata per me fondamentale in questi anni. 

I fatti.

A ottobre 2019 sono stato denunciato dalla signora Caterina Balivo:

- per diffamazione aggravata;

- per diffamazione aggravata a mezzo stampa, con conseguente responsabilità di direttore ed editore (ipotesi di reato decaduta già all'arrivo in Procura);

- per molestie (ipotesi di reato decaduta già all'arrivo in Procura). 

In precedenza mi era giunta una diffida, a cui il mio legale aveva risposto sottolineando l'assenza di ipotesi di reato. In Procura sono stato interrogato, ho risposto per oltre tre ore a tutte le domande. Il Pm ha rilevato che le espressioni utilizzate e contestate dalla parte offesa "non appaiono lesive della reputazione di quest’ultima e appaiono rientrare nei limiti del diritto di critica giornalistica", con la successiva richiesta di archiviazione. Il Giudice per le indagini preliminari "condivise le argomentazioni del Pm e rilevato che le espressioni utilizzate, seppur aspre, non hanno travalicato i limiti della polemica giornalistica", ha disposto l'archiviazione. Le stesse deduzioni erano state chiarite dal mio legale ben prima, in una fase pre processuale, quando per buona parte degli stessi fatti avevo ricevuto una diffida.

Potrei scrivere fiumi di inchiostro, invitare a riflessioni sulla critica televisiva, ragionare su certe querele ma conosco gli effetti collaterali del mio lavoro. Non mi interessano scuse o polemiche. Ho le spalle larghe e ognuno potrà farsi la propria idea.

Ho fatto solo il mio lavoro. Correttamente. Lo sostenevo prima e oggi lo conferma la legge.

Mi basta questo.

"Tempi difficili, a volte tragici. Bisogna crederci e non arrendersi", canta Jovanotti in Viva Libertà.

È il caso di dirlo: Viva la Libertà.

Fabio Amendolara per “La Verità” il 29 aprile 2022.

Gad Lerner si sentiva diffamato per gli articoli pubblicati dalla Verità tra l'1 e il 5 giugno 2019, nei quali venivano approfonditi i costi del talk show L'Approdo, che andava in onda su Rai 3, e i suoi compensi da conduttore. E aveva chiesto 80.000 euro di risarcimento. 

Che i giudici della prima sezione civile del Tribunale di Milano hanno respinto.

Lerner si era risentito, oltre che per gli articoli firmati da Giorgio Gandola, anche per un editoriale del direttore Maurizio Belpietro (3 giugno 2019), nel quale era stato «falsamente», secondo Lerner, «prospettato un fatto deprecabile»: l'esistenza di una lobby che favorirebbe i compagni o i radical chic di cui l'esponente avrebbe beneficiato.

Inoltre, Lerner ha dedotto «di essere stato tacciato di faziosità, laddove si asseriva che il suo obiettivo sarebbe stato non quello di fare ascolti ma "la narrazione marcatamente antileghista"». 

Il conduttore si era piccato anche per quelli che durante la causa civile sono stati definiti «epiteti volutamente irridenti e spregiativi»: «Comunista col rolex, commentatore radical chic, conduttore con il pedigree di sinistra ma il portafoglio posizionato molto a destra». 

La Verità, Belpietro e Gandola, costituiti tramite l'avvocato Claudio Mangiafico, hanno confermato in udienza che «le informazioni veicolate dagli articoli corrispondevano, nella loro essenza, al vero». 

Lo stesso Lerner, d'altra parte, non si era premurato di dimostrare la falsità di quelle affermazioni. Ed ecco le valutazioni dei giudici: «Seppure traspare la critica per gli elevati costi del programma, il fatto attribuito all'attore non è illecito né disdicevole, riguardando la percezione di un compenso derivante dal legittimo esercizio della sua attività professionale».

Secondo i giudici, poi, proprio Lerner aveva «espresso in più occasioni idee contrarie alle politiche della Lega» e in alcuni tweet aveva «espresso apprezzamenti marcatamente negativi nei confronti di Matteo Salvini». 

Tutti elementi che, è scritto in sentenza, «possono rendere plausibile, nella visione dell'autore dell'articolo, l'intenzione di esprimere nel programma tali posizioni contrarie». 

Quanto alla lobby, secondo i giudici, «il senso del brano sembra, piuttosto, quello di esprimere una censura rispetto a una supposta politica aziendale degli organi della televisione pubblica di dare spazio a giornalisti provenienti da giornali vicini alla sinistra, indipendentemente dal successo dei programmi». Diritto di cronaca e di critica, insomma, sono stati rispettati in pieno.

Sergio Carli per blitzquotidiano.it il 12 aprile 2022.

Giornali quotidiani, le vendite in edicola nel mese di febbraio 2022 sono solo un altro chiodo sulla bara. Il mercato ha perso un altro 11% rispetto al mese corrispondente di un anno prima. Il trend è lo stesso di gennaio e dei mesi precedenti. Le vendite sono di poco sopra il milione e 200 mila copie al giorno bei tempi quando la Federazione degli editori tromboneggiava, forse esagerando un po’, di un mercato da 7 milioni di copie. Si avvicina il momento in cui i giornali non si stamperanno più con le rotative ma con le fotocopiatrici. Guardate la tabella e piangete se avete a cuore la democrazia come ce la godiamo dal 1945. La stampa moritura ne è pilastro. Che ne sarà se i giornali moriranno?

La tabella con le vendite dei giornali nel mese di febbraio 2022

Nella terza colonna di cifre la percentuale indica quanto è rimasto delle vendite dell’anno prima. Per calcolare la percentuale di perdita, basta sottrarre il numero qui riportato da 1. Ad es. Il mercato (ultima riga) si è ridotto all’89% dell’anno precedente, 1-0,89=11. 

Quotidiani

Febbraio 2022

Febbraio 2021

2022 su 2021

L’Adige

8.536

9.892

0,86

Alto Adige

4.038

5.192

0,77

L’Arena

16.525

19.220

0,85

Avvenire

5.416

5.421

0,99

Il Centro

8.061

9.345

0,86

Corriere Adriatico

8.194

9.076

0,90

Corriere della Sera

152.593

162.127

0,94

Corriere delle Alpi

3.692

4.153

0,88

Corriere dello Sport

37.197

37.087

1,00

Corriere dello Sport lun.

45.401

46.405

0,97

Corriere Umbria

4.627

4.879

0,94

Dolomiten

4.839

6.284

0,77

L’Eco di Bergamo

14.661

17.005

0,86

Editoriale Oggi

2.564

3.007

0,85

Il Fatto Quotidiano

23.094

30.499

0,75

Gazzetta Mezzogiorno

—–

8.387

Gazzetta del Sud

9.851

11.492

0,85

Gazzetta di Mantova

11.313

12.653

0,89

Gazzetta di Modena

5.243

5.443

0,96

Gazzetta di Parma

12.441

14.791

0,84

Gazzetta di Reggio

5.693

6.276

0,90

Gazzetta dello Sport

83.094

76.097

1,09

Gazzetta dello Sport lun.

88.657

92.203

0,96

Il Gazzettino

31.794

36.219

0,87

Il Giornale

31.357

38.721

0,80

Giornale di Brescia

14.464

16.443

0,87

Giornale di Sicilia

5.856

7.016

0,83

Giornale di Vicenza

14.782

16.806

0,87

Italia Oggi

3.431

7.716

0,44

Libero

19.321

22.418

0,86

Libertà

13.554

14.722

0,92

Il Manifesto

7.103

7.549

0,94

Il Mattino

16.483

18.338

0,89

Il Mattino di Padova

11.345

12.635

0,89

Il Messaggero

49.166

52.383

0,90

Il Messaggero veneto

26.373

30.489

0,86

La Nuova Venezia

4.902

5.964

0,82

La Nuova Ferrara

4.360

4.850

0,89

La Nuova Sardegna

19.233

21.345

0,90

Nuovo quotidiano Puglia

7.769

6.273

1,23

Il Piccolo

12.253

14.293

0,85

La Provincia Co-Lc-So

12.740

14.288

0,89

Provincia di Cremona

9.377

10.430

0,89

La Provincia Pavese

7.297

8.477

0,86

Il Giorno

19.272

21.766

0,88

Il Resto del Carlino

63.463

71.138

0,90

La Nazione

42.430

47.692

0,88

Repubblica

94.009

117.275

0,80

Il Secolo XIX

22.176

27.258

0,81

La Sicilia

6.552

7.275

0,90

Il Sole 24 Ore

25.698

34.316

0,74

La Stampa

71.513

74.785

0,95

Il Tempo

6.774

7.986

0,84

Il Tirreno

22.046

25.660

0,85

La Tribuna di Treviso

6.953

7.804

0,89

Tuttosport

22.873

26.412

0,86

Tuttosport lun.

26.576

26.518

0,90

L’Unione Sarda

24.927

27.156

0,91

La Verità

29.878

25.426

1,17

Totale

1.226.143

1.371.239

0,89

 

Meloni: distorte le mie parole sulla libertà di espressione. Giornalisti mistificatori… Redazione giovedì 7 Aprile 2022 su Il Secolo d'Italia.

Al convegno sulle libertà a rischio, cui Giorgia Meloni ha partecipato con Enrico Letta, le parole della leader di FdI sono state interpretate ad uso della narrazione demonizzante delle forze conservatrici. In particolare si sono distinti in questa operazione due giornalisti: Pietro Salvatori (Huffington Post) e Laura Cesaretti (Il Giornale).

E’ stata la stessa Giorgia Meloni sulla sua pagina Fb a denunciare quella che chiama “mistificazione”. “Per i giornalisti mainstream è uno scandalo che in un convegno su libertà e democrazia io abbia sostenuto che: 1) Difendo il diritto degli altri a non pensarla come me. 2) È preoccupante che il Presidente degli Usa allora in carica, eletto da milioni di cittadini, venisse censurato dalle big tech dei social media; 3) In una democrazia tra diritto alla salute e diritto alla libertà – due questioni fondamentali – si deve cercare un equilibrio per garantire entrambi”.

“Ecco – conclude Meloni – penso che se ci sono giornalisti che si riempiono la bocca di parole come libertà di stampa e poi mi attaccano per aver detto questo, allora abbiamo davvero un problema di libertà e democrazia in Italia“.

Meloni aveva esordito parlando di deroghe alle libertà conquistate e ponendosi la domanda: la libertà di espressione è garantita nelle nostre democrazie? Quindi aveva fatto l’esempio di Trump oscurato dai social. E si era detta contraria ad espellere dal dibattito pubblico le voci dissonanti sulla guerra in Ucraina. “A me spaventa – aveva aggiunto – una democrazia nella quale si impedisce alle persone di manifestare contro il governo e si tollerano i rave illegali”. Nessuno può negare insomma che sia esistito, durante la pandemia, il problema di dover conciliare diritto alla salute e libertà. Così come nessuno può negare che deve esistere il pluralismo delle idee.

Sono però bastate queste premesse per far passare Giorgia Meloni come una fan di Trump o di Orsini. O almeno questa è stata l’interpretazione dei giornalisti su citati. Pietro Salvatori ha così sintetizzato l’intervento della Meloni: “Giorgia Meloni interviene insieme a Enrico Letta a un convegno sulle “democrazie a rischio”. Nei primi 5 minuti: -difende Trump e chi sull’Ucraina “ha posizione distonica” (Orsini&co) -attacca le limitazioni da Covid e “la globalizzazione che abbiamo deciso di subire”.

Laura Cesaretti, in una sorta di copia e incolla, fa la stessa osservazione: “Meloni esordisce al convegno su “democrazie a rischio” 1) difendendo Trump 2) denunciando censura contro Orsini&Co 3) attaccando le “forzature” Covid contro la “libbbertà” Ma ditemi ancora che ha avuto una svolta liberale, oh yeah”. E si merita il commento irato di Guido Crosetto: “Cesaretti, sei la regina della disinformazione”.

"700 mila euro all'anno da Bill Gates". Bufera su Der Spiegel. Roberto Vivaldelli il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.

La celebre rivista tedesca riceverà più di 700mila euro all'anno, fino al 2025, dalla fondazione filantropica di Bill e Melinda Gates. "La scelta dei contenuti spetta a noi, nessuna ingerenza".

La Bill & Melinda Gates Foundation, la fondazione filantropica del magnate Bill Gates e di sua moglie Melinda, ha finanziato un progetto del settimanale Der Spiegel, sollevando non pochi dubbi sull'autonomia della celebre rivista tedesca. Come ammette la stessa testata, cercando di fare un po' di chiarezza sui fondi stanziati dal fondatore del Microsoft, la Bill & Melinda Gates Foundation ha sostenuto il progetto Globale Gesellschaft dal 2019 al 2021 per un totale di circa 2,3 milioni di euro, ovvero 760.000 euro all'anno. Poco prima della fine del primo periodo di finanziamento, il progetto è stato prorogato alle stesse condizioni, fino alla primavera del 2025. "Abbiamo reso tutto questo trasparente fin dall'inizio, dal lancio ufficiale nell'aprile 2019", spiega la testata tedesca. Con i soldi della Gates Foundation, Der Spiegel finanzia reportage da Asia, Africa, America Latina ed Europa. In questo modo, osserva Der Spiegel, "stiamo ampliando la nostra rendicontazione sui temi che abbiamo scelto noi stessi. In termini concreti, ciò significa che pubblichiamo da cinque a sette articoli, con tanto di foto o video a settimana, la maggior parte dei quali è stata oggetto di ricerche approfondite in loco. Il finanziamento della Gates Foundation è legato al progetto Global Society".

"Non è una donazione, rimaniamo indipendenti"

Secondo Der Spiegel, quella della Bill & Melinda Gates Foundation non è una donazione, ma il finanziamento di un progetto rispetto al quale la redazione ha il pieno controllo. "No. Non è una donazione" sottolinea la rivista. "La differenza è che ci sono finanziamenti per un progetto concreto, concordato da entrambe le parti. Possono essere utilizzate solo per le spese e i costi effettivamente sostenuti in questo progetto, ad esempio per costi del personale, onorari, viaggi, fotografi, traduttori". Nel 2020 il Gruppo Der Spiegel, che conta circa 1.400 dipendenti, ha raggiunto un fatturato di 256,4 milioni di euro. Secondo la redazione, la fondazione non avrebbe nulla a che fare con la scelta dei contenuti, che spettano solo alla redazione, senza ingerenze: "Sì. Il contenuto editoriale del progetto Global Society è creato senza alcuna influenza da parte della fondazione, e questo è anche contrattualmente previsto. Inoltre, la fondazione non può influenzare il contenuto editoriale di Der Spiegel. Questo vale per la Gates Foundation così come per i nostri clienti pubblicitari, che non hanno alcuna influenza sui nostri rapporti" si legge sul sito della fondazione. Ma è davvero così? I dubbi rimangono.

Indipendenza giornalistica a rischio?

Nonostante le belle parole e la a buona volontà, con una donazione così ingente - seppur confinata, ufficialmente, a un progetto specifico - l'indipendenza giornalistica della testata non è a rischio? Che cosa accadrebbe se uscissero notizie imbarazzanti sulla Gates Foundation e sul suo fondatore? Davvero la testata tedesca riuscirebbe a mantenere la sua indipendenza, senza condizionamenti di sorta? Difficile. Der Spiegel, sottolinea la rivista, "ha sempre riferito in modo critico e indipendente sulle attività della Gates Foundation. Lo stesso vale per Bill e Melinda Gates e i loro investimenti personali. Continueremo a farlo. La cooperazione non pregiudica in alcun momento la ricerca critica, investigativa e l'indipendenza giornalistica di Der Spiegel". È anche vero che il settimanale tedesco non è certo l'unico a ricevere finanziamenti dalla fondazione. Altre illustri testate come The Guardian ed El País hanno messo in campo dei progetti simili. Ma questa, certamente, non può essere una giustificazione: volenti o nolenti le fondazioni stanziano fondi proprio per influenzare l'opinione pubblica e i media sui temi a cui più tengono. Il fine, dunque, è sempre politico. E l'ingerenza c'è, e non può essere altrimenti.

Dagospia Dal profilo Facebook di Ferruccio Sansa l'8 marzo 2022.  

QUALI GIORNALISTI ANDRANNO A DUBAI CON TOTI A SPESE NOSTRE?

(Il presidente e i giornali hanno il dovere di rispondere) 

Giovedì alle 14 dall'aeroporto della Malpensa partirà una spedizione di politici e giornalisti liguri. Destinazione Dubai. Molti di questi giornalisti viaggeranno e saranno ospitati a Dubai con soldi pubblici. Cioè nostri.

Oggi abbiamo presentato due interrogazioni a Toti con le seguenti domande:

1. quanto costerà il viaggio?

2. quali testate giornalistiche viaggeranno a spese del contribuente e quanto costeranno biglietti e pernottamenti?

3. chi è stato invitato a spese nostre oltre ai giornalisti?

4. quanto è costato il Convegno organizzato, insieme con una testata giornalistica locale, per lanciare la presenza ligure a Dubai?

5. quanto è stato speso, aggiungiamo, in pubblicità sulle testate locali per lanciare la presenza della Liguria a Dubai.

Toti non ci ha risposto. Niente. Non una cifra. "Andate a vedervi le delibere", ha detto. Peccato che nelle delibere non ci sia scritto il costo del viaggio, del convegno e quali sono le testate che viaggeranno a spese nostre. 

Noi continueremo in ogni sede e luogo a chiedere che Toti ci risponda.

Intanto, però, chiediamo a tutte le testate e agli organi rappresentativi delle categorie giornalistiche di fornirci i chiarimenti. Le notizie vanno date sempre, anche quando riguardano i giornali e i giornalisti.

Siamo contrari alla spedizione di propaganda a Dubai per due ragioni:

Primo, i soldi pubblici devono essere spesi per la sanità, i trasporti, le scuole, e non per fare pubblicità a Toti. 

Secondo, i giornali, le radio, le tv e i siti internet che ricevono milioni di euro e biglietti aerei da chi comanda rischiano di non essere indipendenti quando parlano di chi ci governa.

Critichereste voi chi vi dà milioni di euro di pubblicità e vi paga il viaggio di cui dovete scrivere? 

Questo non è un attacco nei confronti della stampa. Anzi, è un gesto di passione, un atto di riconoscimento dell'enorme importanza che una libera informazione può avere per i cittadini.

Ma senza LIBERTA' il lavoro di giornalista semplicemente non ha senso. L'INDIPENDENZA è necessaria a un giornalista più del computer con cui scrive, più delle parole che usa. 

Editori, direttori e giornalisti che si interrogano sulla crisi dei giornali dovrebbero domandarsi se il rapporto con i lettori si sia rotto prima di tutto per un problema di CREDIBILITA' e di FIDUCIA. 

E se Toti ogni anno dà milioni di euro a giornali, tv, radio e siti internet, bisogna chiederci se sia giusto che i cittadini abbiano FIDUCIA nella nostra stampa.

Dal profilo Facebook di Ferruccio Sansa l'1 aprile 2022.

Toti non ha voluto dircelo. Nemmeno tv e giornali hanno risposto (come dire, le notizie si scrivono quando riguardano gli altri). Alla fine i costi della gloriosa spedizione a Dubai del Presidente e dei giornalisti al seguito ce li siamo andati a scovare noi: totale 140.370 euro per un viaggio di tre giorni e un convegno. Un record. 

Ma le vere chicche le trovi andando a spulciare tra le singole voci di spesa. Il BIGLIETTO AEREO di Giovanni Toti è costato la bellezza di 4.852 euro! Sì, avete letto bene. Mentre il povero assessore Andrea Benveduti ha speso 982 euro (deve aver viaggiato appeso a un'ala o nel vano bagagli), il mega Presidente Toti ha speso cinque volte tanto. Viene il dubbio che abbia viaggiato in first class, quella che, reclamizza la linea aerea Emirates, ha una spa a bordo.

Le spese spensierate non finiscono qui. Toti si è portato in gita praticamente tutto il suo STAFF: otto persone, per un totale di 23.169 euro per aereo e albergo. Ecco allora il fido Matteo Cozzani - ma che diavolo ci sarà andato a fare a Dubai il capo di gabinetto e sindaco di Portovenere? - e l'altro inseparabile Iacopo Avegno. 

Poi un ufficio stampa degno di Biden: Jessica Nicolini, Federica Costella, Arianna Abbona e Francesca Licata, quella che si occupa soprattutto dei social. Non sia mai che Toti vada a Dubai senza social! 

Gli alberghi sono costati da 982 euro per il povero Benveduti (solo 300 euro a notte, praticamente l'hanno messo in mansarda) ai 1.400 di Toti e ai 1.690 della signora Abbona (più di 560 euro a notte).

E passiamo all'allegra brigata di GIORNALISTI AL SEGUITO. Altri 18.849 euro (9.541 euro di volo e 7.098 di alberghi, più spese per il bus). Due per Primocanale (noblesse oblige), uno per Telenord, uno per SanremoNews, un free lance per conto del Secolo XIX, uno per Riviera 24 e uno per Ivg (gli ultimi due, va detto, sono gli unici che ci avevano risposto per dire che andava). 

Ma non basta: perché Primocanale, oltre ad avere il viaggio pagato, ha ottenuto un contratto da 15mila euro per coprire la spedizione a Dubai. 

La Manzoni spa, che gestisce la pubblicità del gruppo Gedi (Secolo, Stampa e Repubblica) ha ottenuto 30mila euro per pubblicità varie e per l'organizzazione da parte del Secolo XIX di un convegno dedicato appunto a Dubai. 

Secondo voi un giornale o una televisione che ricevono viaggio pagato e decine di migliaia di euro in pubblicità sull'operazione Dubai possono poi essere credibili quando ne parlano?

Noi non siamo contro la presenza della Liguria a Dubai. Per esempio è positivo il lavoro realizzato dalla società Liguria International e sono importanti gli accordi stretti dall'Università di Genova con alcuni atenei arabi. E' utile, anche, la pubblicità della Liguria sui giornali arabi.

Noi non vogliamo che siano spese decine di migliaia di euro pubblici per il biglietto aereo di Toti e per far andare in gita tutto il suo staff. Siamo contrari al fatto che si paghino con i nostri soldi le trasferte dei giornalisti liguri. E ci chiediamo che senso abbia pubblicizzare la Liguria in Liguria spendendo 30mila euro per il convegno e la pubblicità sul Secolo XIX, più altri 15mila euro per Primocanale ecc. 

Chissà se l'Ordine dei Giornalisti, al quale abbiamo segnalato più volte la questione del fiume di denaro pubblico speso da Toti in pubblicità su TV e giornali liguri, vorrà dire qualcosa. 

Toti la chiama operazione di marketing. Noi, ironicamente, saremmo tentati di aggiungere una "T" e chiamarlo MARKETTING.

Dagospia il 2 aprile 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

Nel suo post il consigliere regionale Sansa elenca tanti particolari, eppure incorre in qualche dimenticanza e imprecisione. A partire dalla prima riga, quando dice “nemmeno tv e giornali hanno risposto” a proposito dei costi della missione. 

Perché alla direzione del Secolo XIX non è mai arrivata alcuna richiesta. Non avremmo avuto problemi a dire che il nostro giornalista è andato a spese del giornale, non con i soldi pubblici della Regione, circostanza che Sansa omette di esplicitare anche se cita più volte il nostro giornale.

Abbiamo deciso di seguire l’evento di Dubai perché l’Expo ha un rilievo internazionale nel quale a turno, nel padiglione dell’Italia, sono state protagoniste le regioni della Penisola. 

Quando è toccato alla Liguria abbiamo ritenuto fosse importante esserci perché è qui che il nostro giornale ha la sua sede e perché il tema scelto dalla Regione nella missione – la nautica – è fra quelli che da sempre caratterizzano la nostra testata oltre a rappresentare un settore economico fondamentale per questo territorio. 

E’ lo stesso motivo per cui abbiamo collaborato al convegno sulla nautica che si è svolto a Genova e sul palco del quale, oltre ai rappresentanti della istituzioni, sono saliti gli esponenti dei più importanti cantieri presenti in Liguria.

Quando parla di “giornalisti al seguito”, Sansa fa poi riferimento a “un free lance per conto del Secolo XIX”. Non è esatto, perché è un libero professionista che collabora regolarmente con noi, ma che è stato invitato dalla Regione (che ha postato alcuni dei suoi video), non mandato da noi. 

Infine, a proposito della pubblicità, sarebbe sorprendente se una Regione non comunicasse anche attraverso i mezzi che più direttamente si rivolgono ai suoi cittadini. 

Ma prima ancora ci sentiamo di rassicurare il consigliere Sansa: in 136 anni di storia, Il Secolo XIX ha maturato la forza necessaria per mantenere separata l’informazione giornalistica dai canali della pubblicità. Un principio che tutti i giornalisti del Secolo hanno ben chiaro e rispettano ogni giorno. La direzione de Il Secolo XIX 

Serialità ignorata. Articoli non pagati: confessioni di un ex aspirante giornalista. Andrea Cinalli su L'Inkiesta il 9 Marzo 2022.

Spesso ai giovani che vogliono intraprendere una professione si consiglia di darsi da fare senza mai lamentarsi. Perché se uno si lamenta può apparire come un “tipo difficile” e può quindi perdere molte occasioni di lavoro. A me non sembra giusto. Meglio tacere e abbassare la testa per raccogliere un pugno di briciole (se ci sono) o farsi rispettare pretendendo correttezza, trasparenza e onestà? Spesso, la necessità di farsi rispettare viene scambiata per mancanza di umiltà, ma questo suppongo accada a causa di quella gravissima forma di arretratezza culturale (tutta italiana?) secondo cui i vecchi (o i più grandi) sono detentori del sapere e del buon gusto, quindi meritevoli di ogni riguardo, e i giovani alle prime armi sono delle capre che devono rispetto e obbedienza. Io per anni tenni la testa china e collaborai con testate giornalistiche in silenzio, e non ottenni quasi nulla. Cominciai a pubblicare articoli su giornali e riviste a sedici anni perché credevo di guadagnarmi un vantaggio sugli altri, perché credevo che prima degli altri sarei riuscito a realizzare i miei sogni. Ma, invece di un traguardo, prima degli altri ebbi un crollo nervoso. All’età di ventidue anni avevo scritto già per tredici testate, e solo in pochi casi fui pagato. Qui parlo di alcune mie esperienze di collaborazione, le più significative, quelle che meglio sintetizzano lo stato delle cose.

Anni fa conobbi di persona una giornalista con cui avevo già collaborato, senza retribuzione, per un quotidiano online che dirigeva e di cui avevo grande stima. Mi disse che per il suo nuovo giornale ci sarebbe stata la possibilità di ottenere il patentino da pubblicista, che presto avrebbe iniziato a retribuire (“al momento ci stiamo attrezzando”) e mi chiese se avessi già delle ritenute d’acconto per collaborazioni precedenti (le avevo). Io accettai entusiasta di collaborare, pensavo che quella fosse davvero la svolta, che avrei finalmente guadagnato qualcosa e ottenuto l’iscrizione all’albo. Non chiesi subito i dettagli specifici sui pagamenti, decisi di fidarmi perché era una figura amica: se mi aveva detto che presto avrebbero iniziato coi pagamenti e il percorso da pubblicista, voleva dire che era vero. Mi accorsi presto, però, che al giornale non si imparava niente: mi capitò che un pezzo venisse bocciato ottenendo come spiegazione “per un altro giornale sarebbe andato bene, per noi no.” Non solo: in redazione questa giornalista si era rivelata una persona completamente diversa dalla tipa gentile che avevo conosciuto; ogni volta che riceveva una chiamata si lamentava di avere a che fare coi pazzi, quando facevo una domanda a lei e il suo collega venivo squadrato senza ricevere risposta e a un certo punto si alzò dalla sua postazione per venire a intimidirmi (“TI STIAMO SFRUTTANDO? TI STIAMO SFRUTTANDO?” mi ripeteva) senza che le avessi detto nulla, forse interpretando, male, un mio sguardo. In due mesi scrissi poco meno di una decina di pezzi, oltre ai redazionali, perché ero impegnato con i corsi e gli esami universitari ed ero in attesa di una retribuzione che giustificasse un impegno maggiore per il giornale (anche per i miei genitori che mi pagavano gli studi), ma quando chiesi alla giornalista della possibilità di ottenere quel tesserino, facendo presente che i pagamenti richiesti dall’Ordine regionale all’epoca erano già da tempo lievitati a 3000 € tanto per vedere se fosse informata e ci fosse ancora la disponibilità mi fu risposto: “Ma è una cifra enorme, nessun giornale può permettersi una cifra simile per aiutare un aspirante pubblicista. Però noi ci siamo.” Loro c’erano. Come, non l’ho mai capito. Pieno di delusione e sentendomi preso in giro, ma non volendo discutere con la giornalista, alla quale stupidamente tenevo ancora come figura amica, ho addotto una scusa e ho smesso di collaborare. Quella delusione divenne rabbia quando anni dopo, ritrovatomi di nuovo con lei a collaborare a un altro giornale (non suo), cercando di chiarire la questione, mi spiegò: “Ci sarebbero voluti almeno tre anni perché il giornale si consolidasse nel panorama cittadino, poi avremmo iniziato a pagare. Sono sicura di avertelo detto.” Non solo, quando riprendemmo il discorso dei pagamenti, mi chiese pure a che titolo chiedevo dei pagamenti. Per lei, non avevo neanche diritto di sapere se sarei stato pagato oppure no. Ripresi il discorso dei pagamenti dopo tutto quel tempo perché ero anche arrabbiato per essere venuto a sapere dal caporedattore che aveva impedito alla redazione del nuovo giornale di farmi scrivere attivamente anche di cronaca e di settori diversi dallo spettacolo perché a suo dire non ero bravo, anche se di persona mi aveva sempre fatto i complimenti e, pur avendo modificato alcune parole o frasi di alcuni vecchi articoli, me ne aveva bocciato uno solo al suo giornale. Sapete cosa mi disse quando le chiesi a proposito di quanto aveva detto di me in redazione? Che l’aveva fatto per me, per proteggermi dal caporedattore, visto che da lui non si imparava nulla.

Nell’ultimo anno di liceo scrivevo per un sito dedicato alle serie tv che presto sarebbe diventato testata registrata in tribunale. L’accordo, col giornalista che sarebbe diventato il direttore responsabile, era che avrei scritto tre recensioni a settimana, più alcune news, e che in cambio avrei ottenuto 50 € mensili in modo che dopo due anni di collaborazione avrei raggiunto una quota di circa 1000 € e finalmente avrei potuto prendere il tesserino da giornalista. Col direttore responsabile e il caporedattore ero d’accordo che la collaborazione avrebbe avuto inizio quando sarebbero stati pronti con l’iscrizione al tribunale e le retribuzioni, tuttavia mi venne chiesto di iniziare a scrivere quando il giornale non era ancora testata registrata. Poiché mi era sembrato brutto rifiutarmi – in fondo loro mi vogliono aiutare, vogliono realizzare il mio sogno – iniziai a scrivere. Ma passarono le settimane, passarono i mesi. Scrissi, scrissi, scrissi. E non ottenni nulla. Un giorno, mi decisi a scrivere al sedicente direttore responsabile, riferendogli che nel frattempo avevo trovato un altro giornale che avrebbe potuto darmi una mano col patentino (altra brutta storia) e chiedendogli se fossero pronti con le retribuzioni. Mi arrivò per sbaglio un suo SMS destinato al caporedattore. Il messaggio recitava così: “Cinalli secondo me bluffa. Dice di aver trovato un altro giornale. Questo vuole essere pagato, che facciamo?” Chiamai il direttore e gli feci presente che il messaggio era arrivato a me. Lui ridacchiò, disse che lo voleva inviare proprio a me per vedere la mia reazione. La mia reazione fu chiudere la chiamata e interrompere ogni rapporto. Imparai che spesso i capi oltre a non essere seri non hanno ‘manco la dignità.

Sempre nell’ultimo anno di liceo iniziai a scrivere di tv per una testata online abruzzese. Ero il critico televisivo della redazione, i miei pezzi finivano in prima pagina. Avevo una rubrica settimanale con la pagella del meglio e del peggio in televisione e scrivevo recensioni e riflessioni. Mi piaceva la grafica, mi piaceva come i miei articoli risaltavano sul giornale. Ma questo dopo un po’ non mi bastava più. Volevo essere pagato e iscrivermi all’Ordine, così chiesi al caporedattore (avevo contatti solo con lui) se c’era questa possibilità. Lui mi disse di sì e chiese a me come potessi conseguire il tesserino, cosa occorreva perché succedesse (lui non era iscritto all’albo). Glielo spiegai, parlammo senza definire subito i dettagli, rimandandoli a una conversazione ventura. Nel frattempo mi chiese di aprire un blog su WordPress, i cui pezzi – mi spiegò – sarebbero apparsi direttamente sul giornale, così che non dovessi aspettare ogni volta che lui li pubblicasse. Ma sul blog pubblicai un articolo, due articoli, tre, quattro. Sul giornale non apparve nulla, però il caporedattore – che nel frattempo non aveva detto più nulla sulla questione tesserino – continuava a insistere a farmi scrivere lì. “Se continui a pubblicare, appaiono.”, proprio così disse, anche se suonava come un invito della fatina del dente. Dopo circa una decina di pezzi mi son fermato perché non solo non erano apparsi sul giornale ma il caporedattore aveva smesso di rispondere alle mie mail. Lo congedai con una mail piccatissima.

Umiliato, preso in giro, non pagato. Suppongo che altri aspiranti pubblicisti, che magari il tesserino l’hanno pure preso, abbiano subito di peggio. Probabile. La conseguenza di tutto questo è che oggi mi è difficile fidarmi di chi dice di volermi dare un’opportunità e farmi crescere. Quasi sempre mi chiedo dove sia la fregatura che prosciughi quel poco di orgoglio e quel poco di autostima che mi sono rimasti. E voi quante fregature avete incontrato lungo il vostro percorso professionale?

Bruno Tucci racconta la rivoluzione del giornalismo: “Come eravamo”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Marzo 2022.  

Cosa è cambiato in questi anni? In realtà molte cose, a cominciare dalle vendite dei giornali: nel 2000 si vendevano 6 milioni di quotidiani al giorno, nel giugno 2021 si è scesi a 1 milione 200mila copie e continueranno a diminuire. Oggi il giornalismo si combatte anche a colpi di tweet, con i politici o i ministri che diffondono direttamente il loro pensiero sui social senza più la mediazione di un giornalista

Come è cambiato il mestiere del giornalista negli ultimi 60 anni? Come hanno influito sulla professione le tecnologie, i telefoni cellulari e soprattutto i social network? Era meglio 60 anni fa o adesso? Sono queste le domande che l’87enne giornalista Bruno Tucci, calabrese di nascita ma romano di adozione, si pone, lasciando la risposta al lettore senza darne una sua, anzi, come scrive Carlo Verdelli nella prefazione, soltanto sussurrandola “per non influenzare il parere dell’unico giudice riconosciuto e riverito, il Lettore appunto, il padrone vero di chi sente il giornalismo come una vocazione con tanto di chiamata, come succede per preti e suore”. Una vera rivoluzione copernicana quella che ha subito il giornalismo negli ultimi 60 anni, che Bruno Tucci racconta in ‘Come eravamo‘, volume edito da All Around con la prefazione di Verdelli. 

Tucci quella vocazione l’ha scoperta alla fine degli anni ’50, quando appena arrivato nella redazione del quotidiano romano “Il Messaggero“, si trovò alle prese con le prime paure del mestiere: “La paura di mettersi alla macchina da scrivere e vedere che il foglio infilato nella magica Olivetti 22 rimane bianco. È una vita bellissima quella che ho vissuto nonostante le vicissitudini e la stanchezza che, in alcuni momenti, diventa depressione”, scrive il giornalista nel libro. Il giornalista ricorda lo storico quotidiano romano dove incontrò il capo della cronaca, all’epoca Guglielmo Ceroni, che “dopo un attimo di riflessione, mi disse: ‘Non ti muovere. Aspettami qui’. Se in quei momenti mi fossi misurato la pressione, qualsiasi cardiologo mi avrebbe consigliato di correre a un pronto soccorso“, ricorda Tucci. Ceroni lo presentò al direttore, Sandro Perrone, che era anche uno dei proprietari del giornale.

Bruno Tucci, ex presidente dell’ Ordine dei Giornalisti del Lazio 

“Ok oggi è giovedì. Domani non si comincia mai di venerdì. Si presenti lunedì al collega Ceroni. Arrivederci’. Fine del discorso“. gli disse Perrone, e così iniziò l’avventura di Tucci al Messaggero. In quegli anni era tutto diverso, dall’abbigliamento regolarmente in giacca e cravatta per tutti i redattori, ai quotidiani che vendevano copie su copie. L’arrivo di Tucci al ‘Corriere della Sera’ avviene grazie a un incontro con il direttore Piero Ottone: “Bene, forse lei entrerà al Corriere come inviato, la gioielleria del nostro giornale. Nel qual caso, le raccomando principalmente la scrittura. Deve essere semplice, comprensiva, ma efficace. Soggetto, predicato e complemento. Se vorrà mettere un aggettivo la prego di telefonarmi“. Ma l’ingresso al quotidiano milanese di via Solferino avverrà qualche tempo dopo, quando sarà Franco Di Bella a richiamarlo come inviato. 

Cosa è cambiato in questi anni? In realtà molte cose, a cominciare dalle vendite dei giornali: nel 2000 si vendevano 6 milioni di quotidiani al giorno, nel giugno 2021 si è scesi a 1 milione 200mila copie e continueranno a diminuire. Oggi il giornalismo si combatte anche a colpi di tweet, con i politici o i ministri che diffondono direttamente il loro pensiero sui social senza più la mediazione di un giornalista che, armato soltanto di taccuino e profonda conoscenza del tema affrontato, pone le domande e interviene a tono sulle dichiarazioni.

“Il mio proposito è quello di dimostrare (spero) come, attraverso i fatti di una lunga carriera, sia cambiata la nostra professione. I cellulari, la tecnologia, internet: quindi la possibilità di informarsi nello spazio di pochi minuti. In meglio? In peggio? Non lo so. Ecco perché ritengo giusto che si faccia un paragone del ‘come eravamo e come siamo’” spiega Bruno Tucci. Redazione CdG 1947

Quando il giornalismo diventa delazione. Gioia Locati il 21 febbraio 2022 su Il Giornale.

Ricevo da un lettore e pubblico. 

Gentile giornalista,

Sono rimasto sbigottito dal servizio apparso sul TG4 serale del 14/2. Eccone una breve descrizione.

L’inviato intervista un imprenditore altoatesino non vaccinato e lo avverte che dal giorno seguente, il 15 (giorno dell’entrata in vigore del Dielle che prevede l’obbligo vaccinale per tutti i lavoratori over 50) non avrebbe più potuto recarsi nella sua azienda perchè, appunto, privo del green pass rafforzato. Gli ricorda che i suoi dipendenti sono tutti vaccinati e che il suo comportamento avrebbe potuto mettere in pericolo la salute dei dipendenti stessi. L’imprenditore risponde che non intende vaccinarsi, prova a motivare invano la sua scelta, e dichiara che si presenterà regolarmente al lavoro il giorno dopo e che, sentiti i suoi avvocati, sarebbe stato pronto a pagare l’eventuale sanzione. Spiega che la sua attività ha filiali anche in Austria e Polonia e fa capire che, qualora in Italia fosse impossibile    lavorare, non avrebbe problemi a spostare la sua attività in uno degli altri due Paesi. Fin qui i fatti. Anzi no, il giornalista minaccia di rivolgersi alla autorità di pubblica sicurezza,  affinchè il reprobo venga sanzionato come merita. Mantiene la parola e il giorno seguente, l’immagine del giornalista-giustiziere che, sotto la neve e in nome della legge,  bussa trafelato prima agli uffici della polizia di stato e poi della municipale, implorando l’irrogazione di una pena esemplare, lascia francamente sconcertati.

Non vogliamo entrare nel merito della legittimità o meno della scelta dell’imprenditore. Le leggi, si dirà, vanno rispettate anche quando non condivise. E fa niente se questo, tecnicamente, è un decreto-legge con poche  possibilità di essere convertito in legge entro i sessanti giorni (ovvero, se ben ricordiamo, entro il 7 o l’8 marzo), e quindi destinato a decadere con tutte le sue prescrizioni, compresa appunto questa dell’obbligo

Ci piacerebbe chiedere, per esempio, ai dipendenti dell’azienda se hanno più paura di essere contagiati dall’imprenditore-untore oppure di perdere il posto di lavoro, in caso, appunto, di trasferimento dell’attività in Austria o in Polonia. Ci piacerebbe,  ma ce ne asteniamo volentieri perchè ci pare argomento un poco demagogico.

Ci limitiamo a qualche ovvia considerazione: ricordiamo,anzitutto, che chi rifiuta di vaccinarsi non commette alcun tipo di reato penale e ha tutto il diritto di non essere messo alla gogna o trattato da delinquente.

Ci auguriamo inoltre che il giornalista si dia da fare, con lo stesso zelo, a scoprire e denunciare le decine di imprenditori che non pagano i contributi, ignorano le più elementari norme di sicurezza nei cantieri e magari evadono pure il fisco.  Restiamo in vigile attesa, come da protocollo anti-covid.

Cambiamo, di poco, argomento.

Pochi giorni dopo infatti lo stesso Tg informa che, a causa di un “cavillo burocratico” i no-vax probabilmente non riceveranno la multa in tempo utile a evitare la prescrizione. Rischiano, in buona sostanza, di farla franca e di non doverla mai pagare.  Come è potuto accadere?

Semplice, quel rompiscatole del Garante della Privacy si è messo di traverso e vorrebbe (come è suo dovere, peraltro, e come prevede la legge sulla privacy) impedire la trasmissione dei dati sanitari personali dalle Asl alla Agenzia delle Entrate. Chiediamo alla redazione di spiegare ai cittadini perchè, quando la legge (in questo caso una “vera” legge, non il dielle prima citato, in odore di incostituzionalità e destinato a scadere come una mozzarella) diventa un ostacolo alla “rieducazione” dei renitenti al vaccino venga ridotta a fastidioso “cavillo burocratico”. Anche qui restiamo in (sempre vigile) attesa di una risposta.

Ricordate il vecchio adagio? Le leggi per i nemici si applicano ma per gli amici si interpretano.

Passa ancora qualche giorno e il recidivo tg4 della sera ospita l’onorevole di Forza Italia Licia Ronzulli. Proprio lei, la senatrice che mostra verso i dubbiosi del vaccino la stessa tolleranza che aveva Nerone verso i primi cristiani. Ebbene la Ronzulli, dichiara candidamente che il suo partito farà di tutto per mantenere in vigore il green pass anche oltre la fine dello stato di emergenza (!!!). La motivazione? Squisitamente giuridica: abolire il lasciapassare verde significherebbe mancare di rispetto alla maggioranza degli italiani che si è vaccinata. Par di capire che “l’emergenza” deve continuare anche in assenza di emergenza.

“Credo quia absurdum”, direbbe Tertulliano.

Insomma, la “Notte della Repubblica” sembra davvero non finire mai. Guido M. Locati

Striscia la Notizia, Manuela Moreno e la gaffe clamorosa: "Venga in studio per dare la sua versione". Ma è morto nel 2017...Libero Quotidiano il 17 febbraio 2022

Striscia la notizia, nella puntata del 16 febbraio, "inchioda" la giornalista Manuela Moreno che al TG2 Post, su Rai 2, si è resa protagonista di una incredibile gaffe parlando del magistrato Giovanni Tinebra, morto nel 2017, che lei invita però a dare la sua versione dei fatti in studio. 

Luca Palamara, che è ospite in studio, infatti parla del giudice e della presunta Loggia Ungheria. Ad un certo punto la conduttrice lo interrompe e dice: "Ovviamente lo invitiamo in studio a dare la sua versione". "No purtroppo non c'è più", la ferma subito Palamara. "Ah no, però noi comunque quelli che citiamo li invitiamo a dare le loro versioni...", prova a rimediare Manuela Moreno.

Quindi per affondarla definitivamente i conduttori del tg satirico di Antonio Ricci tirano fuori Emilio Fede con il suo commento culti: "Che figura di me***". 

CALL TO ACTION. Un racconto collettivo sulla stampa e il potere. Il Domani il 16 febbraio 2022

Se volete contribuire a questo racconto, se siete giornalisti locali in difficoltà o se avete storie che rivelano l’intreccio tra stampa e potere, potete scrivere a lettoriateditorialedomani.it, mettendo come oggetto “Silenzio stampa”

I grandi media a livello nazionale sono sempre più in difficoltà. Non riescono ad affrontare un ritardo cronico nella trasformazione digitale e devono scontare il generale calo della pubblicità sulla carta. Sempre più aziende preferiscono investire nella pubblicità online, ma gran parte dei fatturati vanno alle piattaforme digitali – come Facebook o Google – che permettono una profilazione migliore dei potenziali clienti.

A livello locale, in molti paesi come negli Stati Uniti i giornali chiudono perché non hanno abbastanza vendite e non possono più contare sulle tradizionali fonti di ricavo (necrologi, annunci, pubblicità locale).

In Italia non soltanto resistono, ma sono contesi da imprenditori che li considerano lo strumento ideale per esercitare influenza su comunità ignorate dai media nazionali e troppo piccole per interessare alle piattaforme digitali. 

Attraverso il prisma delle vicende editoriali sul territorio si può osservare l’evoluzione degli assetti di potere economico-finanziario e dunque politico. Domani racconterà tutto questo in una serie di articoli: qui trovate i primi che ricostruiscono il contesto e le tendenze al centro dell’inchiesta. Se volete contribuire a questo racconto, se siete giornalisti locali in difficoltà o se avete storie che rivelano l’intreccio tra stampa e potere, potete scrivere a lettoriateditorialedomani.it, mettendo come oggetto “Silenzio stampa”.

SILENZIO STAMPA, L’INCHIESTA DI DOMANI. Sicilia, i cronisti a km zero e i due volti del giornalismo in terra di mafia. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 16 febbraio 2022

Ci sono sindaci del trapanese che hanno la sgradevole usanza, appena eletti, di nominare nel loro staff come addetto stampa il giornalista più noto del circondario. È l’asfissia informativa, il silenzio che cala sulle amministrazioni.

Lo scarto fra vecchi e giovani è profondo, nella nuova generazione di reporter siciliani i disubbidienti sono tanti. «E sono i figli dei nostri colleghi ammazzati, figli delle battaglie portate avanti dal giornale L’Ora e da I Siciliani, giornalisti che hanno coscienza del nostro mestiere“, dice Claudio Fava.

Le storie che pubblica La Sicilia quasi mai si rintracciano su Il Giornale di Sicilia, un’informazione piatta, felpata, sempre attenta a non dispiacere. 

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

SILENZIO STAMPA, L’INCHIESTA DI DOMANI. Rifiuti e soldi della sanità, gli affari dell’editoria del Lazio. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 23 febbraio 2022

Da Viterbo a Latina ci sono piccoli gruppi editoriali che forniscono servizi spesso gratuiti. Un arcipelago di giornali, tv, web tv, siti che rappresentano l’unica fonte in grado di portare notizie di rilevanza locale a decine di migliaia di lettori.

Il gruppo editoriale Giornalisti indipendenti controlla tre diverse testate: Latina Oggi, Ciociaria Oggi e Qui magazine. Uno scandalo relativo ai rifiuti ha colpito Valter Lozza, azionista di Iniziative editoriali, la concessionaria esclusiva delle pubblicità per le tre testate.

Alessio Porcu con la sua televisione regionale Teleuniverso ha firmato già nel marzo del 2017 un contratto da circa 23.900 euro con l’Asl di Frosinone per dare vita a un format tv di venti puntate in cui vengono intervistati dirigenti e personale sanitario. 

YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali.

TRA TOSCANA, EMILIA E SARDEGNA. Alberto Leonardis, cosa vuole davvero il nuovo signore della stampa locale? GIORGIO MELETTI su Il Domani il 17 marzo 2022

Alberto Leonardis comunque è alla ribalta. Un mese fa ha comprato dal gruppo Gedi La Nuova Sardegna, il quotidiano di Sassari che da sempre si contende il mercato regionale con l'Unione Sarda di Cagliari.

Alla fine del 2020 (sempre dalla Gedi che non crede più nei giornali locali, per decenni nerbo del gruppo Espresso), si era preso il Tirreno di Livorno, la Gazzetta di Modena, la Gazzetta di Reggio Emilia e La Nuova Ferrara.

Non avendo capitali (suo padre era un medico, suo nonno un coltivatore di zafferano), inventa un meccanismo in cui mette insieme alcuni soci, compra il giornale con i loro soldi, e poi lo gestisce incassando lo stipendio da manager-regista. Ma questi investitori puntano ai dividendi o ad altro?

GIORGIO MELETTI. Giornalista. Ha lavorato, tra l'altro, per il Corriere della Sera, La7 e il Fatto Quotidiano

Incroci pericolosi in Molise tra politica e informazione. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 09 marzo 2022

Il prossimo 16 marzo il tribunale di Campobasso dovrà emettere la sentenza di primo grado nel processo ribattezzato dalla pubblica accusa ‘Sistema Iorio’ dal nome dell’ex presidente della regione Molise Michele Iorio.

Le carte raccontano un perverso rapporto tra poteri che dovrebbero mantenere una sacrale autonomia e indipendenza e che invece si strusciano pericolosamente.

«In Molise si conoscono tutti. Di certo c’è un problema di promiscuità, di contaminazione, ma non riguarda solo me che guido Telemolise», racconta Manuela Petescia, direttora della tv.  

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Calabria, il giornalismo dei silenzi e quello delle notizie che fanno male. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 19 febbraio 2022

Il giornale più letto in Calabria si fa e si stampa in Sicilia. Se un fatto non è riportato sulla Gazzetta del Sud significa semplicemente che non è mai avvenuto», ci spiegava qualche anno fa un collega che era uno di quei giornalisti che sembravano “corrispondenti di guerra“ da casa loro.

I colpi di testa. Quelli che provocano reazioni a catena. L’uomo politico o il potente imprenditore che si lamenta, l’editore che barcolla e cede, i giornalisti che pagano il conto.

Il procuratore Nicola Gratteri ha inciso notevolmente in questi ultimi cinque anni nel contesto informativo calabrese. Ha spostato il “cuore” delle notizie da Reggio a Catanzaro. 

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

L’attacco alla libera stampa in Calabria. Il Quotidiano del Sud il 25 Febbraio 2022.

Diffide, mediazioni, querele temerarie. La vita delle redazioni e i tentativi (che non passeranno) di intimidire i cronisti. Un nemico comune da combattere uniti.

È inutile girarci attorno: in Calabria c’è una strana idea della stampa libera. Viene applaudita quando tocca “nemici”, secondo una classificazione tanto personale quanto sfuggente. Quando, invece, racconta interessi personali o di cordata diventa un nemico da combattere o, meglio ancora, da abbattere. Gli strumenti a disposizione non mancano: diffide, che preludono ad atti di mediazione, che aprono le porte a richieste di risarcimento che sfociano in querele, spesso temerarie.

Gli esempi sono decine: agli imprenditori che, ritenendosi diffamati da un articolo di cronaca, arrivano a chiedere cifre a sei zeri si aggiungono quelli per i quali la richiesta di risarcimento diventa imponderabile. Politici feriti nell’orgoglio da una frase chiedono la cancellazione di un pezzo il giorno dopo la sua pubblicazione, pena una causa (milionaria anche quella?) che costringerà giornalista, direttore ed editore a girovagare per le aule dei tribunali, forse per anni. L’elenco sarebbe lunghissimo. Chiariamo: non si mette in dubbio il diritto di rivolgersi a un giudice qualora ci si ritenga diffamati. Il punto è che il campionario che ogni redazione può esibire mostra richieste tanto bizzarre da far sorgere il dubbio che la vera questione sia un’altra, e cioè cercare di mettere il bavaglio alla stampa. C

i si muove nel terreno che segna la distanza tra la lesione della propria onorabilità e il tentativo di intimidire cronisti, editorialisti, testate. La sensazione è che spesso si tenda a raggiungere il secondo obiettivo. Non ci stracceremo le vesti per questo, continueremo tutti a fare il nostro lavoro.

A raccontare fatti, riportare opinioni, evidenziare le incongruenze di una regione in cui il grigio si allarga sempre più. E ci difenderemo dalle richieste di risarcimento e dalle querele temerarie. Ciò che non possiamo più fare è restare in silenzio davanti a metodi e numeri che fanno pensare a un attacco vero e proprio alle prerogative della libera stampa. È tempo di rispondere a questa aggressione.

Come? Per dirla con le parole del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, «dobbiamo garantire i giornalisti dalle azioni temerarie. I giornalisti sono chiamati in tante cause civili con risarcimenti dei danni stratosferici. E il giornalista così non può svolgere serenamente il proprio lavoro». Il magistrato, già a capo della Dda di Reggio, conosce bene la realtà calabrese. Nel suo intervento alla tavola rotonda internazionale organizzata a Siracusa dall’associazione “Ossigeno per l’informazione” ha proposto una soluzione: «Quali possono essere i modelli di garanzia? Quando viene chiesto il risarcimento se la querela è temeraria, il soggetto che ha citato in giudizio il giornalista se ha torto dovrebbe essere condannato al doppio del risarcimento del danno richiesto». Perché «l’informazione oggi è il cardine della democrazia».

E non un accessorio da esibire a seconda della (propria) convenienza.

Giuseppe Soluri, presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria

Andrea Musmeci, segretario del sindacato Giornalisti della Calabria

Michele Albanese, presidente dell’Unci Calabria 

Il Quotidiano del Sud

Corriere della Calabria

Il Giornale di Calabria

Zoom 24

La Nuova Calabria

I Calabresi

Catanzaroinforma

Calabria7

Il Crotonese

Arcangelo Badolati, giornalista e scrittore

Messico, cimitero di giornalisti. «Penna e taccuino le sole armi» non rassegnatevi, vi aiuteremo. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 18 Febbraio 2022. 

La didascalia della foto dice: parenti e amici della giornalista Lourdes Maldonado assassinata il 23 gennaio 2022 a Tijuana. Davvero vedete parenti e amici? Io vedo telecamere, macchine fotografiche, l’ennesima scena da immortalare per tenere il conto dei caduti in una guerra impari. 

27 gennaio 2022: lo scatto dall’alto di Guillermo Arenas documenta il momento della sepoltura della giornalista messicana Lourdes Maldonado, 48 anni, nel cimitero Monte de los Olivos di Tijuana, sua città natale nella Baja California, in cui ha trovato la morte quattro giorni prima, freddata a colpi di pistola

Ogni settimana sul magazine «7» Roberto Saviano presenta una foto da condividere con i lettori della rivista e del Corriere. «Una foto — spiega — che possa raccontare una storia. La fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla». Pubblichiamo online la rubrica uscita su 7 del 4 febbraio, per i lettori di Corriere.it

Vista dall’alto, cimitero di Monte de los Olivos, Tijuana, Messico. La didascalia della foto che vedete nella pagina accanto dice: parenti e amici della giornalista Lourdes Maldonado, 48 anni, assassinata il 23 gennaio 2022, raggiunta da colpi di arma da fuoco all’interno di un’auto a Tijuana. E conclude: il Messico è uno dei Paesi più pericolosi in cui esercitare la professione di giornalista. Ma guardate bene questa foto, guardatela con attenzione. Davvero vedete parenti e amici? Davvero vi sembra una scena di dolore e commozione? Davvero vi sembra una situazione unica, come unico è ogni funerale? Io vedo telecamere, macchine fotografiche, vedo l’ennesima scena da immortalare per tenere il conto dei caduti in una guerra combattuta ad armi impari. Da una parte chi ha potere economico, militare, politico e criminale e dall’altro chi usa penne, taccuini, videocamere, computer per raccontare ciò che accade, per provare a capirci qualcosa, per denunciare e non perdere la speranza.

LOURDES MALDONADO È STATA FREDDATA A COLPI DI PISTOLA A TIJUANA: TERZA VITTIMA NEL 2022. E CE N’È GIA UNA QUARTA

Io vedo rassegnazione. Proprio così, rassegnazione. Come si fa - direte - a vedere rassegnazione in una foto in cui nemmeno i volti delle persone ritratte sono perfettamente distinguibili? Eppure c’è. Non lacrime, non disperazione, ma la consapevolezza che chi scrive, a certe latitudini, non morirà di vecchiaia. Mi hanno colpito le parole del giornalista e scrittore turco Can Dündar — minacciato dal regime di Erdogan, arrestato nel 2015 e dal 2016 in esilio con un mandato di cattura pendente sul suo capo in Turchia — che, riferito alla condizione dei giornalisti messicani, ha affermato: «In Turchia almeno i giornalisti li arrestano, in Messico li uccidono». Questo la dice lunga sul prezzo che paga chi racconta le organizzazioni criminali, chi decide di raccontare i meccanismi del potere, potere criminale e potere politico, che talvolta finiscono per consorziarsi, talvolta per coincidere. Un prezzo che non è quasi mai evidente, un prezzo che sottende un pericolo quasi mai percepito fino in fondo dalla società civile.

DICEVA IL DISSIDENTE TURCO CAN DÜNDAR: «IN TURCHIA ALMENO I REPORTER LI ARRESTANO, DA VOI LI UCCIDONO»

Solo la morte decreta il tuo impegno e spesso, come nel caso dell’ultimo giornalista ucciso in Messico, il quarto dall’inizio del 2022 - non Lourdes Maldonado, ma un altro ancora dopo di lei - ti strappa via anche l’appellativo di giornalista, che è troppo “alto” secondo alcuni, che magari pone al centro del dibattito anche la tutela della libertà di espressione oltre al rammarico per una persona ammazzata a sangue freddo. Prima di Lourdes Maldonado era toccato al collega José Luis Gamboa Arenas, il 10 gennaio, ucciso a Veracruz. Poi al fotografo Alfonso Margarito Martínez Esquivel, il 17 gennaio, ammazzato fuori dalla sua casa a Tijuana. E dopo Lourdes, il 31 gennaio 2022, a cadere è stato Roberto Toledo, un avvocato di 55 anni che ha collaborato con la testata giornalistica Monitor Michoacán, ucciso a colpi di arma da fuoco nello Stato occidentale di Michoacán, nel comune di Zitácuaro, da tre uomini in un parcheggio vicino allo studio legale dove lavorava.

«È morto, ma non era un giornalista», si è affrettato a dire un politico locale. E invece no. Lo era eccome. Armando Linares, direttore di Monitor Michoacán, testata per cui Toledo faceva servizi giornalistici, ha affermato che Toledo aveva prodotto videoreportage per il web in cui denunciava le autorità locali. «Ha mantenuto un basso profilo, viste le minacce che avevamo ricevuto», ha detto il direttore di Monitor Michoacán in un’intervista alla testata messicana Milenio. Inoltre, in un video reperibile online, Linares afferma che dopo tutte le minacce ricevute dai suoi giornalisti, se dovessero esserci altri omicidi riterrà direttamente responsabili le autorità locali. «Uno dei nostri colleghi — dice — ha perso la vita perché tre persone gli hanno sparato in modo vile, in modo codardo. Alla famiglia del nostro collega dico che andremo fino in fondo».

Ripete la parola «collega», la ripete per rimarcare appartenenza, contro la volontà di creare divisioni tra chi fa informazione, tra chi merita attenzione e protezione e chi invece non la meriterebbe. E conclude con una frase che può sembrare retorica, ma che non lo è; una frase disperata, una richiesta di aiuto a cui dobbiamo, nonostante la siderale distanza che crediamo ci sia tra noi e il Messico, prestare ascolto: «Noi non abbiamo armi, la nostra unica difesa sono una penna e un taccuino».

Montante e i giornalisti: la replica di Lirio Abbate e il contenuto delle carte dell’inchiesta. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 18 Febbraio 2022.

Dopo l’articolo di Attilio Bolzoni dedicato alla situazione della stampa locale siciliana e all’influenza dell’ex presidente di Confindustria Sicilia Calogero Antonio Montante, sotto processo dopo una condanna in primo grado, abbiamo ricevuto una lettera dell’avvocato di Lirio Abbate, vicedirettore dell’Espresso citato nell’articolo di Bolzoni.

Abbate precisa:  «Non ho mai ricevuto favori da Montante e mai gliene ho fatti. Bolzoni scrive il contrario e questa informazione mi offende». 

Il nome di Lirio Abbate è contenuto in una scheda redatta dalla squadra mobile della Questura Caltanissetta, in seguito a delega  del pm che ordinava di verificare l’identità di persone che avevano ricevuto favori da Montante.

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

Giornali, il padrone unico dei media del Trentino-Alto Adige. La manifestazione dei giornalisti del Trentino sotto la loro vecchia redazione. DANIELE ERLER su Il Domani il 15 febbraio 2022.

La chiusura del giornale Trentino è l’ultimo segnale di una tendenza in corso da anni in Trentino-Alto Adige. I giornali locali storici sono stati acquisiti da un unico editore: l’Athesia di Michl Ebner che ora controlla l’80 per cento dei media locali. Del gruppo fa parte anche la Dolomiten che in un solo anno ha ricevuto 6 milioni di contributi statali per l’editoria.

La legge Gasparri nel 2004 ha abrogato il divieto di concentrazione regionale per i media. In teoria, uno stesso proprietario potrebbe oggi detenere il 100 per cento dei media locali. Il senatore Gianclaudio Bressa ha tentato di reintrodurre il limite tolto da Gasparri, con due emendamenti alla legge di Bilancio. Sono stati respinti dalla presidente Casellati. Secondo Bressa, il fatto che ci sia una sola voce a livello locale significa che ci sia «chi può decidere a suo piacimento chi promuovere, chi rallentare e chi escludere»

La crisi del giornalismo nel contesto locale assume caratteristiche peculiari. In Trentino per più di settant’anni l’esistenza di due giornali aveva garantito punti di vista diversi, talvolta in contrasto fra loro, anche nelle valli e nei piccoli paesi. Lo stesso in Alto Adige, dove si contrapponeva un giornale in lingua tedesca e un altro in lingua italiana. Ora è rimasta praticamente una voce sola.

DANIELE ERLER. Giornalista trentino, in redazione a Domani. In passato si è laureato in storia e ha fatto la scuola di giornalismo a Urbino. Ha scritto per giornali locali, per la Stampa e per il Fatto Quotidiano. Si occupa di digitale, tecnologia ed esteri, ma non solo. Si può contattare via mail o su instagram.

«Il vostro articolo sui media in Alto Adige è intimidatorio». S.I.E. S.P.A. su Il Domani il 17 febbraio 2022

«Qui si passa da salvatori dell’editoria locale ad essere accusati di dominatori dell’informazione in regione, dimenticando tutto il resto dei media presenti in loco, quotidiani altri, settimanali, mensili, periodici, televisioni locali, radio, siti web, agenzie stampa e via di seguito», scrive la Athesia.

Secondo Daniele Erler, «le preoccupazioni per la salvaguardia del pluralismo non sono state espresse da Domani ma, fra gli altri, anche dal sindacato regionale dei giornalisti e dal Consiglio dell’ordine dei giornalisti».

«Nessuno ha negato le difficoltà economiche dei giornali locali e in particolare della testata che è stata chiusa (con “condotta antisindacale”, secondo il giudice del lavoro)», scrive ancora. 

Leggiamo con enorme stupore quanto scritto da Daniele Erler sul vostro quotidiano nel numero del 16 febbraio. Leggiamo una critica feroce ad una casa editrice che ha rilevato dall’ex gruppo editoriale del vostro attuale editore, ing. Carlo De Benedetti, la società Seta SpA nel 2016. La società editava i due quotidiani Alto Adige e Trentino e quest’ultimo era già in odore di chiusura da tempo, per voce dello stesso editore.

Ma la cosa che colpisce di più è che avete preso per buono tutto quanto scritto da Erler, ex collaboratore e, per un breve periodo anche sostituto assunto a termine presso il quotidiano Trentino, sulla questione dell’editoria regionale, senza preoccuparvi di sentire cosa avesse da dire la controparte; evitando di analizzare che, in assenza di compratori, come per lungo tempo è successo all’editrice del quotidiano l’Adige, l’editoria locale in Trentino Alto Adige sarebbe semplicemente sparita.

Qui si passa da salvatori dell’editoria locale ad essere accusati di dominatori dell’informazione in regione, dimenticando tutto il resto dei media presenti in loco, quotidiani altri, settimanali, mensili, periodici, televisioni locali, radio, siti web, agenzie stampa e via di seguito. Non si fa nemmeno cenno alle centinaia di famiglie che hanno ancora un reddito proprio grazie al lavoro di queste case editrici, rilevate e risanate grazie all’opera svolta in questi anni di enorme difficoltà di mercato, sia editoriale sia pubblicitario.

Purtroppo, con un’amarezza estrema per un gesto che mai ci saremmo aspettati da un quotidiano nazionale, che condivide le nostre stesse difficoltà, ci vediamo costretti a invocare il diritto di rettifica garantito dall’articolo a della legge 8 febbraio 1948, numero 47 (Legge sulla stampa) chiedendo la pubblicazione, entro 48 ore, della seguente rettifica:

Athesia non è proprietaria dell’80 per cento dei media della regione. Ci sono altri quotidiani locali, settimanali, mensili, periodici, televisioni, radio, siti web, agenzie stampa, concessionarie di pubblicità e altro tutto a carattere locale. Idem dicasi per il “monopolio informativo” che è un falso assoluto: non c’è nessun monopolio per i motivi indicati sopra; sarebbe come se gli altri media non contassero nulla rispetto ai quotidiani stampati! 

Il fatto che il presidente della Provincia autonoma di Bolzano non abbia visibilità sui media del gruppo Athesia è un’altra notizia falsa e pretestuosa: viene citato in media quattro volte ed è presente con almeno una foto in ogni (!) edizione del quotidiano "Dolomiten", mentre viene citato oltre cinque volte in ogni edizione del quotidiano "Alto Adige" ed è presente con una foto in ogni due edizioni (!) per un periodo lungo che va dal 2014 al 2021. Questa notizia falsa è una gravissima intimidazione politica nei confronti di una casa editrice di quotidiani indipendenti.

Ancora una volta, il concetto di “una voce sola” in Trentino-Alto Adige è un concetto falso e facilmente smontabile per quanto esposto sopra. Altra falsità è costituita dalla scalata ai mezzi locali a fini di chiusura o di strumentalizzazione a fini di influenzare la popolazione. Nessun attore si è fatto vivo per rilevare le aziende quando queste sono state messe sul mercato (Seta SpA del gruppo dell'ing. De Benedetti nel 2016 e Init Sri dei conti Gelmi da molto più tempo). L’unica cosa giusta di cui parla il redattore in quel passaggio è il tema della non sostenibilità dei quotidiani, in particolare uno, che è stato comunque tenuto in vita per cinque anni pur in costanza di conti economici dai numeri drammatici.

Risponde Daniele Erler: Nessuno nega la presenza di altre testate in Trentino-Alto Adige rispetto a quelle di proprietà di Athesia. L’Agcom ha comunque certificato, nella sua indagine conoscitiva sull’informazione locale del 2018, che in termini di audience informativa Athesia ha una leadership assoluta, raggiungendo il 78,1 per cento della popolazione che si informa sui fatti locali. Il Trentino-Alto Adige è una delle poche realtà in Italia (insieme a Emilia-Romagna, Toscana, Molise, Puglia e Sardegna) dove la Rai (servizio pubblico) non è il primo gruppo di riferimento per l’informazione locale (sempre secondo Agcom).

Le preoccupazioni per la salvaguardia del pluralismo non sono state espresse da Domani ma, fra gli altri, dal sindacato regionale dei giornalisti e dal Consiglio dell’ordine dei giornalisti.

L’influenza, inoltre, non si misura solo negli assetti proprietari: i dorsi locali del Corriere della Sera – che sono di proprietà di Rcs – si affidano a Media Alpi per la pubblicità. Ovvero a un’agenzia che fa parte del gruppo Athesia.

A ogni modo, l’idea che un giornale nazionale non possa parlare delle dinamiche del settore soltanto perché condivide il comune destino di vivere la crisi dell’editoria è una sorta di “regola non scritta” che abbiamo consapevolmente deciso di infrangere. Lo scopo dell’inchiesta Silenzio Stampa non è commentare il lavoro dei colleghi, ma raccontare attraverso le evoluzioni dell’editoria locale le dinamiche del potere sul territorio.

Nessuno ha negato neppure le difficoltà economiche dei giornali locali e in particolare della testata che è stata chiusa (con “condotta antisindacale”, secondo il giudice del lavoro). I dati economici da voi condivisi sono stati riportati nell’articolo. È anche vero, ed è giusto sottolinearlo, che nessun altro in Trentino è intervenuto per salvare un giornale in crisi.

Vedere in un articolo come quello sull’informazione locale in Trentino Alto-Adige una «gravissima intimidazione politica» è un’affermazione priva di ogni fondamento che al massimo indica una certa idea del giornalismo, delle sue motivazioni e delle sue forme che, però, non è la nostra, come può capire qualunque lettore che legga Domani. S.I.E. S.P.A.

Rai e Mediaset: il loro duopolio è la nostra condanna televisiva. STEFANO BALASSONE su Il Domani il 12 febbraio 2022

L’ultimo rapporto Mediobanca sul mondo Media&Entertainment  misura le parole quando parla dell’Italia, ma i numeri non sono cortesi e ribadiscono che, al di là del cigno nero della pandemia, Rai e Mediaset, le due maggiori imprese italiane,  non sanno più chi sono e arrancano arretrando su una china scivolosa.

Mediaset  s’agita trasferendosi in Olanda, forse per meglio incontrare  Prosiebensat, la tv tedesca che maggiormente le somiglia perché poco produce e molto acquista.

L’azienda pubblica italiana ha bisogno di riforme sia da fuori (la “governance”, per distanziare i vertici sia dal Parlamento che dal Governo) sia da dentro (circa l’assetto editoriale e organizzativo).  

STEFANO BALASSONE. Critico, produttore e autore televisivo. Le sue pubblicazioni: La TV nel mercato globale, 2000, Come cavarsela in TV, 2001, Piaceri e poteri della TV, 2004, Odiens, sbirciando l'Italia dal buco dell'auditel, (2014).

Dagotraduzione dal Guardian il 22 febbraio 2022.

Gli ascolti delle notizie sono in forte calo, la fiducia del pubblico nei giornalisti è ai minimi storici e uno dei nomi più famosi nel settore dei media è in una crisi post-pandemia di serie A in vista di un'importante elezione di medio termine. 

Ma il denaro continua ad arrivare, circa un miliardo di dollari all'anno di profitto per la sua società madre, WarnerMedia di AT&T, mentre le decisioni sui contenuti basate sui dati spingono la rete verso ossessioni da tabloid e un tono radicato nell'esagerazione e nell'allarme. 

La CNN, la società fondata nel 1980 da Ted Turner sulla scorta dei ricavi di una delle più grandi cineteche di film classici del mondo, si è trovata a un bivio che all'interno assomiglia almeno a una crisi.

Due settimane fa il presidente della CNN Jeff Zucker è stato licenziato bruscamente per non aver rivelato una relazione romantica con una collega anziana. Pochi credono alla narrativa, dal momento che la relazione era nota da anni e almeno un conduttore della CNN, Don Lemon, ha versato lacrime in onda alla partenza di Zucker. 

La partenza di Zucker sembrava più probabilmente correlata a un altro licenziamento scandaloso, quello del conduttore Chris Cuomo, che ha citato in giudizio la rete per un 60 milioni di dollari dopo essere stato licenziato per aver svolto un ruolo fuori misura e non dichiarato nel plasmare la difesa di suo fratello, l'ex governatore di New York Andrew Cuomo, contro le accuse di molestie sessuali.

Gli scandali fanno eco a episodi precedenti in cui i dirigenti delle principali organizzazioni televisive americane sono stati accusati di operare una cultura dell'impunità per altri dirigenti senior, quasi sempre maschi. Sembra illustrare un problema più ampio ai vertici di queste aziende: organizzazioni estremamente potenti i cui dirigenti sembrano aver presupposto che le normali regole non si applicassero a loro.

Prendi il grande rivale della CNN, Fox News. Nel 2016, il capo di Fox News Roger Ailes è stato licenziato dopo uno scandalo di molestie sessuali. Una causa intentata dagli azionisti, che nominava l'eredità di Ailes e l'azionista di controllo della 21st Century Fox, Rupert Murdoch, ha affermato che Ailes aveva «molestato sessualmente dipendenti e collaboratori impunemente per almeno un decennio» e che Murdoch e altri avevano consentito a Bill O'Reilly ancora di Fox News di molestare diverse dipendenti di sesso femminile. 

La società ha pagato 55 milioni di dollari per risolvere le denunce di molestie sessuali e in seguito ha perso le migliori conduttori femminili tra cui Megyn Kelly, Greta Van Susteren e Gretchen Carlson.

Lo scandalo Fox News è stato seguito due anni dopo da uno scandalo di molestie sessuali che ha coinvolto il CEO della CBS Leslie Moonves che includeva accuse di un tentativo di insabbiamento da parte dei dirigenti della CBS. A Moonves è stato successivamente negato un pacchetto di fine rapporto di 120 milioni di dollari. Ciò è seguito al licenziamento di Charlie Rose, co-conduttore del programma mattutino della CBS, nel novembre 2017 dopo che diverse donne lo hanno accusato di molestie e cattiva condotta.

Ma i problemi della CNN, mentre mancano accuse comparabili contro Zucker, la cui relazione era consensuale, suggeriscono che altri problemi sono in gioco in un nuovo settore in uno stato di turbolenza quasi costante. 

Il pubblico della CNN nella prima settimana di gennaio è sceso complessivamente del 90% e in particolare nella fascia demografica critica ambita dagli inserzionisti rispetto all'anno precedente, mentre la rete sta attirando critiche per le posizioni editoriali. 

Secondo Ariana Pekary, editore pubblico per la CNN presso la Columbia Journalism Review e giornalista di MSNBC che ora si concentra sui difetti sistemici dei notiziari commerciali, una narrazione di una cultura tossica e dominata dagli uomini non descrive completamente i problemi a portata di mano nel settore radiotelevisivo degli Stati Uniti.

Invece alcuni dei problemi riguardano ciò che è sullo schermo, non chi c'è dietro. 

«Zucker era iperconcentrato sulle valutazioni e sugli incentivi finanziari e questo ha portato i cambiamenti nelle notizie verso l'opinione perché l'opinione guida le valutazioni», ha affermato Pekary. «La CNN si occupa più di cercare di creare una narrazione che pensano che il pubblico seguirà, quindi costruiscono la copertura attorno a determinati personaggi che sono nei notiziari ogni giorno o riappariranno». 

Zucker era stato portato alla CNN nel 2012, due anni dopo aver lasciato la NBC, dove aveva guidato gli ascolti della divisione intrattenimento con programmi come The Apprentice di Donald Trump, che ha contribuito a ristabilire la sua immagine pubblica e, secondo alcuni, ha reso possibile la sua presidenza.

Nonostante il background di Zucker in reality TV e notiziari del mattino, l'allora società madre della CNN, Time Warner, assunse Zucker per migliorare le valutazioni e iniettare "più passione" nella programmazione. 

Secondo il Washington Post, Zucker è riuscito a rendere redditizia la rete, espandendo la programmazione oltre le notizie. Tra le nuove offerte c’era Parts Unknown di Anthony Bourdain, insieme a una nuova divisione di documentari progettata per creare una programmazione per gli spettatori del fine settimana. 

Pekary ha lasciato MSNBC nel 2020, scrivendo sul suo sito web che provenendo dalla radio pubblica, «dove nessuna decisione a cui ho mai assistito era basata su come un argomento o un ospite avrebbe "valutato" a cosa, al telegiornale "Ho visto tali scelte - è praticamente cotto nel processo editoriale – e quelle decisioni influenzano i contenuti delle notizie ogni giorno”».

La pressione di prendere decisioni editoriali basate su sondaggi e dati sull'audience, spiega Pekary, inizia negli incontri di notizie mattutine, dove Zucker era notoriamente una forza sempre presente alla CNN. «Ecco perché la copertura di ora in ora si attiene alle stesse storie e narrazioni. Prendono decisioni su ciò che secondo loro il pubblico valuterà migliore, in base a ciò che ha fatto bene e ai social media». 

Pekary ha recentemente notato che, in assenza di Donald Trump per guidare gli ascolti, la CNN si è spinta in modo aggressivo nel «regno del materiale simile ai tabloid». C'era Gabby Petito, la donna di Long Island uccisa dal suo ragazzo nel Wyoming, e il coinvolgimento di Alec Baldwin nella morte della direttrice della fotografia Halyna Hutchins.

Il problema non è esclusivo delle notizie via cavo, ma solo esagerato. La devozione alle valutazioni, ragiona Pekary, ha deformato il controllo editoriale e la credibilità delle notizie via cavo e del settore delle notizie in generale. 

Secondo i dati dell'annuale barometro della fiducia di Edelman, il 56% degli americani concorda con l'affermazione che «giornalisti cercano di proposito di fuorviare le persone dicendo cose che sanno essere false o grossolane esagerazioni». 

Una percentuale ancora maggiore – il 58% – ha affermato di ritenere che «la maggior parte delle testate giornalistiche è più preoccupata di sostenere un'ideologia o una posizione politica che di informare il pubblico».

Per la CNN, la saga di Cuomo è iniziata con Chris Cuomo che intervistava spesso suo fratello in onda - un chiaro conflitto di interessi - prima di trasformarsi in un confronto per molestie sessuali. Dopo che Jeffrey Toobin, un analista legale di lunga data della CNN, si è esposto durante una chiamata Zoom con i colleghi del New Yorker, è stato rimesso in onda. 

La devozione ai dati ha creato opportunità di concorrenza da altre fonti, a volte controverse. Due settimane fa, il podcaster Joe Rogan si è ritrovato in una faida pubblica con Neil Young e altri per la disinformazione di Covid.

Pekary afferma che le notizie via cavo potrebbero riscattarsi se si concentrassero maggiormente sulla raccolta di notizie e meno sulla vendita di opinioni, che è più economico da produrre al di fuori degli enormi stipendi per i talenti in onda. Meno importa chi comanda. Ma con la CNN che realizza 1 miliardo di dollari di profitto per la sua società madre, l'incentivo al cambiamento è limitato. 

«Non importa chi è al comando, non vedo che il formato cambia tanto quanto credo dovrebbe», ha detto. «Trascorrono moltissimo tempo, soprattutto in prima serata, a rielaborare l'indignazione del giorno, mentre potrebbero produrre una programmazione di notizie molto migliore con un formato diverso che in realtà informa un pubblico più ampio, ma stanno cercando il minimo comune denominatore».

LIBERTÀ DI INFORMAZIONE A RISCHIO. Il destino incerto della Bbc è lo stesso di tutti i media. (I giornalisti della Bbc hanno spesso manifestato il supporto per i colleghi di tutto il mondo quando la loro libertà era a rischio. Ora a rischio c’è la Bbc.) FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 12 febbraio 2022

Un secolo fa nasceva la Bbc. Da almeno un decennio viene presa a spallate dai conservatori. Ha cominciato David Cameron, il premier dell’austerity. Ora il governo di Boris Johnson lancia l’assalto definitivo: proprio nel momento di massima fragilità dei media, progetta di toglierle il supporto pubblico.

Emily Bell, l’esperta di media della Columbia, ha anzitutto un timore: che proprio mentre gli Stati Uniti sono costretti a prendere atto delle distorsioni del loro sistema mediatico, l’Europa si metta a imitarli. «Negli Usa vediamo quanto siano interconnesse crisi mediatica e politica». 

FRANCESCA DE BENEDETTI. Europea per vocazione. Ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto (The Independent, MicroMega), ha fatto reportage (Brexit). Ora pensa al Domani.

Cento anni e un sacco di guai. Angelo Allegri su Il Giornale il 22 Febbraio 2022.  

Le prime parole pronunciate via etere avevano più a che fare con il gergo tecnico che con la storia: «Due-Lo, Qui parla Marconi House, Londra». Erano le sei di sera del 14 novembre 1922, la Bbc iniziava le trasmissioni citando il codice dell'autorizzazione a trasmettere («Lo» sta per Londra) e la sede provvisoria vicino al Covent Garden, oggi trasformata in residence di lusso. I dipendenti erano quattro, non c'era nessun giornalista e il giornale radio (la notizia di apertura parlava della rapina a un treno) veniva preparato raccogliendo i dispacci dell'agenzia Reuters. 

Per la più antica e più importante emittente pubblica nel mondo il 2022 è un'occasione di celebrazione. Ma l'anno del centenario è iniziato con un avviso di tempesta. In gennaio la segretaria alla Cultura Nadine Dorries ha annunciato che la prevista revisione del canone pagato dai cittadini non ci sarà, l'ammontare (fissato a 159 sterline) rimarrà bloccato e alla scadenza del 2027 l'attuale convenzione non sarà rinnovata con conseguente perdita del canone. La Bbc, ha concluso, dovrà trovare nuove fonti di finanziamento.

È l'ultimo episodio di un braccio di ferro tra l'attuale governo conservatore e uno dei colossi tra i media mondiali: quasi 7 miliardi di euro il fatturato, trasmissioni in 43 lingue, oltre 400 milioni di spettatori settimanali a livello internazionale. Considerata in tutto il mondo uno dei bastioni della libera e obiettiva informazione, la Bbc ha, da sempre, faticato a gestire i rapporti con i politici al potere a Londra, che hanno il non trascurabile privilegio di controllare le sue fonti di finanziamento.

Ai tempi della Guerra fredda Winston Churchill era convinto che l'emittente fosse in mano «ai rossi» e sono rimaste famose le sfuriate di Margaret Thatcher contro l'atteggiamento dell'informazione pubblica durante la guerra della Falklands. Per suo marito Denis, Bbc (British Broadcasting corporation, società britannica di trasmissioni) stava in realtà per British bastard Corporation. E quando si è trattato di decidere se rimanere o no nell'Unione Europea, per la destra inglese l'acronimo è diventato Brexit Bashing Corporation (società per colpire la Brexit).

Litigi e minacce, a dire la verità, non hanno riguardato solo i conservatori. Reportage e analisi sulla guerra in Irak, con l'accusa a Tony Blair di aver ingannato i cittadini britannici, aprirono una frattura tale con i laburisti da poter essere risolti solo con le dimissioni dei vertici dell'emittente. Ma nell'ultimo ventennio e soprattutto dal 2010, ha scritto David Hendy, autore di una recente storia della Bcc («Bbc, a people's history») «gli attacchi si sono fatti più persistenti, organizzati, corrosivi e soprattutto più distruttivi». I governi laburisti, spiega Hendy, sono perennemente insoddisfatti perché accusano la «zietta» («auntie» è uno dei soprannomi della società) di non fare abbastanza per riequilibrare l'orientamento di destra proprio di gran parte della stampa popolare inglese. Da parte loro «i governi conservatori hanno mostrato una più profonda sfiducia ideologica», scrive Hendy, «percependo qualcosa di fastidiosamente collettivista nell'intero atteggiamento e negli obiettivi della Bbc». Anche per questo Mark Thomson, per otto anni direttore generale dell'emittente e poi numero uno del New York Times, sostiene che «la Bbc ha di fronte la minaccia più grave della sua storia».

LOTTA CONTINUA

L'attuale premier, Boris Johnson, con la Bbc è impegnato da anni in un duello senza quartiere. Negli ultimi anni ha bloccato ogni adeguamento del canone all'inflazione, in più ha messo a carico della casse dell'ente l'esenzione da ogni pagamento per gli over 75 sotto un determinato livello di reddito. L'operazione è costata quasi 300 milioni di euro, trovati diminuendo il personale giornalistico di circa 400 unità (su 6mila). Sotto la sua guida un'ala del partito conservatore ha proposto di alleggerire le sanzioni per il mancato versamento del canone: da reato penale per cui si può andare in prigione a semplice illecito amministrativo. Alla fine non se ne è (per il momento) fatto nulla, ma il significato simbolico del gesto è rimasto.

A guidare l'ente Johnson ha messo Richard Sharp, un suo buon amico e consulente, ex banchiere di JPMorgan e Goldman Sachs, generoso contributore alle finanze del partito conservatore. A Johnson non è invece riuscito l'obiettivo di nominare un altro suo alleato alla guida di Ofcom, l'autorità di regolazione del settore radio-televisivo: Paul Dacre, ex direttore del Daily Mail, ha rinunciato a concorrere per l'incarico (ancora scoperto) dopo una serie di polemiche sulla procedura di selezione. Per la Bbc la sua nomina sarebbe stata un presagio di nuove difficoltà: qualche anno fa era stato lui ad aprire una polemica che aveva fatto rumore, accusando la Bbc di avere un orientamento «marxista». Ora c'è molta curiosità per l'addio, previsto in questi giorni, di Fran Unsworth, 40 anni di carriera interna, responsabile dei servizi giornalistici. La sua sostituzione sarà un segnale importante per stabilire l'aria che tira intorno all'emittente pubblica.

ARRIVANO I GIGANTI

Nel frattempo, a dare un po' di respiro alla Bbc è stata, paradossalmente, la pandemia: nel momento di difficoltà l'intero Paese è tornato a riunirsi intorno a una delle sue istituzioni, non così lontana, per prestigio e tradizione percepita, dalla monarchia. Gli annunci più importanti legati al Covid sono stati seguiti da non meno di 20 milioni di persone, il telegiornale delle 18, il più popolare, è ridiventato un appuntamento imperdibile per l'inglese medio. Nei giorni dell'introduzione delle prime misure di distanziamento la percentuale di case in cui si guardava la Bbc è passata dal 91 al 94%, il sito internet ha segnato un record di 81 milioni di visite.

Alcuni momenti sono già diventati un simbolo: la già citata storia della Bbc di David Hendy ricorda il 19 dicembre del 2020, un sabato, in cui Boris Johnson andò in tv per spiegare le draconiane restrizioni che avrebbero impedito la normale celebrazione del Natale. Pochi minuti dopo andò in onda, tra mille precauzioni, la finale di «Strictly Come Dancing», una gara di ballo tra celebrità che in Italia è stata importata con il titolo di «Ballando con le stelle». Gli ascolti da record segnarono una trasmissione trasformata dalle circostanze in una specie di celebrazione: «Nel 2020 i sabati sera sono stati un deserto, le esperienze collettive quasi inesistenti», scrisse il giorno dopo il critico televisivo del Guardian. «Avevamo bisogno di qualcosa intorno a cui riunirci. Avevamo bisogno di gioia. Questa trasmissione è stata creata per darcela. Grazie a Dio ci è riuscita».

È anche grazie al fatto di rappresentare un simbolo che l'emittente britannica spera di affrontare l'altra grande minaccia, quella impersonata dai colossi della televisione non lineare come Netflix e Amazon. Tra le società pubbliche la Bbc è stata probabilmente la prima a tener conto delle novità legate al mondo interconnesso. La sua piattaforma per le visualizzazioni digitali, l'iPlayer, risale, nella prima versione, addirittura al 2007, lo stesso anno della presentazione dell'i-Phone. L'app è ancora la più scaricata, ma nelle fasce di popolazione giovanile è ormai stata largamente superata da quelle dei rivali, anche se queste offrono solo contenuti a pagamento. E nonostante la possibilità di accedere a un pubblico globale come quello di lingua inglese anche la Bbc non riesce a tenere il passo in termini produttivi. L'anno scorso, ricordava un analista del settore, la Bbc ha speso per la produzione di contenuti 2,8 miliardi di euro. Un decimo di quanto possono permettersi Netflix e Amazon.

Verità, linguaggio e conflitto sociale ai tempi della pandemia. DAVIDE ASSAEL su Il Domani l'11 febbraio 2022.

Il linguaggio dei nostri tempi riflette la polarizzazione sociale in atto. Non sono convinto che l’accettare come equivalenti posizioni fondate sul rispetto delle evidenze scientifiche e fantasie complottiste di ogni tipo sia il corretto antidoto.

Come possiamo, in un mondo di comunicazione dal basso, di echo chambers, di gruppi sempre più chiusi stabilire una qualche forma di credenza condivisa?

C’è, poi, un terzo aspetto: sarebbe colpevole non notare quanto le opinioni personali siano deviate ed indirizzate da attori politici con chiaro intento propagandistico, quando non direttamente eversivo.

DAVIDE ASSAEL. Presidente dell’Associazione Lech Lechà, impegnata nel campo del dialogo interculturale a livello internazionale. Docente di filosofia e scrittore. collabora con la rivista di geopolitica “Limes” ed è fra i conduttori della trasmissione di RaiRadio3.

Da Montagnier ad Assange, le volte che i media online indipendenti hanno anticipato (o superato) il mainstream. 

Da Rec News dir. Zaira Bartucca l'11 febbraio 2022

Luc Montagnier, dicono i vicini, prima di lasciare la vita terrena avrebbe deciso di dare uno schiaffo sonoro a quel mainstream che – irrispettoso di decenni di carriera – gli aveva fatto pagare il suo scetticismo sui vaccini anti-covid. Del suo decesso sarebbe stata messa a conoscenza un’unica testata, quel…

Luc Montagnier, dicono i vicini, prima di lasciare la vita terrena avrebbe deciso di dare uno schiaffo sonoro a quel mainstream che – irrispettoso di decenni di carriera – gli aveva fatto pagare il suo scetticismo sui vaccini anti-covid. Del suo decesso sarebbe stata messa a conoscenza un’unica testata, quel France Soir che varie volte lo aveva intervistato e ospitato. Così, l’8 febbraio il sito francese indipendente ha firmato uno scoop mondiale, pubblicando per prima l’esclusiva sul decesso dello scienziato e surclassando dinosauri della comunicazione come Le Monde e Le Figaro, che addirittura sono arrivati sul fatto due giorni dopo. Quasi un caso da (nuova) scuola di giornalismo.

La pietra tombale su tg e “giornaloni”

Se ne può certamente trarre la conclusione che il mainstream – chiuso nel circolo dei comunicati stampa istituzionali e delle telefonate per ottenere il via libera sulla pubblicazione – si stia via via accartocciando su se stesso, perdendo sempre più la fiducia dei lettori e degli spettatori. Non ha fatto una bella figura con tutti i dispacci allarmanti relativi al virus, men che meno con l’atto di ignorare i deceduti e danneggiati a causa dei preparati sperimentali anti-covid. Adesso, con la morte di Montagnier, è stata calata la pietra tombale definitiva sui tg e sui “giornaloni. Il caso non è prettamente francese, ovviamente, perché a voler guardare all’Italia la situazione è disastrosa. Si affermano sempre più i siti indipendenti, ma anche quelli che fingono di esserlo. Fortuna che si va affermando sempre più una galassia di siti indipendenti, per quanto anche il settore dell’antimainstream – in alcuni casi presunto tale – non sia immune da problemi. Parallelamente alle testate realmente libere, si affermano infatti sempre più network che imitano l’impostazione dei media antisistema, ma in realtà sono foraggiati da partiti o da organismi tramite i più svariati sistemi, donazioni comprese. C’è invece del buono in chi – coerentemente – non nasconde la propria appartenenza: è il caso del network russo stanziale in Germania Ruptly, che nel 2019 firmava immagini andate in rotazione su tutti i tg del mondo: era l’11 aprile e Julian Assange veniva arrestato a Londra, portato fuori di peso dall’ambasciata dell’Ecuador che fino a quel momento gli aveva dato ospitalità.

Nel 2018 nasce Rec News, il sito italiano “lontano dal mainstream”

Proprio sulla scia dei limiti del mainstream è nato – nel 2018 – il sito che state leggendo. Non con la presunzione di fare meglio degli altri, ma con la certezza di portare avanti il lavoro giornalistico con adesione ai fatti e ai documenti (citati e riportati), con onestà e con la dose maggiore possibile di imparzialità. Da queste colonne abbiamo svelato – unici – tutte le pieghe del sistema Riace, e pubblicato – soli – la mappa del mainstream al servizio delle Procure. Abbiamo raccontato – trasversalmente – le manovre di tutti i partiti, senza raccontare massimi sistemi ma delineando precise responsabilità. La lista è piuttosto lunga ma lungi da questo sito il tentativo di autocelebrarsi, anche perché c’è ancora molto da fare e tanto da imparare. La strada da fare è ancora tanta. Però l’esempio di Rec News è forse buono per comprendere che per fare un’informazione corretta e realmente indipendente – oggi – non servono né grandi network, né grandi finanziamenti e né grandi donazioni.

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 20 gennaio 2022.

Udita ieri: «Mi risponda in trenta secondi, dobbiamo chiudere». Peccato che l'intervistatrice si sia inerpicata su per una domanda ben più lunga dei pretesi secondi. Non farò nomi perché la cattiva abitudine è molto diffusa. E, per quel che si riesce a monitorare, è vezzo tipicamente italiano. 

Fateci caso: nei talk show, nelle conferenze stampe, nelle interviste la domanda non finisce mai, s' attorciglia, s' impaluda, si costringe a movimenti che hanno il rigore e l'arbitrarietà della cerimonia incantatrice. Soprattutto se accompagnata da quel «tu» di colleganza, irritante e frusto scampolo del ricettario della confidenza. Nel frattempo, il volto dell'interlocutore si va trasfigurando, tra lo smarrimento e il fastidio: sa che appena comincerà a rispondere, un'altra domanda incomberà per tarpargli la parola.

L'intervistatore, nel corpo della domanda, non solo si affida all'articolazione della retorica (dove impera «la mite disubbidienza dell'anacoluto») ma cerca di forzare la risposta verso i suoi orizzonti domestici.

La lunghezza della domanda, gesto insieme solenne e fatuo, adolescente e temerario, dà una precisa indicazione sulla sua funzione: il personaggio principale della narrazione, sia chiaro, resti l'intervistatore non l'intervistato (elemento peraltro fungibile, specie di questi tempi malati). «Il mio viso si intontiva davanti al tuo parlare difficile», dice il poeta.

Temo che la lunghezza delle domande dipenda da due fattori. Il primo è da ricercarsi nella scarsa competenza dell'intervistatore: meno sa della materia in questione, più si aggrappa una domanda a strascico, in modo tale da racimolare qualcosa per il vaniloquio. Il secondo è anch' esso strategico: più la domanda è pingue, ambigua, opaca, fitta di pieghe casuali, sintatticamente temeraria, più è percorribile in tutte le direzioni. Vuol dire tutto e dunque niente.

Estratto dell'articolo di Giovanna Casadio per repubblica.it il 17 gennaio 2022.

È il diavolo che ci ha messo la coda. Nella redazione del Secolo d'Italia, giornale della destra storica, e nella Fondazione di Alleanza nazionale che lo edita, la giustificazione è: "Colpa del diavoletto della tipografia". 

Sarà il "diavoletto" oppure un lapsus che - Freud insegna -  la dice lunga sui veri sentimenti, comunque il titolo di prima pagina di stamani, sembra un manifesto della destra controcorrente. Urla in due righe: Colle, il centrodestra: "Il Cav scelga la riserva". Sottolineato rosso. 

Ora tutti sanno che il vertice del centrodestra a Villa Grande si è concluso con un appello di Salvini, Meloni e compagnia a Silvio Berlusconi affinché "sciolga" la riserva. Come dire, decidi tu.

Ma di seguire e eseguire la volontà del Cav, forse non c'è gran voglia soprattutto nelle file della destra all'opposizione, di Fratelli d'Italia, che sta nella Fondazione, insieme a molti degli antichi colonnelli di Gianfranco Fini (il quale però non partecipa), a cominciare da Italo Bocchino, direttore editoriale del quotidiano, da Mario Landolfi ex ministro delle Comunicazioni, Gianni Alemanno, Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri.

Il direttore operativo Girolamo Fragalà, detto Jimmi, è stato svegliato da Francesco Storace, l'ex direttore, gran battutista, che lo ha incoraggiato: "Fatti una risata...". Ma c'era assai poco da ridere. "Se fosse stato un errore mio, avrebbe voluto dire che ho la vocazione al suicidio...", commenta Fragalà. 

Solo un refuso, che è stato corretto subito in mattinata. Però già circolava sui social quel criptico invito a Berlusconi a scegliere la riserva. 

Con un seguito di ogni declinazione possibile. Ovvero: scegliere di fare la riserva (un passo indietro). Oppure: scegliere una riserva (suggerimenti: Gianni Letta). O ancora: ritirarsi in una riserva (lontano, in un altro continente)". 

LA REPLICA DEL SECOLO D'ITALIA A REPUBBLICA 

(...)

Luca Maurelli per secoloditalia.it il 17 gennaio 2022.

Ci sarebbe da piangere, più che da ridere, ma noi siamo giornalisti allegri e non possiamo fare a meno di cogliere gli aspetti spassosi di questa primizia storica del giornalismo italiano. 

Mai, neanche quando Repubblica annunciò in in titolo a tutta pagina che le “Fregne” erano “invase dalla folla” – per poi scoprire che il caos non era originato da un’orgia pubblica ma da una mattinata di sole a “Fregene” con assembramenti non vaginali – un giornale si era sognato di prendere sul serio un refuso tipografico, trasformarlo in notizia su un altro giornale e annunciarlo in prima pagina come scoop.

Di quel divertentissimo strafalcione tipografico Fregne-Fregene si sorrise, sul web, ma nessuno osò ipotizzare che si trattasse di un’inchiesta sulla presenza di rattusoni sul litorale laziale o di un attacco politico al governo sulla moralità dell’esecutivo. Era un refuso, non un lapsus, sembrava fregna, era fregene, basta, lo avrebbe capito anche un maniaco sessuale. 

Lo scoop basato su un errore di un collega

Ieri, invece, per la prima volta nella storia del giornalismo italiano, abbiamo assistito al materializzarsi di uno “scoop” interamente basato sul refuso tipografico di un altro giornale e spacciato per formidabile retroscena politico da parte di Repubblica, visto che nella home page è stata piazzata un’articolessa dietrologica basata su un errore di battitura scappato al Secolo d’Italia, peraltro non nella sua edizione principale, quella on line (che ormai rappresenta la quasi totalità dell’offerta e dell’utenza giornalistica del nostro quotidiano) ma sulla versione cartacea destinata al solo pubblico di abbonati e disponibile via mail.

Un refuso corretto già nella seconda edizione, in ribattuta, all’alba, come capita da sempre in tutti i giornali che incorrono in un errore iniziale. Troppo tardi, c’era solo un giorno di tempo per prenderne atto, troppo poco per chi ha già deciso di scrivere… 

Se volessimo ridere dello scoop di Repubblica, e in effetti non possiamo farne a meno, ci sarebbe da ricordare che il New York Times ha scoperto un proprio refuso in prima pagina dopo cento anni, noi dopo otto ore, siamo stati più bravi… 

Ma nel dettaglio, vediamo qual è questo clamoroso refuso del Secolo d’Italia che ha scatenato i retroscenisti, i quirinalisti, gli origliatori, i ben informati, gli inviati speciali a Disneyland del quotidiano di Largo Fochetti, inducendoli a titolare, in prima pagina, sul sito, su quell’inquietante interrogativo che ha scosso i Palazzi della politica romana, fatto rabbrividire il Cavaliere, scosso le cancellerie europee e messo in fermento i mercati mondiali: “Il Secolo d’Italia e il titolo su Berlusconi: da “sciolga” a “scelga la riserva”. Refuso o lapsus?“.

Refuso o lapsus, dunque: questo l’agghiacciante dilemma posto da Repubblica, che per una giornata intera ha tenuto in ansia i lettori del sito, ai quali sarebbe bastato aprire il pezzo (ma riservato solo agli abbonati) per avere la risposta e fargli staccare il defribillatore che ne teneva a bada le coronarie. 

“E’ un refuso”, spiegavano serenamente i giornalisti della nostra testata, invano. Sicuri? “Certo, è un refuso”. Ma se fosse un lapsus? “Nooo, è un refusooo”. Un colpo al cuore, per l’intervistatrice, che dimostrava una certa difficoltà nell’elaborare il lutto per la banalità della non notizia, inducendola a scavare nei meandri della tipografia del Secolo fino a riapparire sconvolta dal dilemma: dite la verità, colleghi, refuso o lapsus finiano? 

“Il Cavaliere scelga la riserva” – il titolo errato – aveva aperto a Repubblica scenari da golpe dei colonnelli, di moniti criptici al Cavaliere affinché si facesse da parte, segnali massonici di congiure ordite nelle segrete delle tipografie redazionali per un nome di riserva da proporre per il Colle: si trattava, invece, solo di un involontario complotto del correttore automatico che aveva storpiato l’originario titolo, “Il Cavaliere sciolga la riserva“, ovviamente in relazione alla candidatura prospettatagli dal centrodestra.

Se ne può sorridere, su Twitter, come ha fatto qualche buontempone, del resto i ditini alzati sui social sono perfino più diffusi dei refusi nei giornali, certo. Ma che un giornale serio come Repubblica costruisse su un errore di battitura un articolo in cui sui ventila un “lapsus” più o meno freudiano degli ex finiani presenti nel Secolo d’Italia – per affossare Berlusconi o lanciare segnale politici trasversali alla Meloni o agli alleati – per un refuso finito un’edizione in pdf che leggono poche migliaia di persone rispetto a quella web su cui c’era il titolo corretto e che viene vista ogni giorno da mezzo milione di persone, nessuno poteva immaginarlo.

E’ la stampa, bellezza. Datemi un refuso e vi costruirò un retroscena nel quale neanche le testimonianze esclusive dei colleghi che avevano scritto l’articolo con il titolo incriminato sono servite a evitare che l’errore assurgesse a notizia. Dalle fregne, alle fregnacce, potremmo titolare oggi. 

Poco conta che in passato, lo stesso giornale romano (come quelli di tutto il mondo) si fosse reso protagonista di strafalcioni altrettanto cattivi e divertenti, dallo storpiamento del nome del suo fondatore in “Eugeni” Scalfari, al commissario Calabresi ucciso ma scambiato per il figlio Mario in una rubrica, per non parlare di errori più banali, che qualche simpatico animatore di social aveva ripreso sul web.

Sul trash web, appunto, non su autorevoli testate web. Per nostra sfortuna, però, l’inchiesta sui colleghi che sbagliano, sulla tipografia distratta e sui “finiani” che sostituiscono le lettere sulla tastiera del direttore o fingono lapsus per attaccare il Cavaliere, non ha fatto breccia su nessun altro giornale. E un po’, sinceramente, ci dispiace. Siamo amanti del giallo, anche quando non c’è. 

“Il mio debole sta nel sospettare in ogni insurrezione dell’alfabeto un complotto contro di me, diretto da un innominato in camice da lavoro, un tizio dalle mezze maniche, comunque si chiami, proto o linotipista: in realtà un nebbioso tiranno che ha preso a malvolermi sin dal principio”. (Il refuso, Gesualdo Bufalino) 

Dagospia il 18 gennaio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Buongiorno Dago, non si prenda questa mia per insubordinazione o oltraggio ma l'altro giorno, leggendo "Pulci di notte" l'imperdibile rubrica di Stefano Lorenzetto sono trasalito. Non per le sottolineature in rosso e blu che il nostro veronese implacabile verga su errori e orrori di noi giornalisti quanto per una svista, leggerezza, incuria - trova tu la parola giusta per carità - che da lui, re dei censori, proprio mai mi sarei aspettato. Il 14 gennaio mastro Lorenzetto infatti ha corretto un mio articolo sulla tragedia del povero Loris Stival ucciso dalla mamma in Sicilia, non di qualche giorno prima ma uscito nientemeno che proprio un anno fa. Certo, la pandemia fa perdere il tempo un po' a tutti, figurati a chi ti vuole bene. E Lorenzetto, lo so, da sempre riserva grande affetto per me, da quando redattore al Giornale mi insegnava la grammatica sui miei scoop... che volete, c'è chi trova notizie, chi trova refusi in questi…tutti sono utili. Ricordo anche quando provo' nella sua insuperabile generosità ad aprire un dialogo tra me e il suo caro carissimo amico Angelo Becciu del quale tanto ho scritto nei miei saggi da non conquistarne la simpatia. Gianluigi Nuzzi

Dagospia il 18 gennaio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dagospia, mi spiace che la tua consuetudine di riprendere da “Anteprima” di Giorgio Dell’Arti le pulci che faccio alla stampa italiana ti abbia costretto a pubblicare un’inconferente missiva dell’amico Gianluigi Nuzzi. Egli ti ha scritto che, leggendo la mia «imperdibile rubrica», è «trasalito non per le sottolineature in rosso e blu che il nostro veronese implacabile verga su errori e orrori di noi giornalisti quanto per una svista, leggerezza, incuria – trova tu la parola giusta per carità – che da lui, re dei censori, proprio mai mi sarei aspettato». E ha dettagliato: «Il 14 gennaio mastro Lorenzetto infatti ha corretto un mio articolo sulla tragedia del povero Loris Stival ucciso dalla mamma in Sicilia, non di qualche giorno prima ma uscito nientemeno che proprio un anno fa». Mi spiace per Nuzzi, che è spesso (ahimè e ahinoi) bisognoso d’essere spulciato sul piano della sintassi e dell’accuratezza, ma comincio a sospettare che abbia qualche difficoltà a rapportarsi con la realtà, tipico squilibrio di chi sta sempre in tv. Non lo dico per la diretta dal balcone con il colbacco in testa, quanto per il fatto che il suo articolo «uscito nientemeno che proprio un anno fa» è apparso su “Specchio” in data 26 dicembre 2021, cioè 20 giorni prima che lo chiosassi (te lo allego per la gioia tua e dei tuoi lettori). Evidentemente, secondo Nuzzi dalla notte di San Silvestro al 1° gennaio passa invece un anno, nel senso di 365 giorni. Tanto per non smentirsi, nella lettera odierna Nuzzi lo chiama il «povero Loris Stival». Nell’articolo uscito su “Specchio” a fine dicembre, cioè «un anno fa», per ben 9 volte «Lorys». Constato che da un anno all’altro per Nuzzi cambiano anche i nomi. Sperticati ossequi. Stefano Lorenzetto 

Dagospia il 18 febbraio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, sul "rapporto difficoltoso con la realtà" che avrei a causa della mia presenza in tv non oso contraddire lo zelante Lorenzetto. La televisione la conosce bene avendola frequentata da autore. Sui tranelli dell'ego, i suoi rimbrotti sono preziosi: è competente in materia. Gianluigi Nuzzi

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 18 gennaio 2022.

Nella sua rubrica I grandi gialli, su Specchio, supplemento della Stampa, Gianluigi Nuzzi si occupa di un delitto nella Milano degli anni Trenta. 

Innanzitutto scrive che Maria Bonvecchiato, l’assassina, era «nata nel veronese a Noale», ma Noale trovasi in provincia di Venezia (senza contare che i nomi derivati da un luogo geografico richiedono la maiuscola, quindi bisognava scrivere «nel Veronese»).

Poi soggiunge che la signora era «sensibile all’arte e alla bellezza ma anche molto pratica e concreta», qualità, la prima, che non pare contrastare con la seconda e la terza al punto da richiedere la congiunzione avversativa ma. 

Quindi specifica che «Elisa ha 33 anni ed è praticamente coetanea della Bonvecchiato, che rimane solo di qualche anno più giovane», per cui non si comprende in che consista il suo essere «praticamente coetanea», visto che non ha la stessa età dell’altra. 

Completa l’opera il redattore incaricato d’impaginare l’articolo, che per due volte definisce Maria Bonvecchiato «nobildonna», quando invece Nuzzi descrive così i genitori: «Il padre proprietario di un forno e la mamma casalinga che seguiva i quattro figli». Non che le cose vadano meglio in altre sezioni di Specchio. 

A pagina 7 c’è una foto tratta da Ieri, oggi, domani: il celebre spogliarello che Mara, squillo d’alto bordo interpretata da Sophia Loren, improvvisa per Augusto Rusconi (Marcello Mastroianni). Il redattore, che probabilmente non ha mai visto il film diretto da Vittorio De Sica, nella didascalia copia pari pari da Wikipedia, la quale a sua volta ha copiato da Cinematografo.it, database della Fondazione dell’Ente dello spettacolo: «La protagonista è una venditrice abusiva di sigarette, che per non essere arrestata ricorre ad una lunga serie di maternità». 

Solo che questa è la trama del primo dei tre episodi, Adelina, non di Mara, che è il terzo cui invece si riferisce l’immagine. A pagina 27 nel titolo della rubrica di Alain Elkann (intervista con l’artista Anselm Kiefer) si legge: «“Mio padre era nella Whermacht”», anziché Wehrmacht. Un po’ di attenzione almeno per il papà dell’editore, che diamine!

Catenaccio nel titolone di prima pagina sulla Repubblica: «Le Lega minaccia lo strappo e ferma il Super Pass». È così detestata che alla Repubblica ne vedono due anche se è una sola. 

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«Se nel 220 a.C. la strategia di Quinto Fabio Massimo detto “il Temporeggiatore” servì a sconfiggere i cartaginesi guidati da Annibale, non è automatico che essa sia efficace anche nel ventunesimo secolo d.C.», osserva Alessandro Graziani nella sezione Finanza & Mercati del Sole 24 Ore, in un articolo intitolato «Tim, Cassa Genova e Civibank nel limbo delle Opa sospese».

Spiace per Graziani, ma nel 220 avanti Cristo il generale romano non avrebbe potuto sconfiggere i cartaginesi. Infatti solo sul finire del 219 venne inviato dal Senato romano come ambasciatore a Cartagine, in seguito alla resa di Sagunto, per scoprire se fosse stato Annibale ad aggredire la città spagnola. 

Nominato dittatore dopo la battaglia del Trasimeno (217), egli si guadagnò il soprannome di Cunctator, il Temporeggiatore, per la tattica adottata contro Annibale nel corso della Seconda guerra punica, combattuta dal 218 al 201 avanti Cristo.

Il fighettismo nella scrittura deve poter resistere alle verifiche: nel caso specifico ne sarebbe bastata una sulla Treccani online. Interpellato dal Corriere della Sera, il simpatico Clemente Mastella, sindaco di Benevento e democristiano di antico pelo, confessa di aver dato qualche consiglio a Silvio Berlusconi, onde agevolarlo nella scalata al Quirinale: «Silvio può tentare alla quarta votazione se ha la saldezza dei suoi e degli alleati.

Ed è qui che interviene il mio metodo. Berlusconi deve dire a Forza Italia di scrivere sulla scheda “Silvio Berlusconi”, alla Lega “Berlusconi Silvio”, a Fratelli d’Italia semplicemente “Berlusconi”, a Noi con l’Italia “S. Berlusconi”, a Coraggio Italia “Cavalier Berlusconi”... Solo così potrà capire dove saranno mancati i voti». 

Ma se poi un grande elettore, nel segreto dell’urna, scrive «Berlusconi S.», o «cavalier S. Berlusconi», o «cavalier Silvio Berlusconi», o «Silvio cavalier Berlusconi», Mastella che cosa consiglia? Il lie detector? 

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Sulla Verità, Carlo Tarallo espone le misure di sicurezza antivirus che saranno adottate durante le votazioni per l’elezione del nuovo capo dello Stato: «Addio al cosiddetto “catafalco” all’interno del quale il grande elettore compila la scheda: sarà sostituito da cabine con un sistema di areazione».

Gli fa eco Valerio Valentini sul Foglio, informandoci che senatori, deputati e delegati regionali «sfileranno uno per uno dentro una cabina fabbricata alla bisogna, con aperture laterali per garantire l’areazione». Praticamente si prepara una nuova edizione di Areazione a catena condotta da Marco Liorni. 

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Titolo dal Mattino di Napoli: «Vigili, giubbotti antiproiettile durante i controlli green pass. “Servono a evitare il contagio”». E poi i no vax dicono che il coronavirus non è letale. 

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Dal Corriere della Sera: «È mancato il conte Pio Teodorani Fabbri, marito di Maria Sole Agnelli, una delle sorelle di Gianni Agnelli. Aveva 97 anni, si è spento ieri mattina nella casa di Torre di Pietra, vicino a Roma, dove viveva con la moglie». 

Per la verità, la frazione del Comune di Fiumicino si chiama Torre in Pietra (o Torrimpietra), toponimo derivante dal castello del XIII secolo. Il maniero e la tenuta, guarda caso, furono acquistati nel 1926 dal senatore Luigi Albertini con la liquidazione versatagli dal Corriere della Sera dopo che il fascismo lo aveva costretto a lasciare la direzione. 

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Didascalia dalla Gazzetta di Mantova: «Gennaio 2021: anche un anno fa in questa stagione Mantova e la Lombardia erano in zona arancione». Vabbè che repetita iuvant, ma se era il gennaio 2021 ci pare pacifico che fosse anche un anno fa e in questa stagione.

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 14 gennaio 2022.  

Niente, non c’è verso che le entri in testa. Veronica Gentili, nella sua rubrica settimanale sul Fatto Quotidiano, scrive: «Le perplessità riguardo l’ultimo decreto vaccinale sono molteplici». Esattamente come le perplessità riguardo al suo reiterato impiego di questa locuzione prepositiva in una forma sbagliata.

Quella corretta dev’essere appunto riguardo a, e non riguardo il. Basta controllarla su un qualunque dizionario. 

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Titolo dal sito della Repubblica: «Ieri 220 mila casi, nuovo record per Omicron. “Ma per i vaccinati è letale come l’influenza”». Meno male. 

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Dal Corriere della Sera, rubrica La parola: «Termopili. Nome della località che dà il nome alla battaglia del 480 a.C.: il re di Sparta, Leonida I (foto) con pochi uomini decimati rallentò l’avanzata dei persiani». 

A parte che la fotografia fu inventata 23 secoli dopo le Termopili, come sarà un uomo decimato? Senza gambe? Senza braccia? O senza testa, come certi redattori frettolosi? 

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Sommario da Domani: «Una pattuglia di costituzionalisti invoca una dergola alla “presenza”». Tutto chiaro. 

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Sotto il titolo «Lo spettacolo della schizofrenia», il supplemento domenicale del Sole 24 Ore pubblica una recensione del saggio Operatori e cose. Confessioni di una schizofrenica (Adelphi) di Barbara O’Brien. 

La firma lo psichiatra Vittorio Lingiardi, il quale a un certo punto si esprime così: «Ciò che al tempo scriveva la protagonista è ancora in parte vero: a) “nessuno sa che cosa la provochi”; b) “nessuno sa come curarla”; 3) il numero dei ricercatori in questo momento impegnati a scoprirne le cause e la cura è così esiguo “che le possibilità di arrivare a una soluzione nel futuro prossimo sono relativamente scarse”».

Divertente la sequenza «a) ... b) … 3) …». Se la schizofrenia è la separazione delle funzioni mentali, qui ne abbiamo avuto una prova. 

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Commemorando David Sassoli sul Corriere della Sera, Walter Veltroni si sofferma sul cattolicesimo democratico del compianto presidente del Parlamento europeo, «quello di Dossetti, di La Pira, di Mazzolari, di Scoppola e di tanti altri, politici e non».

È frustrante doversi ripetere, ma l’avverbio negativo olofrastico (detto così perché, da solo, costituisce un’intera frase) è soltanto no, quindi bisognava scrivere «politici e no». 

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Nella sua serie I grandi gialli, su Specchio, supplemento della Stampa, Gianluigi Nuzzi ricostruisce il delitto commesso da Veronica Panarello, «una mamma icona, accudente della casa e soprattutto dei figli, pargoli che mai abbandonerebbe o, ancor meno, toglierebbe loro la vita», frase dove appare evidente come il che non possa reggere anche il verbo toglierebbe (occorreva scrivere: «O, ancor meno, ai quali non toglierebbe la vita»).

Senza contare che accudente, essendo participio presente di accudire, richiede la costruzione con a e non con di: «Accudire alle faccende di casa», per stare all’esempio dello Zingarelli 2022, non «accudire delle faccende di casa». 

Più avanti, cita tre orari come se li copiasse dai tabelloni luminosi di Trenitalia prodotti dall’azienda Solari di Udine: prima «08.47», poi «09.23», quindi nuovamente «09.23», quando la mamma assassina «carica Lorys esamine in auto e lo trasporta sino al muretto del canalone per farlo cadere e quindi tornare a casa», dal che parrebbe che Veronica Panarello abbia usato il figlio come una testa d’ariete per abbattere il manufatto. 

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Nel titolo di apertura, sulla prima pagina della Repubblica, si legge: «Solo gli alunni non vaccinati in Dad». Adesso la vaccinazione viene eseguita con la didattica a distanza? No? Allora bisogna scrivere: «In Dad solo gli alunni non vaccinati». 

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«Da anni, ormai, sulle uova è necessaria una etichettatura tramite stampa di un apposito codice sul guscio. Si tratta di un sistema di classificazione che serve a indicare diversi fattori», spiega Leggo.it. 

«Il codice è necessario per la classificazione delle uova in base a diversi fattori (modalità di allevamento, qualità o categoria, dimensioni e tracciabilità). Sulle confezioni viene indicata la taglia dell’uovo (S per le uova fino a 53 grammi; M per le uova da 53 a 63 grammi; L per le uova da 63 a 73 grammi; XL per le uova dal peso superiore ai 73 grammi)».

Non occorre essere docenti di statistica per capire che, se calcoli due volte la stessa quantità, il sistema di classificazione risulta sballato. Il cronista scrive correttamente che «S indica le uova fino 53 grammi», però sbaglia quando aggiunge «M per uova da 53 a 63», in quanto i 53 grammi sono già inclusi nel dato precedente. 

Avrebbe dovuto precisare «da 54 a 63». Idem per «L da 63 a 73 grammi». L’errore trova conferma in nell’«XL per quelle superiori ai 73», espressione finalmente corretta. 

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Sulla Stampa, un’opinione di Linda Laura Sabbadini esce corredata da questa qualifica: «Direttora centrale dell’Istat». Alla guida del quotidiano torinese hanno per caso sostituito Massimo Giannini con Michela Murgia? Per la lingua italiana, il femminile di direttore resta direttrice. 

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Nella medesima pagina, La Stampa pubblica un editoriale in cui Luigi Manconi scrive, fra l’altro: «È una discussione che, in realtà, è iniziata mezzo secolo fa, quando Philip Bobbit e Guido Calabrese scrissero un libro fondamentale Tragic choices». 

La discussione, per la verità, cominciò semmai 43 anni fa, visto che il saggio uscì nel 1978. E soprattutto il secondo autore (in realtà il primo sulla copertina, a prescindere dall’ordine alfabetico) era Guido Calabresi. 

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” l'11 gennaio 2022.

Nella rubrica che tiene sulla Repubblica, Concita De Gregorio commenta, a proposito del rapimento di Aldo Moro, «il fatto che una casa d’aste metta al bando l’originale del volantino numero uno delle Br». 

Il verbo corretto doveva essere bandisca. Per Lo Zingarelli 2022 la locuzione mettere al bando significa infatti «condanna, specialmente di esilio, proclamata in pubblico» e per il Devoto-Oli anche, in senso figurato, «allontanamento da una comunità».

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«È in atto la tenace resistenza di forze, politiche e sociali, ma anche di abitudini, così radicate, così incistite, da non potere essere non dico eliminate (il che sarebbe impossibile) ma nemmeno seriamente ridimensionate», avverte Angelo Panebianco nel suo editoriale di prima pagina sul Corriere della Sera. 

Con tutta la considerazione dovuta alla cistite, infiammazione assai dolorosa, il plurale femminile del participio passato di incistare è incistate, non incistite. 

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Nel Tg1 di massimo ascolto (ore 20), la conduttrice Emma D’Aquino ospita in studio la sua collega Giorgia Cardinaletti per «capire e spiegare bene» l’accordo «importante» con le farmacie sulle mascherine Ffp2. Cardinaletti, agitando trionfante un dispositivo di protezione, annuncia che «il prezzo calmierato sarà di 0,75 centesimi». 

O la telegiornalista non ha capito oppure non sa spiegarsi bene: 1 euro equivale a 100 monete da 1 centesimo, quindi 0,75 centesimi sono tre quarti di 1 centesimo. Il prezzo delle mascherine calmierate è invece di 75 centesimi, quindi tre quarti di 1 euro. Senza lo zero e senza la virgola. Per capirci meglio, il 10000 per cento in più rispetto a quanto annunciato da Cardinaletti.

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Il coltissimo Mephisto Waltz nell’omonima rubrica sul Sole 24 Ore riporta, in una forma aggiornata, un vecchio scherzo sugli auguri natalizi degli avvocati (anglosassoni o che se la tirano per apparire di quel tipo). 

Solo che trascrive senza fare una piega anche l’espressione «celebration of the summer solstice holidays». Summer? Ma vive agli antipodi? Siamo in inverno, mica in estate. Avrebbe potuto (dovuto) sottolinearne l’incongruenza solstiziale, rettificando in «winter solstice holidays».

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Pietro Senaldi, condirettore di Libero, intervista Paolo Mieli sull’imminente elezione del nuovo capo dello Stato e gli fa pronunciare la seguente frase: «Diciamo che per la par destruens i calcoli sono giusti, per quella construens invece sono folli». 

Me par sbaglià, come diciamo invece dalle nostre parti. E la colpa non può essere certo attribuita all’ex direttore del Corriere della Sera, il quale anni fa ebbe a dichiarare: «Una citazione latina sbagliata in un discorso o riportata erroneamente in un articolo dovrà diventare un’onta perenne, un guaio peggiore di un avviso di garanzia». Si scrive pars destruens, come Mieli ben sa (ma Senaldi no). 

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Nel suo editoriale in prima pagina, Stefano Feltri, direttore di Domani, ricorda: «Nel febbraio 2021 Mattarella ha spiegato che non si poteva votare per il Covid». 

Il virus era ineleggibile? Spostandosi subito a destra, l’occhio cade su questa didascalia: «Mario Draghi sembra ormai alla fine della sua corsa, con i partiti della maggioranza già rompono le fila mentre lui è ancora a palazzo Chigi». 

A parte il «che» mancante dopo «maggioranza», di norma si rompono, si serrano o si disertano le file, essendo fila il singolare e file il plurale.

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I titolisti dei giornali spesso lasciano a desiderare, ma quelli che lavorano per il cinema sono anche peggio. In occasione della morte del protagonista di Indovina chi viene a cena?, Sidney Poitier, nessuno dei primi si è chiesto che cosa c’entri quel punto interrogativo che i secondi hanno infilato 55 anni fa nel titolo italiano del film di Stanley Kramer.

«Indovina chi viene a cena?» è una domanda che postula la presenza di una terza persona singolare sottintesa («Lei indovina chi viene a cena?»), quindi esclude che la moglie Christina Drayton (Katharine Hepburn) possa averla rivolta al marito Matt (Spencer Tracy). Diverso sarebbe stato il caso di un’esortazione, «Indovina chi viene a cena» (sottinteso «tu»). 

E, se proprio si voleva scomodare un segno di punteggiatura, serviva un esclamativo: «Indovina chi viene a cena!». Controprova: il titolo originale del capolavoro è Guess who’s coming to dinner, senza punto interrogativo. Segno che gli americani sanno scrivere meglio degli italiani. 

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Il Corriere della Sera annuncia in prima pagina la dipartita di Sidney Poitier con una foto in cui egli regge la mitica statuetta assegnata dall’Accademia statunitense delle arti e delle scienze cinematografiche e con un richiamo che lo qualifica quale «primo attore afroamericano a vincere l’Oscar nel 1967». 

Non è così: ebbe il premio nel 1964, come miglior attore protagonista de I gigli del campo di Ralph Nelson, uscito l’anno prima. 

C’è anche il rimando a un commento di Valter Veltroni, vero nome che in effetti si rintraccia sia nella biografia che Paola Salvatori gli dedica sull’Enciclopedia Italiana della Treccani sia nell’archivio storico della Camera, ma che il Corriere non usa abitualmente per il suo illustre collaboratore, che infatti a pagina 35 torna a essere Walter Veltroni, con la W. 

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Dalla Gazzetta di Mantova: «Si è svegliata di soprassalto nel cuore della notte e ha visto un’ombra al buio china sui cassetti del comò della sua camera da letto. Si è spaventata all’impossibile, ma non ha perso lucidità». A differenza del cronista, dimentico della locuzione all’inverosimile.

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 4 gennaio 2022.

Nella sua rubrica sulla Repubblica, Concita De Gregorio tesse le lodi del presidente della Repubblica con un articolo (peraltro toccante) che contiene la seguente frase: «Non so se Mattarella scriva da solo i suoi discorsi, per quel poco che lo conosco dalla sua vita di prima immagino di sì, ma poi quando diventi presidente ci sono protocolli, staff, consuetudini da rispettare anche per non dispiacere chi è lì ad aiutarti nel compito». 

Dispiacere è un verbo intransitivo che significa «riuscire sgradito» e va coniugato come piacere: sarebbe stato difficile per De Gregorio scrivere «non piacere chi è lì». 

Quindi richiede la preposizione a: «Dispiacere all’occhio, all’orecchio, al palato; il tuo comportamento è dispiaciuto a tutti» (Lo Zingarelli 2022). Sulla regola concordano, né potrebbe essere altrimenti, tutti i dizionari, a cominciare dal Devoto-Oli («Non piacere, riuscire sgradevole (+ a): suoni che dispiacciono all’orecchio»). 

Illustri i precedenti letterari in materia, da Giovanni Boccaccio («Io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni», Decameron) a Giacomo Leopardi («Ha certe idee che forse potrebbero dispiacere a Babbo», Lettere). 

De Gregorio non pare dunque aver tenuto nel debito conto la frase con cui chiude il suo articolo: «Trovare il tempo del congedo segnala il calibro di ciascuno di noi. E le parole: le parole per dirlo».

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Titolo dal settimanale Tpi, alias The Post Internazionale: «Passera senza limiti». Ci pare di buon auspicio per il 2022. 

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Sergio Romano, che è stato ambasciatore italiano a Mosca e dunque si presume sia informatissimo in materia, nelle prime righe della sua rubrica L’ago della bilancia, sul Corriere della Sera, afferma che «Memorial, l’istituzione moscovita di cui un tribunale russo ha decretato la morte negli scorsi giorni», fu creata il 28 gennaio 1989 ed ebbe come primo presidente lo scienziato Andrej Sacharov. 

Ma poco più avanti scrive che «Memorial fu fondato nel dicembre 1989, quasi un anno dopo la morte di Sacharov». Delle due l’una: o fu creata a gennaio o fu fondata a dicembre. Resta il fatto che il dissidente sovietico si spense a Mosca il 14 dicembre 1989, quindi la nascita di Memorial non può essere certo avvenuta «quasi un anno dopo la morte di Sacharov».

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Titolo dal Foglio: «L’Iran si comporta come se l’accordo non si farà. Tre fatti». Il quarto fatto è questo: il congiuntivo imperfetto facesse era preferibile, se non obbligatorio. 

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Titolo dalla pagina Facebook della Gazzetta del Sud di Messina: «Soriano. Il killer è entrato in azione facendo fuoco contro la vittima che stava uscendo dal barbiere». Delitto maturato dopo un esorcismo?

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Titolo dalla Stampa: «Crac Tanzi. Morto a 83 anni l’imprenditore che fondò la Parmalat e finì per truffare migliaia di piccoli risparmiatori. Doveva ancora scontare 18 anni». Dunque che fare? Risuscitarlo e rimandarlo in carcere?

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Occhiello di una pagina della Stampa su Putin e l’Ucraina: «Al via sanzioni modulate in base alle violazioni e una riserva strategica di gas lo Zar in video conferenza con Xi rafforza l’alleanza con la Cina». Tutto chiaro. 

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Titolo dal Fatto Quotidiano: «Draghi è il “migliore”, ma intanto fa crollare chi sostiene il goveno». La prova che i titoli non li fanno i migliori.

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Titolo dal sito dell’Adige di Trento: «Notte di follia a Napoli: colpito da un proiettile vagante durante i festeggiamenti, grave un ragazzo ad Ascoli». Più che da un proiettile vagante, colpito da un missile balistico a corto raggio. 

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«Nico Stumpo si apparta con alcuni deputati tra cui il forzista Andrea Ruggieri, ultras della corsa di Silvio Berlusconi verso il Quirinale, e spiega il pregi dello “Stumpum”, una specie di software analogico con cui fare i “calcoli giusti” in vista del voto per il Colle», riferisce Tommaso Labate sul Corriere della Sera.

Un software analogico è un gongorismo o un ossimoro, dal momento che analogico è il contrario di digitale e i software sono per loro natura espressione della digitalizzazione, mentre qui siamo nei paraggi del pallottoliere. 

Infatti l’onorevole Stumpo, inventore dello «Stumpum», al Mattino di Napoli, che gli chiedeva se si trattasse di un software, ha risposto: «Macché, un ragionamento politico su cui si discute con i colleghi a margine dei lavori in Aula». 

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Dalla Gazzetta di Mantova: «Sono i membri di una famiglia eritrea, due fratelli di 21 e 23 anni, la sorella e suo figlio, un bimbo di sei anni». Troppo difficile scrivere «tre fratelli, due maschi di 21 e 23 anni, e una femmina con un figlio di 6 anni».

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 31 dicembre 2021.

Incipit di un articolo di Irene Soave sul Corriere della Sera: «“Tutti i regimi russi si somigliano”, come le famiglie infelici di Tolstoj». È l’esatto contrario.

«Tutte le famiglie felici sono simili le une alle altre; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», scrive il grande romanziere russo nel primo capoverso di Anna Karenina. 

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Su Robinson, supplemento culturale della Repubblica, il lettore Piero Orrù infila due strafalcioni bellamente ignorati dalla redazione: «André Malreaux» invece di Malraux e «profiqui contatti» invece di proficui. 

Sorge il sospetto che questo Orrù, firma già notata in passato nella rubrica Mail nella bottiglia, abbia voluto affidare un messaggio al mare magnum repubblicano per saggiare il livello culturale dei giornalisti, come nelle prove Invalsi. Esperimento riuscito. 

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Titolo dalla prima pagina del Fatto Quotidiano: «Quanti sono davvero i decessi e i contagi fra vaccinati e non». L’avverbio negativo olofrastico (detto così perché, da solo, costituisce un’intera frase) è soltanto no, quindi bisognava scrivere «vaccinati e no». Come fece Elio Vittorini per il titolo del suo romanzo Uomini e no. 

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Titolo a tutta pagina su Libero: «La casa di Pasolini interessa a nessuno». L’occhio si ribella a questa bizzarra costruzione. Infatti, «nessuno ha di per sé forza di negazione solo quando è preposto al verbo di modo finito: nessuno parlava», insegna Aldo Gabrielli nel suo Dizionario linguistico moderno (Edizioni scolastiche Mondadori). 

«Quando è invece posposto, richiede sempre la negazione: non parlava nessuno. Èrrano quindi coloro che dicono “parlava nessuno”, “voglio nessuno” e simili; si dirà sempre non ho veduto nessuno, non lo crede nessuno, non voglio nessuno eccetera». 

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Sommario da Domani: «Ma il passato insegna che è solo un’escamotage». Il gender dilaga. 

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Alessandro Barbera parla di Giancarlo Giorgetti sulla Stampa: «Durante la riunione il ministro dello Sviluppo camuffa il giudizio dietro ad un’apparente no all’allargamento degli obblighi».

No in questo caso è sostantivo maschile, quindi l’aggettivo apparente ne segue il genere: un apparente, non una apparente, pertanto senza l’apostrofo. Confermiamo che il gender dilaga. 

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Beppe Scienza scrive sul Fatto Quotidiano, nella rubrica Il risparmio tradito: «Conclusioni operative: chi vuole evitare i rischi peggiori per il proprio risparmio previdenziale, interrompesse ogni versamento in polizze previdenziali, fondi pensione e pip (piani individuali pensionistici).

Riscattasse, inoltre, quanto più può». Ci pare tradita anche la sintassi: nelle due frasi non era richiesto il congiuntivo imperfetto, bensì l’imperativo presente: interrompa e riscatti. 

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Titolo dal Corriere della Sera: «Test, lunghe code da Milano fino a Palermo». Quindi code multiple lunghe 1.467 chilometri? Un po’ troppi per un tampone. 

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Corrado Zunino a pagina 31 della Repubblica, sotto il titolo «L’emergenza. Un ragazzo su cinque schiavo del porno web. “Aiutiamoli a dire no”»: «Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, dice: “Troppi colleghi pensano che la pornografia sia liberatoria, invece è un’automobile in mano ai bambini. 

Vanno fatti scendere, se no si schiantano”». Elena Stancanelli a pagina 40: «La pornografia ha uno scopo ricreativo e non fa male». Vi dispiacerebbe mettervi un attimo d’accordo? 

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Salvatore Dama sul Tempo racconta di un attacco informatico ai danni della Gazzetta Ufficiale. 

«Una manina del ministero dei Trasporti» avrebbe inserito nell’edizione online, in calce al testo della legge 29 luglio 2021 numero 108, questa annotazione in caratteri rossi (poi prontamente rimossa dal sito): «Visto che nessuno dei ministri si è vergognato a firmare una simile legge, noi ci vergogniamo di pubblicare l’Allegato e ci limitiamo a pubblicare il testo coordinato (già più che sufficiente a provocare ulcere gastriche nei lettori)». 

Commenta Dama: «Per capirci, è come se un writer avesse disegnato un uccello sul portone di Palazzo Chigi». Tordo? Fringuello? Padùlo? 

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Dalla Gazzetta di Mantova: «Anche la scelta del titolo, “Cavoli a merenda”, ovvero come qualcosa che non c’entra nel contesto, è dell’autrice. 

“In realtà me ne aveva proposti due e mi ha detto, scegli tu”, racconta Parenti, la cui casa editrice nel 2022 celebrerà i suoi primi 25 anni». Anche quel primi c’entra come i cavoli a merenda: se fossero i secondi 25, la casa editrice celebrerebbe il cinquantenario.

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 28 dicembre 2021. 

Incipit di un articolo di Andrea Minoglio sul sito della Repubblica: «2030, 2100... quando pensiamo al futuro, spesso, un secolo ci sembra già un’eternità. Ma se la data da prendere in considerazione fosse addirittura il 22 dicembre del 12.021, cioè esattamente tra 1.000 secoli? Inimmaginabile».

Siamo d’accordo sull’inutilità dello sforzo d’immaginazione: i 10.000 anni per arrivare alla data ipotizzata corrispondono a 100 secoli, non a 1.000. 

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«Le istituzioni, come i politici e le agenzie di controllo, non possono rimanere ignavi e inerti di fronte a questa “guerra non dichiarata” della sicurezza sul lavoro». Così Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, nell’omelia durante il funerale di Filippo Falotico, giovane operaio deceduto in seguito al crollo di una gru. 

Non si sa perché, l’aggettivo inerti diventa inermi nel Tg1 delle 13.30. Stesso errore nel testo di Sky Tg24: «L’arcivescovo: “Le istituzioni non restino inermi”».

Si associano allo strafalcione Carlotta Rocci sulla Repubblica e i titolisti di Avvenire («“Le istituzioni non siano inermi”»), nonostante Andrea Zaghi nel suo servizio riporti correttamente la frase del prelato: «“Le istituzioni, come i politici e le agenzie di controllo, non possono rimanere ignavi e inerti”». Idem l’anonimo autore della didascalia a corredo di una fotonotizia sul Corriere della Sera. 

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In apertura del Tg1 delle 20, Laura Chimenti annuncia che nella cabina di regia istituita dal governo per l’emergenza Covid-19 «si valuterà le misure da mettere in atto per il periodo natalizio», anziché «si valuteranno». 

Eppure l’insopportabile «buonasera, buonasera» iniziale, che invariabilmente Chimenti rivolge ai telespettatori per distinguersi dagli altri conduttori, dovrebbe farne una super esperta di plurali. 

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Intervista natalizia in stereofonia alla «Santità di Nostro Signore» (come si scriveva in Vaticano fino agli anni Sessanta del secolo scorso), cioè al Papa, firmata dai vaticanisti del gruppo Gedi.

Il ciellino Paolo Rodari sulla Repubblica e il nipote omonimo dello scrittore Domenico Agasso senior, pallido epigono dell’antenato, sulla Stampa firmano un testo uguale fin nei minimi dettagli, addirittura con diacritici identici su alcuni cognomi, e persino per lo stile, come si evince dal seguente scambio di battute con Francesco: «Pochi giorni fa ha compiuto 85 anni... “Vi sbagliate, ne ho compiuti 75! (Scherza e ride, ndr)”». 

Tuttavia anche a Natale il diavolo fa le pentole ma non i coperchi perché alla velina originaria fanno difetto gli accenti sui nomi spagnoli, che i due si sono ben guardati dall’integrare. Non s’erano mai visti intervistatori diversi che partoriscono un testo uniforme. Quale sarà stato il ruolo degli zelanti incensatori? Uno copia, l’altro incolla? 

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Titolo dalla Verità: «Banca Ifis pianta oltre 2.200 nuovi alberi». I nullatenenti possono piantare solo vecchi alberi?

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Veronica Gentili sul Fatto Quotidiano riferisce che Sarah Palin «si è espressa così riguardo il vaccino anti Covid». Forma scorretta. Per il Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro, così come per altri vocabolari (Zingarelli, Devoto-Oli, Treccani, Sabatini-Coletti, Garzanti) e per la Grammatica della Treccani, la locuzione da usare è riguardo a, quindi nel caso specifico «riguardo al vaccino anti Covid».

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Umberto Folena commenta nella sua rubrica Press party, su Avvenire, una «singolare congiunzione astrale-giornalistica», rappresentata dal fatto che prima Stefano Lorenzetto sul Corriere della Sera e poi Dario Cresto-Dina sulla Repubblica (della quale è vicedirettore vicario) si sono avventurati a dare la parola a due astrologi, Marco Celada e Marco Pesatori, mentre tutt’intorno si spargevano – ma guarda che coincidenza – le soavi note di Astro del Ciel e Tu scendi dalle stelle. 

A parte che durante il press party natalizio l’editorialista deve aver ecceduto con i drink, perché Celada sul quotidiano dei vescovi diventa Massimo anziché Marco, sarebbe interessante sapere da Folena, con tutta evidenza molto esperto in fole, come dobbiamo interpretare il racconto dell’evangelista Matteo, il quale per due volte specifica come i Magi venuti da oriente siano giunti alla grotta di Betlemme guidati da una stella, anziché da Google Maps. Esercizio minimo per un giornalista abituato a esibirsi sulla testata che da oltre mezzo secolo pretende di pronosticare l’avvenire per i suoi lettori. 

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VERONICA GENTILI

Titolo dal Giornale: «Il Pm che indagò Salvini vicino alla procura di Roma». Bastava che il segretario della Lega si fosse allontanato di due passi e l’avrebbe sfangata. 

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Sull’Osservatore Romano, don Antonio Pelayo, giornalista di lungo corso nonché consigliere ecclesiastico dell’ambasciata di Spagna presso la Santa Sede, scrive di tre missionari gesuiti nati «nella Spagna del XVI secolo». 

Di Alonso de Barzana annota tra l’altro che «s’imbarcò per l’America del sud nel 1509» per poi morire «a Cuzco nel 1597 all’età di 67 anni». Ma si era imbarcato 21 anni prima di nascere? «Nel 1903», invece, Pedro Páez «riuscì ad arrivare in Etiopia», dove «il 21 aprile 1618 scoprì le sorgenti del Nilo azzurro». 

Possedeva la macchina del tempo, perché avrebbe fatto la scoperta 285 anni prima di raggiungere quel luogo dell’Africa. Reverendo, rilegga i suoi testi, visto che redattori e correttori dell’Osservatore Romano fanno più acqua delle sorgenti del Nilo.

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 22 dicembre 2021.

Natascia Ronchetti sul Fatto Quotidiano si occupa di Ugur Sahin, uno dei due cofondatori di Biontech, azienda produttrice di vaccini. Titolo: «Omicron, l’efficacia anche col booster scende fino al 70%». Occhiello: «Lo dicono cofondatore di Biontech e Iss». Sahin non è ancora la Santissima Trinità, ma si sta attrezzando. 

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Nonostante il suo articolo sia rubricato come «Il colloquio», e dunque si debba presumere che abbia dialogato con la persona di cui si occupa, Fabrizio Accatino su Specchio della Stampa riesce a prendere la seguente cantonata su Bruno Zanin, che fu protagonista dell’Amarcord di Federico Fellini: «Nel film, Bruno era Titta, l’alter ego adolescente del regista».

In redazione allargano la frittata con questo titolo: «Bruno Zanin. “Ero l’alter ego di Fellini ma per poter campare ho fatto il muratore”». 

L’alter ego? Non sanno di che parlano: Zanin in Amarcord interpreta il personaggio di Titta Biondi, che nella vita reale era Titta Benzi, amico d’infanzia di Fellini a Rimini, divenuto avvocato da adulto.

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Segnaliamo il gradito ritorno in questa rubrica del coltissimo Mephisto Waltz, che comincia così la sua omonima rubrica su Domenica del Sole 24 Ore: «Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich (1928-2021), per gli amici Lina (ma Arcangelo felice, di nome e di fatto) quando conquistò nel 2020 il Premio Oscar Onorario grazie al successo di Travolti da un insolito destino, Mimì Metallurgico e Pasqualino Settebellezze, al momento di ritirare il premio esclamò: “Ci vorrebbe un Oscar al femminile accanto a quello maschile”».

Trascurando la virgola mancante dopo la parentesi, facciamo presente che Lina Wertmüller in quell’occasione non pronunciò affatto la frase inventata da Mephisto Waltz. Ritirando la statuetta alla carriera, a proposito del premio disse invece, con un verbo in romanesco (l’attrice Isabella Rossellini fungeva da traduttrice in inglese): «Si dovrebbe chiamare con un nome femminile. È una cosa gravissima che si chiami Oscar. Si dovrebbe chiama’ Anna, toh».

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Nella pubblicità di Sky, a tutta pagina sul Corriere della Sera, il volto truce di Salvatore Esposito, alias Gennaro Savastano, con cicatrice sullo zigomo, apre una patetica lettera di addio per il finale di Gomorra: «Caro Genny, sette anni fa ero solo un ragazzo della periferia che sognava di fare l’attore. (...) Domani realizzeremo che non ritorna mai più niente (sic), ma forse è questa la nostra più grande conquista. Forse ci mancheremo, forse ci rivedremo. Intanto quel ragazzo che inseguiva il suo sogno è divento l’uomo che lo ha realizzato». Cazzarola, scrive davvero come parla.

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Titolo dalla Verità: «I pm sequestrano tutti i 59 vestiti donati all’ammiraglio Vecciarelli». Alé, il generale dell’Aeronautica militare trasferito in Marina a mezzo stampa. 

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Su Specchio della Stampa, Maria Corbi dialoga con lo scrittore e scultore Mauro Corona, il quale le racconta che i propri figli «da bambini si sono fatti il presepe di legno, o di dash». Dovevano essere dei veri fenomeni: neppure Paolo Ferrari, quello dei «due fustini in cambio di uno», riusciva a farsi i presepi con il detersivo Dash. Infatti la pasta modellabile si chiama Das.

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Stefano Lorenzetto sul Corriere della Sera parla di Mérida, città messicana, ma scrive due volte Merida, dimenticando l’accento acuto sulla e. 

Subito si ritrova in buona compagnia con la prima pagina del Fatto Quotidiano («“El Pais”, in tre anni di inchiesta, raccoglie e verifica nuove denunce di 251 abusi di preti su minori») e con una pagina interna del Giornale («“El Pais” aveva consegnato un’indagine di tre anni sui presunti abusi di 251 membri del clero»), che citano la testata madrilena El País senza l’accento acuto sulla i. 

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Il poeta ciellino Davide Rondoni sulla prima pagina sull’Osservatore Romano fa sfoggio di cultura imparaticcia e, trattando di miniatori medievali, scrive di «quel Franco Bolognese, di cui non sappiamo nulla, e che è pur citato da Dante insieme a Masaccio, Giotto, Odorisi da Gubbio». 

L’espressione «non sappiamo nulla» appare pertinente. Consigliamo a Rondoni di ripassare almeno un po’ di storia dell’arte: Masaccio nacque nel 1401, ottant’anni dopo la morte di Dante, quindi appare improbabile che il Sommo Poeta abbia citato un pittore non ancora concepito dai suoi genitori. Quanto a «Odorisi da Gubbio», si chiamava in realtà Oderisi.

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Michela Tamburrino sulla Stampa, occupandosi delle nomine in Rai, parla di «gioco del risico». 

Tenuto conto che nell’ente radiotelevisivo di Stato i dipendenti che rosicano sono molto più numerosi di quelle che risicano, il sostantivo che si doveva usare (entrato nell’uso comune fin dal 1968) è Risiko, voce di origine tedesca derivata da un «gioco da tavolo in cui si simula una guerra fra più eserciti; scopo di ogni giocatore è la conquista del dominio mondiale in battaglie il cui esito dipende da lanci di dadi», estensivamente «situazione di scontro globale, in genere fra soggetti economici» (Lo Zingarelli 2022). 

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Titolo del Corriere della Sera per il decesso di Lucia Hiriart, vedova di Augusto Pinochet: «Muore la dictadora. Il Cile va al voto all’ombra di Pinochet (più spaccato che mai)». La salma del dittatore cileno si è spezzata a metà? No? Allora bisognava scrivere «Il Cile va al voto (più spaccato che mai) all’ombra di Pinochet». 

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Titolo dalla prima pagina della Verità: «L’horror sexy di Marinetti che festeggio le nozze con una mummia rediviva». All’interno, il testo è firmato «Fillippo T. Marinetti». Futurismo puro. 

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Lettera dalla Gazzetta di Mantova: «Al rientro presso la mia abitazione ricevo una telefonata dal medico di famiglia minacciosa ed all’armante». Eh, quante storie per un apostrofo in più, che sarà mai.

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 17 dicembre 2021.

Su Specchio, settimanale della Stampa, l’intervista con Maurice Lévy, presidente del gruppo Publicis, firmata da Alain Elkann (che è il padre dell’editore e quindi dovrebbe essere trattato con ogni riguardo), è corredata da due foto con un’unica didascalia, che qui riportiamo alla lettera, strafalcioni inclusi: «Maurice Levy pggi e sopra conMarcel Bleustein Blanchet». 

Nella foto piccola compare Lévy, in quella grande un camion della Coca-Cola. Può anche darsi che al volante ci fosse Marcel Bleustein-Blanchet, fondatore della società oggi presieduta dall’intervistato, però non si riesce a scorgerlo... 

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Aldo Bonomi sul Sole 24 Ore, sotto il condivisibile titolo «Sono le virtù civiche che generano crescita, non il contrario», scrive cose non altrettanto condivisibili: «A muoverle è il radicamento territoriale tipico del nostro modello di capitalismo famigliare, più che la benevolenza filantropica, che è qualcosa di molto più concreto e “caldo” rispetto agli schemi tiepidi della Corporate social responsibility e anche qualcosa di diverso dal give back anglosassone imperniato sulla scissione tra momento del profitto e della beneficienza». La frase è contorta, familiare sarebbe stato preferibile a famigliare e beneficenza non vuole la i. 

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Titolo della Verità per la rubrica La scommessa di Cesare Lanza: «Credenti o non, è indispensabile il rispetto delle sensibilità». L’avverbio negativo olofrastico (detto così perché, da solo, costituisce un’intera frase) in italiano è soltanto no, come insegna il linguista Luca Serianni. Quindi bisognava scrivere «Credenti e no». 

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Carlo Macrì, inviato a Ravanusa dal Corriere della Sera, afferma che l’esplosione di gas ha danneggiato «decine di altri stabili in un raggio di 400 metri quadrati». Difficile che un raggio possa essere espresso in metri quadrati, trattandosi della metà del diametro della circonferenza. 

Delle due l’una: o il raggio era di 400 metri e la superficie investita dalla deflagrazione di 502.560 metri quadrati, oppure la superficie devastata era di 400 metri quadrati e il raggio di 11,28 metri. Jacopo Strapparava su Anteprima ha ripreso pari pari lo svarione, rendendosene conto solo il giorno dopo. Il che gli fa molto onore.

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Su Libero, un toccante articolo dedicato da Renato Farina alla tragedia di Ravanusa è stato intitolato «Il dolore non è così distante: Ravanuso siamo noi». Invece è così distante che in redazione manco sanno come si scrive.

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Su Domani, un giornalista di lungo corso come Enrico Deaglio parla della Procura di Milano e di «un suo breve momento di integrità». Poiché momento significa «minima frazione di tempo», ci chiediamo come farà una minima frazione di tempo a essere ancora più minima. 

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Sommario dal Fatto Quotidiano: «Battaglia legale. Il nipote dell’aristocratico chiede beni per 10 milioni. Una vittoria gioverebbe ai parenti delle vittime ebree della Shoah». Affermazione tautologica. Non esistono vittime della Shoah che non siano ebree, giacché questo sostantivo femminile designa unicamente «lo sterminio degli Ebrei a opera dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale» (Lo Zingarelli 2022).

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Sommario dalla Verità: «Ai cittadini vengono nascoste le notizie scomode, come fossero davvero delle pecore». Le notizie ovine costituiscono una novità assoluta. 

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In un articolo su Domani, Paolo Morando infila questa perla: «Il nome di Guido Rossa, probabilmente, senza quel delitto sarebbe resistito oggi al più nella cultura alpinistica italiana». Il verbo resistere richiede l’ausiliare avere, come dovrebbe essere ben noto a Morando, autore di quattro corposi saggi per Laterza, nell’ultimo dei quali, Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri, cita l’autore della presente rubrica per un’intervista in cui Michel Thoulouze parlava della tragica fine di Enrico Mattei. Tuttavia, «amicus Plato, sed magis amica veritas». 

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Incipit di un articolo di padre Antonio Spadaro, direttore della Civiltà Cattolica, apparso sull’Osservatore Romano nelle due pagine celebrative per i 30 anni dalla morte di Pier Vittorio Tondelli, la cui opera prima, Altri libertini, fu sequestrata nelle librerie per ordine del procuratore generale dell’Aquila, Donato Massimo Bartolomei, con l’accusa di oscenità: «La letteratura è un fatto umano». Ma tu guarda. Pensavamo che fosse un fatto animale. 

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Sommario dal Fatto Quotidiano: «Omicron. La variante è irrilevante tra i malati gravi e morti più non vaccinati». Tutto chiaro. 

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Conclusione di un’intervista con Goffredo Bettini, ex senatore del Pd, che Carlo Bertini firma sulla Stampa: «Chi vuole tagliare le ali alla Repubblica rischia di giocare con il fuoco e di aumentare le acque dell’astensionismo». Vorrà dire che le seconde spegneranno il primo. 

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Da Domani: «Prima di trasferirsi a Roma per lavoro, Gabriella Caramore è nata nel 1945 a Venezia e ha studiato a Padova». Per fortuna che è nata, altrimenti come avrebbe potuto trasferirsi a Roma e studiare a Padova? 

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Dalla Gazzetta di Mantova: «In questa fase di ristrutturazione verrà anche installata un’ascensore». Il gender dilaga. L’ortografia no.

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 14 dicembre 2021.

Francesca Nunberg presenta sul Messaggero l’interessante Parole per ricordare. Dizionario della memoria collettiva (Zanichelli) di Massimo Castoldi e Ugo Salvi, che contiene 7.000 voci tratte dalla pubblicità, dalla tv, dalla cronaca, dal gergo politico, dal linguaggio sportivo, dai modi di dire, dai dialetti, per esempio quattro salti in padella, carrambata, Dadaumpa, bimbominkia, Radio Belva, Ginettaccio.

A Castoldi, docente di filologia italiana a Pavia, Nunberg fa pronunciare questa frase: «Abbiamo esplorato una zona della lingua non rappresentata dai dizionari di uso e dalle enciclopedie. Normalmente se cerco azzeccagarbugli in un dizionario non lo trovo, e se lo trovo non so cosa rappresenti per la collettività». 

L’affermazione è sorprendente, tanto più provenendo dal compilatore di un dizionario che è anche studioso della lingua. Si dà infatti il caso che azzeccagarbugli (avvocato da strapazzo), vocabolo derivato dal nome di un celebre personaggio manzoniano dei Promessi sposi, figuri non solo nello storico Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia ma anche in tutti gli altri: Devoto-Oli, Treccani, De Mauro, Hoepli, Garzanti, solo per citarne alcuni, incluso Lo Zingarelli 2022 della Zanichelli, che è la stessa casa editrice di Parole per ricordare. 

Nunberg, poi, ci mette del suo con questo incipit: «Perché se invece del mitico E che, c’ho scritto Jo Condor? col passare degli anni il nome dell’avvoltoio di Carosello è diventato Giocondo, significa che avete bisogno di un dizionario».

Evidentemente non ha letto la nota d’uso dello Zingarelli su elisioni e troncamento: «La particella pronominale o avverbiale ci si elide soltanto davanti a e o i: c’è, c’era, c’eravamo, c’incontrammo, ma non c’andai, c’urlò, bensì ci andai, ci urlò». 

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«Carmen Consoli è una donna coraggiosa, intelligente, piena di curiosità. Ama il tempo, la musica, i numeri, il sogno, suo figlio che cresce da sola, come fanno tante donne. E anche qualche uomo». Questo l’attacco di un’intervista, stesa su due pagine, firmata da Walter Veltroni sul Corriere della Sera. 

«Ama il tempo»? Che significa? Ama il tempo reale? il tempo libero? il tempo pieno? il tempo perso? il tempo lungo? il tempo forte? il tempo siderale? il tempo binario? il tempo ternario? il tempo semplice? il tempo composto? il tempo da cani? il tempo da lupi? il tempo delle mele? A tempo debito forse Veltroni ce lo spiegherà. 

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Sommario dalla Verità: «I pediatri italiani tifano apertamente per la puntura. I dati indicano l’opposto». Quindi i dati indicano che i pediatri non tifano per la puntura. Qui occorre decidersi.

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Serenella Bettin racconta su Libero la rapina compiuta da banditi con accento straniero nella villa di Fernando Renè Caovilla, noto produttore di calzature femminili d’alta moda: «Entrano in casa all’ora di cena, così è più facile farsi dare i soldi». Com’è noto, all’ora di pranzo gli industriali sono tutti spilorci.

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Il senatore Gaetano Quagliariello, ex Forza Italia oggi confluito nel partito di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, intervistato da Giacomo Salvini sul Fatto Quotidiano dichiara: «Fossi in Berlusconi non imposterei questa partita come l’ultima carica di Bataklava». 

Deve aver fatto confusione tra la Guerra di Crimea e la strage del Bataclan. Quella combattuta sul mar Nero il 25 ottobre 1854, con la famosa carica della cavalleria britannica contro l’esercito russo (rimasta nella storia come la Carica dei Seicento), fu la battaglia di Balaklava o Balaclava, dal nome della cittadina ucraina.

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Intervento su Libero della parlamentare bolzanina Michaela Biancofiore: «La notizia della grazia da parte del Presidente Mattarella al terrorista altoatesino Heinrich Oberleitner, lascia sgomenti anche perché più volte oggetto di mie interrogazioni anche in via diretta, alle quali il governo ha negato ipotesi». A parte la virgola fra soggetto e verbo, tutto chiaro. 

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Così Federica Bandirali, sulla pagina Facebook del Corriere della Sera, descrive la cartolina di Natale 2021 del duca e della duchessa di Cambridge: «Kate sorride raggiante al fotografo con un vestito color cachi, mentre la principessa Charlotte indossa un delizioso con un vestito a quadretti.

Per George una t-shirt mimetica e pantaloncini grigi, mentre il principe Louis siede a gambe incrociate sul davanti a tutti con una stilosa polo a righe sottilissime». A parte il fotografo con un vestito color cachi, tutto chiaro. 

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Titolo di Avvenire su Davide Giri, l’italiano assassinato a coltellate a New York: «“Ucciso da male cieco”». Pensa se ci avesse visto. 

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Il Giornale intervista Clemente Mastella, che azzarda le sue previsioni per il Quirinale, riassunte in questo titolo: «“Berlusconi favorito. Possono farcela anche Gentiloni e Casini”». In tre sul Lucky Lady. 

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Su Affari & Finanza della Repubblica, parlando dei magnati che si trasferiscono a vivere in Svizzera, Franco Zantonelli ci fa sapere che «sono un pò più che ricchi» e che «non sono grandi numeri, anzi sono piccoli». Al netto del po’ accentato, chissà perché ci ricorda un’espressione cara a Enzo Biagi: «È incinta, ma appena appena». 

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Titolo dalla Gazzetta di Mantova: «A Mantova i non vaccinati sono ancora più di 50 mila». Tenuto conto che al 1° gennaio 2021 Mantova contava 48.755 abitanti, raccomandiamo vivamente di tenersi alla larga dalla città dei Gonzaga.

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 10 dicembre 2021. 

Durata dell’ovazione riservata al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante la prima del Macbeth di Giuseppe Verdi alla Scala di Milano, in ordine decrescente, stando ai resoconti degli organi d’informazione.

Corriere della Sera 6 minuti; La Stampa 6 minuti; Il Sole 24 Ore 6 minuti; Avvenire 6 minuti; Il Fatto Quotidiano 6 minuti; Il Giorno 6 minuti; Il Messaggero 6 minuti; Libero 6 minuti; Notizie.it 6 minuti; Il Giornale 5 minuti; Giornale di Sicilia 5 minuti; La Repubblica (edizione nazionale) 5 minuti; La Repubblica (edizione di Milano) 4 minuti; Fanpage.it 4 minuti. Media: 330 secondi, pari a 5 minuti e mezzo. L’orologio ha fatto il suo tempo.

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Conclusione di un articolo di Filoreto D’Agostino, già magistrato del Consiglio di Stato, oggi in pensione, sul Fatto Quotidiano, dal titolo «Il Csm à la Cartabia nasce già “storto”»: «Si dimentica che il buon magistrato è come il buon vino: invecchiando migliora». E quando invece sa di tappo, che si fa?

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Titolo dalla prima pagina di Avvenire: «Castità e fantasia: così l’intimità della coppia». Bei tempi quando a eccitare la fantasia bastavano pane e amore, invece della castità. 

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Dalla pagina Facebook della Stampa: «Multe fino a 1000 euro per chi sale sul bus senza Green Pass e transenne, scatta l’operazione sicurezza». Siete avvertiti: per viaggiare in autobus, dovete portare con voi una barriera mobile. 

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Il Sole 24 Ore pubblica un’intervista con Isabella Weber, presentata come «economista della Amherst University del Massachusetts» e «autrice del libro How China escaped shock therapy, molto apprezzato dal Financial Times». 

La Amherst – basta consultare il sito umass.edu – si chiama in realtà University of Massachusetts Amherst, non il contrario. E il titolo completo del saggio è How China escaped shock therapy. The market reform debate (la parte omessa è rilevantissima). 

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Titolo sulla prima pagina della Verità: «Così la Corte dei conti fa il contropelo agli sprechi dello Svimez». Preposizione articolata sbagliata: l’acronimo sta per Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, quindi si scrive «la Svimez» e «della Svimez», come peraltro si può leggere sul sito ufficiale.

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Ismaele Vipera invia una lettera a Robinson, supplemento culturale della Repubblica, che la dà alle stampe senza fare una piega: «Vi chiedo cortesemente un approfondimento delle opere di Riccardo Bacchelli. 

Ricordando la sua opera famosa Il mulino del Po oggi edita da Mondadori. Tra l’altro è stato autore della legge Bacchelli». Si può dire che i lettori stanno eguagliando, quanto a scemenze, i giornalisti.

La legge numero 440 dell’8 agosto 1985, che eroga un assegno straordinario vitalizio a coloro che si sono distinti nel mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo e dello sport e versino in condizioni d’indigenza, fu ispirata dal professor Maurizio Vitale, docente di storia della lingua italiana alla Statale di Milano, scomparso nell’ottobre scorso all’età di 99 anni. Venne ribattezzata legge Bacchelli in quanto il primo a usufruirne avrebbe dovuto essere lo scrittore bolognese. In realtà egli non riscosse mai l’assegno, perché morì due mesi dopo, l’8 ottobre 1985.

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Emanuele Beluffi sul Giornale: «Quando una giornalista viene molestata in diretta tv e le notizie di femminicidio e violenza sulle donne occupano le cronache quasi con la stessa frequenza degli incidenti stradali vuol dire che siamo arrivati al giro di vite». E anche al girovita. 

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Dalla Gazzetta di Mantova: «Che i Fuggiaschi fossero nel giro importante è un dato di fatto, spesso fianco a fianco con Gianni Morandi, Rita Pavone, Domenico Modugno, persino una volta nello stesso hotel con Mina». È un dato di fatto che una volta dormimmo nello stesso hotel in cui alloggiava Milva, pur senza essere i Fuggiaschi: bastò pagare il conto. 

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima.La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 7 dicembre 2021.

In un editoriale dedicato a Generali e Consob, Laura Serafini rileva sul Sole 24 Ore che «servono maggioranze qualificate, almeno quattro voti su cinque». 

Esistono forse altre maggioranze su una base di 5 voti? Cinque su 5 si chiama unanimità. E 3 su 5 non è una maggioranza qualificata.

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Diego Bianchi, alias Zoro, incontra Simona Saluzzo di fronte all’ospedale centrale di Vienna, dove si occupa di Hiv, nel reparto di infettivologia. E sul Venerdì di Repubblica registra questa sua dichiarazione: «Adesso sembra una cosa nuovissima ma in realtà c’è già l’obbligo vaccinale per la maggior parte dei vaccini. Morbillo, epatite, vaiolo, poliomelite, tetano, insomma, bisogna vaccinarsi».

A parte che si scrive poliomielite, dal testo non si capisce dove esistano già questi obblighi vaccinali, se in Austria o in Italia. Sta di fatto che, nel primo Paese, l’unico vaccino obbligatorio al momento è quello contro l’epatite B. 

Invece in Italia le vaccinazioni obbligatorie sono 10 nella fascia di età da 0 a 16 anni (contro poliomielite, difterite, tetano, epatite B, pertosse, Haemophilus influenzae tipo B, morbillo, rosolia, parotite, varicella). L’obbligatorietà per le ultime quattro è soggetta a revisione ogni tre anni in base ai dati epidemiologici e alle coperture vaccinali raggiunte.

Né in Austria né in Italia si vaccina più contro il vaiolo, come asserito da Saluzzo senza che Bianchi trovasse alcunché da obiettare. L’eradicazione mondiale di questo morbo fu ufficialmente dichiarata dall’Organizzazione mondiale della sanità l’8 maggio 1980. L’ultimo caso di vaiolo umano fu registrato il 26 ottobre 1977 a Merka, in Somalia.

Ci pare grave che la scienziata Simona Saluzzo, nel giorno in cui «una sua pubblicazione è uscita su Immunity (il giornale di immunologia più importante al mondo)», come scrive Bianchi alias Zoro, non ne sia al corrente. 

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Titolo dal Fatto Quotidiano: «La giostra isterica del Dio pallone in Piazza Affari». Trattasi di bestemmia involontaria, dettata da scarsa conoscenza della lingua italiana. Dio con la maiuscola – come si legge sullo Zingarelli 2022 – è l’essere supremo concepito nelle religioni monoteistiche come il creatore dell’universo.

Quando ci si riferisce alla divinità nelle religioni politeiste, o a persona dotata di eccellenti qualità o a cosa tenuta in altissima considerazione, come se fosse oggetto di culto, si scrive dio, con la minuscola. 

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Flavio Vanetti, parlando sul Corriere della Sera della terza classificata nel SuperG di Lake Louise, Mirjam Puchner, scrive che ha «rimediato solo un podio minore». Credevamo che la terza salisse sul gradino più basso, non che avesse un podio, il più piccino, tutto per lei.

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Il coltissimo Mephisto Waltz, forse stanco di farsi cogliere in fallo, ha cominciato a prestare più attenzione nel compilare la sua rubrica domenicale sul Sole 24 Ore. Diciamo che sta diventando un buon diavolo: dai peccati mortali è passato a quelli veniali.

Nell’ultima puntata, cita il Saggio sui potenti di Piero Melograni, però sbaglia il nome della famosa collana in cui fu pubblicato (Saggi tascabili Laterza), chiamandola «Collana tascabili Laterza». 

Poi ricorda due biografie scritte dallo stesso Melograni ma, curiosamente, della prima riporta solo il sottotitolo (La vita e il tempo di Amadeus Mozart), per di più in modo errato (manca «Wolfgang»), dimenticando il fulminante titolo, Wam. 

Mentre della seconda cita il titolo, Toscanini, e omette il sottotitolo. Quando si dice l’uniformità nella scrittura. Più avanti, attribuisce a Wernher von Braun, il fisico che progettò il missile V2 nella Germania nazista e poi divenne capo del programma spaziale della Nasa, il ruolo di Sturmbannführer, anziché di SS Sturmbannführer.

Non è un dettaglio irrilevante, visto che il grado venne utilizzato anche da altre organizzazioni, per esempio SA (camicie brune) e NSFK (Corpi di volo nazionalsocialisti). 

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La Stampa intervista Federica Cappelletti, vedova di Paolo Rossi, a un anno dalla morte del campione. Titolo: «“Avrei tenuto Paolo anche attaccato ai tubi. Poi ho detto basta”». Da calciatore a idraulico. 

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Titolo dato da Avvenire a un editoriale di Ferdinando Camon: «Se il carcere non fa il suo. Essere “buoni solo a questo”». E pensare che ci vorrebbe così poco a seguire il consiglio dell’ex senatore Antonio Razzi: «Fatti li cazzi tua!». 

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Felice Manti si occupa sul Giornale di una storiaccia «che sta togliendo il sonno a Sigfrido Ranucci, conduttore di Report». In ballo ci sarebbe «un elenco di accuse pesanti: servizi confezionati ad arte, mobbing tra le scrivanie, relazioni sessuali con colleghe». 

Manti riferisce che «una serie di copie dattiloscritte a mano sarebbero state inviate per lettera sia ai vertici Rai sia al capo del personale». Il che è impossibile: il dattiloscritto è un testo battuto a macchina, quindi non può essere vergato a mano. 

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Incipit di un servizio a firma Serenella Bettin su Libero: «E però adesso basta, dài. Che una pacca certamente sconveniente diventi però un affare di Stato, anche no». Premio New Dada 2021. 

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Pubblicità di un jeans per uomo sulla Gazzetta di Mantova: «Listino 19,90. Promo 39,90. 48,72% di sconto». Queste sì che sono promozioni! 

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 3 dicembre 2021. 

In uno strampalato articolo sul Fatto Quotidiano, che si apre con l’intera trascrizione di Storia d’amore, canzone di Adriano Celentano datata 1969, Massimo Fini si avventura in una dissertazione volta a dimostrare che «tutto l’empireo giudaico-cristiano è coniugato al maschile»: «Dio, in quanto padre, è maschio.

Suo figlio pure. Anche se su Cristo grava l’ombra di omosessualità» (quest’ultima annotazione si riferisce a una tesi contestata dalla stragrande maggioranza degli studiosi e per di più basata su frammenti di un supposto Vangelo apocrifo che molti specialisti ritengono un falso moderno). 

Dopodiché, per rafforzare la propria tesi, Fini tira in ballo i miracoli, citandone peraltro solo due: «Cristo resuscita Lazzaro e rende la vista a un cieco. La sola volta in cui si occupa di donne è quando lava i piedi alla Maddalena».

La sola volta? Se così fosse, nemmeno quella, perché non è Gesù che lava i piedi alla Maddalena ma viceversa. Premesso poi che i miracoli di Gesù sono 37 (incluse tre risurrezioni), e non due, proviamo a consultare i Vangeli, esercizio che Fini dimostra di aver compiuto di rado. 

Gesù resuscita la figlia di Giàiro (Matteo 9, 18-26; Marco 5, 21-43; Luca 8, 40-56). Gesù guarisce la colonna vertebrale di una donna inferma da 18 anni (Luca 13, 10-17). Gesù guarisce la suocera di Pietro (Matteo 8, 14-15; Marco 1, 29-31; Luca 4, 38-39). Gesù guarisce una donna che da 12 anni soffriva di emorragie (Matteo 9, 20-22; Marco 5, 25-34; Luca 8, 43-48). Gesù libera dai demoni la figlia di una donna cananèa (Matteo 15, 21-28; Marco 7, 24-30). Nota d’uso per Fini: non sono numeri da giocare al lotto.

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«Stiamo bene», dice alla Repubblica il primo italiano contagiato dalla nuova variante Omicron del coronavirus. L’ingegnere dell’Eni rientrato dal Mozambico è in isolamento con la famiglia. Nel titolo si legge: «Il viaggio in auto Milano-Caserta da positivo: “Ho evitato i contatti”». Ha resistito per oltre ore 8 oppure lungo i 750 chilometri del tragitto ha fatto pipì nell’auto? 

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Titolo dalla prima pagina del Giornale: «Morisi messo alla gogna senza commettere reati». Quindi metterlo alla gogna non costituiva reato? Oppure è stato messo alla gogna nonostante non si fosse macchiato di reati? 

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Dall’intervista con Oscar Farinetti sulla scomparsa di Ennio Doris, pubblicata dal Corriere della Sera: «La notizia della sua morte mi addolora profondamente perché sapevo che non stesse più bene come un tempo». Si sente male anche la coniugazione del verbo. 

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Domani scrive che «in India l’aria tossica e inquinata uccide circa 7 milioni di persone ogni anno ed è responsabile di circa il 18 per cento di tutti i decessi». Titolo: «India. Tutti i decessi causati dall’inquinamento». Quando si dice avere le idee chiare.

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Sulla Repubblica, Alessia Gallione parla della tassa sui rifiuti e di «671.531 bollettini che sono già arrivati o stanno arrivando nelle caselle postali, in gran parte fisiche, dei milanesi». 

Evidentemente confonde le caselle con le cassette postali. Infatti due righe dopo scrive che sono 65.423 i cittadini che hanno aderito al servizio «Tari via mail». Per il dizionario, le caselle postali sono compartimenti numerati affittati a privati presso gli uffici postali per ricevere la corrispondenza (così come su Internet vi sono le caselle di posta elettronica). Quelle «fisiche» cui si riferisce Gallione si chiamano cassette postali. 

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Titolo di spalla sulla prima pagina nel Fatto Quotidiano: «All’Africa solo briciole: solo il 3% dei vaccini». Il famoso piano Solo. 

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Titolo dal Sole 24 Ore: «Isole Salamone nel caos per le rivolte anti cinesi». Un caso di prosciutto sugli occhi: si chiamano Salomone. 

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Titolo dalla Verità: «La scopritrice della variante: “Tra gli infetti, zero ricoveri e vittime”». Quindi nessun ricovero però vari decessi? No? Allora bisognava scrivere: «Né ricoveri né vittime». 

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Incipit di un articolo di Simonetta Fiori nelle pagine culturali della Repubblica: «Dopo ottant’anni escono fuori dal silenzio in cui erano stati seppelliti». È vero che l’espressione con valore rafforzativo è contemplata dai dizionari. Ma rimane un dubbio: come si farà a uscire dentro? 

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Didascalia da Libero: «A sinistra, l’albergo di Sarsina (località Casalecchio, Forlì): l’edificio è del XVII° secolo». I numeri romani sono già l’espressione grafica dei numerali ordinali (XVII sta per diciassettesimo), quindi non vanno mai seguiti dall’esponente «°», necessario solo quando, per indicare l’ordinale, si usano le cifre arabiche («17°»). 

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A proposito della pandemia, il lettore Luigi Cavalieri scrive alla Gazzetta di Mantova: «E, siccome il trend pare destinato a continuare, così da prevedere il picco a Natale, il dover tornare in zona gialla non è solo un miraggio». Quale grazia! Tu scendi dalle stelle.

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi” il 30 novembre 2021.

Titolo dalla prima pagina del Giornale: «Giornalista molestata dai tifosi e il collega (uomo) minimizza». 

Se è il collega, ci pare improbabile che potesse trattarsi di una donna, quindi la precisazione posta fra parentesi è superflua.Anche se, dati i tempi, non si sa mai.

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Michele Serra nella sua rubrica L’amaca sulla Repubblica: «In Francia, con le migliori intenzioni, alcuni vorrebbero introdurre un nuovo pronome neutro, “iel” che si aggiunga al femminile “lui” e al maschile “elle”, per indicare chi non accetta di definirsi femmina o maschio». 

Dovrebbe essere il contrario (al femminile elle e al maschile lui), a onor del vero, ma non osiamo contraddirlo. Il gender dilaga. 

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Veronica Gentili sul Fatto Quotidiano: «Vengono giustificate le manifestazioni “No vax” e “No green pass” che da ormai 18 settimane caratterizzano i nostri sabato pomeriggio». 

Stando sempre in tv, Gentili ha dimenticato come si scrive in italiano: a differenza degli altri giorni della settimana, che sono invariabili, sabato e domenica hanno regolarmente il plurale, come avverte un «Nota bene» sullo Zingarelli 2022, perciò il plurale di sabato è sabati.

Del resto, Gentili è la stessa che domenica sera, nel programma Controcorrente su Rete 4, ha detto «persuàdere» anziché «persuadére». 

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Maria Berlinguer sulla Stampa intervista Franca Leosini, conduttrice televisiva che si vanta «di essere stata la sola» a far parlare in carcere Rudy Guede, condannato a 16 anni per l’omicidio di Meredith Kercher, e le fa dire: «Il fine pena era già previsto per il 4 gennaio del 2022, l’avvocato a chiesto un ulteriore sconto di 45 giorni». In saldo anche la grammatica.

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Maurizio Belpietro, direttore della Verità, cita nel suo editoriale Portogallo e Svezia: «I due Paesi hanno una popolazione più o meno equivalente, intorno ai 10 milioni, ma nel secondo dei due hanno vaccinato quasi l’88% dei cittadini». 

Difficile che potesse trattarsi del secondo dei tre, visto che sono soltanto due.

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Titolo sullo sciopero dei taxi in prima pagina sul Tempo: «Le auto bianche incrociano le braccia dalle 8 alle 22». Bei tempi quando incrociavano le ruote. 

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Lorenzo Giarelli sul Fatto Quotidiano: «A invitare Renzi questa volta è il Gmis, acronimo di Global Manufacturing and Industrialisation Summit, una kermesse organizzata da Unido (l’agenzia dell’Onu che si occupa di Sviluppo industriale) e il governo degli Emirati, attraverso il ministero del». Piffero? Cappero? O forse dattero? 

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Titolo dal Corriere del Mezzogiorno: «Foggia, operaio incensurato ucciso con un colpo alla testa. Il killer è il datore di lavoro che si è costituito». 

Si voleva evidenziare che è nata una nuova categoria professionale, quella degli incensurati? E sarebbe stato risparmiato, se fosse stato un operaio pregiudicato? 

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Il Messaggero riporta una frase di Gina Lollobrigida, 94 anni, «da anni in lotta con la famiglia da quando nella sua vita è entrato Andrea Piazzolla: «La vita è mia ed io decido cosa farne. 

Fare dei regali ad Andrea e la sua famiglia è una cosa che riguarda me, nessun’altro». 

Si scrive nessun altro, senza apostrofo. Trattasi infatti di troncamento, non di elisione, e la regola da seguire è la stessa dell’articolo determinativo uno: si scrive un altro, non un’altro. 

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Andrea Pasqualetto sul Corriere della Sera: «Lei non spiaccica una parola d’italiano». E non solo lei. Le parole si spiccicano (dal verbo spiccicare, ovvero pronunciare chiaramente). Sono le zanzare che si spiaccicano sul muro. 

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Titolo sopra la testata del Fatto Quotidiano: «Bonomi non vuol pagare la cassa integrazione e chiede altri sgravi fiscali alle imprese. Più il governo la riempie di soldi, più Confindustria chiagne e fotte». 

Il presidente di Confindustria chiede soldi alle imprese sotto forma di sgravi fiscali? No? Allora bisognava scrivere «chiede altri sgravi fiscali per le imprese». 

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Didascalia dal sito del Mattino di Padova: «Giulia Schiff, felice a bordo di un aeromobile militare. 

A destra la foto del suo sedere e delle gambe dopo essere stata presa a bastonate da sette sergenti maschi e una donna». 

Considerando che nella foto a sinistra si vede Giulia Schiff, ci pare che la specificazione «a destra» sia esornativa: siamo ancora in grado di distinguere una faccia da un posteriore. 

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Titolo dal Corriere della Sera: «Le parole dei leader non fermano i timori di elezioni anticipate dentro i partiti». 

Toh, almeno nei partiti si prospettano le elezioni anticipate. Per il Parlamento si vedrà. 

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Massimo Fini parla del Patto atlantico sul Fatto Quotidiano: «L’obiezione era allora comprensibile perché in presenza dell’Urss la Nato, vale a dire gli americani, perché la Nato è stata sempre un’organizzazione totalmente in mano agli Stati Uniti, anche se per pudore o piuttosto per mascherare la realtà vi si nomina a Presidente un danese, o come oggi, un norvegese». Tutto chiaro.

Dagospia il 25 gennaio 2022.

CHE FA LORENZETTO DI NOTTE? LE PULCI AI GIORNALI (E A SE STESSO)! – INTERVISTANDO SUL “CORRIERE DELLA SERA” L’EX CALCIATORE DAMIANO TOMMASI, OGGI CANDIDATO SINDACO DI VERONA, STEFANO LORENZETTO NELLO SPAZIO DI APPENA 13 RIGHE USA PER TRE VOLTE, FRA DOMANDE E RISPOSTE, IL VERBO ‘ACCETTARE’, VARIAMENTE DECLINATO. NON SI PUÒ ACCETTARE – L’INVIATO A BRUXELLES DI “REPUBBLICA” INFORMA CHE “IL GOVERNO DEI PAESI BASSI È RIUSCITO AD ACQUISTARE ‘IL PORTABANDIERA’”. SICCOME L’ARTICOLO È STATO DETTATO DALLA CAPITALE DEL BELGIO, IL TITOLISTA PENSA BENE (ANZI MALE) DI…

“Pulci di notte” di Stefano Lorenzetto da “Anteprima. La spremuta dei giornali di Giorgio Dell’Arti” e pubblicato da “Italia Oggi”

Il coltissimo Mephisto Waltz su Domenica, inserto culturale del Sole 24 Ore, si occupa dell’imprevisto, «quello che, al pari dell’uscita dello zero al tavolo della roulette, fa sbarellare i migliori indici di analisi finanziaria». 

Non abbiamo mai messo piede in un casinò, ma l’uscita dello zero non ci pare affatto un imprevisto. È piuttosto un evento che capita con regolarità. Secondo il calcolo delle probabilità, esso accade con una frequenza teorica del 2,70 per cento circa, ovvero 1 volta ogni 37, o, nelle roulette americane, 1 volta ogni 38. E si può puntare sullo zero che, per un en plein, paga 36 volte come tutti gli altri numeri.

Più avanti Mephisto Waltz cita «una recente controversa scoperta astronomica: quella dell’asteroide “Oumuamua” (nulla a che vedere con l’Aumm Aumm napoletano)» e spiega che «secondo alcuni scienziati potrebbe essere un “oggetto di fattura aliena”, un “messaggero che arriva da lontano”, detto in lingua hawaiana». 

In realtà il Minor planet center dell’Unione astronomica internazionale ha chiamato il primo asteroide interstellare con il nome ? Oumuamua, senza virgolette inglesi ma preceduto da un apostrofo rovesciato (un segno grafico detto okina nella lingua polinesiana che si parla nelle isole Tonga).

L’espressione è stata tradotta dalla Nasa come «messaggero che arriva per primo da lontano» o «messaggero da un lontano passato», e non «messaggero che arriva da lontano», come scrive Mephisto Waltz. Del quale non si può dire che la scienza sia il campo di gioco dove si esprime meglio.

Sempre su Domenica del Sole 24 Ore, bella recensione di Paolo Legrenzi a un libro su Guglielmo di Occam, quello del famoso rasoio, cui s’ispira il Guglielmo da Baskerville del Nome della rosa di Umberto Eco. Il docente di psicologia nelle prime tre righe colloca «Ockham a metà strada tra Londra e Oxford». 

Ma Ockham si trova 41 chilometri a sud ovest di Londra e Oxford 90 chilometri a nord ovest. Non ci siamo.

Nell’incipit del suo Buongiorno, sulla prima pagina della Stampa, Mattia Feltri censura «la multa comminata a un pensionato, durante il primo lockdown, per l’incauto acquisto di un paio di bottiglie di Barbera». 

È un peccato che anche il direttore dell’Huff Post si adegui all’andazzo generale, utilizzando in modo estensivo e improprio il verbo comminare, che nel linguaggio giuridico significa stabilire una sanzione per i trasgressori di una legge. Il verbo corretto da usare quando viene inflitta una pena, una condanna o una multa è irrogare.

In un editoriale sulle accuse provenienti dalla Germania contro il Papa emerito, per «aver coperto quattro sacerdoti pedofili quand’era arcivescovo a Monaco tra il 1977 e il 1982», Gianluigi Nuzzi scrive testualmente sulla Stampa: «Il mondo è sconvolto e indignato perché conosciamo le battaglie condotte contro la pedofilia di Benedetto XVI».

Immaginando che Nuzzi non volesse dare del deviato sessuale all’anziano pontefice, avrebbe dovuto costruire il periodo in tutt’altro modo: «Il mondo è sconvolto e indignato perché conosciamo le battaglie condotte da Benedetto XVI contro la pedofilia».

Nell’edizione digitale della Repubblica, Daniele Castellani Perelli, inviato a Bruxelles, informa che «il governo dei Paesi Bassi è riuscito ad acquistare Il Portabandiera da un privato, e così lo ha reso per sempre disponibile al pubblico olandese». 

In conclusione precisa che il dipinto «alla fine troverà posto nella Galleria d’Onore del Rijksmuseum di Amsterdam. Accanto alla Ronda di Notte». Siccome l’articolo è stato dettato dalla capitale del Belgio, il titolista pensa bene (anzi male) di sintetizzare come segue: «Bruxelles, il Rijksmuseum compra il Portabandiera di Rembrandt per 175 milioni di euro. Ma scoppia la polemica». Ma forse lo stesso titolista dovrebbe anche sapere che il Rijksmuseum si trova ad Amsterdam, capitale dei Paesi Bassi, non a Bruxelles.

Intervistando sul Corriere della Sera l’ex calciatore Damiano Tommasi, oggi candidato sindaco di Verona, Stefano Lorenzetto nello spazio di appena 13 righe usa per tre volte, fra domande e risposte, il verbo accettare, variamente declinato. Non si può accettare.

Il Foglio annuncia che Alfredo Altavilla e Fabio Lazzerini, presidente e amministratore delegato della neonata compagnia di bandiera nata dalle ceneri di Alitalia, «intendono anticipare i target 2022 all’estate». Titolo: «Conti Ati». Ma si chiama Ita airways.

Apprendiamo dal Corriere della Sera che il convegno internazionale su «L’enigma Caravaggio» si terrà online su Zoom «per tutto il mese di gennaio nelle giornate di mercoledì 12, mercoledì 19, venerdì 21, mercoledì 26 e venerdì 28 gennaio». 

Scrivere tutto il mese per soli 5 giorni ci pare eccessivo, al pari della ripetizione di gennaio. La notizia poi specifica: «Un’iniziativa originale e innovativa che unisce il mondo accademico e universitario a quello della divulgazione». 

Lodevole proposito, tuttavia eravamo convinti che accademico e universitario definissero il medesimo ambito, tant’è che nei dizionari il primo aggettivo figura come sinonimo del secondo, e viceversa.

Sul Venerdì di Repubblica, Brunella Schisa, di solito molto accurata, intervista Maria Grazia Colombari, autrice del saggio Tutti i peccati mortali sono femmine (Robin Edizioni), e le pone questa domanda: «Pettegole, inaffidabili, chiacchierone, tutti ci vorrebbero zittire. “Ornamento delle donne è il silenzio” diceva Sofocle, e la Bibbia e il Talmud, prima di lui. Cosa fa paura delle donne?». 

Riferimento insidioso: esatto per la Bibbia, sbagliato per il Talmud. La raccolta di trattati giuridici e religiosi dell’ebraismo ortodosso risale infatti ai secoli dal III al V dopo Cristo, mentre il tragediografo greco nacque nel 497 (data incerta) e morì nel 406, ma avanti Cristo.

«Il cattolicesimo è la religione ufficiale della Repubblica italiana». Lo svarione del manuale di liceo. Marco Ricucci, professore di Italiano e Latino presso il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Milano e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Milano, su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.

Gli autori di «Mirabilia», manuale di storia e geografia per il biennio dei licei, «dimenticano» che a partire dal Concordato del 1984 «non è più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano». 

Alla fine del primo quadrimestre, è ora di tirare le somme, per così dire, a caccia di voti per lo scrutinio di metà anno scolastico. Di solito, prima di una verifica scritta, le mie alunne e i miei alunni sanno che faccio una sorta di question-time: rispondo ai dubbi, spiego dettagli, mi permetto qualche piccolo approfondimento. In una seconda superiore del liceo dove insegno, ieri Elvira (nome di fantasia), una studentessa diligente e seria, mi ha fatto sobbalzare: «Prof, ma il libro dice esattamente il contrario di quello che ci ha spiegato!». Ho appena concluso un percorso di approfondimento monografico sulla Costituzione Italiana: per me, in questo anno scolastico, l’introduzione di Educazione civica, questa nuova materia, è stata come manna dal cielo, perché credo fermamente nel valore formativo nonché nell’imperativo pedagogico di far conoscere ai ragazzi la nostra bellissima «Magna Charta libertatum» e ciò che essa rappresenta. Anche a costo di sottrarre tempo allo studio delle tantissime guerre romane. Elvira, su mio invito, legge ad alta voce le pagine incriminate del manuale in adozione, assegnate per il ripasso, durante le vacanze natalizie: «Non meno complessi sono i risvolti più squisitamente religiosi. Religione ufficiale della nostra Repubblica è il cattolicesimo, il cui simbolo, il crocifisso, è di regola esposto nelle scuole, in ottemperanza a un decreto regio degli anni Venti del secolo scorso, e in diversi altri luoghi pubblici, come ospedali o tribunali» (L. Pepe, V. Novembri, E. Galimberti, Mirabilia. Percorsi integrati di storia e geografia, Le Monnier Scuola, edizione prima, volume 1, Milano 2016, pag. 249).

Elvira, volendosi preparare con scrupolo alla verifica, ha integrato gli appunti presi durante la lezione frontale: come è noto, infatti, fino alla revisione del Concordato mussoliniano svolto tra la Santa Sede e lo Stato Italiano sotto il Governo di Bettino Craxi, all’articolo 1 si leggeva: «L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1° dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». E’ proprio nel «Protocollo addizionale» del 1984 che si trova l’affermazione che la Repubblica italiana non è più uno stato confessionale: «Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano».

L’imprecisione menzionata di un manuale di geostoria (leggi: di storia e geografia) così come formulato nel terzo millennio è uno «scivolone», in un certo senso, assurdo, se si tiene conto che ormai la società italiana è diventata, giocoforza, multiculturale e multietnica. Basterebbe leggere anche alcune pagine della Costituzione «Gaudium et Spes», promulgata nel 1965 a seguito del Concilio Vaticano II. Va detto chiaramente che, secondo l’orientamento didattico più aggiornamento, lo stesso IRC (Insegnamento della Religione Cattolica), pur avendo un contenuto confessionale (perché riguarda una specifica confessione religiosa, cioè quella cattolica), ha una modalità di approccio al fenomeno religioso in generale, e in particolare a quello cristiano-cattolico, di tipo storico-critico: perciò, nel favorire il pieno sviluppo della persona umana, è facoltativo e, nello stesso tempo, offerto a tutti: credenti e non credenti.

A scanso di equivoci e di fraintendimenti, per quanto mi riguarda, non si tratta di aprire una querelle nostrana degna di don Camillo e Peppone, né di contrapporre la laicità dello Stato italiano al laicismo, ad esempio, dello Stato francese, dove per esempio è proibita, per effetto della legge 228 del 2004, l’ostentazione di simboli religiosi, come il velo per le donne di credo musulmano. Né a scuola io ho mai ritenuto pedagogicamente necessario affrontare nel corso degli anni la vexata quaestio dell’esposizione del crocifisso, spesso appeso in aula, tacito testimone dell’essere umano che cresce. Però, occorre una corretta informazione sui manuali di storia, in uso presso le scuole pubbliche cioè statali e paritarie, e una imprecisione del genere, come sopra indicata, non si può derubricare a lapsus calami, in quanto è inerente a un principio democratico dell’ordinamento della Stato della Repubblica italiana e riguarda il nostro vivere civile, in una società multireligiosa.

Ciò che è stato come un raggio di sole tra le nubi oscure, è stato il ragionevole dubbio avuto da Elvira tra quanto letto nel libro, spesso considerato «sancta sanctorum» della conoscenza, e i suoi appunti, raccolti durante la mia spiegazione. Una ragazza di quindici anni mi ha mostrato che esiste il senso critico a livello embrionale. E mi ha fatto riscoprire il ruolo educativo, sociale e pubblico che noi docenti abbiamo nei confronti delle nostre alunne e dei nostri alunni, futuri cittadini in un Paese dove ciascuno è libero di professare la propria religione ed esprimere il proprio senso religioso- spirituale nel rispetto degli altri.

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per "La Verità" il 25 gennaio 2022.

In Italia i cinesi stanno operando una piccola rivoluzione culturale via etere, usando le frequenze radio comprate tra il 2014 e il 2018. E lo fanno utilizzando una rete di società che, come ha scoperto Report in un'inchiesta trasmessa ieri sera, conduce in Canada, a Vancouver, dove la capofila è una società anonima. 

Ma, come hanno ricostruito gli inviati della trasmissione di Rai 3, dietro ci sarebbe il governo cinese e un manager che, durante la scalata alle frequenze concesse dal ministero dello Sviluppo economico, ha sfoggiato la bellezza di tre identità diverse.

Tutto inizia con la fondazione, nel 2013, dell'Italian international radio and media Srl con un capitale sociale di 1,6 milioni di euro e sede legale a Milano. Le quote appartengono interamente alla S.K.S eustars investment limited, con base a Cipro, Paese dove la tassazione sugli utili è al 12,5% e in alcuni casi scende anche al 2,5%, mentre quella sui dividendi è allo 0%. 

L'amministratore unico è Alexandros Rigas. Un quarantottenne cinese che prende quel nome solo nel 2015, quando, grazie a un investimento da 2,5 milioni di euro a Cipro, ottiene un passaporto europeo e la facoltà di presentarsi da un notaio e cambiare i dati anagrafici. Infatti Rigas è in realtà il pechinese Lai Liang.

A cui, però, la doppia identità non basta e quando si presenta per fare affari in Italia, ma anche in Canada, può diventare Richard Lai, anche se questo nome non compare in nessuna visura o documento ufficiale. 

La sede legale della S.K.S. eustars si trova a Limassol, la seconda città più importante di Cipro e, a seconda dell'archivio consultato, risulta ubicata o presso un business center o all'indirizzo del gruppo immobiliare che ha aiutato Rigas a stabilire il suo business a Cipro. Il misterioso manager che dal 2020 guida la società a cui il Mise, sotto i ministri Federica Guidi e Carlo Calenda, ha permesso di «volturare» le concessioni delle frequenze radio ha preso il posto del suo alter ego Lai Liang. 

Ma per trovarlo non bisogna andare a Cipro, bensì in Canada, dove ha la sede la società anonima che controlla la S.K.S. eustars. Report ci fa sapere che a Vancouver non sono stati depositati i nomi dei soci.

Su queste schermature ha detto la sua l'esperto di riciclaggio Giangaetano Bellavia: «Una struttura così articolata, soprattutto offshore che transita da Cipro per andare a finire nel Pacifico, a Vancouver, è strutturata per non far capire chi c'è dietro. E probabilmente il governo cinese ha deciso di fare questo servizio, ma non di apparire».

E proprio nella brochure di una delle radio gemelle di China Fm nata in Spagna si trova un indizio che porta appunto alle istituzioni di Pechino. Là a dirigere tutto è Dawei Ding, ex corrispondente del Quotidiano del Popolo, cioè il megafono del governo cinese. Nell'opuscolo del 2017 si legge: «China Fm conta sull'appoggio dell'ambasciata cinese e nel 2018 farà partire una radio cinese in Italia». 

Tutto chiaro? A inizio 2018, dopo aver fatto partire il piano di conquista in modo soft con musica commerciale trasmessa dal canale We radio, il Dragone ha acquisito altre frequenze per nuove trasmissioni in lingua cinese dai contenuti meno frivoli e più di servizio e informazione rivolte ai connazionali presenti sul territorio italiano. Con un chiaro intento di propaganda politica. Il tutto mentre lo Stato italiano preparava gli storici accordi commerciali con Pechino della Via della Seta.

Le trasmissioni della nuova China Fm prendono il via a inizio 2018, sulle ex frequenze di Radio Cuore, cedute il 2 febbraio da Publiaudio all'Italian international radio and media per 810.000 euro. Un evento importante per le autorità cinesi in Italia, che porta il vice console generale a Milano Huang Yongyue a farsi ritrarre insieme al procuratore della radio, l'italocinese Yunzi «Giulio» Sun, davanti ai microfoni. 

Gli studi si trovano nella sede di Radio Classica, emittente del gruppo Class editori che ha otto partnership con la Cina, che vanno dall'informazione alla messaggistica, dall'organizzazione di eventi all'abbigliamento.

Ma ricostruiamo l'assalto alle frequenze tricolori di Pechino.A fine novembre del 2014 la Italian international and media Srl, quella che poi diventerà l'editrice di China Fm, sbarca concretamente nel mondo delle radio, rilevando dalla società Mediatech le frequenze di Radio Milano al prezzo di 2 milioni di euro. 

All'epoca l'amministratore è la signora Wang Hehenberger Wanxu, nata in Cina nel 1953, ma cittadina tedesca. Nel 2017 verrà sostituita da Lai Rigas. Il 23 dicembre 2014 Radio classica Srl costituisce la società Radio Cina Srl e le conferisce il ramo d'azienda Radio classica 3 e la relativa concessione ministeriale 900460, valutando il pacchetto 3,98 milioni di euro.

L'operazione è propedeutica molto probabilmente all'ingresso di capitali cinesi nella società. Il 7 maggio 2015, un ramo d'azienda di Radio Cina Srl torna, per 127.000 euro, alla capofila Radio Classica. L'acquisto riguarda un ripetitore ubicato a Cori, in provincia di Latina. Si tratta di un assestamento delle infrastrutture che prelude alla cessione del 51 per cento di Radio Cina Srl all'attuale proprietario, la solita Italian international radio and media Srl, al prezzo di 2,55 milioni di euro.

La compravendita viene siglata sempre all'antivigilia di Natale, questa volta del 2015.In quel momento la Italian international risulta titolare anche di Radio We1 e della relativa concessione. Che oggi, a quanto risulta dalle tabelle disponibili sul sito Internet del Mise, aggiornate al 2019, è intestata a Radio Cina e trasmette China Fm.

Radio Cina, nel consueto gioco di incroci, è attualmente presieduta dalla signora Wang Hehenberger, la stessa che, come detto, guidava la società controllante.Ai microfoni di Report l'editore di Class, Paolo Panerai, ha spiegato che la joint venture mediatica italocinese sarebbe partita con una telefonata della Banca Santander che gli chiedeva se fosse interessato a incontrare loro un cliente che aveva già delle attività in Spagna, Richard Lai, come si faceva chiamare: «L'abbiamo incontrato, abbiamo trovato l'accordo. Sono tre anni che non lo vediamo». 

Radio Pechino. Report Rai PUNTATA DEL 24/01/2022 di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella. Collaborazione di Eva Georganopolou ed Eleonora Zocca 

Il soft power del dragone non esita a sfruttare le debolezze dell’Ue per conseguire i propri obiettivi.

Da alcuni anni un network di radio in lingua cinese si sta lentamente espandendo in Europa. All’apparenza si tratta di iniziative private, finanziate da imprenditori asiatici. Ma scavando sotto la superficie si scoprono complessi schemi proprietari con società offshore o persino totalmente anonime. E soldi che vengono da gruppi con l’appoggio della diplomazia di Pechino. Report rivelerà scenari inquietanti, in cui il soft power del dragone non esita a sfruttare le debolezze dell’Ue per conseguire i propri obiettivi.

RADIO PECHINO Di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Collaborazione Evanthia Georganopoulou ed Eleonora Zocca Immagini Paolo Palermo e Fabio Martinelli

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora da qualche anno, c’è una emittente China Fm che trasmette in lingua cinese per la comunità che si trova sul nostro territorio. Trasmette in lingua, svolge una funzione molto importante perché aiuta gli immigrati a orientarsi con le misure da prendere per contrastare la pandemia ma anche per dialogare con la pubblica amministrazione. Solo che quei nostri inviati curiosoni, Giulio Valesini e Aldo Ciccolella si sono chiesti: ma chi è il proprietario? Chi è l’editore? Insomma, non è stato semplice perché si sono trovati di fronte al gioco delle tre carte, paese che vai nome che trovi. Loro sono riusciti anche a girare addirittura tre continenti e anche un paese offshore.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Musica e informazioni di servizio, rigorosamente in lingua cinese. È China FM. Trasmette su quasi tutto il territorio italiano, da Milano, dai locali dove ha sede Class Editori, lo storico gruppo che fa riferimento a Paolo Panerai. È Editore di testate prestigiose come Milano e Finanza. Il procuratore e sedicente fondatore della radio cinese è Giulio Sun, un imprenditore ormai da anni in Italia.

GIULIO VALESINI È un grande network questo qua delle radio cinesi no? Visto che ci sono parecchi imprenditori che ci lavorano. Alexandros Rigas, per esempio.

GIULIO SUN – PROCURATORE RADIO CHINA FM Chi?

GIULIO VALESINI Alexandros Rigas.

GIULIO SUN – PROCURATORE RADIO CHINA FM Ah sì, amministratore, legale rappresentante.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il 20 gennaio 2020 Alexandros Rigas è diventato amministratore della IIRM, Italian International Radio&Media, la società che a prima vista controlla la radio China FM. Dai verbali si legge che a cedergli il posto, per problemi legati agli spostamenti, è un certo Lai Liang, un imprenditore cinese che per un’incredibile coincidenza è nato lo stesso giorno, lo stesso mese, lo stesso anno e nello stesso posto di Alexandros Rigas.

GIULIO SUN – PROCURATORE RADIO CHINA FM Se sapevo che intervista era per questo io posso anche rifiutare.

GIULIO VALESINI Ma perché mi deve rifiutare? Voi avete una radio in Italia, avete una concessione pubblica in Italia. Io faccio una visura e mi viene un dubbio: ma Alexandros Rigas, cittadino cipriota, è nato lo stesso giorno, lo stesso posto e ha un codice fiscale simile al signor Lai Liang, e ho detto ma vuoi mettere che sia la stessa persona? Mi è venuto un dubbio così a me. Lei li ha mai visti fisicamente insieme nella stessa stanza? Esistono?

GIULIO SUN – PROCURATORE RADIO CHINA FM Se parliamo di un altro argomento posso collaborare, questo mi fa scomodo.

GIULIO VALESINI Eh lo vedo che le fa scomodo, ma anche a me fa scomodo perché vorrei capire se il signore Alexandros Rigas esiste.

GIULIO SUN – PROCURATORE RADIO CHINA FM Certo che esiste.

GIULIO VALESINI Ed è diverso dal signor Lai Liang, sono due persone distinte?

GIULIO SUN – PROCURATORE RADIO CHINA FM Perché deve fare questa domanda a me?

GIULIO VALESINI L'Agcom che è l'autorità che controlla l'editoria, secondo lei sa chi è Alexandros Rigas?

GIULIO SUN– PROCURATORE RADIO CHINA FM Non puoi chiedere a me, io non lo so.

GIULIO VALESINI Ma come non lo sa? Mi ha detto che esistono.

GIULIO SUN – PROCURATORE RADIO CHINA FM Guarda che se parliamo di questo argomento dobbiamo chiudere.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Per diradare il mistero bisogna volare a Cipro. È qui che secondo i registri commerciali vive Alexandros Rigas, l’alter ego di Lai Liang, l’imprenditore della radio. Cipro è un paradiso, e non solo per le sue bellissime spiagge, ma anche per la tassazione sugli utili al 12,5%, in alcuni casi scende anche al 2,5% e quella sui dividendi allo 0%. Ma soprattutto perché la legge viene applicata in modo molto amichevole da queste parti soprattutto se sei un ricco investitore.

ALEXANDROS APOSTOLIDES – ECONOMISTA L'economia cipriota ha avuto la sua crisi nel 2013. Il crollo del sistema bancario ha lasciato crediti deteriorati superiori al PIL del paese. Per rimettere in piedi il sistema, il governo, che già dal 2009 rilasciava passaporti in cambio di investimenti, ha abbassato la soglia richiesta a circa 2 milioni. Grazie a questo programma sono stati attratti 8-9 miliardi di investimenti immobiliari. E hanno concesso almeno 3.000 passaporti, senza contare quelli poi rilasciati ai parenti degli investitori.

GIULIO VALESINI Chi sono e perché vogliono comprare un passaporto cipriota?

MAKARIOS DROUSIOTIS – GIORNALISTA E SCRITTORE Principalmente sono oligarchi russi, ucraini, cinesi. Molti cinesi. Il motivo è che vogliono avere un facile accesso all'Unione europea.

GIULIO VALESINI Che tipo di imprenditori sono? Sono imprenditori puliti.

MAKARIOS DROUSIOTIS – GIORNALISTA E SCRITTORE Non sono imprenditori veri. Comprano solo un passaporto e per comprarlo, il passaporto, devono investire spesso in immobili sovrastimati. In qualche caso i fondi usati sono sporchi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il nostro editore di China FM dovremmo trovarlo a Limassol, la seconda città per importanza sull’isola. Qui ha sede la società SKS Eustars che possiede la Italian International Radio&Media, che a sua volta controlla la radio cinese che trasmette in Italia. Qui in teoria dovremmo trovare l’editore Lai Liang o Alexandros Rigas, ma all’indirizzo troviamo il gruppo immobiliare Stilianides. Ma di Lai Liang non c’è traccia e neppure di Alexandros Rigas.

GIULIO VALESINI Cerco Alexandros Rigas.

UOMO ALL’ENTRATA Chi è Alexandros Rigas?

GIULIO VALESINI Un imprenditore.

UOMO ALL’ENTRATA Stai riprendendo? Spegni la telecamera.

GIULIO VALESINI È un imprenditore che lavora in Italia, però risulta residente qui.

UOMO ALL’ENTRATA Ma cosa volete? Siete della polizia?

UOMO ALL’ENTRATA No, qui non c’è.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO TENIAMOLO Dal registro delle imprese italiano invece la SKS Eustars risulta avere la sede legale in questo business center a Limassol.

GIULIO VALESINI Cerchiamo SKS Eustars Investment.

UOMO L’edificio è nostro, non c’è nessuna società con questo nome.

GIULIO VALESINI Ma lei questa SKS Eurostars non l’ha mai sentita?

UOMO Abbiamo comprato questo edificio qualche anno fa. No, no, mi sentita.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Andiamo a cercare informazioni su Lai Liang e Alexandro Rigas a Nicosia, dove si trova Tao Lin. È stata tra gli amministratori della società cipriota che controlla la radio cinese italiana.

TAO LIN – CTAC SERVIZI FINANZIARI Cercate Lai Liang? Ora è in Canada.

GIULIO VALESINI In Canada? E il signor Alexandros Rigas?

TAO LIN – CTAC SERVIZI FINANZIARI È lui. È Lai Liang, è sempre la stessa persona.

GIULIO VALESINI È sempre Lai Liang?

TAO LIN – CTAC SERVIZI FINANZIARI Sì, sì. Perché ha preso il passaporto di Cipro, e voleva avere un nome occidentale, così è diventato Alexandros Rigas. Qui è normale. Molte persone hanno due nomi. Io mi chiamo Tao Lin, ma ora sono Antonia Costantinou.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Come ha fatto Lai Liang a diventare Alexandros Rigas? Prima ha dovuto prendere la cittadinanza. Otteniamo un elenco riservato di cittadini extracomunitari che negli ultimi anni ha preso a Cipro il passaporto europeo. Scorrendo la lista scopriamo che a giugno 2015 anche Lai Liang si è avvalso delle normative locali: se investi 2,5 milioni di euro, anche in immobili, ricevi in regalo un passaporto europeo. Appena lo hai in tasca, puoi anche decidere di cambiare nome e cognome. Basta andare dal notaio e dire: “Da oggi mi chiamo John Wayne”.

GIULIO VALESINI Senta, noi siamo venuti a Cipro cercando un personaggio molto misterioso, che non solo ha aperto una società a Cipro, non solo ha ottenuto la cittadinanza cipriota e quindi europea, ma è addirittura riuscito a cambiare nome.

MAKARIOS DROUSIOTIS – GIORNALISTA E SCRITTORE This is Cipros. A Cipro tutto può succedere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Fantastico. Proviamo a ricostruire quest’intricata vicenda. Le frequenze di China FM appartengono a “Radio Cina Italia”, che è controllata a sua volta da International Radio&Media. L’amministratore è Lai Lang, che poi passa la palla ad Alexandros Rigas. Solo che i nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella hanno visto che questi due signori sono nati lo stesso giorno, nello stesso luogo. Seguendo le tracce delle società sono andati a Cipro e hanno scoperto che si tratta della stessa persona che ha comprato il passaporto a Cipro. Nel 2015 Rigas compra dalla Class Editori, una società che si occupa di informazione finanziaria, il 51 percento di una società veicolo con dentro le frequenze. La paga due milioni e mezzo di euro. Nel consiglio di amministrazione siede Panerai. Che lo diciamo chiaramente non è coinvolto in questa vicenda, è un ottimo giornalista e ci ha aiutato anzi a ricostruirla questa vicenda. Ma, colpo di scena, lui non tratta con Lai Lang, né Alexandros Rigas ma con tale Richard Lai, chi è Richard Lai?

GIULIO VALESINI Pensiamo che Richard Lai in realtà sia il signor Lai Liang che però ha anche un'altra identità, ha un alias da quello che abbiamo capito con un'identità cipriota, Alexandros Rigas.

PAOLO PANERAI – AMMINISTRATORE DELEGATO CLASS EDITORI Ho chiesto al commercialista che segue la società per conto loro e mi ha detto che anche a loro risultava che adesso si chiamasse in questo modo. Noi l'abbiamo conosciuto come Richard Lai.

GIULIO VALESINI Nei documenti societari, nelle varie visure che abbiamo letto Richard Lai non compare mai. Si è presentato da voi come un imprenditore radiofonico?

PAOLO PANERAI – AMMINISTRATORE DELEGATO CLASS EDITORI Siamo stati contattati da Santander, la banca Santander, dicendo che c'era un loro cliente che aveva delle attività già in Spagna e se volevamo incontrarlo e parlargli. L’abbiamo incontrato, abbiamo trovato l'accordo. Sono tre anni che non lo vediamo.

GIULIO VALESINI La società che dà i soldi è questa società spagnola che però ha un capitale sociale ridicolo, 5000 euro.

PAOLO PANERAI– AMMINISTRATORE DELEGATO CLASS EDITORI Ma il sospetto che questo sia uno che fa imbrogli, può essere

GIULIO VALESINI Ma secondo lei perché ha cambiato nome?

PAOLO PANERAI – AMMINISTRATORE DELEGATO CLASS EDITORI E che ne so io scusi.

GIULIO VALESINI Già una persona che ha tre nomi diversi, ha capito…

PAOLO PANERAI – AMMINISTRATORE DELEGATO CLASS EDITORI Quello che posso dire è ovviamente è una persona che mirava a fare affari

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Se mirava a fare affari i risultati sono pessimi. La radio cinese è in rosso fisso e a tenerla in piedi è un sostanzioso prestito da quasi tre milioni di euro. Viene da una società spagnola che però di capitale sociale ha appena 5.800 euro e non pubblica i bilanci da anni.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Questi gestiscono una radio per i cinesi in Italia, ma perdono, perdono, perdono, perdono.

GIULIO VALESINI Se lei dovesse dire: guardi, a capo di tutto c’è Tizio, c’è Caio, c’è questa società, chi c’è?

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO A capo di tutto attualmente c’è la società canadese.

GIULIO VALESINI Del tutto anonima.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Noi non sappiamo chi c’è dietro la canadese perché non fa la contabilità. Non deposita niente.

GIULIO VALESINI Noi diamo le concessioni pubbliche così?

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Be’ bisogna chiedere al ministero come hanno fatto a dargliela

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Siamo andati a cercare il misterioso imprenditore anche a casa sua in Canada.

RICHARD LAI Wéi (“pronto” in cinese)

GIULIO VALESINI Salve, cerco Richard Lai.

RICHARD LAI Sono io Richard.

GIULIO VALESINI Sono un giornalista della Rai, vorrei fare una breve chiacchierata con lei.

RICHARD LAI Ora sono in una riunione. Sentiamoci lunedì alle 11.

GIULIO VALESINI Ma torno qui o mi dà un cellulare per chiamarla?

RICHARD LAI (Silenzio, non risponde e attacca)

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Solo da fonti informali sappiamo che il signor Lai Liang è a capo di tutto. Infatti, a possedere la società cipriota che controlla China Fm è a sua volta una società di Vancouver terribilmente anonima: non hanno depositato i nomi dei soci. Torniamo senza conoscere né il volto né chi sia l’effettivo editore della radio cinese che ha le frequenze in Italia.

GIULIO VALESINI Se le chiedo chi è a capo di tutta la società. Io arrivo in Canada e chi c'è a capo della società?

GIULIO SUN – PROCURATORE RADIO CHINA FM L’amministratore, il rappresentante legale.

GIULIO VALESINI Eh ma chi è?

GIULIO SUN – PROCURATORE RADIO CHINA FM A questo ti ho risposto no? Secondo me basta, così non posso accettare questa intervista.

GIULIO VALESINI Ma lei chi l'ha contattata per aprire questa radio?

GIULIO SUN – PROCURATORE RADIO CHINA FM Sono un dipendente. Basta.

GIULIO VALESINI Un giorno le squilla il telefono la chiama il signor? No, per sapere.

GIULIO VALESINI Quale può essere l’interesse a tenere in piedi una roba del genere?

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Può esserci forse l’interesse del governo cinese a fornire diciamo delle trasmissioni in lingua cinese ai cinesi che operano, vivono e risiedono in Italia. GIULIO VALESINI Perché il governo non vuole farlo sapere?

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Beh questo bisognerebbe chiederlo ai cinesi ma dubito che il governo cinese possa darle una risposta.

GIULIO VALESINI Quindi è volutamente fatta apposta per oscurare

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Su questo non c’è dubbio, volutamente fatto apposta. Una struttura così articolata, soprattutto offshore che transita da Cipro per andare a finire nel Pacifico, a Vancouver, è strutturata per non far capire chi c’è dietro. E probabilmente il governo cinese ha deciso di fare questo servizio ma di non apparire.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Una conferma la troviamo in questa brochure del 2017 dedicata agli inserzionisti della gemella spagnola della nostra China FM: a dirigere tutto c’è Dawei Ding, ex corrispondente del Quotidiano del Popolo, cioè il megafono del governo cinese. Ma soprattutto “China FM conta sull’appoggio dell’Ambasciata cinese e nel 2018 farà partire una radio cinese in Italia”.

CATALDO CICCOLELLA È possibile che noi in Italia ancora all’inizio del XXI secolo abbiamo media con l'impronta governativa cinese che riescono a farsi passare per un’impresa privata?

ENRICO BORGHI – COMITATO PARLAMENTARE PER LA SICUREZZA DELLA REPUBBLICA Dobbiamo adeguare il nostro sistema di regole per fare in modo che vi sia questa assoluta tracciabilità e soprattutto la consapevolezza che la Cina ha l’obiettivo di diventare la potenza leader globale nel ventunesimo secolo.

CATALDO CICCOLELLA Cioè loro hanno studiato qual era la radio che aveva problemi e sono andati lì a piazzare i soldi.

ENRICO BORGHI – COMITATO PARLAMENTARE PER LA SICUREZZA DELLA REPUBBLICA Ma guardi l'aveva già scoperto Virgilio nell'Eneide "Timeo Danaos et dona ferentes".

GIULIO VALESINI Perché secondo lei si parla di pervasività? Una mano invisibile che tenta di condizionare le democrazie occidentali entrando da porte culturali sostanzialmente, in maniera molto soft.

MAURIZIO SCARPARI - SINOLOGO Perché lavora sottotraccia, perché spesso si basa su una rete molto complicata e molto articolata di associazioni, di imprese, per cui tu hai a che fare con qualcuno che credi essere completamente indipendente, per esempio un imprenditore piuttosto che un professore eccetera, in realtà ha legami importanti con GIULIO VALESINI Con il governo cinese.

MAURIZIO SCARPARI - SINOLOGO Sì, e con il Partito Comunista soprattutto che in qualche modo orienta tutti i comportamenti di queste persone.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora non sappiamo chi ci mette i soldi, né chi è il proprietario effettivo. Abbiamo chiesto lumi a Agcom e a Mise, dopo un rimpallo di responsabilità, ci hanno dato dei riferimenti societari anche errati. Noi l’editore insomma l’abbiamo trovato: è mister Lai Lang a Pechino, mister Alexadros Rigas a Cipro e mister Richard Lai in Canada, dove poi c’è la società anonima madre di tutta la struttura societaria ma è rigorosamente anonima. Siccome la struttura perde pesantemente insomma non se ne capisce neppure la ragione dell’esistenza. La ragione economica. Abbiamo visto che i soldi arrivano però dalla Spagna. Benedetti anche dall’ambasciata cinese! Quindi il sospetto è che sia una radio che faccia riferimento al governo di Pechino. E non è tanto manco un sospetto perché i nostri Giulio e Aldo hanno trovato una vecchia brochure della radio iberica gemella quella che è stata fondata in Italia dove c’è scritto: “abbiamo l’appoggio dell’Ambasciata e l’anno prossimo lanciamo una radio anche in Italia”. Ma il nostro di governo lo sa? Sarebbe importante saperlo perché poi queste radio stanno spuntando un po’ come funghi un po’ in tutta Europa e chissà se anche queste hanno come editore un signore che ha tre o quattro nomi.

·        Il Web e la Legione di Imbecilli.

Quando il banditore «gridava» le notizie. Tragedie, guerre e acqua «andata via» di notte: oggi che l’universo di Internet abbonda, serve ricordare. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Settembre 2022.

«Ha menato il bando» bofonchiava l’arguzia popolare quando un tale, un quidam de populo non riusciva a mantenere segreta una faccenda e, traccheggiando per nasconderla otteneva l’effetto opposto di palesarla al villaggio non ancora globale che non annovera più né bandi né banditori. Ma solo cittadini.

Nei paesi questi volenterosi annunciatori delle notizie di interesse comune sono sopravvissuti fino agli anni Cinquanta con la loro dignitosa utilità. Totò dipinse un acquerello memorabile del Pazzariello nel film L’oro di Napoli. «Attenzione! battaglione! È uscito pazzo il padrone». Le rime allusive dell’ingente generosità del committente rispondevano alla prosodia allocutoria del proclama e conservava, sbrindellate, le coloriture dispotiche delle antiche «grida» descritte dal Manzoni, ma senza grinta sanzionatoria.

Era la comunicazione collettiva di un tempo in cui non esistevano media (pronunciatelo così, in latino) di massa e i giornali che, più tardi, furono una rarità da scapestrati intellettuali o da preti. Quanto ai manifesti era già tanto che il popolo s’incantasse davanti agli avvisi della festa patronale. Qualche affiche compariva per annunziare il teatro girovago o il varieté. Il resto della comunicazione era affidato ad annunci ufficiali recati dal banditore. Diligentemente egli divideva gli annunci: quelli ufficiali e podestarili o governativi erano preceduti dal rullio del tamburo, quelli commerciali, come dire gli spot pubblicitari, dal suono della trombetta e quelli religiosi da un campanello. Una disciplina preziosa. L’annuncio, per esempio, della chiamata alle armi d’una classe arrivava in tutta la nazione per il tramite del banditore tambureggiante con ausilio di tromba. Mio nonno mi raccontò dello sgomento che prese la cittadinanza quando il banditore, credo un «mest Cicc» provetto, dovette avvertire che la Patria chiamava alle armi i «ragazzi del ‘99» a difendere il Piave e il Carso. Mi fu narrato che nel silenzio atterrito di mamme e sorelle s’udì, nel vicolo, la mesta conclusione che «Mest Cicc» si lasciò sfuggire: un «Poveri figli» non protocollare.

La Storia custodita negli scaffali non conserva certo né l’episodio, né l’esclamazione, ma io li considero lancinanti come l’indimenticabile film Niente di nuovo sul fronte occidentale.

Ho ascoltato, bambino, il banditore della mia Bitonto annunciare feste dell’Immacolata, balzelli, vendite di olive, tridui a Sant’Antonio, avanspettacoli, intasamenti di fogne, sospensioni dell’erogazione idrica. Precisamente avvertiva che l’acqua se ne sarebbe «andata» al tramonto e sarebbe «tornata» al mattino. Quest’andare e tornare dell’acqua mi sembravano verbi da cosmogonie popolari e paesane, comunque poetici. Finita l’allocuzione, Ciccio il banditore rullava sul tamburo e s’avviava svelto a cercarsi un altro angolo di strade per riprendere con il rassicurante «S’avverte il popolo».

Da molto tempo bandi e banditori sono nel museo d’ombre dei ricordi e delle tradizioni memorabili: con l’affermarsi di una sequela di conquiste del progresso hanno perso la funzione. La scuola di massa li ha resi superflui e patetici, giornali, radio, televisione, internet e pulviscolo mediatico connesso, annunciano, raccontano, avvertono, consigliano, impongono, divagano, intrattengono, mentono, minacciano, sospettano, ciarlano, chiacchierano, allarmano, insinuano, pettegolano, informano perfino. E pubblicano. Rapidamente, efficacemente, tempestivamente.

E questa è storia, ormai, vecchia. Ma la teoria delle transizioni nella sociologia dei mass media avverte che nella comunicazione umana nulla si oblitera definitivamente, ma tutto si integra con il passato e ne sviluppa le premesse e tutto si predispone a farlo con il futuro. Lo esemplifica proprio il termine mass-media che mescola il termine inglese mass con il lemma latino media (mass media). Gli ignoranti perseverano nell’assurda pronuncia «midia». Precisazione necessaria che esemplifica il concetto delle instancabili integrazioni che ci portano a riconoscere negli strumenti informatici, nell’enorme pulviscolo di aggiornamenti delle tecniche della comunicazione una continuità evolutiva che collega Fidippide il maratoneta che corse fino allo stremo per comunicare la vittoria ai suoi concittadini, al giramondo novelliere e, questo, al banditore del paese fino al teatro, al cinema, alla radio, alla televisione, ai media moderni. L’epocale giganteggiare del più recente di questi, Internet, prende origine dall’antichissima brama di costruirlo, il villaggio globale.

Il problema è che non esiste una legislazione che controlli il parapiglia immenso che si stende sull’opaco pianeta che finisce per confondere e non per diffondere i saperi e la storia di tutti noi. In questo marasma naufraga, nel mare dei pregiudizi, la verità e si afferma la diffidenza verso i media. Mandiamo un bando.

Guglo, quindi sono. L’ignoranza di Fedez su Strehler e la velleitaria sapienza degli editorialisti su Twitter. Guia Soncini su L'Inkiesta il 25 Giugno 2022.

Perché uno nato nel 1989, in una famiglia non ricca e non colta, dovrebbe sapere chi è uno dei più importanti registi teatrali italiani? Avete mai visto un intellettuale vantarsi di conoscere la data di nascita di Manzoni? 

Me la vedo, l’editorialista ignorante come un carabiniere, che va sulla voce Wikipedia di Giorgio Strehler. Cinque minuti prima, di lui sapeva che era un tizio coi capelli bianchi e il golf a dolcevita, ah sì quello del teatro vicino alla fermata del metrò in Brera; cinque minuti dopo, si sente istruita e in grado di fare il suo bravo post Instagram in cui esprimere sussiego nei confronti dell’arricchito semianalfabeta che osa non conoscere a memoria gli allestimenti strehleriani di Brecht, e mica sarà una giustificazione che siano andati in scena trent’anni prima che l’arricchito nascesse. 

Esistono ancora ricchi colti? È la domanda che mi sono fatta più spesso negli ultimi anni, da quando i ricchi stanno per la maggior parte su Instagram, e svelano ogni giorno il loro non essere in grado di scrivere una didascalia senza errori d’ortografia. La prima volta che mi parlarono di Gianluca Vacchi mi dissero che un intellettuale che conosco gli faceva da precettore, e non mi sono mai presa il disturbo di verificare se fosse vero, ma non ho mai smesso di pensarci: perché quelli che non hanno studiato, quando si arricchiscono, non si prendono tutti un precettore che li renda conversatori passabili, gente che sa i nomi delle correnti filosofiche e quelli degli scrittori quel tanto che basta ad avere, a cena, argomenti che non siano la manicure semipermanente e i bitcoin?

Non lo fa nessuno: sono impegnati a fatturare. Ogni ora che passi con un precettore che t’insegni la storia della letteratura – ammesso tu riesca ad ascoltarlo, con l’attenzione fragile e frammentata che ormai abbiamo tutti – è un’ora in cui potresti fare qualche filmino che ti aumenta il mercato di Instagram. E per il mercato di Instagram devi filmare i cani, i figli, gli addominali, mica il tuo tentativo di leggere la Recherche (oddio, su TikTok la Recherche con le pecette colorate funziona, ma se devi preoccuparti dei colori delle pecette per renderla fotogenica mica ti resta il tempo di leggerla). 

Per chi fosse stato su Marte (o a fatturare) e si fosse perso il desolante spettacolo di aspiranti intellettuali ignoranti come carabinieri che fanno la moralina al marito della Ferragni che, santo cielo, ha detto «chi cazzo è Strehler», riassumiamo i fatti. 

Il marito della Ferragni fa un podcast. Registrato e montato, come tutti i podcast. L’ospite è Gerry Scotti che a un certo punto, parlando delle candidature politiche dei personaggi noti a Milano, dice «l’ultimo nome che hanno proposto era Strehler». Il marito della Ferragni, trovandolo immagino un nome buffo, si volta ridendo verso qualche collaboratore e chiede «chi cazzo è Strehler». 

I commentatori ignoranti come carabinieri titolano «gaffe», ignari che una gaffe è un inciampo che ti sputtana tuo malgrado, che non puoi far nulla per nascondere: gliene fosse fregato qualcosa, l’avesse ritenuto rilevante, quella battuta l’avrebbe agevolmente tagliata prima di mettere on line il video. «Non so niente, come tutti voi» è la formula vincente di questi anni di comunicazione, e questo chiunque non sia ignorante come un carabiniere lo sa, ma la domanda è un’altra: perché uno nato nel 1989, in una famiglia non ricca e non colta e azzarderei non frequentatrice del teatro di prosa, dovrebbe sapere chi è Giorgio Strehler? 

Con l’impeto con cui potrebbe indignarsene la Vanoni (l’unica che sarebbe autorizzata a ritenere imperdonabile la lacuna: va bene non esser mai stato a teatro, ma dove hai vissuto per non aver mai letto un’intervista a Ornella Vanoni in cui racconta sempre con le stesse parole sempre gli stessi aneddoti sulla sua grande storia d’amore con Strehler?), una scrittrice su Twitter dice che Strehler le ha cambiato la vita. 

È una donna adulta, e io resto attonita ogni volta che un adulto sostiene che un libro, un film, un personaggio pubblico gli hanno cambiato la vita. Resterei attonita anche se dicessero che gliel’ha cambiata una loro zia (che vuol dire «cambiare la vita»? Forse una zia che ti lascia erede universale, toh, quella effettivamente ti cambia la vita), ma no, la loro vita l’ha sempre cambiata un romanziere, uno che sono andati a vedere a teatro, un concerto. Mai la scoperta che sulle tagliatelle ai porcini stia benissimo il parmigiano, o un sonnifero che finalmente funzionasse. 

Notevoli anche quelli secondo cui i registi teatrali si studiano a scuola. I programmi sono sicuramente cambiati dai miei tempi, quando sì, portai alla maturità Beckett come argomento a piacere perché facevo il linguistico, ma se avessi frequentato una scuola in cui la letteratura inglese non era la prima materia probabilmente tutto quel che avrei saputo di Shakespeare sarebbe stato che c’era un film di Zeffirelli da Romeo e Giulietta. 

Magari ora si studia di più il teatro (non secondo gli insegnanti con cui ho parlato in questi giorni), ma sospetto nel caso se ne studino sì e no i testi. O forse, come successe a noi al posto d’una lezione di letteratura francese, gli si fa vedere qualcosa, ai liceali che al buio limoneranno senza guardare lo schermo: a noi fecero guardare il film da Notre-Dame de Paris, il che non mi rese una che quindici anni dopo quella lezione sapeva qualcosa del regista. E se, trent’anni dopo, so qualcosina di Victor Hugo o di Gina Lollobrigida, è perché mi sono occupata di queste cose da grande. Della scuola ti resta sì e no la capacità di far le addizioni, se da grande studi: avete mai visto un intellettuale vantarsi di sapere i confini dell’Umbria o la data di nascita di Manzoni? 

Se poi da grande sei uno che dice che aveva buoni voti a scuola perché non ha vanti culturali adulti, beh, quello è in effetti un problema drammatico. Aggravato dal tuo (eventuale ma probabile, a guardare le statistiche che accomunano i discorsi pubblici d’intellettuali e miliardari) non sapere distinguere tra i casi grammaticali in cui utilizzare «gli» e quelli in cui utilizzare «le»: quello dovevi imparare, a scuola, no le regie teatrali. 

La terza specie di adulti del presente, quella di chi da piccolo non aveva buoni voti e da grande se ne fotte giacché impegnato a fatturare, è tutto sommato la più lieta, mentre noi ci agitiamo perché santo-cielo-come-si-può-ignorare-l’allestimento-di-Arlecchino. 

C’è poi tutta una suscettibilità geografica: Strehler è Milano, come può uno che vive a Milano non sapere. Se pensate il campanilismo dei romani sia scemo, sappiate che i milanesi si stanno attrezzando per competere. Ho avuto la tentazione di rispondere a qualcuno di questi che ho sempre trovato noiosissimo Jannacci, ma ho temuto mi avrebbero risposto di andare su Google. Google è la grande risposta di questi polemisti dilettanti a tutto: sono davvero convinti che se googlo la scissione dell’atomo diventerò una persona in grado di parlare di Fisica, che tutto quel che mi separa dall’essere colta in settori dei quali non so nulla sia una rapida ricerca e la lettura d’una voce Wikipedia. Sono davvero convinti che se contesto l’importanza di qualcosa è perché non la conosco, e che se fossi informata sarei d’accordo con loro, che sono istruiti e ancora sognano l’esame di maturità, tra una ricerca su Google e l’altra. 

Ieri Andrea Pennacchi, che conosce il teatro come pochissimi, ha twittato una parafrasi di Chiedi chi erano i Beatles, canzone manifesto di questo tempo in cui nessuno sa niente ma la cosa che non sanno gli altri è sempre più grave di quella che non sai te, in cui esortava a chiedere chi cazzo fosse Strehler. Gli hanno spiegato che aveva messo in scena il Faust. Su Google il senso del tono mica lo trovi, se sei ignorante come un carabiniere ma l’accesso a tantissime informazioni ti fa sentire mica istruito: addirittura colto. 

La drammatica verità è che Google è utile in casi molto marginali. Per esempio lo si può aprire per cercare «ignorante come un carabiniere», facendosi venire il dubbio che sia una citazione e che sia bene saperlo prima di correre sui social a scrivere che quella stronza manca di rispetto all’Arma. A scoprire autore e contesto e a chiedersi chi sia lecito ignorare e chi no, degli autori naturalizzati milanesi, e a chi somigliamo, tra l’ignorante con velleità e quello troppo impegnato a fottersene e fatturare. 

Di ciccia e labbra rifatte. La condanna di dover piacere a chi è costretto a guardare le nostre foto. Guia Soncini su Linkiesta il 14 Giugno 2022.

Gli indignati dei social sono convinti che il mondo ci debba attenzione e delicatezza, ma non si può avere il controllo sulle reazioni del mondo esterno e, quindi, se pubblichiamo le immagini del nostro corpo dobbiamo avere la pazienza di tollerare chi commenta il nostro aspetto.

Un po’ di tempo fa, per un documentario che poi non ho fatto, ho frequentato per qualche settimana un’anziana signora famosa. Una che era stata bella. Ogni volta che uscivo da casa sua, la signora chiamava i produttori e chiedeva, immagino sinceramente stravolta: ma perché è grassa? Perché non si mette a dieta?

Per una che per tutta la vita ha fatto di tutto per essere bella, e in anni in cui non facevamo finta che la bellezza non avesse canoni, dev’essere inaccettabile che qualcuna si permetta di fottersene. E, tuttavia, la signora aveva ragione.

Non perché da magre si sia più gradevoli (lo si è, a parità di altre doti: se sei cessa, sei cessa anche da magra) o la vita sia più facile (lo è: i grassi che dicono che stanno benissimo poi muoiono a sorpresa, non si erano mai misurati la pressione e pensavano che pesare cinquanta chili o cento fosse uguale). Ma per il grande non detto, il grande rimosso, la grande menzogna che riguarda l’aspetto estetico.

Devi piacere a te stessa, dicevano una volta gli psicologi e oggi le multinazionali che vogliono venderti roba a mezzo body positivity. Ma non è vero. Il tuo aspetto riguarda gli altri, mica te. Sono loro che ti vedono, a meno che tu non viva in una casa foderata di specchi, o non passi le giornate a rimirarti nella telecamera del telefono (nel qual caso la tua psiche ha più bisogno d’essere accudita del tuo metabolismo).

Un giorno, mentr’ero sul suo divano, la signora anziana famosa ricevette una telefonata. Finito di parlare, mi spiegò che il chiamante era un brasiliano bravissimo che aveva trovato, uno che le faceva delle punturine invisibili, giacché lei odiava i ritocchi vistosi e quelle che vogliono restare giovani a tutti i costi.

Poiché non avevo uno specchio davanti, non so se la mia faccia tradisse quel che stavo pensando, quel che chiunque avrebbe pensato in quel momento. Ma sei dissociata? Ma non ti guardi mai allo specchio? Ma di quali ritocchi invisibili parli, che sei devastata dalla chirurgia plastica?

Quello che i sostenitori della mozione «piacere a sé stesse» non tengono mai presente è che chi è costretto a guardarti in faccia per un’intera giornata lavorativa ha molto più diritto ad avere opinioni sul tuo aspetto di quanto ne abbia tu.

I pareri sul nostro corpo sono inaccettabili, dicono le militanti dell’internet dopo aver ricevuto qualche commento ostile o dubbioso o denigratorio sotto a una foto di cosce. La gente non si deve permettere, non sono fatti suoi. Però allora non sono fatti neanche di tutti quelli che ti hanno scritto e ti scrivono e ti scriveranno per dirti quanto sei bella, quelli i cui commenti cuoricini e ritwitti. Se i corpi degli altri ci riguardano quando si tratta di apprezzarli, ci riguardano anche quando si tratta di disprezzarli.

C’è un tratto che non so se sia tipico della gioventù o della gioventù di questo secolo: forse ero così anch’io e sono troppo vecchia per ricordarmene. Parlo della convinzione che esista la possibilità di controllare ciò che non dipende da noi: come gli altri parlano di noi, cosa pensano di noi. C’entra la telecamera del telefono, temo: se posso fare in modo che nessuna mia foto sia mai poco donante, perché ne scatterò duecento finché non sarò soddisfatta, allora non è accettabile che io non abbia il controllo assoluto di ciò che viene detto di me.

Vi capita mai (sto parlando agli adulti, se siete ventenni non so cosa ci facciate qui) di ritrovare le vostre foto di classe, e di constatare quanto fossero brutte? È come guardare la tv in bianco e nero: le brutte foto non esistono più, sono un reperto d’altra epoca, un concetto che il pensiero contemporaneo non considera.

E quindi la foto non donante di Vanessa Incontrada non ha bisogno che il giornale ci scriva sotto qualcosa d’insultante, per essere considerata insultante: basta a sé stessa. Hai fatto una cosa che i tabloid fanno da sempre – scegliere foto mostruose – e perciò odi le donne, vuoi imporci l’anoressia, sei grassofobico. La strada della stronzaggine è lastricata di buone intenzioni, e non credo che nessuna delle indignate convinte di difendere Vanessa Incontrada dal tabloid cattivo si renda conto che, se trovi insultante una foto, stai dicendo che la persona fotografata ha un aspetto offensivo.

D’altra parte la militanza di questo secolo non ha come punto di forza il rendersi conto delle parole che usa. Parliamo di persone che utilizzano, per non dire «grassa» o altre ovvietà che ritengono offensive e inaccettabili, la definizione secondo loro inclusiva e non offensiva «corpi non conformi». Non conformi a cosa? Ai canoni estetici, direi. Com’è un corpo conforme ai canoni estetici? Direi «bello». Qual è il contrario di «bello»? Ecco.

«Inaccettabile» è un concetto molto diffuso, tra gli indignati del social convinti che il mondo debba loro attenzione e delicatezza. Mica solo per quanto riguarda i corpi. L’altro giorno nei commenti allo Spelling Bee del New York Times, un giochino enigmistico che ha un’ape nel nome e che perciò ogni giorno si apre con foto di api inviate da lettori desiderosi di partecipazione, c’era l’indignazione d’un padre: suo figlio ha la fobia delle api e ogni giorno apre il gioco che gli piace e subisce un trauma. Pensa essere il figlio di uno che t’illude che la vita mai ti traumatizzerà facendoti vedere una foto di api, che tu hai il diritto di chiedere che si eliminino le foto di api giacché tutti sono tenuti a occuparsi del tuo particulare (gli americani tutti studiosi di Guicciardini).

Mentre scrivo queste righe mi passa davanti il video d’una tizia che elenca i commenti inaccettabili ricevuti da conoscenti ai quali ha detto d’aver avuto un aborto spontaneo. Ma, benedette ragazze, delle cose sulle quali non volete sentire i pareri altrui (che, non so per voi, ma per me sono tantissime) perché vi mettete a parlare? Se non volete vedere api, perché aprite una pagina dove sapete che troverete foto di api? Se non volete sapere cosa penso del vostro stato di salute, perché introducete l’argomento nella conversazione? Se non avete la pazienza di ascoltare chi commenta il vostro aspetto, perché pubblicate vostre foto? Cosa devo commentare, sotto la foto delle vostre chiappe: la vostra lettura critica di Wittgenstein?

Certo che la signora anziana aveva ragione: provaci tu a lavorare con una di cui riesci solo a pensare «ammazza che cicciona». Certo che avevo ragione io a pensare che era ridicola, lei e le sue labbra rifatte. La differenza è che non saremmo mai state così maleducate da dirlo l’una all’altra, dal vivo o su Instagram: spettegolavamo con terzi, come si fa quando si ha un’età civile.

Voialtre, che avete pochi anni invece dei nostri cento, volete vivere in pubblico, e sapere tutto, vedere tutto, illudendovi di così poter controllare tutto. Ma il risultato non sarà che gli altri diranno di voi solo ciò che vi farà piacere, bensì che verrete a sapere anche le cose che vi dispiacciono. E questo senza avere i vantaggi di Vanessa Incontrada, che se deve sorbirsi brutte foto sui giornali è almeno in cambio d’un mestiere molto ben retribuito.

Francesco Musolino per “il Messaggero” il 30 maggio 2022. 

Vi siete accorti che telefonare a qualcuno è considerato un gesto troppo intimo, quasi molesto? È sempre meglio mandare un messaggio, dicono i ragazzi della Generazione Z, quelli che non chiudono mai le frasi con il punto (e vi bollano come boomer se non sapete usare gli emoji). Oggi c'è ancora qualcuno in grado di dormire un sonno pieno, senza l'impulso di controllare lo smartphone ogni dieci minuti?  

E dove sono andati a finire i telefoni fissi, quelli con la cornetta di bachelite e la rotella che girava? Che ne è stato di quel tempo in cui, se la chiamata squillava a vuoto, non c'era modo di sapere chi fosse? Ma soprattutto, che fine ha fatto la noia, quel tempo colloso come una calura estiva, durante il quale dovevamo fare da soli, trovando qualcosa da leggere o magari, inventando una storia o un'avventura, potendo contare solo e soltanto sulla forza della nostra immaginazione?

Un mucchio di scrittori fuoriclasse da Stephen King a Valerio Massimo Manfredi hanno confessato che proprio il fatto di dover combattere quella benedetta noia, è stato importantissimo. Eppure, oggi i genitori sembrano costretti a riempire le giornate dei propri figli con ogni tipo di impegno e non appena salta il segnale wi-fi, si grida alla catastrofe. 

 Perché? Che cosa avete contro la noia? La 50enne Pamela Paul, giornalista americana ed editor della New York Times Book Review, è partita da questi legittimi dubbi per riflettere sul modo in cui la rete ha stravolto le nostre vite, firmando 100 cose che abbiamo perso per colpa di internet (pubblicato da Il Saggiatore, tradotto da Fabio Galimberti).

Si tratta di un saggio intelligente e provocatorio, danzando sulla nostalgia delle cose belle che abbiamo perso per strada, senza mai scivolare nel patetico, nei facili sentimentalismi o in un atteggiamento luddista e anti tecnologico. D'accordo, nessuno può avere nostalgia delle pagine gialle e degli elenchi del telefono che arrivano via posta, così come delle mappe cittadine che si spiegazzavano o dei volumi cartacei dell'enciclopedia che ci vendevano per posta. Per carità. 

Ma chi l'ha detto che non possiamo rimpiangere il tempo delle cabine del telefono? Ricordate l'attesa dell'orario concordato per chiamare qualcuno? Rammentate il timore di trovare la fila alla cabina e l'ansia che anziché l'amata, potesse rispondere il fratello dispettoso o peggio, uno dei genitori? 

E mentre oggi gli smartphone hanno fotocamere professionali, cosa ne è stato dell'inquietudine con cui si andavano a ritirare le foto da sviluppare, con il rischio di aprire la busta e trovare decine di scatti fuori fuoco? Oggi facciamo migliaia di foto a vuoto, le carichiamo sul cloud e non le sviluppiamo mai. È lecito avere qualche rimpianto? 

Cento capitoli brevi, ironici, pungenti, narrati con un taglio empatico; così scopriamo che l'editorialista del New York Times - già autrice di Pornopotere (2007) - non possiede un tablet, non è abbonata a nessun servizio streaming e i suoi figli vedono i film o ascoltano la musica sui supporti fisici dvd e cd senza usare alcun tipo di cloud. Sino a qualche anno fa questa era la nostra normalità, eppure, oggi sembra una vera stravaganza. Chi ha ragione?

Un capitolo dopo l'altro, 100 cose che abbiamo perso per colpa di internet è un viaggio nel tempo: l'emozione per il primo libretto degli assegni, gli album rilegati con le foto di famiglia e le scatole di Monopoli e Scarabeo per concludere le serate dal vivo, non giocando online contro il computer. 

Paul evoca il tempo prima degli smartphone, quando nessuno poteva rintracciarti, mandarti un Whatsapp e geolocalizzarti: chi se lo ricorda ancora? D'accordo, la tecnologia migliora sensibilmente la nostra vita, eppure, c'è stato un tempo in cui gli ex amori (con un po' di fortuna) scomparivano dalla nostra vita mentre oggi, con i social network, sembra impossibile lasciarsi qualcuno alle spalle: bastano un paio di click e sappiamo tutto, spesso troppo. 

Abbiamo la testa piena di pin e password, al punto che la nostra memoria vacilla e questo fenomeno, scrive Paul, si chiama scarico cognitivo ovvero, non sentiamo più il bisogno di dover ricordare alcunché perché possiamo ritrovare tutto online con pochi click, dai titoli dei film sino al nome del compagno di banco del liceo.

È un bene o un male, tutta questa tecnologia? D'accordo, scrive la Paul, la pandemia senza internet sarebbe stata un incubo davvero insopportabile ma adesso facciamo i conti con sessioni infinite su Zoom e questo mondo, «sembra improvvisamente piccolo, a portata di smartphone». 

Attenzione: chiunque abbia meno di 40 anni, trovandosi in mano questo libro, potrebbe pensare ad una realtà distopica, un tempo oscuro in cui si spedivano lettere scritte a mano, si mandavano a memoria i numeri di telefono e il cloud non esisteva. Quel vecchio mondo, con il filo della cornetta che puntualmente si attorcigliava, non esiste più ma ogni tanto possiamo rimpiangerlo, senza sentirci dei dinosauri?

Paolo Landi per doppiozero.com il 27 maggio 2022.

L'ultima novità in fatto di social network, dopo la rapida eclissi di Clubhouse, si chiama Minus, la piattaforma dove si possono condividere solo cento post. Esaurito questo numero il profilo resta ma inattivo, non si può più fare nulla, in una logica all'incontrario rispetto ai social tradizionali, che vorrebbe ridare valore alle parole o alle immagini, da soppesare nella loro utilità prima di pubblicarle. 

Naturalmente non è un vero social ma una provocazione dell'artista e docente alla Illinois University Ben Grosser. Lui ha risposto così a una richiesta della Arebyte Gallery di Londra per la mostra Software for Less, che nell'ottobre scorso voleva indagare sugli effetti psicologici, culturali e politici delle app social sulle persone.

Grosser, già nel 2012 aveva creato Demetricator, una estensione del browser per eliminare il conteggio dei like sotto ai messaggi condivisi su Facebook, per capire se questa modalità poteva scoraggiare la bulimia social. 

Il suo gesto artistico prefigura un futuro prossimo in cui qualcuno ci chiederà – come ci hanno già chiesto, per esempio, di non disperdere i rifiuti nell'ambiente – di tenere un atteggiamento responsabile verso la dematerializzazione crescente che caratterizza le nostre vite. 

Quando mettiamo una foto su Instagram o un commento su Twitter condividendo e mettendo like, quando lavoriamo da casa, quando archiviamo i nostri documenti sul pc, quando entriamo nel network globale che acquista e vende Bitcoin, stiamo dematerializzando.

Dematerializzare è il mantra tecnologico che vorrebbe accelerare lo sviluppo sostenibile ottimizzando i processi: l'home working ci evita di spostarci usando auto, metropolitane, treni, aerei e risparmiando quindi carburante, diminuendo l'inquinamento atmosferico; la solitudine nella quale ci confinano i social network, dandoci tuttavia l'impressione di avere una vita popolata di amici, pare molto eco-sostenibile anche se psicologicamente poco salutare; inviare mail e usare Excel ci abitua a fare a meno della carta, con benefici per la foresta amazzonica; la tecnologia migliora la filiera manifatturiera riducendo impiego di energia e di materie prime.

Il nuovo paradigma del capitalismo digitale considera la rilevante discontinuità nella struttura dei rapporti di produzione, delle relazioni interpersonali e sociali, trasformando il più possibile tutto ciò che è materiale in entità digitale. 

Nel 2016, a Parigi, centonovanta Paesi firmarono un accordo "per conseguire l'obiettivo a lungo termine relativo alla temperatura (...), raggiungere il picco mondiale di emissioni di gas a effetto serra al più presto (...) e intraprendere rapide riduzioni in seguito, in linea con le migliori conoscenze scientifiche, così da raggiungere un equilibrio tra le fonti di emissione e gli assortimenti antropogenici di gas a effetto serra nella seconda metà del secolo”.

Il cambiamento climatico che sta interessando il nostro pianeta, sotto forma di condizioni estreme come siccità, ondate di caldo, piogge intense, alluvioni, frane, innalzamento dei mari, acidificazione degli oceani, con la biodiversità fortemente compromessa, necessita quantomeno di una presa di coscienza del problema. 

Ma mettiamo che, in un futuro distopico, Greta Thunberg venga presa in parola e tutti – dal cittadino che non getta più il pacchetto di sigarette vuoto dal finestrino della macchina ma lo smaltisce educatamente nei cestini della raccolta differenziata, ai governi di tutti gli Stati che abbassano le loro emissioni, investono in tecnologie, assumendo come impegno quotidiano la protezione dell'ambiente – immaginiamo, dicevamo, che tutti mantengano, sempre, un atteggiamento costantemente virtuoso.

Ipotizziamo anche uno scenario in cui la procreazione diminuisca a livelli tali da riportare la popolazione mondiale a standard pre-moderni e, contemporaneamente, l'idea sovranista vinca, impedendo qualunque forma di emigrazione/immigrazione. 

Si avvererebbe forse la profezia che lo scrittore Benjamin Labatut ha rappresentato nel suo libro Un verdor terrible (tradotto da Adelphi recentemente con il titolo Quando abbiamo smesso di capire il mondo): "Le piante, nutrite all'eccesso da un'umanità in soggezione, sarebbero state libere di crescere a oltranza, proliferare ed espandersi sulla superficie della Terra fino a ricoprirla interamente, soffocando qualsiasi forma di vita sotto una terribile cappa verde".

Questa immagine fantascientifica paradossale è perfetta per spingerci a fare considerazioni che ci riportano all'origine di questo discorso: mentre sembriamo tutti impegnati a raggiungere la così detta neutralità carbonica entro il 2050, (quasi) nessuno mette in guardia sui pericoli della dematerializzazione, dove la particella "de" usata in funzione privativa, vorrebbe togliere concretezza materica a tutto ciò che è tridimensionale. Ricopriremo i grattacieli e le città di boschi verticali senza accorgerci che un altro nemico, difficile da riconoscere perché dematerializzato, attenta al nostro equilibrio biologico.

L'invisibile inquinamento delle nostre foto su Instagram, delle nostre quotidiane opinioni su Twitter, degli sproloqui cui ci abbandoniamo su Facebook, i dati che forniamo a Linkedin sulle nostre storie professionali, i video imbarazzanti su Tik Tok, la condivisione dei colori che ci piacciono su Pinterest, i follower da acchiappare su YouTube: tutto questo "torpor terrible", parafrasando Labatut e intendendo l'ottundimento delle facoltà psichiche che ci ipnotizza quando stiamo sui social, crea danni. La dematerializzazione fa bene da una parte ma è pericolosa da un'altra. 

Nessuna tecnologia è neutrale, nessuna è gratis, nemmeno le app inventate da Zuckerberg, al contrario di quanto lui vorrebbe farci credere. Ce ne accorgiamo anche quando accendiamo il pc: una specie di vento, il soffio di un organismo in affaticamento, accompagna per qualche secondo la connessione che illumina lo schermo (mentre, fuori, il cerchio rosso del contatore immaginiamo giri vorticosamente).

Pare che l'energia che consumiamo per usare tutti i device digitali presenti sul pianeta (smartphone, server, terminali, reti ecc.) cresca al ritmo del 10% l'anno. Ogni informazione, circolando in rete, è inviata da onde elettromagnetiche prodotte da antenne alimentate a corrente, o da fasci che si propagano in fibre ottiche. Google è proprietario di un'infinità di siti, che richiedono enormi capacità di stoccaggio per rispondere ai miliardi di domande che vengono poste ogni frazione di secondo.

I grandi server che immagazzinano e processano i dati necessitano di imponenti potenze elettriche per funzionare ed essere raffreddati (impiegando, tra l'altro, colossali quantità d'acqua). Ci si spaventa a leggere i dati che Google stesso ha rivelato sul consumo energetico che gli è necessario per fornire i suoi servizi: pari a un quarto della produzione di una centrale nucleare media ogni anno (swissinfo.ch).

Gli algoritmi che prendono in carico le informazioni che gratuitamente forniamo a Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp), Jack Dorsey (Twitter), Larry Page e Sergej Brin (Google), Reid Hoffman (Linkedin) ma anche a Netflix, Dazn, Amazon, le dirottano poi a entità socioeconomiche, politiche, finanziarie, commerciali: dati che hanno un valore enorme per il loro potere di influenzare qualunque nostra scelta, come è enorme la potenza energetica indispensabile per rilasciarli. Comprare Bitcoin causa l'immissione in atmosfera di una quantità di circa ventitré milioni di tonnellate di CO2 ogni anno, come le emissioni annuali di città come Las Vegas o di piccole nazioni come la Giordania.

L'incremento esponenziale del traffico dati tecnologico dovuto alla crescente dematerializzazione è un problema oggi sottovalutato ma serio. Così, mentre crediamo di combattere battaglie ambientaliste sui social, con i nostri tweet indignati e le foto choc, non facciamo altro che consumare un prodotto commerciale, contribuendo all'inquinamento, proprio come quando abbandoniamo la lattina di Coca Cola nel bosco, gettiamo in mare il sacchetto di plastica coi rifiuti, o schiacciamo con la punta della scarpa un mozzicone. La peculiarità di queste nuove forme di comunicazione sta inoltre nella loro estrema volatilità: tutto si consuma in lassi di tempo sempre più brevi, è l'escamotage ideato per farceli consumare di più. Ne deriva un debito cognitivo allarmante: la quantità di informazioni a nostra disposizione cresce continuamente, impedendo al cervello umano di metabolizzarle, generando danni all'ecologia della nostra mente e alla nostra psicologia, scaraventandoci in un perpetuo senso di inadempienza e di insoddisfazione.

Il digital devide è fonte di un'altra assurda contraddizione. Nei Paesi avanzati, dove il PIL cresce in media del 2% la spesa per la digitalizzazione – come riportato dal fisico Roberto Cingolani, oggi Ministro della transizione ecologica – cresce dal 3 al 5% negli ultimi anni. Nei Paesi dove la crescita non c'è, il gap digitale aumenta. 

Un cittadino americano possiede in media dieci dispositivi digitali, processando circa centoquaranta gigabyte (miliardi di byte) di dati ogni mese, in confronto a un cittadino indiano che, con un solo dispositivo connesso, consuma due gigabyte (invece dei centoquaranta del cittadino medio americano). La digitalizzazione continua ad essere un fenomeno non uniformemente distribuito sul pianeta ma il suo impatto ambientale è subìto da tutti. Il politically correct ambientalista ha dunque bisogno di un aggiornamento urgente, se non vogliamo che i sacrosanti allarmi lanciati da Greta non finiscano tra i reperti archeologici di Instagram.

Una battaglia non esclude l'altra, ovviamente, e si può impegnarsi per la riduzione del CO2 mentre lottiamo per la consapevolezza di quanto sia cruciale nel futuro delle nuove generazioni l'ecologia digitale. 

Ma, per farlo, bisognerebbe aver chiaro che un comportamento coerente esigerebbe una serie di rinunce, oltre a limitare il bla bla bla istituzionale stigmatizzato da Greta: non ultima quella di chiederci – tanto per cominciare da qualcosa di semplice – quanto siano necessarie le foto che pubblichiamo su Instagram, le opinioni che scriviamo su Twitter, gli sproloqui su Facebook. Buttare il pacchetto di sigarette vuoto nel cestino o resistere al caldo di un'estate normale tenendo spenta l'aria condizionata sembrerebbe più facile. Ma, anche qui, abbiamo delle resistenze.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 24 maggio 2022.

Trovo una notizia di due righe, illuminante, su Anteprima di Giorgio Dell'Arti. La notizia è questa: Diane Vogt, avvocato in Florida, scrittrice di gialli, pubblica un libro dal titolo The Little Book of Bathroom Crime Puzzles. 

Nel 2006 arriva sugli scaffali italiani edito da Newton Compton col titolo Crimini e misteri per la stanza da bagno. Come quasi tutti i libri, passa inosservato. Ma l'editore non si dà per vinto e quest'anno lo ha ripubblicato, cambiando però il titolo: Crimini e misteri da risolvere mentre fai la cacca. Trionfo. In un mese ha venduto diecimila copie.

E di colpo mi è stato tutto chiaro, chiaro Beppe Grillo e il suo Movimento, Giuseppe Conte due volte premier, il livello del dibattito sui social network, quello raggiunto da buona parte dei talk show, i successi e gli insuccessi dell'informazione a cura di noi della carta stampata, perché abbiamo il debito pubblico e il risparmio privato più alto d'Europa, l'idea che abbiamo un debito perché siamo in credito, Matteo Salvini e la sua Bestia da propaganda, i no vax, i no Tav, i no Tap, i sì Putin, Mani pulite, gli antieuropeisti, i terrapiattisti, le vie di Roma e la spazzatura, la burocrazia, gli amici Viktor Orbán e Donald Trump, la faciloneria della complessità, i portoghesi sugli autobus, i piagnoni e gli indignati, le schiene dritte e le pance piene: finalmente tutto perfettamente chiaro.

Quando avevano cinque anni, per tenere desta la loro attenzione mentre gli insegnavo l'alfabeto, facevo scrivere ai miei figli cacca e pipì eccetera. Si divertivano come matti, a scrivere cacca. E io, scemo, pensavo funzionasse solo coi bambini.

Simona Marchetti per corriere.it il 23 maggio 2022.

La sua intenzione era quella di denunciare su Twitter la disavventura che le è capitata con il venditore ambulante dal quale aveva appena comprato delle rose e che invece l’ha derubata, mettendole le mani nella borsa. Ma alla fine è stata Rita Dalla Chiesa a doversi difendere dalle critiche social, perché molti follower non le hanno perdonato che abbia comprato da un abusivo, anziché «da un fioraio che paga le tasse», come le hanno scritto molti utenti. 

Breve riepilogo: sabato scorso la conduttrice televisiva è andata al cimitero per pregare sulla tomba dell’amata cognata Emilia Castelli (moglie del fratello Nando Dalla Chiesa), morta il 20 maggio di un anno fa. Lungo il tragitto si è fermata in un bar, dove è stata avvicinata da un venditore ambulante che vendeva rose e ha così deciso di acquistarne alcune, rimettendoci però tutti i soldi che aveva nella borsa.

La tecnica del ladro

«Grazie al venditore ambulante di rose che oggi, mentre gliene compravo alcune da portare davanti alla lapide di mia cognata, ha messo le mani nella mia borsa, facendo finta di mettermene una in regalo, e mi ha rubato tutti i soldi… Non aggiungo altro», ha scritto infatti la Dalla Chiesa in un tweet. In poche ore il messaggio ha ottenuto centinaia di risposte e accanto a chi si è dichiarato solidale con l’ex padrona di casa di «Forum», raccontando disavventure analoghe con la stessa tecnica, c’era però anche chi l’ha ripresa apertamente per la decisione di non comprare i fiori in un vero negozio.

Le polemiche

«La prossima volta vada in un negozio. Ho sentito dire che lì fanno lo scontrino e pagano le tasse…», ha commentato infatti un utente. «Ma io dico acquistare da un fioraio che paga le tasse no? Perché alimentare il mercato degli abusivi?», gli ha fatto eco un secondo. «Però cara Rita sarebbe meglio comprare da negozianti in terribile crisi. Tra l'altro si eviterebbe di incentivare questi “mestieranti” a vendere rubando!», ha scritto un terzo. 

«Un modo per aiutarlo»

Inizialmente la Dalla Chiesa ha provato a difendersi («era passato tra i tavolini del bar con le roselline in mano. Un modo per aiutarlo»), ma quando ha capito che la storia del furto le si stava ritorcendo contro come un boomerang e che c’era persino chi sosteneva che fosse tutta un’invenzione «costruita per alimentare il solito populismo ridicolo», la conduttrice ha chiuso la questione una volta per tutte. «Quelli che vendono rose al ristorante non fanno gli scontrini. Io ero seduta a prendere un caffè ed è passato uno di questi che vende le rose per strada…Li ho sempre aiutati e lui mi ha fregata. I commenti sono del tutto inutili. Non mi toccano».

Come saremo ricordati. Il libro con la copertina meno instagrammabile del mondo racconta i social meglio di tutti. Guia Soncini su l'Inkiesta il 5 maggio 2022.

Con il suo “Lì dentro” (Feltrinelli), FIlippo Ceccarelli si dimostra uomo di altri tempi: parla dei vizi della rete con la giusta distanza, sa che non è un posto normale e accetta di non lamentarsi con l’editore per le illustrazioni poco TikTok-friendly.

I muri di Bologna sono pieni di scritte. Una, in una via citata in una canzone di Guccini, dice: Francesco Guccini capo della jihad. La prima cosa cui pensi è: Ugo Tognazzi capo delle BR. La seconda cosa cui pensi è: in questo secolo non si potrebbe mai.

Per fortuna Francesco Guccini non è un uomo di questo secolo, per fortuna non sta sui social, per fortuna non è preda di quella nevrosi collettiva che è il continuo limare la propria immagine sull’internet, per fortuna non è un cinquantenne d’oggi cui urge precisare che lui mica è il capo della jihad, magari con faccetta sorridente che faccia capire che sì, lo sa che è una battuta, ma è comunque meglio puntualizzare.

Per fortuna Filippo Ceccarelli non è un uomo di questo secolo, perché per quanto io non ami il formato del marziano a Roma – il giornalista che ha sempre scritto di calcio alle sfilate, il calciatore che non ha mai detto una frase di senso compiuto a Sanremo – l’internet temo la possano raccontare solo quelli che sanno che non è normale.

Che non è normale vivere tutto il giorno davanti a uno specchio che poi è un proiettore che poi è un maxischermo in piazza che poi è il corso del paese con le vecchie sedute che ti guardano passeggiare che poi è la pretesa d’essere continuamente arguti continuamente fotogenici continuamente spiritosi e sulla notizia e empatici e informati e insomma neanche Orson Welles avrebbe retto un simile format; e Orson Welles era tipo il più figo mai passato su questo pianeta, figuriamoci noialtri disgraziati che ci facciamo gli autoscatti guardando un punto imprecisato all’orizzonte, noialtri disgraziati che vogliamo dire la nostra sulla guerra e sulla ricetta della carbonara, noialtri, disgraziati.

O, come suggerisce la moglie di Ceccarelli sbirciando un video natalizio di Salvini, poveracci. «Poveracci i politici di questo tempo che ogni santo giorno devono inventarsene una o due. Poveracci, spiantati e obbligati a improvvisare siparietti d’intimità. Poveracci, che in ogni momento si vedono costretti a darsi in pasto a una folla internautica di cui credono di indovinare le fatiche, i desideri, le frustrazioni, i malumori, i fiotti di rabbia o gli spasmi di forzata indifferenza».

Adesso pare incredibile, ma a noi gente non di questo secolo è sembrato, a un certo punto, che il luogo in cui tutto si mescolava, si confondeva, si contaminava in modi che sembravano una buona notizia solo a certi pervertiti del Dams, che quel luogo fosse la tv. Oggi, che l’umanità si fa un’opinione sul mondo scorrendo i meme sul cellulare mentre è al gabinetto, oggi quelli che s’indignano per la superficialità dei talk-show, luoghi dove si arrivano persino a pronunciare frasi di senso compiuto di più di trenta secondi, oggi quelli lì fanno tenerezzissima: sono i naturali eredi di chi credeva che la corruzione dell’animo e dell’intelletto sarebbe venuta dai romanzi. Oggi, che Carolina Invernizio sembra Simone Weil, in confronto ai nostri coevi.

Quando eravamo insofferenti nei confronti della scemenza televisiva, ci siamo tutti prima o poi trovati in un’assemblea di condominio, in una riunione di genitori, in una sala d’attesa d’ospedale in cui qualcuno (non noi, mai noi, noi siamo sempre gli intelligentissimi che riferiscono la scemenza altrui) ha detto non «chiamiamo l’avvocato» o «chiamiamo la polizia», ma la frase che ci sembrava la fine della civiltà: chiamiamo Striscia la notizia.

Il rappresentante del presente che Ceccarelli sceglie per orientarsi nel mondo dei reel e delle gif, dei fenomeni da baraccone di cui parliamo come fossero il tema più importante che c’è per qualche giorno e poi dimentichiamo in misura altrettanto assoluta (avevo rimosso Angela da Mondello, finché non l’ho ritrovata nel catalogo ceccarelliano), l’uomo di questo secolo si chiama Giacomo Ceccarelli ed è suo figlio, così pittato dal padre: «Annoiato o indifferente quando gli parlo di Craxi o Andreotti, si riscuote al ricordo dell’epica zuffa Zequila-Pappalardo» (Giacomo ha 35 anni: i primi reality sono stati il Vermicino della sua generazione, la scoperta che non esisteva l’intrasmettibile; io ne ho cinquanta: i primi reality sono stati il mio picco culturale da spettatrice, da lì tutta discesa).

Giacomo vive a Milano, e a un certo punto non riesce a fare il richiamo del vaccino, causa disorganizzazione. Il padre e la madre, che non sono gente di questo secolo, suggeriscono di far uscire un pezzettino nella cronaca locale (i giornali, ve li ricordate i giornali?).

Giacomo, che è diventato adulto in questo secolo, dice di no, ma non aggiunge «semmai chiamo Striscia». Aggiunge che semmai scriverà lui a una di quelle che hanno tanti cuoricini su Instagram, tanti follower su Facebook, tanta capacità di fomentare indignazione, e a cascata hanno anche posti nella tv e nei giornali, naturalmente, che ormai sono macerie del muro di Berlino che vanno disperatamente a rimorchio della modernità, terrorizzate di sembrare non abbastanza di questo secolo, di perdersi i cuoricini. Una volta c’erano le inchieste, adesso ci sono quelli che leggono tutti i messaggi che arrivano dai follower, e tra tante migliaia c’è sempre una notizia, uno spunto, un guarda-che-schifo che valga la pena sfruttare. Una volta c’era il Gabibbo, ora ci sono gli influencer.

Il viaggio di Filippo Ceccarelli dentro a Instagram s’intitola “Lì dentro – Gli italiani nei social”, lo pubblica Feltrinelli, e l’oggetto-libro è un’altra vittima della lotta tra il Novecento e il presente, ma anche tra Feltrinelli e sé stessa, giocando la casa editrice in un campionato tutto suo per le copertine di libri più brutte che si riescano a immaginare.

Mesi fa è stato interessante osservare il caso Hanya Yanagihara. Il nuovo libro della scrittrice hawaiana, pubblicato da Feltrinelli, caso editoriale e probabilmente rilevante investimento, dopo un quarto d’ora dall’uscita era già dimenticato dai lettori italiani in favore del precedente, pubblicato da Sellerio, uscito cinque anni e mezzo fa. Nel solo 2022, la Yanagihara nuova, quella di Feltrinelli, ha venduto meno della metà di quella vecchia: quando crei quella che su Instagram si chiama brand awareness, cioè rendi noto al grande pubblico il nome d’un’autrice, poi il grande pubblico corre a comprarsi il suo oggetto più fotogenico, ovvero il libro con la copertina più instagrammabile.

C’è una lunga lista di fantasiose ragioni che noialtri autori troviamo per non assumerci la responsabilità di non essere tutti Elena Ferrante né Erin Doom (due interessanti fenomeni di rinuncia all’immagine pubblica, il secondo mantenendo intatte le dinamiche social: Doom si differenzia da Ferrante perché riposta i libri con le pecette colorate che le sue lettrici mettono su TikTok), e la copertina non instagrammabile è quella meno consunta.

Ceccarelli non ne avrà bisogno, perché “Lì dentro” diventerà, come tutti i suoi libri, oggetto di studio per quando dopodomani non ci ricorderemo l’Italia dell’altroieri: bisogna avercelo in casa per poterlo consultare quando dovremo ricostruire come eravamo. Se però volesse lamentarsi con l’editore delle vendite (la cosa che più amiamo fare tutti, venduti e invenduti), consiglio all’autore di dare la colpa alle illustrazioni di copertina: troppo confuse, non si vedono bene le pecette su TikTok.

Non lo farà, ma nel caso questa scusa non farebbe di lui l’autore più ridicolo in circolazione: ci sono persino scrittori che dicono serissimi che i loro libri non si vendono perché c’è la guerra, e il pubblico preferisce instagrammarsi coi libri a tema. Ah, se solo avessimo tutti pensato prima a intitolare le nostre stronzate “Stalingrado”.

Michele Serra per “la Repubblica” il 29 aprile 2022.

Tentare un grande ritratto, anzi autoritratto degli italiani attraverso Instagram, che dei social è il più espressivo, il più pittorico. Farlo nella maniera più compromettente, immergendosi per un paio d'anni in quella folla enorme e chiassosa con curiosità totale e zero remore culturali o anagrafiche. 

Accumulare appunti con passione enciclopedica. Restituire il tutto in un libro poderoso, densissimo, esilarante e insieme compassionevole, una specie di monumento di carta dedicato all'infosfera digitale che della carta non sa che farsene, perché «là dentro tutto evapora», tutto dura niente, mentre ogni libro di carta, al contrario, trattiene, imprigiona, consegna alla memoria.

L'impresa non poteva essere tentata che da Filippo Ceccarelli, il più curioso e il più metodico dei giornalisti italiani, raccoglitore seriale di parole, tracce, posture sociali, facce. Un archivista accanito che decide di addentrarsi in un mondo in cui «non è consentita alcuna forma di archivio», la giungla social che non tiene conto di passato e futuro e scintilla di solo presente: a partire dal nome è una somma di soli istanti (Instagram). 

E tenta di trovare un significato, perfino una direzione in quei materiali scomposti e volatili.

Come ogni bravo esploratore, Ceccarelli è partito per la sua spedizione, così spaesante, dandosi un obiettivo «scientifico» che lo aiutasse a non smarrirsi: verificare quanto, negli italiani di Instagram, sia precedente ai social, una identità nazionale profonda e immutabile che il mezzo ha solo portato in piena luce, spietatamente; e quanto pesi invece la famosa «mutazione antropologica», così vorticosamente accelerata nei tempi e nei modi da quando Pasolini forgiò il concetto.

Non essendo un thriller, si può tranquillamente anticipare l'esito: gli italiani di Instagram, secondo l'autore, sono gli italiani di sempre, anche se la vecchia «magnata» che esorcizza la fame adesso si chiama mukbang, anche se a comperare la casa alla mamma che fa le pulizie nelle case dei signori non è il bravo figliolo, ma il «diavolaccio trapper» apparentemente feroce. 

Detto questo, però, del libro non si è detto quasi niente. Perché è il viaggio in sé che merita la lettura (non tutto in una volta, si rischia di soccombere alla quantità e di perdere la qualità), grazie a una capacità di osservazione, di catalogazione e di analisi che fa di Lì dentro. Gli italiani nei social un compendio formidabile di ciò che siamo, o meglio diciamo di essere, nella nostra vetrinetta sul web.

Certo «il miraggio di essere il creatore di se stesso» - come Instagram promette e consente - ha un suo peso: dilata il narcisismo e la vanità, annulla le sfumature e le penombre, esalta quella «oscenità del troppo visibile» così ben definita da Jean Baudrillard (che, come le tante citazioni colte di questo libro, è così pertinente da non sembrare mai messa in pagina solo per sfoggio).

Ma la capacità di Ceccarelli è attribuire quasi ad ogni quisquilia, sbracatura, orrore, una sorta di radice nazionale, trovandone le tracce (da bravo archivista) in precedenti parole analogiche, e fatti di cronaca, e testimonianze scritte. Così la volgarità indicibile, l'ingordigia ostentata, l'astio sbracato, risultano già ben sedimentati nella nostra storia sociale, nel nostro costume e nelle precedenti generazioni, tanto quanto i buoni sentimenti e addirittura certe accensioni spirituali.

E il truce sfoggio gastronomico del vice-influencer che si ingozza di porcherie rimanda all'Alberto Sordi dell'Americano a Roma , in visibilio davanti alla sua cofana di pasta. Così rispettoso dei suoi reperti social, e direi così affettuoso nei confronti dei suoi autori, Ceccarelli riesce però - non so quanto coscientemente - a darci la misura della vera grande differenza tra il "prima" e il "dopo" mano a mano che fornisce al lettore, pagina dopo pagina, l'ascissa mancante: il tempo che passa, e passa comunque, e passa per tutti.

Lo fa con un espediente narrativo semplice e, se posso dire, emozionante. Nel viaggio lo accompagnano passo dopo passo il figlio Giacomo, in vigile presenza (ha il compito di evitare al papà neofita gli abbagli e le sbornie da full immersion in un mondo a lui sconosciuto) e il padre Luigi, che non c'è più ma gravita ovunque.

Da lui Filippo ha ereditato l'inesausta curiosità verso gli umani, nonché la vocazione all'accumulo di carte, memorie, parole d'epoca. Nell'ultimo capitolo del libro, come un vero e proprio colpo di scena, riemergono, da un baule dimenticato, faldoni e carteggi del padre. Con parecchie risonanze con l'oggi.

La cognizione del tempo, dunque, è il "di più" (un decisivo "di più") che questo libro suggerisce, sia pure con ammirevole pudore, al lettore travolto dalle risate ed estenuato dall'orrore. Conta relativamente sapere se i social abbiano reso gli italiani più o meno mascalzoni, più o meno fantasiosi, più o meno simpatici. La vera domanda è se si possa vivere di solo presente, e se la fine della memoria non sia anche la fine della cultura come l'abbiamo sempre conosciuta: un procedere, non uno stagnare. Un ragionare, non un contemplarsi.

L’ultima moda dei social? I commenti alla Tv. Il fenomeno dei commentatori di eventi sportivi, serie tv, reality sta crescendo in modo esponenziale sul web, soprattutto su Twitch. MARK PERNA su Vanity Fair il 17 aprile 2022.  

Italiani popolo di santi, poeti, navigatori e commentatori TV, sul web. Un fenomeno curioso e in ascesa quello dei content creator che usano le piattaforme social per commentare in diretta i grandi eventi televisivi come il Festival di Saneremo, le partite di calcio, ma anche le serie TV e i reality più popolari.

Tutto succede online, in tempo reale, mentre sullo schermo principale passano le immagini dei programmi trasmessi dalle emittenti. Gli spettatori in rete si divertono a commentare gli abiti delle star, i gol sbagliati, le batture felici e infelici negli show televisivi. Ovviamente a capitanare questo gossip collettivo ci sono dei maestri di cerimonia che scaldano la platea, personaggi che grazie a questo tipo di format stanno avendo molto successo sui social.

È soprattutto Twitch la piattaforma che sembra avere accolto con maggiore entusiasmo la nuova generazione di commentatori, d’altra parte proprio il social di Amazon è nato per lo streaming in diretta e quindi ha nel suo DNA tutti gli elementi per gestire al meglio l’interazione tra audience e contenuti. 

«Il successo dei nostri streamer e di Twitch dipende dalla community, che si riunisce per creare intrattenimento in live, condividendo le proprie passioni», ci dice Pontus Eskilsson, Vice Presidente Partnerships, EMEA di Twitch. «I creator scelgono di usare Twitch perché il servizio offre l’opportunità di interagire con il proprio pubblico secondo modalità uniche, e per gli spettatori è possibile partecipare attivamente al contenuto che scelgono di guardare, in un modo che per la televisione non è sostenibile, formando nuovi legami sociali lungo il percorso». 

ANNUNCIO PUBBLICITARIO

I canali di successo su Twitch sono molti, tra gli antesignani c’è anche quello di Christian Vieri, l’ex calciatore della nazionale che ha lanciato il suo format BoboTV dove con un gruppo di amici tra cui Nicola Ventola, Lele Adani e Antonio Cassano si divertono a parlare di calcio e non solo. Proprio Bobo Vieri è riuscito a far sbarcare su Twitch addirittura i commentatori della TV per eccellenza: la Gialappa’s Band.

«Durante la pandemia abbiamo scoperto Twitch, grazie alla BoboTV di Christian Vieri, che dà spazio alla possibilità di trasmettere in diretta» ci dice Marco Santin della Gialappas’ Band. «Nonostante la maggior parte degli streamer si occupasse di videogiochi, abbiamo capito subito che sarebbe stato perfetto per commentare i campionati europei. Ci siamo fatti aiutare dai ragazzi che lavoravano al canale Twitch di RDS next, che ci hanno dato una mano facendoci entrare un po’ di più nei meccanismi delle chat e delle sub, e siamo partiti. L’idea è piaciuta, abbiamo riscontrato un ottimo seguito di pubblico, e così abbiamo deciso di ripetere l’esperienza con il Festival di Sanremo».

Ovviamente il segreto del successo di chi si appresta a commentare gli eventi televisivi è un sapiente mix di simpatica, ironia e la capacità di animare gli utenti collegati. Un ruolo fondamentale ce l’ha proprio la community che è non solo parte integrante dello streaming ma anche l’elemento che fa la differenza. Più i follower sono dinamici e vitali più la diretta diventa un divertimento collettivo.

«Il formato unico del live streaming sperimentato da Twitch ha fatto nascere una nuova generazione di intrattenitori nel campo gaming, dello sport e oltre. In Italia, creator come Kurolily e Ckibe hanno costruito grandi community di spettatori intorno al gaming e ai contenuti artistici, cose prima impossibili da trovare sulla televisione classica. Ma questi stessi fattori hanno portato grandi protagonisti della TV e della radio su Twitch come la Gialappa’s Band. Anche Fabrizio Romano, giornalista calcistico di fama mondiale e con un gran seguito su Twitter e Instagram, ha aperto il suo canale Twitch il primo luglio 2021, commentando le notizie di calcio provenienti dal mondo in live per la sua community» ci dice ancora Pontus Eskilsson. 

Per sperimentare il mondo delle dirette, magari iniziando a coinvolgere prima gli amici, i passi per aprire un canale Twitch sono elementari. Come per tutti gli altri social basta iscriversi sulla piattaforma, munirsi di una webcam e di un microfono e iniziare a raccontare le proprie passioni anche quelle legate alla TV, dalle serie più amate ai contenuti di nicchia. Per avere qualche suggerimento e idea ecco qualche canale da sbirciare: Space Valley, Himorta, Ivan Griego, Canesecco, BryanBox, gli Autogol.  

Sparlare dei capi su whatsapp non può costare il lavoro. Parola di Cassazione. Il Dubbio il 12 aprile 2022. Per la Corte i giudizi e le critiche espresse in chat private tra i lavoratori non può comportare il loro licenziamento. Ecco la sentenza.

Parlar male del capo su Whatsapp, in una conversazione in chat del tutto estranea all’ambiente di lavoro, non può avere come conseguenza il licenziamento: un comportamento di questo genere, infatti, «non ha rilievo disciplinare». Lo ha sancito la Cassazione, con una sentenza depositata oggi dalla sezione lavoro.

Al centro della controversia, il licenziamento «per giusta causa» intimato nel 2017 al dipendente di una società: tre le contestazioni che l’azienda aveva mosso al lavoratore, tra cui quella di aver, in una conversazione via chat Whatsapp, con una ex collega, «criticato e denigrato i responsabili dell’impresa». In primo grado, il tribunale di Udine aveva dichiarato illegittimo il licenziamento «per difetto di giusta causa». La Corte d’appello di Trieste aveva poi ritenuto, in particolare, che la conversazione via chat «non avesse alcun rilievo disciplinare», mentre aveva accolto parzialmente il ricorso dell’azienda, accertando il «minimo rilievo» delle altre due contestazioni e dichiarando risolto il rapporto di lavoro con la condanna della società a pagare un’indennità risarcitoria al lavoratore.

Contro il verdetto dei giudici d’appello, sia l’azienda che il lavoratore avevano presentato ricorso in Cassazione: la Suprema Corte, dunque, ha rigettato quello della società datrice di lavoro, osservando che le dichiarazioni contestate erano state pronunciate «nell’ambito di una conversazione extralavorativa e del tutto privata senza alcun contatto con altri colleghi di lavoro», per cui erano «circoscritte ad un ambito totalmente estraneo all’ambiente di lavoro».

Nè, si legge nella sentenza odierna, «si può sostenere che, per il mezzo con il quale erano state veicolate (una conversazione privata su Whatsapp, applicazione che consente lo scambio di messaggi e chiamate telefoniche), la condotta era potenzialmente lesiva: premesso che non integra una condotta in sé idonea a violare i doveri di correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto l’aver espresso, in una conversazione privata e tra privati, giudizi e valutazioni, seppure di contenuto discutibile, ove, come nel caso in esame, sia stato escluso in fatto che tali dichiarazioni fossero anche solo ipoteticamente finalizzate a una ulteriore diffusione – scrivono i giudici del Palazzaccio – resta irrilevante lo strumento di diffusione utilizzato». La Cassazione, invece, ha accolto il ricorso del dipendente inerente le altre due contestazioni, e disposto, sul punto, un processo d’appello-bis davanti ai giudici triestini.

Il castello di carte. Report Rai PUNTATA DEL 11/04/2022 di Lucina Paternesi 

L'algoritmo conosce i nostri gusti e sa sempre cosa proporci, è questo il segreto di Netflix.

Sono più di 24 milioni gli italiani che si collegano a internet e utilizzano applicazioni on demand, quasi il 50% in più rispetto a un anno fa. Maratone televisive, film, serie tv da divorare tutte d’un fiato:l’obiettivo è non spegnere mai la televisione. L'algoritmo conosce i nostri gusti e sa sempre cosa proporci, è questo il segreto di Netflix. Oggi la piattaforma californiana sforna un successo dietro l'altro: prima di diventare il leader della resistenza contro i carri armati russi, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelenskyj era stato consacrato proprio da una serie trasmessa da Netflix, interpretando un insegnante che si ritrova inaspettatamente a guidare la nazione. Crescono gli utenti e aumentano gli incassi, ma dove vanno a finire i soldi degli abbonati italiani?

IL CASTELLO DI CARTE di Lucina Paternesi

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Oggi sono più di 24 milioni gli italiani che si collegano ad internet e utilizzano applicazioni on demand, quasi il 50% in più rispetto a un anno fa.

SIMON MURRAY – ANALISTA DIGITAL TV RESEARCH Solitamente le persone modificano le proprie abitudini lentamente, il Covid ha accelerato tutto. Eravamo tutti chiusi in casa, senza poter uscire. Chi non ha fatto una maratona su Netflix? Si spiega così il successo planetario di una serie come Squid Game.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Produzioni milionarie, film, serie tv da divorare episodio dopo episodio. L’obiettivo di Netflix è che l’utente non spenga mai la tv.

GINA KEATING – AUTRICE “NETFLIXED” L’algoritmo di Netflix, Cinematch, è stato fondamentale per il suo successo. Si ispira al tipico commesso di Blockbuster, che ti consigliava il film successivo quando ne riconsegnavi uno.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Autrice di un libro e di un documentario, Gina Keating ha studiato i segreti di Netflix sin dal principio, prima di rifugiarsi nel suo ranch in Texas.

GINA KEATING - AUTRICE “NETFLIXED” Hanno iniziato con il noleggio dei dvd per posta. Poi hanno capito che, se volevano far fuori la concorrenza, dovevano diversificarsi. Così è nato il concetto di abbonamento e la possibilità di fare tutto online è stata la ciliegina sulla torta.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Con più di 200 milioni di abbonati nel mondo, oggi Netflix è il colosso dello streaming, con un fatturato di oltre 7 miliardi di dollari a trimestre nel 2021.

GINA KEATING - AUTRICE “NETFLIXED” Netflix conosce i gusti precisi del pubblico da più di vent’anni e queste informazioni servono per capire in quali produzioni investire e come evitare che si disdica l’abbonamento. LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Un algoritmo intelligente e la possibilità di seguire l’evoluzione del gusto e delle abitudini degli spettatori. Lui sa tutto di noi, noi invece non siamo in grado di sapere quali informazioni sono in possesso di Netflix.

GINA KEATING - AUTRICE “NETFLIXED” Non sappiamo quali siano gli show più visti, da dove vengano i suoi abbonati e quanto tempo restino davanti allo schermo. La mancanza di trasparenza e l’attenzione alla riservatezza sono parte integrante del modello di business.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, tra i dati riservati ci sono quelli con cui funziona il suo algoritmo che, dobbiamo ammettere, funziona bene visto che sforna in continuità serie di successo. Buonasera, tra le tante c’è stata sicuramente la serie che ha lanciato l’attore comico Zelensky, diventato poi presidente dell’Ucraina e icona della resistenza nel mondo. Ora, dato per assodato che ha un grande fiuto per gli affari, Netflix, la domanda è: ma quante tasse paga in Italia? La domanda viene spontanea perché ad un certo punto abbiamo scoperto che nel 2019 ha pagato 4mila euro di tasse, meno cioè della nostra Lucina Paternesi.

SIMON MURRAY – ANALISTA DIGITAL TV RESEARCH Amazon Prime conta due milioni di iscritti, Disney 2,5, Netflix più di cinque milioni e arriverà a sette nel giro d’un paio d’anni.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Nel futuro di Netflix non c’è solo un aumento degli abbonati, ma anche quello degli introiti da abbonamento, il cui prezzo è cresciuto fino al 12% da ottobre scorso. Ma dove finiscono i soldi degli abbonati italiani? Gli analisti di TaxWatch Uk hanno analizzato la struttura della società e hanno scoperto che Netflix sposta i profitti nei paesi dove si pagano meno tasse.

TOMMASO FACCIO - DOCENTE DIRITTO TRIBUTARIO NOTTINGHAM BUSINESS SCHOOL Queste sono grandi aziende americane, hanno sviluppato la proprietà intellettuale in America e poi l’hanno data in concessione a paradisi fiscali in cui hanno fatturato le proprie vendite ai consumatori in Italia ma anche nel resto d’Europa. E questo permette loro di evitare quella che si chiama la stabile organizzazione, per cui si debba pagar le tasse anche in Italia.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Nonostante Netflix abbia sedi nei vari paesi europei, le vendite vengono fatturate da una società offshore con sede in Olanda che acquista servizi a un margine basso, così i profitti si riducono e le tasse da pagare sono bassissime.

LUCINA PATERNESI Nel 2019 hanno pagato 4 mila euro di imposte. Cioè Netflix, nel 2019, ha pagato 4mila euro di tasse.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Eh eh eh eh, sì.

LUCINA PATERNESI Lo sa quante ne ho pagate io nel 2019?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Eh eh eh.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Se non c’è la stabile organizzazione, con una sede fissa e impiegati, un’azienda estera può non pagare le tasse nel territorio dove esercita i suoi affari. Per fare chiarezza, la procura di Milano nel 2019 ha aperto un’inchiesta su Netflix.

LUCINA PATERNESI Qual è la struttura del gruppo?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO La capogruppo opera in California ma la sede legale e fiscale è nel Delaware, quindi cerca di non pagare imposte. Ci sono diverse società olandesi che alla fine, tramite un’altra catena, controllano anche Netflix Italia. Ecco, questa è la struttura, semplice ma totalmente offshore.

LUCINA PATERNESI Che tipo di rapporto c’è tra la società olandese e quella italiana?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO È socia al 100%, quindi la controlla interamente. Non possiamo sapere se ci sono rapporti economici o finanziari perché il bilancio della società italiana è un bilancio micro, non di valori ma di informazioni.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Nell’ultimo bilancio depositato, relativo al 2020, i ricavi dichiarati in Italia sono solo 19 milioni di euro. E Netflix ha pagato tasse per 400 mila euro, ma con quanti abbonati? Secondo le stime degli analisti circa quattro milioni: in base a questi numeri avrebbe dovuto dichiarare ricavi per oltre 450 milioni. Dove finiscono questi soldi se non sono nei bilanci?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO No, ma non vanno in Italia questi soldi, vanno in qualche società estera del gruppo.

LUCINA PATERNESI Quindi possiamo ipotizzare che vadano in Olanda.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO In Italia i ricavi sono 19 milioni, quindi sono assolutamente incompatibili con questo numero di abbonati paganti.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Secondo la società inglese Digital Tv Research, nel 2021 gli utenti abbonati a Netflix in Italia sono 5 milioni. Se in media un abbonamento costa 10 euro al mese, oggi i ricavi in Italia possono essere stimati in circa 600 milioni l’anno.

LUCINA PATERNESI Quanto dovrebbe pagare allora Netflix di tasse in Italia?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO Il consolidato mondiale di Netflix genera un 13% di utile sui ricavi. Se noi applichiamo la stessa struttura americana a una società italiana, con 600 milioni di ricavi dovremmo avere un utile di

LUCINA PATERNESI 78 milioni.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI ANTIRICICLAGGIO 78-80 milioni. Il che vuol dire che il nostro erario potrebbe incassare una ventina di milioni di euro ogni anno.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Con la direttiva europea Smav, dal 2022 Netflix deve fatturare in Italia in base ai ricavi maturati nel nostro paese.

VINCENZO MARIA VITA - SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER LE COMUNICAZIONI (1996-2001) Ora si sostiene invece che tutto ciò che viene trasmesso appartiene alla giurisdizione del paese in cui questo prodotto è trasmesso. Quindi questo vale per la tassazione ma riguarda anche l’obbligo di investimento in film, audiovisivi e produzioni italiane e europee.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Cioè l’obbligo di investire nel prossimo triennio tra il 17% e il 20% degli introiti netti per sostenere l’industria del cinema. Nella bozza precedente l’approvazione il contributo era più alto: il 25%. Come mai è stato abbassato?

VINCENZO MARIA VITA - SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER LE COMUNICAZIONI (1996-2001) Netflix ha protestato, ha preso paginate a pagamento sui quotidiani. Bene: alla fine ha parzialmente raggiunto uno scopo, cioè di ridurre al 20%.

LUCINA PATERNESI Ma come ha fatto a vincere questa battaglia?

VINCENZO MARIA VITA - SOTTOSEGRETARIO DI STATO PER LE COMUNICAZIONI (1996-2001) Netflix ha utilizzato modalità lobbistiche che mi hanno ricordato da vicino, e lo posso dire di fronte a qualsiasi plotone di esecuzione, il lobbismo di Fininvest Mediaset ai tempi aurei di Rete 4 sul satellite che poi non ci andò mai.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, per quello che riguarda invece i ricavi provenienti dagli abbonamenti italiani dal 2022 dovrà insomma dovrà occuparsene la società italiana Netflix Services Italy. Per quello che riguarda invece il periodo 2015 – 2019, dopo delle indagini della Guardia di Finanza e un conseguente verbale dell’Agenzia delle Entrate, Netflix ha aderito al pagamento di 60 milioni di euro. Questo, in sostanza, gli ha consentito di evitare l’accertamento e anche di pagare meno sanzioni. Per quello che riguarda invece le tasse pagate nel 2019, cioè i 4 mila euro e i 400 mila euro del 2020, Netflix ci ha scritto che l’imposta che è stata versata rifletteva le funzioni e i rischi connessi alle attività svolte dalla società italiana stessa, che si trovava in una fase di start up. Ecco, resta un’ombra, invece, sul numero effettivo degli abbonamenti italiani: avevamo chiesto a Netflix, ci ha fornito dei dati non recenti, risalenti all’ottobre del 2021, e là c’è scritto 4 milioni di abbonati. Una cifra che, però, non torna alle società inglesi di analisi di mercato che stimano invece gli abbonati italiani in cinque milioni. Chi ha ragione? Lo vedremo.

Che ci faccio qui? Confessioni di una dipendente da imbecilli su Instagram. Guia Soncini su L'Inkiesta il 6 Aprile 2022.

Prima o poi arriverà il momento in cui non guarderò le storie di quindici secondi, ma nonostante lo Xanax mi sa che non smetterò.

Sono la peggior paziente che possiate immaginare: sempre convinta di saperne più del medico, sempre zelante nel prescrivermi da sola medicinali, sempre scettica delle diagnosi, sempre convinta che morirò nella notte.

Sono la peggior casalinga che possiate immaginare: sono capace di rimandare anni il cambio d’una lampadina fulminata, la messa in posa di mensole indispensabili a non vivere come una sfollata, l’apertura di scatoloni post-trasloco (ne ho certi, intonsi, d’un trasloco del 2007: sono certa che da lì uscirà il grande romanzo italiano, quando li aprirò – a questo punto, per il loro ventennale).

Sono la peggior insonne che possiate immaginare: convinta d’aver bisogno di nove ore di sonno e incapace di raggiungerle anche sotto morfina, sempre dedita a cercare di riaddormentarmi senza riuscirci, sempre incapace di addormentarmi se la mattina ho qualche impegno inderogabile e la paranoia di non sentire la sveglia, sempre in affettuosa compagnia della paranoia di morire d’infarto nel sonno – questo braccio indolenzito varrà un’ambulanza o continuo a cercare d’addormentarmi?

Dunque quattro giorni fa ho preso, come fosse un fatto storico, una decisione che mi rende uguale a praticamente tutte le cinquantenni che conosco (ma pure a tutte le quarantenni): avrei preso uno Xanax tutte le sere. Niente più infarti immaginari nel dormiveglia, niente più giornate passate a rimuginare che però non avevo dormito abbastanza. Mi sarei addormentata relativamente presto, e mi sarei svegliata riposata. Era un piano perfetto.

Le prime due sere ha quasi funzionato. Mi addormentavo, ma svegliandomi come sempre all’alba. Passavo le prime ore del mattino un po’ confusa ma non recedevo dal mio proposito. Certo poi tra le undici e mezzogiorno mi addormentavo come un messicano postprandiale ovunque mi trovassi, e mi svegliavo alle tre. Il che portava il totale delle ore dormite alle nove da me sempre ambite – ma non consecutive, quindi non valevano. Per non parlare della gente che m’aspettava a pranzo, e alla quale avevo dovuto impapocchiare scuse di lunghe riunioni a telefono spento, neanche avessi un lavoro vero.

La terza sera, però, lo Xanax ha fatto quello che sempre fa lo Xanax quando ne prendo più di uno a semestre e scema l’effetto novità: non mi è venuto sonno. Non volevo fare niente d’impegnativo, quindi mi sono messa a giocare ai pallini. Ma ho finito presto le vite (quel che non t’addormenta, ti rende pippa a giocare ai pallini). Sono passata a Instagram. Ho fatto quel che faccio la sera tardi: mi sono messa a guardare Instagram, nella versione «ma tu guarda questo imbecille». È la versione di Instagram che frequentiamo tutti (anche quelli che non lo ammettono, specialmente quelli che non lo ammettono): gli account di gente che disprezziamo, da guardare per sentirci migliori, per sentirci incompresi (perché questo cretino fattura più di me?), per sentirci grandi intellettuali (questa non sa coniugare i verbi e sarebbe una scrittrice, tzè).

Solo che il tizio che deve venire a sistemarmi le luci latita come Daniele Silvestri nella canzone. Il 23 agosto mi ha scritto «domani sono da lei», e ancora aspetto. Quindi sono rimasta, in camera da letto, con la stessa lampadina appesa con cui mi hanno consegnato la casa poco meno d’un anno fa. E naturalmente nel frattempo si è fulminata. E lui ha continuato a non venire a mettere le prese comandate, e le mie preziose luci di chissà che costosissimo designer restano negli scatoloni.

Per evitare di dover arrivare ogni sera a tentoni al letto, ho messo lì vicino una Eclisse sottratta a un’altra stanza. L’Eclisse fa l’effetto faro degli interrogatori, quindi la tengo un po’ girata. Quella sera, la terza sera dello Xanax nel giallo psicologico che non vedevate l’ora di farvi raccontare, era girata verso lo schermo dell’iPad, sul quale rimiravo la favolosa vita d’un qualsivoglia cretino. L’iPad si stava scaricando, e a un certo punto s’è spento. E lì, illuminata dall’Eclisse nello schermo spento dell’iPad, c’era la mia faccia.

La faccia di una che dice: che ci faccio qui? La faccia di una che dice: ma possibile che io non legga Musil e conosca le vite quotidiane di gente che fa marchette a servizi di sottobicchieri alternandole a frasi tantintènze di Pablo Neruda? La faccia di una che dice: con tutto quello che hanno speso per farmi studiare.

Ho finalmente capito quelli che si fanno montare uno specchio sopra al letto: non è una perversione erotica, è una consulenza per la coscienza. Se ti guardi perdere tempo in stronzate, poi un po’ ti vergogni, e pian piano magari la vergogna cresce e alla fine smetti.

Se io sapessi scrivere cose che ispirano a migliorarsi (ah, quanti soldi farei); se io sapessi trovare chiavi motivazionali alle mie disavventure (la Marie Kondo delle perdite di tempo, tipo); se io fossi abbastanza illusa da pensare che a un «ma cosa minchia sto facendo» seguissero conseguenze e azioni e cambi di paradigma, allora vi direi che alla terza sera di Xanax mi sono disintossicata da Instagram, consapevole che tanto due libri dalla scemenza delle dinamiche social li ho già ricavati e una trilogia non mi pare plausibile, e insomma va bene intrattenersi con le scemenze ma solo se le scemenze ti fanno fatturare.

Ma sono – oltre che la peggior paziente, la peggior insonne, e la peggior casalinga che conosciate – anche il peggior guru per le vostre vite minimaliste e concentrate, produttive e scevre di malumori, e quindi è inutile che ci raccontiamo stronzate: mentre leggete queste righe sarò già di nuovo lì che spollicio il touchscreen borbottando «ma guarda che imbecille». Però ogni tanto mi tornerà in mente quella mia faccia deturpata dal disgusto e dalla forza di gravità e dalle benzodiazepine, e prima o poi smetterò d’andare a cercare le storie di quindici secondi di chi nemmeno dentro al cesso possiede un suo momento. Ho i miei tempi, ma tra uno o due secoli smetto.

DALLA PIAZZA AI FALÒ DIGITALI. La fine dei social network (per come li conosciamo). ANDREA DANIELE SIGNORELLI su Il Domani il 28 marzo 2022

La crisi di Facebook e gli scricchiolii di Instagram stanno andando a tutto vantaggio di TikTok, che promuove un uso passivo e libera gli utenti da ogni pressione.

È una fuga dal “collasso dei contesti”, che sui social network più grandi ci obbliga a presentarci allo stesso modo a una platea troppo differenziata.

Le comunicazioni digitali oggi avvengono al di fuori della pubblica piazza dei social, nei gruppi privati di Whatsapp e Telegram e nei canali per appassionati di Discord.

ANDREA DANIELE SIGNORELLI. Milanese, classe 1982, giornalista. Scrive di nuove tecnologie, politica e società. Nel 2021 ha pubblicato Technosapiens, come l’essere umano si trasforma in macchina per D Editore.

Swipo dunque sono. La tecnologia ci ha trasformato in un popolo di recensori. Éric Sadin su L'Inkiesta il 29 Marzo 2022.

Dalle prime piattaforme di consigli per ristoranti e alberghi si è passati alle opinioni personali e infine ai voti. Secondo quanto spiega Éric Sadin nel suo ultimo libro (Luiss University Press) questo ha contribuito a spingere milioni di persone a sentirsi giudici degli altri, senza avere le competenze necessarie.

All’alba del nuovo millennio, un bel giorno del 2000 – alcuni mesi dopo i spettacolari fuochi d’artificio che ovunque celebrarono l’avvento di un’era radiosa fondata sulla circolazione senza freni e ininterrotta dell’informazione, delle merci e dei capitali – apparve un sito che intendeva raccogliere le valutazioni degli utenti riguardo hotel e ristoranti: si chiamava TripAdvisor. D’un tratto le esperienze soddisfacenti o, al contrario, deludenti diventavano oggetto di commenti che sarebbero poi stati letti da un gran numero di persone. Le recensioni cominciavano a diventare un’abitudine. Esse davano a chiunque la sensazione di non dover più subire passivamente le situazioni, di poter riprendere in un certo senso il controllo e instaurare un rapporto egualitario grazie all’esercizio della parola sulla piattaforma.

L’espressione della propria opinione poteva infatti consistere tanto nell’esaltazione disinteressata di un luogo, quanto in un regolamento di conti sotto forma di sfogo. È bene dunque osservare gli effetti da un punto di vista psicologico giacché tale disposizione ha dato a chiunque l’impressione di non essere più uno zimbello, di poter eventualmente denunciare mancanze e difetti di un dato esercizio pubblico sulla base di un procedimento suscettibile di rovinarne la reputazione, o, al contempo e all’inverso, di poter incoronare, ognuno nel suo piccolo, un luogo invece apprezzato partecipando così della sua buona nomea. Si capisce come fossero tutti felici di assistere all’avvento di una “democratizzazione del giudizio” e di un “potere delle masse”, destinati a smontare tutte quelle entità dotate di autorità prescrittiva, spesso giudicata prevaricatrice o lucrativa, rappresentate da guide gastronomiche o di viaggio. 

Ma questo significava guardare le cose in maniera superficiale e non rendersi conto che queste nuove abitudini avrebbero instaurato metodi di controllo inediti. Perché il sito, oltre a stilare una classifica sulla base delle recensioni, dava la possibilità di prenotare hotel e ristoranti, contribuendo così a operare una pressione diretta sui luoghi, a lasciare indietro quelli teoricamente mediocri e a privilegiare quelli in apparenza più meritevoli. Una startup a vocazione planetaria costruiva il proprio modello economico sul fatto di stringere nella propria morsa una miriade di piccole e medie imprese ponendo gli individui al centro del processo e strumentalizzandoli in modo non dichiarato, con la scusa della condivisione di informazioni utili.

Ben presto queste pratiche sono state accompagnate dalla possibilità di dare un voto. A quel punto la libera estrinsecazione della propria opinione ha preso la forma di una sentenza più o meno sbrigativa che ha rafforzato negli utenti, giudici impietosi dall’alto del loro trono, la sensazione di essere importanti. L’obiettivo consisteva nel sintetizzare senza ambiguità un apprezzamento dando ulteriore potere a quella nuova mano invisibile destinata a operare il miglior adeguamento delle cose e a stimolare – per via della fiducia indotta – il maggior numero possibile di transazioni. Questa architettura d’insieme si nutre infatti del postulato secondo cui la soggettività delle moltitudini, qualunque sia il valore dei criteri in base ai quali si determinano, hanno sempre ragione.

In pochi anni questa tendenza si è rivelata talmente fruttuosa e in linea con i tempi da essere applicata non più soltanto a luoghi e servizi, ma anche agli individui stessi. A inaugurare la novità fu la società di NCC Uber, creata nel 2009, che aveva inventato un’applicazione attraverso la quale i passeggeri, una volta terminata la corsa, erano invitati a dare un voto al conducente.

I rapporti umani, che a volte davano luogo a conversazioni conviviali, così come i brevi momenti di complicità, diventavano oggetto di una valutazione formale. Lì per lì nessuno si accorse che, per la prima volta nella storia, le relazioni interpersonali, per quanto di natura commerciale, diventavano oggetto di una valutazione sistematica. Questo metodo portò a due grandi conseguenze. La prima riguardava i consumatori, i quali non si percepivano più soltanto come dei “re”, ma anche come degli elementi in grado, con un semplice clic, di infliggere una sanzione a qualsiasi essere umano che offriva loro un servizio.

La seconda concerneva la società stessa, che, grazie a questo principio, vedeva instaurarsi nuovi metodi manageriali altamente sofisticati.

L’azienda, infatti, analizzava continuamente le valutazioni e ritirava l’accreditamento ai conducenti con un voto inferiore a 4.5, su una scala di 5, allo scopo di ottimizzare la qualità del servizio, eliminare gli elementi che non rispettavano il capitolato, aumentare gli indici di soddisfazione e, infine, generare un gran numero di operazioni.

A poco a poco, e senza che ne accorgessimo, questa pratica ha istituito un nuovo tipo di controllo sociale. Il meccanismo si è rivelato talmente efficace che, da un certo momento in poi, anche gli utenti hanno cominciato a essere sottoposti a valutazione da parte dei loro fornitori di servizio. Come se l’azienda svolgesse una missione di polizia preventiva allo scopo di ridurre i comportamenti scorretti e gli incidenti, nell’ottica dunque di una maggiore sicurezza da entrambe le parti. Ben presto l’espressione pubblica delle opinioni si è trasformata in uno strumento di pressione economica e psicologica esercitata su vari attori, compresi gli stessi clienti, che ha assunto la forma di procedimenti disciplinari in tutto e per tutto inediti, apparentemente soft, ma che favorivano il proliferare insidioso di rapporti interpersonali strettamente utilitaristici e sottoposti a valutazioni reciproche.

Con il tempo queste consuetudini si sono estese anche ad altri settori della società. Sono nate piattaforme che invitavano gli utenti a valutare il proprio panettiere, il proprio parrucchiere, il proprio calzolaio, il proprio consulente finanziario, il proprio avvocato, persino il proprio medico. Alcune avevano l’audacia – o, meglio, la tracotanza – di incitare gli studenti a dare un voto ai loro professori, procedendo così a un rovesciamento dei ruoli quanto mai eloquente che testimoniava, senza ipocrisia, lo status attribuito oggi all’individuo, la cui parola – a prescindere dal grado di competenza in merito – ha valore di verità.

Queste abitudini sono parse talmente tanto naturali che alcuni hanno addirittura reputato auspicabile offrire a tutti la possibilità di dare voti ai membri della propria cerchia di conoscenze. Tale era il progetto di Peeple, concepito nel 2015 da due donne, Julia Cordray e Nicole McCullough, che avrebbe dovuto prendere la forma di un’applicazione. L’idea era quella di classificare tutte le persone su una scala da 1 a 5 stelle e secondo tre categorie: “personale”, “professionale” e “sentimentale”.

La dimensione sensazionalista della loro impresa le obbligò spesso a spiegare le loro intenzioni: «L’app Peeple ci consente di scegliere meglio le persone che assumiamo, quelle con cui lavoriamo, con cui usciamo, quelle che diventano nostri vicini, nostri coinquilini, i professori dei nostri figli. Ci sono infinite ragioni per le quali vorremmo poter verificare le referenze di chi ci circonda». Ma vista la quantità di proteste che tale idea suscitò, i fondi furono tagliati e il progetto venne annullato.

In realtà quello che queste menti allora offuscate non avevano colto era che simili dispositivi non avrebbero fatto altro che condensare pratiche già in uso qua e là. Forse era questo l’intento ispiratore dell’episodio della serie Black Mirror intitolato Caduta libera, che metteva in scena una società in cui tutti si valutavano l’un l’altro secondo una consuetudine che rivelava gerarchie e vantaggi di ogni tipo, come anche, al contrario, handicap e vicende umilianti subite nel corso della vita quotidiana.

A ben guardare, e al di là della finzione, molti di questi procedimenti non fanno che prendere atto – quasi con rassegnazione – che i sistemi di quantificazione sono ormai ovunque, in particolare sul posto di lavoro, e che sono vissuti con una tale pressione da spingere la povera natura umana a volersi prendere una rivincita sottoponendo a sua volta le entità e gli altri alle stesse perizie. La consapevolezza degradante, e sempre più diffusa, di essere strumentalizzati genera infatti il desiderio – non dichiarato, ma appagante – di strumentalizzare a propria volta il prossimo.

Da “Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune”, di Éric Sadin (traduzione di Francesca Bononi), Luiss University Press, 2022, pagine 232, euro 22

Quando il web è "coca". Un saggio squarcia il velo sulla dipendenza da internet. Francesco Boezi il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.

Andrea Cangini alza il velo di silenzio attorno agli effetti nefasti del web (almeno del suo uso smodato). Tra ricerche e dati sconvolgenti, emerge la necessità di un cambio di passo.

Essendo parte integrante della nostra civiltà e delle nostre esistenze, forse non ci siamo mai chiesti abbastanza che effetti abbia: è il web, che è ormai un elemento imprescindibile del nostro tempo ma anche un fattore di dipendenza. Tanto da essere diventato una vera e propria "coca" per intere generazioni su cui gli effetti, proprio come nel caso di una sostanza, non fanno che palesarsi in maniera progressiva.

"Coca Web. Una generazione da salvare" è l'ultima opera del senatore Andrea Cangini, esponente di punta di Forza Italia, giornalista e già direttore del Quotidiano Nazionale e de Il Resto del Carlino. Edito da Minerva, il libro raccoglie una serie di relazioni divenute un unicum votato al Senato della Repubblica, presso la VII commissione. É più o meno noto a tutti che l'utilizzo d'internet, in specie della sua declinazione più dopaminergica, ossia i social network, non costituisca un fatto neutro. "Troppo fa male", si è sempre detto. Sì, ma quanto? E in che modo? Esistono differenze tra le generazioni che hanno assistito alla comparsa del web e quelle che invece ci sono sprofondate dentro?

Partiamo da un dato lapalissiano: chi è nato prima di questa fase della rivoluzione tecnologica presenta un quoziente intellettivo in media più alto. É tra le drammatiche conclusioni cui il testo di Cangini giunge, elencando di seguito conseguenze non solo afferenti alla sfera psichica ma anche, con altrettanta preoccupazione, a quella fisica. "Calano le facoltà mentali dei più giovani, aumenta il loro disagio psicologico. A una crescente difficoltà di concentrazione e di apprendimento si accompagnano ansia, stress, depressione, disturbi alimentari, autolesionismo, sociopatia, aggressività…", si legge nella sinossi, che si trova anche sul sito dedicato a "Coca web". 

L'equiparazione con la cocaina diventa qualcosa di più di una metafora. Poi c'è un tratto filosofico: il cellulare, con tutte le sue funzioni, ha smesso di rappresentare un mezzo ma è stato equiparato ad un fine: parte di noi stessi e dunque artefice, come altro tra ciò che ci circonda, della nostra chimica cerebrale. Gli interventi del libro scorrono e non possono che suscitare interesse: Manfred Spitzer, Lamberto Maffei, Alessandra Venturelli, Raffaele Mantegazza, Mariangela Treglia, Pier Cesare Rivoltella, Andrea Marino, Angela Biscaldi, Paolo Moderato, Annunziata Ciardi sono gli autori dei vari testi. Quelli passati pure dal vaglio del Senato.

La scuola, certo, con la sparizione degli strumenti tradizionali che hanno accompagnato l'educazione scolastica occidentale. E le matite e le penne sostituite in corsa da un numero impressionante di click, su uno schermo o su una tastiera, operati ogni giorno. Ci siamo abituati in breve tempo e non abbiamo mosso ciglio. Forse abbiamo pensato che il prezzo da pagare non fosse così alto ma non è così. Tanto che, leggendo l'opera di Cangini (la parte finale è riservata a nuove linee d'indirizzo sull'utilizzo consapevole), viene voglia di cronometrare il tempo speso dinanzi ad uno schermo. Lo stesso tempo che alimenta in noi, volenti o nolenti, una dipendenza.

Il senatore ha presentato l'opera a Bologna lo scorso 21 marzo. Al Teatro comunale, oltre al cardinal Matteo Maria Zuppi, che è anche arcivescovo del capoluogo dell'Emilia-Romagna, e a Cesare Cremonini, c'era il tutto esaurito. Segno che nell'inconscio di molti risieda la consapevolezza di un problema che fatica tuttavia ad emergere sul piano del dibattito pubblico, con tutta la sua portata antropologica.

Il prossimo appuntamento è a Roma, al Tempio di Adriano, dove il 29 marzo Cangini si confronterà con il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, con il direttore del Tg La7 Enrico Mentana e con Nunzia Ciardi, che è il vice direttore generale dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Sulle conseguenze dell'uso smodato del web, videogiochi compresi, c'è un velo di Maya: Cangini, con il suo "Coca web", l'ha squarciato.

PARTIGIANERIE ISTANTANEE E FURIBONDE. Sui social si ripete il copione del proprio schieramento. La letteratura può riconciliare. JONATHAN BAZZI, Scrittore, su Il Domani il 28 marzo 2022.

Quando la mia vita era confusa i social mi hanno dato una bella mano. Ma quando ho capito di voler scrivere narrativa mi sono accorto che l’opinionismo compulsivo tramite un nervoso attivismo digitale entrava in conflitto con il mio desiderio.

Il modo in cui oggi facciamo circolare idee e parole sui social tende a escludere l’effetto sorpresa: ognuno ripete il copione del suo schieramento. Così da diverso tempo ho cominciato a usare sempre meno i social per produrre opinioni.

Non tutto è politica, militanza: il pericolo che si nota in un dibattito culturale che procede per partigianerie istantanee e furibonde è quello dell’erosione dell’autonomia delle altre pratiche. Forse la letteratura, in questo tempo di scontri frontali e dicotomie blindate, è chiamata a tracciare piccoli tracciati possibili di riconciliazione. 

JONATHAN BAZZI, Scrittore. Ha esordito nel 2019 con Febbre (Fandango), Libro dell’Anno di Fahrenheit, Premio Bagutta Opera Prima e finalista al Premio Strega.

La realtà e l’illusione. Sui social gli amici si comportano da sconosciuti e gli sconosciuti si sentono amici. Guia Soncini su L'Inkiesta il 28 Marzo 2022.

Ilary Blasi, liquidando con un “boh” Simona Ventura che le ha dato suggerimenti su Instagram sulla presunta crisi con Totti, ha violato il patto su cui si fonda la convivenza in questo decennio: se credi di conoscermi, non è un problema mio.

Ilary Blasi e Simona Ventura si conoscono? Non è importante, e non nel senso: c’è la guerra, cosa vuoi che contino queste chiacchiere da comari. Non è importante perché l’epoca in cui viviamo ha abolito la possibilità di non conoscere qualcuno, e quindi non è colpa della signora Ventura se non riesce a distinguere tra il matrimonio della signora Blasi e quello di sua sorella. Non ci riusciamo più neanche noi.

Come sapete non essendo appena tornati da Marte, un paio di settimane fa (ma sembrano due anni) la nostra attenzione è stata per un istante attirata dalle voci d’una separazione tra Ilary Blasi e Francesco Totti. Ne hanno (ne abbiamo) scritto tutti, e Simona Ventura ha fatto ciò che fanno le celebrità quando ad altre celebrità succede qualcosa: commentare sui social.

Se andate sulla pagina Instagram del più famoso ammalato italiano di questo momento, i commenti alle foto del suo intervento, i cuoricini e i bicipiti muscolosi e i siamo con te e i sei una roccia, sono stati lasciati – a centinaia – da gente che ha i suoi recapiti. Da gente che ha preso il telefono e non ha pensato «Lo chiamo» (figuriamoci: vi ricordate di quando i telefoni si usavano per telefonare?) o «gli mando un messaggio»; o magari l’ha pensato e fatto, ma non prima di aver espresso pubblicamente la propria preoccupazione e contiguità. Se non lo fai in pubblico, non l’hai fatto. Se non sei affettuoso in pubblico, ci sarà qualcuno che s’illuderà di conoscerti e sapere che non l’hai fatto perché avete litigato, e magari ci scriverà pure un articolo.

Illuderci di conoscere gli sconosciuti è il principale utilizzo dei social. Tizio ha visto lo scorcio d’una tua colazione la mattina in cui avevi finito il caffè, e va in giro a dire che lui ti conosce benissimo: tu la mattina bevi il tè.

Gli autopercepiti intelligenti, quelli che mai crederebbero alle scie chimiche o ai microchip, passano le loro giornate come le passava mia nonna: certa di sapere cosa provasse davvero, nel profondo del suo cuoricino, la principessa Carolina nei confronti di Junot. Principessa Carolina il rapporto con la quale consisteva nel fatto che mia nonna era abbonata a Gente, e la principessa sulle pagine di Gente compariva. Gli autopercepiti intelligenti, che abbiamo pagato le tasse per far studiare (diversamente da quant’era accaduto a mia nonna), non perdono tempo con le principesse: sono convinti di conoscere la gente che seguono sui social.

E questo produce un’interessante dissonanza. Gli amici che si comportano da sconosciuti (se lasci un commento in pubblico a qualcuno, la logica dice che tu non abbia il suo numero di telefono); e gli sconosciuti che si sentono amici.

Lo so, lo so: non vi ho ancora detto di Simona Ventura e Ilary Blasi. Il lungo post della signora Ventura, datato 23 febbraio, faceva così: «Vorrei dare qualche consiglio non richiesto [faccetta ammiccante], dovuto all’esperienza».

Proseguiva con dei puntesclamativi: «La separazione è già di per sé un lutto! È dolorosissima!». «Francesco e Ilary sono due persone perbene», e «sapranno uscire da questa tempesta senza disunirsi» (era appena uscito il film di Sorrentino, e «disunirsi» veniva usato più di «resilienza»; approfitto per dire che, della scena tra Capuano e l’io narrante di Sorrentino, «non ti disunire» è di grandissima lunga il passaggio meno interessante, ma capisco che citiamo meno volentieri «ce l’hai qualcosa da dire» perché ci viene il dubbio che noi in realtà no, sebbene ieri abbiamo fatto quarantadue tweet).

Passa un mese o forse un secolo, e la vita risponde, nel senso che Ilary Blasi ieri dà un’intervista al Fatto, e in quest’intervista le dicono «Simona Ventura le ha manifestato solidarietà», e lei risponde «È vero, come se fosse la mia migliore amica, come se vivesse in casa con noi. Boh». Ilary Blasi vìola il patto su cui si fonda la convivenza comune in questo decennio: se credi di conoscermi, non è un problema mio. Se qualcuno è convinto di saperla lunga su di te e sulla tua vita, se qualcuno ostenta intimità e confidenza che non gli sono mai state accordate, se qualcuno parla con le tue foto che vede sullo schermo del telefono dicendo loro «Stai, Lucio, stai», tu non lo contraddirai pubblicamente, non lo smentirai, non gli farai fare la figura del coglione. Ne va dell’equilibrio psichico collettivo.

A volte la tentazione è irresistibile. Ieri avevo aperto su Instagram quella trappola per scemi che è il box domande, e un qualche Brocco91 è arrivato a chiedermi conto dei miei migliorati rapporti con una con cui non ha idea di che rapporti avessi e abbia (sa ciò che mette in vetrina il mio narrante sui social, e tanto gli basta a considerarsi mio confessore). Contestualmente, si è augurato che io smettessi di disprezzare due persone di cui ha ben pensato di farmi i nomi. Una non la conosco, l’altro è un mio caro amico.

Il suo saperlalunghismo è arrivato mentre scrivevo questo articolo, e mi è sembrato segno del destino: mi metto a scrivere una cosa teorica, e quella mi si concretizza prima ancora ch’io abbia finito di scrivere. Non ho resistito: ho immortalato alcune chat in cui sbeffeggiavamo il povero carneade, e le ho instagrammate. E poi ho passato il pomeriggio a pentirmi: e se si butta dalla finestra, privato com’è della certezza di conoscere non solo me ma anche i miei amici?

Di solito non lo faccio, giuro. Di solito taccio, qualunque messaggio mi venga recapitato. Tizia che non conosco – e che nessuno ch’io conosca conosce – incontra una mia amica e come prima cosa le dice di me «ti farà del male, fa così con tutti»? Non faccio piazzate, non le do della mitomane, non ritengo di dover ristabilire la verità: sarebbe come se Junot si fosse sentito in dovere di spiegare a mia nonna, orsù.

Anni fa non ce l’avrei fatta. Sono contenta che i social non siano arrivati quand’avevo trent’anni, e l’illusione di poter controllare i modi in cui venivo travisata. Sono contenta di aver fatto in tempo a capire che, se Popstar X fa gli auguri di compleanno a Divo del cinema Y sui social, non è perché quello ha cambiato numero senza avvisarlo, come crede Brocco91.

Sono contenta d’essere abbastanza vecchia da sapere che X, banalmente, ha un social media manager che gli dice che deve fare cinque storie Instagram al giorno, e il compleanno gli risolve un quinto dei problemi.

Sono contenta d’aver capito che quelli che, quando dico loro qualcosa in pubblico, mi telefonano in privato, non sono vili che non vogliono si sappia che mi rivolgono la parola. Cioè, a volte lo sono anche (lo siamo anche: siamo tutti i vili di qualcuno). Ma, soprattutto, sono persone prudenti che hanno capito che qualunque mozzicone di realtà dai in pasto all’internet, quella lo rielabora fantasiosamente. È meglio lasciarle credere che tu abbia litigato con Caia che non hai mai visto, che farle sapere che ieri sera Sempronia ha davvero cenato a casa tua.

Che tu sia Ilary Blasi o Philippe Junot o Guaia Sorcioni, quando vorrai far sapere i fatti tuoi al mondo scriverai un memoir e il mondo se l’andrà a comprare. Nel frattempo, speriamo che Brocco91 continui a credere di conoscermi: è il sedativo grazie al quale non assalta la Bastiglia.

Bruno Ruffilli per “La stampa” il 23 marzo 2022.

Tre italiani su quattro navigano sul web, secondo Audiweb, per un totale medio di 58 ore al mese. E di queste, 16 al mese sono dedicate ai social, ai quali accedono 38,5 milioni di persone ogni giorno. La ricerca commissionata da Italian Tech a SWG è al centro dello speciale Italian Tech, domani in regalo con La Stampa e Il Secolo XIX . Ma si parla anche di informazione, di grandi della tecnologia che diventano arbitri della politica, di invenzioni grandi e piccole che ci hanno cambiato la vita o che potrebbero farlo. Tutto con le splendide illustrazioni di Noma Bar.

Ognuno ha la sua specializzazione: Twitter per informarsi, TikTok per divertirsi, Instagram per osservare, Facebook per rimanere in contatto con amici e conoscenti. E LinkedIn, specie tra i più giovani, per trovare un lavoro. Tutti sono diventati più popolari con la pandemia, ma TikTok più degli altri: solo nell'ultimo anno, la piattaforma di condivisione video è cresciuta del 58 % in Italia, allargando a dismisura la sua fascia di utenti, di pari passo con l'interesse di influencer e aziende. Per i più giovani, è il social da frequentare, insieme con Instagram.

Per chi ha tra 50 e 70 anni, invece, il riferimento rimane Facebook, che è il social a tasso di crescita più basso (un rispettabile 19%, comunque). Ma i social ci hanno cambiato la vita in meglio o in peggio? Dipende anche qui dall'età: Secondo la ricerca SWG-Italian Tech il giudizio è complessivamente positivo per i nati tra gli anni '80 e gli anni 2000: il 27 per cento li considera utili, e addirittura l'11% parte della propria identità. Il dato si inverte con l'aumentare dell'età: quasi il 45 per cento dei Baby Boomer, nati tra gli anni '50 e '60, considera il rapporto con i social network superfluo o inutile.

Gli italiani si informano sui social (in video soprattutto), ma non sempre leggono quello che condividono. E se li abbandonano, spesso lo fanno per l'eccesso di notizie false o incomplete. Che, però, sono ovunque: su Wikipedia, ad esempio, che nel caso della guerra in Ucraina non si è dimostrata all'altezza del suo compito di fonte di informazioni attendibili e aggiornate.

In Italia almeno, perché della pagina «Invasione russa dell'Ucraina (2022)» è esistita per tre settimane solo una bozza, mentre le edizioni in altre lingue riportavano costanti aggiornamenti. Dopo lunghe polemiche e divisioni interne tra i volontari di Wikipedia, la voce è stata finalmente messa online, ma con diverse avvertenze: è una voce «da controllare» e afflitta da «recentismo».

Ma il conflitto in Ucraina ha mostrato ancora una volta che i grandi della tecnologia non sono neutrali. Oltre alle sanzioni decise dai governi, ci sono state le mosse di Amazon, Apple, Sony, Netflix, YouTube, Microsoft e tanti altri, che hanno sospeso o limitato i loro servizi a segnare il crescente distacco del regime di Putin dal resto del mondo.

Mosca ha reagito lanciando o potenziando piattaforme made in Russia, primi segni di un'internet autarchica che è l'esatto contrario del principio cardine da cui è nata la Rete. Intanto i servizi ancora attivi sono stati spesso usati in modo assai diverso da quello previsto originariamente: le recensioni su Google Maps sono diventate un mezzo per aggirare la censura russa, affittare un alloggio su Airbnb (ma senza andarci) è un modo per aiutare finanziariamente gli host ucraini.

Perfino TikTok, da piattaforma per balletti, è diventata un mezzo di informazione: altro segno della capacità umana di inventare, di trovare una soluzione a un problema, di portare nel presente qualcosa che prima non c'era.

Ce ne parlano in questo numero, Nerio Alessandri, fondatore di Technogym, e James Dyson, che tutti conoscono per gli aspirapolvere più avanzati del mondo, ma pochi per essere l'inventore di un'auto elettrica rivoluzionaria. Che non è mai nata per ragioni commerciali, come racconta in un lungo estratto in esclusiva della sua autobiografia, Invention, di prossima pubblicazione presso Rizzoli. E ancora, c'è chi inventa un nuovo mondo: ad esempio Peter Moore, vicepresidente di Unity Technologies, un passato tra videogiochi e football.

La sua tecnologia Metacast, digitalizza eventi sportivi per renderli spettacoli interattivi, un metaverso in tempo reale. Di invenzioni che hanno fatto la storia ne segnaliamo 10, ma in questo numero di Italian Tech ci sono anche 24 gadget recentissimi, raccolti tra il Ces di Las Vegas e il Mobile World Congress di Barcellona. Senza dimenticare chi pensa in modo diverso: come i visionari di Fairphone, secondo cui un telefono non nasce per essere buttato, ma aggiornato e riciclato.

Giampiero Mughini per Dagospia il 24 gennaio 2022.

Caro Dago, premetto che come sai non sono un frequentatore dei social dove non ho alcun account. Uso sì Whatsapp per mandare talvolta dei messaggi. Ne ho mandato uno al mio vecchio compare catanese Tino quando ho saputo della morte di suo figlio. Uno a Francesca Barra a chiederle quanti giorni mancano alla nascita di sua figlia Atena. 

Uno a un giovane e in gambissima collaboratore del Foglio, Giulio Silvano, per digli quanto mi fosse piaciuto un suo articolo. Mai mai mai mando un messaggio a promuovere una qualche mia operina, a farmi bello di una qualche mia impresa, e ammesso che io sia capace di una qualche impresa. Giammai. Mi sentirei umiliato al solo pensare di farlo.

Le cose non vanno esattamente così per quel che è del 95 per cento dei messaggi che ricevo su Whatsapp. Da gente che conosco, da gente che conosco poco, da gente che non conosco affatto. Messaggi tutti in cui io figuro come un cliente cui loro propongono una merce, ossia loro stessi. 

Annunciano ad esempio un loro libro, inviano una foto della presentazione di quel libro, copia di un articolo cartaceo su quel libro. Ripeto, non è gente con cui io abbia un rapporto stretto o che magari una volta ogni tanto mi mandino un augurio, data la mia età, di campare ancora qualche giorno.

No, siccome io figuro nella loro mailing list mandano (a me e a tutti gli altri) un messaggio promozionale del loro lavoro. Decine e decine e decine di questi messaggi ogni giorno, annunciati dal ticchettio continuo del mio telefonino nel riceverli. 

Qualcuno manda due volte lo stesso messaggio, nel caso che al primo non avessi prestato l’attenzione che merita. 

Se io giudico offensivo il ricevere questi messaggi? Assolutamente sì, beninteso quando sono cosa ben diversa che non il rapporto tra due amici che si confidano le cose cui tengono, a cominciare dagli episodi del proprio lavoro professionale. In questo caso i reciproci messaggi sono tutti santi e benedetti. E’ così dei miei messaggi con Aldo Cazzullo o con Mattia Feltri.

Ma il bello deve ancora venire. Ieri mi è arrivato ad esempio il messaggio di uno che ho visto una volta sola in vita mia e che da allora mi tempesta di messaggi in cui c’è in primissimo piano il suo volto con un’espressione beata dal fatto o di stare in vacanza o di stare addentando un bel piatto di spaghetti. 

Il messaggio di ieri conteneva la foto di una tazza di caffè, con la quale lui mi annunciava trionfalmente che aveva concluso un suo recente pasto. E a me che cazzo me ne poteva fregare di meno che lui avesse bevuto quella tazza di caffè? Ripeto: io con questo gentiluomo non ho alcun rapporto, so poco e niente di lui, mai e poi mai gli ho mandato né gli manderò un “ciao”. Che devo fare, con lui e con cento altri? Anche se il punto non è questo. 

Il punto è che l’uso e l’abuso della comunicazione digitale sta corrompendo la razza umana, nel senso che sta trasformando molti di loro (la buona parte gente senza arte né parte) in un’agenzia pubblicitaria impegnata 24 ore su 24 nel promuovere sé stessi, nel farsi notare nell’epoca in cui è oro che qualcuno guardi il tuo musetto per almeno un istante e si ricordi dunque di te. 

Tic tic tic, strano che il mio telefonino da dieci minuti non abbia ticchettato ad annunciare l’arrivo di uno di quei messaggi. Orrore orrore orrore.

La lobby italiana di Facebook (Meta): così si muove tra i potenti il colosso social. Esperti di difesa della privacy, portavoce di ministeri e associazioni di consumatori. Tutti legati o finanziati dalla società di Mark Zuckerberg. Che così s’infiltra nelle istituzioni per influenzare la transizione digitale e difendere il suo dominio sulla Rete. Vittorio Malagutti e Carlo Tecce su L'Espresso il 24 gennaio 2022.

Quaggiù in Italia nessuno intralcia il dominio mondiale di Facebook. Anzi lo si introduce con ossequioso rispetto nella transizione digitale. Il fondatore Mark Zuckerberg ha riverniciato il marchio e il nome in gruppo Meta per ripararsi da una tempesta di scandali. Quaggiù in Italia non ce n’era bisogno. Si ignorano le elezioni manipolate, l'incessante disinformazione, l’utilizzo distorto dei dati, i danni alla salute mentale dei ragazzi.

Facebook, Google e le altre Big Tech: cento milioni l’anno per fare lobby a Bruxelles. Sono quasi 500 le persone pagare dai colossi del digitale per i propri rapporti nella Capitale europea. Tra ex premier, ex ministri ed ex commissari arruolati alla causa, in questo modo le aziende condizionano l’Europa. Federica Bianchi su L'Espresso il 24 gennaio 2022.

Quando quasi due anni fa Aura Salla, la giovane politica finlandese consigliera della Commissione europea su materie come la sicurezza informatica, le minacce ibride e l'interferenza nelle elezioni, annunciò su Twitter le sue dimissioni per diventare la responsabile esterna delle relazioni di Facebook in Europa, divenne chiaro come il colosso tecnologico americano fosse determinato a provarle tutte per stroncare qualsiasi tentativo di limitare la sua influenza nella vita politica ed economica del Vecchio Continente.

Facebook in Italia fa grandi affari, ma paga poche tasse. Il tesoro resta in Irlanda. Vittorio Malagutti e Carlo Tecce su L'Espresso il 24 gennaio 2022.  

Anche dopo l’accordo del 2018 con l’Agenzia delle Entrate, ricavi e profitti della piattaforma social volano a Dublino. Che garantisce un trattamento fiscale. privilegiato alle multinazionali.

Nel maggio dell’anno scorso, la filiale italiana di Facebook ha versato 56 milioni all’Agenzia delle Entrate, come pagamento, si legge nel bilancio, «di certe tasse per conto del gruppo Facebook». La relazione contabile non fornisce altri particolari, ma con ogni probabilità le imposte supplementari rientrano nell’accordo che a novembre del 2018 aveva messo fine a un’indagine della Guardia di Finanza.

Le Fiamme Gialle avevano contestato alla multinazionale americana un’evasione fiscale di circa 54 milioni, a cui vanno sommate sanzioni e interessi per un totale di oltre 100 milioni in parte già versati tra il 2019 e il 2020. Fino al 2018 i ricavi messi a bilancio dalla filiale italiana erano poca cosa, una ventina di milioni, mentre la quasi totalità degli incassi, e quindi anche degli utili, finivano alla consociata di Dublino, che gode di un trattamento fiscale privilegiato da parte del fisco irlandese. Nel 2020, dopo l’intervento della Guardia di Finanza, Facebook Italy ha invece dichiarato un fatturato di 236 milioni che deriva dalla vendita di servizi pubblicitari, «a clienti italiani designati». Formula criptica, quest’ultima, che non viene spiegata nella relazione di bilancio e dovrebbe servire a isolare il giro d’affari dichiarato a fini fiscali da quello effettivo, che in mancanza di dati ufficiali, secondo le stime del centro studi eMedia su dati Nielsen e dell’Autorità di garanzia per le comunicazioni (Agcom) si presume possa aggirarsi intorno al miliardo di euro. Insieme ai ricavi, quelli dichiarati, negli ultimi due anni sono però aumentati di molto anche i costi di Facebook Italy, in particolare i costi «per servizi», che nel 2020 hanno superato i 210 milioni. Questi soldi finiscono quasi per intero nelle casse della holding irlandese, che di fatto è il fornitore unico della società italiana.

Tutto in famiglia quindi, sull’asse Milano-Dublino. E a tre anni distanza dalla prima stangata fiscale, i profitti che restano in Italia ammontano a soli 4,7 milioni (il 2 per cento dei ricavi) dopo aver pagato non più di 1,7 milioni di tasse. La cassa del gruppo, con i proventi miliardari della pubblicità, resta ben protetta in Irlanda, dove il prelievo sugli utili delle multinazionali straniere è poco più che simbolico

Gli affari privati del capo italiano di Facebook: dalle startup con soci vip fino ai bar. Vittorio Malagutti e Carlo Tecce su L'Espresso il 24 gennaio 2022.

Luca Colombo, country manager del colosso dei social, è a capo di una holding con svariate attività. E ha investito, tra gli altri, insieme alla presidente della Rai, Marinella Soldi, e alla campionessa di sci Sofia Goggia.

Lo manda Mark Zuckerberg, si chiama Luca Colombo ed è il capo (country manager) di Facebook in Italia da novembre del 2010, quando il social network più grande e influente del mondo, da pochi mesi ribattezzato Meta platform, aveva da poco cominciato la sua vertiginosa ascesa anche nel nostro Paese.

Una dozzina di anni dopo, Colombo, brianzolo di nascita, classe 1970, si trova a capo di una macchina da soldi che domina il mercato pubblicitario nostrano e, come raccontiamo nella nostra inchiesta, mira a influenzare e indirizzare la transizione digitale finanziata dai fondi pubblici del Pnrr.

I feroci duellanti di penna e spada antenati degli strepiti di Facebook. Puskin, Lorrain, Proust, Turgenev, Tolstoj, Ungaretti. Quante liti personali e confronti all’ultimo sangue per far valere le proprie ragioni. ELIANA IORFIDA su Il Quotidiano del Sud il 23 gennaio 2022.

Tra il 1822 e il 1831 lo scrittore russo Aleksandr Sergeevic Puškin compose il romanzo Eugenio Onegin e il racconto Il colpo di pistola, entrambi ispirati a morti per duello. Nulla di eccezionale, non fosse che di lì a qualche anno – per essere precisi, alle quattro del pomeriggio dell’8 febbraio 1837, in quel di Pietroburgo (nel punto in cui oggi c’è la fermata della metropolitana Cërnaja Recka) – lo stesso autore veniva ferito a morte dal barone Georges d’Anthès, dopo averne raccolto il guanto di sfida.

Correvano i bei tempi in cui all’offesa di penna e d’orgoglio seguiva facilmente quella di lama e di fuoco.

Altro che odiatori, book blogger e leoni da tastiera! Scrittori e letterati duellavano abilmente a parole ma non disdegnavano di impallinarsi a vicenda qualora le circostanze lo richiedessero.

Se la ragione del contendere tra Puškin e d’Anthès fu di natura passionale, quella ancor più celebre tra Turgenev e Tolstoj fu… beh, ormai possiamo dirlo senza che i due ce ne vogliano: invidia purissima. Una sana insofferenza che il secondo nutriva nei confronti del primo, dal momento che l’opera di Turgenev godeva di grande notorietà in Europa occidentale.

Eppure, tra i due sembrava filare tutto liscio. Almeno fino alla fatidica data del 1861, anno in cui il mondo corse il rischio di non poter apprezzare capolavori quali Fumo e Terra vergine, se avesse avuto la meglio Tolstoj, né Guerra e pace e Anna Karenina, qualora Turgenev ne fosse uscito vincitore.

Il pretesto? Una critica mossa da Lev al modo in cui l’amico Ivan educava la piccola Paulinette. A nulla valse la tempestiva lettera di scuse che Tolstoj indirizzò al collega: quest’ultimo lesse senza ricambiare (o, come diremmo oggi, visualizzò ma non rispose). La mancata risposta fu sufficiente perché Tolstoj lanciasse la famigerata sfida a duello, che per il bene loro e dell’umanità si consumò solo sulla carta, attraverso una velenosa corrispondenza. Seguì un silenzio lungo diciassette anni, interrotto da Turgenev in punto di morte, quando da Parigi inviò a Tolstoj questo messaggio: “Amico mio, riprendi a scrivere”.

Ci spostiamo in Francia, 1897, dove assistiamo a un’altra succulenta diatriba. Quella che contrappose lo scrittore Marcel Proust – di cui quest’anno ricorrono i 150 anni della morte – al giornalista Jean Lorrain, sfidato a duello per una recensione negativa. In questo caso, due colpi a vuoto furono sufficienti a cancellare l’onta.

È vero, il duello è procedura illegale, ma volete mettere il fascino di questa sfida d’altri tempi se paragonata al barbarico strepitare su social, tv e ogni sorta di tastiera? Non sarebbe assai più naturale che il veleno letterario, stillato in punta di penna, si trasferisse in punta di spada piuttosto che disperdersi nell’etere vacuo dell’opinionismo? La scherma in luogo dello schermo! Sarò anche romantica e un po’ fuori di senno, ma trovo sublime una scena in cui i vincitori di Strega e Campiello se ne stanno in piedi, schiena contro schiena, prima di prendere le distanze l’uno dall’altro a grandi falcate e sparare un colpo secco al politically correct che costringe al piattume noi e loro.

Del resto, anche la letteratura del Novecento annovera duelli memorabili e critiche al vetriolo tra scrittori che non se le mandavano a dire. Ai duellanti di guerra, Prima e Seconda, il “Secolo breve” ha affiancato tenzoni ideologiche e stilistiche di prim’ordine, il cui intento non era più quello di eliminare fisicamente l’avversario (almeno non quello dichiarato), bensì trarre soddisfazione dal ridurlo in poltiglia letteraria.

James Joyce avrebbe sofferto meno con un pugnale nelle viscere piuttosto che sentire Virginia Woolf definire pubblicamente l’Ulisse “un supplizio”, “una spedizione in Nepal” oppure, nei giorni in cui ci andava leggera, “l’opera di un nauseabondo studente universitario che si schiaccia i brufoli”. Se Ernest Hemingway disse di Faulkner, “Davvero crede che i paroloni suscitino forti emozioni?”, Vladimir Nabokov disse di lui, “Per quanto riguarda Hemingway, lo lessi la prima volta agli inizi degli anni Quaranta, qualcosa su palle, tori e campane. L’ho detestato”. Vogliamo parlare di Truman Capote che apostrofa la scrittura di Jack Kerouac un semplice “battere a macchina”?

Potrei continuare a oltranza, “all’ultimo sangue”, citando le recentissime zuffe verbali tra Philip Roth e Jonathan Franzen (chi mi conosce sa per chi parteggio), ma mi piacerebbe tornare un attimo al duello vero e proprio, ché se ne consumarono di strepitosi anche in casa nostra.

Critiche sgradite, stroncature e parodie valsero duelli a Gabriele D’Annunzio e Edoardo Scarfoglio (1886), al futurista Marinetti e al romanziere Hirsch (1909) e, l’8 agosto del 1926, a Massimo Bontempelli e Giuseppe Ungaretti.

La polemica letteraria tra i due crebbe sulle colonne del quotidiano romano Il Tevere, finché, ai primi di agosto del ‘26, Bontempelli si presentò nella famosa “Saletta di Aragno”, cenacolo delle intellighenzie dell’epoca, e schiaffeggiò il poeta Ungaretti come si conviene nel rituale di sfida, scatenando le ire di quest’ultimo. Il duello fu presto concordato: il giorno 8 si sarebbero trovati nel giardino della villa di Luigi Pirandello, ben felice di ospitare un simile gesto di teatralità, essendo estimatore di sfide cavalleresche. Oggi avremmo definito quell’incontro un “grande evento”: Ungaretti scelse come testimoni Mauro Ittar e Federico Verdelli; Bontempelli ebbe dalla sua Mario Baratelli e Gabriele D’Annunzio; maestro d’armi fu lo schermidore Agesilao Greco; ad assistere, un pubblico selezionato di artisti, letterati, intellettuali e penne del giornalismo, oltre al fotografo cui si devono le straordinarie immagini giunte sino a noi.

A questo punto è bene inserire una postilla sul protocollo: il duello è solito terminare alla prima ferita, alias “al primo sangue”, a meno che non si stabilisca che debba concludersi con la morte di uno dei contendenti, “all’ultimo sangue”. Essendo quest’ultima formula illegale e, ancora peggio, poco elegante per lo standard dell’epoca, si intese risolvere la cosa “al primo sangue”. La vittoria andò a Bontempelli, che ferì Ungaretti all’avambraccio destro, affondando con la punta per tre centimetri, come fu prontamente rilevato e registrato. I due si riconciliarono e l’intero mondo letterario ne trasse sollievo.

Tornando al nostro noiosissimo presente, dove nulla accade di così chic – al contrario, ci si può aspettare che uno vada a ritirare un premio prestigioso con ai piedi calzature imbarazzanti (mi si conceda una innocua stilettata!) – sarebbe il caso di prendere le distanze tanto dal politicamente corretto, quanto dalla suscettibilità fine a sé stessa, che non contribuisce ad alimentare un dibattito propositivo sulle sorti della letteratura contemporanea nel nostro Paese, a mio avviso più debole di quella prodotta dai cugini spagnoli o dell’Est Europa, per citare a caso. Più utile, oltre che fascinoso, un ritorno ai velenosi salotti, ai caffè, a mansarde e sottoscala, luoghi fisici insomma, nei quali riscoprire il piacere di insultarsi guardandosi negli occhi e, perché no, tirarsi un cazzotto bene assestato. Ancor più utile abolire per legge i corsi di “scrittura creativa” e istituire duelli di “lettura collettiva”, inframezzati a giudizi tranchant, come quando a me viene voglia di liquidare certe penne femminili, granitiche nel rivendicare la loro letteratura “di genere”, con le stesse parole che lo stizzoso Ralph Emerson rivolse a Jean Austin: “Il problema principale è la mente dello scrittore, è… la sua propensione al matrimonio”. 

Per non cadere preda della rete bisogna cercare quel che si sa. PAOLO D'ANGELO, filosofo, su Il Domani il 28 novembre 2021.

Come si faccia a cercare quello che non si sa è sempre stato un problema difficile da risolvere. Platone, nel Menone, supponeva che noi disponessimo per farlo di un sapere acquisito nelle vite precedenti.

Sono le procedure di autocomplete e i suggerimenti per raffinare la ricerca che compaiono quando digitiamo un titolo o un nome che ci fanno trovare quello che non sappiamo, si potrebbe pensare.

Ma è veramente così? Le query suggestions sono piene di indicazioni fuorvianti, spesso tendenziose, talvolta preconcette, in qualche caso calunniose. La rete ci aiuta veramente solo se disponiamo di un sapere di fondo. 

PAOLO D'ANGELO, filosofo. Professore ordinario di estetica presso l’Università di Roma Tre dal Settembre 2001. Dopo la laurea presso l’Università di Roma “La Sapienza”, ha ottenuto il dottorato di ricerca in Estetica presso l’Università di Bologna. Ha insegnato come professore associato di Estetica presso l’Università di Messina dal 1992 al 2000.  È stato Direttore del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dal 2013 al 2018. È  stato vicepresidente della Società Italiana di Estetica dalla fondazione di quest’ultima nel 2001 al 2014.

Estratto dell'articolo di Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 17 gennaio 2022.

Moderati. "Anonimo. Come tuo padre, visto che madre hai avuto" (13.8.21); "Sì, c'era anche tua madre nel solito ruolo" (16.7.21); "Sei in difficoltà per paternità ignota, tra diecimila mamme come ti poteva indicare?" (14.9.21); "E papà? Mamma lo ha individuato tra i diecimila possibili?"; "Un giorno tra un milione di possibili padri riconoscerai il tuo. Che madre" (20.12.21); "Ti rode non sapere chi è tuo padre causa lavoro di mamma eh." (2.1.22); "Mamma invece fa il lavoro più antico?"; "Tuo padre tra mille non lo troverai, colpa del mestiere di mamma tua" (6.1.22. Antologia delle migliori risposte di Maurizio Gasparri, senatore FI, ai suoi critici su Twitter, selezionate da @nonleggerlo). Non sappiamo se B., diventerà presidente della Repubblica, ma nel caso sappiamo per certo chi sarà il suo responsabile della comunicazione.

Jaime D’Alessandro per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 17 gennaio 2022.

Il linciaggio online, a guardarlo da questo lato del mondo, è sembrato davvero orrendo. Sulla morte di David Sassoli alcuni no vax hanno dato il peggio sui social network, facendo finta di non sapere che il presidente del Parlamento europeo era malato da anni di mieloma, un tumore del midollo osseo. 

E così sono state diffuse teorie senza alcun fondamento che legano il decesso ai vaccini. C'è stata un'inevitabile levata di scudi e da più parti la richiesta di un intervento delle forze dell'ordine con i carabinieri del Comando Provinciale di Roma che hanno depositato una prima informativa in Procura di Roma.

Si dimentica troppo spesso che la questione non sta tanto nel singolo argomento, la morte di Sassoli, il vaccino o la curvatura della superficie terrestre, ma nell'identità antisistema. Un'identità profonda di quella "società irrazionale", come la chiama il Censis, che vale fra il sei e il 10 per cento della popolazione italiana. 

Serve davvero a poco il fact-checking perché non siamo affatto nell'età dei lumi e forse non ci siamo mai entrati. Se c'è una cosa che i social network hanno dimostrato, è il modo tribale e polarizzato che abbiamo di informarci e proporre le nostre opinioni, o meglio le nostre bandiere. Bandiere nelle quali ci identifichiamo. Le divisioni e i radicalismi sono sempre esistiti, si difendono dalla Silicon Valley.

È vero, eppure un conto è opporsi all'obbligo della cintura di sicurezza in macchina (all'epoca c'era chi pensava fosse un tentativo di limitare la libertà delle persone), organizzando proteste per strada e arringando gli avventori di un bar, un altro è avere davanti a sé una platea immensa gestita da algoritmi istruiti per mettere in evidenza i contenuti più estremi.

L'ingenuità imperdonabile di Twitter, Facebook, Google e degli altri colossi del Web, sta nell'aver pensato di vivere della nuova età dei lumi e che il digitale non avrebbe fatto altro che dare infinite possibilità a tutti. Lo ha fatto, solo in parte. Ha dato soprattutto voce a persone intellettualmente ed emotivamente disastrate e il loro seguito online è uno specchio di quel che siamo sempre stati.

Mauro Masi per “Milano Finanza” il 15 gennaio 2022.  

L'annuale Rapporto sulla situazione sociale del Paese (2021) da parte del Censis è sempre fonte di interessanti interpretazioni dei fenomeni sociali nonché di rigorosa raccolta di dati. 

Per quanto riguarda le rilevazioni che qui più interessano, quelle sui consumi mediatici, l'anno è stato, ovviamente, caratterizzato anche nel Paese dai riflessi dell'andamento della pandemia. 

Lo testimonia molto chiaramente l'incremento della percentuale di italiani che è collegata in Rete, incremento passato da + 0,9% del 2017/18 a + 4,2% del 2021; così l'83,5% degli italiani oggi usa internet (e tra questi il 76,6% è utente dei social network: + 6,7%). 

Nello specifico dei media, la fruizione della televisione ha conosciuto significativi incrementi sia nella componente tradizionale (+0,5% nel digitale terrestre), sia nella satellitare (+0,6%) sia soprattutto in quella via internet (+ 7,4%).

La radio resta su livelli di ascolto molto elevati (è utilizzata dal 79,6% degli italiani) ma stabile in termini di valori incrementali in quanto la riduzione dell'ascolto registrata attraverso gli strumenti tradizionali è compensata dell'aumento dei consumi via Rete. 

La stampa tradizionale ha accentuato invece la propria crisi, ormai endemica: per i quotidiani -8,2% rispetto al 2019; -6,3% per i settimanali; -7,8% per i mensili. Crescono di poco (+1,9%) le edizioni on line dei giornali forse frenati dall'esteso utilizzo dei pay wall cioè la necessità di abbonarsi per accedere ai siti.

Si arresta invece l'emorragia di lettori di libri sia cartacei (+1,7%) sia in forma e-book (+2,6%). A mio avviso la considerazione più rilevante che si può evincere da tutto ciò è che gli italiani continuano a essere -anche in parziale controtendenza rispetto al resto del mondo occidentale- dei "televisionari" davvero accaniti. 

Grandi fruitori, tra l'altro di una televisione generalista che pure certo non brilla per capacità innovativa e per qualità tecnica o tematica esempio ne sia il profluvio di talk show tutti più o meno uguali, largamente ripetitivi e autoreferenziali. Allo zoccolo duro di utenti televisivi per così dire tradizionali e tradizionalisti, si è aggiunta poi (complice la pandemia) una significativa fascia d'ascolto di programmi audiovisivi trasmessi attraverso Internet. 

Ma questo, come si osserva nelle stessa ricerca Censis, non deve essere inteso come uno scontro tra vecchio e nuovo quanto come una sovrapposizione tra i bisogni di socialità e «i desideri di personalizzazione che tendenzialmente convivono in ciascun utente». Quindi nel 2021, in piena pandemia, gli italiani hanno - come tutti nel mondo - virato fortemente su Internet senza però abbandonare, anzi, il vecchio amore per la tv (che sia digitale, satellitare o on line) peraltro badando ancor meno che in passato alla qualità e allo stile dei contenuti.

Massimiliano Panarari per “la Stampa” il 18 settembre 2021. Da qualche tempo, i narratori sono tornati «piromani» e agitatori culturali. Tanto che le querelle che fanno l'agenda del dibattito pubblico, sempre più spesso, hanno alla base uno scrittore che innesca la miccia. Così, ieri, a Pordenonelegge, a dare fuoco alle polveri ci ha pensato lo scrittore spagnolo (ed europeista convinto) Fernando Aramburu, presente al festival per ritirare il Premio Crédit Agricole FriulAdria «La storia in un romanzo» 2021. E in quella cornice ha fatto una serie di considerazioni assai decise sullo spirito dei tempi. Pensiero forte, insomma. Sull'ideologia, di cui lui - basco di origine - ha voluto sottolineare il rischio permanente di derive violente e l'inclinazione genetica verso l'estremismo. Dalle sue parole traspare un presente fosco, sprofondato in uno stato di natura hobbesiano, dalle guerre ai femminicidi in crescita incessante. Ma le affermazioni che hanno fatto più rumore non potevano che essere quelle sui social, sui quali - letteralmente - è andato giù con l'accetta, dichiarando che «le reti sociali hanno avuto un'influenza negativa sulla società». Tesi che ricordano quelle di Umberto Eco, quando - durante la cerimonia di conferimento della laurea honoris causa da parte dell'Università di Torino, nel giugno 2015 - disse che «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività». Di sicuro, si troverebbero d'accordo le giornaliste del New York Times Sheera Frenkel e Cecilia Kang, fresche autrici di Facebook: l'inchiesta finale (Einaudi, pp. 370, euro 19), un documentatissimo reportage investigativo sulla recente conversione della corporation di Mark Zuckerberg in una megamacchina di sfruttamento intensivo dei dati personali e in un canale h24 di diffusione di propaganda e fake news da parte di vari soggetti nemici della democrazia. Sempre i social network e il web della (apparente) disintermediazione e orizzontalizzazione, anziché rendere più aperte le società, stanno contribuendo a reintrodurre dei «tabù». Quindi, invece di allargarne gli orizzonti, rinchiudono nelle camere dell'eco i loro utenti, consegnati dagli algoritmi, con la loro efficientissima profilazione commerciale e pubblicitaria, a un destino di sempre maggiore tribalizzazione e incomunicabilità tra diversi. E, così, oltre a promuovere una reintermediazione invisibile, i social spingono l'acceleratore a tavoletta verso la polarizzazione delle opinioni, da cui scaturisce il frutto avvelenato dell'hate politics. Esattamente una delle forme della nuova violenza ideologica a cui si riferisce lo scrittore spagnolo, e che da verbale, finché rimane sul web, può farsi fisica quando tracima nella quotidianità (come mostrano vari casi di cronaca, dai neofascisti a certe frange novax). E questo proprio perché, nella nostra età della piattaformizzazione, i media sociali sono divenuti sempre maggiormente dei produttori di realtà sociale. Perciò, la letteratura - sostiene Aramburu - deve assolutamente fare la propria parte, senza avventurarsi nel mestiere di altri («come la sociologia»), e nella piena consapevolezza di quelle che potremmo chiamare le sue «specificità (e limitazioni) comunicative» - dal momento che si rivolge alle coscienze individuali dei lettori, e non a quelle che in un passato non troppo remoto venivano chiamate le «masse». E, più in generale, devono darsi da fare tutti gli intellettuali, offrendo punti di vista plurali e differenti rispetto a quello di volta in volta maggioritario per scongiurare il pericolo del pensiero unico. «Vasto programma», ma da perseguire senza alcun dubbio. E, dunque, queste riflessioni dello scrittore risultano davvero utili e opportune. Perché, per ritornare a Eco, occorre sottrarsi alla logica dicotomica dell'essere apocalittici o integrati. E bisogna impegnarsi affinché tertium datur in questa epoca postmoderna avanzata, che coincide precisamente con il regno delle ambivalenze e delle ambiguità. I social network sono stati indiscutibilmente - come ha scritto il sociologo Giovanni Boccia Artieri - la «palestra sociale» per lo sviluppo di nuovi significati e pratiche collaborative. Ma non è tutto oro quel che luccica, specie sotto il dominio incontrastato del capitalismo digitale e della sorveglianza.

“Il web è dominato da psicopatici”, la politica diffidi delle sue verità. Andrea Cangini su Il Corriere del Giorno il 10 Gennaio 2022.

“Il Web è dominato da psicopatici. I contenuti sono più virali se aiutano le persone ad esprimere appieno i loro disturbi di personalità”. Una lezione che, seppur ridotta all’osso, politici e commentatori farebbero bene a rammentare. Il web non è lo specchio della società. È un groviglio di sentimenti per lo più negativi, uno sfogatoio, una lastra deformante. Pensare che le tesi che vi prevalgono siano quelle che prevalgono nel mondo reale è il più classico degli errori.

Nonostante il nome da investigatore privato di Kansas City, il californiano Jonah Peretti è a suo modo un genio. È stato il più acuto, efficace e cinico psicologo delle masse sul web e ne ha ricavato una fortuna. Cofondatore dell’Huffington Post, il meglio di sè lo ha dato col sito BuzzFeed, una fabbrica di emozioni in forma di storie spesso futili confezionate apposta per dare immediata soddisfazione ai gusti, alle curiosità e agli umori della Rete. Con particolare cura per quelli più bassi. 

Dall’alto della sua indiscutibile esperienza, e forte di un’impresa stimata 850 milioni di dollari, Peretti l’ha messa così: “Il Web è dominato da psicopatici. I contenuti sono più virali se aiutano le persone ad esprimere appieno i loro disturbi di personalità”. Una lezione che, seppur ridotta all’osso, politici e commentatori farebbero bene a rammentare. Soprattutto ora che tra emergenza sanitaria, elezione del presidente della Repubblica e destino del governo Draghi il sistema politico e mediatico italiano è alle prese con scelte quantomai “fatali” per il futuro della Nazione.Sembra assurdo doverlo ribadire, ma il web non è lo specchio della società. È un groviglio di sentimenti per lo più negativi, uno sfogatoio, una lastra deformante. Pensare che le tesi che vi prevalgono siano quelle che prevalgono nel mondo reale è il più classico degli errori. 

A seguire gli umori del web, ad esempio, si corre il rischio di convincersi che la maggioranza degli italiani è scettica sui vaccini e contraria al green pass. Ma non è vero. Così come non è vero che le elezioni anticipate siano in cima alla lista dei desideri dei nostri connazionali, che Mario Draghi sia universalmente equiparato al doctor Goebbels e che un non politico al Quirinale sia l’auspicio formulato dalla metà più uno dei cittadini italiani. Se i sondaggi di opinione hanno a lungo condizionato le scelte dei decisori e le opinioni dei commentatori politici inducendoli spesso all’errore, assecondare gli umori dei social li (ci) condurrebbe a catastrofe certa. Il metodo cartesiano suggerisce di considerare quelle del Web verità relative: utili per capire ciò che si muove nella pancia di alcune minoranze, inutili per interpretare il sentimento della maggioranza.

Verità da contrastare in Rete con i metodi della Rete, magari avvalendosi della consulenza di Jonah Peretti come fece Barak Obama per le presidenziali del 2012.

(La parabola di Jonah Peretti, è tratta da “Mercanti di Verità” di Jill Abramson. Un libro illuminante)

·        Gli influencer.

Inventing mamma. Le bugie delle influencer e le storie che non funzionano se tutti sono cattivi. Assia Neumann Dayan su L’Inkiesta il 7 Novembre 2022.

Nonostante lo scandalo dello scioglipancia di Wanna Marchi ancora facciamo molta fatica a pensare che qualcuno possa mentire per venderci un prodotto. E che una mamma possa essere una stronza

Tra un «ma c’era il vetro!» e un «se non dormi 12 ore per notte muori», tra le storie degli unici due che si siano laureati a vent’anni, cioè Carlotta Rossignoli e Unabomber, sui social siamo infine giunti al grande scandalo che coinvolge quella che nella mia mente è stata la prima mamma influencer italiana. Riassumo brevemente per quelli che hanno un lavoro e non passano la giornata a guardare le figure di un libro immaginario: Julia Elle, in arte “Disperatamente Mamma”, ha costruito una carriera raccontando la propria storia: ha scritto libri sulla sua vita, sulla sua maternità, ha più di 640 mila follower a cui racconta quotidianamente tutte le difficoltà dell’essere donna mamma imprenditrice (spoiler: nessuna, è ricca, è magra, e mette il pigiama ai bambini alle 17:30), va nei programmi del pomeriggio a rilasciare interviste di immedesimabile autobiografia, ha scritto e interpretato una web serie su sé stessa, parlando sempre e solo di una cosa: indovinate voi quale.

Ha tre figli i cui nomi iniziano tutti con “Ch”, ha sempre raccontato che è stata mollata, incinta del secondo, dal padre dei suoi primi due figli: fatto sta che l’altro ieri Paolo Paone, l’ex compagno e padre dei suoi bambini, fa un post su Instagram dove dice che lui non è il padre biologico del “secondogenito” e che Julia Elle non glielo fa vedere perché lui non può accampare diritti. «Mi vedo costretto a questa precisazione non soltanto per correttezza nei confronti del pubblico ma anche e soprattutto perché stanco e fiaccato da anni di commenti che mi accusano di non essere un buon padre per Chris», scrive.

Non avere abbastanza schiena per sostenere le accuse di perfetti estranei fan di un’influencer e sentirsi costretti a scrivere un’ansa sulla paternità di un figlio perché il pubblico ha il diritto di sapere ha certamente più a che fare con il pretesto che con la verità. Visto che il problema è la verità, questo bambino lo sa di chi è figlio o l’ha scoperto così? La gente ha tutto il diritto di saperlo, o a un certo punto ci si appella al concetto di privacy? Il problema dei minori sui social non riguarda solo il mettere le foto o i video per fare soldi e visualizzazioni, riguarda anche e soprattutto la tutela dei bambini nel caso di separazioni.

Per la foto di classe è necessario che entrambi i genitori firmino una liberatoria, così come in pubblicità o in televisione: questo succede anche quando i bambini fanno sponsorizzazioni sui social? I guadagni vengono divisi?

Aaron Sorkin ha detto che per scrivere un buon cattivo bisogna non pensarlo come tale, ed è per questo che «you can’t handle the truth!» funziona: alla fine quel povero soldato non era tagliato per la vita militare, secondo me dormiva pure 12 ore filate, e poi che bell’uomo Jack Nicholson. Mi ricordo quando Julia Elle scrisse un post dove dichiarava di essere stata povera per 15 minuti. Non aveva dietro gli spicci per comprare un gelato al bambino, e da qui è partito tutto il suo monologo sull’indigenza. Sui social dice una cosa, nei libri un’altra, prima era povera, poi non era proprio povera povera, dice che il papà del bambino è uno che l’ha mollata incinta dopo una notte di passione, invece lui dice di no, e da Disperatamente Mamma a Inventing Mamma è un attimo. Perché non abbiamo il diritto di recesso quando compriamo le vite degli altri?

Viviamo nell’ossessione per la verità: ho visto con questi occhi influencer commentare film e serie tv in base al criterio di aderenza alla realtà, le stesse che dicono che è inutile farsi le pippe sulla sirenetta nera, perché le sirene mica esistono: in un sol colpo sono morti il cinema, la letteratura, la filologia, il senso del ridicolo, una strage per cui nessuno pagherà. Il pubblico si è sentito truffato. Davvero lo scioglipancia di Wanna Marchi non scioglieva la pancia? Mi state dicendo che l’io narrante non è davvero un “io” e forse nemmeno “narrante”? Come ha potuto un’influencer mentire su Instagram? Ma nessuno fa fact checking sui romanzi?

Il pubblico, che per sua natura sceglierà sempre Barabba, sta dalla parte del papà: rivuole indietro i soldi del biglietto, ma c’è da chiedersi se quella che vendeva Julia Elle non fosse semplicemente una verità a buon mercato, o se semplicemente facciamo molta fatica a pensare che una mamma possa mentire o essere una stronza. Il problema ti esplode in faccia quando scopri che il trauma è forse inventato – ve lo dice la vostra Cassandra di fiducia: succederà con tutte le influencer che lucrano su qualche disgrazia – e ti chiedi: ma quindi la scema sono io che ci ho creduto? Sì, le sceme siamo noi, ci abbiamo creduto esattamente come abbiamo creduto allo scioglipancia, alla sirenetta, ai bambini di due anni trans, alla dottoressa senza sonno, alle mamme che dicono di essere emotivamente e fisicamente stanchissime anche se hanno la tata, i domestici, le case di proprietà, una vita tra un massaggio e un parrucchiere e una sfilata e una festa e una crisi di pianto.

Alla fine, quello che mi domando è: la stronza è lei che forse ha mentito per costruirci una carriera o lui che ha esposto pubblicamente il figlio ai pettegolezzi? La prima vittima in guerra è sempre la verità, ma pure i bambini non scherzano. Questo bambino dovrà pur andare a scuola in mezzo alle voci di corridoio e fare anche la faccia allegra perché la mamma deve fare i video pagati: il giorno dopo lo scandalo, inspiegabile a livello logico, subito è apparso un video di sponsorizzazione con la creatura. In seguito, lei ha pubblicato una storia dove dice che per tutelare i bambini sceglierà il silenzio e gli avvocati. Se proprio vogliamo la verità, iniziamo col dire che le storie non funzionano se i protagonisti sono tutti cattivi.

Aggiornamento: ieri Julia Elle ha pubblicato delle stories su Instagram in cui spiega che ha mentito perché Paone era violento con lei e la figlia, che è dovuta scappare da un inferno domestico, che lui l’ha minacciata con un coltello, che il bambino sa che il suo papà è un altro. Ha pubblicato delle chat dove lui scrive che per gli insulti non c’è la galera. Dice di essersi rivolta a un centro antiviolenza. Dice di averli sempre «protetti anche nella vita reale», e questo «anche» dice quasi tutto sulla vicenda. Saranno contenti gli avvocati, un po’ meno i bambini che non potranno mai più riappropriarsi della loro storia. Una volta una ragazza aveva chiesto a Julia Elle se dovesse rimanere col marito che la menava o andare via, e lei aveva risposto: «Scegli la tua fatica». Chiamare i carabinieri sembra non essere mai contemplato, sarà troppo faticoso. Il rischio che si corre vivendo la propria vita su un set è che la quarta parete si può rompere, poi è difficile non passare per l’Amazing Amy di turno.

Valeria Braghieri per “il Giornale” il 19 ottobre 2022.

È vero che in Italia, se non hai un sindacato alle spalle non esisti. Ma la necessità effettiva di tutelare sindacalmente gli influencer, francamente ci sfugge. Più che altro ci risulta difficile accostare Chiara Ferragni al concetto di «contratto collettivo», o a Gianluca Vacchi quello di «monte ferie annuale» o di «stipendio minimo tabellare». 

Risulta complicato proprio capire come applicare la logica sindacale agli influencer. Intanto è un mondo di singoli, il concetto di sindacato nasce per le masse, poi è tendenzialmente una nicchia di danarutissimi, va bene non saranno tutti dei Di Vaio o delle Biasi, ma anche quelli con qualche follower in meno non se la cavano male. Sono ormai 350mila in Italia i professionisti dell'influencer marketing, un'industria che vale 280 milioni di euro. Normale che qualcuno pensasse di «regolarizzare» il tutto, o quantomeno di salire sul carro dei vincenti della Rete.

La modalità rimane misteriosa, ma qualcuno, evidentemente, è riuscito a sbrogliare la questione, visto che è appena iniziata una campagna di tesseramento per la categoria. Ce lo immaginiamo, Gianluca Vacchi, mettere in pausa il tik tok del balletto con i domestici in giacca modello battista per votare i rappresentanti sindacali. Ma fatto sta che è in fase di lancio Assoinfluencer, la prima associazione italiana di categoria, inserita nell'elenco delle Associazioni Professionali del Ministero dello Sviluppo Economico.

Avrebbe l'obiettivo di rappresentare e tutelare istanze e interessi di influencer e content creator, che ormai rappresentano un vero e proprio «esercito». Esiste già un sito e compaiono già i nomi dei primi iscritti. L'iscrizione è in promozione a 99 euro (classica cifra da marketing) fino a Natale, quando balzerà ad euro 200. Ma per la Ferragni, qualora volesse associarsi, supponiamo non sarà problematica nemmeno la quota intera.

Assoinfluencer nasce da un'idea degli avvocati Jacopo Ierussi e Valentina Salonia, per «supportare e regolamentare questa categoria professionale in ascesa, ma ancora poco tutelata sul piano legale». L'associazione, che ha mosso i primi passi a livello istituzionale nel 2018, si appresta ora a lanciare, appunto, la sua campagna associativa.

Si tratta del primo sindacato che rappresenta le diverse figure professionali: dagli youtuber ai podcaster, dagli streamer agli instagrammer fino ai cyber atleti. «Quella dell'influencer è una figura nuova e che cambia tanto rapidamente quanto il mondo dei media - ha spiegato Jacopo Ierussi, founder e presidente di Assoinfluencer - i creator possono essere artisti e imprenditori, atleti e divulgatori, ma sono sempre professionisti, capaci di produrre valore attraverso competenze e strumenti specifici.

E in quanto professionisti, in un mercato ancora non regolato, ciò che fino ad oggi è mancato è esattamente una realtà che ne tutelasse diritti e interessi: Assoinfluencer è nata proprio per rispondere a questa esigenza». Quindi networking, tutela legale e fiscale, formazione e divulgazione, difesa dei compensi e rappresentanza istituzionale: queste le principali aree di interesse del sindacato. Perché Vacchi e Ferragni possano dormire sonni tranquilli.

Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” il 29 settembre 2022.

Non c'è solo il centrosinistra tra i grandi sconfitti della tornata elettorale della scorsa domenica. Ci sono anche tutti quelli che, in un modo o nell'altro, hanno cercato - pensando di riuscirci - di influenzare l'opinione pubblica. A partire, appunto, dagli influencer. 

Cioè coloro i quali, tra una marchetta di mutande e lo spot di un paio di calze, con un post o una «storia» avrebbero dovuto decidere le sorti della repubblica italiana. Ecco la nuova élite digitale che imbraccia gli smartphone e - dall'alto dei propri attici - combatte un'eroica e strenua resistenza contro il nemico (cioè, giusto per capirci, il pericolosissimo elettore medio italiano). Risultati e numeri alla mano, invece, dal punto di vista politico non hanno spostato un bel niente. 

Facciamo un calcolo spannometrico, esaminando solamente alcuni dei personaggi pubblici che negli ultimi mesi e giorni sono scesi in campo contro il centrodestra. Partiamo ovviamente da Chiara Ferragni, regina assoluta di Instagram e paladina dei diritti Lgbtq+ che, con 27,9 milioni di follower, è in assoluto una delle personalità italiane più apprezzate sui social. Certo, lei, come il frontman dei Maneskin, è una star internazionale, quindi i suoi seguaci non sono tutti esclusivamente italiani, dunque calcoliamo per difetto.

Mettendo insieme l'imprenditrice digitale e suo marito, passando per Saviano, Elodie, Francesca Michielin, Luciana Littizzetto, Damiano e una manciata di attrici, cantanti e comparse varie che hanno ritenuto opportuno denunciare il gravissimo rischio che la democrazia nostrana stava correndo, superiamo agevolmente nientepopodimeno che i 52 milioni di follower, più dell'intero corpo elettorale di tutt' Italia. Una potenza di fuoco, a livello teorico, sterminata, capace di raggiungere molti più (e)lettori di qualsivoglia media tradizionale. 

Non a caso si è parlato a lungo di un possibile «partito degli influencer», ipotesi più che realistica, specialmente in un Paese nel quale un movimento nato dalla rete e dal blog di un comico è riuscito a diventare il primo partito ed esprimere un presidente del Consiglio. Ipotesi che tuttavia si è schiantata contro il muro di carta delle schede elettorali. Riepiloghiamo: la maggior parte degli influencer-vip ha fatto una scelta di campo netta e ha preso posizione contro la vittoria del centrodestra.

Nessuna novità, in questo i vip digitali hanno lo stesso tic dei loro predecessori analogici: pendono sempre e inesorabilmente verso sinistra e non riescono neppure a camuffare l'odio antropologico verso chi la pensa in un altro modo. Ma alla fine, quanto ha pesato questo molto ipotetico esercito da decine di milioni di follower? Molto poco, a giudicare dal risultato delle elezioni. 

Anzi, se l'obiettivo degli influencer chic era bloccare Giorgia Meloni, hanno ottenuto l'effetto opposto. Fratelli d'Italia, rispetto alle elezioni del 2018, ha accresciuto le proprie preferenze del 401%, cioè quasi 4,7 milioni di voti in più. E, analizzando il risultato complessivo, le schede perse dai colleghi di Lega e Forza Italia sono state comunque redistribuite all'interno della coalizione. Insomma la resistenza non è stata poi così irresistibile. Un caso di studio e quindi cediamo la parola agli esperti.

«Perché gli influencer non sono riusciti a spostare voti? - si chiede sulla sua pagina Facebook Marco Camisani Calzolari, esperto e pioniere digitale, docente universitario e volto noto di Striscia la notizia -. Perché non influenzano davvero. Suscitano curiosità, che è diverso. Peraltro in molti casi sono personaggi che vivono prevalentemente sui media tradizionali. Alcuni online hanno molti fake follower. Per cui non l'audience che ci si aspetta. 

Senza media tradizionali, molti sarebbero dimenticati. Chi davvero influenza una decisione, sono le persone autorevoli in quel campo. Non si influenza a caso. Non si influenza facendo le faccette sexy su Instagram». 

Insomma, quella degli influencer in politica, almeno per ora, era una bolla. Ed è esplosa

Morti di fama e "influencer" stroncati già da Dostoevskij. Esce il racconto satirico "Il coccodrillo". Una storia che anticipa i nostri tempi tra celebrità e cretini di sinistra. Alessandro Gnocchi il 7 Settembre 2022 su Il Giornale.

Un coccodrillo, in esposizione presso una sorta di circo, inghiotte un uomo per intero. Non è l'inizio di una barzelletta. È invece l'incipit di un racconto satirico di Fëdor Dostoevskij, Il coccodrillo (a cura di Serena Vitale, Adelphi, pagg. 98, euro 12). L'uomo non muore e si adatta a vivere con piena soddisfazione nello stomaco gigantesco dell'animale. Non solo. Scopre di poter parlare attraverso le fauci. Mirabile effetto, molto suggestivo. L'inghiottito riflette: l'infortunio è una splendida occasione per diventare famoso e riscattare anni di anonimo lavoro nella burocrazia ministeriale della Russia zarista.

L'uomo diventa un filosofo progressista, e inventa quattro o cinque nuovi sistemi sociali nel corso di una giornata. Sua moglie, una affascinante sciocchina, si appresta a inaugurare un salotto mondano, dove invitare personaggi in vista al fine di discutere le teorie del marito. Nel frattempo il saltimbanco, proprietario del coccodrillo, si rallegra. Gli incassi crescono, e i giornalisti accorrono per scrivere dell'interessante avvenimento.

Il novello Giona, senza balena ma con coccodrillo, non ha dubbi: «Sono tutto pervaso di grandi idee e soltanto adesso posso meditare a mio agio su come migliorare le sorti dell'umanità. Dal coccodrillo, adesso, verranno la verità e la luce». Modernità, imprenditoria, grande borghesia, proletariato: niente sfugge al neo-filosofo. Bisogna rilanciare gli investimenti, servissero soldi, si possono sempre sottrarre a quei retrogradi di contadini. Dal ventre oscuro di un coccodrillo, si può cambiare il volto al mondo. Basta «chiudere gli occhi, ed ecco che ipso facto inventi tutto un paradiso per l'intera umanità». Certo, bisognerà dibattere o meglio abbattere le altre dottrine economiche ma non c'è problema: «È vero: prima bisogna confutare tutto, ma è così facile confutare tutto dall'interno di un coccodrillo; di più: è come se da dentro il coccodrillo si vedesse tutto più distintamente». Anche se regna l'oscurità.

Con questa metafora, Dostoevskij ridicolizza gli amanti delle magnifiche sorti e progressive: sono fenomeni da baraccone. E anche dei fannulloni: «Ma io dimostrerò che anche un fannullone - anzi, di più - soltanto un fannullone può capovolgere le sorti dell'umanità. Tutte le grandi idee, così come le tendenze dei nostri giornali e delle nostre riviste, è evidente, sono nate da poltroni nullafacenti come sono io adesso».

Come scrive Serena Vitale nel breve saggio a conclusione del libro, molti pensarono di aver riconosciuto il protagonista. Si tratterebbe di Nikolaj Cernysevskij, teorico del socialismo utopico, filosofo materialista, democratico rivoluzionario, giornalista, scrittore, da poco confinato in Siberia come «criminale di Stato». Dostoevskij respinse ogni identificazione e disse di aver scritto «una birichinata letteraria» seguendo l'esempio di Gogol. Il racconto, del 1865, ebbe comunque guai con la censura, forse perché, già che c'era, l'autore infieriva sulle comiche gerarchie dell'amministrazione zarista.

Basterebbe questo per rendere stimolante (e divertente) la lettura del Coccodrillo. Ma non è tutto. Infatti Dostoevskij sembra indovinare i meccanismi della celebrità da social network. Un coccodrillo che inghiotte un uomo non sarebbe un ottimo soggetto per un video virale su TikTok? Un coccodrillo parlante che discetta di giustizia sociale non avrebbe un seguito da milioni di like? Siamo o non siamo in un'epoca nella quale un premio Nobel per la fisica diventa famoso per la ricetta degli spaghetti e virologi di dubbio spessore scientifico elargiscono pareri su qualunque cosa? Avete in mente cosa potrebbe diventare un coccodrillo parlante e di sinistra? Sicuramente ruberebbe la scena a Enrico Letta, che ha detto di avere gli «occhi della tigre». Poca roba rispetto a un intero uomo-coccodrillo di sicura fede riformista.

Leggiamo cosa dice l'inghiottito: «Da molto tempo desideravo un'occasione che facesse parlare tutti di me, ma non ci riuscivo, incatenato com'ero dalla mia modesta importanza e dal mio non alto grado... E ora ci sono riuscito semplicemente passando per le fauci di un coccodrillo. Ogni mia parola sarà ascoltata, ogni mia sentenza ponderata, tramandata, stampata. Mi farò conoscere!». Non sembrano le parole di un influencer famoso per essere famoso? Uno di quei personaggi che pontificano su qualunque cosa dopo esser diventati celebri per un'idiozia o per essere idioti? Se poi combiniamo le due cose, il progressismo e il successo da social, entriamo nel mondo degli opinionisti del piffero, pardon, del Twitter e del Facebook, un mondo virtuale di cretini reali però intelligenti, una specie pericolosissima come ben sapeva Leonardo Sciascia: «Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l'evento non ha trovato registrazione».

L'uomo-coccodrillo ha grandi aspirazioni, le stesse di molti filosofi, scrittori, giornalisti in preda ad attacchi di narcisismo dovuti a una decina di like: «Ammaestrerò l'oziosa folla. Forte della mia esperienza, diverrò un esempio di grandezza e umiltà di fronte al destino! Sarò, per così dire, una cattedra, dall'alto della quale comincerò a istruire l'umanità».

Il nuovo maestro ha un solo rovello: essere scambiato per un «filosofo da poltrona», che grida alla rivolta senza rinunciare al lieve tepore e alla assoluta sicurezza del ventre del coccodrillo. Oggi forse diremmo, con un'altra metafora animalesca, «leone da tastiera» al posto di «filosofo da poltrona».

L'umorismo non è una dote che siamo abituati ad associare a Dostoevskij. In realtà, Serena Vitale mostra in modo rapido ma convincente quanto lo scrittore russo fosse spiritoso e sarcastico. Il coccodrillo ne è un'ottima testimonianza.

Da ilmattino.it il 23 luglio 2022.

Un uomo che ha intrapreso un progetto di modifica del corpo per diventare un "alieno nero" ha parlato del lato oscuro della sua estrema trasformazione: la difficoltà nel trovare lavoro. Anthony Loffredo, questo il nome del "black alien" che ha raccontato il suo processo di modifica su Instagram, è facilmente riconoscibile tra la folla: il suo corpo è interamente ricoperto di tatuaggi scuri e sfoggia diversi impianti, tra cui sulla testa e sulle braccia, oltre ad avere i bulbi oculari iniettati di inchiostro e la lingua biforcuta.  

La difficoltà a trovare lavoro 

Di origine francese, Loffredo ha iniziato a creare il suo look da rettile all'età di 27 anni e nell'arco di sette anni è riuscito a raccogliere 1,2 milioni di follower sui social. Ora, nonostante abbia contemplato ancora più interventi chirurgici e modifiche del corpo, Black Alien ha messo in guardia gli altri dal seguire le sue orme. «Questo tipo di cambiamento non è solo un tatuaggio, è qualcosa di più grande», ha sottolineato, parlando al podcast Club 113. 

«Non riesco a trovare un lavoro, ci sono molte cose negative. Potrebbe essere positivo perché ti fa sentire meglio, ma devi sapere che c'è anche un lato oscuro». In un'altra parte dell'episodio del podcast, il francese ha raccontato di come le persone attraversino persino la strada per evitarlo, ammettendo che molti non capiscono il suo progetto.  

Ha detto: «È una lotta tutti i giorni, perché ogni giorno trovi nuove persone che non capiscono, che vogliono giudicare. È la vita, non tutti capiscono tutto. Come me, non capisco molte cose di molte persone. Non puoi giudicare qualcuno, nessuno sa cosa c'è nella testa di qualcuno, perché lo stanno facendo, devi parlare con questa persona». 

La trasformazione e la normalità

Per ottenere la sua immagine extraterrestre, Anthony si è fatto amputare due dita sulla mano sinistra, così come le orecchie, e ha oltre 40 impianti nella sua testa. Ma, nonostante il suo aspetto radicale, l'appassionato d'arte ha sottolineato che vuole essere trattato come tutti gli altri. 

 Ha sottolineato: «Sono un ragazzo normale, lavoro, ho una famiglia... Mi piace essere guardato come un ragazzo normale con un lavoro, una famiglia, un'amica, una ragazza, tutto questo. Questo è ciò che mi rende normale».

Una notte in discoteca con i ragazzini: TikTok, tanti selfie e poco eros. Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022.

I minorenni accompagnati dai genitori, il corteggiamento attraverso i «like»

La generazione derubata dei sedici e dei diciassette anni avanza in jeans e miniabiti color bronzo o panna. Davide, Francesca, Lorenza e Giovanni sono in coda dalle dieci e mezza di sera. Sanno che qui niente comincia prima di mezzanotte, ma sanno anche che la fila presto si ingrosserà fino a ricoprire di teste giovani il curvone della via Aurelia che si impenna fino al promontorio di Capo Mele, dove Laigueglia lascia il posto alla Marina di Andora, Riviera di Ponente.

A La Suerte, storica discoteca a strapiombo sul mare, non «si fa porta» (non si comincia a far entrare) prima delle undici e tre quarti e Davide, Francesca e gli altri ne approfittano per un primo carosello di selfie davanti alla scritta a caratteri colorati. D’altronde questa è l’estate dei loro diciotto anni, la prima estate vera di una generazione a cui il Covid ha rubato i rossori, i primi incontri, persino i «parapiglia, scatta il gioco della bottiglia», come Elio e le Storie Tese chiamavano quel misto di eccitazione e ansia nelle feste dei sedicenni.

«E finalmente si balla», dice Davide, faccia da bambino, come ce l’hanno tutti in questa folla di centinaia di giovanissimi che lungo il perimetro di una notte intera si avvicenderanno per le alte gradinate che uniscono i tre piani della Suerte, cinquantacinque anni di musica. Già, si balla. Questo dovrebbe essere il minimo per una discoteca, però ci si dimentica in fretta che nella primavera scorsa i locali riaprirono ma si doveva stare fermi per evitare i contatti sudati, al massimo un drink, al massimo un ancheggiamento sulla sedia. «Era surreale — raccontano dallo staff —: ricordiamo la dignità dei ragazzi che venivano qua e si sedevano buoni buoni, tutt’al più dondolavano con le gambe. E, giuro, ho visto gente in pista con la mascherina». 

Ore 23.45 La «porta»

Stanotte invece le uniche mascherine che si vedono sono quelle dipinte con l’eyeliner nero intorno agli occhi di Laura e Pamela, che arrivano strette in due abitini viola. Avranno diciott’anni? La carta d’identità sventolata alla porta dice di sì. Il metal detector è il secondo passaggio: aprire le borsette per le ispezioni, mentre la paletta disegna il profilo dei due corpi magri senza «beep» sospetti. Laura e Pamela possono entrare. «Veniamo da Alassio, ci hanno accompagnato i genitori», dicono sfumando nella serata in una nuvola di flash del telefonino.

Tante altre Laura e Pamela fanno la fila per mostrare i documenti, perché se non si è diciottenni non si entra, a meno che non si sia accompagnati da maggiorenni. Eccone una, di minorenne: si chiama Paola e ha un top verde smeraldo, che viene immediatamente segnalato al bar («Alla ragazza in verde date solo analcolici», gracchiano le radioline del sistema di sicurezza, donne e uomini vestiti di nero che punteggiano tutto il complesso sul mare). Perché una cosa è certa: questa notte è una notte giovanissima, quasi post-puberale. Diciotto, diciassette, diciannove, venti, massimo ventuno o ventidue.

Dove sono i trentenni? «Boh», fa Sofia scrollando le spalle, come se parlassimo di «creature replicanti» che abitano un universo parallelo. Lei è in vacanza ad Albenga e deve tornare presto a casa, mamma e papà non sgarrano. Taxi? «No, c’è la navetta della discoteca che ci accompagna». Diciotto anni e il suo ingresso (25 euro con un drink) e il suo secondo cocktail (10 euro, ma qui tutto dipende dalla serata e dallo spettacolo in scaletta) è assicurato. «La notte è lunga, ne vedrà di belle», dicono due rosse.

E sì, per vederne di belle bisogna mettersi accanto ai bodyguard della «porta»: in un grosso cesto messo di fianco all’entrata finiscono subito una lattina di birra, un coltellino, un oggetto non meglio identificato, una grossa bottiglia di gin mezza vuota. Materiale clandestino, nascosto in grandi tasche o borse o camicie ampie, nella certezza di eludere i controlli. «Qualcuno prova a entrare già “bevuto” — dice Angelo Pisella, proprietario della discoteca —, qualcuno tenta di portare dentro gli alcolici per darli di nascosto ai minorenni accompagnati. Sia gli uni che gli altri li sgamiamo subito». A loro non importa se sei giovane o adulto: se sei «fatto» o «bevuto» non entri. Intanto, come per un messaggio mandato dagli dèi della notte, nella musica interlocutoria che precede la serata, si riconosce Elton John che canta «It’s seven o’clock, and I wanna rock/ Want to get a belly full of beer». E dicci, Elton, che cos’è la trasgressione per questa generazione con camicie bianche e facce da bambini? 

Ore 01.00 Nei bagni

Inutile cercarla nei bagni de La Suerte, la trasgressione. Solo ragazze che si sistemano i capelli e che controllano i messaggi sullo smartphone. Non c’è nemmeno quel viavai sospetto che porta sempre le stesse persone sulla soglia della toilette. «Il problema — continuano due ragazzi in maglietta azzurra — è che quelli che “si fanno” in discoteca oggi ci arrivano già “fatti”». È per questo che la security diventa importante. Sul petto delle guardie spicca una specie di occhio elettronico: è una body-cam: se qualcuno dà in escandescenze la security lo riprende. La «porta» procede implacabile la sua scrematura: troppo giovane e da solo? Via. Occhio vitreo sospetto? Non c’è posto, ci spiace. Abbigliamento eccessivo? Non c’è il nome in lista, ci spiace. Si usano tutti i deterrenti possibili. Le cronache però raccontano di notti sballate in tutta Italia, anche tra giovanissimi. «Ma è facile da capire: io non ho alcun interesse a far circolare la droga qui dentro, anzi», dice Pisella. Ma circola? «No, assolutamente no». Rispondono di no anche Daniele e Luca, che a distanza sembravano due trentenni ma era un miraggio della notte di salsedine.

Occhio alle bottiglie d’acqua (qui una costa 3 euro al bancone): se è colorata vuol dire che ci hanno sciolto dentro i cristalli. Ma che senso ha, ragionano, venire a «farti» qui quando oggi tutto lo trovi online e a poco prezzo e puoi consumare quello che vuoi a casa di un amico facendoti riaccompagnare in taxi? Un kit di sballo (una specie di tester con varie sostanze, intuiamo) costa meno di una serata in pizzeria, assicurano.

Sì, ma come si resiste a ballare tutta la notte? «E chi dice che si balla tutta la notte? Questa è roba vecchia», fa Luca. O di un’altra generazione, ormai scivolata nei trenta-quaranta. In effetti, più che un rave, questa serata sembra una festa dell’alternanza continua: gente che va dalla spiaggia alla pista del piano di sopra, gente che esce e gente che continua a entrare anche dopo le due, a quattro ore dalla chiusura, gente che si dà il cambio in pista e che si sdraia sul divano con il telefonino. È come se l’inclinazione a stufarsi presto — cifra di una generazione di diciottenni, la generazione Netflix — avesse rivestito il concetto di trasgressione con un velo di transitorietà, di finitezza. Con buona pace di Freddie Mercury, che in questo momento sta urlando «Don’t stop me now». Non sulla pista, ma nelle mie cuffie (sì, quelle che ho indossato per un poco, di nascosto, il tempo di una sosta rinfrancante dall’unz unz unz unz). 

Ore 02.00 La nuvola

«Ma sotto, in spiaggia, c’è musica meno commerciale?», chiede all’aria salata una ragazza rossa di capelli, bellissima, sui diciannove. Ci sono due deejay diversi, proprio per favorire il saliscendi sui gradoni e il ricambio. E questa passerella di ragazze e ragazzi in jeans o tacchi a spillo o semplicemente tuta-pantaloni è un pezzo dello spettacolo, regolarmente filmato e fotografato, perché la festa è qui solo in parte: il resto è sulla nuvola. Sul «cloud», cioè. Perché il buio di questa notte sul mare è bucato dalle luci della pista e dai telefonini sempre accesi: si filmano mentre ballano, mentre riposano, mentre passeggiano, mentre salgono o scendono le gradinate, mentre si baciano o si salutano.

Così, lentamente, muore una generazione di festaioli che andavano in discoteca per perdere la testa, e avanzano quelli che di feste ne fanno due: una qua e una su TikTok. Forse Bruno, un papà che ha aspettato la sua Simona all’esterno, esagera quando dice che «vengono qui solo per filmarsi e postare su Instagram», ma qualcuno potrebbe negare che buona parte del divertimento sta lì? «Noi andavamo in discoteca per rimorchiare — scuote la testa il papà in jeans e camicia —, questi vengono qui per farsi le foto e poi se ne vanno».

È davvero così? «Ti taggo», dice una. «Mettici la funzione live», dice un’altra. «Ma certo che ci si corteggia ancora — ride Marzia, sui vent’anni —. Voi vi facevate dare il numero, noi ci messaggiamo su Instagram. C’è uno con cui mi scrivo da mesi e non ho mai sentito la sua voce». Manco un vocale? «E a che serve?». Come sono gli approcci di solito? «Se uno ti piace gli chiedi il nome e poi lo “segui”. Gli metti qualche like alle foto e ai video. Se lui ricambia il follow il giorno dopo gli mandi un messaggio». Ma non potete parlare su un divanetto, la sera stessa? «Boh. Sì, certo». Il gusto dell’inseguirsi sulla nuvola prima di farlo dal vivo dà un nome alla smania di selfie che si intreccia nell’aria questa notte: è come se ci si raccontasse prima online e solo dopo dal vivo.

Non è che questa vita virtuale finisce per soffocare il gusto — forse anche il rischio — di un corteggiamento tradizionale? Silenzio. Qualche risatina. Come se si parlasse di cose marziane. E il sesso? «Magari! Un miracolo», ride Davide. Perché? «Non so, è come se fossimo ancora in lockdown da quel punto di vista. Siamo come congelati». Per molti di loro questa è la prima estate d’amore. Che cosa vuol dire per voi “perdere la testa”? «Forse anche solo una notte fuori a ballare». «Una canna ogni tanto». «Sposarmi». E la nuvola virtuale si riempie di un carosello di immagini appena scattate.

Quello che però è reale è l’alcol che continua a girare, benzina della notte e di una danza che si fa più accesa, frenetica. Non ci sono incidenti, giusto un battibecco tra due ragazzi con il viso arrossato. Così come la musica si confonde con le voci, sempre più calde, sempre più urlanti. A proposito, sono le due. Non è forse ora di cominciare ad abbassare i volumi? «Cosa!? È adesso che comincia tutto», dice Davide. E infatti, come in un’apparizione mitologica, dal terrazzino della consolle ecco tre bellissime ballerine callipigie (in greco antico «dalle belle natiche», e, aggiungiamo, scoperte) che lanciano un segnale percepibile agli iniziati della notte e che per noi profani suona più o meno così: «Siete caldi? Si comincia». 

Ore 04.00 In pista

Ma il punto, per gli «osservatori» che si sforzano di restare svegli con caffè nero, è che tanti — parliamo di decine e decine di persone — cominciano ad arrivare adesso. Uno sciame caldo che scivola verso la spiaggia. E considerato che alle sei si va tutti a casa, uno si chiede: vale la pena pagare per stare così poco? E, soprattutto: dove siete stati finora? «In giro», è la risposta evasiva che danno tutti.

Viene il dubbio: ma non è che la discoteca è diventata quello che una volta era «l’after», cioè una coda del divertimento della nottata? Le ipotesi si sprecano: una festa privata prima e «disco» dopo? «Oppure, più semplicemente, sono stati in qualche altro posto — chiosano dalla discoteca —. Quello che a noi interessa è che siano sobri. Ma sa quanti ne arrivano che magari sono stati in altri locali più “tolleranti”?».

Adesso la folla è al culmine, le ballerine sono le registe involontarie di una danza dove si mescolano teste bionde, brune, rosse, folte o rasate: «fottitene e balla», cantava lo scorso inverno Dargen D’Amico, nella consapevolezza che sarebbe stata la parola d’ordine di questa estate «dove si balla». La «porta» però è ancora implacabile e vale la pena fare un salto lì nell’ora che comincia a calare di tono: c’è chi chiama un taxi, c’è chi aspetta la navetta e si appoggia (sfatto) al muretto, c’è chi commenta la serata e guarda le foto, c’è chi si apparta, c’è chi si avvia a piedi, la serata luccica e c’è la luna che guida i passi — anche quelli leggermente barcollanti — lungo l’Aurelia. Ma lo sapevate che questa è la strada del «Sorpasso»? Una voce buca il silenzio imbarazzato dei reduci: «Grande film, l’ho visto con mia nonna durante il lockdown». Sì, ha detto proprio «mia nonna». 

Ore 05.00 Sui divani

Intanto la notte si abbassa anche sugli ultimi irriducibili della pista. Qualcuno ha ceduto al divano, qualcun altro dorme sulle ginocchia di una che guarda il telefonino. Tutti sembrano chiedere qualcosa: un po’ di sonno, un taxi, un’acqua. È l’ora in cui si è più fragili, anche se questa è l’estate dei loro diciotto anni. Una bellissima giovane donna castana (non vuole dire nemmeno il nome ma è tedesca e ha scelto Alassio per le vacanze) è qui da sola. Non cerca nulla, solo un po’ di musica e di notte. Finalmente, dall’ultimo divanetto un po’ appartato, ecco una tenerezza stanca, di quelle che fanno venire voglia di dare ragione un po’ a tutti. Il primo bacio vero in una notte diciottenne, l’ultimo bacio senza telefonino davanti, che non finirà su Instagram perché non ce n’è bisogno: la marea ha già inghiottito tutto e non parlerà, perché i segreti del mare sono per sempre.

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 23 luglio 2022.

Chissà se si sentono minacciati i vari Chiara Ferragni, Fedez e compagni. C'è chi sostiene abbiano i giorni contati: hanno fatto il loro tempo e sono anche un po' obsoleti. Vuoi mettere il metaverso con i suoi mondi simulati e gli avatar personalizzati che stanno diventando celebrità virtuali in grado di conquistare l'attenzione dei brand per sponsorizzazioni "sorvegliate".

«Oggi con un influencer in carne e ossa non puoi controllare ogni dettaglio di ciò che quella persona farà, dirà, posterà. Invece con un influencer virtuale puoi creare una community più compatta e gestire la comunicazione», parola di Takayuki Moriya, amministratore delegato di Aww, l'azienda asiatica che ha messo in campo Imma (una delle loro "creature") per dialogare con mezzo milione di follower su come salvare l'ambiente dall'inquinamento.

Niente a che vedere con la Ferragni, regina degli influencer con 27 milioni e mezzo di follower, che oltre a postare prodotti da pubblicizzare sui social ogni tanto esprime pure le sue idee, salvo poi fare marcia indietro. Così è accaduto in questi giorni: ha affidato alle storie di Instagram la sua preoccupazione per la criminalità «fuori controllo» a Milano chiedendo al sindaco di porvi rimedio al più presto.

Ma il primo cittadino ha risposto stizzito dicendo di non condividere le sue parole. Ci si aspettava una Ferragni più combattiva, invece ha corretto il tiro e chiesto scusa. Più di tanto non si può pretendere nemmeno dagli influencer con intelligenza (non artificiale). O forse Chiara ha solo paura di perdere il presidio del suo fortino social. In effetti fa riflettere il suo passo indietro, lei che condiziona usi e costumi di mezzo mondo poi si comporta esattamente come pretendono le aziende che puntano sull'ascesa dell'influencer virtuali, in un mercato marketing, tra l'altro cresciuto del 20 per cento rispetto al 2021.

Si guadagna e molto. Lo sanno bene i Ferragnez ma anche Khaby Lame, re del TikTok, che mai vorrebbero perdere le loro postazioni. Sapranno pure che a fare la differenza sono state le piattaforme di riferimento. Chi lavora su YouTube ha visto aumentare i compensi fino al 60%, su TikTok fino al 22%, su Instagram fino al 33%. 

I fedelissimi di Facebook invece hanno perso del 35% le loro tariffe. Sono alcune delle rilevazioni della seconda edizione del listino dedicato al mercato italiano dell'influencer marketing, curato anche quest' anno da DeRev, società di strategia e comunicazione digitale. L'aumento dei compensi, precisa, è trasversale e riguarda tutti gli influencer (dai nano ai micro, dai mid-ter ai macro, fino ai mega influencer e alle celebrity). Concretamente, se nel 2021 si arrivava a pagare fino a 60 mila euro per un post, nel 2022 un video su YouTube può valere fino a 80 mila euro. Un record.

E se un influencer è l'esperto di una specifica nicchia di mercato, con un numero di follower sui social tale da condizionare le scelte dei "seguaci", l'influencer marketing invece è quell'insieme di attività e strategie basate sulla collaborazione tra un marchio e un influencer, che in cambio di compensi monetario altre guardare il dato di Facebook per capire quanto sia matura l'industria degli influencer: i compensi calano perché sono in flessione le performance stesse della piattaforma.

 Oggi, i content creator non sono predicatori mandati a irretire il popolo, ma ideatori e autori di contenuti originali che generano valore per il proprio pubblico e, soltanto di conseguenza, per le aziende e i brand che scelgono di affidargli i propri messaggi». È la crescita globale del mercato dell'Influencer marketing, che già nel 2021 aveva registrato un +15% rispetto all'anno precedente, raggiungendo volumi di circa 280 milioni in Italia e generando 450mila posti di lavoro, di cui 350mila come influencer, creator e altri in ruoli che orbitano intorno a queste attività.

Nel mondo nel 2021 aveva raggiunto i 13,8 miliardi contro i 9,7 del 2020, di cui 3,7 miliardi di dollari negli Usa, dove il mercato era cresciuto del 26% rispetto al 2020, con un +30% di agenzie e piattaforme specializzate. L'EGO - HUB forme di retribuzione come cene, week end, oggetti offre visibilità sui social all'azienda e ai suoi prodotti o servizi.

«Il mercato è sensibilmente in crescita - fa notare il Ceo di DeRev, Roberto Esposito - e il nostro listino fotografa un'economia in piena regola capace di rispondere agli stimoli esterni. Basta guardare il dato di Facebook per capire quanto sia matura l’industria degli influencer: i compensi calano perché sono in flessione le performance stesse della piattaforma. Oggi, i content creator non sono predicatori mandati a irretire il popolo, ma ideatori e autori di contenuti originali che generano valore per il proprio pubblico e, soltanto di conseguenza, per le aziende e i brand che scelgono di affidargli i propri messaggi».

È la crescita globale del mercato dell’Influencer marketing, che già nel 2021 aveva registrato un +15% rispetto all’anno precedente, raggiungendo volumi di circa 280milioni in Italia e generando 450mila posti di lavoro, di cui 350mila come influencer, creatore altri in ruoli che orbitano intorno a queste attività. Nel mondo nel 2021 aveva raggiunto i 13,8 miliardi contro i 9,7 del 2020,di cui 3,7miliardi di dollari negli Usa, dove il mercato era cresciuto del 26% rispetto al 2020, con un +30% di agenzie e piattaforme specializzate.

La forza "politica" di Ferragni & C. Francesco Maria Del Vigo il 7 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'acquisizione da parte di Gedi del 30 per cento di Stardust, un grande serbatoio di talenti digitali, non è solo una questione economica e finanziaria. E non è neppure solo una mossa editoriale

L'acquisizione da parte di Gedi del 30 per cento di Stardust, un grande serbatoio di talenti digitali, non è solo una questione economica e finanziaria. E non è neppure solo una mossa editoriale.

Quello degli influencer è un tesoretto che vale milioni di visualizzazioni, per l'esattezza i 500 creatori di Stardust producono 1.200 contenuti originali al giorno, raccogliendo più di 150 milioni di visualizzazioni. Una platea enorme che fa impallidire quella della tradizionalissima televisione. Ed è proprio questo il punto. I social media e, di conseguenza, gli influencer hanno una potenza comunicativa enorme e sempre più spesso ingaggiano battaglie politiche e sociali. E, da questo punto di vista, l'Italia è all'avanguardia. Un laboratorio, nel bene e nel male.

Capite bene che, in un Paese dove un movimento politico fondato sul web da un comico ha vinto le elezioni ed espresso un presidente del Consiglio, l'ipotesi che - giusto per fare due nomi - Chiara Ferragni e il di lei consorte decidano di capitalizzare politicamente il loro patrimonio di popolarità, non è del tutto improbabile. D'altronde a loro modo - pensiamo alle battaglie per la comunità Lgbt e per i diritti civili - stanno già facendo politica.

Facciamo qualche numero, giusto per dare le proporzioni del fenomeno, la sopraccitata regina delle influencer di moda (ma non solo) su Instagram ha un seguito di 27,4 milioni di persone. Giuseppe Conte, ex presidente del Consiglio, ne ha 1,8 milioni. Matteo Salvini 2,2 milioni. Giorgia Meloni si ferma a 985mila. In confronto sono briciole anche perché, per evidenti motivi, quello della Ferragni è un pubblico internazionale. Uscendo fuori dai confini italiani: Emmanuel Macron raccoglie 3 milioni di seguaci e Boris Johnson lambisce i due milioni. Un ultimo esempio: Papa Francesco ha 8,9 milioni di seguaci, Khaby Lame 78,5. È ovvio: i follower non sono voti ed è sbagliato confondere i due piani. Ma in un Paese dove i politici vogliono fare le star del web e dove i divi dei social fanno un attivismo sempre più politicizzato, quella del «partito degli influencer» è un'ipotesi tutt'altro che improbabile. 

Gli Agnelli puntano sugli influencer. Gian Maria De Francesco il 7 Luglio 2022 su Il Giornale.

Gedi, editore di "Repubblica", compra il 30% di Stardust, la casa delle stelle dei social.

Abitare la trasformazione digitale dell'informazione. Una frontiera nella quale gli influencer non sono solo il messaggio ma anche il mezzo. È questa la scelta annunciata ieri dal gruppo Gedi (editore di Repubblica, Stampa e Secolo XIX), controllata interamente dalla Exor, cassaforte della famiglia Agnelli presieduta da John Elkann (nel tondo). Nel dettaglio, Gedi ha acquisito il 30% dell'agenzia digitale Stardust sia dai soci che attraverso un aumento di capitale riservato. Alla fine di questo round i soci fondatori (il presidente Simone Giacomini, il Ceo Antonino Maira, Fabrizio Ferraguzzo, Alan Tonetti e Ettore Dore) deterranno il 57,5%, gli Agnelli il 30%, il venture capital Alchimia il 17,5% e il fondo Falcon il 5 per cento.

Il gruppo torinese non ha reso nota la spesa, ma l'investimento complessivo potrebbe avvicinare (se non superare) la decina di milioni di euro. Stardust ha fatturato circa 10 milioni l'anno scorso, con un margine al 15% del fatturato. Quest'anno i ricavi veleggiano verso il raddoppio. Gedi potrà incrementare la propria partecipazione fino a raggiungere una quota ricompresa tra il 60 e il 100% nel periodo 2023-2025. Nell'orizzonte di piano sono previsti meccanismi di remunerazione dei fondatori in caso di cessione e/o di diluizione con un aumento di capitale.

Queste cifre derivano, a loro volta, da altre. Stardust produce oggi circa 1.200 contenuti originali al giorno, e attrae oltre 500 creativi, influencer e ambassador (personaggi che si legano a un marchio o a una campagna istituzionale; ndr) la cui attività genera oltre 15 miliardi di visualizzazioni all'anno e 20 milioni di interazioni al mese. L'agenzia nel solo 2021 ha gestito circa 300 campagne social per 70 marchi. La peculiarità? L'aver creato un atelier «Stardust House», una villa a Milano che funziona da campo scuola per i giovani influencer che possono scambiarsi opinioni, idee ed esercitarsi sulle proprie abilità: musica, danza, recitazione e montaggio video. I giovani talenti Stardust come Samara Tramontano, Andrea Fratino, Giorgia Yin e George Ciupilan sono già molto noti ai giovanissimi e vantano milioni di follower su Instagram e TikTok.

Tutto questo spiega perché Gedi abbia scommesso per prima su questo «incubatore» di personaggi del futuro. «Con Stardust la nostra strategia digitale compie un passo in avanti perché ci permette di distribuire a nuove audience i nostri contenuti e di approfondire le dinamiche di comunità digitali finora non raggiunte dalla nostra offerta», ha spiegato l'amministratore delegato di Gedi, Maurizio Scanavino. Oltre il 70% degli italiani utilizza oggi i social media e il loro numero è in costante crescita. I Millennials (nati tra 1980 e il 1994) e la Generazione Z (nati dal 1995 al 2010) trascorrono, infatti, poco meno di 3 ore al giorno sulle diverse piattaforme. Rinunciare ai social e agli influencer significa rinunciare al principale veicolo informativo di questa fascia di consumatori. La recente cessione dell'Espresso da parte di Gedi si spiega anche con la volontà di puntare al target giovane.

Un mercato ben noto al fondatore Stardust, Simone Giacomini. «Viviamo in un contesto in cui oggi le persone sono diventate un media potente in grado di influenzare i consumi e i comportamenti di un vasto pubblico connesso digitalmente», ha spiegato. Sì, le persone sono il mezzo e il messaggio.

Khabi Lame asfalta tutta la sinistra con una frase: "Chi è pulito...". Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 26 giugno 2022

Gli scaramantici l'hanno sempre considerata una iattura bella e buona, una massima inventata apposta per prendere le disgrazie con finta filosofia. Ma per qualcuno la frase di Albert Einstein, «è nella crisi che sorge l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie», è davvero una legge divina. Come Khaby Lame. Ha 22 anni, è nato a Dakar ma è arrivato in Italia quando aveva un anno, ha fatto l'operaio nel torinese ed è stato licenziato a marzo del 2020, con l'arrivo del covid. Un destino purtroppo comune a molti. Lui però, da allora si è ripreso alla grande, e da un paio di giorni è l'uomo più seguito al mondo su TikTok con 142,4 milioni di follower. È diventato famoso proprio durante i vari lockdown, utilizzando i social network con una semplicità unica e compiendo questo miracolo letteralmente con la sola imposizione delle mani. La sua posa è nota in tutti i continenti e ha portato un po' di spensieratezza nelle giornate degli utenti digitali. Per di più, grazie alla notorietà è riuscito ad accumulare anche qualche quattrino. Qualcosa, però, ancora gli manca: la cittadinanza italiana.

SOLTANTO LE FOTO

In un'intervista a Repubblica giusto ieri aveva ricordato di non avere ancora il passaporto e che sebbene qualche mese fa il questore di Milano l'abbia convocato perla pratica di cittadinanza, gli erano solo state fatte delle foto e poi era stato lasciato andare. Poche ore dopo la pubblicazione dell'intervista, il sottosegretario agli Interni, Carlo Sibilia, ha scritto un tweet per rassicurarlo: «Caro Khaby Lame volevo tranquillizzarti sul fatto che il decreto di concessione della cittadinanza italiana è stato già emanato i primi di giugno dal Ministero dell'Interno. A breve sarai contattato dalle istituzioni locali per la notifica e il giuramento. In bocca al lupo». Tutto bene ciò che finisce bene, insomma, almeno per lui, che qualche sassolino nella scarpa ha voluto toglierselo lo stesso. Al Ministro Luciana Lamorgese aveva detto: «Non è giusto che una persona che vive e cresce con la cultura italiana per così tanti anni ed è pulito, non abbia ancora oggi il diritto di cittadinanza. E non parlo solo per me. Il visto e magari la cittadinanza mi renderebbero le cose più facili, ma non sarei contento pensando a tutte quelle altre persone che magari sono anche nate in Italia e non hanno lo stesso diritto». 

Con una parolina ben assestata, Lame è riuscito a rimettere in riga i benpensanti di sinistra, che già stavano esultando per un presunto trionfo di immigrazionismo. La parolina è: pulito. Mentre infervora il dibattito sullo ius scholae, che mercoledì approderà in aula a Montecitorio per la discussione generale (la votazione sarà a luglio), Lame in un colpo solo è riuscito a rimettere in riga i fan dell'immigrazione incontrollata e a trovare una falla nella legge che piace a Pd, 5Stelle (e dimaiani), Leu, Italia Viva e Forza Italia. 

NO ALLA CRIMINALITÀ

Con quel "sono pulito", un figlio dell'immigrazione come Lame ammette di fatto l'esistenza di un problema di criminalità legato all'arrivo incontrollato di decine di migliaia di persone l'anno (67mila nel 2021, il doppio rispetto al 2020), e ammette anche che ci siano persone come lui che ci tengono a non essere confuse con la massa e che meritano una considerazione particolare. Quindi, sì alla cittadinanza, ma a chi la merita e a chi se la guadagna. Lame è davvero «cresciuto con la cultura italiana», ha concluso ben più di un ciclo scolastico in Italia (che secondo lo ius scholae sarebbe già sufficiente), e soprattutto ha la fedina penale immacolata. Difatti, anche con lo ius sanguinis in vigore al momento (ovvero la cittadinanza per discendenza), il passaporto, seppur con qualche mese di troppo, lo otterrà. Lo ius scholae, che consentirebbe di diventare italiani a tutti gli effetti a quasi un milione di ragazzi figli di immigrati, supera (finalmente) lo ius soli, che concedeva la cittadinanza a tutti i nati in Italia, già perché prevede il completamento di cinque anni di scuola. Ma forse, grazie all'esempio di Khaby Lame, qualche requisito in più potrebbe essere introdotto. Ad esempio, essere puliti. 

Riccardo Luna per “la Repubblica” il 24 giugno 2022. 

Il 23 giugno, quando la mezzanotte era passata da tre minuti esatti, TikTok ha trovato il suo nuovo re: si chiama Khaby Lame, ha 22 anni e più di 142 milioni di follower ai quali, in tanti video, non ha mai detto una parola: i suoi sketch sono muti e quindi comprensibili per tutti. Dopo aver festeggiato con il team, ora è nel suo appartamento, a Milano, in un bel terrazzo. Ha una canottiera bianca, accanto ha il manager Alessandro Riggio che è stato un po' l'artefice del successo di questo ragazzo e che ne misura ogni esternazione. 

Non doveva essere a Milano ieri ma sarebbe dovuto partire per Los Angeles per un servizio fotografico con la modella Kendall Jenner e per partecipare come super ospite al VidCon, la più importante conferenza mondiale per youtuber e tiktoker. Ma il visto per gli Stati Uniti non è arrivato in tempo. E non è un disguido. 

Khaby Lame infatti, anche se è arrivato in Italia dal Senegal quando aveva un anno; anche se in Piemonte ha fatto tutte le scuole; anche se dalle parti di Chivasso, dove abitava, ha fatto mille lavoretti, fino all'ultimo, operaio addetto alle macchine a controllo numerico; anche se sempre lì ha fatto i primi video per TikTok quando lo hanno licenziato all'inizio della pandemia; ecco, anche se Khaby Lame si sente a tutti gli effetti italiano, non ha la cittadinanza; e con il passaporto del Senegal andare in giro per il mondo, come sarebbe richiesto dal suo lavoro, è meno facile. 

Il primo del mondo, è felice?

«Sì, certo». 

È stato facile?

«Assolutamente no. Ma ci abbiamo sempre creduto». 

C'è stato un momento in cui sembrava che lei fosse passato di moda.

«Me lo hanno chiesto in tanti se ero in calo» ("Non era in calo, era in pausa", interviene Riggio). 

Cosa cambia con il primo posto?

«Nulla, noi facciamo video, anche se siamo primi è come essere ultimi, io faccio video perché mi diverto e mi piace far divertire gli altri». 

Il primo su Instagram è Cristiano Ronaldo, su Twitter Barack Obama, su TikTok c'è lei.

«È un bel traguardo. Ieri notte siamo rimasti svegli con il team a seguire il conto alla rovescia su Tok count e abbiamo festeggiato tutti assieme. È un successo di squadra ("No, è merito tuo, prenditelo", dice Riggio)». 

Ha superato Charli D'Amelio che era la prima da sempre: è una giovane ragazza americana che fa dei balletti simpatici. Che pensa di lei?

«Ci siamo incontrati alla Fashion Week di Milano a febbraio, mi piace è una persona molto tranquilla (Riggio: "Quando ha visto Khaby gli ha detto: You are a legend!"). 

Cosa si ricorda più volentieri di questa rimonta?

«È stato un anno pazzesco, ho incontrato persone meravigliose, siamo cresciuti molto come team.

Abbiamo anche avuto momenti difficili ma se ami quello che fai niente è davvero difficile. E poi ho fatto il red carpet a Venezia e a Cannes».

Fare l'attore era il suo grande sogno quando è arrivato su Tik Tok.

«Lo è ancora». 

Aveva detto che si sarebbe messo a studiare l'inglese per andare ad Hollywood.

«Sto facendo lezione ogni giorno. I am studying English everyday with my teacher. And acting, too». 

Studia recitazione? Ha già avuto proposte per fare cinema?

«Qualcuna sì» (interviene Riggio: "Tante proposte e tutte rifiutate, e non perché non fossero importanti, ma perché Khaby non è ancora pronto per andare sul set").

Khaby, il suo manager sembra il padre delle sorelle Williams che ha voluto attendere che crescessero per farle debuttare.

«Gliel'ho detto anche io». 

E i suoi genitori? Come stanno? Per loro cosa è cambiato?

«Sono qui, sono venuti a festeggiarmi. Non abitano più nelle case popolari di Chivasso, però, gli ho comprato una casa poco fuori Milano. Se la meritano».

E lei, si merita di poter viaggiare con un passaporto italiano?

«Se dio vuole». 

 Qualche mese fa il questore di Milano l'ha convocata per la pratica di cittadinanza.

«Mi hanno fatto delle foto e mi hanno lasciato andare». 

Se potesse dire qualcosa alla ministra dell'Interno Lamorgese che cosa le direbbe?

«Che non è giusto che una persona che vive e cresce con la cultura italiana per così tanti anni ed è pulito, non abbia ancora oggi il diritto di cittadinanza. E non parlo solo per me». 

Vedrà che questo storia del visto si sblocca ora che è il re del social più importante del mondo.

«Ma qui non ci sono solo io. Il visto e magari la cittadinanza mi renderebbero le cose più facili, ma non sarei contento pensando a tutte quelle altre persone che magari sono anche nate in Italia e non hanno lo stesso diritto».

Kate Bush in classifica solo grazie a Stranger Things: è un paradosso ma vendere dischi non conta più. Gino Castaldo su L'Espresso il 20 giugno 2022.    

Il numero di copie è ormai una cosa medievale: il podio lo detta lo streaming

Cosa ci fa “Running up that hill” di Kate Bush (un pezzo del 1985) al 19esimo posto della Top 50 italiana di Spotify, tra Rhove, Shiva e Sferaebbasta e alla stessa medesima posizione di quella ufficiale di vendita della Fimi? Niente, è un bug della storia, paradosso dei nostri tempi, ci sta per puro caso, solo perché è stata inserita tra le musiche della serie “Stranger things”, quindi un sacco di giovani l’ha scoperta e si è messo a cliccarla a più non posso.

Ma questa stravaganza ci fa capire che anche le classifiche, così come le stagioni, i gelati confezionati e i film da ridere, non sono più come quelle di una volta. Un tempo, per quello che poteva valere ai fini del piacere della musica, se c’era scritto che al primo posto c’era quel disco voleva dire che era il più venduto. Punto. Al massimo si imbrogliava, o qualcuno ci provava, ma l’evidenza rimaneva quella, c’era da contare le copie vendute.

Oggi invece bisogna tenere conto di una percentuale (sempre più ridotta) di “fisico” (cd, vinili e altri oggetti del medioevo), dei download (decisamente in calo) e soprattutto degli streaming, il che vuol dire che se a me piace pazzamente una canzone e la metto in ascolto fisso, durante il giorno la ascolto 100 volte, questi cento ascolti vanno a fare punteggio di classifica, ma questo non vuole assolutamente dire che io lo abbia comprato 100 volte. Anzi non l’ho comprato neanche una volta perché verosimilmente ho un abbonamento che mi consente di ascoltare quello che mi pare, senza costi aggiuntivi, quindi ascolto in loop un pezzo, un album, non ci bado neanche più di tanto, non mi costa niente, ma i dati vengono mescolati con gli altri, che invece sono acquisti a tutti gli effetti.

Dunque accadono cose strane, come se le classifiche dei libri più venduti tenessero conto di quante volte un singolo acquirente legge il libro che ha comprato o di quante orecchiette facciamo alle pagine. La deformazione è piuttosto evidente. Questo spiega perché il mercato è diventato un gioco da ragazzi, anzi di ragazzini, perché c’è di mezzo Tik Tok e devi fare anche quello se vuoi moltiplicare i tuoi benedetti streaming. Questo spiega perché Blanco e Rhove occupino con diversi pezzi ben 11 posizioni su 50, e spiega anche perché l’unico “vecchio” over 25 che rimane presente nelle classifiche dei singoli sia Jovanotti, che si trova al quarto posto con “I love you baby”, ha raggiunto il livello “disco di platino” che non è una carta per avere lo sconto sui mezzi pubblici bensì la certificazione di oltre 50mila copie vendute, ops, vendute? No, meglio, in parte vendute, in parte “streamate”, in parte prese coi punti del supermercato, in parte legate al FtseMib. E se avete un fondo pensione metteteci pure i pezzi di Tananai, capace che in classifica ci andate pure voi.  

Comunque poco bella. Quelle che si ostinano a imporre l’estetica del pelo sotto le ascelle. Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 Giugno 2022.

Puoi mettere i denti separati o i rotoli di trippa sborsati dai pantaloni in tutti i servizi di moda, ma non puoi imporre a nessuno di trovare queste cose attraenti.

Avrei i denti separati. I due incisivi superiori, quello spazio che tecnicamente si chiama diastema, quello che se sei Léa Seydoux fa strafiga mondiale e se sei Amy Winehouse fa tossicodipendente destinata a morte prematura.

Quand’ero alle elementari mio cugino mi fece lo sgambetto, caddi a faccia in avanti (sempre stata agilissima), gli incisivi si ruppero. Il dentista me li ricostruì attaccati. Sono passati più di quarant’anni, li ho dovuti rifare qualche volta, e ogni volta ho la tentazione di dire: me li lasci separati. Poi non lo faccio mai.

Se sei Madonna Ciccone, e prima di uscire ti fai due ore di trucco e parrucco, e non c’è una parte dei tuo corpo che non sia tonica perché hai dedicato a tenerti in forma il tempo che io ho dedicato a mangiare carboidrati unti, allora i denti separati sono un vezzo. Se sei Guia Soncini, ed esci coi pantaloni con l’elastico perché mica ti metti a dieta, e le tette sballonzolanti perché il reggiseno t’infastidisce, allora i denti separati sono tutto ciò che ti manca per sembrare una barbona e vederti rifiutare l’accesso ai locali pubblici.

Ventitré anni fa, alla prima londinese di Notting Hill, Julia Roberts aveva trentun anni, era al massimo del suo splendore, aveva appena fatto la miglior commedia romantica di fine secolo, e aveva i peli sotto le ascelle. Qualcuna di noialtre, disgraziate pagate per raccontare i costumi delle celebrità e i di essi riflessi sull’universo dei mortali, provò a parlare di nuova tendenza, ma ci veniva da ridere: è Julia Roberts, ti pare che i peli suoi possano fare l’effetto dei miei?

Venerdì mi è arrivato un messaggio dalla presentazione del libro d’una militante di Instagram. La persona che era lì voleva sapere che senso avesse che una truccata messinpiegata balconcinata e tutte cose poi non trovasse quindici secondi per passarsi un rasoio sotto le ascelle.

Dicono le nuove militanti che devono cambiare i criteri estetici. Criteri che hanno una loro logica: una volta andavano le grasse perché essere grassa voleva dire avere accesso non contingentato al cibo, e quindi essere ricche; adesso se sei ricca puoi permetterti il tofu e il pilates e sarai sottile (sorpresissima: i criteri estetici sono criteri di classe).

Quello che vorrebbero dire le militanti è: i criteri estetici vanno aboliti, vogliamo un’estetica in cui siamo tutte considerate belle. Solo che la bellezza esiste se esiste la bruttezza: tutte belle è come nessuna bella, tutte belle significa che «bella» non vale più niente, è la svalutazione fuori controllo. Quel che dovrebbero dire è: ma chi se ne fotte di essere bella, se non sei pagata per esserlo, se non è il tuo mestiere esserlo, se non sei così geneticamente fortunata da esserlo senza sforzo.

Ma non riescono a dirlo, perché da Mogol e Battisti in su e in giù la dialettica degli umani si è plasmata sul dirci l’un l’altra che siamo comunque belle, mica che siamo dei mezzi cessi ma per fortuna veniamo valutate per altro.

E quindi dicono che bisogna cambiare i criteri, per includere i peli sotto le ascelle come dettaglio attraente. E nessuno obietta che cambiare i criteri vuol dire modificare la categoria delle escluse: qualunque criterio tu ponga, escluderà qualcuna, magari quella con le ascelle con l’alopecia. Nessuno fa questa obiezione, neppure io, giacché oggi vorrei formularne un’altra: come la mettiamo col desiderio?

Al desiderio non si comanda, e puoi mettere ascelle pelose in tutti i servizi di moda, ma non puoi costringere nessuno a trovare attraenti le ascelle pelose, o i denti separati, o i rotoli di trippa sborsati dai pantaloni. L’assenza di desiderio è peraltro molto riposante (sono solita aprire le conversazioni con sconosciuti raccontando che, per ovviare al dramma d’avere molte tette nella stagione calda, tengo in frigo delle bottiglie di birra da infilare nel sottotetta sudato; a quel punto è ragionevolmente certo che lo sconosciuto non mi considererà un oggetto del desiderio e la serata trascorrerà serena); ma, per apprezzarla, occorre essere più risolte di quanto lo sia la più parte dell’umanità.

La vicenda della docente transessuale che si è uccisa è drammatica per ogni tipo di pubblico, persino per quella fascia che finge di considerare gioiosa la convinzione che cambiare genere sessuale cheterà il tuo mal di vivere: siamo un’epoca così fessa da aver fatto della malattia mentale un’ambizione. Ieri su Repubblica intervistavano una sua ex allieva che stigmatizzava i comportamenti dei suoi ex compagni di scuola (insensibili son sempre gli altri) e dei loro genitori, che la guardavano come un fenomeno da baraccone.

Se al cinema ridiamo di uno che scivola su una buccia di banana, è perché sappiamo distinguere la finzione cinematografica dalla vita? O, piuttosto, perché se ti scappa da ridere ti scappa da ridere, e nella vita poi magari dopo cinque secondi a quello che è scivolato chiedi se si sia fatto male e abbia bisogno d’aiuto, ma i primi cinque secondi ridi? Trovare ridicolo qualcosa è cultura e non natura, obietteranno i miei piccoli lettori, e gli allievi della suicida andavano educati alla diversità, e così i loro genitori. Ma non funziona così: puoi educarli a capire che quel qualcuno ha diritto ad avere gli stessi diritti, puoi istruirli a non essere così cafoni da sghignazzare in pubblico, ma non puoi costringerli a non trovare qualcuno buffo, mostruoso, diverso. Al ridicolo, come al desiderio, non si comanda.

Oltretutto, impegnati come siamo a dirci come dovremmo essere tolleranti e non giudicanti («non giudicate» è il più fesso precetto della militanza contemporanea: «mi piacciono i peli sotto le ascelle» è giudizio tanto quanto «non mi piacciono», i giudizi sono il modo in cui gli esseri viventi si relazionano), trascuriamo il dettaglio più orrendo: l’appropriazione di cadavere. Nessuno, neanche chi lo fa, sa perché ci si suicida; ma noi sappiamo che è per portare avanti la polemica che c’interessa in quel momento.

Molti anni dopo quella primavera del 1999, una militante di buona volontà ha lodato Julia Roberts per quel suo gesto femminista, per quell’abbattimento dei canoni, per quell’affermazione identitaria. Roberts ha risposto che no, veramente si era solamente sbagliata a calcolare quant’era sbracciato il vestito, e che alzando il braccio per salutare la folla si sarebbero visti i peli. «È che sono scema», ha concluso. Solo che, siccome era Julia Roberts, il suo essere ridicola e pelosa e raccapricciante non fu tale: era Julia Roberts, poteva permettersi anche i peli sotto le ascelle. Era Julia Roberts, e quindi aveva il desiderio garantito. Giacché nella società degli umani mutano i tempi e i criteri estetici, ma una costante rimane: essa è iniqua.

Muchas lagnas. Gianluca Vacchi, Fedez e le star dell’oggi che frignano per identificarsi con il pubblico (cioè noi). Guia Soncini su L'Inkiesta il 15 Giugno 2022.

Quest’epoca sarà ricordata per i documentari bruttissimi e senza coraggio, in cui il famoso viene ritratto a tinte pastello, salvo quando si commuove (cioè sempre) per suscitare partecipazione negli spettatori e far credere loro di essere sullo stesso livello.  

Cosa dice del livello culturale del nostro tempo il fatto che consumiamo le opere soltanto se esse sono trasposizioni non dissimulate delle vite, e che non vogliamo un io narrante ma un buco della serratura, e che non vogliamo assistere a quello che hai deciso di mettere in scena ma vogliamo conoscere te che ti metti in scena, illuderci che siamo amici, depositari dei tuoi segreti, osservatori degli angoli delle inquadrature che loro sì ti sanno?

Ci pensavo mentre il marito della Ferragni – che se deve vendere una canzone ha bisogno di trucchi social quali «seguo cento di voi tra quelli che mettono like», ma se deve venderci la sua vita e le sue malattie non spinge troppo, sapendo che il prodotto funziona da sé – collegava mirabilmente il suo cancro e il relativo timore di lasciare orfani i figli al verso della canzone da vendere quest’estate, «la vita senza amore dimmi tu che vita è».

Ma soprattutto ci pensavo guardando, in grave ritardo, “Mucho más”, il documentario su Gianluca Vacchi che è su Prime ed è stato reso obsolescente dal fatto che quando è uscito sono arrivati anche, sui giornali, i racconti di come Vacchi costringa la servitù a improbabili coreografie per il suo Instagram. Ma tu pensa, chi l’avrebbe mai detto che non erano loro che lo supplicavano di partecipare ai balletti in grembiule e crestina.

Che sia verosimile o no, che sia succulenta o no, l’indiscrezione imprevista vincerà sempre sul prodotto programmato: se vogliamo illuderci di vedere la verità, essa non dev’essere sospettabile di sceneggiatura.

I documentari di questi anni sono tutti bruttissimi. È colpa delle piattaforme, certo: della loro logorrea, del loro far diventare tutto roba da otto puntate. Ma è anche colpa del fatto che ormai non puoi essere brillante, sennò la gente non s’immedesima; devi piangere, sennò la gente non s’immedesima; devi dire frasi da calendario di Frate Indovino, mica da testo di Karl Kraus (sennò, indovinate?, la gente non s’immedesima); non devi fare o dire niente che possa far pensare al pubblico guarda questo quant’è distante da me: magari sei fantastiliardario, ma soffri, ma sei comunque uno di noi. Insomma: vogliamo sceneggiature troppo loffie per sembrare tali.

E poi c’è il problema che i soggetti da raccontare hanno tutti la smania di fare bella figura, e non si circondano certo di gente che dica loro che il re è nudo. Di Matt Tyrnauer (il regista di “Valentino – L’ultimo imperatore” che monta il documentario con tutte le parti più petulanti che mai Valentino e Giammetti avrebbero voluto rese pubbliche) ce n’è uno; ma pure di Valentino e Giammetti che lo vedono, capiscono che funziona, e se ne fottono di uscirne bene non ce ne sono moltissimi – forse nessuno.

Ci pensavo mentre Gianluca Vacchi diceva che bisogna decidersi: o è un cretino lui e quindi lo sono milioni di persone che lo seguono perché lo amano, oppure ha ragione lui. Pensavo: ah, vedi, Vacchi usa Instagram solo per postare le sue cose. Se lo usasse per guardare le cose degli altri, saprebbe che guardiamo quasi solo coloro dei quali possiamo dire «mamma mia quant’è coglione», che guardiamo Instagram come l’elettore di sinistra negli anni Novanta guardava Emilio Fede: per raccapricciarci e sentirci superiori.

Ma pensavo anche: quindi Vacchi non ha un amico, uno stipendiato, un parente, un qualcuno che gli sveli che il meccanismo è quello, e molte visualizzazioni non necessariamente equivalgono a molta stima. Oppure ce l’ha ma pensa (non a torto) che guardiamo le cose con un’attenzione così lasca che, se sentiamo uno dire «mi guardano quindi mi reputano un figo», difficilmente ci mettiamo a contestarlo? Magari ha sia l’amico che la consapevolezza, ma sa quanto tendiamo a non cercare secondi livelli: se dice che è un figo, lo sarà.

Ci pensavo mentre Vacchi diceva che un uomo che legge vive mille vite e uno che non legge ne vive una sola, e mancavano la gatta al lardo e le mogli e i buoi; ci pensavo mentre diceva «sono stato il primo a portare la musica latina a Ibiza», come quelle pizzerie del New Jersey che si vantano d’essere più italiane delle altre.

“Mucho más” somiglia a tutti i documentari brutti degli ultimi anni. Come Tiziano Ferro, Vacchi piange tantissimo. Come Chiara Ferragni, usa la nascita della figlia come materiale narrativo. Come Elisabetta Franchi, ci dice che si è fatto da solo (Vacchi sciava a Cortina quarant’anni prima di quando sarebbe arrivata a farlo la Franchi – ma ora non cavilliamo). Come tutti, il documentario è fatto per un terzo di filmati già visti su Instagram, giacché ormai il pubblico vuole solo ciò che già conosce.

Se fosse stato un documentario valentinesco, avrebbe contenuto non l’Instagram compiaciuto di Vacchi ma i fuorionda che abbiamo guardato sui siti dei giornali: quel video dei domestici di casa Vacchi che lo difendono dopo lo scandalo, e dicono che il dottore chiede sempre per favore quando vuole che gli portino un asciugamano, quello è meglio di qualunque pianto di Vacchi (per la figlia, per la casa in Sardegna, per un po’ tutto).

C’è un mezzo secondo fatto così, in “Mucho más”, quando Vacchi si tuffa con una capriola dalla barca, e la corte dei miracoli a bordo applaude, e si desidera che sia tutto così: tutto trattato sulle classi sociali, tutto “Wolf of Wall Street”, tutto io sono io e voi non siete un cazzo. E invece è tutto un frignare: del padre che sarebbe fiero di lui, delle braccia che non sentiva più stringendo la sua piccina uscita dalla sala operatoria, della gente che giudica (in pieno spirito del tempo, Vacchi si mette in scena e poi trasecola se lo giudicano).

Che occasione sprecata. C’è persino un momento stupendo in cui Vacchi dice d’essere nato «benestante, non ricco», e che il suo patrimonio ora è cento volte quello che gli ha lasciato il padre. Da non crederci: la regia non ha la prontezza di contrappuntarlo con «il cash non mi ha cambiato, sono ancora poco ricco»

Dagospia il 19 maggio 2022. Estratto da “Il partito degli influencer”, di Stefano Feltri (ed. Einaudi)

Matteo Renzi aveva già capito tutto nel 2016 anche se, come  spesso gli è capitato, l’intuizione precoce non si è tradotta in strategia previdente, ma in irruenza ed eccesso di sicurezza.  Con risultati disastrosi. 

Nella campagna per il referendum costituzionale al cui esito aveva legato il futuro della sua carriera politica, però, l’allora presidente del Consiglio e segretario del Pd aveva intuito l’importanza di schierare influencer a sostegno del proprio messaggio. Poiché le riforme costituzionali sono materia complessa e un po’ noiosa, è illusorio pensare di convincere gli elettori spiegando i dettagli di un provvedimento peraltro confuso e pieno di zone grigie. 

Moltissimi avrebbero votato per semplificazioni: per simpatia o astio nei confronti di Renzi e del suo governo, per appartenenza ideologica, perché è meglio provare a cambiare invece che tenere tutto cosí com’è o perché «guai a chi tocca la Costituzione piú bella del mondo».

Oppure sulla base del consiglio di qualcuno di fiducia che risparmia la fatica di elaborare una decisione autonoma. Un influencer, insomma: da anni i pubblicitari conoscono l’importanza delle associazioni, per gestire la complessità del mondo la nostra mente associa concetti e oggetti che considera affini. 

 Una volta creata l’associazione, è molto difficile sostituirla con un’altra, se non attraverso un faticoso processo molto razionale che cancelli l’istintiva tendenza a replicare sempre l’associazione iniziale. 

Se l’influencer giusto crea una prima impressione nel potenziale elettore che la riforma costituzionale è volta a rendere il Paese piú dinamico e meno burocratico, con una politica agile e libera da incrostazioni passate, le probabilità che poi quell’elettore voti in favore della riforma sono molto alte, a prescindere dalla quantità di input che riceverà in seguito. 

Le mail interne alla campagna renziana a favore della riforma, agli atti dell’inchiesta della procura di Firenze che ha indagato sulla Fondazione Open per presunto finanziamento illecito ai partiti, raccontano l’analisi delle dinamiche del consenso nell’era social e come i politici pensano di sfruttarle.

Se e come i social possono davvero influenzare la politica o le opinioni è oggetto di dibattito e di molte analisi (come vedremo nelle prossime pagine), ma in questo momento possiamo limitarci a osservare quelle che gli economisti chiamano «preferenze rivelate», cioè quanto emerge dall’osservazione dei comportamenti reali degli attori, a prescindere che questi comportamenti siano razionali o meno. 

 Che siano efficaci o meno, è un fatto che durante la piú cruciale campagna politica di quegli anni i protagonisti abbiano cercato di usare gli influencer. 

Già nel 2016, un’altra era geologica vista la rapidità di evoluzione dei social, il presidente del Consiglio in carica e i suoi consulenti erano convinti che sarebbe stato il rapporto di fiducia tra alcuni specifici soggetti e i loro follower a stabilire il risultato del piú importante voto politico di quella fase. 

Questa convinzione se la sono formata studiando le dinamiche interne allo schieramento avverso, quello contrario alla riforma costituzionale, e in particolare la parte riconducibile al Movimento Cinque Stelle. Ciò che è virale è vero.

 Il 21 luglio 2016, l’esperto di web marketing Cristiano Magi manda un corposo documento a Fabio Pammolli, economista dell’Imt di Lucca e consulente del governo Renzi che opera come coordinatore della strategia digitale della campagna referendaria a favore della riforma, per conto di Matteo Renzi e dei suoi piú stretti collaboratori come Marco Carrai.

 Il documento di 48 pagine intitolato «Analisi rete competitor» comincia con una citazione priva di autore: «Ciò che è virale è vero». Lo studio riguarda il dibattito interno al mondo Cinque Stelle, che funziona cosí: c’è una struttura «molto organizzata e centralizzata che ruota intorno a un numero limitato di nodi core», questi nodi corrispondono a due tipi di utenti. Ci sono i «mediator (generali e luogotenenti)» e i «booster (promotori/ attivisti)».

 I mediator sono gli esponenti di primo piano del Movimento, quelli con ruoli pubblici e magari cariche istituzionali, sono connessi tra loro e sono il primo livello della comunicazione. Da lí partono i messaggi rivolti al bacino di riferimento. Da soli, però, non riuscirebbero ad andare lontano, la loro capacità di influenza sarebbe molto limitata. Per questo ci sono i «booster» che «agiscono in modo sincronizzato per inflazionare il numero dei like e degli share [condivisioni] per i post dei competitor, in modo da far imparare agli algoritmi di Facebook che il post è virale». 

 Secondo l’analisi del team di consulenti di Renzi, la comunicazione digitale dei Cinque Stelle segue dunque una struttura gerarchica basata su ruoli differenziati che vengono indicati con etichette militari. Ci sono i generali, cioè i volti noti, poi i luogotenenti (o «top mediator»), che si interfacciano con i «sostenitori diretti».

Una cascata che da 180 profili principali, quelli dei generali, arriva a raggiungere 1,5 milioni di persone, che ricevono l’informazione non da un parlamentare o da un leader politico, ma da utenti «normali», dei quali si fidano. 

 Questo passaggio intermediato, inoltre, trasmette il messaggio agli algoritmi di Facebook che quel certo argomento è oggetto di discussione tra molti utenti, dunque potenzialmente interessante, e cosí la piattaforma ne agevola la diffusione proprio perché contribuisce a generare interazioni che permettono profilazione e quindi promozione di contenuti pubblicitari a pagamento.

 «Nel complesso, siamo di fronte a una rete organizzata, in cui ciò che diventa virale viene definito da un numero limitato di nodi sorgente, coordinati tra loro, e viene reso virale grazie all’azione sincronizzata di un numero elevato di booster/attivisti», si legge nel documento della campagna renziana. 

Il resto dell’analisi sottolinea un punto fondamentale per capire come si diffonde l’informazione nel mondo social: l’importanza dei cluster. È vero che ogni utente ha un proprio profilo e una propria rete unica e irripetibile (di profili con i quali è connesso, di pagine con like, di contenuti visualizzati nel flusso della schermata principale), ma ciascuno di noi è anche inserito in un sottoinsieme di utenti che hanno molte cose in comune.

Se analizzo i profili Facebook e Instagram che seguo e con i quali, di rado, interagisco, posso presumere che io verrei inserito in un cluster di utenti che segue l’attualità politica ed economica, che è interessato anche a contenuti in inglese (meno in francese, per niente in tedesco), poco interessato allo sport ma con gusti simili a quelli di molti altri nati negli anni Ottanta. 

Una volta che, grazie all’analisi statistica, si è identificato un cluster e le caratteristiche comuni tra i suoi appartenenti, è piú facile interagire perché si conosce a quali stimoli gli utenti reagiranno. Secondo l’analisi della campagna renziana, i Cinque Stelle usano alcuni profili apparentemente di utenti normali ma in realtà gestiti in modo centrale e coordinato per spingere contenuti coerenti con l’agenda del partito all’interno di questi cluster.

Un profilo intestato a «Daniela Grassi», per esempio, viene aperto nel 2015, non posta mai contenuti personali, ha soltanto 43 amici ma in meno di un anno «ha fatto 4798 interazioni con i contenuti M5s». In particolare replica le interazioni e le condivisioni di un altro profilo della galassia pentastellata, quello di un certo Mario Sinisi. E cosí questi «micro-influencer», termine che nel 2016 ancora non era diffuso come oggi, contribuiscono a trasformare la vecchia comunicazione istituzionale (o propaganda, per usare un termine meno asettico) in argomento di discussione dal basso, all’apparenza spontaneo. 

Non piú il messaggio dal potere ai sostenitori, ma la naturale condivisione del contenuto, pronta per viaggiare da un utente all’altro con la credibilità che attribuiamo ai post che ci paiono sinceri e disinteressati. Contenuti pianificati per una precisa strategia appaiono a chi li riceve e alla piattaforma stessa che li ospita «organici», per usare un anglicismo diffuso nel gergo social: «organic» in inglese viene usato anche per indicare quelli che noi chiamiamo prodotti «biologici», è sinonimo di «autentico». Degno di fiducia.

I contenuti «organici» sono quelli che hanno il maggiore impatto sulle opinioni degli utenti, che invece guardano in modo piú distratto e selettivo comunicazioni che si presentano come dichiaratamente pubblicitarie o istituzionali. 

Matteo Renzi e i suoi consulenti decidono di replicare la stessa dinamica di comunicazione e di cercare degli influencer che possano mettere la loro credibilità personale al servizio della causa, cioè per convincere quanti piú elettori possibili a votare in favore della riforma costituzionale.

Per questo iniziano a mappare comunità omogenee di persone per identificare chi sono gli opinion maker che possono influenzarle. 

 Il 12 ottobre 2016, l’economista Fabio Pammolli manda una mail piena di allegati a Marco Carrai e altri componenti del team ristretto di renziani che sta lavorando alla campagna referendaria: «Allego le liste di top influencers digitali, organizzati per macro communities. Naturalmente e come sempre vanno usate cum granu salis ma: riusciamo a cavare 30 nomi da contattare per capire se e come sono disposti a impegnarsi nella campagna? oppure, come possiamo inserirli nei nostri circuiti di post?»

L’analisi è molto grezza, nel segmento «Fashion and beauty» per esempio non c’è Chiara Ferragni, che nel 2016 era già una potenza, ma si trovano altri nomi divisi per orientamento delle rispettive basi di follower (indicate nei file come «crowd»): Giulia De Lellis, nota influencer allora in grande ascesa, è classificata come «oppose», cioè seguita da un pubblico tendenzialmente ostile alla riforma renziana, cosí come Diletta Leotta. 

L’attrice Miriam Leone ha una community «split», divisa tra favorevoli e contrari, la stilista e conduttrice Carla Gozzi invece ha un seguito di follower favorevoli.

 Per ragioni misteriose viene incluso nella lista anche Pietro Taricone, celebre conduttore del primo Grande Fratello e attore, morto nel 2010 (i suoi fan vengono classificati come «oppose»). Un altro file classifica i «top split», cioè i soggetti piú rilevanti nella sfera social il cui seguito è piú diviso tra potenzialmente favorevoli e potenzialmente contrari alla riforma. Ci sono tutte le celebrità social piú importanti di quella fase, come l’ex calciatore della Juventus Claudio Marchisio, o i giudici di MasterChef Joe Bastianich e Bruno Barbieri.

Sono quasi tutti soggetti estranei al mondo della comunicazione e della politica, con la significativa eccezione del direttore del «Fatto Quotidiano», Marco Travaglio, il piú esplicito oppositore della riforma costituzionale, tanto che è proprio con lui che Matteo Renzi si è confrontato nel duello televisivo finale della campagna elettorale, nella trasmissione Otto e mezzo di Lilli Gruber, su La7. 

Anche il seguito social di Travaglio risulta «split», segno che è seguito sia da chi è d’accordo con lui che da chi la pensa all’opposto. Le carte dell’inchiesta sulla Fondazione Open non permettono di ricostruire nel dettaglio come sia proseguita questa azione sui «top influencer» e quali esiti abbia dato.

Quello che però è rilevante ai fini dell’analisi che portiamo avanti in queste pagine è il convincimento dei consulenti renziani che la battaglia referendaria si sarebbe vinta sui social e con le logiche dell’influenza e della credibilità, non della propaganda tradizionale. 

Pammolli e gli altri paiono molto consapevoli che la comunicazione tradizionale dall’alto verso il basso non può persuadere e mobilitare (perché bisogna convincere le persone nel merito, ma poi anche spingerle a tradurre la convinzione in un voto nel giorno del referendum).

Servono dinamiche di raccomandazione e consiglio il piú possibile orizzontali: se l’opinione arriva da qualcuno di cui il follower si fida, che ha l’illusione di seguire su base quotidiana attraverso un account social, allora quell’opinione avrà rilevanza massima. E questo vale, sui grandi numeri, quando si parla di celebrità di riferimento, come quelle nelle liste «top influencer» che si scambiavano i consulenti di Renzi, ma anche e soprattutto di persone normali. 

Oltre al lavoro su calciatori e attrici, infatti, Pammolli e la sua squadra prevedono di costruire una rete di 1000 influencer che possano poi agire sui rispettivi pubblici e diffondere i messaggi stabiliti dalla campagna. In una mail di Pammolli del 13 settembre, per esempio, si leggono queste indicazioni: «A ciascuno andrà fornito un kit molto semplice e schematico di indicazioni (come share, che azioni fare sui post, cosa dire ai follower, con chi fare amicizia per la diffusione migliore). Ciascuno dei 1000 dovrà poi connettersi con un certo numero (giovedí lo definiamo) di attivisti del gruppo dei 1000 stesso (serve mandargli una lista di nomi, lasciando ovviamente spazio poi alle loro connessioni “naturali” e dovrebbe poi fornire indicazioni utili alla mobilitazione online ad almeno 30 follower esterni al gruppo, dando loro indicazione di fare altrettanto. Questo consentirebbe di avere un boost significativo per ciascun messaggio importante».

 Questa azione doveva svolgersi in prevalenza su Facebook: «Non conosco Instagram ma mi pare utile definire una linea anche su quel fronte. Puoi fare un approfondimento?», chiede Pammolli. 

Nel 2016 Facebook era ancora il terreno decisivo per la politica, prima che diventasse il social network dei «boomer», mentre le generazioni successive migravano rapidamente altrove, verso piattaforme piú visuali e meno testuali. 

Negli anni successivi sarà proprio su Instagram, grazie a un linguaggio fatto meno di parole e piú di immagini e video, che gli influencer troveranno il loro ambiente ideale per crescere e prosperare in numero di contatti e capacità di persuasione. 

·        Le Fallacie.

Cosa sono le fallacie e come fare a difendersi. Marco Zuffada il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Tutti (o quasi) le usiamo, ma nessuno sa come difendersi dalle fallacie.

Anna si rivolge a Marco e gli sussurra all’orecchio: "Hai sentito che stecca?"; l’amico risponde: "Che ne sai tu? Mica sai cantare!". Dopo un attimo di riflessione, arriva la replica della prima: "Ma ho le orecchie".

In effetti, l’udito di Anna è buono, il ragionamento di Marco un po’ meno. Dietro questo siparietto dall’agrodolce sapore di barzelletta, si cela in bella vista uno tra gli errori di ragionamento più comuni: la fallacia. Spesso utilizzate nelle dispute dialettiche (e perciò bandite dalle società di dibattito, ma – purtroppo per noi – non dai salotti buoni della TV) le fallacie sono argomentazioni inconsistenti a livello logico, eppure efficaci da un punto di vista persuasivo, con effetti potenzialmente deleteri.

Marco, con o senza dolo, fa uso di una particolare categoria di fallacie dette “ad hominem” (lett. contro la persona). Utilizzando tale ragionamento errato, al posto di contestare l’affermazione oggetto del contendere, si cambia discorso, focalizzandosi invece sull’interlocutore stesso e sui suoi elementi distintivi. Nella mente di Marco, infatti, Anna – che non è una cantante - non ha diritto di dire che la professionista abbia stonato, pur essendo palese a tutti i presenti la stecca dell’artista (errore totalmente indipendente dalla condizione di Anna).

Fuor di metafora – o di barzelletta – non sarà difficile per il lettore guardare al di là del racconto. La fallacia “ad hominem” viene utilizzata continuamente, animando la maggior parte dei dibattiti di tutti i giorni. Che si tratti di questioni di genere, di diritti di minoranze o di qualsivoglia tematica, le fallacie sono infimi stratagemmi alimentati dallo stesso fumo delle cortine. Talvolta involontarie (come, forse, nel caso di Marco), più spesso pensate ed affinate negli anni con un solo ed unico scopo: ingannare.

Come fare a difendersi dai ragionamenti fallaci? Prova a suggerirlo Psycomix, un piccolo editore emergente nato come spin-off del corso di Persuasive Design presso l’ateneo pavese. Come? Attraverso “Fallaciae, le prime ed uniche carte delle fallacie a fumetti”.

Quaranta carte, quaranta fallacie illustrate, un racconto dinamico. "Fallaciae è una sfida: rendere semplice il complesso attraverso l’uso del fumetto, cercando contemporaneamente di stimolare il pensiero critico. Un libro a pagine mobili creato per comprendere divertendosi, insegnare e – possibilmente – migliorare la comunicazione in famiglia e al lavoro". Così il Prof. Mauro Mosconi, autore di “Fallaciae” assieme all’illustratore Simone Riccardi, definisce il primo prodotto della startup "composta da giovani", "così mi sento anch’io un po’ più giovane", aggiunge, con un mezzo sorriso celato dalla mascherina.

Mosconi assicura che “Fallaciae” sia solo il primo tassello di un progetto più grande che vede coinvolti alcuni tesisti del suo corso: "Presto lanceremo una skill per Alexa (l’assistente vocale di Amazon, ndr) a tema bias cognitivi e stiamo già pensando ad altri contenuti divulgativi e altre piattaforme, anche se per ora dovrete accontentarvi – si fa per dire – solo di Fallaciae". Marco Zuffada

·        Le Fake News.

Marco Palombi per "il Fatto quotidiano" l’1 Dicembre 2022.

Quando abbiamo letto il titolo del Messaggero pensavamo fosse uno scherzo, al massimo un errore dovuto alla troppa sintesi: "Giornali, arrivano gli aiuti. Contrasto alle fake news". A nessuno, pensavamo, potrebbe venire in mente di legare interventi pubblici di politica industriale nell'editoria a una cosa fumosa come il "contrasto alle fake news". E invece sì.

Leggendo il testo ufficiale dell'audizione alla Camera del sottosegretario delegato, Alberto Barachini, ex giornalista Mediaset prestato a Forza Italia, s'è capito che a qualcuno è venuto in mente: al governo.

Ha spiegato Barachini che il "doveroso finanziamento pubblico all'informazione e all'editoria si deve sostanziare su due principali direttrici": una è finanziare solo cose che servano davvero (Grazia e Graziella ne convengono), l'altra è "la difesa del pluralismo informativo attraverso un sostegno alle realtà che collaborino al recupero dell'affidabilità, della credibilità e della reputazione del settore editoriale e giornalistico, anche sul fronte digitale, contrastando le fake news e le azioni di disinformazione e di doping delle notizie con intenti scandalistici" (corsivi nostri, nda). Problema: chi lo decide cosa è una fake news o il "doping delle notizie con intenti scandalistici"?

Un organo politico? La maggioranza parlamentare? Preoccupante che Barachini citi subito dopo "i principi generali pienamente condivisibili" dello European Media Freedom Act (Emfa), ribattezzato "Unfreedom act" dall'associazione degli editori europei perché, insieme a molte belle cose che servono a poco, propone la creazione di un Consiglio europeo per i servizi di media, tramite cui la Commissione Ue eserciterà la supervisione normativa sull'intero continente.

È appena il caso di ricordare che il governo e il sottosegretario nel 2023 hanno da distribuire i 140 milioni del "Fondo straordinario per il sostegno all'editoria" voluto dal governo Draghi e pure i circa 190 milioni (grazie pure ai 75 milioni appena aggiunti in manovra) del normale "Fondo per il pluralismo" istituito nel 2016. Ecco, visto che Barachini è di Forza Italia e solo per capire i criteri con cui si intende muoversi, ma "Ruby nipote di Mubarak" è fake news o doping delle notizie con intenti scandalistici?

Fakenews: se i media italiani facessero come l’AP rimarrebbero senza giornalisti. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 24 Novembre 2022.

«Quando i nostri standard non vengono rispettati, dobbiamo compiere le azioni necessarie per proteggere l’affidabilità del nostro lavoro giornalistico. Non prendiamo questo tipo di decisioni con leggerezza, né esse si basano su episodi isolati». Lunedì scorso Associated Press (AP), una delle più importanti agenzie di stampa americane, ha licenziato il giornalista James LaPorta, un esperto di sicurezza nazionale e questioni militari, che il 15 novembre, diffondendo frettolosamente una notizia falsa, aveva contribuito a creare l’allarme in tutto il mondo sostenendo che la Russia avesse colpito il paese polacco di Przewodów, vicinissimo al confine con l’Ucraina. La conferma del licenziamento è stata data dal Washington Post. 

Stando alla ricostruzione di LaPorta, «secondo un funzionario di alto grado dell’intelligence statunitense», rimasto anonimo, dei missili russi avevano «attraversato il confine della Polonia, paese membro della NATO, uccidendo due persone». La paternità dell’incidente veniva così ingiustamente attribuita al Cremlino. 

Mentre perfino il Pentagono e il governo polacco predicavano cautela e stavano attenti a non alzare i toni, per il fenomeno dell’apertura dei cancelli dell’informazione, essendo Associated Press un’agenzia di stampa rispettata e nota per la sua affidabilità, moltissimi giornali e tv, in tutto il mondo, avevano ripreso la versione di AP. 

Senza curarsi di aspettare qualche notizia ufficiale, in maniera tempestiva e frettolosa con le poche notizie confuse trapelate, alcuni politici (da Letta a Calenda) e giornalisti italiani (Riotta su tutti) si sono lanciati in dichiarazioni avventate, evocando, quasi lo desiderassero, uno scenario da Terza guerra mondiale. Il 16 novembre, un veloce sguardo ai quotidiani italiani denotava la linea adottata dagli organi di stampa: da Repubblica che, nonostante la "dinamica ancora incerta", titolava però, "Mosca sotto accusa", all’incipit dell’inviato da Kherson del Corriere della Sera, Andrea Nicastro: «La guerra di Putin tracima oltre i confini dell’Ucraina e investe la Polonia». Insomma, a finire come sempre sul banco degli imputati, senza conferme, era ancora una volta Mosca.

Come anticipato, a prendere una posizione molto esplicita su quanto accaduto al confine con l’Ucraina, Gianni Riotta, ex direttore del TG1 e de Il Sole 24, che su Twitter cinguettava la sua strategia per reagire al presunto attacco russo: «Attacco contro Paese @NATO #Polonia con vittime conferma che deriva terrorista russa non ha guida ma segue hubris Putin fino a rischiare la guerra mondiale. Pensare di fermare il dittatore con la resa lo scatena. Serve batterlo e isolare la sua Quinta Colonna in Italia e UE». 

La furia bellicista degli autoproclamatisi professionisti dell’informazione non si è indebolita nemmeno di fronte alla conferma della NATO che quei missili non erano stati lanciati dalla Russia ma dall’Ucraina. Per non fare marcia indietro, rettificare o chiedere scusa, costoro hanno virato sulla "responsabilità russa": della serie, "Se i missili sono ucraini, la colpa dell’incidente è comunque di Putin". Quasi con esasperazione, Il Foglio ha puntualizzato che: «L’esplosione sul territorio polacco è una conseguenza della guerra ingiustificata voluta da Putin».

Similmente, lo stesso Riotta ha accusato Travaglio e i colleghi del Fatto Quotidiano di aver adottato una «linea #Putinversteher filorussa» per aver attaccato Calenda e Letta per i loro tweet a dir poco incauti.  Inutile ricordare che Riotta, oltre che appassionato sostenitore delle liste di proscrizione, da direttore di IDMO, ha battezzato il sodalizio tra debunking e media di massa. Peccato che, se si adottassero gli standard di AP e la furia purista degli inquisitori digitali nei confronti di quei giornalisti che avvelenano intenzionalmente l’informazione, la maggior parte delle redazioni sarebbe vuota. 

Solo focalizzandosi sul conflitto russo ucraino, possiamo ricordare alcune delle più assurde bufale divulgate proprio dai media mainstream: dalle immagini di videogiochi spacciate per sequenze reali (tendenza inaugurata da Purgatori) alle prime pagine de La Stampa del 13 marzo (la bambina con lecca lecca e fucile) e del 16 marzo (la strumentalizzazione della strage di Donetsk), passando i forni crematori mobili dell’esercito russo o la mini Auschwitz.

Arrogarsi il diritto di certificare la verità e monopolizzare l’informazione, come fanno Riotta e compagni, è una palese assurdità, tanto più ipocrita se, alla prova dei fatti, non si ha nemmeno la decenza di ammettere i propri sbagli e smentire quelle fake news che si vorrebbero combattere ma che, invece, si divulgano. [Enrica Perucchietti]

Poteri e disinformazione. Cosa i social media (non) stanno facendo per combattere le fake news sulla crisi climatica. Alberto Cantoni su L'Inkiesta il 5 Settembre 2022

Documenti e report mettono in luce le lacune delle piattaforme nel contrastare la diffusione di fuorviante retorica anti-emergenziale, portata avanti anche da scienziati premi Nobel. Ue ancora esempio virtuoso per la regolamentazione

Per anni, l’industria dei combustibili fossili ha investito quantità enormi di denaro per diffondere in tutto il mondo disinformazione sul tema del cambiamento climatico, con l’obiettivo di polarizzare l’opinione pubblica e impedire una reale mobilitazione sociale contro il riscaldamento globale.

Nonostante l’ultimo decennio sia stato caratterizzato da una forte tendenza a scuotere le coscienze (individuali e politiche) e dalla diffusione di una maggiore consapevolezza riguardo a questi temi, le fake news e la cattiva informazione generate dal comparto mediatico continuano a rappresentare una minaccia concreta per l’azione sul clima. Uno dei maggiori incubatori di questo problema – come ormai noto – è il mondo dei social.

Lo dimostrano gli ultimi rapporti sul clima delle Nazioni Unite, ma l’accusa ha recentemente preso forma anche nel documento “In the Dark: How Social Media Companies’ Climate Disinformation Problem is Hidden from the Public”, pubblicato da Greenpeace, Aavaz e Friends of the Earth.

Il report mette in luce la grave mancanza di trasparenza da parte delle aziende proprietarie delle principali piattaforme, con molte realtà che nascondono gran parte dei dati relativi alla diffusione della disinformazione (o della misinformazione. Misinformazione: diffusione di notizie false in modo involontario o a causa di semplice irresponsabilità. misinformazione per dabbenaggine) climatica.

Nello specifico, Facebook, TikTok e Twitter risultano notevolmente in ritardo nei loro sforzi per affrontare il problema. Ad aver compiuto passi avanti in questa direzione sono invece Pinterest e YouTube: nella classifica stilata dalle tre organizzazioni ambientaliste – basata su un sistema di domande di valutazione a 27 punti per analizzare le politiche di dis/misinformazione climatica -, la piattaforma di condivisione delle immagini e il servizio di video sharing di Google vincono il premio al virtuosismo (più per assenza di competitor che per meriti propri, dato che entrambe raggiungono a malapena un punteggio sufficiente).

Fonte: “In the Dark: How Social Media Companies’ Climate Disinformation Problem is Hidden from the Public”

Tra i fattori presi in considerazione per classifica ci sono: il funzionamento del meccanismo di fact-checking utilizzato dal social media, la presenza o meno di un’informativa sulle conseguenze per i contenuti che violano i termini di servizio, l’esistenza di definizioni chiare di «disinformazione climatica», l’affidabilità dell’algoritmo nel penalizzare i post disinformativi (anche in termini di sponsorizzazione e monetizzazione) e la possibilità per gli utenti di segnalare in maniera efficace questa tipologia di contenuti.

Quella presa in analisi nel report è una preoccupazione tutt’altro che secondaria. Alcuni studi hanno dimostrato come ormai circa la metà degli adulti (nel caso statunitense il 53%) si informi principalmente attraverso le piattaforme social (più di un terzo con Facebook, sempre stando al campione Usa). Ciononostante, le aziende che si muovono in questo mercato non hanno adottato le misure necessarie a combattere le falsità propugnate dai complottisti e da chi da tutto ciò ottiene beneficio. Viceversa, hanno permesso che queste bugie sul clima inquinassero le bacheche e i feed degli utenti per anni.

Nel contesto dell’Unione europea, tuttavia, si sta assistendo a un’inversione di rotta: la tendenza – in linea con la crescente regolamentazione delle Big Tech – è di chiedere ai colossi di internet maggiore trasparenza sulle politiche e sulle pratiche in materia di contenuti pubblicati. Dopo l’approvazione da parte del Parlamento europeo, lo scorso 5 luglio è stato varato il Digital Service Act – il nuovo regolamento sui servizi digitali -, che prevede obblighi e una nuova cultura della prevenzione alla disinformazione (così come ai contenuti illegali).

La speranza è che la legge possa segnare un cambiamento di paradigma sotto il profilo della responsabilità delle aziende tecnologiche in materia di fake news, nello stesso modo in cui il Regolamento generale sulla protezione dei dati (Gdpr, General Data Protection Regulation) ha cambiato gli standard per la protezione dei dati personali in Europa.

Del resto, la disinformazione climatica serpeggia tra i meandri della rete e continua a essere un problema notevolmente sottovalutato. Uno degli ultimi casi eclatanti è stato quello della World Climate Declaration, una petizione firmata da «oltre 1.100 scienziati e professionisti preoccupati che il dibattito sul cambiamento climatico si sia allontanato dall’evidenza empirica e sia diventato troppo politico». L’istanza starebbe «coraggiosamente rompendo con il pericoloso pensiero generale per dichiarare che non c’è, nei fatti, nessuna emergenza climatica».

La dichiarazione, il cui primo firmatario è un fisico premio Nobel di nome Ivar Giaever (93 anni), è stata condivisa decine di migliaia di volte sui social nel mese di agosto. Persino da un senatore del Partito Liberale australiano, Alex Antic, che in un post su Facebook (con oltre 8mila like e quasi 3mila condivisioni) ha affermato come la dichiarazione assesti «un ulteriore colpo» ai «fanatici verdi del mondo accademico».

Tuttavia, si tratta solo dell’ennesima iterazione di una più ampia campagna di disinformazione che l’organizzazione dietro alla petizione porta avanti da tempo. Stiamo parlando della Climate Intelligence Foundation (Clintel), che da anni propina una serie di argomenti largamente screditati dalla comunità scientifica di tutto il mondo. Come dimostrato da Inside Climate News, la stragrande maggioranza dei firmatari della dichiarazione non ha alcuna esperienza nel campo climatico e l’organizzazione ha legami ben documentati con le lobby del petrolio e dei combustibili fossili.

Purtroppo, anche l’Italia è coinvolta. Sulla scia della World Climate Declaration, gli otto firmatari della Petizione Italiana sul clima – il documento «anti catastrofista» in linea con le posizioni di Giaever che era stato inviato alle massime autorità politiche nel 2019 – hanno recentemente invitato i promotori di Un voto per il clima (una lettera aperta che su Change.org ha raccolto quasi 200mila adesioni e che spinge affinché al centro dei programmi politici in vista delle elezioni ci sia la crisi climatica) a un dibattito pubblico in una sede istituzionale, accademica o politica. Inutile dire che anche in questo caso la notizia è rapidamente circolata sui social come fuorviante testimonianza anti-emergenziale, senza neppure considerare il numero irrisorio dei professionisti coinvolti.

Bruno Vidoni, il fotografo che inventò le fake news. Michele Smargiassi su La Repubblica il 29 Agosto 2022.

Tra gli anni Sessanta e Settanta, con i suoi scatti mise in crisi il concetto di verità. Ora gli è stato dedicato un museo

L'unico a non divertirsi quel giorno fu Giorgio, perché lui era simpatizzante del Manifesto, ma gli toccò la parte del feroce parà britannico. Non ci fu niente da fare, perché Bruno Vidoni non tollerava obiezioni: i falsi, diceva, sono una cosa seria. Lavorarono sodo, in quel vicolo di Pieve di Cento, provincia di Ferrara, dopo averlo affrescato di graffiti indipendentisti, essersi vestiti con divise comprate ai mercatini e aver imbracciato armi vere trovate chissà dove.

Rosa Russo Iervolino e le fake news «Non sono affatto morta, ho solo il mal di schiena». Adriana Logroscino su Il Corriere della Sera il 31 agosto 2022.

«Mamma l’ha presa sportivamente, come sempre. Magari con un pizzico di scaramanzia: la radice napoletana c’è. L’unica cosa che le è dispiaciuta è che persone anziane come lei si siano allarmate, dispiaciute e addolorate. Ma tutto è rientrato piuttosto rapidamente». Michele Russo, primogenito di Rosa Russo Iervolino, Rosetta per tutti sia nella sua Napoli che nell’ampia cerchia delle sue conoscenze, dichiara chiuso l’incidente. Anzi il «clamoroso malinteso» per cui le parole accorate di un post su Facebook — pubblicate da una signora ultraottantenne che ricordava un evento al quale l’ex sindaca aveva partecipato qualche mese fa a Bagnoli — hanno innescato il cortocircuito: Rosa Russo Iervolino è morta. La notizia è finita sulle chat dei politici campani e da lì è rimbalzata su testate online e tv di tutto il Paese. Ma non era vera.

La smentita

«Sto bene, non c’è male, ho solo un po’ di mal di schiena — ha dichiarato a quel punto Russo Iervolino, 86 anni il 17 di questo mese, all’agenzia di stampa LaPresse —. Stamattina ho ricevuto un sacco di telefonate, ho pensato fosse successo qualcosa a qualcuno. Invece non era successo niente». È stato proprio il figlio Michele, in questi giorni in vacanza all’estero, a chiamare per primo sua mamma, allarmato dalla notizia. «L’avevo sentita anche ieri (l’altroieri per chi legge, ndr) e sapevo che, a parte gli inevitabili acciacchi dell’età, stava bene — racconta il primogenito dell’ex sindaca di Napoli — però poi una fatalità non è impossibile. Ma per fortuna quando l’ho chiamata lei riposava ancora». A quel punto, però, tutti in famiglia hanno iniziato a ricevere messaggi di vicinanza e affetto. «Ho dovuto consolare una cara amica di mamma — racconta Michele — che in lacrime si disperava perché una sciatalgia le avrebbe impedito di partecipare ai funerali di Rosetta». Così la figlia Francesca ha utilizzato il suo profilo sui social per smentire: «Mamma sta benissimo. Non so quale idiota abbia messo in giro questa notizia. Sarebbe il caso di non scherzare sulla vita delle persone. Napoletanamente facciamo le corna!». E Michele spiega: «Mamma è molto tranquilla, solo, appunto, dispiaciuta che la notizia avesse preoccupato le persone che le vogliono bene. Ma, a parte questo, non ci ha pensato più di tanto e ha ripreso la sua routine serenamente. Anzi, abbiamo pensato che magari qualcuno proverà a giocarsi i numeri al lotto». La radice napoletana, appunto. L’ex sindaca e prima ministra dell’Interno italiana ha continuato la sua giornata come al solito, a Roma, città in cui si è stabilita da tempo.

La passeggiata

Si è concessa solo una passeggiata con il nipote Vincenzo in piazza della Balduina, tra lo stupore dei passanti, per rassicurare tutti dal vivo. Poi di nuovo a casa con l’urgenza di «leggere i giornali». Intanto il cordoglio di tanti, inclusi Enzo Amendola e Matteo Salvini, è rientrato, trasformandosi in messaggi di lunga vita. Antonio Bassolino, sindaco di Napoli prima di Iervolino e presidente della Campania durante la sindacatura di Rosetta, affida il suo sollievo a Fb. «Lunga vita a Rosa Russo Iervolino che sta bene ed è a casa sua a Roma. Un bacio Rosetta». Proprio sui social, inevitabilmente i più lesti nel rendere virale la (falsa) notizia del decesso, sono apparsi corni rossi con l’eloquente didascalia «sciò sciò ciucciuè», che scaccia la civetta, simbolo di malaugurio. Qualcuno ha anche suggerito come sfruttare l’incidente, affidandolo ai numeri della smorfia: la quaterna suggerita prevede 47 (il morto), 48 (il morto che parla), 72 (la meraviglia) e 9 (i figli). In passato altri personaggi noti hanno partecipato da vivi alla diffusione della notizia del loro trapasso. Celebre la smentita che ne diede Mark Twain: «Spiacente di deludervi, ma la notizia della mia morte è grossolanamente esagerata». Non era l’epoca dell’informazione digitale e il grande scrittore, appreso che in patria era stato pubblicato un necrologio che lo vedeva protagonista, inviò un telegramma all’Associated Press, dalle Bermuda. Ma l’elenco è lungo e riguarda molti viventi, in Italia e nel mondo: dalla regina Elisabetta a papa Ratzinger, da Silvio Berlusconi a Giorgio Armani, da Sylvester Stallone a Vasco Rossi e Lino Banfi: tutti morti almeno una volta per meno di un’ora.

Fabio Amendolara per “La Verità” il 30 Agosto 2022.

Di smascheratori di bufale l'Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), sul suo sito ne pubblicizza ben dieci: Pagella politica, Lavoce.info, Factcheckers (la cui esperienza però si è conclusa nel 2021), Agi fact-checking, Fact, Politifact, Factcheck.org, Snopes, Poynter (le ultime quattro sono straniere) e Open. Che è diventata lo scorso anno partner di Facebook, affidando a David Puente e al geometra Juan Pili il debunking (l'attività che dovrebbe smontare le notizie false).

Il primo, preso dalla smania anti-bufala, pubblicò un articolo che cercava di collegare una serie di autori Web indicandoli come pericolosi complottisti sovversivi: una specie di paramassoneria su «basi ideologiche» che avrebbe negato la pandemia, per poi chiudere gli occhi sugli scivoloni presi in casa sua dalla squadra di Enrico Mentana, alcuni dei quali particolarmente clamorosi.

Uno su tutti: nel maggio 2020 Open pubblicò le foto dei morti di Covid esposte nelle strade degli Usa e la bacchettata arrivò da Heather Parisi. «Quelli non sono i morti Covid ma sono gli studenti, vivi, di un liceo di Brooklyn», svelò la ex valletta di Pippo Baudo. Pili, invece, che si presenta come giornalista scientifico, sul suo blog dispensa consigli su come smettere di fumare, su come «i guru della disinformazione possono usare a loro favore diverse predisposizioni» della mente umana e su come è possibile creare una teoria del complotto. Che deve essere un po' una fissa dei fack checker di Open.

Completano la falange macedone anti bufala Ludovica Di Ridolfi, laureata in scienze economiche, già correttrice di bozze, che nella sua breve bio su Open dichiara di aver conosciuto il mondo del fact-checking iniziando a lavorare per il programma televisivo Fake-La fabbrica delle notizie nel 2019. E Antonio Di Noto, laureato in mediazione linguistica e culturale alla Ca' Foscari, con un master in giornalismo a Groningen, nei Paesi Bassi, in passato copywriter e traduttore, sul suo profilo Linkedin spiega di occuparsi anche di «ideare, girare e montare video per Tiktok e storie per Instagram».

E, così, il 12 ottobre 2021, Facebook ha annunciato in pompa magna la partnership che avrebbe dovuto salvare gli utenti dalle bufale.

«Siamo lieti di dare il benvenuto a Open come partner di fact checking in Italia. Insieme a Pagella Politica, avrà un ruolo di fondamentale importanza nell'aiutarci a combattere e ridurre la diffusione della disinformazione in lingua italiana sulle nostre piattaforme», propagandò Luca Colombo, country director di Facebook Italia. Con l'occasione ai giornalisti furono spiegate pure le azioni che il social network avrebbe messo in campo: ogni volta che un fact checker valuta un contenuto come falso, Facebook riduce la sua distribuzione, in modo che meno persone possano vederlo, e avvisa chi lo ha già visto sulla non correttezza.

Applica inoltre al contenuto un'etichetta di avvertimento che rimanda all'analisi fatta dal fact checker. Un meccanismo che, però, appare davvero come particolarmente fallibile. In uno dei casi verificati dalla Verità, il social network ha comunicato all'utente che una foto pubblicata, dopo una segnalazione, era stata «dichiarata» da un fact checker come «parzialmente falsa». Ovviamente all'utente non è arrivata nessuna spiegazione su quel «parzialmente». E sul post è stato piazzato l'avviso relativo ai contenuti.

Il metodo usato dai censori del Web è stato analizzato dal regista e blogger Massimo Mazzucco in un video su Youtube. Secondo Mazzucco, i fact checker applicherebbero una tecnica a sette voci (una specie di controcanto al decalogo diffuso da Facebook per riconoscere le fake news): partono da una falsa premessa, ignorano fatti appurati, descrivono l'articolo come una supercazzola, si ergono a «noi siamo la scienza», mandano a vedere (su fonti che spesso confermano il contenuto della notizia bollata come fake), e infine screditano l'avversario.

 «Sono degli illusionisti, dei maghi della parola», commenta sprezzante Mazzocco, che è rimasto vittima di Open, ma anche di Butac, acronimo di Bufale un tanto al chilo, sito Web del bolognese Michelangelo Coltelli, professione gioielliere. Ma il gioielliere Coltelli non è l'unico a essersi appassionato alle fake news.

Uno dei siti più scatenati nel fare le pulci alle notizie è Bufale.net, fondato da non giornalisti (Claudio Michelizza e Fabio Milella), è curato da non giornalisti e non è mai diventato una testata giornalistica. I redattori sono quattro. E uno di loro, Marco Critelli, si presenta così: «Prestigiatore, speaker radiofonico e comico per Made in Sud». Ma oltre al programma Rai più frequentato dai comici del Mezzogiorno, il redattore di Bufale.net conduce anche «il Marco Critelli show su Radio Marte e tiene corsi di formazione per clown dottori».

Inoltre «è consulente magicomico per la Federazione nasi rossi d'Abruzzo». E, «quando non strappa fragorose risate al pubblico, si occupa di fact checking». 

A capo della redazione, invece, c'è un mastino contro le fake news. Di nome e di fatto: è Luca Mastinu: «Dal 1999 odia e soffre in Sardegna, dal 2018 muore e risorge a Roma.

Amante dell'horror, veste sempre di nero». E ce l'ha con le bufale. Sul sito Web è spiegato che Bufale.net «è finanziato da donazioni spontanee dei lettori su Paypal e sul canale Patreon». Ma non c'è un elenco di chi ha deciso di investire.

 Ovviamente quello dei finanziatori non è un aspetto secondario. Se ci si proclama indipendenti, al punto da poter verificare il lavoro di chi già verifica le notizie, poi un tantino di distanza da lobby e ambienti interessati dovrebbe dimostrarla. Soprattutto con la trasparenza. 

A Facebook la Verità ha chiesto i dettagli del lavoro di Open ma, nonostante una comunicazione inviata via Pec e notificata correttamente, non è arrivata alcuna risposta. A Facebook avremmo voluto chiedere anche la natura dell'accordo e i risvolti commerciali. Ma nell'era che viaggia alla velocità della luce, il social network leader sul mercato dimostra di avere dei tempi diversi. Facta, invece, fornisce pubblicamente un po' di informazioni, spiegando che è un progetto di The Fact checking factory srl, società che si occupa anche di Pagella Politica. «È attualmente sostenuta principalmente attraverso attività di content providing (la vendita di contenuti o servizi a terzi, ndr) e tramite la partecipazione a bandi e progetti internazionali».

Nel 2020, fa sapere l'azienda, «le principali fonti di finanziamento sono state Facebook, alcuni bandi promossi dall'International Fact checking network, l'agenzia di stampa Agi, l'emittente pubblica Rai, i finanziamenti ottenuti nell'ambito di progetti europei». E in coda c'è anche una precisazione: «La società non riceve denaro da partiti politici o da entità affiliate a partiti politici e mantiene completa indipendenza editoriale. Quasi tutto il ricavato viene speso per gli stipendi del personale e le spese d'azienda». Facta ha anche dedicato un focus a Covid e vaccini (che aderisce a CoronaVirusFacts Alliance, un progetto finanziato da Facebook, Google e Whatsapp).

Lavoce.info, invece, dichiara di reggersi solo con i piccoli contributi che riceve dai sostenitori, pubblicando un lungo elenco con i nomi di chi ha versato anche solo pochi euro. Il totale degli incassi nel 2021 si è aggirato attorno ai 22.000 euro. Ottiene, inoltre, un contributo da 25.000 euro dalla Fondazione di origine bancaria Cariplo. Sul Web circolano anche notizie, lanciate dal quotidiano francese France Soir e rilanciate da diversi siti Web italiani, su una presunta relazione finanziaria con i fact checker di Pfizer, multinazionale impegnata nella produzione dei vaccini anti Covid, che, però, non è stato possibile verificare direttamente. Così come le presunte donazioni all'International Fact checking network, altro partner di Facebook, da parte della Open society foundation del miliardario George Soros.

Gérald Bronner: «Così smaschero la democrazia dei creduloni». Limiti agli influencer e lucidità contro il “lazy thinking”. Il sociologo francese spiega come si combatte la deriva delle fake news: «Noi esseri umani siamo delle scimmie sociali». Anna Bonalume  su L'Espresso il 25 Luglio 2022. 

Gérald Bronner è sociologo delle credenze, professore di Sociologia all’Università di Parigi Diderot - Parigi VII, membro dell’Accademia Nazionale di Medicina, dell’Accademia di Tecnologia e dell’Istituto Universitario di Francia. Autore di tre libri tradotti in italiano “Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici” (Il Mulino), “La democrazia dei creduloni” (Aracne), “Fake news. Smascherare le teorie del complotto e le leggende metropolitane” (Sonda), oggi co-dirige un gruppo di lavoro sul pensiero critico nel Consiglio Scientifico dell’Educazione Nazionale. In un mondo interconnesso, dove le notizie sono immediatamente disponibili, in un mercato mondiale in cui si possono vendere con poco sforzo, economico e mentale, i propri prodotti cognitivi, in uno scambio immediato di opinioni ed informazioni, come si formano le nostre credenze? Perché le fake news si diffondono così rapidamente ? Cosa fare per preservare la democrazia dal pericolo della credulità? In un rapporto redatto per l’Eliseo, “L’illuminismo all’epoca digitale” Bronner propone una serie di soluzioni per far fronte ai rischi di un’apocalisse cognitiva.

Oggi le fake news sono molto diffuse e il pubblico ha sviluppato una nuova sensibilità per questo genere di informazioni. Ma le fake news sono sempre circolate. Cosa cambia oggi rispetto al Medioevo?

«La nostra rappresentazione del mondo è molto evoluta, l’interpretazione letterale della Bibbia è stata superata. Il mercato dell’informazione rispetto al Medioevo si è molto trasformato, la quantità delle informazioni è superiore. Nel Medioevo l’informazione si trasmetteva oralmente, era basata sulle nostre capacità mnemoniche, modificando così il messaggio. I libri erano rari e cari. Poi c’è stata la stampa e oggi l’invenzione dell’informazione trasmessa via onde. Internet è la forma ultima della deregolazione del mercato dell’informazione. Quello che cambia è che prima solo i “gatekeeper” potevano esprimersi, i guardiani delle soglie del mercato dell’informazione, ora chiunque possieda un account può contraddire un professore di medicina sul vaccino. Inoltre la caratteristica del mercato dell’informazione di oggi è che c’è una pressione concorrenziale senza eguali nella storia dell’umanità, con la riduzione dei costi della produzione di informazione e la diffusione dell’informazione. Tutti i modelli intellettuali che pretendono di descrivere il mondo, credenze e conoscenze, pensieri magici e ideologie politiche, sono tutti in libera concorrenza, quasi senza nessun filtro. Questo crea una disponibilità d’informazione mai vista. Si sono prodotte più informazioni negli anni 2000 che nell’intero periodo che va da Gutenberg al 2000. Negli ultimi due anni abbiamo prodotto il 90 per cento dell’informazione disponibile». 

Lei viene definito sociologo delle credenze. Che differenza c’è tra una credenza e una conoscenza?

«È molto difficile definire le frontiere tra credenza e conoscenza. Si può dire che la credenza è un modello che pretende di descrivere il mondo, secondo la categoria del vero e del falso, del bene e del male, del bello e del brutto. Anche la conoscenza pretende la stessa cosa. Come ho scritto in “L’empire des croyances”, nella maggioranza dei casi siamo di fronte a credenze. I momenti di conoscenza sono momenti rari della coscienza umana. La conoscenza è quando siamo di fronte ad un enunciato che è probabilmente vero e del quale padroneggiamo tutta l’argomentazione. Le credenze non sono per forza false: si può credere alla teoria del Big Bang, per esempio. Credo in questa teoria anche se non la capisco completamente, è una credenza per delegazione. Credo perché ho fiducia nella comunità degli scienziati. Ma non posso dire che sia una conoscenza, perché non possiedo tutta l’argomentazione che mi permette di conoscere. Nella maggioranza dei casi abbiamo un rapporto di credenza nei confronti delle idee, tuttavia nel caso del Big Bang la credenza è probabilmente vera, non è identica alla credenza secondo la quale toccare ferro dovrebbe scongiurare la sfortuna. La conoscenza è un rapporto ad un enunciato di cui conosciamo perfettamente l’argomentazione e che è probabilmente vero, tutto il resto è credenza. La peggiore credenza, il grado più basso, sono quelle che sono probabilmente false e di cui non conosco l’argomentazione, come le superstizioni. Tra le due c’è una frontiera non perfettamente chiara».

Nell’ultimo libro lei parla della questione cognitiva, essere dei creduloni dipende anche dal funzionamento del nostro cervello. Che ruolo gioca il nostro cervello nella ricezione e diffusione delle credenze?

«Tutto quello che sta accadendo è la conseguenza del funzionamento ancestrale del nostro cervello di fronte all’ipermodernità del nostro ambiente sociale, e in particolare digitale. I due fattori sono necessari per capire quello che ci sta accadendo. Uno dei fattori che spiega la diffusione di false informazioni è che queste ultime vanno nel senso delle aspettative intuitive del nostro cervello, appagano quello che ho chiamato l’aspetto oscuro della nostra razionalità. Per esempio, uno studio pubblicato nella rivista Science ha mostrato che le informazioni false sono sei volte più virali su Twitter rispetto ad informazioni vere. C’è una forte asimmetria in questa concorrenza dell’informazione, e questo è un dramma ! Si sarebbe potuto immaginare che nell’insieme di tutte le rappresentazioni del mondo quelle che avrebbero avuto un vantaggio sarebbero state quelle vere. Avremmo potuto immaginare che fra qualche decina d’anni avremmo potuto dare vita a delle vere e proprie società della conoscenza, perché la conoscenza può diffondersi meglio, ma non è ciò che sta accadendo. In certe situazioni, è la fake news che vince perché può godere del “lazy thinking”, il pensiero pigro. Tutti gli studi mostrano che la variabile che determina l’affermarsi di queste informazioni è un indebolimento della nostra vigilanza razionale. Siamo tutti dotati di razionalità, ma in alcuni momenti abbassiamo la guardia. La cacofonia dell’informazione contribuisce a far abbassare il nostro livello di vigilanza. Nella maggioranza dei casi, ricerchiamo delle informazioni che vanno nel senso delle nostre credenze. Più informazioni disponibili ci sono, più ne troveremo sicuramente una che va nel senso di quello di ciò che crediamo veramente. È il paradosso della credulità informativa, più informazioni ci sono, più diventiamo creduloni, mentre potrebbe sembrare l’opposto».

Stiamo vivendo in quella che lei chiama la democrazia dei creduloni?

«Questa deregolazione del mercato dell’informazione è squilibrata. Internet è una strana democrazia, alcuni votano cento volte, altri non votano mai. Nell’asimmetria di visibilità, alcuni si esprimono molto di più e in generale sono persone con visioni radicali, coloro che credono fermamente in qualcosa, come gli anti-vax o i cospirazionisti. Sono sempre esistiti, non li ha inventati internet, ma prima i loro argomenti erano confinati ad alcuni spazi di radicalità sociale, non occupavano lo spazio pubblico. Molti studi mostrano per esempio che gli anti-vax non sono numerosi, ma sembrano tantissimi perché si esprimono molto di più sui social, e lentamente riescono a convincere i nostri concittadini dei loro argomenti. Quando lo spiegavo nel 2013 in Francia, non avevo molti dati, ma oggi le scienze sociali-computazionali mi hanno dato ragione. Ci sono moltissimi dati che mostrano questo fenomeno. C’è un articolo molto recente sui super-users : l’1 per cento degli utilizzatori produce il 33 per cento dell’informazione disponibile».

Perché questo funziona?

«Noi esseri umani siamo delle scimmie sociali. La maggior parte dei nostri punti di vista si stabilizzano sui punti di vista degli altri. Quello che pensiamo di noi stessi, lo dobbiamo molto al punto di vista degli altri, ci influenza molto. La stessa cosa avviene per il modo in cui ci rappresentiamo il mondo. Il punto di vista degli altri ci informa moltissimo, la maggior parte di quello che crediamo sapere sono delle credenze costituite a partire dagli altri. Eppure, non è internet che ha inventato questo! È sempre andata così, ma oggi il campione di punti di vista altrui accessibili si è profondamente trasformato attraverso i social network. Prima conoscevamo il punto di vista dei nostri amici, dei colleghi, di esperti certificati alla televisione, alla radio, persone legittimate a prendere la parola. Su temi di cui non sapevamo molto, come i vaccini, ci si affidava alla parola dei medici, dei quali si aveva fiducia, non si mettevano in dubbio i benefici dei vaccini. Poi, di colpo, altre persone hanno preso la parola e il nostro campione di “reale” è influenzato dalla popolarità e dalla visibilità di alcuni punti di vista, ovvero dalla motivazione di alcuni attori nell’imporre il proprio punto di vista. Così la democrazia della conoscenza può diventare la democrazia dei creduloni».

Nel rapporto “L’illuminismo ai tempi del digitale”, lei propone, tra le altre cose, di sensibilizzare gli influencer, rendendoli più responsabili rispetto ai contenuti prodotti. Questi però appartengono al mondo del mercato, rispondono alle leggi del commercio e non hanno un compito propriamente pedagogico. Sarebbe come chiedere ad un’azienda che produce armi di vendere i propri prodotti solo a persone od entità che le useranno a scopi difensivi. Siamo sicuri che questa sia soluzione efficace? Gli influencer non devono semplicemente vendere sé stessi o la propria immagine?

«Il mercato delle armi non è un mercato libero, è regolato, ci sono norme. Nel caso degli influencer non si tratta di impedire loro di esprimersi, ma di avere delle norme di responsabilità, come quando obbligate le aziende di sigarette ad aggiungere l’avviso “fumare uccide” sui pacchetti di sigarette, è una forma di responsabilizzazione. Ci sono delle norme di regolazione del mercato che cercano di influenzare gli effetti senza toccare le libertà individuali. Quando si vuole regolare un mercato, il rischio è però quello di infrangere la libertà di espressione. La mia idea è di pensare delle regolazioni non liberticide. Quando, per esempio, YouTube propone un campione di video non rappresentativo sul riscaldamento climatico, per il gioco degli algoritmi, sta ingannando chi naviga. È necessaria l’esistenza di una diversità autentica, fare in modo che le persone o le idee siano visibili in proporzione a quello che rappresentano realmente».

Endorsement accuracy. C’è un (nuovo) metodo per combattere le fake news sui social media. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 26 Luglio 2022.

Uno studio in attesa di pubblicazione sulla rivista scientifica Personality and Social Psychology Bulletin dimostra come si potrebbe diminuire la condivisione delle bufale e aumentare quella delle notizie vere e verificate. 

Le fake news e la disinformazione sono una costante nel dibattito pubblico sulla qualità dell’informazione. Un argomento talmente rappresentativo di quest’epoca che il Collins Dictionary ne aveva fatto la sua parola dell’anno nel 2017, dopo Brexit e l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti (non a caso).

Molti studi scientifici hanno dimostrato come i social network siano diventati un hub per le bufale, con i loro algoritmi, i metodi di condivisione e ricondivisione dei contenuti. Allo stesso tempo, però, queste piattaforme sono anche la principale fonte di informazione per molte persone, soprattutto nelle fasce d’età più giovani.

Nel 2020, il 57% dei millennial negli Stati Uniti dichiara di utilizzare i social media per le notizie su base giornaliera. Percentuali simili si registrano anche nel Regno Unito, in Francia e nei Paesi Bassi, e sono ancora più elevate altrove: in Kenya, Sud Africa e Bulgaria il 70% della popolazione adulta legge le notizie a partire dai social media.

Facebook, Instagram, Twitter e altre piattaforme sono meno controllati rispetto ai siti e ai giornali cartacei delle singole testate giornalistiche e il profilo di ogni utente può potenzialmente diventare una fonte di notizie, condividendo o pubblicando contenuti. In questa mancanza di controllo possono proliferare – e proliferano – le notizie false.

Un nuovo studio, appena accettato per la pubblicazione dalla rivista scientifica Personality and Social Psychology Bulletin, dimostra che c’è un metodo per ridurre la condivisione di fake news e aumentare la percentuale di real news, cioè di notizie vere e verificate, condivise. Il titolo dell’articolo è “I think this news is accurate: Endorsing accuracy decreases the sharing of fake news and increases the sharing of real news”.

«Abbiamo presentato il primo intervento conosciuto che diminuisce la condivisione delle fake news e aumenta quella delle real news», dice a Linkiesta il professor Valerio Capraro, del dipartimento di Economia della Middlsex University di Londra, coautore dello studio con Tatiana Celadin, del dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Bologna. «Sappiamo che nella maggior parte chi condivide fake news – aggiunge Capraro – non lo fa perché interessato, ma perché non ci riflette più di tanto, non pensa che potrebbe creare un danno. Partendo da qui, rendere saliente il concetto di accuratezza e il fatto che la notizia che si sta per condividere potrebbero essere false può cambiare le cose».

Lo studio è stato accettato ed è ora in attesa di pubblicazione – potrebbero volerci diverse settimane – ma Linkiesta ha letto un preprint, cioè una versione che precede la pubblicazione in una rivista accademica o scientifica. «Ogni stimolo a rendere saliente, evidente l’accuratezza del contenuto – si legge nello studio – in genere riduce la condivisione di notizie false, pur avendo scarso effetto sulle notizie reali. In questo caso introduciamo una nuova richiesta di accuratezza, più efficace delle richieste precedenti. […] In quattro studi preregistrati mostriamo come una richiesta di “approvazione dell’accuratezza”, inserita nel pulsante di condivisione, riduca la condivisione di notizie false, aumenti la condivisione di notizie reali e mantenga costante il coinvolgimento generale. Ed esploriamo anche il meccanismo attraverso il quale funziona questo particolare intervento».

La novità dell’analisi, dunque, sta nel rendere ancora più esplicita l’accuratezza, fattore che dovrebbe rendere le persone meno propense a condividere notizie false: «Approvare l’accuratezza prima della condivisione – si legge ancora nello studio – può far riflettere le persone sulle loro decisioni di condivisione».

L’idea è che ognuno di noi debba porre la sua garanzia, esporsi, in qualche modo: «In linguaggio tecnico l’abbiamo chiamato endorsing accuracy, perché chi condivide fa sapere agli altri che pensa che la notizia sia accurata», spiega Capraro.

Di recente Twitter ha inserito sulla sua piattaforma una funzione che ricorda questi messaggi. In caso di retweet, il social chiede di aprire quantomeno l’articolo che si sta condividendo. È utile per chi condivide contenuti senza un’attenta valutazione: è come se lo staff di Twitter dicesse «noi sappiamo che non hai letto l’articolo, sei sicuro di volerlo condividere lo stesso?». In questo caso, però, il messaggio agisce soltanto in una direzione, cioè su chi condivide: l’effetto può essere, al massimo, una riduzione generale delle condivisioni, quindi anche delle real news.

Nelle dimostrazioni proposte da Capraro e Celadin nel loro studio ci sono tre diversi tipi di intervento per contrastare la diffusione di fake news sui social media: il primo è l’avviso «Ricorda che potrebbe trattarsi di fake news» sul pulsante di condivisione, che contribuisce a ridurre le intenzioni di condividere notizie false ma non influenza le intenzioni a condividere notizie reali; il secondo è invece un’approvazione dell’accuratezza nel pulsante di condivisione, quindi il messaggio «Penso che questa notizia sia corretta», che registra una diminuzione delle intenzioni di condividere notizie false, un aumento delle intenzioni di condividere notizie reali e mantiene inalterata la condivisione e il coinvolgimento complessivi (Mi piace + condivisioni); il terzo tipo invece è una semplice richiesta di precisione nel pulsante di condivisione, «Pensa se questa notizia è accurata», che ha ridotto le intenzioni di condividere notizie false, mantenendo inalterate le intenzioni di condividere notizie reali.

Ovviamente lo studio non è privo di limiti, tutti ne hanno qualcuno. In questo caso si tratta di un’analisi svolta su una piattaforma online creata per somigliare a Facebook, ma non è proprio Facebook, né Twitter, né Instagram. Inoltre lo studio prende in considerazione un campione di soggetti molto ampio, ma ricavato interamente dalla popolazione degli Stati Uniti, perché è lì che sono stati svolti gli esperimenti: «Non sappiamo ancora se e quanto può estendere e replicare in altri Paesi e altre culture», dice Capraro.

Ad ogni modo, è comunque uno studio incoraggiante, che crea una piccola crepa nel rumore interminabile della condivisione di fake news sui social network. È il primo studio conosciuto che potrebbe avere, in caso di applicazione efficace nella realtà, un impatto diretto sulla qualità dell’informazione che circola tra i miliardi di utenti dei social.

Da Robin Hood al Trono. Così il cinema trasforma i connotati del Medioevo. Sara Frisco il 21 Luglio 2022 su Il Giornale.

Una mostra a Los Angeles sul fascino (e i falsi) di un'epoca spesso reinventata da film e serie tv

Il Trono di Spade e il suo sequel House of Dragon, anche in Italia dal 22 agosto, sono l'ultimo esempio di un'attrazione che dura da quando è nato il cinema, dal Settimo Sigillo, al Nome della Rosa, da Robin Hood principe dei ladri, al Signore degli Anelli e Harry Potter: le atmosfere medievali hanno sempre affascinato il mondo dell'intrattenimento. Ad attrarre sono la magia, il mistero, i colori di quel periodo storico e la sua lontananza nel tempo. Oggi del Medioevo si sa molto ma non si sa tutto, e molto di quello che si legge sui libri o si vede al cinema e in televisione è un'idea romantica del Medioevo, più o meno lontana dalla realtà.

Il Getty Museum di Los Angeles ha pensato di organizzare una mostra proprio allo scopo di capire cosa c'è di reale e cosa è frutto di fantasia nel mondo medioevale raccontato dai posteri. La mostra, dal titolo The Fantasy of the Middle Ages, è curata da Larisa Grollemond, responsabile dei manoscritti del Getty: «L'idea è di alzare il sipario su quali aspetti sono veramente medievali e quali sono invece il prodotto dell'immaginazione. Tutto è nato con una campagna sui social media nella quale abbiamo accostato i nostri oggetti, i libri illustrati e i dipinti che raffiguravano il Medioevo, alle puntate della serie Trono di Spade. Il pubblico si è mostrato subito molto interessato».

Da quella prima idea social è nata la mostra, allestita in due sale del padiglione Nord del Getty, dove manoscritti miniati illustrati con pigmenti ricavati da metalli preziosi sono accanto ai disegni di artisti più vicini a noi, dai Fratelli Grimm e R.R. Tolkien, per arrivare ai cartoni animati della Disney. Tra gli esempi esposti c'è il frontespizio del libro L'ordine della Cavalleria di Edward Burne-Jones e William Morris, ma anche uno sfondo della Bella addormentata del 1959 la cui tavolozza di colori brillanti discende direttamente dai codici illustrati dai monaci del Medioevo. Il Medioevo, spiegano i curatori, vive ancora in una miriade di oggetti della cultura popolare: in mostra ce ne sono alcuni provenienti dalle case e dalle collezioni private, tra cui statuette di Dungeons & Dragons, cassette per il videogioco The Legend of Zelda, costumi di Halloween e cimeli dalla franchise Signore degli Anelli.

Accanto, in un curioso accostamento fra sacro e profano ci sono oggetti preziosi e antichi: un libro di preghiere del 15mo secolo è aperto sull'immagine di San Giorgio che combatte il drago: «Ne abbiamo fatto la copertina della mostra, è il sunto del concetto del nostro lavoro. C'è il cavaliere armato a cavallo, la damigella in pericolo, c'è il drago e il castello sullo sfondo. Ci sono tutti gli elementi con cui noi identifichiamo una storia per medioevale e che sono stati raccontati così spesso al cinema e in tv», dice Larisa Grollemond.

C'è anche un libro in lingua italiana, stampato a Milano nel 19mo secolo: La vergine di Orleans: tragedia romantica, di Federico Schiller tradotto da Andrea Maffei. È aperto sull'immagine di Giovanna d'Arco che salva la Francia dagli inglesi in una delle decisive battaglie della guerra dei Cent'anni. «Giovanna d'Arco non era certo vestita così continua la curatrice puntando il dito su quell'armatura scintillante e il sottostante gonnellino questo è uno dei tanti esempi dell'immagine romantica che le generazioni successive si sono messe in testa di quel periodo, per poi rappresentarle».

La sezione dedicata ai costumi cinematografici mostra i modelli dei film ambientati in epoca medievale e prodotti agli esordi della storia del cinema: «Erano gli anni Trenta e Quaranta e in questi disegni è evidente l'adattamento ai gusti e alle mode del tempo, pur in chiave medioevale».

I costumi del Trono di Spade hanno invece troppe pellicce per poter affermare che anch'essi riflettano le mode e le convinzioni del tempo. Ugualmente quell'universo ritorna, il 22 agosto, in contemporanea con gli Stati Uniti, su Sky e in streaming su Now, con House of the Dragon, ambientato 200 anni prima degli eventi nella serie originaria.

C'è poi un sequel nella mente dei produttori. Il titolo in lavorazione è Snow. Dovrebbe infatti vedere il ritorno in scena, da protagonista, di Kit Harington nella parte di Jon Snow.

Annalisa Cuzzocrea per “la Stampa” il 27 giugno 2022.

Gli occhi di Steve Mc Curry hanno visto il mondo, il suo obiettivo lo ha saputo restituire. Eppure ci sono cose che il grande fotografo americano non riesce a spiegarsi. Una di queste è il desiderio delle persone di credere alle bugie, alle storie inventate, alle realtà inesistenti. In modo talmente pervicace che nulla potrà mai far loro cambiare idea. Succede ovunque e succede soprattutto negli Stati Uniti dei complotti alla QAnon, delle stragi nelle scuole, delle norme restrittive sull'aborto. Succede sempre di più, ma non per questo le foto - quelle che fermano la realtà, quelle che, evocative e potenti, la mostrano così com' è - non servono più: «Perché ogni immagine è una breccia nel muro.

E una foto può ancora avere un effetto positivo sull'opinione pubblica».

La mostra Icons è ancora aperta a Riccione, fino al 18 settembre. Ma è dell'ultimo libro - Bambini nel mondo. Ritratti dell'innocenza, Mondadori Electa - che McCurry parlerà a Rimini domani sera, aprendo la rassegna Biglietti agli Amici. Ed è da quei ritratti che comincia la nostra conversazione in una domenica di giugno in zona Prenestina, a Roma, dove McCurry sta per tenere un workshop sul ritratto insieme all'amico fotografo Eolo Perfido.

Perché ha deciso di mettere insieme, in un unico volume, proprio i bambini e proprio adesso? Cos' è che l'ha spinta a raccogliere sguardi, gesti, giochi, che appartengono ad anni diversi e a luoghi lontani tra loro?

«L'idea mi è venuta due anni fa, durante la pandemia. Guardavo mia figlia, che ora ha 5 anni. La osservavo, la fotografavo e mi sono messo a cercare negli archivi tutti gli scatti che riguardano l'infanzia fatti nel tempo. Negli occhi di questi bambini vedo speranza, resilienza, un senso di sopravvivenza, ed è questo che ho cercato di trasmettere. Guardi le foto scattate nei campi profughi. Hanno poco, a volte non hanno nulla, eppure giocano. E che importa che sia sulla canna di un carrarmato o su un asino : i loro sguardi dicono che devono trovare un modo per andare avanti».

Nel libro ci sono le parole del premio Nobel Malala Yousafzai - «un bambino, una penna e un insegnante possono cambiare il mondo» - e di suo padre. E lei cita Dietrich Bonhoeffer: «Il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini». È per un'istruzione che raggiunga tutti, ovunque, che avrebbe senso lottare?

«Mi chiedo cosa sarebbe di questo pianeta se indirizzassimo energia e tempo e denaro sulle cose da fare. Come l'istruzione, come una lotta vera ai cambiamenti climatici. Ma non accade. La natura umana ci porta a dire: "Ok, adesso si vede". O a commentare: "Com' è triste, che tragedia!", senza che a nessuno importi veramente. O meglio, a qualcuno importa, ma non è abbastanza. E quindi abbiamo bambini pieni di cose e altri che non ne hanno abbastanza neanche per sopravvivere».

Perché pensa che la ragazza afgana sia diventata un'icona così potente? Si aspettava che accadesse?

«È stato per un insieme di cose. In quello sguardo che prima ha colpito me e poi tutti coloro che l'hanno osservato ritratto nelle mie foto, ci sono orgoglio, dignità, perseveranza. È evidente che sia povera, ma è comunque uno sguardo positivo, e tutto questo è bilanciato alla perfezione nella sua espressione. Riuscire a connettersi con gli occhi di qualcuno è il modo migliore per conoscerlo. E per svelarlo». 

Cosa pensa, da fotoreporter che ha attraversato molte guerre a partire da quella afgana durante l'invasione russa, quando si travestì mimetizzandosi con la popolazione locale, di quel che accade in Ucraina?

«Mi piacerebbe andare in Ucraina a vedere quel che sta succedendo. Sono stato più volte in Russia, ho amici russi, ma non so se potrò andarci di nuovo, se avrei il visto, se mi sentirei a mio agio. Vorrei andare per capire dov' è la realtà e dove la propaganda. E trovo che sia tutto sconvolgente. Proviamo a immaginare cosa possa significare, da un giorno all'altro, dover fuggire per cercare salvezza. Tu vivi in una casa per dieci, venti, trent' anni e all'improvviso non c'è più, scompare. È inquietante, e lo è ancor di più la disinformazione intorno a tutto questo».

Steve McCurry prende il suo telefonino. Ha una cover gialla. La guarda e dice: «Ci sono persone che osservandolo sono pronte a dirti: è blu. E tu rispondi: no, vedi, è giallo. Ma non c'è nulla da fare. Continueranno a dire che è blu contro ogni evidenza». 

Crede sia questo che sta accadendo? Anche negli Stati Uniti, dove si inseguono falsi miti e non si affrontano problemi come i massacri con armi da fuoco nelle scuole?

«Negli Stati Uniti moltissime persone credono a colossali bugie. O perché ingenue o perché hanno bisogno di essere ingannate. E ci sono altre persone che mentono tutto il tempo, che passano la vita a mentire senza che a nessuno venga voglia di approfondire un po' per capire che no, certe cose non possono essere reali. Le persone inventano e noi lasciamo che lo facciano senza trovare il coraggio di opporci. È affascinante come questo tempo sia disinteressato alla verità». 

Drammatico per un fotografo.

«Non si tratta solo di fotografia. È che le persone vogliono credere alle loro bugie, sono letteralmente disinteressate ai fatti. Come con Trump: una fetta di popolazione lo sosteneva e lo sosterrà nonostante tutto, qualsiasi cosa dica o faccia. Come si sopravvive a tutto questo? È la stessa cosa che accade con il global warming: interessa pochissime persone. Agli americani importa della loro squadra di football, della loro casa, del loro benessere, non del riscaldamento globale. E così per i politici è più facile ignorarlo.

Se chiedi 10 centesimi di tassa ogni 10 dollari di benzina per provare a contrastarlo, dicono: giù le mani dalla mia benzina. E nessuno trova il coraggio necessario». 

Anche sulla questione delle armi dopo il massacro di Uvalde (19 bambini e 2 insegnanti uccisi da un diciottenne armato in una scuola elementare) un pezzo di opinione pubblica era certa che qualcosa dovesse cambiare per forza. Ma non sembra sia così.

«È un mistero e riguarda moltissime cose: la disinformazione, la religione. È difficile da spiegare, ma da un lato hai questi bambini uccisi e dall'altro donne cui viene negato il diritto di scegliere se avere o no un figlio. Mentre a essere difeso è il diritto ad avere armi, portare con sé fucili. Cos' è che ti fa sentire più sicuro andando in un supermercato con un'arma? Loro ti rispondono: ho il diritto di farlo e lo faccio». 

Eppure a essere contro l'aborto non è la maggioranza degli americani. E anche sulle armi, la maggior parte vorrebbe più controllo.

«Dipende tutto da chi è più forte e più determinato. Le persone che vogliono le armi, le persone che sono contro l'aborto, sono organizzate, determinate, hanno un piano, una visione. Non importa cos' è giusto, ma chi è più forte. Come quando ci sono due animali nella giungla. Chi vive dipende solo da chi è più forte. In questo la religione ha una speciale potenza che, mischiata alla politica, fa in modo che queste persone abbiano convincimenti tali da poter morire per realizzarli. Chi invece dice: "Beh, sì, vorrei che le donne potessero scegliere", non è disposto a morire perché sia così. Dipende dal tempo che dedichi a una battaglia, dagli sforzi che fai». 

In un quadro come questo, le foto, le immagini, possono ancora fare la differenza? O il fatto che ce ne siano talmente tante, che ci bombardino uscendo dalle tv, dai telefonini, le ha rese più deboli? Meno efficaci? Meno potenti?

«Credo che la fotografia possa ancora fare la differenza e aiutare a cambiare la percezione delle cose. Ogni foto riuscita è come una breccia nel muro, un passo nella giusta direzione, che è quella di informare le persone nel modo più obiettivo possibile. È un potere limitato, ma ancora positivo». 

Guardiamo insieme le immagini simbolo della guerra in Ucraina. Chiedo a Steve McCurry di sceglierne una che rappresenti quella breccia nel muro. Lui le scorre, va avanti, torna indietro. Poi si sofferma su due immagini. La prima rappresenta la mano di una donna rimasta vittima di un bombardamento, ha lo smalto rosso, il disegno di un cuore su un'unghia. Nella seconda c'è un cane seduto accanto al suo padrone, morto, ucciso mentre andava in bicicletta.

«Quelle mani appartengono a una donna non è un soldato, non stava combattendo in una trincea. Una donna che stava cercando di vivere la sua vita, di metterci dentro un po' di bellezza mostrandosi al meglio, avendo cura di sé. E così ci pare di scorgerne le speranze, i sogni. È in questo che possiamo immedesimarci. Così come ci immedesimiamo nella quotidianità di un uomo che andava in bicicletta senza poter immaginare di essere un bersaglio. E ci colpisce quel cane che è lì, leale e in attesa».

Come può esserci assuefazione davanti a queste immagini? «Tutti noi siamo spinti a chiederci: perché? Come può un soldato andare in un villaggio e uccidere civili inermi? Lo fa per divertimento, perché gliel'hanno ordinato, è stressato, è arrabbiato? Esiste il male e va al di là della nostra possibilità di comprensione. Appartiene alla natura umana».

C'è qualcosa che ha visto e che non è stato capace di scattare?

«Mi chiedo spesso, durante il mio lavoro, qual è il limite da non valicare. Un momento di estremo dolore, per esempio. La risposta è che devi avere sempre rispetto delle persone. Non devi offenderle, non devi mai fare loro del male».

Il brodo di coltura delle fake news. Gianni Canova su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

Cultura e formazione dell’opinione pubblica: la democrazia della conoscenza è la priorità assoluta.

Fare appello alle emozioni della gente e non al suo intelletto; usare formule stereotipate ripetute all’infinito; scatenare attacchi continui agli oppositori, etichettati con epiteti riconoscibili e slogan che suscitino le reazioni viscerali delle masse. Sembrerebbero le regole di ingaggio di uno dei tanti talk show che ogni sera diffondono il virus dell’infodemia in un qualsiasi canale delle nostre tv generaliste. Ma non è così. Queste regole sono contenute e teorizzate nel Mein Kampf di Hitler, e ad esse si ispirava Goebbels nelle sue devastanti strategie di propaganda.

Io non so quanti tra i conduttori che negli ultimi anni hanno inondato l’etere e la rete di programmi che fanno «appello alle emozioni della gente e non al suo intelletto» e «suscitano le reazioni viscerali delle masse» siano consapevoli di essere epigoni delle tecniche di propaganda del Terzo Reich. Che non erano poi molto dissimili da quelle teorizzate e praticate da Lenin. Certo è che nel nostro sistema comunicativo, in quello televisivo soprattutto, c’è un problema: forse non ancora una vocazione al totalitarismo ma certo una pratica — poco importa quanto consapevole — che punta al controllo e alla manipolazione dell’opinione pubblica e favorisce la diffusione delle fake news.

Certo: quelle che oggi chiamiamo fake news sono un fenomeno vecchio come il mondo. E da che mondo è mondo sono state armi potentissime nei conflitti bellici. Sono servite a combattere e a vincere guerre più che a manipolare l’opinione pubblica.

La più grande battaglia dell’antichità, quella che ha generato poemi, miti e leggende, la guerra di Troia, è stava vinta grazie a una fake news. L’ha vinta Ulisse, non l’ha vinta Achille. L’ha vinta con quella raffinatissima fake news, con quell’inganno comunicativo che è stato il cavallo di Troia, spacciando un’arma di distruzione di massa per un dono agli dei.

Cos’è cambiato da allora a oggi? Due cose. La prima: le fake news non sono più rivolte a ingannare il «nemico» ma a influenzare e a orientare l’opinione pubblica. La seconda: si inseriscono in un contesto sempre più marcatamente segnato dalla misinformazione, cioè da quel contesto comunicativo per cui l’utente finale è messo nella condizione di non poter mai verificare l’attendibilità delle fonti e la veridicità delle informazioni che gli vengono trasmesse.

Le fake news attecchiscono perché la misinformazione fornisce loro il brodo di coltura. Perché siamo tutti responsabili nell’aver consentito di proliferare a un sistema informativo che troppo spesso pone ogni informazione sullo stesso piano, che non verifica le fonti, che sforna informazioni che vengono puntualmente smentite per poi essere ribadite e quindi nuovo smentite e poi riaffermate e di nuovo smentite finché il tutto precipita nell’oblio, lasciando il cittadino nel disorientamento, nel disagio, nella diffidenza.

Totalitarismo? Forse non quello teorizzato da George Orwell in 1984, ma qualcosa di simile a quello immaginato da Huxley in Il mondo nuovo, questo forse sì.

Come ha scritto Neil Postman in un saggio lucidamente profetico come Divertirsi da morire. Il discorso pubblico nell’era dello spettacolo (1985), «Orwell temeva coloro che ci avrebbero privato dell’informazione, Huxley temeva coloro che ce ne avrebbero data tanta da ridurci alla passività e all’egoismo. Orwell temeva che la verità ci sarebbe stata nascosta, Huxley temeva che la verità venisse affogata in un mare di irrilevanza». La profezia distopica di Huxley mi sembra non sia lontana dall’avverarsi: viviamo nell’età della distrazione e dell’indifferenza, affogati nel banale chiacchiericcio e nella hybris dell’insulto, immersi in una mediasfera dominata dall’indecidibilità. Uno vale uno. Chiunque può dire qualsiasi cosa senza timore di essere smentito, anzi, più le spara grosse, più le dice inattendibili, più è probabile che i talk show gli facciano eco e gli diano spazio. Generando la misinformazione in cui attecchiscono le fake news.

Per troppo tempo abbiamo assistito silenti se non complici alla porta-a-portizzazione della comunicazione. Abbiamo lasciato credere che comunicare sia urlare, insultare, banalizzare. Abbiamo lasciato la comunicazione televisiva in mano ai professionisti da talk show, agli acrobati degli anacoluti, ai prestigiatori dell’insulto, ai campioni della rissa verbale.

Ora è davvero tempo di porsi il problema dell’ecologia della comunicazione. Di battersi per riaffermare alcuni principi basilari. Impegnandosi ad esempio a scrivere in rete solo cose che si ha il coraggio di dire anche di persona. Valorizzando il valore dell’ascolto e del silenzio. Ricordando che gli insulti non sono argomenti, anche se sono insulti che sostengono le nostre tesi.

Ma si tratta soprattutto di rilanciare la lotta per la democrazia della conoscenza. Per la parità di accesso alle informazioni. Per la formazione di un’opinione pubblica dotata degli strumenti culturali necessari per distinguere una notizia falsa da una proveniente da fonte attendibile e accertata. In un Paese che ha ormai il 30% della popolazione adulta analfabeta o semianalfabeta, la democrazia della conoscenza è la priorità assoluta. In assenza di questa, in assenza di una vera democrazia culturale, anche la democrazia politica rischia di diventare una pia illusione. O, se preferite, una fake new. 

Il caso. La stella delle Brigate Rosse nell’ascensore del Tg2 in Rai, la Digos indaga ma il simbolo è lì da mesi. Fabio Calcagni su Il Riformista il 9 Maggio 2022. 

Una ‘stella’ denunciata in ritardo per spostare l’attenzione e le polemiche? È il dubbio che sale in merito al simbolo trovato sabato scorso da un giornalista Rai sulla parete di un ascensore alla palazzina che ospita la redazione del Tg2, testata diretta da Gennaro Sangiuliano, nella sede Rai di Saxa Rubra a Roma.

Una stella a cinque punte sulla falsariga di quella delle Brigate Rosse, il gruppo di terroristi rossi che ha segnato la storia del Paese, trovata alla vigilia di quel 9 Maggio in cui ricorre l’anniversario del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, lasciato 44 anni fa all’interno di una Renault 4 rossa in via Caetani.

Tanto basta per portare la Procura di Roma ad aprire un’indagine, in attesa di una prima informativa della Digos e dopo un sopralluogo già effettuato dalla Scientifica.

Tg2 come TeleSalvini, senza incarichi di governo ha più spazio di Draghi e Mattarella: “Uso da giornale di partito”

Eppure basta dare una sbirciatina sui profili social degli stessi giornalisti del Tg2 per scoprire che quella stella nell’ascensore c’era già da tempo. Un esempio? La foto pubblicata il 16 dicembre scorso da Maria Leitner, giornalista che per il tg della seconda rete si occupa in particolare di motori.

In un ‘selfie’ dal suo “ascensore preferito”, come lo chiama Letiner, si vede chiaramente il simbolo con le cinque stelle in alto a sinistra, sotto l’adesivo col nome e il recapito del manutentore, cinque mesi prima del ritrovamento denunciato da un giornalista della testata diretta da Sangiuliano. Ma il simbolo compare anche in altri scatti della Leitner, che abitualmente ‘posa’ davanti allo specchio dell’ascensore e posta poi il contenuto su Instagram: succede infatti il 27 gennaio, il 17 febbraio, il 5 marzo e ancora il 5 maggio scorso. 

Addirittura Il Foglio arriva a scoprire una foto risalente al 23 aprile 2021, oltre un anno fa, che mostra il simbolo delle BR: emerge da un selfie nell’ascensore di Saxa Rubra scattato da Manuela Moreno, volto del telegiornale. 

La reazione alla ‘minaccia brigatista’ è stata quella di un coro unanime di solidarietà della politica, bipartisan, nei confronti della redazione del Tg2 per un attacco alla libertà di informazione. Telegiornale diretto da quello stesso Gennaro Sangiuliano che nei giorni scorsi è stato al centro di una feroce polemica per la sua partecipazione alla convention di Fratelli d’Italia a Milano.

Nei suoi confronti l’amministratore delegato Carlo Fuortes ha annunciato di aver aperto un procedimento. Durante l’audizione Vigilanza Rai, l’AD aveva sottolineato che “Sangiuliano ha fatto richiesta per la moderazione di un dibattito nell’ambito della conferenza programmatica di Fratelli d’Italia”.

In realtà il direttore del Tg2 era poi salito sul palco della convention milanese del 29 aprile per pronunciare un vero e proprio discorso, nulla a che vedere con una ‘normale’ moderazione di un dibattito, che i giornalisti Rai possono svolgere con la presentazione all’azienda di un permesso per presenze esterne.

A dire la sua sulla questione è anche lo storico giornalista del Tg2 Valter Vecellio, che in una lettera su Dagospia. “Conosco bene, quell’ascensore – scrive il giornalista -: in venti e più anni l’avrò preso diecimila volte. E’ su un atrio, e dà su un corridoio dove ogni giorno, da mane a sera, transitano liberamente centinaia di persone. Non solo del Tg2. Di tutta Saxa Rubra, specie quando piove, per andare al bar o alla mensa. Capirai, quando ho letto che la Digos si era mobilitata per cercare di capire chi poteva averla incisa. Come risalire a chi scrive puttanate nelle pareti dei cessi pubblici”.

“Ora – continua Vecellio – viene fuori che quella scritta magari ci poteva essere dal dicembre 2021, e solo ora qualcuno se ne è accorto, diciamo che forse il caso non per caso fa le cose. E’ servito per distrarci dall’esibizione del direttore del “Tg2” alla convention di Fratelli d’Italia? Chissà. C’è chi va a quelle del Partito Democratico e nessuno dice nulla; perché prendercela con Sangiuliano se va dove ritiene? C’è ancora libertà di movimento e parola”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Dagonota il 9 Maggio 2022 - Ma la stella simbolo delle BR disegnata in un ascensore e che il TG2 ha denunciato come un atto intimidatorio nei confronti della libertà di stampa, è la stessa che si vede in questo selfie postato più di un anno fa da Manuela Moreno sul suo Instagram? Ah… saperlo…

Da open.online il 9 Maggio 2022. 

Una stella a cinque punte, sulla falsariga del simbolo delle Brigate Rosse, è stata ritrovata da una giornalista incisa sulla parete di un ascensore alla palazzina che ospita la redazione del Tg2, la testata diretta da Gennaro Sangiuliano, nella sede Rai di Saxa Rubra a Roma. Dopo la segnalazione sono intervenute la Digos e la polizia scientifica per i rilievi e accertamenti del caso. 

Nei giorni scorsi, il direttore Sangiuliano era stato fortemente criticato per aver partecipato alla convention milanese di Fratelli d’Italia. Nei giorni successivi alla conferenza di FdI, l’ad della Rai, Carlo Fuortes, dopo essersi confrontato con il direttore del Tg2, premettendo «che in azienda esiste una procedura per la richiesta di permessi per presenze esterne», durante l’audizione in Vigilanza Rai ha spiegato che «Sangiuliano ha fatto richiesta per la moderazione di un dibattito nell’ambito della conferenza programmatica di Fratelli d’Italia».

Fuortes ha poi aggiunto di essersi confrontato con il direttore del Tg2, che gli ha riferito «che non era una moderazione». L’ad della Rai ha dunque annunciato di di aver aperto un procedimento nei confronti del direttore del Tg2: «Chiederanno spiegazioni a Sangiuliano e poi vedremo come procedere, perché c’è una differenza tra la richiesta e la prestazione eseguita». 

Le reazioni politiche

Il gesto è stato condannato da tutti i principali esponenti della politica italiana. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha dichiarato: «Quello che è avvenuto nella sede della Rai a Roma, con il ritrovamento del simbolo delle Brigate rosse negli uffici del Tg2 è semplicemente vergognoso. Massima vicinanza al direttore Sangiuliano e a tutta la redazione del Tg2, ferma condanna per questi gesti ignobili». Solidarietà alla Rai e ai giornalisti del Tg2 anche da parte del segretario della Lega, Matteo Salvini: «Solidarietà al Tg2, dopo la comparsa di una stella a cinque punte. 

Nessuno spazio al fanatismo e all’intimidazione dei giornalisti, soprattutto in un momento storico come quello che stiamo vivendo: le voci fuori dal coro vengono censurate, attaccate, intimidite». Anche il presidente del M5s Giuseppe Conte, su Twitter, ha espresso solidarietà al Tg2: «Dopo gli attacchi politici subiti in questi giorni, oggi arriva una grave minaccia, un gesto intimidatorio proprio nella sede della redazione. Solidarietà a tutte le donne e agli uomini del Tg2, dal direttore al più giovane operatore. La libertà di informazione non si tocca!». 

La presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, ha twittato: «Solidarietà al direttore Sangiuliano e a tutta la redazione del Tg2, dove è stato ritrovato un simbolo delle Brigate rosse. Un gesto intimidatorio vergognoso e inaccettabile». Giuseppe Moles, sottosegretario all’Editoria e vicepresidente dei Senatori di Forza Italia, ha definito l’accaduto un «gravissimo gesto intimidatorio», sottolineando che «la libertà di informazione nel nostro Paese è sacra ed inviolabile, principio fondante della nostra democrazia». 

Anche la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha denunciato il «vile atto intimidatorio», evidenziando che «l’informazione libera è un pilastro indiscutibile della democrazia: la condanna unanime da parte di tutte le forze politiche è doverosa». Il presidente di Italia viva, Ettore Rosato, in un post su Twitter ha condannato il gesto, aggiungendo che «l’uso del simbolo delle Br, che evoca un passato di terrore e sangue, è veramente ignobile». 

Lettera di Valter Vecellio a Dagospia il 9 Maggio 2022. 

Caro Dago, Ennio Flaiano rimpiangeva, a ragione, i cretini di una volta; che almeno erano autentici, non adulterati, non “intelligenti”. Questa storia della stella brigatista incisa su un ascensore del “TG2”. Conosco bene, quell’ascensore: in venti e più anni l’avrò preso diecimila volte. E’ su un atrio, e dà su un corridoio dove ogni giorno, da mane a sera, transitano liberamente centinaia di persone. Non solo del “Tg2”. Di tutta Saxa Rubra, specie quando piove, per andare al bar o alla mensa. Capirai, quando ho letto che la DIGOS si era mobilitata per cercare di capire chi poteva averla incisa. Come risalire a chi scrive puttanate nelle pareti dei cessi pubblici. Ora viene fuori che quella scritta magari ci poteva essere dal dicembre 2021, e solo ora qualcuno se ne è accorto, diciamo che forse il caso non per caso fa le cose. E’ servito per distrarci dall’esibizione del direttore del “Tg2” alla convention di Fratelli d’Italia? Chissà. C’è chi va a quelle del Partito Democratico e nessuno dice nulla; perché prendercela con Sangiuliano se va dove ritiene? C’è ancora libertà di movimento e parola. Infatti, per tornare alla “stella”, di questa "libertà" s’è fatto ampio uso:

"Gesto intimidatorio vergognoso" (presidente del Senato, Elisabetta Casellati).

"Grave minaccia. La libertà di informazione non si tocca" (Giuseppe Conte).

"Gesto inqualificabile e vigliacco doppiamente da condannare perché rivolta a operatori dell'informazione" (Enrico Borghi, PD).

"L'informazione libera è un pilastro indiscutibile della democrazia" ( Giorgia Meloni).

“Nessuno spazio al fanatismo e all'intimidazione dei giornalisti, soprattutto in un momento storico come quello che stiamo vivendo". (Matteo Salvini).  E poi Ettore Rosato, Luigi Di Maio, Maurizio Gasparri...

Stampa romana chiede "alle forze dell'ordine di fare piena luce sulla comparsa di una stella a cinque punte, che richiama le brigate rosse, in un ascensore della redazione del tg2 a Saxa rubra". In una nota esprime solidarietà "alle colleghe e ai colleghi per il tentativo di intimidazione, convinti che il loro lavoro non subirà alcun tipo di condizionamento".

L’Usigrai: "Solidarietà alle colleghe e ai colleghi del Tg2 per quanto accaduto. Si faccia velocemente chiarezza e si individuino gli autori del gesto. Libertà, autonomia e indipendenza dell'informazione di servizio pubblico non possono essere oggetto di intimidazione".

Ah, Flaiano! E comunque, ragazzi: un cretino o una cretina incidono il simbolo delle BR, e scoppia questo finimondo, e la nostra libertà, indipendenza, autonomia viene pregiudicata per questo? Ridicoli e patetici. Qualcuno dovrebbe darsi davvero una regolata.

Le minacce alla libertà di informazione e conoscenza sono altre, le abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Per esempio: ci siamo o no accorti che siamo al 9 maggio, che il 12 giugno si voterà per ben 5 referendum sulla giustizia, e su questo nessuna informazione se non striminziti servizietti con incomprensibili grafiche, ma nessun confronto, nessun dibattito, niente…? Sono cinque quesiti che intaccano una piccola parte del potere corporativa della magistratura associata. Ma naturalmente, zitti; e Mosca.  Valter Vecellio

I giovani e le fake news in rete: otto su dieci dicono di riconoscerle. Franco Stefanoni su Corriere della Sera il 22 marzo 2022.

Più si abbassa l’età, più aumentano i controlli sulle informazioni online per verificarne l’affidabilità, inclusa la presenza di fake news. Tra i giovani (18-30 anni), il 61% si accerta infatti di autori e link, il 56% fa comparazioni con altri indirizzi web, il 38% bada che il sito sia aggiornato. Percentuali che crollano se l’età è quella compresa tra 31 e 50 anni, e tra 51 e 64 anni. Stesso discorso a seconda del grado d’istruzione: meno titoli di studio fa il paio con meno controlli. Uno scenario, quest’ultimo, che può portare a dare credito a notizie false.

La ricerca

Nel quadro fornito dall’indagine «Media e fake news» che Ipsos ha realizzato per Idmo (Italian digital media observatory), l’hub nazionale coordinato da Gianni Riotta e partner di Edmo, task force europea contro la disinformazione, spicca come tra gli italiani non ci sia confusione sul significato stesso di fake news, si tratta di notizie tendenziose o completamente inventate, anche se quando c’è da valutare vero o falso la percezione cambia. Il 73% degli intervistati — mille persone sentite tra l’1 e il 4 febbraio, metà uomini e metà donne, dai 30 ai 64 anni, per il 45% senza diploma, il 37% diplomati e il 18% laureati — ritiene infatti di essere in grado di distinguere un fatto reale da una bufala. Tuttavia, se deve giudicare il comportamento degli altri, il pensiero è che appena il 35% sia altrettanto capace di farlo. Una differenza di atteggiamento che, anche in questo caso, è più forte tra i più giovani e scolarizzati: quasi otto giovani tra i 18 e i 30 anni di età (quote oltre il 75%) crede più nella propria capacità di saper distinguere i fatti reali dalle fake news che il quella altrui.

I falsi più pericolosi

I falsi descritti come più pericolosi risultano essere quelli tendenziosi, costruiti cioè per favorire particolari interessi. Il 60% degli intervistati crede che chi li diffonde sia consapevole del fatto che sono notizie scorrette e più di uno su tre (il 37%) è dell’idea che tale diffusione abbia alla sua radice un tornaconto economico. Sapere che cosa sia una fake news, analizza l’indagine chiesta da Idmo (tra i partner Rai, Tim, Tor Vergata, Newsguard, Gedi, , Fondazione Enel) non significa padroneggiare il concetto di «affidabilità» delle informazioni. La quasi totalità degli italiani ha chiaro che una notizia controllata sulla pagina di un divulgatore ( scienziati o debunker, soggetti che svelano i falsi) sia più affidabile, ma sono altrettante le persone che ritengono che la ripresa da parte di più mezzi d’informazione, qualunque essi siano, rappresenti un segno di correttezza di contenuto. Per il 60% notizia condivisa è sinonimo di affidabilità, mentre il 55% è dell’opinione che è ancora più attendibile se condivisa da un amico molto attivo sui social (quota che sale tra i più giovani e tra i meno istruiti, mentre scende nella fascia d’età 31-50 anni e tra chi ha più titoli di studio).

Le fonti di informazioni

In un Paese in cui sette persone su dieci attingono esclusivamente informazioni da fonti gratuite e solo una su quattro è disposta a pagare, con ampie quote di italiani che dichiarano di non avere nette opinioni riguardo a fatti di dibattito pubblico, non stupisce come risulti ben radicata una serie di credenze. Il 30% dei cittadini ritiene che l’acqua del rubinetto non sia salutare come quella in bottiglia e che l’Italia non sia il Paese con la percentuale più alta di riciclo dei rifiuti in Europa. Il 23% avvalora il fatto che l’omeopatia sia in grado di curare, ma il 36% non è sufficientemente informato per esprimersi al riguardo. Una proporzione anche maggiore (45%) non sa dire se la circostanza che l’Italia risulti il secondo Paese manifatturiero d’Europa sia verità o bugia, sebbene chi lo ritenga falso sia solo il 13%. Ancora: quasi il 40% delle persone è del parere che il tema del cambiamento climatico divida la comunità scientifica, dato che scende tra i più giovani al 32%, tra i più istruiti al 35%. Circa il 30% pensa che l’olio di palma sia più pericoloso del burro per la salute, che una dieta priva di formaggi prevenga diversi problemi intestinali negli adulti. Ultimo, ma non per importanza, poco più del 20% considera i vaccini fattori di indebolimento del sistema immunitario dei bambini.

Dagospia il 18 marzo 2022. Riceviamo e pubblichiamo da Maurizio Belpietro: Caro Dago, oggi riporti un articolo di Stefano Lorenzetto che segnala un mio errore nell’editoriale che ho scritto su La Verità. 

Al cognome del gerarca nazista che contribuì all’Olocausto ho infatti aggiunto una h che non ci voleva. 

È vero e chiedo scusa ai lettori della Verità e anche ai tuoi. 

In compenso Lorenzetto citando il cognome senza la h scambia il criminale di guerra per il padre, scrivendo che il nome corretto dell’uomo che organizzò la deportazione degli ebrei era Karl Adolf Eichmann. 

In realtà, l’uomo che il Mossad rapì in Argentina, dove si era nascosto dopo la guerra, e fu impiccato in seguito a un processo pubblico, si chiamava Otto Adolf Eichmann.

Come si legge del resto nel secondo capitolo del libro scritto da Hannah Arendt, sotto il titolo “L’imputato”. 

Karl era un contabile che durante la Prima guerra mondiale si arruolò nell’esercito austroungarico, non nel corpo paramilitare delle Schutzstaffel.

Dagospia il 18 marzo 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, 

Maurizio Belpietro ha ragione. Nel fargli le pulci perché in un suo editoriale aveva scritto «Heichmann» invece di «Eichmann», ho scambiato il nome del criminale di guerra per quello del padre. 

Devo però dire, se può valere come attenuante generica, che ho sbagliato in ottima compagnia. 

A chiamare Eichmann con il nome «Karl Adolf», anziché «Otto Adolf», sono infatti la Treccani, l’Enciclopedia Britannica, l’Enciclopedia Zanichelli e anche il quarto volume dell’Enciclopedia generale Mondadori. Allego le relative prove fotografiche.

Alla prossima pulce. Meno saltellante, spero.

La sottile arte di manipolare l’informazione. Gianni Riotta su La Repubblica il 27 Gennaio 2022.  

Dalla Guerra Fredda ai No Vax, dalle fake news ai dossieraggi un saggio ripercorre il fenomeno di creare una verità alternativa. Il 5 maggio del 1971, il compunto funzionario Lawrence Bitt apparve davanti alla Commissione Giustizia del Senato americano dichiarando: "La ragione per cui la disinformazione funziona sempre così bene è che tanti giornalisti e politici vogliono davvero credere ai nostri messaggi, che confermano le loro opinioni". Dietro lo pseudonimo "Bitt" si nascondeva in realtà la spia cecoslovacca Ladislav Bittman, dirigente della disinformazione per l'intelligence del Patto di Varsavia, e autore della leggendaria "Operazione Nettuno" del 1964, falsi documenti nazisti, che, misti ad autentici reperti hitleriani, vennero fatti ritrovare in un lago al confine con la Germania Ovest, per imbarazzarne i governi democratici. 

La censura e il vaccino per la disinformazione. Riccardo Luna su La Repubblica il 27 Gennaio 2022.  

Ieri sera ho aperto Spotify e lanciato la playlist di Neil Young. Prima che sparisca. La piattaforma infatti ha deciso di rimuovere tutte le sue canzoni dopo che la vecchia stella del rock aveva intimato: o me o Joe Rogan. Joe Rogan è il re del podcast. Uno con uno show ascoltato da oltre 10 milioni di persone per volta. E non si tratta di un prodotto banale: le sue interviste durano anche tre o quattro ore in cui Joe Rogan tiene la scena come certi leggendari conduttori radiofonici. Il fatto è che di  interviste ne ha fatta una ad uno scienziato che ha detto cose contro i vaccini sul covid. Disinformazione pericolosa!, hanno protestato centinaia dì scienziati. Da qui l’ultimatum dì Neil Young. Finito male per ora. Spotify ha scelto il re del podcast. Vedremo se altri, con più followers, seguiranno Neil Young ma intanto colpisce che la battaglia contro le fake news dopo i social network si stia estendendo a tutte le piattaforme. Spotify ha detto di aver rimosso oltre ventimila podcast perché facevano disinformazione. Ventimila podcast rimossi è un numero enorme: possiamo saperne di più? Chi ha deciso che andassero censurati? E perché Rogan no? 

Il prossimo terreno di scontro saranno le newsletter: è stato calcolato che i no vax usando la piattaforma Substack abbiano incassato in un anno due milioni e mezzo di dollari; e i fondatori hanno replicato di non voler limitare la libertà di espressione. E' un problema serio. In rete siamo fragili, esposti a mille stimoli di cui fatichiamo a capire i meccanismi. Ma anche la libertà di espressione non sta benissimo. E’ la censura il vaccino per recuperare la fiducia perduta? Non credo: quando finirà la pandemia dovremo ragionarci. 

Su giustizia e sanità informazione manipolata. Dalla persecuzione di Pittelli ai dati Covid. Fabrizio Cicchitto su Il Tempo il 15 gennaio 2022.

Sulla completezza e sulla libertà dell’informazione sono in atto operazioni assai pericolose che riguardano sia la giustizia che la sanità. Sulla manipolazione dell’informazione per ciò che riguarda la giustizia ci sarebbe da scrivere non un libro, ma una biblioteca. Allora concentriamo la nostra attenzione su un singolo caso, quello dell’avvocato Pittelli, vittima di un’autentica persecuzione resa ancor più efficace dall’assoluto silenzio che circonda il caso tranne la meritoria campagna svolta dal Riformista.

Pittelli è stato arrestato nella notte del 19 dicembre 2019 alle 3:30 del mattino. Fra i vari addebiti c’era quello di partecipazione ad associazione mafiosa. La documentazione era costituita da ben 29 faldoni. Nel primo interrogatorio svoltosi un giorno dopo Pittelli fu costretto ad avvalersi della facoltà di non rispondere perché né lui, né i suoi avvocati avevano potuto leggere una carta, però successivamente Pittelli non è stato più interrogato tranne che per un interrogatorio del tutto formale svoltosi a Nuoro da parte di pm che a loro volta non conoscevano le carte perché egli nel frattempo era stato trasferito nel carcere di massima sicurezza di Badcarros in Sardegna, operazione che rendeva assai difficili le visite di parlamentari e di familiari.

Ovviamente subito dopo l’arresto fu scatenata una campagna mediatica contro Pittelli anche con la pubblicazione di intercettazioni riguardanti la sua vita privata. Successivamente il tribunale della libertà ha ridimensionato le accuse (da associazione a concorso esterno), per cui egli ha ottenuto dopo molto tempo gli arresti domiciliari.

Pittelli però è stato nuovamente arrestato nel dicembre 2021 per aver mandato una lettera, con raccomandata a/r, al ministro Carfagna nella quale parlava del suo caso. A parte alcuni aspetti assai inquietanti di quest’ultima vicenda è evidente la linea persecutoria portata avanti dalla procura contro Pittelli. Adesso Pittelli ha inviato un telegramma al direttore del Riformista Piero Sansonetti nel quale dichiara: «Porterò lo sciopero della fame fino alle estreme conseguenze contro una giustizia mostruosa».

Ebbene, così come di fronte all’articolo sul Dubbio del magistrato Guido Salvini a proposito dei trucchi procedurali del pool di Mani Pulite, così sul caso Pittelli c’è un silenzio assoluto da parte delle televisioni e dei grandi giornali.

Passiamo al tentativo in corso di manipolare l’informazione anche sulla sanità. A nostro avviso se c’è una critica da rivolgere al governo e alle regioni sulla sanità è di avere attenuato il necessario rigore specie da ottobre fino alle feste di Natale per ragioni politiche e per ragioni economiche. Siccome adesso a causa della maggiore contagiosità della variante Omicron e dei precedenti errori stanno aumentando il numero dei contagi e, cosa gravissima, anche quello dei morti, alcuni presidenti di regione chiedono di cambiare le cifre escludendo dal computo gli asintomatici.

C’è da essere esterrefatti: forse gli asintomatici non sono in grado di contagiare gli altri? Ricordiamo a questo proposito che quando esplose il contagio a gennaio-febbraio 2020 la Regione Veneto, diversamente dalla Lombardia, evitò il peggio proprio perché fece tamponi a spron battuto identificando gli asintomatici. Ciò fu il frutto della collaborazione fra il presidente Zaia e il professor Crisanti (che successivamente purtroppo hanno litigato per ragioni mediatiche) e la Regione Veneto fece un’ottima figura di fronte al disastro verificatosi invece in Lombardia (poi in Lombardia le cose sono migliorate quando al posto dell’ineffabile Gallera sono arrivati all’assessorato alla Sanità Letizia Moratti e Guido Bertolaso). Adesso Zaia e Crisanti sul tema sostengono tesi opposte, ma quest’ultimo ha buon gioco nel ricordare che la proposta di non contagiare gli asintomatici, fatta per la chiara ragione economica per non far cambiare di colore la regione, punta ad imitare l’aperturismo di Johnson rimuovendo però il fatto che in Inghilterra in questi mesi ci sono stati ben 15.000 morti in più.

Non nascondiamo che dietro questa discussione c’è una questione di principio che riguarda l’interrogativo se la scelta fondamentale è quella di tutelare in primo luogo la salute o quella di assicurare comunque le attività economiche, indipendentemente dai contagiati e dai morti. Francamente a nostro avviso l’espressione «convivere con il contagio» ha un’ambiguità assai inquietante.

Informazione manipolata. Com’è profondo il pericolo connesso ai deep fake. Farah Nayeri su L'Inkiesta il 7 Gennaio 2022.

I creativi che producono video ingannevoli come forma d’arte li difendono come mezzo espressivo. Ma la diffusione delle tecnologie per modificare a proprio piacimento le immagini in movimento è un grave rischio per la democrazia.

Pubblichiamo il dibattito moderato da Farah Nayeri, giornalista culturale del New York Times con Toomas Hendrik Ilves, ex presidente della repubblica estone, Ashley Tolbert, senior security engineer di Netflix e Bill Posters (nome d’arte di Barnaby Francis), artista, ricercatore, scrittore e facilitatore.

Mentre i video deep fake e altri media manipolati diventano più sofisticati e più economici da produrre, ne stanno ora facendo esperienza anche le persone che non fanno parte dell’ambiente tecnologico. Per i loro creatori questi media sono un potente strumento espressivo. Ma possono anche essere usati per influenzare le persone e per modificarne le opinioni. Il semplice fatto di usare la definizione “arte” dà ai creativi la licenza di giocare con la realtà? E come possiamo preparare e proteggere noi stessi, le nostre istituzioni e le nostre democrazie quando il vedere non è più sufficiente perché si possa credere?

Nayeri

Io penso che i deep fake abbiano attirato per la prima volta l’attenzione del pubblico generalista nel 2017 quando diventarono virali moltissimi video di personaggi famosi e di attori impegnati in performance pornografiche che non avevano mai svolto nella loro vita reale. Quindi, tutto il dibattito intorno a questo argomento ha iniziato a infiammarsi più meno in quel periodo. E oggi, a quanto mi pare di capire, più o meno chiunque può creare un deep fake. Barnaby, mi rivolgo a lei. So che il suo nome d’arte è Bill Posters. Vorrei che ci parlasse del concetto di deep fake. Perché per lei si tratta di un modo di fare arte, di una forma d’arte e io mi rendo conto che l’arte abbia a che fare con l’artificio e con il rappresentare le persone attraverso una sorta di finzione. Ma lei è consapevole delle implicazioni per la democrazia e delle implicazioni politiche della sua arte?

Francis

Insieme a un collaboratore, Daniel Howe, ho creato una serie di opere che ho chiamato “Big Data Public Faces”. Tra queste ci sono fake video di Mark Zuckerberg di Facebook e di varie altre persone famose. Queste opere sono state riprese e sono diventate virali, creando un gran polverone sui temi a cui le nostre opere sono connesse. Chiaro? Stiamo parlando di disinformazione e di informazione manipolata e del modo in cui la verità viene diffusa online o di come la nostra percezione può essere alterata attraverso l’uso di nuovi media come questi. Noi usiamo i deep fake in questa forma.

Nayeri

Ma poi può capitare che qualcuno, guardando un frammento del vostro video in cui Zuckerberg dice cose inquietanti, creda che Mark abbia davvero detto quelle cose, prenda il video e lo diffonda su altre piattaforme.

Francis

Certo, sì, è senz’altro possibile.

Nayeri

Che lei stia facendo arte in un contesto artistico va benissimo, ma poi quando si colloca questa arte fuori dal contesto artistico ecco che emergono diversi pericoli.

Francis

Certamente. E questo è vero per qualunque tipo di informazione che viene condivisa su qualsiasi forum o in qualsiasi ecosistema informativo online, no? O è citata male o è male interpretata eccetera. Quindi i veri elementi chiave qui sono la competenza e il contesto. Quindi ogni cosa che io condivido online è contestualizzata come un’opera d’arte contemporanea, sapete, come un opera d’arte concettuale. Insomma, c’è sempre questo tipo di trasparenza in relazione ai media che vengono condivisi, ok? Purtroppo non accade altrettanto in molti dei forum o dei contesti informativi in cui vengono condivise le cose online.

Nayeri

Toomas Hendrik Ilves, lei e l’ex presidente dell’Estonia. E la rivista Forbes ha scritto che, mentre lei era a capo dello Stato, l’Estonia è diventata il Paese con il più alto livello di digitalizzazione del mondo. Lei ha condotto una rivoluzione digitale nel suo Paese e, a quanto ne so, oggi in Estonia è possibile essere identificati attraverso la tecnologia del riconoscimento facciale – o non è così? Insomma, quanto è digitale l’Estonia?

Ilves

In Estonia l’erogazione di tutti i servizi pubblici e tutte le interazioni tra il cittadino e lo Stato possono avvenire digitalmente, tranne il matrimonio, il divorzio e l’acquisto o la vendita di proprietà immobiliari – e questa non è una cattiva idea dal momento che negli Stati Uniti due mafiosi russi hanno acquistato appartamenti nella Trump Tower attraverso società di comodo anonime. Tutto il resto può essere fatto online. Quando, l’anno scorso, ho letto un articolo sul suo giornale sul fatto che, dopo due mesi di Covid, ci fosse sostanzialmente un arretrato di 3,5 milioni di richieste di passaporto mi sono domandato perché ci fosse questo ritardo. Beh, perché gli uffici erano chiusi. Invece, in Estonia, quando devo rinnovare il mio passaporto vado semplicemente online. Devo caricare una nuova fotografia perché, sa, i capelli sono meno e sono più grigi, ma, a parte questo, nient’altro è cambiato. Tutto il resto rimane uguale e non devo compilare nient’altro. Noi facciamo così. Per quanto riguarda il riconoscimento facciale invece no, non molto. I deep fake invece mi preoccupano molto di più.

Nayeri

Se il suo Paese sta lavorando sulla tecnologia del riconoscimento facciale e qualcuno, per esempio, finge di essere me e fa un video in cui mi si vede fare qualche azione criminale, lei capisce che…

Ilves

Penso che sia ancora peggio. Penso che lo sviluppo dei deep fake, diversamente da quanto è accaduto con la fotografia e anche con Photoshop, colpisca davvero la base empiristica della democrazia, perché in questo caso sono coinvolti anche i movimenti e la voce.

Nayeri

Perché crede che questa sia una minaccia per la democrazia?

Ilves

Perché si può danneggiare praticamente ogni cosa. Si può fare un video fake di un politico che prende una tangente. Si possono screditare persone che sono state legittimamente elette creando dei deep fake. E il problema è che le soluzioni tecnologiche per combattere tutto questo sono piuttosto limitate. Quindi dovremo insegnare alle persone a non credere a quello che vedono.

Tolbert

Condivido la convinzione che i deep fake siano preoccupanti. Tuttavia, vorrei rimanere ancora nell’ambito dei deep fake come forma artistica, va bene? Ecco, i “media sintetici” sono una forma d’arte e sono una cosa che esiste fin dal Diciannovesimo secolo. Ma, quando si esce dai confini di quell’ambito artistico, ci sono rischi catastrofici connessi ai deep fake. Se si calibra bene il momento in cui viene diffuso un deep fake questo può avere un reale impatto su delle elezioni o sulla reputazione di qualcuno. Quindi, sostanzialmente, si approfitta della possibilità di influenzare le persone in un istante. E poi, una volta che il seme è stato piantato, la cosa è quasi irreversibile ed è di fatto impossibile tornare indietro e invertire la corsa di quella presunta notizia che si è diffusa in un istante. Quindi per me il problema è la viralità, è il fatto che questa linea che unisce la disinformazione ai deep fake sia semplicemente troppo potente.

I FALSARI DI AMAZON. Arc.Roc. per “la Stampa” il 21 ottobre 2022.

Due azioni indipendenti. Ma stessa finalità: mettere fine al fenomeno delle finte recensioni online. Amazon ha presentato la prima denuncia penale in Italia contro un intermediario. La prima anche a livello europeo. L'accusa a carico del broker è di aver organizzato una rete di persone disposte a recensire col massimo punteggio prodotti comprati sul portale per ottenere un rimborso sulla spesa effettuata. 

Nelle stesse ore si è mossa anche Altroconsumo, che ha presentato altre quattro denunce contro altrettanti responsabili di siti internet e canali social accusati di aver messo in piedi lo stesso meccanismo. Massimo riserbo sui nomi. Ma le denunce sono state presentate alle procure di Bologna, Ivrea, Milano e Roma. Azioni separate frutto però di un primo tentativo di coordinamento tra la società americana e l'associazione dei consumatori.

Tutto avveniva su siti internet specializzati o canali Telegram. Ce ne sono decine sul servizio di messaggistica. Il più grosso di questi, che La Stampa ha visitato, conta 42 mila iscritti. Ma se si prova a fare la somma solo dei canali più frequentati, il numero degli iscritti supera i 150 mila. Numeri che raccontano un fenomeno molto più esteso e radicato di quanto si possa immaginare.

Perché si tratta di persone reali, che fanno recensioni reali, anche se il giudizio sul prodotto è falsato dal fatto di averlo avuto gratis. Da una prima stima, potrebbero essere circa 11 mila i siti e i canali social che alimentano il mercato delle false recensioni. Un problema per tutti gli attori in campo. Per i consumatori, che vengono indirizzati dalle finte recensioni all'acquisto di prodotti magari non così buoni.

Per Amazon, che sul valore e l'attendibilità delle recensioni ha costruito parte della sua forza sul mercato. Ma anche per le aziende che su Amazon si comportano in modo onesto, senza cercare finti recensori dei loro prodotti.

Già, perché se ci sono recensioni coordinate, e tutte col massimo punteggio possibile, la ragione più plausibile è che dietro (a metterci i soldi) ci siano rivenditori disonesti, disposti a tutto pur di vedere le cinque stelle adornare i loro prodotti. E convincere all'acquisto altri potenziali clienti ignari. Meccanismo reso più efficace dall'esistenza di un coordinatore. L'intermediario che organizza questi canali. Probabilmente per un ritorno più consistente di un prodotto, o di un rimborso. Saranno le procure ad accertare il giro d'affari che c'è dietro. Illegittimo perché contravviene alle regole di utilizzo di Amazon.

Il colosso dell'ecommerce ha 12 mila dipendenti che si occupano di controllare le recensioni dei prodotti venduti sul suo portale. Con loro lavora un'intelligenza artificiale che cerca di scovare meccanismi ricorsivi e potenziali raggiri alle sue regole. 

Ogni settimana Amazon registra 30 milioni di nuove recensioni. Nel 2020, secondo i dati dell'azienda, ne sono state sospese 200 milioni.

Anche Altroconsumo è attiva da anni contro questa pratica. «Alcuni siti che abbiamo individuato hanno sistemi molto sofisticati, altri sono solo canali social», spiega a La Stampa Federico Cavallo, responsabile delle relazioni esterne dell'associazione. «Ci sono portali che fanno accedere direttamente con le credenziali di Amazon, mettono a disposizione dell'utente una lista di oggetti da recensire, lo collegano direttamente all'ecommerce dove può effettuare l'acquisto. Una volta fatto, e votato con il massimo del punteggio, si ottiene un rimborso tramite voucher o PayPal», spiega.

L'accesso, aggiunge, è aperto sia agli acquirenti che «ai venditori che vogliono approfittare di questi portali». Altroconsumo nella sua indagine si è concentrata sui prodotti di natura tecnologica. Cuffie, smartphone, computer. «Ma è un fenomeno che riguarda ogni genere di prodotto, dalla casa alla cura della persona», aggiunge Cavallo. 

Un fenomeno cresciuto nell'epoca del consumatore diventato anche produttore di valore per le aziende che, con i suoi comportamenti online, con i commenti, le recensioni, indirizza anche le scelte degli altri. Prosumer è il termine che identifica questa nuova figura del commercio online. Al consumatore medio non resta che l'arma della diffidenza.

Arcangelo Rociola per “la Stampa” il 21 ottobre 2022.

Appena entrati si è accolti da un messaggio. «Importante. Leggere prima di ordinare». Segue una lunga lista di accorgimenti. Cosa fare, cosa non fare, di cosa munirsi prima di comprare un prodotto su Amazon e ottenere un rimborso sulla spesa effettuate.

Parziale o totale, dipende dall'oggetto comprato. Quello a cui La Stampa ha fatto accesso è uno dei canali Telegram dove si organizzano le finte recensioni di prodotti in cambio di un rimborso. Il più frequentato di tutti tra le decine esistenti in italiano. 42 mila iscritti. Il vademecum contiene indicazioni utili per fare in modo che tutto fili liscio. Che non ci sia alcun sospetto da parte di Amazon. «Massimo due o tre ordini a settimana», ma da alternare a «ordini normali», quindi senza rimborso. Perché quelli che si organizzano non sono ordini normali. Servono per far schizzare le valutazioni dei prodotti in cima alle classifiche e convincere altri utenti a comprarli.

Il canale, che come immagine principale ha un'icona a cinque stelle, il massimo del voto possibile per un prodotto comprato su Amazon, indica tre tipologie di ordini possibili: con recensione, e qui il rimborso è del 100% «se non diversamente specificato»; senza testo, ma solo con le cinque stelle, ma per certificarlo va inviato uno screenshot; solo acquisto, e qui serve una foto del prodotto ricevuto. Sotto una lunga lista di prodotti possibili: elettrostimolatori muscolari, cuffie bluetooth, telecamere spia per bambini. Tutti prodotti con un link che rimandano direttamente ad Amazon per l'acquisto. Una volta fatto tutto e fornito eventuali prove, si ottiene il rimborso su un account PayPal.

Ancora più dettagliato è il vademecum di un altro canale Telegram. Il secondo per dimensioni. 26 mila iscritti. L'incipit è immediato: «Non corri il rischio di essere truffato, se non ricevi il rimborso puoi sempre fare il reso entro 30 giorni dalla data di acquisto». Come a dire, nessuno qui perde nulla. Tranne Amazon. 

Ci sono cosmetici, vestiti, elettrodomestici, oli essenziali e prodotti anti calvizie. Centinaia di prodotti messi ogni giorno. Un elenco sterminato. Di ogni tipologia di beni acquistabili. Tranne libri, sembrerebbe.

Questo canale (cinque stelle su sfondo blu) chiede invece un profilo Amazon con cinque recensioni già fatte. Un conto PayPal per i rimborsi. E un avvertimento sulle spese di spedizione: non saranno rimborsate. Poi però un invito, che suona quasi ironico: «Se volete evitarle, abbonatevi ad Amazon Prime». Il rimborso è promesso in «3-5 giorni». A servizio dei recensori, anche un canale Telegram dove si invia il link della recensione per avere i soldi.

Infine, una serie di accorgimenti per evitare di insospettire il portale di ecommerce: «Ogni tanto, fa una recensione diversa e non mettere cinque stelle». O ancora: «Fai recensioni anche 10 giorni dopo dalla ricezione del prodotto». Perché, viene spiegato a chiare lettere, «questa pratica va contro le policy di Amazon» e «nel caso il tuo profilo risultasse sospetto potrebbero toglierti per sempre l'opportunità di recensire». Una macchina perfetta. Studiata in ogni dettaglio. Consapevole che l'attività è illecita, ma organizzata in maniera tale da non destare troppi sospetti. Ma il fenomeno negli anni ha raggiunto dimensioni tanto grandi da minare alla base la sua segretezza. Da un primo calcolo sono 150 mila gli iscritti a questi canali.

Senza contare quelli dei siti creati per mettere in contatto diretto recensori e prodotti desiderati. Ora a chiarire se c'è un reato e chi sono i responsabili saranno le indagini di quattro procure italiane allertate da Amazon e Altroconsumo. Intanto i canali sono ancora attivi. Mentre scriviamo vengono pubblicati nuovi annunci. Nell'ordine. Una «fototrappola» per animali selvatici. Un integratore per le difese immunitarie. Un orologio per il fitness.

Da “il Giornale” il 21 ottobre 2022.

Basta con le false recensioni on line. Amazon dichiara guerra a chi scrive sui social commenti non veritieri in cambio di denaro. Una problematica di vecchia data per l'eCommerce, settore in cui la pubblicità e il marketing possono spostare i grandi numeri del commercio online, così come una recensione positiva o negativa. Il colosso di Jeff Bezos ha dato il via ad un'azione legale contro gli amministratori di oltre 10mila gruppi Facebook che avrebbero messo in piedi un flusso di false recensioni, in cambio di denaro o prodotti gratuiti.

Gruppi creati ad hoc per reclutare persone disposte a pubblicare recensioni fuorvianti sugli store di Amazon in Italia. Ma anche in quelli di Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Spagna e Giappone. Uno di questi, «Amazon Product Review», vantava più di 40mila membri fino a quando Facebook non lo ha rimosso all'inizio del 2022. 

Vengono chiamati «broker» di recensioni. Sono utenti che, offrendo denaro o ricompense in buoni e oggetti, spingono altri iscritti a scrivere commenti su acquisti mai effettuati, con il fine di spingere questo o quel venditore concorrente alterando la valutazione dei prodotti. L'iniziativa legale ha l'obiettivo di ridurre il numero delle «fake review» scovate sulle piattaforme digitali, non solo su Facebook ma anche Twitter e TikTok.

L'azienda di Zuckerberg sta collaborando con il colosso dell'e-commerce nella lotta contro questa piaga. «I gruppi che sollecitano o incoraggiano recensioni false violano le nostre norme e vengono rimossi. Stiamo lavorando con Amazon su questo argomento e continueremo a collaborare in tutto il settore per affrontare lo spam e le recensioni false», ha fatto sapere un portavoce di Meta, la casa madre di Facebook, dopo l'avvio dell'azione legale contro le recensioni fasulle.

Già nel 2018 un'indagine del Washington Post aveva rilevato che alcune categorie di prodotti, tra cui cuffie bluetooth e integratori per la salute, erano totalmente in balia delle «fake review». Il sistema illegale era capace di far salire in classifica prodotti mai acquistati dagli utenti ma valutati positivamente da centinaia di persone, pilotate da una rete esterna. Si tratta di una sorta di circolo vizioso in cui i broker pilotano le recensioni e i venditori rincorrono gli utenti che le rilasciano, proponendogli prodotti gratis o forti sconti sugli acquisti.

 Già c'era team appositi per bloccare le recensioni sospette prima che vengano viste dai clienti. Ora Amazon è passata alle vie legali per smascherare chi scrive il falso per alterare la valutazione dei prodotti «L'azione legale proattiva contro i malintenzionati è uno dei tanti modi in cui proteggiamo i clienti, individuando questi soggetti come responsabili di attività illecite», spiegano.

Sono più di 12mila le persone che l'azienda dell'e-commerce impiega in tutto il mondo per la protezione dei clienti, dei marchi, dei partner di vendita e dello store da contraffazioni, frodi e altre forme di abuso, comprese le recensioni false. Per rilevare le recensioni false sulle varie piattaforme c'è un continuo lavoro di monitoraggio, unito all'uso di tecnologie avanzate e di investigatori esperti.

(ANSA il 20 ottobre 2022.) - Amazon ha presentato in Italia la sua prima denuncia penale, a livello europeo, contro le recensioni false in cambio di denaro o prodotti gratuiti. Queste condotte possono integrare reati per i quali sono previste pene detentive e pecuniarie. Il procedimento, insieme alla prima causa civile in Spagna e a 10 nuove azioni legali negli Stati Uniti, mira "a individuare e bloccare operatori che gestiscono più di 11.000 siti web e gruppi social che alimentano il mercato delle false recensioni", annuncia il colosso dell'e-commerce in una nota.

 "Non c'è posto per le recensioni false su Amazon", dichiara il vice president Dharmesh Mehta. "Amazon continuerà a dedicare risorse significative alla lotta contro le recensioni false e a garantire ai clienti un'esperienza di acquisto affidabile", afferma il vice president of Selling Partner Services di Amazon. "Continuiamo a migliorare i nostri controlli proattivi, a inventare nuove tecnologie e a utilizzare il machine learning per individuare i malintenzionati e trovare nuovi modi per assicurarli alla giustizia", continua Dharmesh Mehta.

La denuncia depositata in Italia prende di mira uno dei principali broker che vendono recensioni false e avrebbe infatti creato una rete di persone disposte a comprare prodotti su Amazon e a pubblicare recensioni a 5 stelle in cambio di un rimborso completo dei loro acquisti. Amazon ha anche presentato la sua prima denuncia civile in Spagna contro un broker di recensioni false, Agencia Reviews, che comunica tramite il servizio di messaggistica istantanea Telegram per non essere rintracciato. 

"Oltre a queste azioni legali in Europa, Amazon ha incrementato il numero dei casi negli Stati Uniti, già in forte crescita, intentando 10 ulteriori azioni legali contro i broker di recensioni false e altri soggetti che tentano di aggirare i sistemi di controllo di Amazon", si legge nella nota. Amazon ha anche inviato lettere di diffida a cinque siti Web con sede in Germania che indirizzavano i visitatori a brokers di false recensioni. Da allora tutti e cinque i siti Web hanno deciso di interrompere questa attività firmando una lettera di conferma di cessazione attività.

·        Il nefasto Amazon.

«Amazon licenzierà 10 mila persone», anche Bezos taglia la forza lavoro (dopo Twitter e Meta). Alessandro Bergonzi su Il Corriere della Sera il 14 novembre 2022. 

Il gigante dell’e-commerce Amazon sta valutando il taglio di circa 10.000 posti di lavoro. I licenziamenti potrebbero scattare già nella settimana di lunedì 14 novembre 2022, per quello che sarebbe il più grande taglio di personale nella storia dell’azienda. A rivelarlo è il New York Times che si basa su fonti interne all’azienda. I tagli si concentreranno nel settore dei dispositivi di Amazon, incluso l’assistente vocale Alexa, nella divisione di vendita al dettaglio e nel campo delle risorse umane. Se il numero dei licenziamenti venisse confermato, rappresenterebbe circa il 3% dei dipendenti aziendali di Amazon, poco meno dell’1% della sua forza lavoro globale, che conta oltre 1,5 milioni di dipendenti, buona parte dei quali pagati ad ore.

La crisi delle big tech

La notizia arriva dopo che Twitter, recentemente acquisita da Elon Musk, ha licenziato circa la metà dei suoi 7.500 dipendenti e Meta Platforms, proprietaria di Facebook e Instagram, ha deciso il taglio del 13% della sua forza lavoro, ovvero oltre 11.000 dipendenti, dopo che nell’ultimo anno ha perso il 70% del suo valore. I licenziamenti sono dunque la risposta a un momento difficile anche per le big-tech, in lotta contro l’impennata dei costi e la debolezza del mercato pubblicitario. Un rallentamento fisiologico dopo la spinta che la pandemia ha dato ai servizi online e alle relazioni a distanza, ma che si inserisce in una crisi globale, con la difficoltà per le aziende tecnologiche di reperire le loro materie prime come i semiconduttori.

Intanto, il 14 novembre, nel giorno in cui il patron di Amazon Jeff Bezos ha rivelato con la sua compagna Lauren Sánchez che daranno gran parte della ricchezza in beneficenza, l’azienda paga le indiscrezioni, con il titolo che perde fino al 2,5% sul mercato. Inoltre, dopo che dall’inizio dell’anno le azioni di Amazon hanno perso il 39,5%, Bank of America ha rimosso il gigante dell’e-commerce dalla lista US1 che indica i migliori investimenti per gli azionisti.

L’eccezione Apple

Chi al momento sembra resistere all’ondata di licenziamenti è Apple, con l’amministratore delegato Tim Cook che in un’intervista a Cbs ha annunciato che l’azienda sta cercando di assumere un atteggiamento più sobrio sulle assunzioni, concentrandosi sull’ampliamento del personale solo in alcuni ruoli chiave. «Quello che stiamo facendo come conseguenza di questo periodo è che siamo molto attenti alle nostre assunzioni», ha detto Cook, precisando che l’azienda sta «continuando ad assumere, ma non ovunque». Cook ha aggiunto che i dirigenti di Apple «credono fortemente nell’investire a lungo termine» e che il ritorno in ufficio dei dipendenti aiuterà a restare «focalizzati sul prodotto» e a «collaborare tra loro».

Estratto dell’articolo di Giampiero Valenza per “Il Messaggero” il 7 novembre 2022.

Quando chiude una libreria è un po' come se dovesse spegnersi un faro di cultura in una comunità. Quelle romane soffrono e vivono agonizzando. La crisi dell'editoria tradizionale, con il cambio delle abitudini che vanno sempre di più verso acquisti on line, sommata alle conseguenze delle restrizioni del Covid, hanno dato un po' il colpo di grazia all'intera categoria. 

Uno studio dell'Associazione italiana editori in collaborazione con l'Università di Tor Vergata aveva fotografato i dati di un decennio nero: dal 2007 al 2017 ci sono state 223 chiusure. Di librerie se ne sono contate poco meno di 200. La metà di queste ha dimostrato di essere stata in grado di rimanere attiva nell'ultimo decennio.

A pagarne le spese sono stati sia il centro sia la periferia. Da Tomba di Nerone a Centocelle, da Cinecittà a Magliana, questi i quartieri che hanno visto le maggiori serrande abbassate. In totale, considerando anche la pandemia e la crisi, si stimano almeno tra le 230 e le 240 serrande abbassate […]. 

Quest' anno ha chiuso la centralissima Feltrinelli della Galleria Alberto Sordi. Della stessa catena proprio durante la prima fase della pandemia, aveva abbassato la serranda anche la Feltrinelli International di via Vittorio Emanuele Orlando, specializzata in volumi in lingua straniera e la Feltrinelli (ex Arion) di viale Giovanni Pierluigi da Palestrina, all'angolo con piazza Cavour.

Serrande abbassate anche per diversi altri marchi noti di quartiere, come La tana del libro della Garbatella, per 40 anni punto di riferimento della zona. Le librerie storiche della città spesso non sono legate a grandi catene. Così, con il pensionamento di chi le ha gestite per una vita, sono costrette a chiudere. Lo sanno bene Stefano e Fabiana, i figli di Angelo Dragone, titolare dello storico piccolo punto vendita di Circonvallazione Trionfale. Il papà a 75 anni non poteva più andare a lavorare e così si sono trovati costretti a svendere i volumi rimasti facendo una promozione online. […] 

Secondo un'indagine che aveva condotto Confcommercio sulle chiusure dei punti vendita al dettaglio in sede fissa, la stessa organizzazione di categoria attestava, tra 2008 e 2016, un calo del 23,4% per i punti vendita che trattano libri e giocattoli. Un calo confermato di recente anche da Conapi, la Confederazione nazionale artigiani e piccoli imprenditori. […] «Reggono i libri per bambini e ragazzi: i genitori, forse anche per i loro costi ancora contenuti, li scelgono ancora come regali da fare per i più piccoli».

Da “il Giornale” il 20 luglio 2022.  

Basta con le false recensioni on line. Amazon dichiara guerra a chi scrive sui social commenti non veritieri in cambio di denaro. Una problematica di vecchia data per l'eCommerce, settore in cui la pubblicità e il marketing possono spostare i grandi numeri del commercio online, così come una recensione positiva o negativa. Il colosso di Jeff Bezos ha dato il via ad un'azione legale contro gli amministratori di oltre 10mila gruppi Facebook che avrebbero messo in piedi un flusso di false recensioni, in cambio di denaro o prodotti gratuiti.

Gruppi creati ad hoc per reclutare persone disposte a pubblicare recensioni fuorvianti sugli store di Amazon in Italia. Ma anche in quelli di Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Spagna e Giappone. Uno di questi, «Amazon Product Review», vantava più di 40mila membri fino a quando Facebook non lo ha rimosso all'inizio del 2022. 

Vengono chiamati «broker» di recensioni. Sono utenti che, offrendo denaro o ricompense in buoni e oggetti, spingono altri iscritti a scrivere commenti su acquisti mai effettuati, con il fine di spingere questo o quel venditore concorrente alterando la valutazione dei prodotti. L'iniziativa legale ha l'obiettivo di ridurre il numero delle «fake review» scovate sulle piattaforme digitali, non solo su Facebook ma anche Twitter e TikTok. 

L'azienda di Zuckerberg sta collaborando con il colosso dell'e-commerce nella lotta contro questa piaga. «I gruppi che sollecitano o incoraggiano recensioni false violano le nostre norme e vengono rimossi. Stiamo lavorando con Amazon su questo argomento e continueremo a collaborare in tutto il settore per affrontare lo spam e le recensioni false», ha fatto sapere un portavoce di Meta, la casa madre di Facebook, dopo l'avvio dell'azione legale contro le recensioni fasulle.

Già nel 2018 un'indagine del Washington Post aveva rilevato che alcune categorie di prodotti, tra cui cuffie bluetooth e integratori per la salute, erano totalmente in balia delle «fake review». Il sistema illegale era capace di far salire in classifica prodotti mai acquistati dagli utenti ma valutati positivamente da centinaia di persone, pilotate da una rete esterna. Si tratta di una sorta di circolo vizioso in cui i broker pilotano le recensioni e i venditori rincorrono gli utenti che le rilasciano, proponendogli prodotti gratis o forti sconti sugli acquisti.

 Già c'era team appositi per bloccare le recensioni sospette prima che vengano viste dai clienti. Ora Amazon è passata alle vie legali per smascherare chi scrive il falso per alterare la valutazione dei prodotti «L'azione legale proattiva contro i malintenzionati è uno dei tanti modi in cui proteggiamo i clienti, individuando questi soggetti come responsabili di attività illecite», spiegano.

Sono più di 12mila le persone che l'azienda dell'e-commerce impiega in tutto il mondo per la protezione dei clienti, dei marchi, dei partner di vendita e dello store da contraffazioni, frodi e altre forme di abuso, comprese le recensioni false. Per rilevare le recensioni false sulle varie piattaforme c'è un continuo lavoro di monitoraggio, unito all'uso di tecnologie avanzate e di investigatori esperti.

Migliaia di licenziamenti nell’hi-tech. La lunga notte del digitale negli Usa. Martina Melli su L’Identità il 19 Novembre 2022

Amazon si dichiara pronto a licenziare circa 10.000 dipendenti (meno dell’1% della propria forza lavoro complessiva) nella divisione hardware, ossia quella che realizza i prodotti della linea Echo, Alexa, Fire e Kindle, categorizzata sulla piattaforma come Devices & Services.

Lo ha annunciato Dave Limp sul blog ufficiale, attribuendo la manovra ad un “clima macroeconomico insolito e incerto”. Seppur non specificando quando esattamente questi tagli verranno finalizzati, ha “rassicurato” tutti che la sezione hardware rimarrà un’importante area di investimento dell’azienda.

Secondo diverse fonti accreditate, le stangate non colpiranno solo il dipartimento in questione, ma anche quelli retail, cloud gaming e le risorse umane. Non sembra che verranno invece toccati i lavoratori della sezione logistica e operativa.

Secondo le ultime dichiarazioni dell’amministratore delegato Andy Jassy, l’ondata di licenziamenti continuerà nel 2023.

“L’economia rimane in una situazione difficile e noi, negli ultimi anni, abbiamo assunto molto rapidamente” ha commentato.

Già all’inizio di novembre, a causa del grave rischio di inflazione e recessione per tutte le big del digitale, il colosso e-commerce ha deciso di bloccare le assunzioni, avvertendo gli investitori che questo quarto trimestre sarebbe stato molto debole, in un anno, il 2022, che è stato il peggiore dalla crisi del 2008.

Come avevamo già evidenziato attraverso la vicenda degli 11.000 licenziamenti di Meta, questo è un momento molto critico per le Big Tech e per il mercato dello shopping online.

I motivi sono presto detti: la pandemia del 2020, con le sue dure restrizioni spaziali e interpersonali, ha portato a un’escalation di consumi e di richieste in questi settori. In particolare, per quanto riguarda le vendite online in America nel 2020, si è parlato di un salto in avanti di 10 anni in tre mesi. E forse Amazon ne ha goduto più di tutti. La domanda era tale, che la company fondata da Bezos ha investito moltissimo nella forza lavoro, nei rifornimenti e nei magazzini.

Si pensava fosse un trend destinato a restare, un cambiamento radicale nei costumi e nelle abitudini della società, e invece, il ritorno alla vita di prima, la riapertura dei negozi, l’instabilità geopolitica, la crisi economica ed energetica, l’aumento dei carburanti e dei prezzi delle materie prime, hanno provocato l’arresto dei consumi e di conseguenza un’inflazione violenta di cui non si riesce a prevedere la fine. Un sostanziale errore di interpretazione del mercato, dunque, a dimostrazione del fatto che anche i grandi della terra possono prendere abbagli. Magari perché ormai sono assuefatti a volare troppo vicino al sole. Oltre alla questione economica, che indubbiamente decide le traiettorie delle grandi multinazionali, sta iniziando a prendere piede un dibattito sulla cifra etica e umana (o la mancanza di tale) di queste policy aziendali. Caso esemplare è Twitter, con i suoi licenziamenti di massa via mail e i post strafottenti di Elon Musk che appena entrato in consiglio di amministrazione, ha segato il 50% degli impiegati, minacciando il restante 50 che, qualora non fosse disposto a lavorare per lunghe ore ad alta intensità, farebbe bene a impacchettare le proprie cose.

In seguito a queste dure prese di posizione, interi team di ingegneri e informatici di altissimo livello hanno preferito dare le dimissioni.

Non solo licenziamenti a tappeto ma anche l’uso di strategie controverse per aumentare i profitti. In molte società digital e tech, infatti, vige lo stack ranking, un sistema di classificazione della produttività di ciascun dipendente rispetto ai colleghi. Un meccanismo, che a detta di molti, favorisce un clima di grande stress e competitività sul posto di lavoro, provocando problemi relazionali e disturbi a livello psicologico.

Il vizio di Amazon. Con la scusa della tutela del cliente: arricchirsi sulle spalle dei venditori.

Metodo:

Pagamento a tre mesi dei prodotti venduti.

Se arriva una segnalazione truffaldina ed artificiosa inesistente o di uno stalker ti blocca l’intero account e non il prodotto de quo.

Di conseguenza si intasca indebitamente tutti gli utili dei prodotti fin lì venduti.

E’ inibito ogni diritto di difesa, salvo che non li sputtani con le Iene o Striscia La Notizia.

Bacheca dei reclami. Dettagli bacheca dei reclami su Altroconsumo.

Non comprate su Amazon, sono dei truffatori, a breve il servizio a 'Le Iene'

Inviato a: AMAZON 22/11/2019

Questa è la mia TRISTE esperienza : ho spedito un reso, più precisamente un Kit macchina fotografica CANON EOS 80D, allego foglio di spedizione e prova di consegna che mi ha fornito il Mail Boxes Etc con cui ho spedito (corriere SDA). Amazon non mi ha ancora rimborsato perché dicono di non averla ricevuta. Ovviamente chi lo dice non può essere la stessa persona che ha ricevuto il pacco, quindi io non posso sapere che fine abbia fatto il mio reso, può essere andato perso, può esserselo rubato un dipendente, può essere andato distrutto…. a me tutto questo come ovviamente a tutti i clienti di Amazon non interessa…. ovviamente in teoria la nostra responsabilità quando facciamo i resi è solo di effettuare la spedizione ed invece a quanto pare ad Amazon basta dire 'non lo abbiamo ricevuto', quando in realtà io HO LE PROVE che l' hanno ricevuto per fregarsene (e a questo punto fregare) il cliente. Amazon deve prendersi la responsabilità di quello che succede coi nostri resi, nei loro magazzini, nei loro centri logistici, ecc. Amazon dalla mia esperienza non è un sito sicuro dove comprare e non smetterò mai di lamentarmi fino a quando non sarà risolto il mio caso.

La tua richiesta Rimborso: € 1306,86

Amazon gli blocca l'account di vendita, commerciante sommerso di pacchi. Tgcom24 il 10 giugno 2022.

L’inviato di "Striscia la Notizia" racconta la storia del venditore di fumetti e gadget vittima di un errore e contatta il colosso dell’e-commerce

Amazon a seguito di un errore. Nonostante i ripetuti tentativi, l'imprenditore non è riuscito a risolvere la situazione. 

"Noi vendiamo in tutto il mondo ma a causa di un errore Amazon ha valutato alcuni nostri prodotti listati nel loro e-commerce come contraffatti e ha bloccato tutti i nostri account di vendita: questo ha comportato che tutti gli incassi fatti in un determinato periodo per svariate migliaia di euro sono fermi e non ci vengono trasferiti". Con queste parole l'imprenditore Daniele Castellano ha raccontato la situazione che vive ormai da due mesi.  

"Il problema più grande - ha aggiunto il venditore - è quello degli scatoloni perché l'errore ci ha costretto in brevissimo tempo a ritirare tutta la merce stoccata presso di loro a nostre spese, anche qui migliaia di euro per far rientrare tutto, non sappiamo più dove mettere la roba".  

L'inviato ha provato a sentire il colosso dell'e-commerce che ha fatto sapere di avere a cuore i partner di vendita, si è inoltre scusato per questo "raro caso" e si è detto pronto a risolvere il problema il prima possibile. Infatti dopo poche il venditore ha comunicato una svolta nella situazione: "Grazie all'intervento di "Striscia la Notizia"  in 24 ore è stato tutto risolto, account e fondi sbloccati e soprattutto non piovono più pacchi".

COMMENTI

VUOSHINO un mese fa

Successa la stessa identica cosa a noi. Ci hanno bloccato l'account dal giorno alla notte e successivamente cancellato del tutto. Tutto ció senza dare nessuna informazione in merito al blocco... Amazon è in una posizione troppo dominante. Hanno anche i nostri soldi.

SCOCCIATISSIMA un mese fa

Ah, dopo la figuraccia pubblica allora si muovono... Non una bella figura.

ROBERTA un mese fa

NON è UN CASO RARO.......è CAPITATO AD UN MIO COLLEGA ACCUSATO INGIUSTAMENTE DI PRODOTTI CONTRAFFATTI IN PARAFARMACIA

Chi era Luigi Amicone. Un anno fa si è impegnato a censurarmi. Ha fatto in modo che nessuno pubblicasse le mie opere. Ha inoltrato l’esposto infondato contro di me ad Amazon, Google Libri e Lulu, costringendoli a cancellare il mio account di pubblicazione e di fatto censurandomi. L’unico a farlo rispetto a centinaia di migliaia di autori e di citazioni e in riferimento a un suo articolo marginale, doverosamene citato, pubblicato su Il Giornale.it, posto in discussione ed in contraddittorio rispetto ad altri articoli sullo stesso argomento. Mi ha posto temporaneamente sul lastrico, ledendo, oltretutto, la mia onorabilità e reputazione. Questa la mia risposta:

Dr Luigi Amicone, sono il dr Antonio Giangrande. Il soggetto da lei indicato a Google Libri come colui che viola il copyright di “Qualcun Altro”. Così come si evince dalla traduzione inviatami da Google. “Un sacco di libri pubblicati da Antonio Giangrande, che sono anche leggibile da Google Libri, sembrano violare il copyright di qualcun altro. Se si controlla, si potrebbe scoprire che  sono fatti da articoli e testi di diversi giornalisti. Ha messo nei suoi libri opere mie, pubblicate su giornali o riviste o siti web. Per esempio, l'articolo pubblicato da Il Giornale il 29 maggio 2018 "Il serial Killer Zodiac ... ". Sembra che abbia copiato l'intero articolo e incollato sul "suo" libro. Sembra che abbia pubblicato tutti i suoi libri in questo modo. Puoi chiedergli di cambiare il suo modo di "scrivere"? Grazie”.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto. 

Mi vogliono censurare su Google.

Premessa: Ho scritto centinaia di saggi e centinaia di migliaia di pagine, affrontando temi suddivisi per argomento e per territorio, aggiornati periodicamente. Libri a lettura anche gratuita. Non esprimo opinioni e faccio parlare i fatti e gli atti con l’ausilio di terzi, credibili e competenti, che sono ben lieti di essere riportati e citati nelle mie opere. Opere che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente. Libri a lettura anche gratuita. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Reclamo: Non si chiede solo di non usare i suoi articoli, ma si pretende di farmi cambiare il mio modo di scrivere. E questa è censura.

Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere. 

"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".

Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.

La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.

Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.

La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”

A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.

A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.

A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.

A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.

A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.

Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.

Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.

Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.

Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.

Il Diritto di Citazione e la Censura dei giornalisti. Il Commento di Antonio Giangrande.

Sono Antonio Giangrande autore ed editore di centinaia di libri. Su uno di questi “L’Italia dei Misteri” di centinaia di pagine, veniva riportato, con citazione dell’autore e senza manipolazione e commenti, l’articolo del giornalista Francesco Amicone, collaboratore de “Il Giornale” e direttore di Tempi. Articolo di un paio di pagine che parlava del Mostro di Firenze ed inserito in una più ampia discussione in contraddittorio. L’Amicone, pur riconoscendo che non vi era plagio, criticava l’uso del copia incolla dell’opera altrui. Per questo motivo ha chiesto ed ottenuto la sospensione dell’account dello scrittore Antonio Giangrande su Amazon, su Lulu e su Google libri. L’intero account con centinai di libri non interessati alla vicenda. Google ed Amazon, dopo aver verificato la contronotifica hanno ripristinato la pubblicazione dei libri, compreso il libro oggetto di contestazione, del quale era stata l’opera citata e contestata. Lulu, invece,  ha confermato la sospensione.

L’autore ed editore Antonio Giangrande si avvale del Diritto di Citazione. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

Nei libri di Antonio Giangrande, per il rispetto della pluralità delle fonti in contraddittorio per una corretta discussione, non vi è plagio ma Diritto di Citazione.

Il Diritto di Citazione è il Diritto di Cronaca di un’indagine complessa documentale e testimoniale senza manipolazione e commenti con di citazione di opere altrui senza lesione della concorrenza con congruo lasso di tempo e pubblicazione su canali alternativi e differenti agli originali.

Il processo a Roberto Saviano per “Gomorra” fa precedente e scuola: si condanna l’omessa citazione dell’autore e non il copia incolla della sua opera.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news”.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta».

Addirittura il portale web “Newsstandhub.com” riporta tutti gli articoli dei portali di informazione più famosi con citazione della fonte, ma non degli autori. Si presenta come: “Il tuo centro edicola personale dove poter consultare tutte le notizia contemporaneamente”.

Così come il sito web di Ristretti.org o di Antimafiaduemila.com, o di pressreader.com.

Così come fanno alcuni giornali e giornalisti. Non fanno inchieste o riportano notizie proprie. Ma la loro informazione si basa anche su commento di articoli di terzi. Vedi “Il giornale” o “Libero Quotidiano” o Il Corriere del Giorno o il Sussidiario, o twnews.it/it-news, ecc.

Comunque, nonostante la sua opera sia stata rimossa, Francesco Amicone, mi continua a minacciare: “Domani vaglierò se inviare una email a tutti gli editori proprietari degli articoli che lei ha inserito - non si sa in base a quale nulla osta da parte degli interessati - nei suoi numerosi libri. La invito - per il suo bene - a rimuovere i libri dalla vendita e a chiedere a Google di non indicizzarli, altrimenti è verosimile che gli editori le chiederanno di pagare.”

Non riesco a capire tutto questo astio nei miei confronti. Una vera e propria stolkerizzazione ed estorsione. Capisco che lui non voglia vedere il suo lavoro richiamato su altre opere, nonostante si evidenzi la paternità, e si attivi a danneggiarmi in modo illegittimo. Ma che si impegni assiduamente ad istigare gli altri autori a fare lo stesso, va aldilà degli interessi personali. E’ una vera è propria cattiva persecuzione, che costringerà Google ed Amazon ad impedire che io prosegui la mia attività, e cosa più importante, impedisca centinaia di migliaia di lettori ad attingere in modo gratuito su Google libri, ad un’informazione completa ed alternativa.

E’ una vera è propria cattiva persecuzione e della quale, sicuramente, ne dovrà rendere conto. 

Amazon piglia tutto. Report Rai PUNTATA DEL 03/01/2022 di Emanuele Bellano. Collaborazione di Greta Orsi 

La piattaforma di Amazon rappresenta una vetrina per i venditori. Ma a quale costo?

Da quando l’e-commerce e Amazon sono entrati nella nostra vita, il modo di fare acquisti è completamente cambiato. Il proliferare dello shopping online ha portato alla crisi di migliaia di centri commerciali in tutto l'Occidente: Walmart, Sears, JCPenny, marchi americani della distribuzione, insieme a marchi europei come Auchan, hanno chiuso e lasciato milioni di metri quadri di negozi deserti e abbandonati. Qual è il ruolo di Amazon in questo scenario? Il gigante dell'e-commerce svolge un'azione non solo sul versante della vendita ma anche su quello della distribuzione e della logistica. Il motto di Amazon e di Jeff Bezos è "Il cliente prima di tutto". Tra il cliente e il colosso Amazon nel mezzo ci sono i venditori costretti ad accettare le regole di Amazon o uscire dal marketplace. Report ha documentato pagamenti sospesi o negati unilateralmente, commissioni calcolate sui costi oltre che sui guadagni dei venditori e meccanismi che strangolano il venditore imponendogli di accettare accordi capestro.

AMAZON PIGLIA TUTTO Di Emanuele Bellano Collaborazione: Edoardo Garibaldi e Greta Orsi SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Stiamo parlando di Amazon, dell’e-commerce e dell’impatto che hanno avuto sul mercato. La logica è quella del pesce grande che mangia quello più piccolo. Ma è una logica anche, se volete, dell’erosione che non ha fatto sconti a nessuno. E le cicatrici, complice anche la crisi, è possibile vederle anche sul territorio. Il nostro Emanuele Bellano.

MIKE ELK – GIORNALISTA PAYDAY REPORT Questo era un negozio. C'è ancora il frigorifero della Coca Cola. A causa del rischio di incendio hanno deciso di abbatterlo perché qui ci venivano a dormire i senzatetto. Qui intorno erano tutti negozi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO 16 chilometri a est di Pittsburgh nello stato della Pennsylvania, Braddock era una cittadina di 12 mila abitanti. Questo era il suo corso principale. Oggi sembra una città fantasma.

MIKE ELK – GIORNALISTA PAYDAY REPORT A inizio degli anni '80 qui vivevano 12.000 persone, oggi ne sono rimaste duemila. Guarda qui ci sono borse, portafogli, lampade, vestiti di tutti tipi. Alla fine, li hanno abbandonati, come un monumento alla morte di questa città.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In quegli anni Pittsburgh ha vissuto la crisi dell'industria pesante che ha impoverito la classe operaia. Contemporaneamente intorno alla città sono nati i primi grandi centri commerciali.

MIKE ELK – GIORNALISTA PAYDAY REPORT Qui abbiamo visto in azione le forze del capitalismo. Quando i centri commerciali hanno preso piede le persone hanno smesso di venire a fare shopping in questi negozi e tutte queste attività sono fallite.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO All'inizio degli anni Ottanta in tutta America sono nati come funghi i Mall, i grandi centri commerciali alle periferie delle città dove le famiglie americane comprano di tutto. A pochi chilometri da Braddock a fine anni Settanta hanno costruito il Century III Mall: 390mila metri quadri, 6.000 posti auto e oltre 200 negozi.

MIKE ELK – GIORNALISTA PAYDAY REPORT Quando questo Mall ha aperto era il terzo più grande al mondo.

EMANUELE BELLANO Che cosa vendevano?

MIKE ELK – PAYDAY REPORT Vestiti, elettrodomestici, articoli per la casa. Ma oggi come vedi è tutto abbandonato.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Migliaia di metri quadri di parcheggio completamenti deserti. I negozi all’interno sprangati da porte di legno. E tutti gli strumenti di carico e scarico delle merci ormai inutilizzabili EMANUELE BELLANO Ma cosa è successo?

MIKE ELK – PAYDAY REPORT È arrivato l'e-commerce e Amazon e le persone hanno smesso di frequentare questi grandi magazzini perché comprano direttamente dal divano di casa. Insomma, a pochi chilometri da qui c'è Braddock che aveva un centro fiorente i cui negozi sono falliti perché la gente ha iniziato a venire in questo centro commerciale. Quarant’anni dopo questo centro commerciale è fallito perché oggi tutti comprano su Amazon. E alla fine qui è rimasta una cattedrale nel deserto, una cattedrale del capitalismo nel deserto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo è il Ross Park Mall, sempre nei dintorni di Pittsburgh. Le insegne sono ormai scolorite e buona parte del centro commerciale è vuota. Percorri migliaia di chilometri fino a Los Angeles, in California, ma il paesaggio che vedi è lo stesso. L'ultimo anello della catena che porta alla desertificazione delle aree commerciali lo troviamo a Lawrenceville, un altro sobborgo di Pittsburgh.

MIKE ELK – GIORNALISTA PAYDAY REPORT In questo edificio fino all'anno scorso c'era un mega outlet della catena di centri commerciali Sears, che adesso è fallita. Ora diventerà un magazzino dell'ultimo miglio di Amazon. Perché i grandi tir di Amazon non riescono a consegnare i pacchi in città. Per loro è più utile scaricare qui e poi trasferire la merce su furgoni più piccoli adibiti alla distribuzione porta a porta.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La catena di Mall Sears ha rappresentato per un secolo il benessere americano. Il suo quartier generale a Chicago è stato per oltre un ventennio l'edificio più alto del mondo. Quando Sears è fallita, nel 2019, ha lasciato sul territorio americano migliaia di strutture inutilizzate.

MIKE ELK – GIORNALISTA PAYDAY REPORT Grazie a magazzini come questo Amazon diventa sempre più veloce e per ogni competitor come Sears che fallisce guadagna sempre più potere. Mega corporazioni come Amazon diventano così potenti che nessuno può più fermarle. Il più grande ha sempre mangiato il più piccolo. La domanda è: chi mangerà Amazon?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Che poi dovrà essere bello grosso. Spesso non pensiamo cosa c’è dietro un click, quando acquistiamo della merce. La trasformazione degli ultimi 15 anni di quello che è un mercato con l’arrivo dell’e-commerce, di cui Amazon è la sublimazione, è davanti gli occhi di tutti. Da una parte hai un mondo che si sta involvendo, che rischia l’estinzione, dall’altra un’espansione. Ma fino a che punto? L’ultimo annuncio di Jeff Bezos è quello che Amazon aprirà dei punti vendita fisici negli Stati Uniti. Lo scenario mondiale alla fine sarà quello di un consumatore che sarà costretto a scegliere quando acquista, solo quello che gli verrà proposto da Amazon. Che poi, se continua così, in termini di logistica e di punti vendita, di spazi da scegliere, Amazon avrà solo l’imbarazzo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Fiumicino, vicino Roma. Il paesaggio è lo stesso dei Mall americani. Parcheggi deserti e negozi abbandonati. Prima della pandemia, nel centro commerciale Parco Leonardo, hanno chiuso quasi tutte le attività commerciali al piano terra dei palazzi. Pochi mesi fa ha serrato le porte anche l'ipermercato Auchan.

SARA NUCCITELLI – EX DIPENDENTE AUCHAN È stato triste vedere proprio gli scaffali che si sono svuotati nell’arco di due giorni.

EMANUELE BELLANO Perché non venivano più riforniti gli scaffali?

SARA NUCCITELLI – EX DIPENDENTE AUCHAN Eh, sì perché avevano detto che avevano bloccato gli ordini già da due, tre settimane prima. La data proprio di chiusura effettiva che è stata il 27 marzo, dove abbiamo firmato comunque la cassa integrazione a 0 ore, quindi tutti effettivamente a casa, abbiamo salutato le mura.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il giorno della chiusura una dipendente ha documentato con un video la situazione all'interno del punto vendita.

EX DIPENDENTE AUCHAN Possiamo documentare la fine di un’era. Questo era un ipermercato di 13 mila metri quadrati. Ora è così, si presenta così. Quindici anni fa 500 dipendenti. Terribile da vedere, doloroso, fa male.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dopo la chiusura alcuni ex dipendenti sono finiti a fare le consegne per Amazon.

DAVIDE MATRAXIA – EX DIPENDENTE AUCHAN E mi è capitato in alcune consegne, che aprendo lo scatolone c’erano pane, pasta, scatolame, carta diciamo da forno, da casa, le posate in plastica.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quando un centro commerciale chiude muoiono tutti i negozi che vivevano della sua clientela. A Parco Leonardo a cascata è crollato anche il valore degli appartamenti il cui prezzo si è dimezzato in alcuni anni. I commessi dei negozi che chiudono, rimasti senza lavoro, si convertono in driver di Amazon, mentre sempre più negozianti decidono di aprire le serrande nei marketplace virtuali.

VENDITORE AMAZON Noi abbiamo iniziato il nostro rapporto con Amazon a fine 2014, inizio 2015. Siamo importatori e produttori del nostro marchio

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Questo venditore che ha scelto di rimanere anonimo distribuisce attraverso il canale Amazon Prime articoli per la casa.

VENDITORE AMAZON I prezzi che tu gli fornisci come condizione commerciale vengono accettati senza nessun tipo di discussione, gli ordini iniziali sono corposi quindi tu dici “che bello!”, perché ho fatto il salto di qualità.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel giro di 2 anni la sua società moltiplica per 5 il valore del fatturato passando da 800 mila euro a oltre 4 milioni. I loro prodotti messi in vendita sulla piattaforma Amazon diventano dei best sellers.

VENDITORE AMAZON Tu cominci a dover acquistare tanta merce quindi ti esponi, quindi le loro fatture le devi portare in banca, le devi anticipare perché devi comunque far partire dal far East tutta la merce che serve per poi far fronte a questa mole che in un modo vorticoso aumenta sempre di più. A un certo punto inizia un meccanismo dove ogni volta che tu mandi merce, manca il 50, addirittura in alcuni casi il 100% della merce.

EMANUELE BELLANO Dicono loro

VENDITORE AMAZON Dicono loro

EMANUELE BELLANO Cioè vi comunicano, ogni volta

VENDITORE AMAZON Esatto. Tu spedisci 5 bancali di merce, loro dicono ne ho ricevuti 2.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Poiché Amazon sostiene che la merce non è mai arrivata ai suoi magazzini blocca i pagamenti. Il nostro fornitore esibisce alla multinazionale i documenti che dimostrano la consegna.

VENDITORE AMAZON Dove c’è timbro e firma e dimostra che ci sono due bancali di merce che sono stati spediti

EMANUELE BELLANO Cioè quindi dimostra che la merce è arrivata al magazzino Amazon.

VENDITORE AMAZON Certo, loro l’hanno assolutamente ricevuta; c’è timbro e firma.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Senza fornire nessuna spiegazione, Amazon continua a non pagare l’azienda per decine di forniture come questa fino ad arrivare al valore di oltre 70 mila euro.

VENDITORE AMAZON Allora lì spunta a quel punto, dopo un po', una trattativa

EMANUELE BELLANO Cioè?

VENDITORE AMAZON Cioè loro dicono ma sai, tu dici che devi avere 100, noi diciamo che ci manca merce per 50, fermiamoci a metà.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Amazon propone al venditore un accordo in base al quale degli oltre 72 mila euro dovuti ne pagherà 40 mila. Da parte sua il venditore deve rinunciare definitivamente a qualsiasi futura rivendicazione. Ma non solo…

VENDITORE AMAZON Poi arriva comunque la ciliegina. Loro tutti gli anni mandano una proposta di rinnovo contrattuale, quell’anno la proposta di rinnovo contrattuale ha un incremento delle trattenute che tu grosso modo passi da un 5, un 6% che lasciavi ad importi che a tre volte tanto insomma.

EMANUELE BELLANO 18%

VENDITORE AMAZON Si, e il pagamento da 30 va a 90

EMANUELE BELLANO Da 30 giorni a 90 giorni

VENDITORE AMAZON Esatto

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Amazon scrive che per ottenere il pagamento dei 40 mila euro il venditore dovrà accettare i nuovi termini del contratto cioè commissioni più alte per Amazon e tempi di pagamento più lunghi.

VENDITORE AMAZON Noi ovviamente ci trovammo in una condizione dove, avevamo anticipato i soldi in banca, le banche le fatture stavano scadendo, ci chiedevano di rientrare quant’altro, a quel punto abbiamo detto va beh 30% in meno, almeno chiudiamo diciamo quella situazione e poi andiamo avanti.

EMANUELE BELLANO Quindi è un cappio diciamo che viene stretto piano piano.

VENDITORE AMAZON Sì e neanche troppo piano perché poi, passati altri sei mesi, la situazione si è ripresentata.

EMANUELE BELLANO Attualmente qual è la situazione?

VENDITORE AMAZON Son fuori di 300…

EMANUELE BELLANO Quindi avete un credito verso Amazon di 300 mila euro

VENDITORE AMAZON E noi ci stiamo ritrovando, per l’ennesima volta, con le banche che ci chiedono il rientro delle fatture scadute e se non ci pagano non riusciamo a rientrare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nell'ambito del tira e molla per sbloccare i pagamenti, Amazon pretende dal venditore anche documenti altamente sensibili dal punto di vista commerciale. Si tratta delle fatture con nome dei fornitori e prezzi di acquisto.

VENDITORE AMAZON La prima domanda che ti fai è: perché la fattura di acquisto? Hanno insistito, se non ci mandi anche la fattura, noi non rimborsiamo. Il che voglio dire ci esporrebbe a una concorrenza elevatissima.

EMANUELE BELLANO Cioè perché che cosa potrebbe succedere in quel caso?

VENDITORE AMAZON Beh, loro potrebbero andare direttamente dal fornitore e, con i prezzi che hanno in mano dei nostri acquisti, potrebbero anche solo proporre un euro in più e allo stesso tempo potrebbero immettere sul mercato un prodotto identico al nostro e di fatto bypassarci

EMANUELE BELLANO Tagliarvi fuori?

VENDITORE AMAZON Esatto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Amazon ci scrive che “non conosce l’identità del venditore non è stato possibile verificare il caso specifico”. “Tuttavia”, ci dice che “le condizioni di rimborso in caso di problema durante una spedizione con la logistica Amazon sono consultabili sull’apposita pagina web di Supporto alla gestione dell’account”. E comunque, fa sapere Amazon, nel 2020, generalmente i casi di reclamo sono stati risolti nel giro di 24 ore. Amazon poi precisa che nel caso specifico del fornitore intervistato, “comprenderete” ci scrive “non possiamo divulgare accordi commerciali privati. Comprese le pratiche per risolvere i contenziosi”. Il motto di Jeff Bezos, lo abbiamo visto più volte è “il cliente prima di tutto”. Si ha però l’impressione che viene prima di tutto Amazon, poi il cliente e in fine, per ultimo, il venditore, soprattutto se è di piccole o medie dimensioni. La beffa è che però secondo l’Antitrust italiani, questi venditori sarebbero stati anche agevolati dalle pratiche di mercato di Amazon. E infatti l’Authority, poche settimane fa, ha inflitto una multa monstre di 1 miliardo e 128 milioni di euro per abuso di posizione dominante. Amazon avrebbe distorto il mercato permettendo ai venditori vantaggi consentendo loro maggiore visibilità e migliori prospettive di vendita, posizionandoli sulla pagina, sulla vetrina Prime, e questo aumenterebbe la loro visibilità la possibilità di vendere anche i loro prodotti ai clienti più affezionati. Queste condotte, secondo l’Authority, hanno accresciuto il divario di potere tra Amazon e quello dei concorrenti. Amazon ovviamente, ha annunciato ricorso perché giudica la multa sproporzionata e poi anche ingiustificata perché più della metà delle vendite annuali di Amazon in tutta Italia, vengono generate dalle piccole e medie imprese, che sono praticamente al centro del loro modello economico. Sono al centro finché ci rimarranno i piccoli e medi venditori.

Venduto e reso. Report Rai PUNTATA DEL 17/01/2022 di Emanuele Bellano. Collaborazione di Greta Orsi 

Tra il cliente e il colosso Amazon nel mezzo ci sono i venditori costretti ad accettare le regole di Amazon o uscire dal marketplace. Il gigante dell'e-commerce macina affari non solo sul versante della vendita ma anche su quello della distribuzione e della logistica. Il motto di Amazon e di Jeff Bezos è "Il cliente prima di tutto". Tra il cliente e il colosso Amazon nel mezzo ci sono i venditori costretti ad accettare le regole di Amazon o uscire dal marketplace. Report ha documentato pagamenti sospesi o negati unilateralmente, commissioni calcolate sui costi oltre che sui guadagni dei venditori e meccanismi che strangolano il venditore imponendogli di accettare accordi capestro.

“AMAZON: VENDUTO E RESO” Di Emanuele Bellano Collaborazione: Greta Orsi Videomaker: Dario D’India e Alfredo Farina

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il marketplace di Amazon è il luogo dove le aziende possono vendere i loro prodotti e raggiungere clienti in tutto il mondo. In Italia vendono su Amazon oltre 18.000 aziende come la sua.

CORRADO FERZETTI – EX VENDITORE AMAZON Il rapporto è cominciato con una telefonata di Amazon Milano che mi offriva la possibilità di essere presente sulla piattaforma per tre mesi gratuiti. Io vendevo cosmetici, profumi e orologi.

EMANUELE BELLANO Qual è il servizio che viene messo a disposizione?

CORRADO FERZETTI – EX VENDITORE AMAZON La presenza sulla piattaforma di Amazon. Non è una cosa da poco.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Vero. Ma poi potrebbero esserci anche dei costi nascosti che pagano i venditori che hanno accesso alla piattaforma. Buonasera, è quello che vedremo stasera, se ripetuto, potrebbe essere un meccanismo, un escamotage per accumulare della liquidità senza accedere agli istituti finanziari o bancari, senza pagare gli interessi, quella liquidità che sarebbe invece dovuta ai venditori che hanno accesso alla piattaforma. Un insieme di meccanismi, vedremo questa sera, che vanno dall’accusa di vendere della merce contraffatta oppure attraverso un meccanismo dei resi, oppure attraverso il ritardo dei pagamenti. Insomma, alla fine apparirà la fragilità di chi vende sulla piattaforma di Amazon nei confronti del colosso del web. Il nostro Emanuele Bellano.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le commissioni a carico del venditore variano in base alla tipologia di prodotto. Vanno dal sette per cento dei prodotti informatici al 15 per cento degli articoli sportivi. Poi ci sono i costi nascosti.

CORRADO FERZETTI – EX VENDITORE AMAZON Io pago le commissioni. Mediamente intorno al 10 percento. Se io vendo un qualcosa che ha un costo di 100 euro più iva 122, più trasporto altri 18 euro, arriviamo a 140 euro. Amazon trattiene sul totale dei 140 euro la sua commissione.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Amazon prende cioè una commissione aggiuntiva alle sue spalle, calcolata sulle spese di trasporto e sull’iva.

SPOT AMAZON Le aziende italiane hanno venduto oltre 80 milioni di prodotti insieme a noi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quello che lo spot non dice è che le aziende italiane nel 2020 con questo meccanismo hanno ceduto ad Amazon commissioni stimabili in oltre 100 milioni di euro calcolate sui costi dei fornitori: cioè su tasse e trasporto. Ma c’è dell’altro.

CORRADO FERZETTI – EX VENDITORE AMAZON Senza nessuna motivazione, c’è scritto che il suo pagamento è stato bloccato.

EMANUELE BELLANO Significa? CORRADO FERZETTI – EX VENDITORE AMAZON È una risposta standard che dice stiamo facendo degli accertamenti sul suo account.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel caso di questo venditore è successo a novembre 2018. Avrebbe dovuto ricevere 4.447 euro. Ma il pagamento è stato spostato da Amazon di 15 giorni al 13 dicembre 2018. In quella data, il venditore trova una seconda comunicazione.

CORRADO FERZETTI – EX VENDITORE AMAZON C’è scritto che il pagamento del 13 dicembre 2018 non verrà effettuato.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Alla fine, il venditore riceverà i suoi 4 mila euro il 24 gennaio: due mesi dopo la data stabilita.

EMANUELE BELLANO Quante volte capita questa cosa?

CORRADO FERZETTI – EX VENDITORE AMAZON Ma, almeno un tre volte l’anno.

EMANUELE BELLANO Come mai questa cosa, secondo lei? Come se la spiega?

CORRADO FERZETTI – EX VENDITORE AMAZON Se tu da me trattieni 5000 euro per un mese e poi il mese successivo lo fai con un altro, è un giro, se facciamo un conto su quanti venditori esisteranno sulle piattaforme di Amazon, significa lavorare con i soldi degli altri.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel marketplace di Amazon tra le 18 mila aziende che hanno scelto quella piattaforma per vendere i loro prodotti c’è anche il titolare di questa parafarmacia a Napoli.

CARMINE NAZZARO - FARMACISTA EX VENDITORE AMAZON Amazon mi contatta alla fine del settembre del 2019 dicendo che è interessata a un rapporto di collaborazione. Quindi trasferisco una serie di prodotti circa una cinquantina inizialmente per un valore commerciale di circa 800 euro, successivamente circa 1.500 alla loro sede logistica e inizio a vendere questi prodotti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I costi del servizio che Amazon comunica al farmacista sono 39 euro al mese di canone e una commissione del 15 per cento sui prodotti venduti.

CARMINE NAZZARO - FARMACISTA EX VENDITORE AMAZON Succede all’improvviso che dopo circa un mesetto di vendita continua e grossi volumi venduti, mi bloccano l’account.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il 24 ottobre 2019 il venditore chiede il perché alla sua referente in Amazon.

CARMINE NAZZARO - FARMACISTA EX VENDITORE AMAZON La quale mi dice il tuo account è stato bloccato perché, insomma questi prodotti sono stati bloccati, in quanto risulterebbero essere contraffatti.

EMANUELE BELLANO Di che prodotti si trattava?

CARMINE NAZZARO - FARMACISTA EX VENDITORE AMAZON Allora due sono delle creme per il viso e uno invece un biberon.

EMANUELE BELLANO A quel punto che cosa fa?

CARMINE NAZZARO - FARMACISTA EX VENDITORE AMAZON Faccio ricorso.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il farmacista invia le fatture che provano l’acquisto delle due creme con intestazione della ditta produttrice e per il biberon la fattura emessa dal grossista, rivenditore ufficiale.

CARMINE NAZZARO - FARMACISTA EX VENDITORE AMAZON Provavano che quei prodotti erano stati acquistati direttamente dall’azienda.

EMANUELE BELLANO Quindi di fatto che quel prodotto fosse autentico.

CARMINE NAZZARO - FARMACISTA EX VENDITORE AMAZON Assolutamente.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In risposta Amazon scrive al venditore: “Comprendo il tuo avvilimento, ma a volte c’è bisogno di attendere per risolvere i problemi che emergono”. Nell’attesa, il venditore continua a pagare il canone ad Amazon, pur non potendo utilizzare il servizio per due mesi.

CARMINE NAZZARO - FARMACISTA EX VENDITORE AMAZON La referente non mi risponde più né alle mail né al telefono, quindi io mi trovo solo a effettuare i soliti ricorsi, però ovviamente non ho più risposta se non risposta di mail automatizzate dove mi dicono che il mio account è stato disattivato per questi prodotti contraffatti. EMANUELE BELLANO Oggi passati quindi praticamente due anni e più?

CARMINE NAZZARO - FARMACISTA EX VENDITORE AMAZON Oggi, passati due anni, vado sul mio account di Amazon Seller dove riesco ancora a entrare, c’è un saldo di circa 2.600 euro, derivanti dalla vendita dei prodotti da me forniti ad Amazon trattenuti da Amazon per motivazioni inverosimili.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Da Napoli a Milano. Altro negozio, altra storia. Questa volta il venditore tratta fotocopiatrici e stampanti per privati e per uffici.

CLAUDIO MENGO - CLICK OFFICE SHOP – EX VENDITORE AMAZON Tu gli mandi 50 macchine ad Amazon e ti dicono non ne abbiamo ricevute 50, ne abbiamo ricevute 47 perché tre sono smarrite.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In questo caso, per esempio, le fotocopiatrici sono tre, smarrite, scrive Amazon, nel proprio magazzino.

CLAUDIO MENGO - CLICK OFFICE SHOP – EX VENDITORE AMAZON Amazon ti dice le abbiamo smarrite ma non ti preoccupare perché queste macchine noi te le paghiamo. Peccato che noi queste macchine le vendiamo a 333 euro. Tre macchine sono la bellezza di quasi 1.000 euro.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Amazon invece dopo averle smarrite le rimborsa al venditore a 731 euro: 300 euro in meno.

CLAUDIO MENGO - CLICK OFFICE SHOP – EX VENDITORE AMAZON Qui abbiamo una penalizzazione di quasi il 30 per cento.

EMANUELE BELLANO E quelle macchine perse, poi che fine fanno?

CLAUDIO MENGO - CLICK OFFICE SHOP – EX VENDITORE AMAZON Quelle macchine perse non sono perse. In ogni stampante mettevamo esattamente questo volantino qui pubblicitario dove andiamo a dire al cliente sappi che quando avrai bisogno delle varie cartucce le potrai comprare da noi a un prezzo riservato. E da lì che i clienti ci chiamavano. Noi andavamo a controllare questi clienti e dicevo ma io a questo cliente io non ho mai venduto, ma scusi ma lei da chi è che ha comprato? Io ho comprato da Amazon mi diceva. Ma lei ha comprato da Amazon, ma non da “Click Office”. E da qui ci siamo accorti, appunto, che queste macchine che si erano perse non erano per niente perse. Queste macchine qui le ha vendute qualcun altro.

EMANUELE BELLANO In questi casi poi chiedevate un riscontro sulla matricola della macchina?

CLAUDIO MENGO - CLICK OFFICE SHOP – EX VENDITORE AMAZON Assolutamente sì. E lì era poi la prova schiacciante.

EMANUELE BELLANO Cioè?

CLAUDIO MENGO - CLICK OFFICE SHOP – EX VENDITORE AMAZON Perché praticamente il cliente mi dava il numero di matricola che effettivamente corrispondeva al mio numero di matricola, ma però io non glielo avevo mai venduto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Attraverso i numeri di matricola delle fotocopiatrici questo venditore ha avuto evidenza anche di un altro meccanismo con cui Amazon lo avrebbe danneggiato: la politica dei resi.

CLAUDIO MENGO - CLICK OFFICE SHOP – EX VENDITORE AMAZON Ci sono arrivate macchine dalla Romania, dalla Germania, dall’Austria che noi non avevamo venduto in quei Paesi, ovviamente tutte mezze danneggiate, mezze rotte.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Amazon appena accetta il reso addebita al venditore il costo della fotocopiatrice e restituisce il denaro al cliente. Il venditore si vede recapitare in negozio da Amazon la fotocopiatrice. Per controllare che la macchina sia stata davvero venduta da lui e che quindi l’addebito sia dovuto questo venditore legge la matricola della fotocopiatrice e la confronta con quelle delle macchine che ha venduto attraverso Amazon.

CLAUDIO MENGO - CLICK OFFICE SHOP – EX VENDITORE AMAZON 8359. Andiamo a vedere nel nostro bel file. Non è possibile trovare i dati. Ovviamente questa non è una matricola che noi abbiamo mai acquistato. EMANUELE BELLANO Cioè questa stampante non è una stampante che voi avete mai venduto. Cioè vi è stata resa una stampante che non avete mai venduto.

CLAUDIO MENGO - CLICK OFFICE SHOP – EX VENDITORE AMAZON Esatto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dei quattro resi presenti uno risulta realmente venduto da questo negozio. Gli altri tre invece non sono mai passati da qui. Ma il venditore ha dovuto rimborsare il cliente e se le fotocopiatrici non sono funzionanti dovrà pagarne anche lo smaltimento.

CLAUDIO MENGO - CLICK OFFICE SHOP – EX VENDITORE AMAZON Qui rimborso. Dove c’è rimborso vuol dire che è un reso di un cliente. Rimborso, rimborso di un cliente dalla Francia, rimborso, rimborso. Questi qui sono tutti rimborsi che noi abbiamo ricevuto più o meno in 10 mesi di lavoro che abbiamo fatto con Amazon.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, per il caso del farmacista Amazon ci scrive: la nostra politica di trattenere i fondi ha lo scopo di proteggere i clienti e i partner di vendita, da comportamenti abusivi. Ecco, e anche ne vale della sicurezza dei negozi. In questo caso le fatture fornite, - scrive Amazon, quelle del farmacista - non soddisfano i criteri richiesti. Ma Amazon non spiega come si deve fare per provare l’autenticità dei prodotti. Nelle more si tiene per sé i 2.600 euro del farmacista. Però questa è una condotta che ha ripetuto anche con l’altro venditore, Corrado Ferzetti. In quel caso dice: abbiamo bloccato l’account di vendita a causa di reclami per contraffazione. Ma Ferzetti si difende, non ci sta, dice io non ho mai subìto reclami per contraffazione, il mio rating come venditore è altissimo, 4-5 stelle, in quei casi contestati da Amazon, si trattava di due orologi, e la contestazione nel primo caso non riguardava sicuramente l’autenticità, quanto al fatto che secondo il cliente non si trattasse di un cronografo. Io ho spiegato che invece era un cronografo. Nel secondo caso invece l’ordine non è stato mai consegnato, è tornato al mittente perché non ritirato all’access point. Insomma, si tirano gli stracci. E poi invece per quello che riguarda il terzo venditore, il signore che vendeva le fotocopiatrici, e che ha avuto i resi, Amazon ci scrive: il modo con cui calcoliamo il valore del rimborso a fronte dei resi è un modo pubblico, può essere consultabile, ed è stabilito attraverso degli indicatori precisi. Se i partner di vendita non sono d’accordo con il valore del rimborso, possono inoltrare un reclamo, che però loro scrivono, nel caso di questo venditore non è stato presentato. Insomma… in realtà il venditore ha scritto una mail di contestazione che è questa che vedete, dove ha contestato proprio il prezzo con cui veniva stabilito il rimborso dei resi. Una mail alla quale però non ci risulta sia stata data mai risposta. Ecco, se questo però è un metodo che viene applicato anche agli altri rivenditori con una sua ripetitività, insomma, è un bel modo di fare i furbi. E a quanto ai furbi, questa sera, non abbiamo che l’imbarazzo della scelta.

COLPITO ANCHE DOMANI. Colpa di Amazon e Covid, la carta per i giornali ormai è rara come i microchip.

FERDINANDO COTUGNO su Il Domani il 23 gennaio 2022.

Da oggi Domani stampa la sua edizione cartacea con una carta da 42 grammi invece che quella più pregiata da 52. Non è una scelta di risparmio: la carta da 52 non si trova più.

Sempre più cartiere, sia in Italia che in Europa, stanno passando dal produrre carta grafica per giornali, riviste e libri, a produrre cartone per gli imballaggi dell’e-commerce. Le cartiere sono passate dal lavorare per i giornali a lavorare per Amazon. 

Il settore soffre anche per le catene di fornitura globali e per i rincari dell’energia. In questa penuria, per gli editori comprare carta su cui stampare è diventato sempre più costoso e difficile.  

FERDINANDO COTUGNO. Giornalista specializzato in ambiente, per Domani cura la newsletter Areale, ha scritto il libro Italian Wood (Mondadori) e ha un podcast sulle foreste italiane (Ecotoni). 

PREZZO DELLA CARTA ALLE STELLE E L’INDUSTRIA DELL’EDITORIA ARRANCA. Il costo della carta schizzato a 1.132 euro a tonnellata mette a rischio la tenuta di un’industria già in crisi e la democrazia che ha nell’informazione uno dei suoi capisaldi. ANNAMARIA CAPPARELLI su Il Quotidiano del Sud il 28 Gennaio 2022.

Il costo della carta è schizzato a 1.132 euro a tonnellata e se continua così l’industria dell’editoria è a forte rischio. Stampare libri e giornali sarà sempre più oneroso. La tempesta perfetta dei costi alle stelle delle materie prime sta facendo sentire i suoi catastrofici effetti anche su un settore già provato da una lunga crisi. Che oggi richiede interventi di supporto sostanziosi. E il solo credito d’imposta, previsto dalla legge di Bilancio 2022, è assolutamente insufficiente.

Il credito d’imposta in favore delle imprese editrici di quotidiani e di periodici è stato infatti allungato al 2022 e 2023 ed è riconosciuto sul 30% delle spese. È sicuramente un aiutino, ma ora alla luce della nuova emergenza costi, serve una terapia d’urto pesante per evitare il collasso di un settore strategico sul piano economico, ma anche sociale e per la tenuta stessa della democrazia che ha nell’informazione uno dei suoi capisaldi.

Da fine 2020 i prezzi delle materie prime, secondo Assocarta, hanno segnato rincari fino al 70% per la cellulosa e un aumento della domanda della carta da riciclare. Il macero in particolare, fondamentale per il giornale, è letteralmente volato dal 2020 con un aumento superiore al mille per cento.

E l’Associazione italiana editori da parte sua parla di un balzo di oltre il 20% per la carta non patinata che schizza al 50% per le carte di maggiore pregio.

A completare il quadro l’appesantimento della bolletta energetica che sta mettendo in grave difficoltà molte imprese.

Su tutto pesa l’impennata dei listini della materia prima legno da cui si produce la cellulosa che segue il trend di crescita delle quotazioni di tutte le materie prime, dal petrolio al grano, dal rame al legno appunto. Nel nostro Paese poi sull’onda dei numerosi bonus che hanno rilanciato il settore delle costruzioni c’è fame di prodotti per l’edilizia sempre più rari da trovare sui mercati e soprattutto sempre più cari. Una delle motivazioni che ha spinto alle proroghe delle agevolazioni è che molti cantieri sono costretti a fermarsi perché a corto di materiali. E il legno è tra i principali “attori” tra 110% e bonus mobili. La concorrenza è spietata e anche la carta per i giornali e libri dunque ne fa le spese. E quando il prodotto manca le speculazioni trovano la strada spianata.

L’Italia poi vive un vero paradosso, come spiega Piero Torchio, direttore di Federforeste: è ricca di alberi, ma importa dall’estero l’80% di legno destinato all’industria del mobile, della carta e del riscaldamento. Nonostante il 38% della superficie nazionale, e cioè 11,4 milioni di ettari, sia coperta da alberi. Secondo i dati dei primi dieci mesi del 2021, diffusi da Coldiretti, le importazioni di legno sono cresciute di oltre il 34 per cento.

Negli anni infatti la politica di mercato ha favorito gli acquisti dall’estero a costi più contenuti e così le segherie a valle sono state economicamente strozzate e dunque costrette a chiudere i battenti. 

Ma a remare contro anche una politica che ha di fatto vietato il taglio degli alberi che così nessuno ha potuto più lavorare. E oggi per il fabbisogno l’Italia è costretta a rivolgersi ai fornitori di Austria, Romania, Bulgaria, Germania e Francia in Europa, ma soprattutto dalla Cina. E il Gigante asiatico, che dopo il lockdown per la pandemia sta rimettendo in piena attività il suo sistema industriale, sta facendo incetta di materie prime. E come per il grano e il mais è scattato anche l’accaparramento del legno con il risultato di destabilizzare ulteriormente i mercati mondiali.

La Cina, per esempio, ha “conquistato” una parte consistente dei milioni di alberi che nell’area montana delle Dolomiti e delle Prealpi Venete, sono stati colpiti a morte dalla famosa tempesta Vaia del 2018. Molti tronchi sono finiti anche nelle segherie di Paesi europei, mentre tantissimi – spiega Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti – sono ancora a terra a due anni di distanza dal fenomeno. Da qui, aggiunge, l’importanza del piano per un rafforzamento della presenza di boschi soprattutto nelle aree periurbane e in quelle interne per contrastare i fenomeni di dissesto, ma anche per una gestione produttiva delle foreste. Perché è bene che si proteggano i boschi monumentali, ma gli altri vanno coltivati e resi produttivi nell’ambito di filiere. Per garantire così un’autosufficienza anche su questo fronte ed evitare che in situazioni come quella attuale il Paese possa trovarsi scoperto. È necessario invece creare le condizioni per fronteggiare la volatilità dei prezzi e soprattutto le conseguenti speculazioni e salvare così settori importanti come la carta che da un lato è pagata a peso d’oro per i giornali dall’altro scarseggia nel settore alimentare per gli imballaggi.  Bisogna dunque partire dall’origine, dal bosco e valorizzare quella pattuglia di aziende agricole forestali che ancora oggi si dedicano alla lavorazione dei tronchi.

Coldiretti e Federforeste hanno elaborato un progetto nell’ambito del Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) per piantare nei prossimi 5 anni milioni di alberi che sono alla base della costruzione di una filiera garantita anche dalla possibilità di identificare il made in Italy. L’obiettivo è, se non di annullare, almeno di tagliare energicamente l’import di legno grezzo.

In attesa però di mettere in campo un sistema produttivo adeguato che richiederà molti anni per andare a regime, bisogna subito intervenire per raffreddare i prezzi e ristorare le imprese stritolate da bollette energetiche sempre più pesanti e da costi dei fattori produttivi ormai alle stelle. Bisogna dunque fare presto per continuare ad assicurare una serena lettura di libri e giornali.

·        I Censori.

Antonio Giangrande: LA DITTATURA DELLA CENSURA.

Gli Stati Uniti impongono la loro economia, le loro regole e la loro cultura. Tenuto conto che negli Stati Uniti la fazione LGBTI detta i comportamenti a loro congeniali, il cui contrasto lede il politicamente corretto, i pappagalli europei emulano e scimmiottano tali scelte di vita, facendoli passare per normali.

Non fa più scandalo, anzi è politicamente corretto adottare ogni comportamento deviante, ma fatto passare per normale e progressista, adottato nelle trame dei film.

Coppie gay o multietniche o relazioni poliamorose non devono mancare nelle serie televisive americane, affinchè la cultura LGBTI statunitense prenda largo oltreoceano.

Ecco perché in Italia ci sono polemiche ideologiche sulla fiera dell’ovvietà.

Ci sono cose che tutti pensano, ma che sono vietate dire.

A Crotone i giovani della Lega pubblicano un manifesto per l’8 marzo in onore della donna.

Una manifestazione di stima per la donna ed una denuncia contro i comunisti ipocriti.

I sinistri, sentendosi toccati, hanno reagito, facendo una questione di Stato. Qualcuno, addirittura, facendone questione territoriale retrograda. Sì, ma le offese ai meridionali, per i sinistri non contano.

Anche il buon Salvini, da buon comunista, ha rinnegato l’ovvietà.

Tutti rinnegano le loro idee. I comunisti, invece, rimangono sempre fedeli alla loro ideologia di potere: usando ed abusando di tutte le minoranze, assoggettandole e strumentalizzandole ai loro fini.

Quasi la totalità dei media si è parata contro il manifesto, del quale ognuno ha dato una sua personalissima interpretazione femministica, senza, peraltro, quasi nessuno di loro, aver pubblicato pari pari il volantino stesso.

Antonio Giangrande: I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. Alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.

Mattia Feltri Per “la Stampa” il 6 dicembre 2022.

La querela mossa da Giorgia Meloni a Roberto Saviano dà un'idea del rapporto fra politica e giornalismo, ma soltanto un'idea. E un'idea abbastanza imprecisa, perché credo nessuno sappia che ogni anno di querele per diffamazione a mezzo stampa ne vengono sporte fra le sei e le settemila, cioè più o meno diciassette o diciotto al giorno. Il novanta per cento finisce in polvere, ma forse l'intento intimidatorio è raggiunto, e poi restano le altre sei-settecento. 

Altro dettaglio diffusamente ignoto: quando si stilano le classifiche della libertà di stampa, in cui siamo regolarmente sotto l'Angola o il Nicaragua, la nostra posizione dipende soprattutto dalla pena al carcere, prevista appunto soltanto qui e in qualche paese di colonnelli. Dunque male i politici che querelano, e a raffica, peggio i politici che non depenalizzano.

Ma - terzo particolare malamente trascurato - i fan della querela non sono solamente i politici, anche i magistrati. Io sono fra i massimi collezionisti europei di querele di magistrati - fin qui, toccando ferro, cento per cento di assoluzioni. Se querela un politico, talvolta si alza il coro greco. Se querela un magistrato, mai. 

E proprio di pochi giorni fa è la notizia della condanna inflitta a Maurizio Costanzo - un anno di reclusione, pena sospesa purché risarcisca il diffamato con 40 mila euro - colpevole di critica, anzi diffamazione, del giudice che rigettò la richiesta di arresto per l'uomo che poi deturpò con l'acido Gessica Notaro. Complimenti a questo giudice, disse Costanzo invocando l'intervento del Csm. Ecco: un anno di reclusione. A proposito, come va in Angola?

Internet, Corte Ue: “Motori di ricerca rispettino diritto all’oblio”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’8 Dicembre 2022

La sentenza relativa a una causa che coinvolge Google e una società di investimenti, ma non è applicabile alle testate giornalistiche

Il diritto all’oblio su internet va rispettato e il gestore di un motore di ricerca deve deindicizzare le informazioni, rendendole di fatto invisibili, se chi ne richiede la deindicizzazione dimostra che sono manifestamente inesatte. Lo stabilisce la Corte di Giustizia dell’Ue, nella sentenza nella causa C-460/20/Google, relativa ad una causa che coinvolge Google e una società di investimenti, che si era rivolta alla società californiana affinché deindicizzasse alcuni contenuti, ritenuti inesatti, torna ancora una volta sul diritto all’oblio per ridimensionare lo strapotere del motore di ricerca online e per ribilanciare il diritto d’informazione rispetto a quello non meno importante della reputazione e dell’immagine personali.

Per tutta risposta Google si era rifiutata di deindicizzarli, affermando che ignorava se i contenuti riportati fossero inesatti o meno. La Corte federale di giustizia della Germania, investita della questione, si è rivolta alla Corte di Giustizia dell’Ue per ottenere alcuni chiarimenti in merito alla tutela del diritto all’oblio nel regolamento europeo sulla protezione dei dati. 

I giudici di Lussemburgo hanno stabilito che il motore di ricerca deve deindicizzare contenuti ritenuti inesatti, se chi ne fa richiesta ne dimostra l’inesattezza: la prova, aggiungono i giudici, non deve necessariamente risultare da una decisione giudiziaria ottenuta nei confronti dell’editore del sito. Basta che il titolare del diritto dia una spiegazione fondata plausibile e completa sugli eventuali errori delle informazioni pubblicate.

Il motore di ricerca, che è soggetto “terzo” rispetto alle parti coinvolte, non è tenuto a ulteriori ricerche e valutazioni e deve oscurare i contenuti contestati (peraltro in tutto il web e non solo su siti dell’Ue, come ha stabilito l’ordinanza di Cassazione n° 34658 del 24 novembre scorso).

Non sono quindi i giornali telematici i soggetti demandati e tenuti a rimuovere le indicizzazioni sui motori di ricerca, come spesso avvocati e pseudo società di web-reputation sostengono, senza aver approfondito e studiato le vigenti norme di Legge. Redazione CdG 1947

Alessandro Longo per la Repubblica il 10 dicembre 2022.

Se su Google compaiono informazioni inesatte su di noi, che ci possono danneggiare, devono essere cancellate dal motore di ricerca anche senza aspettare che ci rivolgiamo a un giudice. Per esercitare questo diritto basterà convincere Google dell'inesattezza, anche parziale, di quei fatti. È quanto ha stabilito giovedì la Corte di Giustizia europea. Si potenzia così il "diritto all'oblio" (previsto nelle norme europee), ossia ottenere la cancellazione dei dati personali a tutela della propria reputazione. 

Diritto che ora viene esteso con la possibilità di chiedere a Google (o siti analoghi) di non fare apparire nel motore di ricerca alcuni risultati riguardanti la propria persona. Google, se accetta la richiesta, "deindicizza" i risultati (le pagine web) che contengono quelle informazioni. 

Non le mostrerà più nella pagina della ricerca, di fatto così nascondendole.

Nel caso dell'ultima sentenza, due dirigenti di un gruppo di società di investimento avevano chiesto a Google di eliminare i link ad alcuni articoli che criticavano il loro modello di investimento. Sostenevano la presenza di affermazioni inesatte.

Hanno inoltre chiesto a Google di rimuovere le loro foto, visualizzate sotto forma di "miniature", dall'elenco dei risultati di una ricerca di immagini. Google si è rifiutata, sostenendo di non sapere se le informazioni fossero vere o false. La Corte federale di giustizia tedesca, investita della controversia, ha chiesto alla Corte di giustizia Ue di fornire un'interpretazione delle norme europee: il regolamento sulla protezione dei dati e la direttiva sulla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, letta alla luce della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. 

Nella sentenza, la Corte ha ricordato che il diritto alla protezione dei dati personali non è un diritto assoluto, ma deve essere considerato in relazione alla sua funzione nella società ed essere bilanciato con altri diritti fondamentali, in conformità al principio di proporzionalità. Ha stabilito quindi che se l'interessato presenta «prove pertinenti e sufficienti in grado di motivare la sua richiesta e di stabilire la manifesta inesattezza delle informazioni», il gestore del motore di ricerca è tenuto ad accogliere tale richiesta.

«È qui il punto nuovo. Finora Google ha accettato le richieste solo con un ordine di un giudice o un provvedimento del Garante privacy», spiega Massimo Borgobello, avvocato esperto di privacy. Concorda Anna Cataleta, avvocato di P4I: «Diventa più facile esercitare il diritto all'oblio direttamente con Google». Certo, l'azienda può rifiutarsi di cancellare, «ma dopo questa sentenza rischia sanzioni più forti e più certe, anche milionarie», dice Borgobello. 

Va anche detto che la Corte ha rafforzato il diritto all'oblio solo per le informazioni false. Un diritto può essere esercitato, con alcuni limiti, anche nei riguardi di pagine contenenti fatti veri ma privi di rilevanza pubblica (ad esempio notizie di condanne molto vecchie). 

La Corte ha poi stabilito che anche la visualizzazione di foto di persone in formato miniatura «costituisce un'interferenza particolarmente significativa con i diritti alla vita privata e ai dati personali». Google quindi, in seguito a una richiesta di cancellazione, è tenuta a «verificare se la visualizzazione di tali foto sia necessaria per l'esercizio del diritto alla libertà di informazione degli utenti potenzialmente interessati ad accedere alle foto».

Joe Biden, "insabbiato tutto": Elon Musk, bomba sulla Casa Bianca. Libero Quotidiano il 04 dicembre 2022

Twitter avrebbe censurato notizie compromettenti su Hunter Biden in grado di condizionare, in negativo, la corsa alla Casa Bianca di suo padre Joe Biden. A rilanciare la tesi dell'insabbiamento pro-democratici è niente meno che Elon Musk, neo-proprietario di Twitter, che ha promesso una devastante campagna di trasparenza che potrebbe generare conseguenze politiche inimmaginabili a Washington.

Poche settimane prima delle elezioni presidenziali del 2020 (che Biden vinse sconfiggendo Donald Trump), il quotidiano conservatore New York Post pubblicò la storia del computer di Hunter Biden, figlio problematico e scavezzacollo dell'ex vice di Obama. Secondo l'articolo del Post il dispositivo conteneva diversi file, comprese e-mail potenzialmente incriminanti, riguardanti i rapporti d'affari del figlio dell'attuale presidente con Paesi e individui stranieri. A pubblicare su Twitter le mail che mostrano gli scambi tra i dipendenti della piattaforma online è il giornalista statunitense Matt Taibbi, in una serie di tweet condivisi dallo stesso Musk. Twitter, sostiene Taibbi, "ha adottato misure straordinarie per sopprimere la storia, rimuovendo collegamenti e pubblicando avvisi sulla loro possibile non sicurezza. Ne ha persino bloccato la trasmissione tramite messaggio diretto, uno strumento finora riservato a casi estremi, come la pornografia infantile". 

Il New York Post è stato il primo giornale a riferire del computer, abbandonato in un'officina di riparazioni di Wilmington, nel Delaware, e che presumibilmente apparteneva a Hunter Biden. L'oggetto conteneva diversi file, comprese e-mail potenzialmente incriminanti, riguardanti i rapporti d'affari del figlio dell'attuale presidente con Paesi e individui stranieri. In una delle email, Vadym Pozharskyi, cittadino ucraino e terzo al comando della compagnia energetica ucraina Burisma, ringraziava Biden per l'opportunità avuta di incontrare suo padre, allora vicepresidente, e per aver "trascorso del tempo con lui" ad aprile 2015. Hunter Biden, in quel momento, era membro del Consiglio di amministrazione della società. Circa 50 ex membri della comunità dell'intelligence hanno affermato che le informazioni erano "false" e create dai russi per interferire nelle elezioni. Lo scorso marzo, tuttavia, il New York Times ha riferito che il laptop e le informazioni incluse erano autentici e fanno parte di un'indagine in corso del dipartimento di Giustizia su Hunter Biden in merito ai suoi affari finanziari e fiscali.

Le rivelazioni dei Twitter-files: utenti in blacklist e post oscurati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Dicembre 2022.

L'inchiesta del New York Times dimostra l'esistenza di un team di dipendenti di Twitter il cui scopo era “costruire liste nere, impedire ai tweet sfavorevoli di diventare di tendenza e limitare la visibilità di interi account o addirittura di argomenti di tendenza”. Nuova bufera per il più potente dei social network

Inizialmente lo scandalo con tanto di accuse reciproche e di cause legali sul reale numero degli utenti, dopo è arrivata la questione dei licenziamenti di massa successivamente in parte reintegrati con tanto di scuse, dopo gli uffici trasformati in dormitorio ed ora i “Twitter files”. Che l’ingresso di Elon Musk in Twitter non sarebbe stata semplice e indolore era prevedibile fin dal primo momento. Adesso però nella Twitter-story arrivano dettagli che potrebbero far cambiare radicalmente il modo in cui gli utenti guardano quello che è indubbiamente uno dei social network più potenti.

Le rivelazioni del quotidiano “New York Times”, le ultime in ordine di tempo arrivate nella notte, svelano un fitto e per nulla trasparente intreccio che politica e istituzioni e il social media. La giornalista Bari Weiss, con la “benedizione” del nuovo Ceo di Twitter, ha infatti pubblicato su lungo “thread” in cui si dimostra l’esistenza in passato di un team di dipendenti di Twitter il cui scopo era “costruire black list” cioè liste nere, impedendo ai tweet sfavorevoli di diventare di tendenza e limitare la visibilità di interi account o addirittura di argomenti di tendenza”. “Il tutto in segreto,– prosegue il post retwittato dallo stesso Musk – senza informare gli utenti”.

Le Blacklist di Twitter

Tra gli utenti finiti nella blacklist compare ad esempio Jay Bhattachary, professore dell’ Università di Stanford che sosteneva che i lockdown messi in atto per contenere la diffusione del Covid avrebbe potuto danneggiare i bambini (e per questo finito nella “trend blacklist” che impediva appunto ai suoi tweet di diventare virali) o l’account del presentatore di un popolare talk show Dan Bongino finito nella blacklist delle ricerche perché dichiaratamente di destra.

Nel mirino dei censori di Twitter era finito anche l’attivista conservatore Charlie Kirk (esplicativa la nota interna “Da non amplificare” allegata al suo profilo). Un sistema organizzato e strutturato, insomma, tutt’altro che qualche caso sporadico legato alle intemperanze dei singoli account. Secondo la giornalista del New York Times i vertici di Twitter chiavano questa politica VF cioè “Visibility Filtering” (“filtraggio di visibilità”) . “Pensate al filtro di visibilità come a un modo per sopprimere ciò che le persone vedono a diversi livelli. È uno strumento molto potente”, ha dichiarato un dipendente di vecchia data.

Altro caso è stato quello della pagina “Libs of TikTok” (1,6 milioni di follower) sospeso sei volte ufficialmente per incitazione all’odio nonostante un documento interno dimostri che i gestiri della pagina non hanno mai violato il regolamento interno di Twitter. Nella foto postata dalla giornalista americana si vede che proprio nella scheda di tale utente capeggiava in bella mostra il messaggio, in rosso, con scritto “Non prendere inizitive sull’utente senza consultare il Sip-Pes”, ovvero il “Site Integrity Policy, Policy Escalation Support,” il braccio operativo di questo tipo di operazioni.

Chi pensava che lo “scandalo Twitter” fosse limitato, alla vicenda legata al figlio di Biden, Hunter, e alle notizie (insabbiate) relative ad una non molto chiara consulenza con Paesi stranieri e frodi fiscali, sbagliava di grosso. La vicenda adesso si sta allargando a macchia d’olio e la stessa giornalista promette nuovi aggiornamenti a breve, anche grazie alla collaborazione offerta da altri colleghi e da altre testate.

Elon Musk ha fatto sapere che “Twitter sta lavorando a un aggiornamento del software che mostrerà il vero stato dell’account, in modo da sapere chiaramente se si è stati bannato, il motivo e le modalità per fare ricorso”.

Amazon e Apple scommettono su Twitter e investono in pubblicità

Gli incentivi all’attività di advertising decisi da Twitter hanno fatto centro, dal momento che hanno spinto molti inserzionisti a rilanciare le loro campagne sulla piattaforma. In cima alla lista ci sono due società big, come Amazon e Apple. La prima, come riporta la Reuters, si prepara a investimenti per 100 milioni mentre la seconda avrebbe pianificato di riprendere a pieno regime l’attività precedente stabilendo di fatto che maggiore è la quantità di denaro spesa sulla piattaforma, più verranno amplificati gli annunci, generando così un “valore aggiunto” (in termini di “impressions”).

In altri termini, se un inserzionista spende 200mila dollari, otterrà un valore aggiunto del 25%. Se ne spende 350mila, un valore aggiunto del 50%. Se invece investe 500mila, otterrà un valore aggiunto del 100%. Lo sforzo della piattaforma (secondo gli analisti si tratta di incentivi molto generosi) si è reso necessario in seguito all’allontanamento di molti inserzionisti a causa delle nuove policy imposte da Elon Musk al social network. Queste entrate rappresentano più del 90% del totale.

Nonostante gli inserzionisti di ritorno possano essere una buona notizia per Twitter, fonti interne hanno riferito al New York Times che le entrate pubblicitarie della terza settimana di novembre sono state inferiori dell’80% alle aspettative. Proprio il 20 novembre sono iniziati i Mondiali di calcio, storicamente un’occasione ghiotta per Twitter, con traffico record e un grande afflusso di pubblicità. Non questa volta. Le aziende restano prudenti, accettano di fare pubblicità solo per eventi circoscritti e con clausole in cui si afferma che possono cambiare idea per qualsiasi motivo. 

Tutti i numeri

I pesanti tagli al personale imposti dal tycoon, nel primo mese da proprietario della piattaforma, hanno coinvolto i dipendenti che si occupavano sulla moderazione dei contenuti, lasciando scoperta questa attività, con il conseguente proliferare di “fake news“, account falsi e odio online (situazione incentivata anche dal ripristino degli account bannati). Novembre è stato anche il mese del caos degli account verificati e della spunta blu a pagamento: molti utenti hanno approfittato della nuova funzionalità per impersonare account falsi e twittare messaggi pericolosi e dannosi per la reputazione del marchio “impersonato” (Twitter poi ha messo in pausa la funzione, promettendo un rilancio con nuove misure di sicurezza).

Di conseguenza, molte grandi aziende, tra cui il produttore di automobili General Motors, la società alimentare General Mills, il produttore di Oreo Mondelez International, Audi e la società farmaceutica Pfizer avevano interrotto o sospeso la pubblicità su Twitter. 

Secondo i dati di MediaRadar, a maggio Twitter contava 3.980 inserzionisti. A ottobre il numero è calato a 2.315, mai così pochi. Come da analisi di Media Matters, la metà dei primi 100 inserzionisti di Twitter ha ridotto poi le proprie spese nei giorni successivi all’acquisizione. Nella terza settimana di novembre, le vendite pubblicitarie dell’azienda in Europa, Medio Oriente e Africa sono diminuite di oltre il 50% rispetto alla seconda.

Redazione CdG 1947

Stefano Graziosi per “La Verità” il 5 dicembre 2022.

Ricordate quando Twitter censurò lo scoop del New York Post, che provava come Joe Biden fosse a conoscenza dei controversi affari di suo figlio all'estero? Era l'ottobre 2020 e, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali americane, quell'articolo avrebbe potuto seriamente danneggiare l'allora candidato dem. Eppure, il social di San Francisco decise di bloccare la possibilità di condividerlo. 

Una scelta controversa, su cui ha finalmente gettato luce il giornalista Matt Taibbi. In un thread su Twitter, costui ha infatti chiarito alcuni aspetti della vicenda, basandosi su documentazione interna recentemente resa pubblica. Taibbi ha iniziato col sottolineare come la piattaforma ricevesse spesso richieste dal mondo politico per bloccare tweet considerati sgraditi: da quanto sostiene, tali richieste sarebbero pervenute sia dall'amministrazione Trump sia dal comitato elettorale di Joe Biden.

Il punto è che, prosegue Taibbi, «questo sistema non era bilanciato. Era basato sui contatti. Poiché Twitter era ed è composto in modo schiacciante da persone con un dato orientamento politico, c'erano più canali, più modi per lamentarsi, aperti a sinistra (cioè ai democratici) che a destra». E qui veniamo al primo nodo. 

La piattaforma poteva infatti vantare legami assai più solidi con il Partito democratico che con il Partito repubblicano. E attenzione: non si trattava solo di simpatia a livello ideologico. Come emerge dal sito Open Secrets, nei cicli elettorali del 2018 e del 2020 i dipendenti di Twitter versarono cospicui finanziamenti all'asinello, riservando invece briciole all'elefantino. In tutto questo, il Washington Examiner ha riferito che la maggior parte dei tweet, segnalati dalla campagna di Biden o dal Comitato nazionale del Partito democratico, non sono più disponibili.

Sia chiaro: i finanziamenti elettorali in sé stessi erano legali. Il punto è politico. Secondo Taibbi, Twitter si arrogò il diritto di censurare lo scoop del New York Post, facendo ricorso a strumenti fino ad allora utilizzati soltanto per casi oggettivamente gravissimi. 

«Twitter ha adottato misure straordinarie per sopprimere l'articolo, rimuovendo collegamenti e pubblicando avvisi che avrebbe potuto essere "non sicuro". Ne hanno addirittura bloccato la trasmissione tramite messaggio diretto: uno strumento finora riservato a casi estremi, per esempio la pedopornografia», ha scritto il giornalista.

Fu addirittura bloccato l'account dell'allora portavoce della Casa Bianca, Kayleigh McEnany, colpevole di aver postato lo scoop. Ora, la gravità non sta solo nel fatto che sul social cinguettavano allegramente figure a dir poco controverse, come Ali Khamenei e Nicolas Maduro. Ma che si trattasse di una circostanza potenzialmente lesiva del Primo emendamento fu sottolineato ai vertici di Twitter anche da Ro Khanna: deputato dem che, per la cronaca, risulta notevolmente spostato a sinistra e che non è quindi tacciabile di simpatie trumpiste. 

Ma gli aspetti inquietanti non si fermano qui. Una delle ragioni addotte per la censura fu che i materiali contenuti nello scoop fossero stati hackerati. Peccato che non ci fosse alcuna prova ufficiale della cosa. Non a caso, la questione suscitò dibattito anche tra le alte sfere di Twitter. 

In particolare, la decisione ultima di censurare fu presa dalla responsabile dell'ufficio legale dell'azienda, Vijaya Gadde (che è stata, anche per questo, licenziata dal nuovo Ceo, Elon Musk). Al contrario, Jack Dorsey non sarebbe stato coinvolto nell'affossamento dell'articolo né lo sarebbero stati apparati governativi. Non solo.

Secondo Taibbi un ex dipendente di Twitter avrebbe riferito che «l'hacking era la scusa, ma nel giro di poche ore praticamente tutti si sono resi conto che non avrebbe retto. Tuttavia, nessuno ha avuto il coraggio di invertire  la rotta». Che la base legale fosse fragile era quindi chiaro a tutti i dirigenti: d'altronde, in uno scambio di messaggi, il Deputy general counsel della società, Jim Baker, ammise che servivano «più fatti» per capire se il materiale provenisse da un hacking, ma aggiunse anche che, nel mentre, la «cautela era giustificata». 

Della serie: prove non ce ne sono, ma intanto blocchiamo tutto. Ricordiamo sempre che mancava meno di un mese alle elezioni presidenziali di allora e che Baker era stato assunto in Twitter a giugno 2020, dopo aver prestato servizio nell'Fbi e aver partecipato all'inchiesta federale sulla presunta collusione tra Donald Trump e la Russia. Non sentite anche voi puzza di cortocircuito?

In tal senso, il deputato repubblicano, James Comer, ha annunciato che a gennaio chiamerà in audizione alla Camera i responsabili della censura. Lo scoop del New York Post conteneva un'email di aprile 2015 rinvenuta nel laptop di Hunter Biden: un'email in cui un alto funzionario della controversa azienda ucraina Burisma ringraziava lo stesso Hunter per avergli presentato suo padre, che all'epoca era vicepresidente degli Stati Uniti. 

Pochi mesi dopo quella email, l'allora numero due della Casa Bianca fece pressioni sul presidente ucraino, Petro Poroshenko, per silurare il procuratore generale Viktor Shokin: una figura chiacchierata ma che aveva indagato proprio su Burisma. Ora, non sapremo mai se, senza questo atto di censura, l'esito delle ultime presidenziali americane sarebbe stato differente. Tuttavia, la gravità di quanto accaduto dovrebbe far riflettere sulla pericolosità insita in alcuni tanto decantati «meccanismi di moderazione» vigenti nei social. Ci sarebbe infine piaciuto che la Commissione europea, oggi tanto severa e occhiuta verso il Twitter di Musk, avesse detto qualcosa anche nel 2020. E comunque nuovi documenti potrebbero essere presto resi pubblici.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 27 novembre 2022.

Il rumore sottile della critica. Il maestro (desidera essere chiamata così) Beatrice Venezi, consigliere per la musica del ministero della Cultura, vorrebbe istituire un albo per la professione di critico professionista, dopo «un percorso di formazione» (o di rieducazione?). La proposta inquieta: «Oggi chiunque sia dotato di uno smartphone si erge a critico. E certe “critiche”, possono esaltare o affossare la carriera di un artista. Ecco perché penso a un percorso di formazione specializzato e a un albo dei critici professionisti».

Da anni si parla di «morte della critica», del sempre minore spazio che le tocca nei media, della sua sempre più debole capacità di agire sulla cultura contemporanea, ma quello che sembra allarmare il maestro sono i giudizi sconclusionati sui social. Ma come può un «albo» porre freno alla natura stessa della Rete, dove chiunque è libero di dire la sua? E poi l’istituzione di tale albo ci ritufferebbe in periodi neri della nostra storia: torniamo alle corporazioni? 

L’analisi critica può non servire a nulla, ma insegna una sola cosa: la libertà di pensiero, del come si sta al mondo da critici e non da manutengoli. 

Al consigliere Venezi, grande star di spot tricologici, suggerirei di vedere il film Ratatouille, dove un vecchio topo spiega a cosa serve la critica.

Diffamazione, se la vittima è una toga la vittoria è in tasca. Secondo lo studio di Sammarco e Zeno-Zencovich, i magistrati vincono sette volte su 10. E i risarcimenti valgono il doppio. Un esempio? I quarantamila euro che Maurizio Costanzo dovrà corrispondere al giudice del tribunale di Rimini. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 06 dicembre 2022.

Il maxi risarcimento di quarantamila euro che Maurizio Costanzo dovrà corrispondere al giudice del tribunale di Rimini Vinicio Canterini per avergli detto “complimenti” ha acceso ancora una volta i riflettori sul tema della diffamazione tramite i media.

Nel caso in questione, lo storico giornalista Mediaset, durante una puntata del “Maurizio Costanzo Show” andata in onda il 20 aprile del 2017, aveva ospitato Gessica Notaro, la ragazza di Rimini che era stata sfregiata l’anno prima con l’acido dal suo ex fidanzato Edson Tavares. La ragazza, rispondendo alle domande di Costanzo, aveva ripercorso le tappe della tragedia, affermando di aver denunciato a settembre del 2016 il suo ex che la stava perseguitando da tempo e che il magistrato aveva disposto nei suoi confronti il solo divieto di avvicinamento per tre mesi e mezzo.

Scaduto il divieto Tavares si era appostato sotto casa sua sfregiandola con l’acido e rendendola per sempre cieca ad occhio. Costanzo, senza mai fare il nome di Canterini, gli aveva fatto i “complimenti”, chiedendo all’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando di aprire una inchiesta nei suoi confronti «perché non ha fatto quello che gli ha aveva detto il pm di mettere agli arresti domiciliari» Tavares, poi condannato a 15 anni e 5 mesi. Canterini, sentitosi diffamato dalle parole pronunciate da Costanzo, lo aveva denunciato ottenendo la scorsa settimana di essere risarcito.

Lo studio: diffamazione, le toghe vincono 7 volte su 10

Il settore dei risarcimenti ha confini quanto mail labili ed è sostanzialmente impossibile fare previsioni sul “quantum”. Sul Diritto dell’informazione e dell’informatica, periodico edito da Giuffrè, è stata pubblicata nelle scorse settimane una ricerca sul punto ad opera dei professori di diritto privato comparato Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich. I due docenti hanno analizzato le sentenze per diffamazione, circa 700 depositate negli anni 2015/2020 presso il Tribunale di Roma. Le sentenze sono state acquisite presso il locale ced previamente anonimizzate nella identità delle persone fisiche attrici e convenute. In taluni casi la notorietà delle parti ha reso tale misura superflua. Sono invece rimaste identificate le persone giuridiche.

Il dato che balza subito all’occhio riguarda l’accoglimento: solo in tre casi su dieci. Delle oltre 400 sentenze di rigetto praticamente tutte decidono nel merito negando l’illecito. Vi sono poche decisioni su questioni preliminari, tipicamente per la competenza territoriale, ovvero di inammissibilità del giudizio oppure sulla sua estinzione. Nel caso si tratti di magistrati la domanda viene accolta però in sette casi su dieci. Esattamente il contrario, tre accoglimenti su dieci, quando il denunciante appartiene a qualsiasi altra categoria professionale (giornalista, politico, professore, imprenditore, eccetera).

Per quanto concerne gli importi, la media è 20mila euro, esattamente il doppio per le toghe. Un magistrato, ex pm di Mani pulite, nel quinquennio in questione ha imbastito ben 23 cause con un risarcimento complessivo pari a 578mila euro. Il convenuto, come detto, è solitamente un mezzo di comunicazione di massa, che poi corrisponde l’importo liquidato in quanto debitore di ultima istanza, anche rispetto ai propri giornalisti. Va peraltro segnalata la presenza di non poche decisioni in cui la contesa è fra persone fisiche, generate da offese diffuse attraverso i social media. Tenendo conto della sede di taluni editori a Roma e delle regole sulla competenza territoriale, i dati forniti da Sammarco e Zeno-Zencovich sono meramente indicativi, in quanto non possono tenere conto degli importi liquidati da altri Tribunali, sede della persona giuridica convenuta, ovvero dove uno dei convenuti è residente, ovvero ancora luogo di residenza dell’attore.

E veniamo, infine, ai “parametri” che i giudici dovrebbero tenere in considerazione ai fini del risarcimento. Il primo riguarda la natura del fatto falsamente attribuito alle parti lese. Il secondo l’intensità dell’elemento psicologico dell’autore. Il terzo il mezzo di comunicazione utilizzato per commettere la diffamazione e la diffusività dello stesso sul territorio nazionale. Il quarto il rilievo attribuito dai responsabili al pezzo contenente le notizie diffamatorie all’interno della pubblicazione in cui lo stesso è riportato. Il quinto, infine, l’eco suscitata dalle notizie diffamatorie. Il differente esito processuale, comunque, non può non indurre ad una riflessione sul fatto che esista una “giustizia domestica” fra le toghe per questo genere di cause.

Marcio Vigarani per corriere.it il 3 dicembre 2022.

Gli era costata già una diffida, adesso è arrivata una condanna per Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e presentatore televisivo, accusato di diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nativo di Loreto (Ancona). 

La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa. La sentenza è arrivata mercoledì 30 novembre. Trattandosi di un giudice parte offesa, costituito parte civile con l’avvocato Nazzareno Ciucciomei, il processo è stato tenuto in un tribunale diverso da quello dove esercita; per Rimini ha competenza Ancona.

In una puntata del Maurizio Costanzo show, trasmessa il 20 aprile del 2017, Costanzo si era lasciato andare a commenti ritenuti offensivi dell’operato del giudice per una misura cautelare emessa nei confronti diEdson Tavares, ex fidanzato di Gessica Notaro, riminese sfregiata con l’acido il 10 gennaio del 2017. La misura cautelare riguardava episodi di stalking precedenti al fatto dell’acido, il gip aveva disposto il divieto di avvicinamento alla donna mentre la procura aveva chiesto gli arresti domiciliari. «Mi voglio complimentare col gip.

Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo», aveva affermato il giornalista. La difesa di Costanzo ha sostenuto che non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello. 

Il riferimento al gip

Quel giorno, in trasmissione, c’era anche Gessica Notaro che per la prima volta, dopo tre mesi dai fatti, parlava in pubblico. Costanzo aveva detto «complimenti a questo gip, vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Diamo il nome. Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo». Il nome di Cantarini non era stato fatto ma il riferimento era stato chiaro. Costanzo si era rivolto anche al ministro della Giustizia di allora, Orlando, incalzando «faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?».

Secondo la difesa di Costanzo non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello. Per l’accusa avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda.

Magistratura solidale…vietato dire “complimenti al gip”? Maurizio Costanzo condannato a 1 anno di carcere. Una vergogna! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Dicembre 2022.

La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto al giornalista un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa

Clamoroso, ma vero. E’ vietato dire “complimenti al gip”. A finire nel tritacarne giustizialista è Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e simbolo della televisione italiana, condannato per diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nato a Loreto, in provincia di Ancona. A condannare Costanzo la giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona: un anno di reclusione, con sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa.

Andiamo indietro nel tempo fino al 20 aprile del 2017 per capire cosa è accaduto. Maurizio Costanzo ospitava nel suo noto programma “Maurizio Costanzo show”  per la prima volta Gessica Notaro, che appariva in pubblico dopo essere stata sfregiata con l’acido dal suo ex fidanzato. Costanzo criticò (secondo noi e praticamente tutt’ Italia, quella sana…) il gip Cantarini per una misura cautelare emessa nei confronti dello sfregiatore, Edson Tavares, misura che riguardava precedenti episodi di stalking. La procura di Rimini aveva chiesto gli arresti domiciliari, mentre il gip dispose soltanto una misura cautelare, cioè un provvedimento meno restrittivo. E subito dopo, Tavares lasciato libero di imperversare sfregiò la Notaro buttandole l’acido in faccia sfigurandola.

Nel corso della trasmissione incriminata, Costanzo aveva detto: “Mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo”. e senza mai fare il nome di Cantarini. Maurizio Costanzo si era rivolto direttamente all’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando: “Faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?“.

Il gip Vinicio Cantarini ha pensato di querelare Costanzo per diffamazione. Ed una sua collega, incredibile vero un “magistrato donna“, gliel’ha data vinta. Secondo la difesa del conduttore televisivo non vi era alcuna volontà diffamatoria in quelle parole, per l’accusa al contrario avrebbe offeso la reputazione della toga lasciando intendere che Gessica fosse stata sfregiata in seguito alle decisioni del gip. Costanzo ora potrà ricorrere in appello.  Per l’accusa Costanzo avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda. In realtà i fatti sembrano provare proprio questo.

Per fortuna esiste anche quella che noi definiamo la “buona Giustizia” con la “G” maiuscola. Edson Tavares 30enne originario di Capo Verde, aggressore di Gessica Notaro che era stato lasciato a piede libero dal Gip di Rimini, è stato condannato in secondo grado nel novembre del 2018 a 15 anni, 5 mesi e venti giorni. Pena lievemente calata, rispetto ai 18 anni del primo grado (10 anni nel processo per l’aggressione e 8 in quello per stalking), ma che sostanzialmente conferma la gravità dei fatti che qualcuno aveva valutato in maniera più superficiale .

L’ avvocata di parte civile Elena Fabbri, aveva commentato duramente: “Per Gessica è un fine pena mai, ogni giorno che si guarderà allo specchio non vedrà più se stessa, ha subìto un omicidio di identità”. Resta da chiedersi cosa avrebbero detto e fatto il Gip Cantarini ed il giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona se qualcuno avesse fatto la stessa cosa, cioè sfregiare con l’acido la faccia di una loro moglie, o di una loro figlia. Ce lo chiedono i lettori e noi ci associamo a loro. Chissà cosa ne pensano il ministro di Giustizia, ed il Csm. Chiedere un’opinione è forse diventato un reato ? Redazione CdG 1947

Vietato ironizzare sul gip in televisione. Condanna con risarcimento per Costanzo. Il conduttore si era "complimentato" con la toga che non aveva disposto gli arresti per l'uomo che sfregiò con l'acido Gessica Notaro. Massimo Malpica il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Guai a criticare i magistrati. Chiedere per conferma a Maurizio Costanzo, condannato a un anno di reclusione per sarcasmo. O, per essere precisi, condannato per diffamazione di un Gip, aggravata dal mezzo radiotelevisivo. Il giudice in questione è Vinicio Cantarini, in servizio al tribunale di Rimini. Il caso risale a cinque anni e mezzo fa, aprile 2017. Ospite del salotto tv di Costanzo era Gessica Notaro: la ragazza tre mesi prima, il 10 gennaio, era stata sfregiata con l'acido dal suo ex fidanzato, Edson Tavares, che già prima di quell'ultimo gesto aveva mostrato la sua indole violenta. Proprio Gessica, raccontando la sua terribile esperienza al presentatore, aveva ricordato come fosse stato proprio quel gip, in seguito a una precedente denuncia per stalking contro Tavares, a chiedere per l'uomo il solo divieto di avvicinamento e l'obbligo di dimora notturna e non, come richiesto dal pm, gli arresti domiciliari.

«L'ho denunciato sperando che la facesse finita. Vorrei sapere perché il pm ha deciso che andava arrestato e invece il gip gli ha dato solo gli obblighi domiciliari. Il giudice ha sentito solo la versione di Tavares, non la mia», s'era sfogata la ragazza. Costanzo aveva preso le sue parti attaccando il gip. «Complimenti a questo gip aveva detto vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm: fate i complimenti da parte mia al gip che ha deciso questo». E aggiungendo, in collegamento telefonico con l'allora Guardasigilli Andrea Orlando, il suggerimento di indagare sul giudice.

Il nome di Cantarini, in realtà, non era stato fatto, anche se il riferimento era inequivocabile. E nemmeno l'arresto almeno dal punto di vista cronologico, e senza considerare l'effetto dissuasorio di una misura più severa - avrebbe cambiato le cose, considerato che Tavares sarebbe tornato libero il 30 dicembre 2016, undici giorni prima del suo attacco con l'acido alla ragazza. Proprio il gip aveva rimarcato questo punto, sottolineato anche nell'alzata di scudi a sua difesa dell'avvocatura riminese e dell'Anm, che oltre a rimarcare la correttezza formale del provvedimento adottato dal gip (Tavares non aveva violato quel divieto di avvicinamento), avevano condannato la «gogna mediatica» contro il collega, risparmiando solo Gessica dalle critiche. Ma all'interessato non era bastata la difesa di casta. Cantarini aveva diffidato Costanzo, e quest'ultimo lo aveva invitato in trasmissione, a maggio 2017, suggerendo di chiudere la questione offrendogli il diritto di replica: «Sono disponibile ad ospitarla per ascoltare la sua versione», aveva spiegato il conduttore. Ma Cantarini aveva in mente una diversa soluzione. Il giudice riminese ha preferito querelare Costanzo per quei «complimenti» sarcastici, e il 30 novembre scorso un altro giudice, Maria Elena Cola del tribunale di Ancona, ha dato ragione al collega. Stabilendo che è stato vittima di diffamazione aggravata, condannando Costanzo - che ha 85 anni - a un anno di reclusione, e infine subordinando la sospensione della pena al pagamento di un risarcimento danni a Cantarini di 40mila euro.

Caso Montesano, così la Rai si è inginocchiata al politicamente corretto. Sono tantissimi i dubbi che gravitano attorno all'esclusione di Enrico Montesano da Ballando con le stelle: ecco cosa non torna. Francesca Galici su Il Giornale il 21 Novembre 2022.

Il "caso Montesano" ha riempito le cronache dell'ultima settimana e non poteva essere diversamente, vista l'eco mediatica scatenata dalla t-shirt dell'attore. Certo, non una t-shirt qualunque, ma quella recante il logo della X Mas, uno dei corpi di combattimento più famosi della storia del nostro esercito, che durante la Seconda guerra mondiale si schierò al fianco dei tedeschi contro Alleati e partigiani. Enrico Montesano ha indossato la t-shirt durante le prove e le immagini sono state trasmesse nel corso della puntata in diretta di sabato 12 novembre. Il giorno dopo è esploso il caso, lui è stato squalificato, e sono tante le domande che ci si pone.

Una delle prime parte da una considerazione: le immagini trasmesse durante la diretta erano registrate e il "girato" (come si chiama in gergo) è necessariamente passato davanti a decine di occhi prima di finire in prima serata su Rai 1. Possibile che nessuno si sia accorto? Può essere credibile che tra tutti quelli che hanno visionato le immagini, nessuno abbia riconosciuto quel logo, o si sia chiesto, anche solo per scrupolo, cosa rappresenta? Non fosse altro che in Rai esiste un codice etico molto rigoroso, che vieta esibizioni politiche di tutti i tipi ma non solo, perché in un programma come Ballando con le stelle, sono vietati anche i loghi di marchi che non siano quelli di eventuali sponsor, nell'ottica di evitare la pubblicità occulta.

"L'etichetta di nostalgico non l'accetto, adesso basta": lo sfogo di Montesano

Seconda considerazione: come fatto notare dall'avvocato Giorgio Assumma, il logo della X Mas è stato esibito davanti alle più alte cariche istituzionali, anche alla presenza del presidente della Repubblica quando l'inquilino del Quirinale era Giorgio Napolitano. A quel vessillo sono stati fatti i più alti onori istituzionali, quindi su quale base la Rai ha deciso di squalificare Enrico Montesano dalla competizione? E a questo si collega il ragionamento fatto dall'avvocato, che probabilmente risponde alle domande precedenti: "Se l'esposizione di tale simbolo è stata ritenuta lecita e degna di rispetto dalle alte sfere della presidenza della Repubblica e dai vertici delle forze armate, come poteva destare sospetti di illegalità e di offesa ai valori della Repubblica democratica nell'attore Montesano e nei tecnici della Rai addetti alla vigilanza sulla trasmissione?".

Durante l'ultima puntata, Milly Carlucci è rapidamente tornata sull'argomento, dicendo di credere nella buona fede del concorrente e di essere "umanamente dispiaciuta per l'assenza di Enrico". La conduttrice, che del programma è anche direttore artistico, ha detto di essersi uniformata al regolamento Rai, scaricando qualunque responsabilità sull'esclusione che, evidentemente, non arriva dalla produzione della trasmissione. Dal canto suo, ospite de La Zanzara, Montesano è più agguerrito che mai: "Mi sento offeso, mi devono chiedere scusa. Devo essere riabilitato. Non ho questo tipo di storia. C'è il no logo a procedere". L'attore sperava in una sua riammissione al programma, ma le parole di Milly Carlucci in diretta sabato sembrano chiudere ogni possibilità di questo tipo.

"Altro che una maglietta". Mughini smonta l'ipocrisia sinistra su Montesano

Da più parti, proprio in ragione delle considerazioni avanzate dal legale di Montesano e dalle evidenze dei fatti, si avanza il sospetto che l'esclusione dell'attore non sia altro che l'ennesimo atto di un politicamente coretto imperante. Davanti alle sollevazioni social, alimentate dalla denuncia di Selvaggia Lucarelli, la Rai non ha avuto il polso di prendere la questione di petto, spiegando il motivo per il quale nessuno, prima della polemica, aveva considerato offensivo quel logo. Ha preferito chinare la testa davanti alla "dittatura" social, quella composta da un manipolo di utenti capaci di fare un gran casino, minacciando ipotetici boicottaggi agli sponsor e agli ascolti. E stavolta la Rai si è genuflessa, facendo una non bella figura.

Giampiero Mughini per Dagospia il 21 novembre 2022.

Caro Dago, sono uno di quelli che nell’andare a leggere un articolo o un libro del professor Luca Ricolfi non ne vengono mai delusi. Vale per quest’ultimo suo “La mutazione” (Rizzoli, 2022), un libro che ha per attirante sottotitolo “Come le idee di sinistra sono migrate a destra”. 

Ne è sugosissimo il capitolo centrale, quello in cui Ricolfi documenta come la difesa anti censoria delle libertà di pensiero e d’arte che in Italia e altrove era stata una prerogativa particolarissima della sinistra viene adesso smentita e arrovesciata dagli stilemi su cui è fondata la cancel culture, e seppure in Italia non siamo agli orrori di cui questo atteggiamento si è macchiato negli Usa (e non solo). 

Lì dove – in Texas – è appena nata un’università che difende la libertà di pensiero (di tutti i pensieri) all’insegna di parole così: “Quattro quinti degli studenti di dottorato statunitensi sono disposti a ostracizzare gli scienziati di opinioni conservatrici. Non abbiamo tempo di aspettare che gli accreditati atenei si correggano da soli. Per questo ne fondiamo uno noi”.

Il fatto è, scrive puntualmente Ricolfi, che nei campus universitari americani sono all’ordine del giorno le richieste di no platforming (non fornire il palco), disinvitation (cancellare un precedente invito) se non addirittura di licenziare professori le cui convinzioni non siano politicamente corrette. Da brividi. 

A partire dal 2015 i casi di disinvitation tentati negli atenei americani sono stati ben 200 di cui 101 riusciti. E comunque anche quando gli eventi sgraditi non vengono cancellati, gli studenti che chiameremo di sinistra bloccano fisicamente l’accesso alle aule universitarie o intonano canti o percuotono tamburi in modo da impedire l’ascolto di opinioni a loro invise.

Talvolta è addirittura furibondo il fuoco di sbarramento, sui social o su giornali universitari, contro autori classici che rispondono al nome di Omero, Dante, Shakespeare, Cartesio o contro il ben di dio di scrittori moderni quali Melville, Conrad, Fitzgerald, Hemingway. E’ stato bersagliato un pittore immane quale Paul Gauguin che ebbe il torto di avere una relazione sessuale con una quattordicenne polinesiana, un torto simile a quello rinfacciato al nostro Indro Montanelli partito volontario a combattere nell’Etiopia degli anni trenta. 

Il culmine dell’abiezione che mira a cancellare il reale com’è stato e sostituirlo con un reale a misura delle odierne minchionerie ideologiche è la volta in cui la “Carmen” di Georges Bizet è stata riscritta col farla finire che è la donna a uccidere l’uomo ed evitare così di mettere in scena un “femminicidio”. 

Non so dire se non sia ancora peggio quello che è accaduto tanto nelle carceri americane che in quelle del Canada. Che degli individui nati uomini e che volevano diventare donne ma che ancora  mantenevano gli organi maschili fossero stati reclusi nelle stesse celle in cui erano le donne: numerosi i casi di stupro lì in carcere.

No, in Italia non siamo ancora a questo. E pur tuttavia, scrive Ricolfi, ci sono indirizzi allarmanti di cui è impossibile non tener conto. Confesso che non avevo mai letto il testo del decreto Zan contro l’omotransfobia, decreto bocciato in Senato dopo essere stato approvato alla Camera. 

Ricolfi punta l’ingranditore sull’articolo 4 di quel decreto, là dove si prospettava la possibilità di punire penalmente “opinioni” che nella valutazione del magistrato fossero “idonee” al compimento di atti discriminatori e violenti.

Una dizione che spalanca il campo all’azione penale contro le opinioni difformi tanto da suscitare il dissenso di un parlamentare del Pd notoriamente omosessuale, l’ex giornalista dell’ “Espresso” e senatore Tommaso Cerno, oltre che di magistrati quali Giovanni Fiandaca e Carlo Nordio fra gli altri. A giudizio di Ricolfi troppo pochi, data la rilevanza giuridica di quell’articolo.

La sinistra? Dalla libertà alla censura. Si potrebbe avere l'impressione che la cancel culture sia un fenomeno montato di recente e che abbia lambito l'Europa come un'onda lunga partita dagli Usa. Matteo Sacchi su Il Giornale il 22 Novembre 2022.

Si potrebbe avere l'impressione che la cancel culture sia un fenomeno montato di recente e che abbia lambito l'Europa come un'onda lunga partita dagli Usa. Indubbiamente la nuova censura preventiva che impera nelle serie, nei film, e persino il livellamento storiografico e scientifico nei temi di dibattito che arrivano dagli Stati Uniti hanno il loro peso. Però esiste una radice tutta italiana al fenomeno. Una radice che viene da sinistra. Per rendersene conto niente di meglio del nuovo libro di Luca Ricolfi: La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra (Rizzoli). Il sociologo e politologo nel libro da lungo spazio all'evoluzione, tutta interna alla sinistra italiana, che ha portato molti dei suoi membri a diventare «Da libertari a censori».

Ricolfi prende atto del fatto che il nostro Paese negli anni Cinquanta e Sessanta vivesse in un clima molto rigido e bacchettone: «Sotto la censura caddero innumerevoli libri, opere teatrali e cinematografiche, programmi televisivi e radiofonici». Per capirci, l'abolizione della censura teatrale arrivò solo nel 1962 con il governo Fanfani. Per il cinema il controllo durò, occhiuto, molto più a lungo. Inutile elencare episodi d'epoca come i famosi mutandoni delle sorelle Kessler nel 1961, basti dire che gli intellettuali dell'epoca, in larga parte orientati a sinistra, si schierarono compatti sempre a favore della libertà d'espressione. Il risultato fu quello che Ricolfi definisce «l'epoca d'oro della satira» che va dal 1976 al 2005. Si andò da Quelli della notte a L'ottavo nano. Poi qualcosa è iniziato a cambiare lentamente. Natalia Ginzburg lo aveva già denunciato negli anni Ottanta: «È stato decretato l'ostracismo alla parola sordo e si dice non udente». Erano arrivate quelle che la Ginzburg chiamava «parole artificiali» fabbricate con «motivazioni ipocrite». Ma questi caveat caddero nel vuoto, anzi pian piano gli intellettuali di sinistra iniziarono a sposare questa nuova censura. Iniziarono a sposare quella che Calvino chiamava «antilingua». Su questo substrato si è innestato il fenomeno del politicamente corretto arrivato dagli Usa che è diventato quasi inarrestabile a partire dal 2013, in un crescendo di aggressività verso chi non si piega ai suoi dettami. Siamo arrivati al «follemente corretto» e a quello che ad alcuni di coloro che sono rimasti a sinistra pare un paradosso. Ovvero che la difesa della libertà di parola sia diventata un appannaggio della destra. Persino posizioni considerate un tempo femministe come la «difesa dell'utero» possono tranquillamente essere considerate ormai «anti lgbtq+». Risultato finale, da libertari a censori, seguendo il ragionamento di Ricolfi il passo è stato breve. E ora la libertà è più facile trovarla svoltando a destra.

Sinistra, l'ultimo delirio: "Parola fascista", cosa vogliono vietarci. Massimo Arcangeli su Libero Quotidiano il 18 novembre 2022

«Italiani, boicottate le parole straniere» è lo slogan con cui fu lanciata dal regime fascista, all'inizio del secondo conflitto mondiale, l'iniziativa di legge contro i forestierismi; per ironia della sorte, però, boicottare era a sua volta uno stranierismo, a tal punto mimetizzato e "internazionalizzato", osservò un giornalista sul Resto del Carlino (29 gennaio 1941), «da sgusciare persino dalle mani dei più acuti e vigili puristi». La lingua, se non stiamo attenti, ci si ritorce contro, e quando non si ha la benché minima coscienza culturale di quel che si dice, quando l'oggetto del discorso è una parola o un'espressione di cui s' ignora perfino l'abbiccì, allora si può superare anche il senso del ridicolo. Non bastava nazione, ora pure bivacco maleodora di fascismo.

CENT' ANNI FA

È il 16 novembre 1922. Benito Mussolini, a poco più di due settimane dalla marcia sulla Capitale, tiene alla Camera da presidente del Consiglio incaricato, prima di ottenere la fiducia, il "discorso del bivacco": «Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. [...] Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. [...] Potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto. [...] Ho costituito un Governo di coalizione e non già coll'intento di avere una maggioranza parlamentare, della quale posso oggi fare benissimo a meno, ma per accogliere in aiuto della Nazione boccheggiante quanti, al di sopra delle sfumature dei partiti, la stessa Nazione vogliono salvare» ("Atti parlamentari.

Camera dei deputati", CLXXXVIII, Tornata di giovedì 16 novembre 1922. Comunicazioni del Governo, p. 8390 sg.). 

Avrebbe replicato fra gli altri il penalista toscano Giovanni Rosadi, esponente della destra liberale: «Qui, in quest' aula che per poco non avete convertito in un bivacco di camicie nere, quasi non siete che voi, a imitazione dei Re di Francia, ciascuno dei quali soleva dire "Lo Stato sono io, dopo me non c'è che il diluvio"». Ora, secondo Sergio D'Angelo e Rosario Andreozzi, due consiglieri di sinistra del Comune di Napoli, la parola bivacco ricorderebbe un altro discorso del Duce, quello pronunciato il 25 gennaio 1925, a più di sei mesi dall'omicidio di Giacomo Matteotti, e dovrebbe per ciò stesso essere espunta dall'art. 10 del Regolamento della polizia municipale partenopea in materia di sicurezza urbana: «È vietato il bivacco, si legge, ovvero lo stazionamento, anche occasionale, consumando cibi e o bevande, ove presenti sui sagrati dei luoghi di culto, dei monumenti e in prossimità di palazzi ed edifici di interesse artistico-monumentale».

La cosa più incredibile della vicenda è il fatto che il Comune di Napoli l'oggetto di quel fascistico bivacco, una vecchia e innocua parola di origine francese (bivouac, bivac) casualmente intercettata dal Fascismo, non lo sta neanche avallando ma intende invece contrastarlo. Nel discorso alla Camera del 25 gennaio 1925, in cui non fa peraltro alcun cenno a un bivacco (dice solo, in apertura: «Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere a rigore di termini classificato come un discorso parlamentare. Può darsi che alla fine qualcuno di voi trovi che questo discorso si riallaccia, sia pure traverso il varco del tempo trascorso, a quello che io pronunciai in questa stessa aula il 16 novembre»), Mussolini dice a un certo punto: «Il mio discorso sarà [...] tale da determinare una chiarificazione assoluta. Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei compagni di viaggio ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada con gli stessi compagni può essere ancora percorsa nell'avvenire». Compagno? Parola fascistissima. Bandiamola. 

Paolo Di Stefano per il “Corriere della Sera” il 6 novembre 2022.

«E poi ci sono loro: i libri fantasma - quelli che, dopo una vita più o meno effimera, spariscono dalla circolazione per non riapparire mai più»: sono libri di bassa tiratura, in genere pubblicati a spese dell'autore, dunque introvabili o quasi. 

Ai libri che, «come gli spettri, esistono e non esistono» Andrea Kerbaker ha dedicato il suo nuovo saggio narrativo, La vita segreta dei libri fantasma (Salani). Va da sé che questi spettri abitano, quasi tutti, nella Kasa dei Libri di Kerbaker, a Milano, dove si trovano rarità di ogni tipo, intere biblioteche e carte autografe di scrittori e critici del secolo scorso.

Si inizia con un fantasma mancato, Auden, che dopo aver ripudiato le poesie giovanili impedendone una ristampa, nel 1964 ci ha ripensato e ha concesso che entrassero in una antologia della Penguin, ma con una avvertenza: «Il Signor W.H. Auden considera queste cinque poesie una spazzatura che si vergogna di aver scritto». 

Mica male come inizio. E mica male la fine, con Dino Campana. La vicenda è nota ed è una delle più drammatiche vicende della storia editoriale. 

Il più lungo giorno era il titolo del manoscritto «originario» dei Canti orfici, che il poeta matto Campana nel dicembre 1913 consegnò a Giovanni Papini e Ardengo Soffici, presentandosi logoro e stracciato nella redazione della rivista «Lacerba» dopo aver raggiunto, forse a piedi, Firenze.

Seguì una serie di lettere senza risposte e poi un grottesco rimpallo di responsabilità tra i due illustri critici-scrittori al termine del quale il manoscritto venne dichiarato irrimediabilmente perduto. 

Di quelle carte il povero Dino non possedeva alcuna copia; dunque, dopo aver minacciato di vendicarsi e di raggiungere con un coltellaccio i due inqualificabili letterati, si rifugiò tra i monti per riscrivere il suo libro «a memoria» (questo, almeno, è il suo racconto). Fatto sta che il libro, con il titolo che conosciamo, sarebbe uscito, pressoché invisibile, a spese dell'autore nel giugno 1914 costringendo Campana a circolare nei caffè di Firenze e Bologna per venderne qualche copia.

Tuttavia, improvvisamente (e misteriosamente) nel 1971 il quaderno perduto venne ritrovato in una soffitta di casa Soffici con grande (e sospetta) sorpresa della moglie di Ardengo. 

Mario Luzi diede notizia della scoperta sul «Corriere» e nel 1973 una preziosa edizione anastatica avrebbe riprodotto in due volumi il manoscritto «originario» che aveva tanto fatto penare Campana. Tiratura di mille copie numerate.

Sotto il titolo Oddio, cosa ho scritto , Kerbaker colloca alcune affascinanti storie di pentimento essenzialmente politico. Il ventunenne Vitaliano Brancati si vergognò di due fascistissime opere teatrali, così come Indro Montanelli nel 1936 avrebbe ripudiato per lo stesso motivo un suo romanzo, Primo tempo. 

E poi, ecco un Ignazio Silone che parla solo tedesco, perché i suoi cinque racconti pubblicati nel 1934 a Zurigo con il titolo Die Reise nach Paris («Il viaggio a Parigi»), prima di scomparire nel nulla, uscirono solo in traduzione (anche francese, olandese e inglese) e mai in italiano. 

La cosa sorprendente è che George Orwell curò per la Bbc una versione radiofonica di uno dei testi, La volpe. E nel 1992, quando il paese di Silone, Pescina, si propose di pubblicare in italiano quei racconti remoti dovette farli ritradurre dal tedesco perché gli originali erano andati perduti.

Sono tutte strane storie umane, piccole e grandi, quelle che hanno per protagonisti i libri rinnegati, a torto o a ragione, da autori illustri: J.D. Salinger, Stephen King (che ritirò il suo libro perché ispirava feroci atti di violenza) fino a (udite udite!) l'allora ministro Roberto Speranza, il cui pamphlet sulla «sanità circolare», con il suo titolo ottimistico (Perché guariremo) è finito in magazzino non appena stampato da Feltrinelli, in piena pandemia. 

I motivi strettamente letterari, insomma, sono più rari delle ragioni di opportunità politica, compresa la censura: quella che sotto il regime suggerì a Natalia Ginzburg di adottare uno pseudonimo (Alessandra Tornimparte), come accadde a Giorgio Bassani (Giacomo Marchi) e ad Alberto Vigevani (Tullio Righi), autore del primo romanzo resistenziale, I compagni di settembre , stampato a Lugano nel 1944.

Il capitolo che chiude questa sorta di (quasi) «Trentanovelle» sui libri diletti di Kerbaker riguarda i «libri di letti», quelli che sono scomparsi in virtù del comune (o individuale) senso del pudore. Il caso più surreale? Quando i figli di Mishima impedirono l'uscita del romanzo di un amico del loro padre che ricordava di aver avuto una relazione con il giovane Yukio nel 1951. Erano passati cinquant' anni. Ma il tempo che passa non sempre basta a rendere giustizia ai libri fantasma, diletti e di letti. I più fortunati hanno trovato Kasa.

Da ilfattoquotidiano.it il 20 ottobre 2022.  

Un pubblico ministero onorario del tribunale di Lecce ha chiesto una pena di 6 mesi di reclusione per tre giornalisti de ilfattoquotidiano.it, di La7 e del Tempo perché hanno riferito sulle rispettive testate di una causa di lavoro, quella promossa contro l’ex ministra Teresa Bellanova – peraltro ex sindacalista – dal suo ex addetto stampa. 

L’accusa iniziale per i tre cronisti (rispettivamente Mary Tota, Danilo Lupo e Francesca Pizzolante) era di diffamazione e concorso in tentata estorsione, poi ridimensionata alla sola diffamazione. Il processo è arrivato oggi alle conclusioni del pm onorario ad 8 anni dall’inizio del procedimento, avviato dopo la querela dell’esponente ex del Pd e ora presidente di Italia Viva.

L’ex addetto stampa aveva citato in giudizio l’ex ministra per vedersi riconoscere il giusto inquadramento contrattuale e la giusta retribuzione. Su questa vicenda, di recente, la Corte d’Appello di Lecce ha dato ragione al lavoratore, accogliendo le sue richieste e condannando l’ex ministra Bellanova. Ciononostante, il procedimento penale per diffamazione a mezzo stampa, nel quale è imputato anche l’ex addetto stampa e per il quale la richiesta del pm onorario è di un anno di reclusione, è andato avanti.

La sorprendente richiesta di pena del pm onorario (un cosiddetto Vpo) ha provocato la protesta del sindacato dei giornalisti. In una nota congiunta Raffaele Lorusso (segretario della Federazione della Stampa) e Bepi Martellotta (presidente dell’Assostampa Puglia) definiscono la situazione “paradossale e pericolosa”. “Non solo viene richiesta una condanna per un giornalista che si è limitato a denunciare il mancato riconoscimento dei propri diritti di lavoratore – sottolineano – ma si vogliono colpire anche i cronisti che hanno fatto il loro lavoro, informando correttamente l’opinione pubblica”. 

Per Lorusso e Martellotta “l’auspicio è che il pm onorario che ha formulato le richieste di condanna non abbia avuto il tempo di leggere la sentenza della Corte d’Appello che ha accolto il ricorso dell’ex addetto stampa dell’ex ministra Bellanova e che, in sede di decisione, il giudice monocratico sappia riconoscere le ragioni di chi si è battuto per i propri diritti e di chi ha esercitato correttamente il diritto di cronaca“.

Per giunta, spiegano ancora i dirigenti sindacali dei giornalisti, “non è tollerabile, che dopo che la Corte costituzionale ha riconosciuto l’inammissibilità del carcere per il reato di diffamazione, considerandolo un pesante deterrente nei confronti del diritto di cronaca, in qualche aula di giustizia ci sia ancora qualcuno che pensi di utilizzare impropriamente le pene detentive non soltanto per punire i giornalisti coinvolti nei processi, ma anche e soprattutto per mandare un messaggio a tutti quei cronisti che continuano a fare correttamente il proprio lavoro, anche procurando qualche dispiacere al potente di turno“.

Se la censura arriva fino alla scienza. Quando pensiamo alla cancel culture di norma ci immaginiamo che minacci la Storia o la Letteratura. Matteo Sacchi il 15 Novembre 2022 su Il Giornale.  

Quando pensiamo alla cancel culture di norma ci immaginiamo che minacci la Storia o la Letteratura. Viene difficile pensare che renda la vita difficile anche a chi si occupa di scienze pure dove i numeri, il dato oggettivo, hanno un ruolo pesante. Eppure l'allarme arriva anche lì. Per rendersene conto basta vedere il livello di preoccupazione emerso negli scorsi giorni ad un convegno all'università di Stanford (sì, proprio l'università di quel famoso esperimento carcerario del 1971 condotto dal professor Zimbardo che tanto ci ha detto sulla natura della violenza).

Bene, in 150 tra docenti e ricercatori hanno fatto il punto sulla libertà di ricerca. Tra loro c'erano l'economista John Cochrane, il geofisico Dorian Abbott, il matematico Sergiu Klainerman, l'economista Tyler Cowen, lo storico Niall Ferguson... e decine di altri luminari meno noti delle scienze dure, ovvero quelle con poco spazio alla discussione e all'interpretazione. Eppure proprio questi scienziati hanno spiegato di trovarsi in grossa difficoltà. Come ha spiegato Common Sense, il giornale online fondato da Bari Weiss, che ha seguito tutti i lavori, le nuove ideologie buoniste nella forma, autoritarie nei fatti, rendono difficile la vita persino ai biochimici o ai biologi. Eppure è così, ad esempio nelle università americane è diventato normale contestare agli insegnanti che i sessi siano due - parliamo di sessi, non di generi o di identificazione di genere - alla faccia delle evidenze biologiche o dei dati. Abbastanza per mettere in crisi concetti base dell'evoluzione come la «selezione sessuale». Il tutto con le università Usa che iniziano anche a negare l'accesso agli scienziati a database che paiono scomodi. Il rapporto tra genetica e comportamenti diventa subito un tema tabù e visto come a rischio di razzismo. La rivista Nature Human Behaviour, per capirci, ha annunciato in un recente editoriale: «Sebbene la libertà accademica sia fondamentale, non è illimitata». Una rivista prestigiosa che dice chiaro e tondo che lo studio della variazione umana è di per se stesso sospetto. Cosa possa comportare tutto questo in termini di evoluzione scientifica non dovrebbe nemmeno essere spiegato... E invece. E invece censura preventiva che arriva ovunque.

Tre giornalisti rischiano il carcere per avere dato una notizia (vera) sulla Bellanova: la Fnsi protesta. Giovanni Pasero su Il Secolo d'Italia il 20 ottobre 2022.  

Sei mesi di reclusione per aver riportato la notizia della causa di lavoro promossa contro l’ex ministra Teresa Bellanova dal suo ex addetto stampa. È la richiesta che un pm onorario del tribunale di Lecce ha formulato al giudice monocratico al termine dell’udienza di dibattimento nei confronti dei giornalisti Danilo Lupo, Mary Tota e Francesca Pizzolante, uno di La7, una del ‘fattoquotidiano.it’ e una del ‘Tempo‘, imputati per diffamazione a mezzo stampa dopo una querela presentata dall’ex ministra Bellanova.

Sulla vicenda dell’ex addetto stampa che aveva citato in giudizio l’esponente di Italia Viva per vedersi riconoscere il giusto inquadramento contrattuale e la giusta retribuzione c’è stata recentemente una sentenza della Corte d’Appello di Lecce che ha accolto le richieste del lavoratore e condannato l’ex ministra. Nonostante tutto, il procedimento penale per diffamazione a mezzo stampa, nel quale è imputato anche l’ex addetto stampa e per il quale la richiesta del pm onorario è di un anno di reclusione, va avanti.

Chiesti 6 mesi di reclusione per i giornalisti del Fatto, Il Tempo e La7

”E’ una situazione paradossale e pericolosa – denunciano il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso, e il presidente dell’Assostampa Puglia, Bepi Martellotta – Non solo viene richiesta una condanna per un giornalista che si è limitato a denunciare il mancato riconoscimento dei propri diritti di lavoratore, ma si vogliono colpire anche i cronisti che hanno fatto il loro lavoro, informando correttamente l’opinione pubblica”.

L’addetto stampa della Bellanova nel frattempo ha vinto la causa

”L’auspicio – continuano l’Fnsi e Assostampa Puglia – è che il pm onorario che ha formulato le richieste di condanna non abbia avuto il tempo di leggere la sentenza della Corte d’Appello che ha accolto il ricorso dell’ex addetto stampa dell’ex ministra Bellanova e che, in sede di decisione, il giudice monocratico sappia riconoscere le ragioni di chi si è battuto per i propri diritti e di chi ha esercitato correttamente il diritto di cronaca”.

”Non è tollerabile, che dopo che la Corte costituzionale ha riconosciuto l’inammissibilità del carcere per il reato di diffamazione, considerandolo un pesante deterrente nei confronti del diritto di cronaca, in qualche aula di giustizia ci sia ancora qualcuno che pensi di utilizzare impropriamente le pene detentive non soltanto per punire i giornalisti coinvolti nei processi, ma anche e soprattutto per mandare un messaggio a tutti quei cronisti che continuano a fare correttamente il proprio lavoro, anche procurando qualche dispiacere al potente di turno”, conclude la nota.

L’AGCOM si è accorta che i telegiornali hanno censurato i partiti anti-sistema. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 5 ottobre 2022.

L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCOM) ha avviato una procedura d’infrazione nei confronti di Rai, Mediaset, La7 e Sky per non aver rispettato la legge sulla par condicio (legge 22 febbraio 2000, n. 28), che disciplina la parità di accesso ai mezzi di informazione nei periodi elettorali. Un po’ tardi, dal momento in cui le elezioni si sono concluse e niente potrà cambiarne i risultati, incluso il mancato ingresso in Parlamento di tutti i nuovi partiti di opposizione (o “anti-sistema”) che, dopo aver affrontato la sfida della raccolta firme in piena estate, si sono ritrovati con una manciata di secondi per promuovere le proprie idee sui media nazionali. Ad esempio nei Tg Rai, nella settimana precedente le elezioni, Vita ha ottenuto in tutto 43 secondi di diritto di parola. È andata “meglio” a Italia Sovrana e Popolare, Italexit e Unione popolare che hanno collezionato rispettivamente 59, 62 e 82 secondi. Il tutto a fronte dei 41-43 minuti a disposizione di Lega, FdI, Pd e M5S. 

La mancata parità di accesso ai mezzi di informazione nei periodi elettorali non ha riguardato esclusivamente la Rai, dal momento in cui sulle reti Mediaset, La7 e Sky non si sono registrate tendenze diverse. I canali berlusconiani hanno dedicato 12 minuti di microfono agli esponenti di Italia Sovrana e Popolare, 8 a quegli di Italexit, 5 per Unione Popolare, poco più di 2 minuti ciascuno di interviste a esponenti di Vita, Partito Comunista Italiano e Alternativa per l’Italia. Su La7 il partito guidato da Gianluigi Paragone ha ottenuto 52 secondi di diritto di parola, mentre la formazione di Luigi De Magistris si è fermata a 39 secondi. Censurati Vita, Italia Sovrana e Popolare, il Partito Comunista Italiano e Alternativa per l’Italia. In un comunicato stampa, AGCOM ha annunciato l’avvio dei procedimenti sanzionatori nei confronti delle principali emittenti nazionali, aggiungendo che “sono stati riscontrati diversi scostamenti nei tempi di parola, sia in termini di sottorappresentazione che di sovrarappresentazione, fruiti da ciascun soggetto politico”. Una procedura colpevolmente tardiva, dal momento in cui il Garante ha scelto di occuparsi delle elezioni a giochi fatti, nonostante già a luglio l’associazione per la libertà di stampa Articolo 21 avesse denunciato le violazioni evidenti e palesi alle regole della par condicio.

La funzione principale della legge sulla par condicio è di fare in modo che i partiti più piccoli abbiano i giusti spazi e non siano schiacciati da chi dispone di risorse e mezzi maggiori. Il testo introduce tempistiche differenziate per stabilire le modalità di rappresentazione dei soggetti in campo, secondo criteri che devono rispettare il fine ultimo della legge: “la garanzia e l’imparzialità rispetto a tutti i soggetti politici” (articolo 1). Alla luce di tali considerazioni e dei numeri impietosi riportati da AGCOM appare evidente la violazione della legge 22 febbraio 2000, n. 28. Dal 18 al 23 settembre, sui Tg Rai, i partiti d’opposizione hanno avuto pochi minuti per illustrare i propri programmi e tentare di scardinare il fenomeno del “voto utile”, quindi il voto dato al candidato che si ritiene possa vincere invece che al candidato più gradito. Un meccanismo che, unitamente alla soglia di sbarramento al 3%, favorisce i grandi partiti e scoraggia gli elettori con lo spettro di un voto sprecato. Si pensi che nel prossimo Parlamento non saranno rappresentati oltre un milione e mezzo di voti poiché indirizzati alle forze “anti-sistema” che non hanno superato la soglia di sbarramento. [di Salvatore Toscano]

Notizie taciute o manipolate. In Italia il sistema informazione non è in crisi: ha l’elettroencefalogramma piatto. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Settembre 2022 

Sui grandi fatti che succedono in Italia e nel mondo, le informazioni che ci vengono dai giornali sono scarse e perlopiù manipolate. Questo è dovuto, soprattutto in Italia, alla caduta verticale della professionalità nel giornalismo, a tutti i suoi livelli. I giornalisti negli ultimi vent’anni hanno perduto la loro indipendenza e le ideologie sono state sostituite da grandi sistemi di potere che sono in grado di controllare in modo minuzioso e profondo il flusso delle notizie e di realizzare la loro faziosa correzione. I giornalisti che non accettano la nuova legge sono messi ai margini. Comunque esclusi dalla macchina, che deve essere perfetta e oliata. È un problema grandissimo, ed è probabilmente il nodo essenziale nella vicenda della democrazia. Vorrei ragionare un momento su cinque fatti recenti. Il vertice di Samarcanda, l’avvertimento di ieri di Berlusconi a Salvini e Meloni, il discorso del papa sulla guerra, i lunghissimi funerali della regina d’Inghilterra, le sanzioni alla Russia.

1) Partiamo da Samarcanda. Cioè dalla riunione di un gruppo di paesi radunati attorno a Russia e Cina, che stabiliscono tra loro una alleanza e una collaborazione sul piano economico e strategico. Non è una riunione tra amici. Chi vi partecipa rappresenta circa il 50 per cento della popolazione mondiale. E ha una forte influenza politica ed economica su un altro 25 per cento della popolazione mondiale. Al gruppo di Samarcanda, che raduna una trentina di paesi, hanno chiesto di aderire un’altra ventina di paesi. L’alleanza parte dall’Asia ma sta per allargarsi a vari altri continenti. Bene, i giornali non vi parlano di questo. Non vi dicono cosa è successo a Samarcanda. Non vi spiegano che oggi esistono due forti blocchi nel mondo, uno molto largo, questo di Samarcanda, e uno più piccolino, quello che si è stretto attorno a Washington (e del quale fa parte l’Italia) che rappresenta circa un miliardo di persone, cioè, più o meno, il 15 per cento della popolazione mondiale. Cosa dicono i giornali? Che Putin è stato umiliato. Stop. L’ordine di scuderia, come sempre, lo dà il “Corriere”, che ormai è diventato una specie di “Stato Guida”.

Nella sua edizione online lancia la parola d’ordine: umiliato. Perché? Perché la Cina non ha dichiarato guerra all’Ucraina. Ma era questo il tema di Samarcanda? No. Non era neppure all’ordine del giorno l’Ucraina. E qualcuno mai aveva detto che la Cina potesse intervenire militarmente in Ucraina? No, mai. Nessuno. E allora? E allora è così. La scelta è quella che in politica internazionale due cose sono importanti. La prima è far credere che il mondo sia l’occidente, solo l’Occidente, nient’altro che l’Occidente. Intendendo per Occidente gli Usa, che comandano, il Giappone, che sta ai margini, e poi il Canada, l’Australia e l’Europa, che abbozzano. La seconda cosa importante è che Putin è il male assoluto, e che perde, perde, e perde. Non è ammessa nessun’altra lettura dei fatti del mondo. Nessuna domanda. In fila, amici giornalisti, passo, cadenza e silenzio.

2) L’altra mattina i partiti di Salvini e Meloni si sono dissociati, nel Parlamento europeo, dai partiti europeisti e hanno votato a difesa di Viktor Orban, il leader ungherese che l’Europa vuole condannare ed escludere perché il suo regime non è considerato democratico. Alle sette di sera una replica clamorosa di Berlusconi: se il nuovo governo non sarà europeista Forza Italia non ne farà parte. Terremoto nella destra. Rischio evidente di rottura. Colpo di scena clamoroso nella campagna elettorale e nello scenario politico. Di gran lunga la più importante notizia politica degli ultimi due mesi. Bene, la notizia è scelta come prima notizia solo da cinque giornali, (tutti gli altri la ignorano, o la mettono piccolina piccolina, con lo stesso rilievo di una intervista a Speranza), ma di questi cinque giornali, ben quattro, la titolano in modo che non si capisca.

Ricopio i titoli: Corriere: “Sfida su Orban e i soldi russi”. Di chi, tra chi, perché? boh. La Stampa: “ “Meloni e Salvini con Orban. Vergogna”. Chi dice questa frase? Letta. La Verità: “ La Ue noce alla democrazia”. Il manifesto: “L’Europarlamento condanna Orban”. L’unico giornale che spiega cosa è successo, stavolta, è Repubblica: “La destra si spacca su Orban”. Perché? Come si spiega questo annebbiamento generale? Io ho l’impressione che si debba a un fatto molto semplice: mancanza di ordini. La notizia di Berlusconi che minacciava di rompere con gli alleati è arrivata a sera ed era imprevista. Di norma le notizie impreviste sono il pane per i giornalisti. Creano un clima di eccitazione nelle redazioni. Ammenoché… Ecco, ammenoché l’ordine non sia quello di stare sempre coperti. Mi ricordo che trent’anni fa all’Unità noi giovani ci impegnammo in una battaglia feroce. Che vincemmo. Battaglia per rompere lo schema di chi voleva piegare le notizie alla linea del partito. Del Pci. E dunque essere prudenti, traccheggiare. Mi ricordo che quando arrivò la notizia, alle sette di sera, che stava cadendo il muro di Berlino – io ero il caporedattore – molti vecchi giornalisti vennero da me a pregarmi di dare la notizia con sobrietà, titolo piccolo e notizie vaghe. Mi dissero: poi domani ci torniamo dopo aver sentito il partito. Non gli diedi retta e titolai a tutta pagina, come era ovvio, a caratteri cubitali: “È caduto il muro di Berlino” . Siamo tornati all’ordine di idee di quei vecchi giornalisti. Pudenza. Se ci abbiamo messo qualche mese per diventare meloniani e preparaci al nuovo potere – dicono – non sarà certo una notizia della sera a far saltare tutto.

3) Il papa l’altra sera ha parlato di molte cose. E, come è sua abitudine, si è pronunciato di nuovo contro la guerra e ha chiesto iniziative di pace. A chi gli ha chiesto se però gli ucraini avessero il diritto alla difesa, ha risposto – come è ovvio – di sì. E quello è diventato il titolo di tutti i giornali. “Il papa dice sì alla linea di armare gli ucraini”. È una forzatura giornalistica? No, è il rovesciamento del pensiero del papa. Per quale ragione? Perché sulla questione della guerra in Ucraina, e della nuova guerra fredda tra Usa e Urss, la stampa italiana è militarizzata. Chi trasgredisce, una settimana di consegna.

4) Il mondo intero – scrivono tutti – celebra reverente la regina. Il mondo intero? Beh, diciamo una parte dell’Occidente. Nei restanti quattro quinti del mondo, della regina non frega niente a nessuno. Ma ormai è così: il mondo è occidente, il resto non conta. Sai come dicevano gli inglesi, una volta? “Burrasca sulla Manica, l’Europa è isolata”. Beh, siamo a quel punto.

5) Le sanzioni. Le sanzioni alla Russia le ha decise l’America. L’Europa ha obbedito. Le sanzioni sicuramente colpiscono la Russia ma, probabilmente, in grado minore rispetto al danno che provocano in Europa. E possono portare alla crisi economica e sociale più grave nella storia europea dopo quelle delle due guerre mondiali. Chi ci guadagna, dalle sanzioni? Gli Stati Uniti, sicuramente, e alcuni singoli stati europei, per esempio la Norvegia, che fa i miliardi con i prezzi dell’energia. Io dico semplicemente che il sistema informazione, in Italia, non è in crisi: ha l’elettroencefalogramma piatto. Il problema non sono le fake news. È il regime giornalistico. E in queste condizioni è molto difficile, molto, molto difficile, far funzionare la democrazia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Milano, il lettore ignoto e le 2mila lettere spedite (ogni giorno) al «Corriere» contro l’indifferenza. Giangiacomo Schiavi il 22 Agosto 2022 su Il Corriere della Sera.  

Una dopo l’altra, rovesciate su un tavolo, fanno duemila: duemila lettere, scritte a mano, una al giorno, e spedite al Corriere, lasciando mittenti inesistenti, nomi improbabili: ora è un medico, ora un avvocato, ora un professore. Buzzati ne farebbe un racconto fantastico 

Le lettere quotidiane giunte al Corriere in questi anni

Una dopo l’altra rovesciate su un tavolo fanno duemila: duemila lettere, duemila buste e altrettanti francobolli con regolare timbro postale, scrittura a mano, grafia incerta e un po’ elementare, il nome «Corriere» in stampatello, in corsivo quello del sottoscritto, e infine il testo, senza preamboli o annotazioni varie, che comincia sempre con un esplicito invito: è necessario, è urgente, si deve fare, va cambiata, è indecente, perdurano i disagi, si deve migliorare, bisogna cambiare...

Non conosco chi sia, certamente un lettore, assiduo, anzi affezionato, che crede nel giornale e nel suo potere di influenza, un cittadino attento, di quelli mai cuntent, si dice a Milano, con il pallino del traffico e della viabilità, ossessionato dai bus che viaggiano a vuoto o cambiano i percorsi e dalle linee dei tram troppo lunghe e con le fermate nel posto sbagliato. Puntuale ogni giorno incolla da sei o sette anni il francobollo e imbuca per via Solferino 28, lasciando indirizzi diversi, mittenti inesistenti, nomi improbabili tutti inventati: ora è un medico, ora un avvocato, ora un professore, qualche volta una presunta associazione di pendolari con un numero di telefono che non corrisponde a nessuno.

Nonostante la serialità sospetta e la maniacale fissità degli argomenti fino a ieri eravamo solo in due a sapere uno dell’altro: lui, a segnalare le anomalie della 54, le fermate del 19, i problemi della 925, i doppioni dei percorsi, la sottoutilizzazione del Passante, i guasti della circolare 90-91, l’assurdità della pista ciclabile di viale Monza, il disagio di chi utilizza il bus 56, i mancati controlli delle mascherine sui bus affollati; e il sottoscritto, a indovinare quale sarebbe stata la linea di bus o di tram contestata nell’ennesimo scritto ricevuto, sperando di conoscere prima o poi la vera identità del milite ignoto delle lettere alla cronaca del Corriere .

Che sia un tranviere in pensione, deluso dai tagli alle linee che per anni ha servito? Oppure un passeggero ossessionato dalla maleducazione che impera sui mezzi pubblici? Ogni ipotesi è aperta, anche la più azzardata. È un caso da studiare con lo psicanalista? O un soggetto interessante per un film di Dario Argento? Magari le sue lettere sono solo lo sfogo di un cittadino in cerca di ascolto, una terapia contro le solitudini della metropoli di un signore non più giovane che affida al giornale una speranza per migliorare un servizio. Con un po’ di immaginazione qualcuno potrebbe pensare allo spirito inquieto di un uomo investito da un tram, che non si rassegna al dolore subito e manifesta rabbia attraverso missive di critica seriale. Buzzati ne farebbe un racconto fantastico, potrebbe essere «il fantasma del tram».

Se ho deciso di parlare di lui senza chiedere aiuto almeno a un grafologo per individuare qualche aspetto segreto della sua personalità (una lettera al giorno, sette giorni su sette, anno dopo anno, rappresenta un primato) è perché l’annunciato rincaro del biglietto ha rotto l’argine dentro al quale si conteneva: adesso non c’è più solo il tram numero 5 da ricollocare tra Porta Genova, Stazione Centrale, Piazzale Istria e Niguarda o il bus 73 da limitare in largo Murani. C’è il costo della vita che a Milano sta crescendo a dismisura: il biglietto del tram è diventato per lui la metafora di una città nella quale non si raccapezza più. Le ultime lettere sulla città dei bus e dei tram, dell’Atm e della mobilità dolce, rivelano un pensiero più triste del solito, quasi un distacco accompagnato da un lamento: Milano sta diventando troppo cara, lui non è più tanto giovane, il monologo sull’Atm ha esaurito la funzione terapeutica, c’è un’ angoscia crescente sul futuro sempre più difficile da interpretare. Non è tempo di fantasmi, ma di presenze attive e concrete: a cosa serve una lettera senza una faccia è una storia? Per questo oggi gli rispondo chiunque sia e dovunque sia, invitandolo a uscire allo scoperto per un viaggio vero sul tram o sul bus, per documentare meglio quel che duemila lettere non sono riuscite a fare: vorrei che il lettore fantasma raccontasse il cambiamento di Milano, le multiple destinazioni dei suoi residenti, le solitudini e le paure, ma anche la voglia di vivere e di sorridere oltre le insidie del traffico e della strada. L’Atm potrebbe chiamarlo per una consulenza, farne il simbolo del passeggero inquieto, ma fedele. Nel viaggio c’è la metafora della vita, la partenza, la fuga, l’arrivo, il mito di Itaca e la rinascita della speranza, nutrita dalle cose vissute e dalle memorie ritrovate.

Chissà se l’anonimo lettore leggerà questa pagina del Corriere che lo vede protagonista: in ogni caso merita un grazie, per l’attaccamento ai simboli di Milano (quello al tram è doveroso) e la fiducia nel ruolo dei giornali che possono aiutare cittadini e istituzioni cambiare in meglio le cose. Forse è davvero un fantasma, ma sei invita a non essere indifferenti, dopo duemila lettere, è il benvenuto tra noi.

(ANSA il 22 agosto 2022) - In arrivo un importante aggiornamento per l'algoritmo di ricerca di Google, con cui il colosso penalizzerà i siti e i contenuti che diffondono notizie imprecise, non verificate e bufale. 

Nel mirino dell'azienda c'è soprattutto il clickbait, ovvero la pratica di realizzare contenuti appositamente per guadagnare posizioni e click degli utenti, spesso utilizzando titoli che non rispecchiano la notizia riportata. A partire da oggi, l'aggiornamento denominato Helpful Content Update sarà rilasciato a livello globale per gli utenti di lingua inglese, mentre un secondo è in programma per le prossime settimane in altre lingue.

In un post, l'azienda di Mountain View spiega che saranno premiati i contenuti credibili e che aiutano le persone, "helpful" appunto, oltre che le recensioni più affidabili. "Molti di noi hanno sperimentato la frustrazione di visitare una pagina web che sembra avere quello che stiamo cercando, ma non è all'altezza delle nostre aspettative" scrive Google.

"Lavoriamo sodo per assicurarci che le pagine che mostriamo su Ricerca siano il più utili e pertinenti possibile. Per fare ciò, perfezioniamo costantemente i nostri sistemi: l'anno scorso, abbiamo lanciato migliaia di aggiornamenti per la ricerca basati su centinaia di migliaia di test di qualità, comprese le valutazioni in cui raccogliamo feedback da revisori umani". Con la novità, saranno premiati i contenuti educativi, quelli di intrattenimento, i siti web affidabili per lo shopping e le pagine legate alla tecnologia, prediligendo i siti originali, contenenti recensioni e approfondimenti. 

Caterina Soffici per “La Stampa” il 22 agosto 2022.

Google ha imparato a dire «non lo so». Una buona cosa, se non fosse che la nuova funzione arriva con 24 anni di ritardo, essendo la società californiana nata nel 1998. In questi 24 anni, prima di rendersi conto che i suoi intelligentissimi algoritmi non erano poi così perfetti e soprattutto prima che i capoccioni di Menlo Park decidessero di intervenire, il motore di ricerca più cliccato del mondo, nel rispondere alle domande più assurde, ha diffuso un sacco di notizie false e dato risposte senza senso.

Certo, era programmato per dare una riposta immediata, un frammento capace di inchiodare l'utente e di non farlo andare su altri siti e non si preoccupava della domanda. Se per esempio si immetteva nella barra di ricerca questa frase: «In che anno Snoopy ha assassinato Abramo Lincoln?», l'algoritmo avrebbe risposto tranquillamente «1865», che è la data giusta, ma avrebbe avallato implicitamente l'assassino sbagliato.

Adesso, se la domanda è troppo stupida o palesemente fuorviante, Google farà scena muta. Apparirà la scritta: «Dati assenti». E non mostrerà più frammenti fuorvianti in primo piano. L'annuncio è stato dato da Pandu Nayak, vice presidente della società e responsabile della sezione ricerche, che sulla questione Snoopy-Lincoln e la data 1865 ammette: «Chiaramente non è il modo più utile per visualizzare questo risultato». 

Chiaramente no, infatti. Ma per 24 anni milioni di utenti in tutto il mondo avrebbero potuto cadere nell'inganno che è stato Snoopy ad uccidere Lincoln. Ora il signor Pandu Nayak spiega in un post che annuncia la novità (riportato dal quotidiano britannico The Guardian): «Abbiamo addestrato i nostri sistemi a migliorare il rilevamento di questo tipo di false risposte, che non sono molto comuni, ma ci sono casi in cui non è utile dare una risposta incompleta in primo piano. Con questo aggiornamento - aggiunge - abbiamo ridotto del 40 per cento questo tipo di visualizzazioni».

Meglio tardi che mai, si dirà. Ed è vero. Però queste continue modifiche e aggiustamenti dovrebbero far riflettere su almeno un paio di cose. Primo: il potere assoluto che i signori del Web hanno sulle nostre vite e sulla nostra conoscenza. Fate il conto di quante volte consultate Google in una giornata per chiedere qualunque tipo di informazione, dalle date di nascita ai nomi propri ai nomi di luoghi ai fatti storici. 

Chi controlla più un dizionario o un'enciclopedia? Ci affidiamo a Google come ci affidavamo alla mamma quando da bambini chiedevamo i famosi «perché?». E infatti il nuovo programma, addestrato a non rispondere, si chiama MUM, che sta per Multitasking Unified Model, e sembra strano che l'acronimo sia solo una coincidenza.

O forse sì, vai a sapere, forse l'ironia non è una dote richiesta ai programmatori delle intelligenze artificiali. Comunque sia, adesso MUM non risponderà più a certe domande. Lo farà solo se nel vasto oceano di informazioni online si imbatterà in siti che la sua nuova intelligenza artificiale, ancora più intelligente di prima, giudicherà attendibili. 

Secondo: quali sono i criteri con cui MUM sceglierà l'attendibilità delle notizie. E quindi, quante delle informazioni e delle domande e delle risposte che cerchiamo costantemente nella rete, sono veramente attendibili. Sono questioni enormi, di cui si è già parlato in abbondanza, ma ogni volta che si torna sull'argomento tremano un po' i polsi a pensare che ci siano delle macchine e degli scambi di impulsi elettrici dietro la nostra conoscenza delegata. 

In fondo questa dell'incertezza di Google è un'ottima notizia. Era impensabile eh, che la nostra mamma tecnologica, a cui ci affidiamo per ogni tipo di richiesta e informazione, potesse ammettere la propria inadeguatezza di fronte alla complessità del mondo?

Non dovrebbe stupirci troppo, perché il mondo non è binario come un circuito di microchip. Invece continuiamo a stupirci quando ne scopriamo le falle, anche se già da un po' di anni Google è al centro di polemiche per le visualizzazioni fallaci nella sua barra di ricerca.

Per esempio, nel 2017, la società è stata accusata di aver diffuso fake news su Obama. Alla domanda: «Obama sta pianificando un colpo di Stato?», il sistema ha riposto tranquillamente agli utenti: «Obama potrebbe pianificare un colpo di stato comunista alla fine del suo mandato nel 2016». Purtroppo, le informazioni venivano da un sito web di teorici della cospirazione. 

Altre volte gli errori sono stati più comici, come quando Google ha riposto che le scale sono state inventate nel 1946 (notizia trovata su un sito web di regolamentazione di sicurezza urbanistica).

Insomma, come le mamme che di fronte a certi «Perché?», non sapevano a che santo appellarsi, anche Google alza le mani. Certe volte una buona risposta potrebbe semplicemente non esistere. E così dovremmo abituarci a non fare domande stupide per non incappare nella scritta «Assenza di dati», un fatto nuovo e totalmente destabilizzante per la maggior parte degli utenti. Forse, disattivando certi automatismi, si potrebbe attivarne altri, per esempio l'uso di un dizionario o di un'enciclopedia cartacea. Perché se neanche Google, certe volte, lo sa, stiamo entrando in un mondo distopico terrorizzante per i più: quello dove la realtà prevale sul virtuale. 

V. Ma. per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2022.

Un padre di San Francisco scatta una foto al figlio nudo e la manda via email al medico, nell'impossibilità di farlo visitare durante la pandemia. È una piccola infezione ai genitali, bastano degli antibiotici. Ma il padre viene catturato dall'algoritmo che individua materiale pedopornografico, diventa l'obiettivo di un'indagine della polizia e perde dieci anni di foto e contatti, la posta su Gmail e il contratto di telefonia mobile con Google Fi.

È la storia di Mark (ha chiesto di non essere identificato) raccontata dal New York Times: l'uomo si vede disconnettere improvvisamente, per aver condiviso «contenuti dannosi» che costituiscono «una grave violazione delle regole di Google e che potrebbero essere illegali». 

Tra la lista di possibili ragioni indicate, legge: «Abuso e sfruttamento sessuale di minorenni». Allora compila un modulo online, spiegando che le foto mostrano un'infezione del figlio, e aspetta la risposta dell'operatore. Alcuni giorni dopo, Google risponde che non riaprirà i suoi profili, senza spiegarne il motivo. È stato segnalato, a sua insaputa, alla polizia di San Francisco che poi lo scagiona. Ma un anno e mezzo dopo, i suoi account non sono stati riattivati.

La cooperazione dei giganti della tecnologia è ritenuta fondamentale per combattere la diffusione online di immagini di abusi sessuali nei confronti di minorenni, ma - osservano gli esperti interpellati dal quotidiano americano - ciò pone alcuni problemi per la privacy (un portavoce di Google spiega che l'azienda esamina i dati solo quando l'utente fornisce il suo assenso, come quando salva le foto nel cloud).

Anche la moglie di Mark, che lo aveva aiutato a inviare via iPhone le immagini, ha temuto di essere «flaggata» da Apple: l'azienda annunciò l'anno scorso che avrebbe localizzato materiali abusivi nell'iCloud ma si è fermata a causa dei dubbi sulla privacy. Immagini di questo genere vengono segnalate milioni di volte ogni anno dai giganti del web (600.000 volte solo da Google nel 2021, con la disabilitazione di 270mila utenti).

Tecnologie sempre più sofisticate permettono di localizzare immagini abusive non solo quando sono uguali o simili ad altre già contenute in database, ma anche mai viste, permettendo di salvare bambini a rischio. Ma la distinzione tra un nudo scattato per abuso o uno scattato per amore non è così semplice.  

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 22 agosto 2022.

La cifra è impressionante: 4,7 miliardi di dollari. Sono i ricavi che Google ha fatto nel 2018 grazie ai contenuti giornalistici dei media tradizionali e nuovi, usufruiti dai suoi utenti attraverso il motore di ricerca e il servizio News. Lo sostiene uno studio pubblicato ieri dalla News Media Alliance, che rilancia il dibattito sulla necessità di distribuire più equamente queste risorse. La compagnia di Mountain View risponde però che ha già «lavorato duramente per essere un partner collaborativo».

La News Media Alliance è una coalizione che raccoglie circa 2.000 protagonisti dell' informazione americana, dal New York Times ai giornali locali. Con la consulenza di Keystone Strategy, ha realizzato uno studio sull' uso delle news nella piattaforma di Google, che ormai comprendono tra il 16 e il 40% dei risultati delle ricerche. Su questa base ha stimato che i ricavi pubblicitari ottenuti dall' azienda nel 2018, utilizzando contenuti che non produce, sono arrivati alla soglia di 4,7 miliardi di dollari, una cifra quasi equivalente ai 5,1 miliardi guadagnati dall' intero settore americano dell' informazione. 

Ciò significa uno squilibrio delle risorse economiche, che mette a rischio la stessa sopravvivenza dei media produttori dei contenuti di cui si avvale Google: «Gli editori - ha detto il presidente della News Media Alliance David Chavern - devono continuare ad investire nel giornalismo di qualità, ma non possono farlo se le piattaforme prendono quello che vogliono senza pagarlo. 

L' informazione vuole essere libera, ma i giornalisti hanno bisogno di essere pagati».

Un portavoce di Google ha risposto così: «Questi calcoli sono imprecisi, così come sottolineato da numerosi esperti. 

La stragrande maggioranza di ricerche legate alle news non mostra annunci pubblicitari.

Inoltre, lo studio non tiene conto del valore offerto da Google. Ogni mese, Google News e la Ricerca Google portano oltre 10 miliardi di click ai siti web degli editori che generano, a loro volta, abbonamenti e entrate pubblicitarie significative. Abbiamo lavorato duramente per essere un partner collaborativo e di supporto per la tecnologia e la pubblicità per gli editori di tutto il mondo». 

A queste obiezioni, Chavern replica che «le conclusioni dello studio dimostrano come Google stia rispondendo all' incremento della ricerca di notizie da parte dei consumatori, creando prodotti su misura che mantengono gli utenti nel suo ecosistema. Ciò significa che più soldi vanno a Google, e non agli editori che producono il contenuto». La soluzione proposta dalla News Media Alliance è «una legge che consenta ai media di negoziare collettivamente condizioni migliori con piattaforme tipo Google e Facebook».

Il testo si chiama "The Journalism Competition & Preservation Act", ed è stato presentato il 3 aprile alla Camera americana, e il 3 giugno al Senato. La legge, che ha un supporto bipartisan, darebbe agli editori un' esenzione di quattro anni dalle norme antitrust, per poter negoziare come gruppo con le piattaforme, allo scopo di ottenere migliori condizioni per la condivisione dei ricavi generati dall' uso dei loro contenuti.

Gratis et amore nerd. Per anni ho deriso chi si preoccupava per Facebook, intanto regalavo la mia vita a Google. Guia Soncini su L'Inkiesta il 23 Agosto 2022.

Da un lato c’è il problema sociologico di quelli che postano immagini personali e poi si lamentano dell’invadenza delle piattaforme, dall’altro quello tecnologico fatto di programmi automatici così scemi da costringermi a usare l’aggettivo “kafkiano”

Poche cose mi annoiano più di chi dice che Google non è gratis, Instagram non è gratis, TikTok non è gratis, giacché la merce siamo noi. Siamo noi se siamo così fessi da consegnar loro le chiavi della nostra vita, obietto ogni volta: puoi stare sui social anche senza metterci le foto di tuo figlio.

Riporto sempre come esempio di stupidità l’unica persona che conosco che non abbia Facebook e che pronosticava catastrofi per la privacy quando tutti ci aprivamo una bacheca perché sì, perché volevamo vedere la novità, perché ci piacevano scemenze come il poke (non la ciotola di riso dei ristoranti milanesi: la funzione ormai dimenticata in cui pungolavi qualcuno che poteva solo ripungolarti in cambio, una scemenza assoluta epperciò irresistibile).

Noi caricavamo foto sceme di vacanze e facevamo auguri di compleanno, e lei diceva che non voleva che Zuckerberg avesse le foto dei suoi figli. Ma le ha solo se gliele dai, cretinetta. Puoi stare sui social e non far sapere loro niente di te. Come fai a essere così paranoica.

Questo fino a domenica. Poi domenica il New York Times ha pubblicato l’agghiacciante storia d’un’indagine per pedofilia in cui la pedofilia era il meno agghiacciante degli elementi.

Il poverocristo al centro dell’articolo aveva, durante la pandemia, fatto delle foto al pisello del figlio, gonfio e arrossato, in modo che il pediatra potesse vederle. Le aveva mandate alla moglie, la quale aveva poi provveduto a caricarle sulla piattaforma utilizzata dal medico per le cure in remoto.

E qui arriva la parte che sembra un messaggio promozionale di Apple. La moglie aveva un iPhone, quindi non le era successo niente. Il marito aveva un Android, che gira su Google.

Google collabora con gli investigatori per smantellare giri di pedofili controllando le foto di bambini che i suoi utenti inviano e ricevono (Apple no, era intenzionata a farlo ma, dice il NYT, gruppi per la difesa della privacy hanno obiettato).

Non solo in America, scopro da una rapida ricerca su Google (cercare su Google cosa faccia Google farebbe venire un’erezione a Orwell). A maggio di quest’anno, grazie alle segnalazioni di Google, è stato arrestato «un informatico quarantenne di Cisterna di Latina che vive con i genitori pensionati» (sembra un film di Todd Solondz). A marzo 2021, un trentatreenne milanese che aveva diecimila file a disposizione di mille pedofili che accedevano alla sua cloud (non sarò certo io a dire che, invece di baloccarci col bonus psicologo, dovremmo pensare a rivedere la Basaglia).

È un secolo, questo, che ha un rapporto delirante con la privacy: è il nostro feticcio, e al tempo stesso facciamo di tutto perché ce la vìolino. Neanche i più tenacemente contrari alla trasparenza, credo, obietterebbero al fatto che l’algoritmo possa vedere le nostre foto se in cambio sgomina giri pedofili; ma in genere non di giri loschi si parla, ma di pubblica esposizione volontaria.

Diciamo alle multinazionali informatiche dove mangiamo e cosa, che aspetto hanno i nostri figli, di quali malattie c’incuriosiamo e di quali culi gradiamo vedere le foto; poi però sosteniamo di tenerci tanto alla nostra privacy. Tuttavia, e lo dico mentre mi annoto di andare a chiedere scusa a quella mia amica senza Facebook, ci sono condivisioni obbligate. Non quelle social: quelle private che utilizzano gli stessi strumenti.

Al tizio raccontato dal New York Times, Google ha chiuso l’account dandogli del pedofilo. La polizia gli ha detto che aveva capito benissimo il contesto delle foto, Google no. Ci sarà un essere umano ottuso, dietro questa decisione, o l’algoritmo come sempre fesso? Non lo so, ma ho cominciato a tremare.

Abbiamo tutti avuto a che fare con l’algoritmo, e ne conosciamo la pomposa ottusità. Io non riesco più ad accedere al mio secondo account di Twitter perché l’algoritmo mi dice che ho tenuto comportamenti sospetti e per sbloccarlo gli devo dare il mio numero di telefono. Che mi guardo bene dal dargli (il feticcio della privacy, dicevo), ma la domanda è: un account che usavo solo per leggere gli scemi e dal quale non twittavo, che comportamenti sospetti può aver mai avuto? Se è sospetto andare sull’internet per leggere gli scemi, arrestateci tutti.

Tutto questo Twitter non lo sa, perché io mica ho potuto parlare con un essere vivente: la vera questione della gratuità non è che siamo la merce, è che il servizio clienti fa inevitabilmente schifo. Ci sarà un nerd ogni milione di account a smazzarsi tutti i reclami, ovvio che la probabilità che mi si fili è bassa, e che mi risponderà un software automatizzato, e che basterebbe un niente perché finissi come il poverocristo del New York Times.

I bambini non voglio vederli neanche vestiti, quindi dubito di poter essere sospettata di pedofilia, ma non serve tenere corsi universitari su Kafka per sapere che tutti siamo a rischio d’un qualche equivoco. E pazienza per Twitter (anzi: minor perdita di tempo, meglio così), ma non avevo mai pensato a che inarrivabile punizione sia la chiusura dei propri account di Google.

Così, a sentimento, i primi disastri che mi vengono in mente: le foto che il telefono salva lì, e che se mi rubano il telefono (è successo) solo da lì posso recuperare; sedici anni di conversazioni, di archivio involontario di azioni e spostamenti e produzione letteraria e curve di frequentazione: quand’è che ho smesso di sentire Tizio, avrò mai scritto un articolo su Caia, quanti anni sono che non vado nel tale albergo – è tutto lì, tra conferme di prenotazione e altre pezze d’appoggio conservate da Gmail. Ho affidato a Google la mia vita, mentre sbeffeggiavo chi temeva gliela arrubbasse Facebook.

Anni fa un maresciallo mi cambiò la password all’account di posta che usavo: voleva controllare che non avessi portato avanti traffici illegali, e non voleva che avessi la possibilità di cancellarli. Poiché era un tizio fatto di carne e una qualche logica, e non un algoritmo, mi diede la possibilità, per i giorni in cui alla mia posta accedeva lui ma non io, di inserire una risposta automatica, una cosa tipo «questo account non funziona, scrivetemi a quest’altro». Google no, Google al poverocristo intervistato dal New York Times gli ha congelato e poi cancellato tutto d’imperio, senza la possibilità di recuperare niente o avvisare nessuno.

Credo di aver già citato quell’Hitchens che, a Praga negli anni Ottanta, dopo che l’hanno arrestato rifiutandosi di spiegargli la ragione dell’arresto, conclude: uno non vorrebbe dire «kafkiano», ma ce lo costringete. Il poverocristo dice al NYT che ha deciso di non fare causa a Google perché ci vogliono settemila dollari di avvocato: sospetto che, dopo l’articolo, ci sarà la fila di avvocati pronti a difenderlo gratis e passare alla storia come quelli che hanno tolto le mutande a Google, dopo che Google si era sentito superpoliziotto che aveva diritto di decidere quali mutande fosse legittimo togliere e quali no. Speriamo che nella causa Google non perda così tanto da chiudere, sennò che fine fa il mio archivio?

Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 maggio 2022.

Un ingegnere senior di Twitter ha ammesso che il gigante dei social media ha un forte pregiudizio di sinistra e censura regolarmente i conservatori. Siru Murugesan è stato registrato mentre diceva che la cultura aziendale è estremamente di sinistra, i lavoratori sono «fottuti comunisti» e «odiano, odiano, odiano» l'acquisizione da 44 miliardi di dollari di Elon Musk. 

In una conversazione incredibilmente schietta, filmata in diversi incontri, Murugesan ha detto che l'azienda «non crede nella libertà di parola» e che quando lui è stato assunto, l’ambiente ha cercato di spingerlo a sinistra.

Musk ha promesso di riportare la piattaforma in uno spazio sicuro in cui gli utenti possono pubblicare ciò che vogliono, nonché «sconfiggere i bot spam» e «autenticare tutti gli esseri umani». Intanto ha alimentato la speculazione sul fatto che potrebbe cercare di negoziare per il gigante dei social media. Mentre era a una conferenza di Miami, ha detto che un accordo a un prezzo inferiore non sarebbe «fuori questione».

Murugesan è stato filmato da una giornalista di Project Veritas. «Twitter non crede nella libertà di parola», ha detto, aggiungendo che i suoi colleghi «odiavano» l'idea che Musk sarebbe diventato il nuovo proprietario. «Lo odiano», ha detto. «Dio mio. Almeno mi va bene. Ma alcuni dei miei colleghi sono tipo super-sinistra, sinistra, sinistra, sinistra, sinistra». 

Murugesan ha raccontato che la politica di Twitter è così di sinistra che ha plasmato le sue opinioni e lo ha cambiato, mentre la destra è stata apertamente censurata. 

Lo stesso Musk si è spesso lamentato di un pregiudizio di sinistra su Twitter, osservando che figure di destra come Donald Trump e Steve Bannon sono bandite mentre gli estremisti dall'altra parte possono rimanere.

Murugesan ha affermato che «molto è cambiato» da quando Musk ha iniziato il processo di acquisizione il 25 aprile. Ha detto che i dipendenti erano preoccupati per il loro lavoro, perché le sue aziende funzionano in modo diverso rispetto al posto di lavoro "socialista" di Twitter.  «Sai, i nostri posti di lavoro sono in gioco», ha detto. «Lui è un capitalista e non stavamo realmente operando come capitalisti, più come socialisti». 

Murugesan ha affermato che le procedure operative dell'azienda sono estremamente permissive. «Essenzialmente tutti possono fare quello che vogliono, a nessuno importa davvero delle [spese operative], come fanno i capitalisti, si preoccupano dei numeri o si preoccupano di come rendere il business più efficiente», ha detto.

«Ma su Twitter è come se la salute mentale fosse tutto, se stai male puoi prenderti qualche giorno di riposo. Le persone si sono prese mesi di ferie, e poi sono tornate». 

Murugesan ha affermato che molti membri dello staff hanno apertamente cercato di contrastare l'acquisizione, preoccupati in particolare per la promessa di Musk di reintegrare persone come Trump.

La prima gola profonda di Facebook: "Dopo la mia denuncia, il social è cambiato. Ma in peggio". Pier Luigi Pisa su La Repubblica il 17 Maggio 2022.

Meta ha pubblicato i dati relativi alle violazioni delle policy di Facebook e Instagram avvenute tra gennaio e marzo 2022. Colpiscono i tentativi, bloccati sul nascere, di creare account falsi su Facebook. Ma gli sforzi del social network, in questo senso, potrebbero non bastare. Come dimostra la storia di Sophie Zhang, la prima dipendente di Facebook a denunciare i meccanismi del social che mettevano a rischio le democrazie

Gli account falsi, su Facebook, sono un problema con cui il social network combatte da tempo. Il nuovo Community Standards Enforcement Report di Meta, che documenta con cadenza trimestrale le violazioni intercettate sui suoi social network, dice che i profili fake bloccati da Facebook sono scesi - di poco - tra gennaio e marzo 2022. Ma continuano a essere molti: 1,6 miliardi (nell’ultimo trimestre del 2021 sono stati 1,7 miliardi). 

Per quanto il social network possa sforzarsi di sopprimere gli account e le pagine fake, alcuni di questi riescono comunque a superare le verifiche e le procedure studiate per rendere il social - scrive Meta - “più sicuro e inclusivo”. Quando questo è avvenuto, in passato, non sempre l’azienda guidata da Mark Zuckerberg ha risposto nel migliore dei modi. 

Negli ultimi quindici anni solo due dipendenti hanno ‘tradito’ apertamente Facebook, denunciando le problematiche del social network e i rischi per le democrazie e la salute dei suoi utenti. La prima, appena un anno fa, è stata Sophie Zhang.

Per circa tre anni Zhang ha lavorato per Facebook, scoprendo "sfacciati tentativi, da parte di molteplici governi, di ingannare i loro cittadini attraverso la piattaforma". Quando ha informato i suoi superiori, la giovane analista è stata lasciata sola. Facebook ha licenziato Sophie Zhang, a settembre 2020, "per le scarse performance". Il giorno dopo, alle 8 del mattino, Mark Zuckerberg faceva i conti con la prima whistleblower del suo social.

Che ruolo aveva in Facebook?

"Ero una data scientist. Il mio era un livello molto basso".

Quando ha capito, per la prima volta, che la piattaforma poteva influenzare seriamente i destini dei governi?

"A luglio 2018. Lavoravo in Facebook da circa sei mesi. Mi sono accorta che esistevano false Pagine di Facebook spacciate per veri account personali di cittadini dell'Honduras. Queste Pagine venivano usate per aumentare la popolarità del presidente, che all'epoca era Juan Orlando Hernández. Il team che gestiva la pagina social del presidente gestiva anche centinaia di account falsi. Tutto questo veniva fatto in modo palese". 

Che cosa è successo quando ha riferito quello che aveva scoperto ai suoi superiori?

"L'atteggiamento generale è stato di condanna: trovavano sbagliato quello che stava accadendo. Ma si chiedevano se fosse un problema prioritario rispetto al resto e, soprattutto, se non fosse il caso di agire con cautela, dato che si trattava di account gestiti da un governo nazionale".

Ma la responsabilità era chiara.

"Era come se la polizia, indagando su un omicidio, avesse trovato il nome e le impronte del killer direttamente analizzando il sangue della vittima".

Facebook ha preso provvedimenti?

"Non immediatamente: ha cancellato quel network solo un anno dopo, nel luglio 2019".

E perché, secondo lei, hanno impiegato così tanto?

"Facebook non aveva un interesse diretto per preoccuparsi dell'Honduras, un piccolo e povero Paese. Facebook è un'azienda, il suo obiettivo è fare soldi. Non è molto diverso da ciò che fanno altre aziende: non chiediamo a Philip Morris di risolvere la dipendenza dal tabacco, per esempio, né alla ExxonMobil di contrastare la crisi climatica. Il motivo per cui Facebook si interessa a concetti come la democrazia, è perché Mark Zuckerberg è un essere umano e ha bisogno di dormire la notte. E anche perché il danno sociale causato da Facebook potrebbe generare una copertura mediatica negativa. E questo avrebbe un impatto sui ricavi dell'azienda".

Le indagini che ha condotto hanno richiesto un addestramento speciale?

"Non ero addestrata, non avevo esperienza e non ero un super genio".

Il giorno dopo essere stata licenziata da Facebook, lei ha scritto che sentiva di avere "le mani insanguinate".

"A dicembre 2019 ho trovato due casi di manipolazione su Facebook da parte di governi nazionali: in Azerbaijan e in Albania. Il problema più grave sembrava in Azerbaijan e così ho lasciato l'Albania a un altro team. L'anno scorso un giornalista albanese mi ha contattato: aveva scoperto che gli abusi continuavano. Facebook, in due anni, non aveva fatto nulla. Ho chiesto scusa al popolo albanese. Ma ero come un dottore chiamato a scegliere tra più vite: avrà le mani insanguinate ma senza di lui sarebbe andata peggio". 

Nel corso delle sue indagini si è imbattuta anche in abusi da parte di politici italiani?

"Sì, nel 2019, in un periodo in cui si pensava che il Paese fosse molto vicino a nuove elezioni. Non dirò il nome del politico, perché l'attività sospetta era minima, riguardava soltanto una o due dozzine di account falsi".

Facebook è cambiato da quando lei e Frances Haugen avete rivelato i problemi della piattaforma?

"Sono diventati molto più chiusi, hanno fortemente limitato le discussioni interne che riguardano la piattaforma e hanno reso molto più difficile per i dipendenti consultare documenti e informazioni a cui non hanno lavorato direttamente. Questo tecnicamente è un cambiamento, ma non per il meglio".

Ha fatto bene Zuckerberg a cancellare Trump da Facebook?

"Ha senso, così come ha senso che oggi i social media rimuovano Russia Today dopo l'invasione dell'Ucraina".

Qual è secondo lei il ruolo che stanno avendo i social media nel conflitto tra Russia e Ucraina?

"Credo che abbiano un ruolo in gran parte terzo. Questa è una guerra di proiettili, non di parole. E il vero impatto dei social media risiede nel passato. Ripensandoci ora, non è un caso che Putin abbia deciso di reprimere Navalny. E che Lukashenko abbia provveduto ad arrestare la propria opposizione prima del conflitto. La strada per Kiev passava attraverso Minsk".

Lei crede, o ha mai creduto, che Facebook potesse rendere il mondo migliore?

"Non lo credevo. Quando ho fatto il colloquio, ho detto che volevo farne parte per contribuire a risolvere i suoi problemi". 

Qual è ora la sua occupazione?

"Non ho un lavoro né lo sto cercando. Mi prendo cura dei miei gatti e faccio interviste".

Qualcuno si starà chiedendo come fa a sopravvivere, senza uno stipendio.

"Facebook mi pagava circa 200mila dollari l'anno. Pensavo fossero molti ma le persone che lavorano nel settore tech sono abituate a questa cifra. Quindi tecnicamente si può dire che sono stata in grado di diventare una whistleblower perché Facebook mi ha pagato".

Dal “Fatto quotidiano” il 4 maggio 2022.

L'Italia perde 17 posizioni nella classifica internazionale sulla libertà di stampa e scende dal 41° al 58° posto. Il rapporto pubblicato da Reporter Sans Frontierè ancora una volta inclemente verso lo stato dell'informazione italiana. Ai primi tre posti, infatti, figurano tre stati scandinavi: la Norvegia, la Danimarca e la Svezia. 

 Alla Germania va il 16° posto mentre la Francia guadagna ben otto posizioni, al 26° rango. Male gli Stati Uniti che scendono alla posizione 42. Il Giappone si trova al 71° posto, l'Algeria al 134° e in fondo all'Index ci sono Iran, Eritrea e all'ultimo posto Corea del Nord. La Russia, osservata speciale dall'inizio dall'invasione dell'Ucraina lo scorso 24 febbraio, si attesta al 155° posto, in calo di cinque posizioni.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 4 maggio 2022.  

Anche quest' anno, come ogni anno, è arrivata la classifica di Reporter Sans Frontières sulla libertà di stampa, e come ogni anno, o quasi, l'Italia tracolla. Stavolta scende dal quarantunesimo al cinquantottesimo posto e, come ogni anno, anche quest' anno non possiamo negarci la soddisfazione di elencare paesi esotici messi meglio di noi: Belize, Samoa, Tonga Raggiungo la certezza che la posizione è meritata solamente quando leggo della classifica sui nostri giornali.

Di solito ci si scorda di sottolineare l'influenza funesta sul nostro rendimento dello sproposito di querele di cui siamo destinatari, da politici e magistrati, e dalla bestialità del carcere previsto per chi diffama, probabilmente già abolito anche in Belize, Samoa e Tonga. C'è stato un tempo nel quale Beppe Grillo (e non solo lui, a dirla tutta) ci sventolava la classifica sotto al naso per mostrarci quanto eravamo servi e cadaveri eccetera, finché non gli si fece notare che quell'anno eravamo retrocessi proprio per lui, le sue insolenze e le sue liste dei cattivi.

E però se un giornalista si sente meno libero perché Grillo gli dà del cadavere, c'è qualcosa che non va nel giornalista, e forse pure nella classifica. Quest' anno, infatti, saremmo imbavagliati, pare, dalle minacce sui social, cioè roba per cui uno scrive crepa, e il giornalista risponde che non si lascerà intimidire perché ha la schiena dritta. Talvolta, più che la classifica della libertà di stampa, sarebbe interessante stilare la classifica della libertà di cazzonaggine (chiedo scusa per il termine, ma non ne trovo uno più adeguato). Allora sì, la scaleremmo sino alla vetta.

Sangiuliano ospite Fdi. I richiami della Rai sempre a senso unico. Paolo Bracalini il 19 Maggio 2022  su Il Giornale.

Si è chiusa con un semplice invito ad un "puntuale rispetto delle regole" la vicenda che riguarda il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano.

Si è chiusa con un semplice invito ad un «puntuale rispetto delle regole» la vicenda che riguarda il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, «colpevole» di essere intervenuto ad una convention non del Pd, ma di Fratelli d'Italia nelle scorse settimane. Il giornalista, che è anche biografo di Giuseppe Prezzolini, era stato invitato alla conferenza programmatica della Meloni per una breve excursus storico sul ruolo dei conservatori in Italia. Ma la sua partecipazione ha scatenato una polemica da parte di Pd e renziani, che hanno accusato Sangiuliano di aver tenuto un «comizio politico». Da quanto risulta al Giornale non c'è stata alcuna «istruttoria», nessun procedimento formale da parte della Rai, ma soltanto uno scambio di chiarimenti tra il direttore del Tg2 e i vertici di Viale Mazzini. L'unico appunto mosso a Sangiuliano è quello di aver chiesto all'azienda l'autorizzazione per partecipare in qualità di moderatore ad un dibattito, mentre poi si è trattato di un intervento sul palco. Questo il contenuto del semplice richiamo, non formale, mosso dall'ad Rai Carlo Fuortes.

Una vicenda che non costituisce affatto un caso eccezionale, molti giornalisti Rai hanno partecipato a eventi di partiti politici negli anni scorsi (a partire da Carmen Lasorella presentatrice della convention elettorale dell'Ulivo nel '96), lo stesso Sangiuliano ha recentemente partecipato alla Festa dell'Unità di Pesaro e anche alla convention di Renzi a Ferrara ma in entrambi i casi nessuno ha avuto da ridire per la sua presenza. Più recentemente, due giornalisti Rai, la corrispondente da Parigi Giovanna Botteri e il direttore di Radio Rai 1 Andrea Vianello, hanno partecipato alla «scuola politica» del Pd tenendo dei seminari di formazione agli attivisti del partito di Letta. Senza provocare la minima reazione.

Aria di censura sovietica. Sangiuliano nel mirino perché ha parlato da Fdi. Paolo Bracalini il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il Pd, oltre a Mediaset, apre un altro secondo fronte in Rai. Stavolta nel mirino c'è Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2.

Il Pd, oltre a Mediaset, apre un altro secondo fronte in Rai. Stavolta nel mirino c'è Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2, «colpevole» di aver parlato sul palco della conferenza programmatica di Fratelli d'Italia a Milano. Sangiuliano alla convention della Meloni ha fatto un breve intervento di carattere culturale sul «Ruolo dei conservatori italiani», citando Giuseppe Prezzolini (di cui Sangiuliano ha scritto una biografia per Mursia), Thomas Mann, Ortega y Gasset, Dante e Machiavelli, senza alcun riferimento all'attualità politica o ai partiti. Il problema è che Sangiuliano è considerato un giornalista di area centrodestra e che il palco era quello di un partito di centrodestra, una circostanza che a sinistra è più che sufficiente per armare l'artiglieria e chiedere una punizione. E infatti dal Pd (ma anche dall'Usigrai, il sindacato politicizzato interno) arriva l'attacco. Per l'ex ministra Valeria Fedeli si sarebbe trattato di un «comizio politico, grave, improprio e inedito», per questo - dice la senatrice Pd - serve «un urgente chiarimento e l'intervento dei vertici Rai». Per il deputato Enrico Borghi, deputato Pd, siamo tornati nientemeno che «ai tempi dell'Eiar», la Rai fascista. Anche Italia Viva, con il deputato della Vigilanza Michele Anzaldi, chiede spiegazioni alla Rai: «Sangiuliano è stato chiamato a tenere un comizio. A che titolo il direttore di un tg del servizio pubblico dovrebbe fare un intervento politico a una convention di partito?» dice Anzaldi, secondo cui «non ci sono precedenti neanche nella Rai la cui storia è notoriamente iper-politicizzata». In realtà nel '96 scoppiò un caso perché alla convention elettorale dell'Ulivo di Prodi parteciparono i giornalisti Rai Carmen Lasorella e Lamberto Sposini. Ma più recentemente, due giornalisti Rai, la corrispondente da Parigi Giovanna Botteri e il direttore di Radio Rai 1 Andrea Vianello, hanno partecipato alla «scuola politica» del Pd tenendo dei seminari di formazione agli attivisti del partito di Letta. Del resto in Rai proprio stasera inizia il nuovo programma dell'ex senatore Pd Gianrico Carofiglio (la Rai ne aveva proposto uno anche a Walter Veltroni, ma l'ex ministro Pd aveva altri impegni). Lo stesso Sangiuliano ha partecipato nei mesi scorsi alla Festa dell'Unità di Pesaro o alla convention di Renzi a Ferrara, eppure in quel caso nessuno ne ha contestato la presenza. Solidarietà al direttore del Tg2 arriva da centristi e dal centrodestra. «É più grave una relazione storica su Prezzolini o andare ad insegnare alla scuola di partito del Pd?» si domanda Giampaolo Rossi, già consigliere del cda Rai, in quota Fdi. «Davvero volete punire i giornalisti solo se partecipano a iniziative dell'opposizione?» chiede invece il deputato meloniano Giovanni Donzelli.

Antonio Bravetti per “La Stampa” il 3 maggio 2022.

Libri, comizi e interrogazioni. Si arricchisce di particolari la polemica che da sinistra investe il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, accusato da Pd e Italia Viva di aver tenuto un «inopportuno comizio politico» lo scorso fine settimana alla conferenza programmatica di Fratelli d'Italia. Ospite della kermesse milanese di Giorgia Meloni, Sangiuliano ha tenuto un intervento di sei minuti dal titolo Il ruolo dei conservatori italiani. 

Dopo aver citato Norberto Bobbio, Giuseppe Prezzolini, Thomas Mann, José Ortega y Gasset, Friedrich von Hayek, ebreo austriaco premio Nobel dell'economia, Sangiuliano ha concluso con una frecciata contro «la dittatura del politicamente corretto» che si combatte con il conservatorismo, «un inno alla libertà».

Valeria Fedeli (Pd) e Michele Anzaldi (Iv) insorgono. La prima parla di un «comizio politico grave, improprio e inedito»; il secondo ieri ha annunciato un'interrogazione in commissione di Vigilanza Rai per sapere se i vertici di viale Mazzini hanno concesso una «specifica autorizzazione» al direttore del Tg2. Anzaldi critica «l'evidente inopportunità di esporre il direttore di un telegiornale del servizio pubblico in una manifestazione di partito dal chiaro carattere politico-elettorale». 

A difendere Sangiuliano un po' tutto il centrodestra: oltre a FdI prendono le sue parti anche Udc e Noi con l'Italia. «Per lui non vale l'art. 21 della Costituzione?», domanda Maurizio Lupi (Nci). «I direttori vanno valutati per il loro lavoro e, dal punto di vista del pluralismo, il direttore del Tg2 è impeccabile», assicura. Di «polemiche strumentali» parla Antonio De Poli (Udc).

Il direttore non fa una piega. Non accetta la definizione di «comizio», rivendica di aver offerto una lectio sul conservatorismo, argomento a cui ha dedicato tre libri, senza alcun riferimento all'attualità politica. Ricorda che in passato ha intervistato Maurizio Landini alla Festa dell'Unità e Matteo Renzi alla convention di Ferrara, e che altri colleghi della Rai sono stati ospiti della scuola politica del Pd. Poi prova a siglare la pace a suon di libri. 

Ieri mattina Sangiuliano ha inviato alla senatrice Fedeli, ex ministra dell'Istruzione, tre libri: I quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn, Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt. 

Ospite di FdI e della kermesse "Italia, energia da liberare. Appunti per un programma conservatore", Sangiuliano aveva spiega appunto chi sono i conservatori. Lo ha fatto il pomeriggio dell'inaugurazione, pochi minuti prima dell'intervento di Meloni. Un po' come il gruppo spalla prima della rockstar. «Il conservatorismo- spiega il direttore del Tg2 dal palco montato in mezzo al MiCo- lo dice chiaramente Thomas Mann, è innanzitutto uno stato d'animo, una condizione quasi antropologica, un'adesione a un principio e a una visione morale».

Cita poi Prezzolini («Progressista è la persona di domani, il conservatore è la persona del dopodomani») e conclude facendo riferimento al suo ruolo di direttore di telegiornale. «Ogni giorno, quotidianamente, mi scontro con la cappa del politicamente corretto, con quella pressione spesso non esplicata appieno che significa costrizione, che significa gabbia mentale. Il partito più forte in Italia è il Partito unico del politicamente corretto. Essere conservatore è l'antitesi, significa essere un inno alla libertà» contro «la dittatura del politicamente corretto».

Giorgio Gandola per “La Verità” il 3 maggio 2022.

«La memoria selettiva è meravigliosa, non necessita di coerenza». Il vecchio dirigente Rai ne ha viste tante e non ha voglia di soffermarsi sull'ultima fibrillazione attorno al cavallo morente: il presunto scandalo per la partecipazione di Gennaro Sangiuliano alla convention milanese di Fratelli d'Italia per parlare del mondo conservatore. 

Ora il direttore del Tg2, accusato dal segretario della Commissione di vigilanza Michele Anzaldi (Italia Viva) e dalla capogruppo Pd Valeria Fedeli di «essere salito sul palco per una conferenza di partito», è in silenzio e attende che passi la bufera. Ma il caso è finito sulla scrivania dell'amministratore delegato Carlo Fuortes che potrebbe chiedergli un passo indietro.

«Mai un direttore di Tg era salito sul palco di una conferenza di partito per un intervento di carattere politico, quello chiamato a lanciare il discorso della leader Giorgia Meloni», si straccia le vesti la sinistra con le antenne, rivolgendosi direttamente a Fuortes ed esercitando una delle sue più preclare virtù: la doppia morale. Anzaldi prende per il bavero l'ad quando si domanda: «Come ha potuto autorizzare una tale umiliazione?». 

Tutto ciò è molto curioso perché Sangiuliano aveva parlato anche alla Festa de L'Unità (sempre da direttore del Tg2) presentando il libro di Maurizio Landini e non suscitando alcuna reazione. Il vero problema sta nella porosità endemica fra Rai e politica, Rai e partiti, Rai e sottobosco di governo.

Qualcosa che non ha eguali al mondo e che la sinistra italiana adotta come principio fondante del suo rapporto con le redazioni, salvo scandalizzarsi quando l'abitudine diventa bipartisan. Non più tardi di due mesi fa Gianni Cuperlo ha riaperto la Scuola di formazione politica del Pd con un solenne evento davanti a Enrico Letta, Paolo Gentiloni e Romano Prodi. Un migliaio di iscritti online, 200 partecipanti in presenza; una specie di Frattocchie 2.0 per formare le giovani leve del partito. 

Fra gli ospiti anche il direttore del Giornale radio Rai Andrea Vianello e la storica corrispondente (oggi da Parigi) Giovanna Botteri. Nessuna umiliazione. Ma il vero serbatoio della comunicazione gauchiste è la Festa de L'Unità, che sopravvive a se stessa e ogni anno, tra fine agosto e metà settembre, propone dibattiti con una passerella di direttori, commentatori, volti Rai felici di salire sul palco. Evidentemente Anzaldi e la Fedeli in quel periodo sono in barca.

Senza andare a scavare nella preistoria, nel 2018 a Ravenna - fra salamelle e memorabilia della nostalgia rossa - salì sul palco Luca Mazzà, allora direttore del Tg3, a intervistare il proconsole renziano Andrea Marcucci e sempre in quell'occasione Antonio Di Bella (era direttore di Rainews 24) calcò le assi della kermesse per affiancare l'ex ministro piddino Marco Minniti in un'intervista peraltro molto interessante. 

In quei giorni non mancò di mostrare il suo volto già molto noto Serena Bortone (Agorà su Raitre), un'affezionata ospite dell'evento, accanto a Debora Serracchiani. L'anno successivo sempre Di Bella partecipò alla Festa de l'Unità con Piero Fassino e Lia Quartapelle, nella stessa edizione caratterizzata dal successo di Lucia Annunziata (Raitre, ex presidente dell'azienda) sul palco a confessare Prodi. Lady Annunziata ha l'abbonamento: nel 2021 ha coordinato la serata dal titolo «La sinistra dopo la pandemia» e in due giornate diverse si è esibita con lo sceriffo partenopeo Vincenzo De Luca e con il guru del progressismo all'abbacchio Goffredo Bettini.

Niente di umiliante. Concentrandoci sui direttori, vanno notate diverse apparizioni scomparenti, cominciando da Simona Sala (vice del Tg1, poi numero uno del Giornale radio Rai e ora del Tg3), prescelta dai big del Nazareno per fare bella figura. S' è infatti accompagnata sul palco a Letta e a Prodi. Più scapigliato Andrea Vianello; quando era direttore di Rainews 24, il nipote di Raimondo Vianello ha coordinato un dibattito dal titolo «Cervello Ribelle. Diario di una Sardina autistica» di Lorenzo Donnoli. 

Agli inviti non sono rimasti estranei Duilio Giammaria, storico conduttore Rai e intervistatore prediletto di Dario Franceschini, e Maria Pia Ammirati, ex vice di Raiuno e poi direttrice di Rai Fiction. Poteva mancare Monica Maggioni? Proprio no. La presidente dell'era renziana (con Anzaldi in perenne adorazione), prima di diventare direttrice del Tg1 ha fatto passerella con Fassino e la Quartapelle. Anche Bianca Berlinguer ha avuto la sua standing ovation accompagnando sul palco Nicola Zingaretti. 

Il più assiduo di tutti alla kermesse della sinistra è Marco Damilano, che prima di ottenere il suo posto al sole da 200.000 euro con la benedizione degli indignados, ha collezionato dibattiti con David Sassoli, Carlo Calenda, Roberto Fico, Graziano Delrio e l'ex ministro Paola De Micheli. Perfino un direttore generale Rai ha guadagnato i gradi facendo passerella a una fiera del progressismo: Antonio Campo dall'Orto partì per la rivoluzione renziana dell'azienda (miseramente fallita) con due partecipazioni alla Leopolda. Ma tutto questo non esiste, basta rimuoverlo.

Da globalist.it il 5 maggio 2022. 

Ora il direttore del Tg2 Sangiuliano se la rischia. Perché ha chiesto il permesso per moderare un dibattito e invece è intervenuto come relatore ad una conferenza programmatica (ossia lo scalino immediatamente inferiore al Congresso). Cosa bel diversa. “Vi informo che c’è in azienda la policy che riguarda la richiesta di permesso esterni e l’autorizzazione relativa. Il direttore Sangiuliano ha fatto richiesta per una moderazione a un dibattito per la conferenza programmatica di Fratelli d’Italia.

Io non ho potuto vedere il filmato e ho chiesto quindi al direttore che ovviamente ha detto che non era una moderazione. E come accade in una qualsiasi azienda, ho seguito le regole e ho mandato alla direzione organizzazione delle risorse umane di verificare e procedere di conseguenza. 

La direzione chiederà spiegazioni al direttore che dovrà darle nel tempo prestabilito. Poi vedremo a quale risultato si arriverà. Questo è. Niente di più, niente di meno. In Azienda si segue una procedura. La procedura è stata rispettata. C’è stata una differenza tra la richiesta e la prestazione eseguita”. Lo ha detto l’ad Rai Carlo Fuortes a proposito del caso relativo all’intervento del direttore del Tg2 alla conferenza programmatica di Fdi a Milano.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 3 maggio 2022.

Il caso del Direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, e del suo intervento sul palco alla convention milanese di Fratelli d'Italia, ha infuocato il dibattito politico suscitando le aspre critiche di Pd e Italia Viva e la difesa a spada tratta da parte di FdI e di altri partiti nell'ambito del Centrodestra. Carlo Calenda di Azione, dal canto suo, ha stigmatizzato la scelta di Sangiuliano, ricordando però anche la partecipazione dell'ex Direttore Generale della Rai Antonio Campo Dall'Orto alla Leopolda di Matteo Renzi. 

Calenda è stato subito smentito dal Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi che gli ha ricordato le tempistiche: Campo Dall'Orto partecipò infatti alla Leopolda nel 2011-2012 e fu nominato Dg Rai nel 2015. Non esattamente un caso analogo a quello di un Direttore in carica di un notiziario Rai che partecipi a una convention di partito pronunciando un discorso introduttivo al comizio del leader del partito stesso (Giorgia Meloni nella fattispecie).

Il M5s, dal canto suo, si è impossessato del commento di Calenda e, attraverso l'Onorevole Francesca Flati esponente grillina della Commissione di Vigilanza Rai, ha rincarato: "Un direttore di testata non dovrebbe partecipare a eventi di partito, deve invece garantire la terzietà del servizio pubblico. Però la doppia morale di Italia Viva è roba da smemorati. Solo noi del Movimento 5 Stelle ricordiamo Campo Dall'Orto alla Leopolda di Renzi? In quel caso si trattava addirittura di un direttore generale. Per noi direttori dei telegiornali e dirigenti Rai devono dimostrare di essere imparziali, ma questo dovrebbe valere sempre".

A parte il fatto che sull'argomento i grillini sono arrivati secondi dopo Calenda, è nuovamente stato Michele Anzaldi a controbattere. “Ci vuole davvero la faccia tosta del Movimento 5 stelle per parlare di Rai e imparzialità. Se vuole davvero affrontare il tema, l’onorevole Flati spieghi come è stato possibile che durante la Rai gialloverde un cronista del Tg2, incaricato per pura coincidenza di seguire proprio Beppe Grillo e M5s, sia stato catapultato alla direzione del Tg1 con triplo salto di carriera, in barba a ogni meritocrazia interna e procedure di Job Posting”. Michele Anzaldi allude, com'è ovvio, a Giuseppe Carboni, nominato in quota M5s alla guida del Tg1 che egli ha diretto dal 2018 al 2021, prima di essere sostituito da Monica Maggioni.

“Oppure come è stato possibile – prosegue ancora Anzaldi – che una cronista del Tg1, anche lei casualmente incaricata di seguire il Movimento 5 stelle, con un triplo scatto abbia scavalcato tutti i colleghi con miglior curriculum diventando prima capo ufficio stampa e poi direttore dell’Ufficio Studi. Questo sarebbe il canone di imparzialità che Flati intende per i direttori Rai? Il canone Casalino?". In questo caso l'On. Anzaldi si riferisce a Claudia Mazzola, alla quale l'ex Sindaco della Capitale Virginia Raggi ha affidato nel 2020 anche il doppio incarico di Presidente della Fondazione Auditorium di Roma, sul quale torneremo più avanti.

Restando sulla questione Campo Dall’Orto, Michele Anzaldi precisa che l'onorevole pentastellata Francesca Flati "dice, invece, una pura falsità: alla Leopolda [Campo Dall'Orto] ha partecipato nel 2011 e 2012, mentre è diventato direttore generale Rai solo 4 anni dopo, nel 2015. Niente a che vedere, quindi, con il comizio del direttore del Tg2 in carica, Gennaro Sangiuliano, in apertura della convention politico-elettorale di Fdi. Intervento che, non a caso, ha avuto la funzione di introdurre il discorso della leader Giorgia Meloni. Altro che ‘lectio’ a un seminario, come ha dichiarato qualche esponente politico evidentemente in vena di ironia”. Ovvero Francesco Lollobrigida, Capogruppo FdI alla Camera dei Deputati, e l'Onorevole Alessio Butti sempre di Fratelli d'Italia, che hanno tessuto le lodi del discorso pronunciato da Sangiuliano all'evento milanese della Meloni.

Tornando al M5s, qualche mese fa Dagospia ha lanciato un flash - mai smentito da chicchessia - secondo il quale il Sindaco di Roma Roberto Gualtieri aveva invitato Claudia Mazzola, Presidente della Fondazione Auditorium Parco della Musica, e l'Ad Daniele Pitteri a lasciare l'incarico (che nel caso della prima si sommava a quello di Capo Ufficio Stampa della Rai, e in seguito alle mansioni di Direttore dell'Ufficio Studi Rai). Abbiamo consultato il sito ufficiale, scoprendo che vi campeggiano a tutt'oggi le foto di Mazzola e Pitteri nelle loro cariche di Presidente e di Ad dell'Auditorium. Social media manager poco solerte, o per qualche motivo la richiesta di dimissioni è rientrata i due detengono ancora il loro incarico, nel caso di Mazzola doppio? Sarebbe interessante saperlo. 

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 5 maggio 2022.

Durante l'Audizione dell'Ad Rai Carlo Fuortes in Commissione di Vigilanza svoltasi ieri sera, mercoledì 4 maggio 2022, che segnava l'incontro istituzionale tra il vertice della Tv di Stato e i Senatori e Deputati componenti della bicamerale incaricati di vigilare sul Servizio Pubblico Radiotelevisivo, sono stati discussi molti argomenti. Ma sono soprattutto "le cose non dette, i cui spettri invisibili danzavano nell'aria circostante" per dirla con Ian McEwan, a delineare i retroscena politici di quanto sviscerato pubblicamente durante l'audizione di Fuortes.

Il caso del giorno era senz'altro la recente partecipazione di Gennaro Sangiuliano alla convention programmatica di Fratelli d'Italia, durante la quale il Direttore del Tg2 in carica ha pronunciato una dissertazione che fungeva da discorso introduttivo per il comizio della leader Giorgia Meloni. Come sappiamo, la politica si è spaccata sul caso, dividendosi tra gli attacchi senza quartiere da parte di Italia Viva con in testa il Segretario della Vigilanza Rai Michele Anzaldi, e del Pd attraverso la Senatrice Valeria Fedeli, Capogruppo in Commissione di Vigilanza, la Capogruppo al Senato Simona Malpezzi e il Deputato Alessio Borghi.

E, dall'altra parte, le difese a spada tratta del Direttore del Tg2 espresse da vari esponenti di spicco e funzionari di Fratelli d'Italia come il Capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida e il Deputato Alessio Butti, e poi dal leader di Italia al Centro Giovanni Toti, da Maurizio Lupi di Noi con l'Italia e dal Senatore e Portavoce dell'UDC Antonio Saccone. Illustri assenti: Forza Italia e soprattutto Lega, in quota alla quale Sangiuliano fu nominato alla guida del notiziario della Seconda Rete. 

La stessa Lega che ieri durante l'Audizione di Fuortes non si è minimamente espressa sul caso di Gennaro Sangiuliano partecipante attivo alla convention di Fratelli d'Italia. Nessuno degli esponenti del Carroccio presenti all'incontro istituzionale con l'Ad Rai ha infatti proferito parola - neppure il solitamente agguerrito Capogruppo Massimilano Capitanio - per difendere il gesto del Direttore del Tg2. Direttore del Tg2 che, del resto, ha "messo la faccia" all'evento della Meloni in quel di Milano, ovvero al lancio della campagna elettorale di Fratelli d'Italia a partire dal Nord. Una sfida aperta al Carroccio nel suo territorio di riferimento.

Il silenzio della Lega in Commissione di Vigilanza la dice lunga su come Matteo Salvini possa aver accolto il gesto di Sangiuliano, difeso in sede di audizione dalla Capogruppo di FdI, la Senatrice Daniela Santanché, dal Deputato Emilio Carelli, già grillino e ora nelle file di Coraggio Italia, e dalla Senatrice Sabrina Ricciardi, unica esponente pentastellata presente. 

L'Ad Fuortes - che, nello scetticismo generale, ha dichiarato di non aver visto l'intervento del Direttore del Tg2 alla convention meloniana - ha peraltro rivelato che Sangiuliano aveva chiesto il permesso di moderare un dibattito, e non di pronunciare il discorso introduttivo a un comizio politico; tant'è che sarà la Direzione delle Risorse Umane a sancire se sia stato commesso o meno un illecito. Nel secondo caso, la situazione del Direttore del Tg2 non sarebbe rosea per quanto riguarda il sostegno in CdA Rai, come abbiamo già scritto.

Soprattutto perché Fratelli d'Italia non dispone di consiglieri di riferimento, e Pd e Riccardo Laganà, Consigliere in quota Dipendenti, hanno stigmatizzato duramente la presenza di Sangiuliano alla convention targata FdI. A quel punto, per un'eventuale sfiducia o riconferma, sarebbero determinanti i voti di Forza Italia e Lega, che potrebbe farsi tentare dall'idea di piazzare alla guida del Tg2 il valente Quirinalista Luciano Ghelfi, stimato dal Carroccio e non solo. Staremo a vedere.

Oltre ai silenzi "abitati" - per rubare un'espressione alla psicanalisi - anche le assenze sono spesso spie emblematiche per capire che aria tiri dal punto di vista politico. E ancora una volta, ieri sera in Commissione di Vigilanza, l'M5s risultava assente in massa, con l'unica eccezione della già citata Senatrice Ricciardi. Un forfait grillino pressoché generale nel momento in cui in Commissione si discuteva della vicenda relativa agli ospiti pagati nei talk show della Rai, com'è ad esempio il giornalista del Fatto Quotidiano Andrea Scanzi opinionista remunerato a #Cartabianca, e della "collaborazione" tra la Vigilanza e il Copasir riguardo alla discussa presenza nei talk show di opinionisti russi legati al regime putiniano.

Ricordiamo che il Movimento Cinque Stelle è la forza politica che più si oppone alla risoluzione proposta dal Presidente Alberto Barachini tesa a introdurre una policy sugli ospiti nei programmi della Tv di Stato. Una strenua opposizione da parte dei grillini che secondo il Segretario della Vigilanza Anzaldi cela in realtà lo scopo di proteggere i compensi dei giornalisti "amici" come per l'appunto Scanzi.

Compensi che potrebbero essere a rischio, giacché l'Ad Fuortes deplora la remunerazione degli opinionisti. Tema sul quale al momento egli sta discutendo con il CdA e il Direttore dell'Approfondimento Mario Orfeo, mentre i suddetti opinionisti - indisturbati - continuano a essere pagati con nostri soldi.

Ma perché Gennaro Sangiuliano non può parlare di Prezzolini dalla Meloni? La polemica -abbastanza insulsa- del direttore del Tg2 che non può parlare davanti alla platea di FdI ma può farlo alle Feste dell'Unità. Ma sin dai tempi di Sandro Curzi...Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 03 maggio 2022.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Gennaro Sangiuliano detto Genny è un conservatore invincibile. È un fatto ontologico. Genny ha grumi di conservatorismo che gli scorrono nel dna: già a sette anni conosceva drammi e trionfi del Risorgimento; al liceo citava Spengler, Weber, Papini e Pirandello; dopo la laurea si connotava come uno dei maggior esperti di Prezzolini dell’orbe terracqueo. Al punto che, ancora oggi, appena ti vede, ti dà la mano, e ti cita a mantra la famosa frase «il progressista è la persona del domani, il conservatore è la persona del dopodomani». Non ci puoi prendere un caffè, col buon Gennaro, che subito ti assale alla gola con Thomas Mann, Ortega y Gasset e Machiavelli, mentre magari tu vorresti spettegolare su Salvini, o Draghi, il Milan o Barbara D’Urso. Non ce la può fare. 

Talora la foga da storico dei movimenti conservatori di Sangiuliano (ci ha scritto sopra tre libri) diventa talmente avvolgente da instillare nell’interlocutore un  imbarazzato senso d’ignoranza. Ma, onestamente, m’imbarazza di più che proprio il suo intervento professorale sul tema durante la Conferenza programmatica di Fratelli d’Italia abbia scatenato l’ira della sinistra. Che l’ha trovato «grave e assolutamente improprio. Non è mai accaduto che un direttore di Tg Rai facesse un comizio a una convention di partito. Secondo le regole Rai chi lo ha autorizzato? Serve un urgente chiarimento e l’intervento dei vertici Rai». Questo, almeno, ha twittato la senatrice Valeria Fedeli, capogruppo del Pd in Commissione di Vigilanza Rai. A cui, in un riflesso pavloviano, ha fatto eco Michele Anzaldi il Torquemada di Italia viva non chè segretario della commissione di Vigilanza. Il quale Anzaldi ha ribadito su Facebook: «Il comizio del direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano alla convention di Fratelli d’Italia a Milano rappresenta un caso senza precedenti: mai un direttore di un tg Rai era salito sul palco di una conferenza di partito per un intervento di carattere politico, addirittura proprio l’intervento chiamato a lanciare il discorso immediatamente successivo della leader Giorgia Meloni. Come ha potuto l’amministratore delegato Fuortes autorizzare una tale umiliazione della funzione del servizio pubblico? Come è stato possibile avallare un atto di tale disprezzo e arroganza nei confronti dei cittadini che pagano il canone?». 

Ora, intendiamoci. Fedeli e Anzaldi, nel gioco degli opposti, hanno fatto il loro dovere politico: hanno scatenato un dibattito che s’è inarcato su tutta la dorsale culturale del centrosinistra. Epperò, notiamo –ci si perdoni- una puntina di malafede. Perché non solo la partecipazione di Genny all’evento meloniano era prettamente tecnica senza alcun riferimento all’attualità politica; e non solo era stato autorizzato dal direttore generale della Rai uomo non certo inviso alla sinistra.

 Ma pure perché, nella partecipazione di un direttore di tg del servizio pubblico ad appuntamenti politici, nulla v’è d’inedito. Solo nel febbraio di quest’ anno, per dire, la scuola di formazione Dem del Pd, il “corso di politica” di Gianni Cuperlo aveva tra i suoi relatori, oltre a Prodi, Gentiloni, Letta e Fassino anche Andrea Vianello direttore di RadioRai e Giovanna Botteri storica corrispondente, tra l’altro tra i migliori giornalisti su piazza. E Giovanni Donzelli, tra gli organizzatori della Conferenza di FdI ha giustamente notato altre incongruenze. Scrive Donzelli: «Fatemi capire: Sangiuliano può intervenire alla Festa dell’Unità a presentare il libro di Landini, ma non a un evento di Fdi? Davvero volete punire i giornalisti solo se partecipano a iniziative dell’opposizione?». E la domanda è legittima, nessuno s’è mai lamentato di Genny sotto la bandiera rossa. E la stessa domanda di Donzelli se pone, in un certo qual modo, perfino Carlo Calenda leader di Azione sfatando la fake dell’intervento “senza precedenti” di un dirigente Rai: «Senza precedenti direi di no. Pensa Campo Dall’Orto (ex direttore generale Rai, ndr) alla Leopolda. Su non facciamo doppia morale. Non porta bene». 

Tra l’altro, siamo in molti, sorretti dall’anagrafe, a ricordare che le  ospitate di Sandro Curzi, storico direttore del Tg3 alle accesissime Feste dell’Unità fine anni ’80. 

Comunque da qui, da questa strana amnesia da sinistra, ecco arrivare l’alzata di scudi del centrodestra per Sangiuliano: dal FdI Francesco Lollobrigida («quello di Sangiuliano è stato un contributo di alto spessore che ha arricchito il dibattito») a Antonio Saccone dell’Udc, dal democristianissimo Rotondi a Maurizio Lupi che invoca la fragile democrazia interpretativa dell’articolo 21 della Costituzione, quello sulla libertà d’espressione. Tutti concordi nel ritenere che nella convention di Fratelli d’Italia –tutt’altro che una “manifestazione elettorale”- il pregiato intervento del direttore avrebbe dovuto aprire il dibattito culturale, non chiuderlo con la solita, istintiva, lite da cortile…

Il manifesto politico di Elon Musk su Twitter, di cui Renzi invita a «parlare, anziché ironizzare». Martina Pennisi su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.

L'imprenditore pubblica un grafico che spiega perché si sente più vicino ai conservatori. Il senatore di Italia Viva approva e chiede una riflessione sulla «sinistra riformista». 

«Elon Musk ha sempre twittato come se la piattaforma fosse sua», ha titolato il New York Times . È vero: il fondatore e amministratore delegato di Tesla e SpaceX è un po’ il Trump dell’imprenditoria, su Twitter. È onnipresente, sfrutta il social da 229 milioni di utenti quotidiani (monetizzabili, +15,6% in un anno) per surfare sugli altri media, provoca. 

Ma lo è anche politicamente? Più chiaro: quanto è vicino alle idee dell’ex presidente degli Stati Uniti il nuovo potenziale proprietario di Twitter? Inevitabile chiederselo, in queste ore, mentre ci si interroga sul futuro della moderazione sulla piattaforma e sugli effetti dell'era Musk sul dibattito pubblico. 

Talmente inevitabile che Musk ha pensato bene di rispondersi da solo. A modo suo: cinguettando una vignetta evocativa e un po’ provocatoria sugli equilibri fra gli schieramenti politici negli Stati Uniti. Lui, come si vede chiaramente nell’immagine, ora risulta spostato a destra, verso l’ala conservatrice. Il motivo, secondo la sua ricostruzione, è che dal 2008 in poi la sinistra liberal si è sbilanciata sempre più a sinistra, perdendo alleati e sposando la cosiddetta cultura Woke (si può tradurre come consapevolezza dell'esistenza di razzismo o altre discriminazioni), mentre i conservatori di destra sono rimasti fermi, e adesso se la ridono, forti dei nuovi consensi più o meno moderati (compreso quello di Musk).

Quindi: rimanendo fermo sulle sue idee, Musk si vede più vicino alla destra di quanto non fosse 13 anni fa, quando era invece vicino alla sinistra. Questo perché la distanza fra i due partiti si è allungata e la sinistra non viene più considerata rappresentativa di un maschio bianco (in crisi) di mezza età, ma molto più vicina alle istanze Woke: quelle, cioè, delle minoranze in stato di allerta contro le microagressioni quotidiane. 

Per il senatore Matteo Renzi — ex segretario e premier del Partito democratico di centro-sinistra e poi fondatore di Italia Viva, che dal centro guarda anche a destra — «questo tweet interroga la politica della sinistra riformista più di mille convegni. Bisognerebbe parlarne anziché ironizzare». 

Secondo il Washington Post , invece, le conclusioni a cui giunge il grafico sono errate: «Ci sono vari modi per misurare come è cambiata la politica americana, uno è guardare chi stanno eleggendo gli americani al Congresso: ed emerge il contrario di quello che ha rappresentato Musk», scrive Philip Bump. 

Il giornalista del WaPo spiega che i Democratici si sono effettivamente allontanati dal centro, ma che i Repubblicani partivano molto più polarizzati, e i due schieramenti non erano equidistanti come li ha rappresentati Musk. Tra il 2008 e il 2021, inoltre, i Repubblicani si sono spostati a destra e l'elettorato americano si è spostato verso sinistra.

Dagotraduzione dalla Cnbc il 26 aprile 2022.

Elon Musk, CEO di Tesla e SpaceX, sulla carta la persona più ricca del mondo, sta acquistando Twitter, la piattaforma di social media su cui fa affidamento da anni per promuovere i suoi interessi e plasmare la sua immagine pubblica. 

«La libertà di parola è la base di una democrazia funzionante e Twitter è la piazza della città digitale in cui si dibattono questioni vitali per il futuro dell’umanità», ha affermato Musk quando l’accordo è stato annunciato lunedì. 

Musk si è caratterizzato per anni come un Primo Emendamento e un sostenitore della libertà di parola, difendendosi per esempio in una causa per diffamazione dopo aver definito un critico un “pedo ragazzo” (Musk ha vinto), e sostenendo che la SEC ha violato i suoi diritti in un accordo transattivo che hanno raggiunto e rivisto dopo che l’agenzia lo ha accusato di frode sui titoli nel 2018. 

Ma come hanno sottolineato The Atlantic, Bloomberg e altri, la difesa della libertà di parola di Musk sembra applicarsi principalmente al suo discorso e a quello dei suoi fan e promotori. TechDirt sostiene che Musk non ha una comprensione seria della libertà di parola e ancor meno della moderazione dei contenuti.

Discorso dei lavoratori

Quando si tratta della libertà di parola dei suoi dipendenti, Musk dimostra poca tolleranza. 

Sotto la sua guida, quando Tesla ha licenziato i dipendenti, ha chiesto loro di firmare accordi di separazione tra cui una forte clausola di non denigrazione senza data di fine. Questo tipo di accordi non sono rari nel settore, ma Musk è tutt’altro che un assolutista della libertà di parola qui. 

Una copia di uno di questi accordi di Tesla, condivisa con la CNBC da un ex dipendente licenziato nel 2018 (che non ha firmato l’accordo) diceva: 

«Accetti di non denigrare Tesla, i prodotti della Società o i funzionari, i direttori, i dipendenti, gli azionisti e gli agenti, le affiliate e le sussidiarie della Società in alcun modo che possa essere dannoso per loro o per la loro attività, per la reputazione aziendale o per la reputazione personale».

Nello stesso documento, Tesla richiedeva ai dipendenti licenziati di mantenere nascosti i dettagli sull’accordo di separazione stesso, oltre che al proprio avvocato, contabile o stretto familiare, anche ad altri lavoratori. 

«Le disposizioni del presente Accordo saranno tenute nella massima riservatezza da te e non saranno pubblicizzate o divulgate in alcun modo», affermava l’accordo. «In particolare, e senza limitazione, l’utente accetta di non divulgare i termini del presente Accordo a nessun dipendente o appaltatore della Società attuale o precedente».

Come la maggior parte delle grandi aziende, anche Tesla richiede ai lavoratori di firmare un accordo arbitrale sull’assunzione. Ciò significa che per parlare liberamente in tribunale, dove il loro discorso diventerà parte di un registro pubblico, i lavoratori devono prima ottenere un’esenzione dall’accordo arbitrale da un giudice. 

Sotto la guida di Musk, decine di lavoratori di Tesla hanno denunciato molestie, discriminazioni e altri tipi di molestie razziste, sessiste e di altro tipo e condizioni di lavoro non sicure. Molti hanno anche denunciato ritorsioni dopo aver parlato dei problemi.

Queste accuse sono state recentemente sotto i riflettori a causa di un’indagine appena rivelata dall’EEOC e di una causa legale dell’agenzia per i diritti civili della California, ma la società ha una lunga esperienza. 

Nell’agosto 2018, un ex impiegato della sicurezza di Tesla, Karl Hansen, ha presentato una denuncia alla US Securities and Exchange Commission dicendo di essere stato licenziato ingiustamente dal suo lavoro di investigatore presso l’impianto di batterie dell’azienda a Sparks, in Nevada, dopo aver lanciato l’allarme sul furto di materie prime per un valore di decine di milioni di dollari. Tesla ha nascosto il furto agli azionisti, ha affermato, anche se all’epoca rappresentava una somma sostanziale di denaro per la casa automobilistica.

Nel novembre 2020, l’ex dipendente di Tesla Stephen Henkes ha dichiarato di essere stato licenziato dal suo lavoro in Tesla il 3 agosto 2020, dopo aver sollevato problemi di sicurezza internamente e quindi presentato reclami formali agli uffici governativi. Sia il CPSC che la SEC stanno considerando le denunce di Henkes come prove.

Stampa libera

Musk ha ripetutamente cercato il controllo su ciò che giornalisti, blogger, analisti e altri ricercatori dicono delle sue attività, dei loro prodotti e di sé stesso. 

Una volta il CEO di Tesla ha rimproverato e interrotto un analista in una chiamata sugli utili nel 2018. «Scusatemi, il prossimo, il prossimo. Le domande noiose e ossute non sono belle», ha detto il CEO dopo una domanda sui requisiti patrimoniali della sua azienda. La casa automobilistica aveva appena registrato la peggiore perdita trimestrale della sua storia. Musk in seguito si è scusato per questo e ora a volte non parla durante le riunioni sugli utili di Tesla.

Musk e Tesla hanno anche chiesto ai giornalisti di firmare accordi di non divulgazione o di mostrare bozze di storie alla società per ottenere le approvazioni prima della pubblicazione. 

Musk ha sfacciatamente invitato i follower a modificare la sua biografia su Wikipedia. «Ho appena guardato la mia wiki per la prima volta da anni. È pazzesco!» Musk ha twittato. «A proposito, qualcuno può per favore eliminare ‘investitore.’ Fondamentalmente non investo a zero», ha detto. Le sue legioni di follower hanno obbligato gli autori a modificare la pagina per sminuire i suoi investimenti. 

Musk si arrabbia persino con i blog dei fan quando scrivono delle carenze di Tesla. 

Sotto la sua direzione, Tesla ha smesso di invitare alcuni dipendenti di Electrek a eventi aziendali dopo che il sito - che negli ultimi anni si è evoluto - ha pubblicato una storia con questo titolo, “Tesla sta addebitando ai proprietari $ 1.500 per l’hardware per cui hanno già pagato”. La storia è stata accurata anche se umiliante per Musk perché affronta il fallimento della sua azienda nella corsa per fornire la tecnologia dei veicoli autonomi ai clienti in attesa da lunga data.

Discorso dei clienti

Musk e Tesla hanno anche cercato, non sempre con successo, di mettere a tacere i clienti. Ad esempio, Tesla obbligava i clienti a firmare accordi contenenti clausole di non divulgazione come prerequisito per la riparazione dei loro veicoli. 

Nel 2021, Tesla ha chiesto ai clienti di accettare di non pubblicare messaggi critici sui social media in merito a FSD Beta, un pacchetto software sperimentale di assistenza alla guida che alcuni proprietari di Tesla potrebbero testare utilizzando le proprie auto.

In un accordo che Tesla ha inviato ai conducenti all’inizio di quest’anno per l’accesso alla versione beta di FSD, la società ha chiesto loro di «mantenere riservate le tue esperienze nel programma» e di non «condividere alcuna informazione su questo programma con il pubblico», anche prendendo screenshot, creando post di blog o pubblicazione su siti di social media. 

Tesla ha nominato Facebook, Instagram, Reddit, TikTok, Snapchat e YouTube come siti in cui i proprietari non dovrebbero condividere informazioni sul loro utilizzo di FSD Beta, secondo una copia dell’intero accordo ottenuto dalla CNBC.

Musk in seguito ha revocato i termini di accesso di Tesla a FSD Beta dicendo che nessuno stava comunque rispettando l’accordo. Ma la pratica ha causato un’indagine da parte dell’autorità federale per la sicurezza dei veicoli, NHTSA. 

«Dato che NHTSA fa affidamento sui rapporti dei consumatori come un’importante fonte di informazioni per valutare potenziali difetti di sicurezza, qualsiasi accordo che possa impedire o dissuadere i partecipanti al programma di rilascio beta di accesso anticipato dal segnalare problemi di sicurezza a NHTSA è inaccettabile», ha scritto l’NHSA in un lettera a Tesla nell’ottobre 2021.

Nel frattempo, in Cina, Tesla ha citato in giudizio i clienti che si sono lamentati di problemi di sicurezza con le loro auto e ha citato in giudizio un influencer dei social media per diffamazione. L’influencer, Xiaogang Xuezhang, ha pubblicato un video che mostra i problemi con i sistemi di frenata di emergenza automatizzata di Tesla e di altre case automobilistiche. 

Redazione

Gli avvocati di Tesla e Musk hanno anche presentato costantemente richieste di trattamento riservato per documenti legali e commerciali negli Stati Uniti.

Tra le altre cose, Tesla ha cercato di nascondere alla vista del pubblico: informazioni sulla sicurezza dei veicoli che i regolatori automobilistici federali hanno chiesto all’azienda come pratica investigativa di routine e informazioni commerciali utilizzate da Tesla per richiedere sussidi fiscali alla California Alternative Energy and Advanced Transportation Financing Authority.

Gli avvocati per conto di Tesla e Musk hanno anche cercato di mantenere nascoste le trascrizioni e i video delle testimonianze di dipendenti e dirigenti nei casi dinanzi al tribunale della Cancelleria del Delaware e ad altri tribunali. 

Libertà di parola per me

Musk ha sicuramente esercitato i diritti di libertà di parola per sé e per le sue aziende. 

Di recente, ha affermato che il servizio Internet satellitare di SpaceX Starlink manterrà online le fonti di notizie russe, nonostante ciò che secondo Musk è stato un invito a bloccarle da parte di governi senza nome durante la brutale invasione dell’Ucraina da parte di Putin.

«A Starlink è stato detto da alcuni governi (non dall’Ucraina) di bloccare le fonti di notizie russe. Non lo faremo se non sotto la minaccia delle armi», ha scritto Musk. «Mi dispiace essere un assolutista della libertà di parola». 

Sul fronte del lavoro, Musk sta anche combattendo una sentenza del tribunale amministrativo secondo cui deve rimuovere un tweet dal suo feed perché viola i diritti dei lavoratori. Il tweet, pubblicato nel 2018, diceva: «Niente impedisce al team Tesla del nostro stabilimento automobilistico di votare il sindacato. Potrebbe farlo tmrw se volesse. Ma perché pagare le quote sindacali e rinunciare alle stock option per niente?». 

ELON MUSK FUMA

In Tesla, Musk ha evitato l’obbligo di far approvare alcuni dei suoi tweet da un esperto di diritto dei titoli prima di pubblicarli, nonostante l’accordo transattivo che ha raggiunto con la SEC dopo che questa lo ha accusato di frode sui titoli civili. 

Musk ha detto a Lesley Stahl in un’intervista del 2018 che generalmente i suoi tweet non sono controllati, anche se un tribunale gli aveva ordinato di farli pre-approvare da esperti se contenevano informazioni che avrebbero potuto avere un impatto sul prezzo delle azioni di Tesla. Durante quell’intervista ha detto: «Ciao Primo Emendamento. La libertà di parola è fondamentale...».

Dagotraduzione dal Sun il 26 Aprile 2022.

Il co-fondatore di Twitter Jack Dorsey mangia solo un pasto al giorno e una volta ha trascorso il suo compleanno in un rifugio immerso nel silenzio dove non puoi usare la tecnologia o stabilire un contatto visivo. 

Dorsey ha ufficialmente rassegnato le dimissioni da Ceo di Twitter nel 2021 e ora, il collega miliardario Elon Musk ha pagato sette volte il patrimonio netto di Dorsey per diventare il nuovo proprietario della piattaforma. 

Lunedì il Ceo di Tesla si è assicurato un accordo da 44 miliardi di dollari con Twitter, ovvero sette volte il patrimonio netto di Dorsey di 6,6 miliardi di dollari.

Dorsey, 45 anni, ha fatto notizia molte volte in passato per i suoi ideali unici di salute e benessere. 

L'anno scorso, ha detto al conduttore di podcast Ben Greenfield che mangia solo un pasto al giorno, una forma piuttosto estrema di digiuno intermittente, e talvolta nei fine settimana salta anche i pasti. Ha detto che il digiuno lo aiuta a concentrarsi ed «è stata una nuova dimensione». Dorsey ha raccontato che in genere mangia solo a cena e prepara un pasto abbondante con proteine e molta verdura. 

Nel 2018, Dorsey ha fatto un ritiro di meditazione in Myanmar e un mese dopo è andato su Twitter per condividere la sua esperienza. «Ho meditato al Dhamma Mahimã a Pyin Oo Lwin. Questa è la mia stanza. Di base», insieme alle foto di una stanza spoglia che sembra contenere solo letti. «Durante i 10 giorni: nessun dispositivo, lettura, scrittura, esercizio fisico, musica, intossicanti, carne, parlare e nemmeno contatto visivo con gli altri. E' gratis: tutto è dato ai meditatori per carità».

«Mi sono svegliato alle 4 del mattino tutti i giorni e abbiamo meditato fino alle 21. C'erano pause per colazione, pranzo e passeggiate. Niente cena. Ecco il marciapiede su cui ho camminato per 45 minuti ogni giorno», ha aggiunto Dorsey, condividendo un'altra foto di una passerella dall'aspetto tranquillo. 

Dorsey ha aggiunto che aveva in programma di continuare a lavorare sulla sua pratica di meditazione ogni anno. «Continuerò a farlo ogni anno, e spero di farlo sempre più a lungo ogni volta. Il tempo che prendo per fare questo restituisce così tanto a me e al mio lavoro». 

Dorsey lascia Twitter

Dorsey ha fatto l'annuncio scioccante che avrebbe lasciato Twitter nel novembre 2021. «Ho deciso di lasciare Twitter perché credo che la società sia pronta ad andare oltre il suo fondatore», ha detto Dorsey in una nota.

«La mia fiducia in Parag [Agrawal] come Ceo di Twitter è profonda. Il suo lavoro negli ultimi 10 anni è stato trasformativo. Sono profondamente grato per la sua abilità, il suo cuore e la sua anima. È il suo momento di guidare». 

L'imprenditore ha anche condiviso l'e-mail che ha inviato ai dipendenti interni su Twitter, firmando «ciao mamma!». 

Dopo la notizia, le azioni di Twitter sono aumentate fino al 9% in più, mentre Square, una società di cui Dorsey è anche CEO, è salita del 3%. Il Nasdaq ha quindi sospeso rapidamente la negoziazione di azioni Twitter.

Il consiglio di amministrazione della società si stava preparando per la partenza di Dorsey dal 2020, hanno affermato le fonti. La notizia scioccante arriva oltre un decennio dopo che Dorsey ha co-fondato la piattaforma di social media. Ha co-fondato Twitter con Ev Williams, Biz Stone e Noah Glass nel 2006.

Il vero obiettivo dietro la scalata di Musk a Twitter. Andrea Muratore su Inside Over il 26 aprile 2022. 

Diventare, ufficialmente, un magnate del Big Tech; insinuarsi in un mondo dinamico e sempre in movimento in cui il controllo dei flussi informativi è determinante; fare del suo impero personale una piattaforma digitale a tutti gli effetti come quelle di Amazon, Facebook, Google: Elon Musk ha scalato Twitter per diverse ragioni che molto spiegano delle dinamiche del capitalismo americano e globale.

Musk-Twitter e la “guerra” dei magnati

In primo luogo, della sua tendenza alla concentrazione: il patron di Tesla salta sul ponte di comando di uno dei più celebri e frequentati social network, sicuramente il più controverso e dvisivo, come dimostrato dal tema del ban di Donald Trump, e rafforza con una miniera di dati, potenziali contatti e occasioni di visibiltà la sua galassia comprendente già Tesla, SpaceX e il sistema di internet via satellite Starlink.

In secondo luogo, della personalissima sfida tra i suoi protagonisti. Elon Musk è infatti intento in una vera e propria guerra con Jeff Bezos e il suo impero. Tanto che il Washington Post, di proprietà dell’uomo che contende a Musk la palma di persona più ricca del pianeta, ha posto in essere dei dubbi sulla libertà effettiva di Twitter e delle garanzie per un’informazione corretta con il passaggio del social al magnate di origine sudafricana. Ci sarebbe da ridere, se non fosse vero: Bezos e il suo sistema comprendono già Amazon, la più grande delle piattaforme, e rivaleggiano nello spazio con SpaceX attraverso il sistema Kuiper. Il quotidiano della capitale Usa fa esattamente ciò che Bezos teme Musk possa fare con Twitter: trasformarlo in uno strumento d’interesse e pressione personale. Certo, il problema esiste, e il combinato disposto tra concentrazione e personalizzazione della sfida tra i magnati lo rende più complesso.

In terzo luogo, il rafforzamento degli oligopoli personalistici è una spada di Damocle nel rapporto con le istituzioni federali statunitensi. Di fronte a una corsa “dopata” dalla iper-valutazione di Tesla sui mercati, Musk diversifica il suo patrimonio proprio nei mesi in cui gli Usa e Joe Biden in particolare studiano come affrontare il problema delle grandi piattaforme tecnologiche. Il consolidamento permette di opporre un fronte più ampio alle volontà regolatorie dell’autorità federale.

Musk entra nel Big Tech per cambiarlo

A queste lezioni bisogna aggiungere la necessità di capire perché Musk si sia lanciato in un’operazione tanto vistosa in una fase in cui le sue attività più volte sono state oggetto di critica, dalla possibilità di un suo insider trading sulle criptovalute al braccio di ferro con le autorità del governo per le attività di Tesla in Paesi rivali come la Cina.

Una spiegazione può essere quella del tentativo di Musk di accreditarsi nel gotha di Big Tech forzando una rivoluzione nella gestione di un social che non rappresenterà il suo core business aziendale per poi portare queste pratiche a diffondersi sulle altre piattaforme. Consacrandosi come vero “rivoluzionario” del mondo social e, dunque, entrando con un’azione da guastatore negli affari di compagnie come Facebook, Google, Amazon, notoriamente molto disinvolte nella gestione dei dati degli utenti. Una partita che va di pari passo con il tentativo di creare un oligopolio tech non necessariamente legato al trittico Silicon Valley-Partito Democratico-cultura liberalprogressista e che è stato anticipato dalle mosse di Musk in Stati federali come il Texas.

“Authenticating all humans“: sarà questa la chiave di volta del Twitter del futuro, il vero cambiamento dell’epoca Musk. Il buon Elon, in pratica, al fine di sconfiggere i bot (che hanno avuto un peso enorme nel diffondere le fake news negli ultimi anni) vuole obbligare tutti gli utenti ad autenticarsi sulla piattaforma”, nota Libero Tecnologia. “Questo vuol dire, in poche parole, che non sarà più possibile usare Twitter in modo completamente anonimo: i nostri follower potranno non sapere chi siamo, ma Twitter non ci lascerà twittare senza sapere chi siamo”. Una manovra che può anticipare alcuni interventi dei regolatori ma anche di fatto forzare cambiamenti che poi altre piattaforme dovranno adattare, imponendo di fatto la necessità di gestire con maggior criterio i dati degli utenti e la loro corrispondente rendita commerciale.

Bezos e Biden sul piede di guerra

Che ci sia ruggine per l’operazione di Musk tra il patron di Tesla e il mondo politico-imprenditoriale americano è chiaro. Oltre a sdoganare il suo quotidiano, ad esempio, Bezos ha scritto che l’acquisizione da parte di quest’ultimo del social media Twitter rischia di esporre tale piattaforma digitale all’influenza della Cina. Servendosi proprio del suo profilo Twitter, Bezos ha ricordato che “il secondo maggiore mercato di Tesla nel 2021 è stata la Cina”, e che “i produttori di batterie cinesi sono importanti fornitori per le auto elettriche di Tesla”. Secondo Bezos, “dopo aver bandito Twitter nel 2009, il governo cinese non ha più avuto quasi nessuna influenza su quella piattaforma”, ma proprio l’acquisizione da parte di Musk potrebbe aver mutato la situazione. In una nota pubblicata ieri, Musk ha affermato di aver acquistato Twitter per tutelare la libertà di espressione su quella piattaforma: “La libertà di parola è essenziale al funzionamento della democrazia, e Twitter è la piazza digitale dove vengono dibattute questioni cruciali per il futuro dell’umanità”, ha scritto il fondatore di Tesla e SpaceX.

Biden, invece, potrebbe non essere del tutto scontento di eventuali pulsioni regolatorie indotte nel nuovo Twitter, ma ha rilanciato il tema fondamentale dell’eccessiva concentrazione e dello strapotere di Big Tech.  Biden è “preoccupato dal potere dei social media al di là di chi è alla guida”, afferma la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki. I democratici e i repubblicani sono uniti contro lo strapotere della Silicon Valley e delle piattaforme social, anche se per motivi diversi. Ai liberal preoccupati per la disinformazione, le fake news e le teorie della cospirazione si contrappongono i conservatori contrari alla “censura dei social controllati da un gruppo di ricchi democratici della California. Da anni le big della Silicon Valley sono nel mirino di Washington, lontana comunque dal raggiungere un accordo per una regolamentazione più stringente e per una maggiore tutela della privacy.

Con l’uomo più ricco del mondo alla guida di Twitter non è ancora chiaro cosa accadrà nel settore. Ma è bene sottolineare che questo problema precede l’ascesa di Musk alla guida di Twitter. E il fatto stesso che negli ultimi tempi si sia vista la natura decisiva della classificazione delle informazioni secondo gli algoritmi di Facebook, il peso di Google News nell’orientare il loro accesso al pubblico e lo scatenamento della potenza di fuoco del duo Bezos-Washington Post lo testimonia. L’affare Musk è una conseguenza, non una causa, del matrimonio sempre più organico tra big tech e circuiti informativi. E fino a che a Washington non si capirà la necessità di regolare in maniera stringente operazioni di questo tipo, delegando al mercato le soluzioni, azioni come quella di Musk, che mira a entrare nel gotha dei gestori dei flussi globali di informazioni e dunque della tecnologia in una forma che il solo duo Tesla-SpaceX non consentiva di garantire, saranno sempre più diffuse . Più potenza di fuoco del big tech, in fin dei conti, vuol dire più lobbying a Washington e più freni a ogni tentativo di riaffermare le leggi della concorrenza e della trasparenza. Con un danno generale alla democrazia economica internazionale che senza regole precise contro la creazione di monopoli permetteranno di rimediare.

Un passo avanti. Per salvare la democrazia serve controllare le piattaforme, anche l’America lo ha capito. Luigi Daniele su L'Inkiesta il 27 Aprile 2022.

L’infodemia contemporanea necessita di misure regolatorie che impediscano ai grandi player di fare uso di pratiche pericolose per la società. Finora l’Unione europea sembra aver trovato il modello migliore per contenere i rischi, ma gli Stati Uniti sembrano voler seguire l’esempio.

Lo scorso giovedì, l’ex presidente americano Barack Obama è intervenuto in un incontro sulle sfide poste alla democrazia dall’informazione digitale, organizzato dal Cyber Policy Center, un ente di ricerca collegato all’Università di Stanford. Pur riconoscendo il ruolo innovativo ed emancipatorio che può essere svolto dalle piattaforme online, Obama ha sostenuto come l’infodemia contemporanea rischi, contro ogni sua promessa di democraticizzazione della società e dell’informazione, di tradursi nel suo opposto. Anche a causa di attori che deliberatamente intendono sfruttarne le criticità intrinseche.

Tra questi attori, non ci sono solo «aziende che sono venute a dominare internet in generale e le piattaforme di social media in particolare», le quali prendono «decisioni che, intenzionalmente o no, hanno reso le democrazie più vulnerabili», ma anche «consulenti politici» o «potenze straniere» che possono «sfruttare strumentalmente gli algoritmi delle piattaforme o aumentare artificialmente la portata dei messaggi ingannevoli o dannosi».

Come esempi di uso distorsivo dei social network e dell’informazione online con effetti sulla polarizzazione del dibattito politico nelle realtà interessate, Obama ha citato esplicitamente, tra gli altri, l’uso dei social fatto dai sostenitori di Trump e le campagne di disinformazione di cui la Russia è accusata in diversi Paesi.

L’ex presidente non è nuovo a questo tipo di interventi sul tema: qualche giorno prima, all’Università di Chicago, ha affermato la necessità di «misure regolatorie e norme industriali» che permettano alle piattaforme private di fare business impedendo, al tempo stesso, le pratiche «potenzialmente lesive per la società».

Negli ultimi anni, il dibattito statunitense sul legame tra informazione, social network e democrazia ha assunto accenti che, a lungo, nella mentalità comune americana, sono sembrati eccessivi, finendo per sfociare nella discussione per certi versi filosofica su come trovare il giusto mezzo tra il garantire la libertà di parola e di informazione e il limitare gli attacchi alla democrazia da parte di chi promuove disinformazione approfittando proprio di questa libertà, cioè alterando quei meccanismi decisionali e di produzione del consenso che sono alla base delle democrazie occidentali.

Anche sulla base di questa nuova consapevolezza, alimentata anche da casi come quello di Cambridge Analytica, che ha portato all’audizione di Mark Zuckerberg presso il Parlamento, il Congresso statunitense sta attualmente discutendo su una serie di riforme che hanno l’obiettivo di attribuire maggiori responsabilità e limiti alle piattaforme online, soprattutto ai colossi come Meta, Google e Twitter, introducendo regole più severe in materia di privacy, per tutelare i cittadini, e di concorrenza, per evitare che un monopolio economico si trasformi in un’arma politica.

Soprattutto, anche negli Stati Uniti si sta facendo sempre più strada l’idea che le piattaforme siano responsabili dei contenuti pubblicati attraverso di esse, e che a queste spettino responsabilità in termini di moderazione e di verifica (ad esempio per le notizie o i commenti pubblicati).

Una visione da tempo giudicata prettamente europea, ma che presto potrebbe divenire dominante anche sull’altra sponda dell’Atlantico, dal momento che si discute sempre più spesso di aggiornare il Communications Decency Act, risalente al 1996, modificando quelle sezioni che garantiscono ampia libertà alle piattaforme, sollevandole dalle responsabilità per i contenuti postati dagli utenti.

L’Unione europea, a differenza degli Stati Uniti, segue da più tempo la prospettiva di una limitazione delle piattaforme, tanto in termini di accumulazione di peso politico quanto di responsabilità sui contenuti. Negli scorsi anni, il Parlamento Europeo ha lavorato in più occasioni sulle campagne di disinformazione organizzate in diversi Paesi membri ad opera di potenze extra-UE, al fine di influenzare l’opinione pubblica diffondendo visioni a loro più congeniali su alcuni temi strategici o alimentando notizie false che favorisse i partiti considerati in qualche modo a loro più vicini.

A marzo, il Parlamento ha approvato la relazione della commissione speciale INGE, sulle interferenze straniere nei processi democratici dell’Unione e dei suoi Stati membri: in essa, si sottolinea come le piattaforme online siano spesso state utilizzate da Stati esterni per diffondere disinformazione.

La commissione INGE, per questo, ha chiesto «una legislazione europea che garantisca una trasparenza, un monitoraggio e una responsabilità significativamente maggiori per quanto riguarda le operazioni condotte dalle piattaforme online», oltre che una serie di misure per «obbligare le piattaforme, specialmente quelle che presentano un rischio sistemico per la società, a fare la loro parte per ridurre la manipolazione e l’interferenza delle informazioni».

Nella direzione di un coinvolgimento maggiore delle piattaforme nella lotta alla disinformazione, del resto, si muove anche il Digital Services Act, di recente approvato in versione definitiva dal Consiglio dell’Unione europea, che prevede ad esempio diversi limiti alla profilazione degli utenti e diversi obblighi in materia di trasparenza sulla moderazione dei contenuti, oltre che la possibilità per la Commissione Europea di adottare misure verso le piattaforme che contribuiscono alla diffusione online di notizie false.

«Il Dsa è un passo importante per la sicurezza di internet a livello europeo, perché punta sull’accountability delle piattaforme, fornendo una serie di strumenti utili alla lotta alle fake news e assicurando agli utenti la possibilità di contestare l’azione delle piattaforme», racconta Maria Giovanna Sessa, Senior Researcher di EU DisinfoLab, un think tank che analizza i meccanismi di diffusione della disinformazione in unione europea e le policy di contrasto.

Un ottimismo di fondo condiviso anche da diversi europarlamentari, come Brando Benifei, capodelegazione del Partito democratico, che definisce il Dsa «un buon testo, che finalmente garantisce potere e tutele a cittadini e consumatori» ponendo l’accento su come siano previste «norme più stringenti sulla trasparenza degli algoritmi» oltre che «una procedura più chiara di notice & action in cui gli utenti avranno il potere di segnalare contenuti illegali online, come l’incitamento all’odio o il revenge porn, e le piattaforme online dovranno agire rapidamente».

Secondo Sessa, però, un limite del Digital Services Act è rappresentato dal suo riguardare solo le piattaforme con più di 45 milioni di utenti, mentre «anche quelle minori meritano attenzioni e ulteriori interventi regolatori: negli ultimi anni, infatti, diverse comunità estremiste e cospirazioniste sono migrate su di esse proprio perché percepite come meno rigide sulla moderazione dei contenuti».

Un punto dirimente della regolazione delle piattaforme, infatti, è quello di evitare per quanto possibile il cosiddetto “effetto bolla”, cioè la dinamica per cui si è esposti a fonti informative che confermano le proprie convinzioni, per quanto errate ad estreme siano. «Sebbene l’effetto bolla sia in un certo senso sempre esistito, le piattaforme hanno esasperato questo trend», continua Maria Giovanna Sessa: «Molti algoritmi si basano sulla continua personalizzazione dei contenuti, falsando la percezione di quanto un tema sia diffuso e condiviso. Si rinforza così la tendenza a rifiutare posizioni in conflitto con il proprio pensiero precostituito, trascinando l’utente in un circolo vizioso difficile da spezzare».

È chiaro che la prospettiva di attribuire maggiori responsabilità alle piattaforme solleva alcuni nodi problematici per quanto riguarda il monitoraggio dell’applicazione delle norme. A livello politico, e più profondamente culturale, però, il fatto che questa visione sia perseguita da tempo dalle istituzioni europee evidenzia la presa di coscienza di come, oggi, tutelare la libertà di parola e di informazione significhi anche agire contro gli abusi di essa.

Un apparente conflitto tra due esigenze della democrazia, necessario però per la sua tutela, in maniera simile a come la difesa dell’ordine democratico rende necessaria la repressione delle forze che lo mettono in discussione.

In questo senso, è significativo che anche in area statunitense, tradizionalmente incline a un’interpretazione estesa dal concetto di libertà di parola, si stia iniziando a muoversi in questa direzione, seguendo l’esempio europeo nel modo di declinare la risposta ai rischi per la democrazia causata da alcuni usi delle piattaforme online.

Twitter e destino. L’isteria su Elon Musk è la versione surreale del “se vince Bush me ne vado”. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Aprile 2022.

Ora che il re dei picchiatelli ha comprato il social network, c’è chi scrive di essere preoccupato per la libertà di espressione e quindi minaccia di non twittare più. E noi siamo in attesa di fargli ciao ciao con la manina. 

Ogni giovedì un editore mi telefona per commentare i dati di vendita d’un libro. Il libro non è mio, non è di qualcuno che mi stia particolarmente simpatico o particolarmente antipatico: non osserviamo la catastrofe per sadismo nei confronti dell’autore. Osserviamo la combinazione tra i dati di vendita e la rassegna stampa: ci sono settimane in cui sul libro vengono pubblicati più articoli di quante copie venda.

Niente serve a niente, come evidente a chiunque segua su Instagram qualcuno che abbia in partenza una tournée. C’è gente che tutti i giorni ricorda ai follower a quali link si possono comprare i biglietti, ed è inevitabile pensare che, se anche solo una persona avesse cliccato su quel link ogni volta che è stato postato, a quest’ora i posti disponibili per gli spettacoli sarebbero esauriti. E invece. E invece non si vende un biglietto di niente (prima dicevano che era la pandemia, ora la guerra, domani che i soldi del loro biglietto o del mio libro gli italiani li mettono da parte per pagare il riscaldamento nel primo inverno senza gas russo).

Non vendono (i prosciutti esposti) i social, figuriamoci se li vendono i giornali. D’un altro libro che ha più articoli di giornali che lettori, un altro editore mi diceva che l’ultimo articolo pervenuto era una buona cosa perché scritto da autore molto presente sui social: «L’hanno visto tutti». Cioè: i molti follower del recensore hanno visto qualche screenshot di qualche riga d’articolo che avranno guardato con l’attenzione con cui tutti noialtri guardiamo le immagini che compaiono sui social (mentre aspettiamo che si scongelino i sofficini), e dubito siano corsi a comprare il tomo di cui lo screenshot parlava, anche nella remota ipotesi che avessero letto quelle righe con sufficiente attenzione da capire che raccontavano un romanzo e non la ricetta per la quiche lorraine.

Al lordo di questo girare a vuoto come criceti nella ruota, ferve la preoccupazione per la proprietà dei social. Sono di un miliardario buono o di un miliardario cattivo? Se arriva Elon Musk ce ne dobbiamo andare per protesta? Se un miliardario cattivo (che non ho ancora capito come si distingua da un miliardario buono: pensavo la miliardaritudine fosse una livella) possiede Twitter, è emergenza democratica? Se il nuovo proprietario restituisce l’account a Donald Trump, dobbiamo chiamare Amnesty?

Sono andata a cercare un’intervista che feci a Nora Ephron nell’autunno 2010. Domandavo: «Il mese scorso un tassista newyorchese mi ha detto che, se Sarah Palin vince le elezioni, lui va a vivere altrove». Lei rispondeva: «Ma vive già altrove! La città di New York è un altro paese!». Insistevo: «Quello che vorrei dire a lei e a lui è che in Italia diciamo così a ogni elezione, e poi restiamo sempre qui». E lei rispondeva: «Anch’io sento gente che lo dice da anni, ho amici che minacciavano di emigrare per Bush ma, indovina un po’? Sono rimasti. Ci piace atteggiarci, fare quelli moralmente superiori che non possono sopportare di vivere in un paese di destra, ma dove dovremmo andare? Dieci anni fa si poteva pensare al Canada, ma ora hanno un premier più conservatore di quanto fosse Bush. Non è facilissimo, trovare posti… A lei ne viene in mente uno, una democrazia di sinistra in cui emigrare? Certo non possiamo trasferirci in Irlanda. O in Israele».

La storia si ripete, la prima volta come governo della nazione, la seconda come proprietà di Twitter.

Sei anni prima, il Guardian aveva intervistato Tom Wolfe. L’intervista era uscita pochi giorni prima che gli americani eleggessero per la seconda volta George W. Bush. Wolfe raccontava che Tina Brown era stata a una cena alla quale lei e i suoi commensali parlavano inorriditi degli elettori repubblicani, finché il cameriere aveva dichiarato che avrebbe votato per Bush. E, invece di chiedersi cosa non capivano dei meno ricchi, la Brown e i suoi amici si erano chiesti come poter far capire al povero cameriere ignorante che Bush era il male. (Il miglior tweet a presa per il culo del panico da Musk che abbia visto in questi giorni diceva: il maggior finanziatore delle campagne elettorali di Obama ha comprato Twitter).

Insomma, proseguiva Wolfe, voterei Bush se non altro per andare a fare ciao ciao all’aeroporto a tutti quelli che giurano che emigreranno a Londra se vince: qualcuno deve pur restare qui.

L’isteria dell’iscritto a Twitter che minaccia d’andarsene come a qualcuno importasse qualcosa è divertente, ma ci distrae dalla domanda: perché Musk spende 44 miliardi di dollari per una piattaforma che fa un miliardo l’anno di profitti? È per la stessa ragione per cui il precedente proprietario di Twitter, nelle sue magioni da centinaia di milioni di dollari, non mette lampade, convinto che la luce elettrica alteri il metabolismo? È perché i miliardari son tutti picchiatelli?

Io i picchiatelli non miliardari, quelli preoccupati che Twitter diventi un covo neonazista, quelli che minacciano d’abbandonare i cuoricini che affondano, quelli che finalmente hanno una polemica con cui svoltare un’altra settimana da passare a guardare i social invece che a lavorare, io quelli li capisco.

È difficilissimo arrendersi al fatto che i social siano luoghi inutili e tali resteranno, luoghi dove perdere tempo e non imparare niente, luoghi dove disimparare a fare conversazione, e tuttavia non ce ne stacchiamo. Potremmo leggere il Vasilij Grossman che abbiamo comprato per sentirci pregni di spirito del tempo, e invece resta lì, intonso, mentre cuoriciniamo foto di cani. Potremmo ricominciare a giocare a tennis, tenerci in forma, perfezionare il rovescio a due mani, e invece ci facciamo venire le piaghe da decubito puntesclamativando la nostra indignazione all’ipotesi che Musk non chiami la buoncostume ogni volta che qualcuno ci twitta «Taci, culona».

L’altro giorno Tim Rice – il paroliere di robetta come “Il re leone” e “Evita”, “Jesus Christ Superstar” e “La bella e la bestia” – ha twittato malinconico: «Tweet oltremodo avvincente sul mio ultimo podcast: 11 like in quattro giorni. Foto del mio cane in treno: quasi settemila like in cinque ore. Il mio prossimo spettacolo sarà: Cani, il musical». Quel che non sa, povero Rice, è che lo spettacolo staccherebbe comunque meno biglietti dei cuoricini che toccherebbero a una qualsivoglia foto gratuita del cane. Perché alzarsi dal divano, comprare un biglietto, seguire una trama, è una brutta fatica.

E noi ormai siamo abituati a stare a riposo, i nostri neuroni sono abituati allo sforzo minimo. Là fuori c’è gente che si sbatte per scrivere libri, spettacoli, canzoni, e per recensirli, e per far leggere a più gente possibile le recensioni, e le interviste ai protagonisti, e le meravigliose idee promozionali che dovrebbero servire a farci alzare il culo e arrivare non dico a un concerto ma almeno allo scaffale di casa dove abbiamo poggiato un libro, e invece no. Invece restiamo sul divano, a mettere un cuoricino al tuo spettacolo, che poi è un cuoricino all’idea di me spettatrice del tuo spettacolo, di me e dei miei impeccabili gusti culturali, di me come sarei in un universo che non è questo, questo in cui cambia l’identità dei proprietari delle stanze dei giochi ma mai l’inerzia delle popolazioni che le abitano.

Altro che meme. La libertà di opinione che Elon Musk vuole difendere su Twitter è soprattutto la sua.  Pietro Minto su L'Inkiesta il 27 Aprile 2022.

Ormai i tweet fanno parte di una filiera mediatica composta da siti di news-Reddit-viralità-Wall Street, essenziale per l’economia contemporanea. Il fondatore della Tesla è stato il primo a sfruttarla (e meglio di tutti) e vuole continuare a farlo, senza il rischio di deplatforming o di impedimenti da parte della SEC

Cosa ne se fa la persona più ricca del mondo di un social network con un numero relativamente piccolo di utenti e una cronica incapacità di generare profitto? È una domanda che si chiedono in molti in queste ore, dopo che Elon Musk si è aggiudicato Twitter per 44 miliardi di dollari al termine di un paio di settimane di proposte, negoziazioni e tweet.

Eppure, nei giorni scorsi, Musk aveva detto pubblicamente di non vedere Twitter «come un modo di fare soldi»: ma allora, che cos’è? Noia da miliardari o l’ennesima presunta mossa strategica di chi sta giocando a scacchi in 3D con i destini del mondo?

La risposta – ammesso che ce ne sia una – la conosce solo l’interessato. A noi poveri mortali e umili utenti del suo feudo non restano che le ipotesi: tra queste, la più probabile (e quella in grado di rispondere a più arcani) ha a che fare con la SEC (la Securities and Exchange Commission, l’ente federale statunitense che vigila sulla borsa valori).

Chi conosce le vicende di Elon Musk saprà già che la SEC è un po’ il suo nemico prescelto, il villain della saga. Tutto comincia nell’agosto del 2018, quando il CEO aprì la sua app di Twitter e scrisse urbi et orbi: «Am considering taking Tesla private at $420. Funding secured». Ovvero, Musk disse di voler ritirare la sua Tesla dalla borsa, sborsando 420 dollari per azioni grazie a dei fondi che diceva essere stati “assicurati”.

Fu il panico. Al di là della numerologia simpaticona (420 è un numero caro agli appassionati di marijuana; la stessa Twitter è stata comprata sborsando 54,20 dollari ad azione: le risatone!), un annuncio simile finì per far schizzare le quotazioni dell’azienda, che alla fine di quella giornata erano salite dell’11%, attirando le attenzioni della SEC. Da allora è iniziato un estenuante balletto tra il miliardario e la Commissione, il primo abituato ad annunci infondati su Twitter (con cui è in grado di influenzare il mercato, anche nelle criptovalute), la seconda intenzionata a fermarlo, spesso invano.

Nel corso degli ultimi quattro anni Musk ha dovuto accettare una sorta di “babysitter” per il suo account Twitter, facendo vagliare i suoi tweet prima di inviarli. Misure speciali che non sono bastate a contenere il CEO, la cui potenza finanziaria e mediatica non ha fatto che aumentare dall’inizio della pandemia, grazie a una crescita sorprendente di Tesla.

Ma perché comprarsi Twitter, allora? La spiegazione ufficiale proposta dal suo nuovo proprietario è «per difendere la libertà d’espressione». Potrebbe essere vero, anche se ci permettiamo una piccola correzione: «Per difendere la sua libertà d’espressione». Come ha scritto il commentatore tecnologico Ranjan Roy, infatti, il fine ultimo di Musk potrebbe essere di impedire alla SEC di togliergli l’account Twitter, o di bandirlo come è successo a Donald Trump. Comprare il social per evitare il deplatforming (il processo con cui un utente viene rimosso e bandito dai servizi digitali), quindi.

E se può sembrare assurdo spendere 44 miliardi di dollari per la difesa di un profilo Twitter, val la pena ricordare il peso finanziario e politico che @elonmusk ha per il miliardario e le sue diverse proprietà. È qui, a colpi di tweet, che Musk è diventato “Elon”, il miliardario simpatico (ai più), deciso a salvare il mondo con le auto elettriche di Tesla e a costruirne un altro, su Marte, con i razzi di SpaceX, il tutto mentre scava tunnel con The Boring Company. La filiera mediatica tweet-siti di news-Reddit-viralità-Wall Street è una componente essenziale per l’economia contemporanea, ed è stato Elon Musk a sfruttarla per primo, e meglio.

È lo stesso Roy a notare come sia possibile raccontare l’ascesa in borsa di Tesla (e lo spessore del portafogli di Musk) con un grafico come questo, che mostra la frequenza dei tweet dal profilo del CEO. La crescita dei secondi sembra accompagnare i guadagni dell’imprenditore: 

Nel grafico segnaliamo due picchi notevoli: il primo, a inizio 2013, coincide con un aumento in borsa del 40% per Tesla; il secondo arriva proprio nell’estate del 2018, quella del tweet incriminato, altro periodo di crescita. Da allora Musk non hai smesso di twittare – né di arricchirsi. Alla luce di tutto questo, risulta più chiaro come l’idea che la SEC – il cui processo contro Musk è in corso proprio in questi giorni – possa togliergli tutto questo sia troppo pericolosa per le sorti del miliardario. E non perché non potrebbe più pubblicare meme rubati da Reddit; no, la posta in palio è molto più alta.

Proprio ieri, mentre l’operazione Twitter andava finalmente in porto, Elon Musk, su Twitter, definiva quelli della SEC «pupazzi senza vergogna». E la SEC cosa può fare a questo punto, bandirlo dal suo stesso social network?

Estratto dell’articolo di Massimo Basile per repubblica.it il 26 Aprile 2022.  

[…] L'acquisizione del social da parte dell'uomo più ricco al mondo, Elon Musk, porterà a uno stravolgimento enorme, di cui il miliardario di origine sudafricana ha già ampiamente dato conto: ci saranno algoritmi più aggressivi per moltiplicare le interazioni e totale libertà d'espressione, senza più vincoli o sanzioni. 

Il fatto che pochi minuti dopo l'annuncio dell'acquisto di Twitter di parte di Musk per circa 44 miliardi di dollari, il presidente degli Stati Uniti e il suo predecessore abbiano sentito la necessità di commentare, dà la dimensione del fenomeno, che va oltre gli oltre duecento milioni di utenti in tutto il mondo, un decimo di quelli di Facebook. Joe Biden è "preoccupato dal potere dei social".

Donald Trump ha detto che non tornerà su Twitter, dopo più di un anno di espulsione. Questa è stata la piattaforma su cui si sono scontrati Trump e Biden per due anni, in cui Trump ha attaccato tutti, minacciato il mondo, mosso mercati, silurato ministri, dove è nato il movimento #BlackLivesMatter, quello del #MeToo in difesa delle donne, della Primavera Araba, dell'indignazione all'attacco nazi ai pacifisti di Charlottesville, del giornalismo oltre i giornali, dei debunker scopritori di bufale, la finestra in diretta sul mondo.

Negli anni è diventata la piattaforma che ha provato a contrastare la disinformazione e la manipolazione, ma arrivata a un punto di crisi quando a essere bannato era stato il presidente a capo del Paese più potente al mondo: lui, Trump, il Commander in Tweet, il troll più famoso, prima dell'avvento di Musk.

Era l'8 maggio 2013 quando Trump dal suo account atrealDonaldTrump aveva sbeffeggiato i suoi detrattori: "Scusatemi falliti e odiatori, ma il mio quoziente d'intelligenza è uno dei più alti - e tutti voi lo sapete. Per favore, non sentitevi molti stupidi o insicuri, non è colpa vostra". Da lì, un'ascesa planetaria, fatta di messaggi controversi ("bambini sani vanno dai dottori, prendono un sacco di vaccini, non si sentono bene e cambiano: AUTISMO. Troppi casi!", 28 marzo 2014).

Il body shaming, l'insulto a Arianna Huffington ("è brutta dentro e fuori. Capisco pienamente perché il suo ex marito l'ha lasciata per un uomo, ha preso una buona decisione"), la battaglia ai mulini a vento in stile Don Chischotte ("i mulini sono la più grande minaccia negli Stati all'aquila calva. Ma gli allarmi dei media al 'riscaldamento globale' sono peggio").

E quando aveva lanciato accuse sulla vera origine di Barack Obama ("diamo un'occhiata più da vicino al certificato di nascita, visto che viene indicato come nato in Kenya"), salvo poi promuoversi come uomo di pace: "ogni volta parlo di odiatori e falliti lo faccio grande amore e affetto. Non riescono ad accettare il fatto che sono stati fregati alla nascita". Gli analisti dicono che senza Twitter non ci sarebbe stata la presidenza Trump.

[…] Da ora in poi, con la nuova era Musk, la domanda diventerà un tormentone: Trump tornerà su Twitter? Persone a lui vicine dicono che avrebbe una grande voglia di farlo, ma dipende da come andrà il social personale, Truth, partito tra difficoltà e intoppi tecnologici.

Musk gli lascerà la porta aperta, è la sua nuova sfida, un'operazione marketing di lancio della piattaforma in grande stile. Il ritorno del Commander in Tweet nel pieno della crisi Ucraina e con le elezioni di midterm tra meno di sette mesi, è una tentazione molto forte. E una minaccia per i suoi avversari. Il fight club globale in cui c'è solo una regola: niente regole. Proprio come Musk intende il suo nuovo Twitter.

Da “il Giornale” il 26 Aprile 2022.  

Contestare sui social il professore-provocatore Alessandro Orsini può comportare di essere banditi dai social per qualche giorno. «Questo è assurdo, era solo una critica politica» commenta il parlamentare di Italia viva Luciano Nobili, bloccato da Twitter finché non ha rimosso il post incriminato. Nobili aveva ritwittato un'immagine cruda diffusa della reporter Francesca Mannocchi dove comparivano corpi carbonizzati a Bucha, tra i quali quello di un bambino. E aveva aggiunto a commento la discussa frase pronunciata da Orsini: «:Meglio i bambini che vivono nella dittatura che sotto le bombe». Il deputato è stato richiamato da Twitter via mail con la contestazione di istigazione alla violenza: «Decisione senza senso, oltretutto erano immagine largamente diffuse» alla fine ha dovuto cedere Nobili"

Alberto Simoni per “La Stampa” il 27 aprile 2022.  

Alec Ross, già consigliere di Obama e al Dipartimento di Stato con Hillary Clinton come consulente per l'innovazione, è abituato a muoversi nella galassia digitale, ne conosce gli anfratti, le zone buie e le potenzialità. 

Quando ha sentito per la prima volta che Elon Musk aveva fatto un'offerta per acquistare Twitter pensava «fosse uno scherzo, di quelli cui Elon ci ha abituati. Ne ha fatti tanti, di cattivo gusto e divertenti». Poi però da fantasia la scalata è diventata realtà: «Ho sentimenti contrastanti», dice al telefono da Bologna dove insegna alla Johns Hopkins University.

Cosa c'è di buono in questa acquisizione?

«Il board di Twitter è in confusione da troppo tempo, quindi ben venga». 

E il rovescio della medaglia

 «Quel che mi preoccupa è da dove viene Elon Musk, una sorta di fraternita maschilista, popolata da miliardari libertari di San Francisco, il mondo di Thiel e della cosiddetta Paypal mafia. Temo che prendano la libertà di parola e la trasformino in un'arma».

Perché? Quali segnali glielo suggeriscono?

«Hanno una mentalità da adolescenti, twittano in quel modo, irriverente, combattivo.

Basta guardare le polemiche con Bill Gates sulle vendite allo scoperto di Tesla. Tutto a ruota libera». 

Ci sono timori sul fatto che l'informazione finisca nelle mani di un solo miliardario. Questo non la colpisce?

«Mi spaventa molto meno rispetto all'approccio adolescenziale. Anche Jeff Bezos è miliardario ma non ci sono problemi con il Washington Post, c'è una responsabilità». 

Quella che mancherà a Musk secondo lei?

«O mancherà a chi lo guiderà per lui». 

Chi saranno?

«Libertari, nel senso di sostenitori di un meccanismo senza regole. Elon ritiene che uno possa dire quello che vuole. Ci saranno persone cacciate dalla piattaforma che torneranno sentendosi tutelati». 

Però Trump, il più illustre degli epurati, ha detto che non riapparirà.

«Più che questo penso ai temi cui la "mafia Paypal" si concentrerà e che attireranno l'attenzione dell'ultradestra repubblicana, il mondo che fa riferimento all'ex presidente».

Quali temi saranno centrali per Musk?

«Tasse e soldi. Lui e Peter Thiel fanno di tutto per evitare di pagare le tasse e mantenere intatto il loro potere economico. E oggi quest' agenda li allinea con l'ala più radicale dei repubblicani. Ho l'impressione che questo porterà Twitter a essere veicolo di questa visione». 

Fra le varie ipotesi si parla anche di un sistema open source, algoritmi accessibili a tutti proprio per garantire la libertà di espressione. Cosa significa?

«Anzitutto, non significa che chiunque potrà avere accesso alle chiavi di Twitter e farsi un social a uso e consumo. Open source significa però che ognuno può capire come rendere un proprio messaggio virale.

Io penso che l'attuale algoritmo di Twitter sia terribile, lo ritengo privo della neutralità necessaria. Su questo mi sento di simpatizzare con Musk. Tuttavia, bisogna capire quale direzione questa open source strategy prenderà».

Come la politica potrebbe esserne influenzata?

«L'avvento di Musk renderà il linguaggio su Twitter molto più abrasivo, irriverente, con un umorismo di basso livello. Il timore è che si creerà un sistema dove rabbia e un certo linguaggio diventeranno dominanti. E questo influenzerà la politica».

Teme per la salute della democrazia?

«Temo che ci sarà una diminuzione della partecipazione attiva e che la nostra politica diventerà su Twitter come un medievale duello di spade. E questo può minacciare la democrazia. Ma c'è un secondo aspetto che la mancanza di regole comporta». 

Quale?

«Assenza di un sistema regolatorio efficace significa consentire ai capitali stranieri di essere usati per influenzare un processo decisionale. Se Musk applica il suo credo di zero censura, zero regolamentazione e zero intermediazioni, allora non avrà alcun problema a consentire a soldi provenienti dall'estero di sbarcare su Twitter, sponsorizzare e spingere alcuni contenuti a scapito di altri nell'interesse del Paese che finanzia tutto ciò». 

Si entra in una dimensione di sicurezza nazionale così

«Assolutamente. È quello fatto dalla Russia attraverso Facebook nel 2016. E allora c'era un pessimo controllo interno e scarsa regolamentazione. Cosa succederebbe invece con Twitter totalmente priva di controlli? Un incubo». 

Musk ha detto di non usare Twitter come nuova fonte di guadagno, ma come «ritorno alla civiltà».  Per questo scopo ha messo sul piatto 44 miliardi di dollari? Tanti per una battaglia di civiltà

«Musk è un maestro nel creare valore per le sue società. L'ha fatto con SpaceX e con Tesla. Credo sia ragionevole pensare che diminuirà la sua esposizione nella nuova compagnia quando sarà riuscito a incrementarne il valore. Non dimentichiamo che l'operazione è legata a finanziamenti con tassi tra 4,5 e 5%. Fra un anno o poco più potrebbe riportare la società in Borsa, con le azioni in rialzo e fare soldi»

DAGONEWS il 27 aprile 2022.

L’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk ha fatto scattare l’allarme rosso a Washington. L’amministrazione Biden non vede di buon occhio l’operazione: se l’uomo più ricco del mondo, un geniale pazzoide da sempre su posizioni politicamente scorrette, mette le mani su un social network così “rilevante” tra gli opinion-maker non c’è da dormire sonni tranquilli. 

La Casa bianca ha attivato i suoi legali per mettere a fuoco lo scenario, capire se e quali possano essere i margini di intervento. Tra i democratici c’è chi teme contraccolpi politici, addirittura una minaccia alla sicurezza nazionale. 

Con quali soldi Musk ha comprato Twitter? I 46,5 miliardi sganciati sono così ripartiti: 21 li ha messi Musk di tasca sua, 13 arrivano da prestiti bancari e gli altri 12,5 sono frutto di prestiti ottenuti impegnando le azioni di Tesla. 

Un bel cetriolo per gli istituti, con Morgan Stanley, Bank of America e Barclays in testa, che proprio per questo “scambio” hanno visto le quotazioni di Tesla affondare a Wall Street. I titoli del colosso delle auto elettriche hanno bruciato 110 miliardi di dollari di capitalizzazione. Una goduria per l’amministrazione Biden che, dall’alto della propria ostilità all’affare, non ha apprezzato il sostegno dato dalle banche a Musk. Che il prossimo obiettivo dei democratici sia quello di “punire” Tesla per stangare di sponda gli istituti, a cui lasciare in pancia titoli fortemente svalutati? Ah, saperlo…

(ANSA il 27 aprile 2022) - Elon Musk può ritirarsi dall'offerta a Twitter pagando un miliardo di dollari, una cifra bassa rispetto a quelle tipicamente imposte come 'termination fee' nei leverage buyout. E' quanto emerge dalle comunicazioni alla Sec. Nel caso in cui fosse Twitter a fare un passo indietro per motivi regolamentari o per un'offerta maggiore da un altro potenziale acquirente, la società che cinguetta dovrebbe pagare al patron di Tesla un miliardo.

(ANSA il 27 aprile 2022) - Moody's mette sotto osservazione per un possibile downgrade il rating Ba2 di Twitter in seguito all'acquisizione da parte di Elon Musk. Lo afferma l'agenzia di rating, sottolineando che l'esame riguarda la quota di debito dell'operazione che "risulterà in un materiale indebolimento delle metriche di credito" ma anche le implicazioni di governance.

(ANSA il 27 aprile 2022) - S&P ha messo tutti i rating di Twitter, incluso quello BB+ a lungo termine, sotto esame in vista di un possibile taglio, in scia all'accordo da 44 miliardi di dollari per l'acquisizione da parte di Elon Musk. "L'operazione verrà finanziata con una combinazione di debito e capitale e ci aspettiamo che la leva finanziaria di Twitter aumenti in modo sostanziale al di sopra del limite di 1,5 volte, livello per un downgrade del rating BB+", si legge in una nota. S&P prevede di risolvere il creditWatch, che potrebbe portare a un taglio di diversi notches, "una volta che l'acquisizione si sarà conclusa".

La transazione proposta include l'emissione di 13 miliardi di dollari di nuovo debito da parte di Twitter e un 'margin loan' da 12,5 miliardi a fronte di 62,5 miliardi di dollari in azioni Tesla, a fronte di un debito attuale del gruppo di "soli" 5,29 miliardi di dollari, ricorda S&P. "Prevediamo di raccogliere più informazioni sui dettagli del margin loan ma è possibile che consolideremo il prestito nella struttura del capitale di Twitter e nelle metriche di credito". In ogni caso, indipendentemente dalle modalità di computo del margin loan, "l'ammontare di debito nella struttura di capitale aumenterà significativamente e la leva supererà la soglia di 1,5 volte prevista per l'attuale rating".

L'acquisizione potrebbe dunque "determinare un downgrade multiplo del rating dell'emittente, probabilmente non più alto della categoria 'B'. Secondo S&P la transazione "aumenta" anche "i rischi e le incertezze sui potenziali cambiamenti nella strategia, nella gestione e nella governance". "Attualmente non disponiamo di informazioni sufficienti sulla componente in equity del finanziamento per determinare se Musk avrà il controllo economico o di voto su Twitter", anche appoggiandosi a "un consorzio di investitori".

"Una proprietà di controllo" viene considerata dall'agenzia di rating "un rischio chiave di governance perché l'azionista di controllo potrebbe mettere i suoi interessi al di sopra quelli degli altri stakeholder, inclusi gli obbligazionisti". La risoluzione del CreditWatch comporterà inoltre "una revisione di qualsiasi cambiamento nella strategia, governance come pure composizione del board e dei diritti di voto. Valuteremmo probabilmente una proprietà di controllo - conclude S&P - come un fattore negativo nella valutazione della gestione e della governance della nuova entità".

(ANSA il 27 aprile 2022) - NEW YORK, 26 APR - Tesla affonda a Wall Street. I titoli del colosso delle auto elettriche perdono il 12,18% e bruciano 110 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato. Il piano da 44 miliardi di dollari di Elon Musk per acquistare Twitter prevede 13 miliardi di debito da alcune delle maggiori istituzioni di Wall Street e 12,5 miliardi di prestito usando come collaterale i titoli Tesla. Musk non ha ancora comunicato nel dettaglio come finanzierà i restanti 21 miliardi in contati, alimentando l'ipotesi che posa dover vendere titoli della casa automobilistica.

Da repubblica.it il 27 aprile 2022.  

Elon Musk ha rivelato in un filing depositato presso la Sec (Securities and Exchange Commission, la Consob italiana) come intende finanziare l'offerta da 43 miliardi di dollari sulla totalità delle azioni Twitter. 

L'imprenditore e fondatore della Tesla ha dichiarato di aver trovato 25,5 miliardi di dollari di finanziamenti coordinati da Morgan Stanley, la banca che lo affianca in questa operazione. Di questi 25,5 miliardi la metà, cioé 12,5 miliardi, sono rappresentati da prestiti a fronte di azioni Tesla date in garanzia e facenti parte del suo pacchetto azionario. Inoltre, Musk finanzierebbe l'offerta con 21 miliardi di dollari di suo patrimonio personale. In totale fanno 46,5 miliardi di dollari e dunque implicitamente è come se Musk avesse rilanciato rispetto al prezzo indicato originariamente.

Il cda di Twitter non ha ancora risposto ufficialmente all'offerta da 43 miliardi di dollari lanciata da Musk ma ha deliberato una poison pill (pillola avvelenata) che impedisce a qualsiasi azionista di salire oltre il 15% del capitale attraverso acquisti sul mercato. Il board di Twitter ha assoldato JP Morgan Chase e Goldman Sachs come advisor per difendersi dalla scalata ostile del geniale imprenditore sudafricano. 

Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" il 27 aprile 2022.

Chi governerà materialmente Twitter, visto che il nuovo proprietario ha già la responsabilità di aziende molto complesse, da Tesla a SpaceX? Come farà il libertario Elon Musk a eliminare i filtri dei contenuti immessi in rete senza ridare spazio alla disinformazione e alle teorie cospirative? E non rischia di essere vulnerabile alle pressioni politiche della Cina visto che la metà del milione di Tesla prodotte annualmente viene dalla fabbrica di Shanghai?

Adesso che Twitter ha abbassato il ponte levatoio, all'uomo più ricco del mondo, che l'ha conquistata, non viene dato il tempo di festeggiare: tutti chiedono cosa ne farà e come la gestirà. 

L'uomo, si sa, è imprevedibile, ama stupire, ma la direzione di marcia è chiara: lui stesso l'ha indicata parlando enfaticamente di difesa intransigente del free speech e aggiungendo che la totale libertà della piazza digitale di Twitter (la rete sociale più influente per l'informazione) «è fondamentale per una democrazia funzionante» e, addirittura, «essenziale per il futuro dell'umanità».

Musk promette dunque di essere un libertario a trazione integrale (precisando di essere per la libertà di parola «che rispetta la legge») ma gli analisti lo pressano: in Borsa c'è nervosismo per le imprese di big tech non più redditizie come un tempo e Twitter è la più vulnerabile. 

E poi la traduzione degli slogan sul free speech in comportamenti concreti non sarà facile. Intanto lui non è il primo a parlare di Twitter come di un'agorà: lo aveva già fatto il Ceo Dick Costolo nel 2013, salvo poi scoprire che la piazza digitale è, in realtà, un'arena zeppa di gladiatori a caccia di attenzione. E che la moderazione della piattaforma, adottata per bloccare falsità e calunnie non può essere liquidata come censura.

In secondo luogo, il free speech va sicuramente difeso, ma il Primo emendamento della Costituzione Usa che lo tutela vieta di porre vincoli solo al governo e ai poteri pubblici, non ai privati che, infatti, spesso impongono riservatezza ai loro dipendenti. Lo sa bene Musk, sempre durissimo coi suoi critici e pronto a licenziare senza pietà i dipendenti «non allineati». 

C'è, poi, il nodo della compatibilità con le nuove regole europee: la rinuncia a eliminare da Twitter i contenuti estremi va in direzione opposta rispetto alle delibere della UE che ritiene le piattaforme responsabili per i rischi che i loro servizi possono rappresentare per i cittadini.

Insomma, come nota persino un suo ammiratore come Jason Miller, consigliere di Trump, Elon Musk potrebbe scoprire che «è più facile mandare uomini su Marte che cambiare la cultura di Twitter». 

Né sarà agevole trovare un modello di business redditizio, come ci si aspetta da un'azienda di Musk: in termini di piattaforma e di diffusione delle notizie, Twitter funziona bene ma perde soldi e ora deve vedersela anche con nuovi concorrenti come TikTok che crescono nel mondo dei social network, togliendo ossigeno a tutti gli altri.

Il fondatore di Tesla sicuramente ha idee valide (più trasparenza con l'algoritmo open source, identità certa per tutti gli utenti, meno dipendenza dalla pubblicità, forse l'iscrizione a pagamento) per rimettere in pista Twitter, ma deve anche stare attento a non farsi distrarre dalle sue attività principali che rimangono l'auto elettrica e lo spazio. 

Stabilirà la rotta e poi affiderà la guida a un delegato. Resterà l'attuale Ceo, Parag Agrawal? Sembra improbabile, visto che Elon ha dichiarato pubblicamente la sua sfiducia nel management attuale, ma lui, come detto, è imprevedibile.

Tornerà il fondatore Jack Dorsey, amico di Musk che ieri lo ha definito il miglior proprietario possibile di Twitter che per lui è «la cosa più vicina a una coscienza globale»? Possibile. 

Le risposte sull'affare Twitter non devono, poi, venire solo da Musk: intanto l'uscita dalla Borsa e la trasformazione della rete sciale in società privata deve essere ratificata dal board uscente della società e autorizzata dalle authority del mercato con le quali Musk ha un pessimo rapporto.

La Casa Bianca per ora tace ma si sa che Biden è preoccupato: teme che l'uomo più ricco del mondo usi Twitter come sua arma politica e ideologica. Un altro dubbio riguarda il comportamento dei 7500 dipendenti, molti dei quali sono dei liberal terrorizzati dall'arrivo di un nuovo padrone assai poco politically correct. 

In passato Facebook e Google sono stati bloccati o, comunque, condizionati dai dipendenti attivisti in rivolta. Infine l'interrogativo sull'atteggiamento di Donald Trump. Ha detto che non tornerà su Twitter anche se la sua messa al bando verrà revocata: meglio puntare sulla sua nuova piattaforma, Truth Social. Che, però, non sta funzionando e attira poco traffico. L'ex presidente pazienterà ancora, ma se la sua rete non dovesse decollare, difficilmente rinuncerà davvero al megafono di Twitter.

Estratto dell’articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” il 27 aprile 2022.  

Un anno fa gli studiosi si chiedevano: chi separerà gli umani dai robot? 

Con l'acquisto di Twitter da parte di Elon Musk, la domanda è cambiata: chi separerà l'auto elettrica da un tweet, un motore Performance da un hashtag, la libertà d'espressione dalla censura cinese? 

Jeff Bezos, per esempio, se lo è chiesto. Oscurato dalla mossa del rivale, il fondatore di Amazon ha gettato un po' di arsenico sull'affare dell'anno. 

Bezos si è chiesto se la Cina adesso farà pressione sulla Tesla di Musk per reprimere quella "libertà di espressione" che il visionario sudafricano si è comprata, offrendo 44 miliardi di dollari per rilevare tutte le azioni della piattaforma social. Il presidente Joe Biden è «preoccupato per il potere dei social». 

[…] Quello cinese è l'Eden industriale di Musk, lì ha costruito la Gigafactory di Shanghai, stabilimento che in Occidente si sarebbe solo sognato: tremila auto prodotte alla settimana, più di 250 mila l'anno. 

Ma se c'è una piattaforma che Pechino non ama è Twitter, bannato dal governo nel 2009. La Cina potrebbe usare il social come canale per le sue comunicazioni di Stato?

[…] Resta la domanda: il troll più celebre al mondo porterà la "libertà d'espressione" anche in Cina o subirà la pressione per non compromettere gli affari? «Il governo cinese - ha commentato Bezos - ha appena guadagnato una leva sulla piazza digitale? ». Musk per ora non risponde alle accuse e si limita a dire: «La violenta reazione di chi teme la libertà di parola la dice tutta».

Nonostante abbia solo 217 milioni di utenti, un decimo del seguito di Facebook, Twitter è considerata molto più influente, perché ci sono tutti i leader politici del mondo e i top manager. Jack Dorsey, il fondatore, ha definito l'accordo con Musk l'unica soluzione in cui crede. «L'obiettivo di creare una piattaforma affidabile e larga - ha aggiunto - è quella giusta». Ma il ceo, Parag Agrawal, ha ammesso: «Nessuno sa davvero quale direzione prenderà il social». 

[…] 

L'idea di impegnare parte dei titoli Tesla per raccogliere 21 miliardi cash da aggiungere ai 23 già raccolti attraverso le banche, ha fatto crollare ulteriormente le azioni, che hanno perso oltre l'11%. In una sola giornata Tesla ha bruciato più di 100 miliardi di dollari di capitalizzazione. 

Dal 4 aprile, giorno in cui Musk ha rivelato di avere acquisito il 9% delle quote della piattaforma social, le azioni Tesla hanno perso il 21% del loro valore. Twitter ieri, a un certo punto, aveva registrato un calo di oltre il 3%, a conferma di come il destino dei due giganti si sia saldato. 

Dagospia il 27 aprile 2022. Dagotraduzione da un articolo di Mick Hume* per il Daily Mail

* Mick Hume è l'autore di "Trigger Warning: La paura di essere offensivi uccide la libertà di parola?" pubblicato da William Collins.

Chi ha paura della libertà di parola? La risposta, se non fosse già abbondantemente chiara, è tutta l'élite liberale e gli ossessionati dalla cancel culture che trattano Twitter come la loro camera d'eco privata. 

Questo è stato, almeno, fino all'inizio di questa settimana, quando Elon Musk si è assicurato un accordo per acquistare il social network per 35 miliardi di sterline e si è impegnato ad aprire il sito per consentire una maggiore libertà di parola.

Ora questi guerrieri della tastiera sono andati in crisi. 

Esperti di sinistra, accademici e celebrità di destra si sono dichiarati terrorizzati dal fatto che l'uomo più ricco del mondo possa osare fare l'impensabile: consentire a chi ha un'opinione anche leggermente diversa dalla propria di esercitare la libertà di espressione online.

Pochi giorni fa, un professore di giornalismo particolarmente esperto della New York University è arrivato al punto di avvertire: «Oggi su Twitter sembra l'ultima sera in un nightclub di Berlino al crepuscolo della Germania di Weimar». 

Un tremante editorialista del Washington Post si è dichiarato "spaventato" perché Musk «sembra credere che sui social media tutto vada bene. Perché la democrazia sopravviva, abbiamo bisogno di più moderazione dei contenuti, non di meno». (Per “'moderazione dei contenuti” leggi “Censura del PC”).

Ma in mezzo a tutto questo lamentarsi, non posso fare a meno di sorridere perché, per chiunque di noi crede nel diritto inalienabile e illimitato alla libertà di parola, questa acquisizione è sicuramente qualcosa da festeggiare con almeno due applausi. 

La verità è che gli isterici avvertimenti di una discesa nel "fascismo" sregolato si riveleranno sicuramente infondati. Musk, che si descrive come un «assolutista della libertà di parola», si è semplicemente impegnato a rivedere le controverse politiche di moderazione dei contenuti di Twitter e a consentire una più ampia diffusione dell'opinione.

Non vi è alcun suggerimento che gli incitamenti a commettere atrocità violente o altri contenuti pericolosi non continueranno a essere regolamentati in modo appropriato. Per i "Twitterati", tuttavia, tali chiarimenti non contano: per loro, le mura della loro cittadella stanno crollando e Musk, in quanto motore di tale cambiamento, rappresenta un'aberrante minaccia alla loro visione del mondo.

In effetti, per troppo tempo una forte minoranza ha trattato con disprezzo la vera libertà di parola, sostenendo le opinioni di sinistra quasi fino alla completa esclusione di altre convinzioni. Incoraggiandosi a vicenda nella loro coccolata bolla di Twitter, sostenuta da potenti algoritmi digitali che alimentano gli utenti con un flusso continuo di contenuti simili, si sono illusi che opinioni diverse sostenute da innumerevoli altri siano simili a "crimini d'odio", che chiunque non sia d'accordo con loro si possa definire allora un nemico del popolo, meritevole di “cancellazione” sociale.

Nel frattempo, i signori di Twitter con sede nella Silicon Valley, hanno rafforzato la loro presa normativa negli ultimi anni su ciò che considerano contenuto accettabile. «La libertà di espressione è un diritto umano: crediamo che tutti abbiano una voce e il diritto di usarla», afferma con orgoglio la "Politica di condotta odiosa" di Twitter.

Lì, nella soleggiata California, uno dei bastioni della sinistra alla moda, la libertà di parola si è trasformata in qualcosa di completamente estraneo: non più un diritto universale, ma un privilegio da concedere solo a coloro che esprimono l'opinione corretta. 

La programmazione di sinistra schiaffeggia qualsiasi tweet non conformista - quasi sempre di un sentimento più di destra - con etichette di avvertimento su "abuso" o "disinformazione" e, come ultima risorsa, blocca persino gli utenti dal sito. 

Il gesto più eclatante è stato il ban, nel gennaio 2021, di Donald Trump, allora presidente in carica degli Stati Uniti, a seguito delle violente rivolte del Campidoglio che è stato accusato di incitare. Molti potrebbero pensare che Trump dovrebbe essere bandito da Twitter, ma non sono d'accordo: devi ricordare che più di 74 milioni di americani hanno recentemente votato per lui.

Ma questo pensiero di gruppo è diventato così radicato che i critici di Musk non riescono a vedere l'ironia della loro opposizione alla sua acquisizione. La loro affermazione che la proprietà di Musk farà cadere Twitter nel fascismo è l'ironia più profonda. 

Perché è solo attraverso la libertà di parola, che Musk sposa, che la democrazia può fiorire – in caso di dubbio, basta dare un'occhiata alla censura dei social media che Vladimir Putin ha imposto per mascherare le sue attività barbare e criminali in Ucraina. 

In verità, quelli di sinistra sono in armi per l'acquisizione perché rischiano di perdere il controllo della conversazione globale su Twitter, forse il social media più potente al mondo.

I Twitterati sono sempre stupiti e indignati ogni volta che il pubblico attuale non è d'accordo con le loro opinioni. Per loro, il referendum dell'UE del 2016 e le elezioni generali del 2019 sono esempi lampanti del tipo "sbagliato" di democrazia in atto. 

Ma ora qualcuno ha osato sfidare tutto questo. Eppure, lungi dall'essere un mostro di estrema destra, in realtà Musk è un personaggio politico complesso: in parte verde, in parte libertario. In fondo è un ingegnere - e un astuto uomo d'affari, che ha guadagnato miliardi dalle sue auto elettriche Tesla e dal suo produttore di veicoli spaziali, SpaceX.

L'acquisizione di Twitter rappresenta un'altra impresa commerciale, ma sembra che voglia anche utilizzarla per migliorare la conversazione globale. «Twitter è diventata di fatto una sorta di piazza cittadina», ha affermato di recente, «quindi è davvero importante che le persone abbiano sia la realtà che la percezione di essere in grado di parlare liberamente, nei limiti della legge». 

Non c'è molto segno di fascismo lì, se me lo chiedi. Solo semplice buon senso e anche buon senso degli affari. In effetti, l'acquisizione di Musk arriva in un momento in cui c'è un possibile respingimento contro il risveglio del dominio del discorso sociale. Il lancio dell'anno scorso di GB News di destra, e questa settimana TalkTV, lo attestano.

Naturalmente, ci sono avvertimenti che dovremmo tenere a mente. In realtà non dovrebbe spettare a nessuna singola azienda Big Tech controllata da miliardari decidere cosa siamo e non siamo autorizzati a dire, ascoltare e vedere, che si tratti della Facebook di Mark Zuckerberg o del Twitter di Elon Musk. 

Ma almeno al valore nominale, le promesse di Musk di una maggiore "trasparenza" ai vertici del social network sembrano autentiche. Dovrebbero anche essere sollevate domande legittime sul suo rapporto aziendale con la Cina comunista e su come ciò potrebbe distorcere il suo atteggiamento nei confronti della libertà di parola. La Cina è il secondo mercato più grande al mondo per le auto Tesla dopo gli Stati Uniti. È anche il luogo in cui vengono prodotte le batterie delle auto.

Il tempo dirà se Musk può rimanere insensibile all'influenza del Drago Rosso. Ma giudichiamolo in base a ciò che fa, non solo a ciò che dice, o a ciò che gli altri potrebbero dire di lui. Per quel che può valere, come collega fondamentalista della libertà di parola, io per primo sono fiducioso. Alla fine, la dura verità sulla libertà di parola è che non tutti coloro che scelgono di pubblicare, pontificare o inveire su Twitter condivideranno le tue stesse opinioni. Ma ciò non dovrebbe mai significare che i loro diritti alla libertà di espressione sono inferiori. 

La nostra democrazia e le nostre libertà si basano su questo, ed è qualcosa che Elon Musk sembra ottenere.

Francesco Santin per tech.everyeye.it il 27 aprile 2022.

Mentre sembra avvicinarsi l’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk, proprio sul social network dell’uccellino blu è emersa una interessante e bizzarra conversazione tra Musk e Bill Gates, due multimiliardari da tempo noti anche per le loro posizioni e iniziative di filantropia: cosa si sono detti in privato? 

Su Twitter l’account Whole Mars Catalog ha pubblicato nella giornata del 23 aprile 2022 una serie di screenshot che mostrano alcuni frammenti di una conversazione privata tra i due in merito a delle possibili iniziative coordinate e partnership per filantropia nell’ambito del cambiamento climatico. Dai testi inviati sembrava esserci già un accordo per un incontro; tuttavia, una domanda da parte di Elon Musk ha fatto saltare il tutto. 

Il quesito posto dal CEO di Tesla e SpaceX è piuttosto semplice e riguarda la posizione corta (nel contesto della vendita allo scoperto di azioni, detta altrimenti short selling) di mezzo miliardo di dollari contro Tesla che, Gates ammette di seguito, non ha ancora chiuso. Alla luce di tale risposta, Musk ha risposto come segue: “Scusa, ma non posso prendere sul serio la tua filantropia sul cambiamento climatico quando hai una posizione corta enorme contro Tesla, la società che fa di più per risolvere il cambiamento climatico”.

Whole Mars Catalog ha chiesto a Elon Musk se questa conversazione fosse reale e, a sorpresa, egli ha confermato l’autenticità della chat ribadendo che non è stato lui a diffondere le immagini al New York Times, bensì “amici di amici” le avrebbero condivise una volta ottenute. Il tycoon di origine sudafricana ha poi affermato: “Ho sentito da più persone al TED che Gates aveva ancora mezzo miliardo di short contro Tesla, motivo per cui gliel'ho chiesto, quindi non è esattamente top secret”. 

Nessuna conversazione “compromettente”, quindi, ma che rilancia una storica faida tra i due che dura da qualche anno, tra social network e affermazioni alla stampa. Tra l’altro, anche all’ultimo TED2022 Elon Musk si è lasciato andare contro Twitter, Zuckerberg e SEC.

Da corrierecomunicazioni.it il 5 maggio 2022.

Elon Musk potrebbe rendere Twitter “peggiore”. È il timore avanzato da Bill Gates, cofondatore di Microsoft, nel suo intervento al ceo summit del Wall Street Journal, in cui ha parlato dell’acquisizione da 44 miliardi di dollari su cui il fondatore di Tesla ha raggiunto un accordo con il board del social network, avanzando preoccupazioni sulla crescita della disinformazione che viaggia attraverso le piattaforme online. 

Nel suo intervento Gates si è detto preoccupato dalle motivazioni che potrebbero aver spinto Musk al takeover su Twitter, soprattutto rispetto all’obiettivo di promuovere una non meglio specificata «libertà d’espressione». «Come si comporterebbe di fronte a un contenuto che dice che i vaccini uccidono le persone, o rispetto a chi dice che Bill Gates "traccia" i comportamenti delle persone? – chiede Gates – quali sono i suoi obiettivi, e come si interfacciano con la diffusione di notizie false e di teorie complottistiche? Li renderà mai pubblici?».

Intanto, secondo quanto emerge dalla stampa internazionale, Elon Musk si sarebbe assicurato fondi per 7,14 miliardi di dollari per finanziare la sua scalata a Twitter da un gruppo di investitori che comprendono il cofondatore di Oracle Larry Ellison e Sequoia Capital. Inoltre il principe saudita Alwaleed bin Talal, che inizialmente si era opposto all’operazione, avrebbe accettato di far parte del deal con la propria partecipazione da 1,89 miliardi di dollari. 

Nel frattempo Musk continuerà nei colloqui con i principali azionisti di Twitter, incluso l’ex Ceo Jack Dorsey, per coinvolgerli nell’operazione.

Dal Regno Unito intanto arriva la notizia della decisione del parlamento britannico di invitare Elon Musk per discutere dell’acquisizione multimiliardaria di Twitter: l’iniziativa è stata lanciata da Julian Knight, presidente della commissione dei Comuni che si occupa di digitale e media, con l’intento di porre domande sui piani futuri per il social network riguardo a temi cruciali come la libertà di espressione e la sicurezza degli utenti. Proprio su quest’ultimo punto, il governo di Boris Johnson aveva lanciato un monito a Musk sul modo in cui sarà gestito Twitter.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera - Sette” il 6 maggio 2022.

Nel 2000 Elon Musk pensava già in grande. L’ingegnere 28enne, che aveva abbandonato Stanford e la prospettiva di un dottorato di ricerca per fare l’imprenditore, aveva appena venduto la sua prima start up per 22 milioni di dollari subito reinvestiti — salvo un milione destinato all’acquisto di una supercar — in X.com: il progetto di una banca tutta su Internet con la quale voleva rivoluzionare il sistema finanziario. 

I suoi piani confliggevano, pero, con quelli di un’altra societa, Confinity, che stava andando nella stessa direzione sotto la guida di Peter Thiel, altro giovane genio della finanza innovativa. 

Dopo mesi di guerra sanguinosa, i due stavano esplorando la possibilita di un accordo “con le pistole sul tavolo” per non distruggersi a vicenda. Una mattina di marzo Thiel, raggiungendo Musk a casa sua, nella Silicon Valley, lo trovo intento a curare la McLaren F1 che gli era stata appena consegnata: un bolide d’argento derivato da quelli delle corse, detentore, con 386 chilometri orari, del record di velocita per vetture stradali. 

«Che ci farai mai con questa roba?» chiese Thiel tra l’ironico e lo scettico. «Sali» replico Musk: «E appena arrivata, non la so ancora guidare, ma e una gran macchina, ce ne sono solo 62 nel mondo». Partirono ma dopo poco l’ingegnere con sogni da fanciullo, incapace di governare i 627 cavalli selvaggi del motore, schianto la supercar contro un muro. 

Potevano ammazzarsi e non avremmo mai avuto la rivoluzione dell’auto elettrica imposta da Tesla, i missili e le astronavi di SpaceX, Palantir con le sue segretissime tecnologie per l’intelligence e i militari del Pentagono; forse nemmeno Facebook, di cui Thiel (fondatore di Founders Fund, oltre che di Palantir) diventera negli anni successivi il primo e maggiore finanziatore.

Invece i due uscirono dai rottami malconci ma illesi. E, fondendo le loro attivita, dettero l’avvio, con PayPal, all’era dei pagamenti digitali via Internet: una societa, la loro, in tempesta perenne, ma piena di cervelli febbrili che, dopo l’inevitabile diaspora, creeranno altri grandi protagonisti del web come YouTube, LinkedIn e Yelp. Liti feroci, divorzi, colpi di mano aziendali, non hanno spezzato il filo rosso che lega questi personaggi soprannominati The PayPal Mafia, capaci di cambiare la cultura e il modo di operare delle imprese digitali della Internet economy. 

Thiel dice che Musk e un truffatore ed Elon ricambia sostenendo che Peter e uno psicopatico. Ma, pur essendo personaggi molto diversi (Thiel e un gay introverso, amante della segretezza, impegnato in politica con Trump e altri repubblicani , mentre Musk, plurimaritato con scrittrici, attrici, musiciste, padre di sette figli, e uno che alterna meditazioni solitarie ad esibizioni narcisiste, instabile anche nel rapporto con la politica), i due parlano lingue simili: libertari con tendenze anarchiche e un certo gusto per il surreale, amano lanciare sfide ambiziose.

Qualche settimana fa, dal palco della Bitcoin Conference di Miami, Thiel ha pronosticato l’imminente scomparsa di quella che ha definito la «gerontocrazia del capitalismo finanziario americano». 

Elon ha ambizioni ancora piu vaste: da ingegnere, cerca da tempo di rivoluzionare alcuni aspetti delle nostre vite su vari fronti: la mobilita, con auto elettriche, viaggi nello spazio, trasporto sotterraneo ad alta velocita con la Boring Company e l’hyperloop; l’energia pulita e l’ambiente coi pannelli solari della sua Solar City e le batterie prodotte nelle gigafactory di Tesla; il rapporto dell’uomo con l’intelligenza artificiale col tentativo della sua Neuralink di creare un’interfaccia diretta tra computer e cervello umano, inserendo minuscoli elettrodi nel cranio con tecniche di chirurgia robotica.

Grandi progetti, proiettati su un orizzonte di lungo periodo. Di recente, pero, Musk e diventato un protagonista anche della politica quotidiana: Zelensky lo ha ringraziato perche i minisatelliti della sua rete Starlink mantengono attive in tutta l’Ucraina le connessioni wi-fi a banda larga che consentono di diffondere ovunque immagini e video delle atrocita della guerra scatenata dalla Russia. 

Ora, poi, Twitter nella sua agenda degli acquisti: la rete sociale piu influente per l’informazione e «la cosa piu vicina a una coscienza globale», stando alla definizione del suo fondatore, Jack Dorsey. Una “coscienza globale” di proprieta esclusiva dell’uomo piu ricco del mondo? C’e di che preoccuparsi, anche se non manca chi giudica l’acquisto un fatto positivo, visto l’impegno di Musk a rendere Twitter un’agora totalmente libera e trasparente.

Si torna, cosi, sempre ai giudizi divergenti su Musk, personaggio che affascina e spaventa: volutamente divisivo col suo gusto per l’imprevedibilita, con le prese di posizione che spiazzano, convinto che per fare balzi in avanti bisogna gettare il cuore oltre l’ostacolo e lanciarsi in ragionamenti controintuitivi, anche a costo di prendere cantonate.

La sua capacita di creare e plasmare oggetti affascinanti (la Tesla Model X con gli sportelli ad ala di gabbiano o la scintillante astronave Starship che sembra uscita da un fumetto di fantascienza degli anni Cinquanta), la doppia natura di ingegnere pragmatico e di visionario con progetti che sembrano sogni di un fanciullo (la citta da un milione di abitanti su Marte) e un certo temperamento istrionico, hanno trasformato Musk in un personaggio di culto fin dall’alba delle sue attivita spaziali e automobilistiche. 

Quasi 15 anni fa il registra Jon Favreau si ispiro a lui per il personaggio di Iron Man (interpretato sullo schermo da Robert Downey Jr che si consiglio spesso con Elon, apparso di persona nel secondo film della serie, parzialmente girato nello stabilimento di SpaceX).

Uomo dell’anno 2021 per Time, per altri e solo un megalomane che realizza un decimo di quello che promette e che sfrutta istinti libertari e antipolitica per calpestare le regole, insolentire i governi e non pagare le tasse. Populismo imprenditoriale dopo quello politico?

Lo escludono gli 84 milioni di follower che lo seguono, ammaliati, su Twitter, ma tanti altri disseminano in rete siti specializzati nella misurazione della distanza tra gli impegni presi da Musk e la loro effettiva realizzazione: dall’auto a guida totalmente autonoma da lui promessa entro sei mesi nel gennaio di cinque anni fa (e che ancora non compare all’orizzonte) al tunnel per veicoli ad alta velocita che doveva consentire di andare da New York a Washington, 360 chilometri, in 29 minuti, sparati in un tubo simile a quelli della posta pneumatica: nel luglio 2017 Musk disse di aver avuto l’approvazione di massima dal governo (il progetto non e mai partito ed ora e stato cancellato dai programmi della sua Boring Company).

Ma sul trasporto elettrico Elon ha sconfitto, da solo, lo scetticismo dei big dell’auto costringendo tutti a seguirlo. E nello spazio, dopo aver tentato inutilmente di comprare missili balistici intercontinentali russi dismessi dall’Armata Rossa, ha deciso di costruirli da solo e in pochi anni e riuscito a mandare uomini nello spazio battendo gruppi molto piu esperti ed attrezzati come Boeing e Lockheed e spendendo una frazione dei loro sontuosi budget. 

Chi e davvero questo imprenditore nato in Sud Africa 50 anni fa, bullizzato in eta scolastica, emigrato in Canada e poi negli Usa dove ha creato realta industriali straordinarie gestendo la forza lavoro, e i suoi stessi collaboratori, con una durezza che rasenta la ferocia? 

Vedevamo le sue auto per strada ma lui restava un personaggio lontano, da film. E, come in un film, leggevamo la sua storia umana: il padre violento, la madre che lo portava dall’otorino pensando che fosse sordo quando entrava in trance mentre, gia da piccolo, inseguiva i suoi sogni tecnologici, costruendo razzi che gli esplodevano tra le mani e vendendo il suo primo videogame a 12 anni.

Il racconto di un’infanzia difficile come chiave per comprendere stranezze e asperita del suo carattere. Come l’empatia a singhiozzo, dall’amore sconfinato per la madre Maye, donna di carattere e ancora della sua vita che a 74 anni rimane una modella e un’autrice di successo, alla confessione fatta anni fa, dopo un divorzio, al suo biografo Ashlee Vance: «Non so stare senza una fidanzata, ma ho poco tempo. Quanto bisogna dedicarne a una donna? Cinque ore a settimana? Dieci? Esiste, secondo te, un minimo sindacale? Io non ne ho idea». 

Poi trovo la musicista canadese Grimes con la quale ha avuto un figlio registrato all’anagrafe col nome X AE A-XII e una figlia, Exa Dark Siderael, nata da una gravidanza surrogata. Di nuovo il tempo tiranno: storia finita nell’autunno scorso. 

Da tempo, pero, con la rivolta di Elon contro le direttive anti Covid, con l’abbandono della California statalista e liberal alla quale ha preferito il Texas liberista e socialmente darwiniano, con l’attacco alle politiche economiche di Biden e, ora, con l’offensiva lanciata su Twitter celebrata dai repubblicani come un loro trionfo, anche la percezione pubblica del personaggio e cambiata.

I progressisti che 10 anni fa lo osannavano, ora lo detestano e sono tentati di ridare indietro le loro Tesla socialmente responsabili. I tweet intemperanti, un tempo guardati con indulgenza come lo specchio di deformazioni caratteriali, ora non gli vengono piu perdonati, anche perche lui ne fa un uso spesso brutale: a Bernie Sanders, vecchio leader della sinistra, che invita il governo a far pagare ai miliardari tutte le tasse dovute, Elon replica secco: «Mi ero dimenticato che sei ancora vivo». 

Con la sua crescente presenza nel dibattito politico (dalla bocciatura delle politiche sociali della Casa Bianca alla surreale sfida a duello lanciata a Vladimir Putin), con la volonta di valorizzare sempre piu il suo ruolo di influencer e, ora, con l’acquisto di uno strumento essenziale per l’informazione e il dibattito politico, bisogna anche chiedersi quale ruolo l’imprenditore libertario e liberista vuole giocare rispetto alla claudicante democrazia americana. 

E anche rispetto al capitalismo di Wall Street minacciato di demolizione dai profeti della criptoeconomia e rispetto all’Europa: Musk vuole togliere vincoli e controlli sulle piattaforme proprio mentre Bruxelles decide di considerarle responsabili dei contenuti che vengono postati.

Visionario ma anche pieno di contraddizioni, libertario ma vendicativo con chi lo contesta, contrario agli incentivi finanziari dello Stato ma titolare di imprese che hanno ottenuto parecchi miliardi di contratti e sussidi pubblici, Musk apre nuovi orizzonti, ma deve tenere a bada demoni che rischiano di trasformarlo in una versione digitale del Citizen Kane di Quarto potere. 

Dagospia il 6 maggio 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

Sul “The New York Times” di oggi, destinato agli abbonati, un articolo pone un’ombra su Elon Musk: ha trascorso i primi 17 anni della sua vita nel Sud Africa dell’ Apartheid - in un sobborgo dove i giornali arrivavano censurati, alla tv passavano l’inno nazionale con i soldati bianchi morti negli scontri con i neri. E’ cresciuto in scuole solo per bianchi, in “comunità segregazioniste”, i compagni ricordano che non aveva amici neri. 

Ai giornalisti del NYT che gli mandano mail per “chiarire” se sarà imparziale come proprietario di Twitter vista la sua formazione da bianco suprematista, non risponde.

Ed è subito giallo: Elon Musk sarà imparziale anche verso le comunità di colore? Gian Paolo Serino 

Dagospia il 6 maggio 2022. Elon Musk ha lasciato un Sudafrica pieno di disinformazione e privilegio bianco. Estratto dell’articolo di John Eligon and Lynsey Chutel per nytimes.com 

L'imminente acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk ha portato molte persone a sondare le sue dichiarazioni pubbliche e il suo passato per trovare indizi su come plasmerà una delle piattaforme pubbliche più influenti del mondo. 

Ma il signor Musk, meglio conosciuto perché possiede le aziende Tesla e SpaceX, non ha parlato molto in pubblico di una parte significativa del suo passato: come possa averlo plasmato il crescere, da bianco, sotto il sistema razzista dell'apartheid in Sudafrica. 

"E' eloquente - i ragazzi bianchi erano isolati dalla dura realtà", dice Terence Beney, un bianco che si è diplomato con Musk alla Pretoria Boys High School nel 1988.

Le interviste con i parenti e gli ex compagni di classe rivelano un'educazione in comunità bianche segregate ed elitarie, disseminate di propaganda governativa anti-nera, e distaccate dalle atrocità che i leader politici bianchi hanno inflitto alla maggioranza nera.

Musk, 50 anni, è cresciuto nel centro economico di Johannesburg, nella capitale esecutiva di Pretoria e nella città costiera di Durban. Le comunità suburbane erano in gran parte avvolte dalla disinformazione. I giornali a volte arrivavano sulla soglia di casa con intere sezioni oscurate e i notiziari notturni finivano con l'inno nazionale e un'immagine della bandiera nazionale che sventolava mentre i nomi dei giovani bianchi che erano stati uccisi combattendo per il governo scorrevano sullo schermo.

"Eravamo davvero sprovveduti come adolescenti bianchi sudafricani. Davvero sprovveduti", ha detto Melanie Cheary, una compagna di classe del signor Musk durante i due anni che ha trascorso alla Bryanston High School nella periferia nord di Johannesburg, dove i neri erano visti raramente, se non al servizio delle famiglie bianche che vivevano in case sontuose. 

Musk ha lasciato il Sudafrica poco dopo il diploma a 17 anni, per andare al college in Canada, senza quasi mai guardarsi indietro. Non ha risposto alle e-mail di richiesta di commento sulla sua infanzia.

Musk ha annunciato il suo acquisto di Twitter come una vittoria per la libertà di parola, dopo aver criticato la piattaforma per la rimozione di messaggi e il divieto degli utenti. Non è chiaro quale ruolo possa aver giocato la sua infanzia - trascorsa in un tempo e in un luogo in cui c'era a malapena un libero scambio di idee e dove la disinformazione del governo era usata per demonizzare i sudafricani neri - in questa decisione. [...]

Pietro Saccò per “Avvenire” il 27 aprile 2022.  

Elon Musk è un genio. Lo è in modo così rumoroso e sfacciato che è impossibile non vederlo. Dei geni ha la capacità di capire prima e meglio degli altri la direzione verso cui va la società. 

Questo talento naturale, combinato a una incredibile determinazione, gli ha permesso di mettere a frutto molte delle sue intuizioni: dal potenziale del digitale (ha incassato i suoi primi 22 milioni di dollari nel 1999, non ancora trentenne, vendendo Zip2, società di guide sul web messa in piedi con il fratello e un amico) al futuro dell'auto elettrica, passando dai pagamenti online con PayPal, i lanci spaziali di SpaceX e il futuristico progetto dei treni velocissimi in tunnel a bassa pressione di Hyperloop.

Dei geni Musk ha anche molti dei tratti più problematici: il comportamento imprevedibile, l'enorme ego, una naturale allergia al rispetto delle regole. Un imprenditore "normale" avrebbe presentato il suo piano per Twitter e quindi avviato la scalata. Invece Musk si prepara a prendere il controllo di uno dei social network più influenti del pianeta con un progetto tutto da decifrare e per questo anche inquietante.

Dice che vuole difendere la «libertà di espressione, che è il fondamento di una democrazia funzionante e Twitter è la piazza cittadina digitale in cui si dibattono questioni vitali per il futuro dell'umanità». Musk arriva a definirsi un «assolutista della libertà di espressione», come ha fatto - sempre su Twitter - spiegando perché anche dopo l'invasione dell'Ucraina non aveva nessuna intenzione di impedire ai media russi di usare i suoi satelliti per diffondere i loro contenuti.

La libertà di espressione che ha in mente Musk sembra coincidere con la libertà di dire qualsiasi cosa si abbia in mente. Anche fare 'body shaming', cioè prendere in giro qualcuno per il suo aspetto. Solo venerdì scorso Musk lo ha fatto con Bill Gates, pubblicando su Twitter una foto del fondatore di Microsoft ("colpevole" di investire contro Tesla mentre parla di lotta al cambiamento climatico) di fianco all'emoticon di un uomo incinto. 

L'immagine era corredata da un commento troppo volgare per essere riportato qui. Quattro anni fa Musk aveva fatto di peggio, dando del "pedofilo" a uno speleologo inglese impegnato nel salvataggio dei ragazzi rimasti intrappolati in una grotta in Thailandia che lo aveva accusato di volersi fare pubblicità sfruttando l'emergenza.

Lo speleologo lo ha denunciato per diffamazione, Musk ha vinto la causa: dire a qualcuno che è un "pedo guy", ha spiegato ai giudici americani, era un insulto comune nel Sudafrica in cui è cresciuto. 

Altre volte l'imprenditore ha usato la libertà di parola per scopi più materiali: spingere il valore delle criptovalute su cui investe (compreso l'assurdo 'dogecoin') o muovere il titolo Tesla sfruttando la sua influenza su milioni di piccoli investitori fai-da-te che pendono dalle sue labbra. Spesso la Sec, la Consob americana, lo ha richiamato, fino a fargli perdere la presidenza di Tesla, per l'irregolarità di queste comunicazioni.

Musk tende ad essere un assolutista soprattutto della propria libertà di parola. L'Atlantic ha ricordato come in Tesla vigono stringenti misure di riservatezza, sia con i dipendenti che con i clienti. Il geniale imprenditore non è mai stato prodigo di empatia e spiegazioni nei confronti di chi non la vede come lui. È arrivato a rifiutarsi di rispondere alle domande degli analisti, dopo una pessima trimestrale di Tesla nel maggio del 2018, dicendo di essere stanco di interrogazioni «noiose e stupide». 

Nessuno farà domande all'uomo più ricco del mondo sulla sua strategia per Twitter, dal momento che nel piano di Musk il social network lascerà la Borsa, perché lui ne comprerà il 100% e procederà al delisting. A quel punto Twitter Inc, cronicamente in perdita, sarà al riparo dalle pressioni degli investitori desiderosi di dividendi.

Ma allo stesso tempo non sarà tenuta alla trasparenza, non solo contabile, richiesta ad ogni società quotata. Nel frattempo Musk introdurrà alcune delle modifiche che gli sono venute in mente in questi anni di assiduo twittatore. Vuole rendere "aperto" l'algoritmo in base al quale ogni utente vede i tweet nella sua pagina, introdurre il "tasto edit", cioè la possibilità di modificare i tweet una volta pubblicati. 

Progetta l'autenticazione di tutti gli utenti umani, così da ridurre l'influenza dei "bot", gli utenti gestiti da sistemi automatici: una modifica certamente positiva, per quanto tecnicamente complicata. In un altro tweet, ieri, Musk ha chiesto ai suoi più duri detrattori di non lasciare il social network anche quando sarà di sua proprietà: «Questa - ha assicurato - è la libertà di parola»

Lo scherzetto del giudice a Elon Musk. Di cosa non potrà più parlare sul suo Twitter. Il Tempo il 27 aprile 2022.

Un giudice federale di New York ha negato la richiesta di Elon Musk di annullare un accordo di ottobre 2018 con le autorità di regolamentazione dei titoli azionari in cui il miliardario americano e l'azienda di auto elettriche Tesla avevano accettato di pagare 20 milioni di dollari in multe civili per i tweet in cui Musk aveva detto di avere i soldi per privatizzare Tesla. Il finanziamento era lungi dall’essere assicurato e la società di veicoli elettrici rimase pubblica, ma il prezzo delle azioni di Tesla schizzò alle stelle. Per questo Musk e Tesla furono multati. Nell’accordo con la Securities and Exchange Commission (Sec) si stabilì l’estromissione del miliardario come presidente del cda, così come la pre-approvazione dei suoi tweet. L’avvocato di Musk, Alex Spiro, ha sostenuto nelle mozioni presentate al tribunale che la Sec sta calpestando il diritto di Musk alla libertà di parola; specie ora che il miliardario padron di Tesla si appresta ad acquistare per 44 miliardi di dollari il social network.

Ma il giudice Lewis Liman ha negato la sua richiesta di annullare non solo l'accordo, ma anche i mandati di citazione di Musk per cercare informazioni su possibili violazioni del suo accordo con la Securities and Exchange Commission. La Sec sta indagando se il ceo di Tesla ha violato l’accordo con i tweet dello scorso novembre, chiedendo ai follower di Twitter se dovrebbe vendere il 10% delle sue azioni Tesla. Musk aveva chiesto alla corte di cancellare l’accordo, che richiedeva che i suoi tweet fossero approvati da un avvocato di Tesla.

Chi (forse) parte e chi torna: i guai di Twitter nell’era Musk. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 27 aprile 2022.   

Anonymous: addio se obbligati a svelarci. Dubbi sul finanziamento dell’operazione. 

Centinaia di migliaia di progressisti che smettono di seguire i loro beniamini su Twitter dove, invece, cresce il seguito di personaggi della destra radicale e trumpiana. Celebrity in rivolta che minacciano di andarsene (ma ben pochi, per ora, lo fanno davvero). Il collettivo Anonymous che lo avverte: «Se ci obblighi a rivelare la nostra identità ce ne andiamo». E, addirittura, il timore di sabotaggi interni da parte di dipendenti di Twitter decisi a opporre una resistenza ideologica al nuovo padrone o infuriati per la vendita della rete sociale a un personaggio abituato a trattare con durezza i suoi dipendenti: la società ha sospeso per alcuni giorni gli aggiornamenti del software, forse proprio per ridurre il rischio di manomissioni dei sistemi. Non è un atterraggio morbido quello di Elon Musk a tre giorni dall’annuncio della sua conquista di Twitter: in molti avevano previsto difficoltà politiche per un imprenditore abilissimo nella produzione industriale manifatturiera ma senza esperienze manageriali nel campo della comunicazione, anche se lui stesso è un grande comunicatore e un influencer di successo.

Il timore

Così come gli analisti avevano espresso il timore che il suo impegno per Twitter, con la necessità di vendere buona parte delle sue azioni Tesla per finanziare l’acquisizione, potesse «cannibalizzare» il titolo automobilistico che è alla base della ricchezza del miliardario. Ma quello che sta accadendo su tutti e due i fronti va al di là delle previsioni più cupe: il titolo Tesla continua a oscillare fortemente, ma sta consolidando una perdita superiore al 10% rispetto ai valori della scorsa settimana. La Reuters ha notato che il calo di martedì sera, riducendo la capitalizzazione di Tesla di ben 126 miliardi di dollari, aveva fatto perdere a Musk 21 miliardi: esattamente la cifra che una settimana fa l’imprenditore si era impegnato a estrarre dal suo patrimonio azionario per finanziare l’acquisizione di Twitter, come risulta dal prospetto da lui presentato alla Sec, l’authority della Borsa americana. Un’acquisizione che potrebbe diventare per lui finanziariamente problematica se l’emorragia borsistica di Tesla dovesse continuare.

L’appello

Quanto a Twitter, nonostante l’appello di Musk che ha invitato tutti gli utenti, anche quelli che non lo amano, a restare, promettendo libertà assoluta di dialogo sulla piattaforma, i primi segnali sono, per lui allarmanti: levate di scudi di personaggi pubblici, da Mia Farrow al leader di Black Lives Matter Shaun King, all’attrice e modella Jameela Jamil, al sindaco di Londra Sadiq Khan mentre la senatrice democratica Elizabeth Warren definisce l’acquisizione di Musk «pericolosa per la democrazia». Molti mal di pancia ma pochi abbandoni effettivi tra le celebrity, anche perché le alternative praticabili non sono molte. Chi minaccia di andarsene davvero è il collettivo di Anonymous: avvertono che «se Twitter imporrà la verifica dell’identità abbandoneremo la rete, come abbiamo già fatto con Facebook». Comprensibile, visto che la ragione d’essere di questi hacker è l’anonimato e un altro problema per Musk che ha annunciato di voler rendere trasparente l’identità di tutti gli utenti. Ma il nodo principale, per lui, è il rischio che, anche al di là della sua volontà, l’acquisizione venga percepita come un’operazione di destra. Le celebrity non se ne vanno ma molti progressisti anonimi sì: Barack Obama, la star più seguita della rete, ha perso 300 mila follower in una notte, ma l’emorragia riguarda anche siti dedicati ai diritti umani, privi di una specifica connotazione politica: perfino quello dell’Auschwitz Memorial ha perso 35 mila iscritti in una notte. Festa grande, invece, a destra anche se Trump, pur elogiando Musk, per ora preferisce restare sulla sua piattaforma, Truth Social: Marjorie Taylor Greene, bandiera dell’ultradestra, ha guadagnato 100 mila follower in poche ore mentre Tucker Carlson, il più seguito dei conduttori conservatori della Fox News ne ha presi 141 mila. E festeggia con un enfatico «We are back», siamo tornati. Ovviamente su Twitter, che considera «riconquistata». Musk può tentare correzioni di rotta ma, per ora, solo a parole: l’acquisizione, che comporta passaggi societari e processi autorizzativi complessi, non andrà in porto prima di sei mesi. 

Chi si nasconde dietro Elon Musk. Riccardo Staglianò su La Repubblica il 26 aprile 2022.   

Elon Musk (in una foto di qualche anno fa ) è nato in Sudafrica nel 1971. È, tra le altre cose, Ceo dell’azienda di auto elettriche Tesla e fondatore e Ceo di SpaceX, il primo vettore spaziale privato (Joe Pugliese/ August/ Contrasto) 

Ha chiamato il sesto figlio X, come i razzi che progetta di mandare su Marte per salvare l'umanità. Inchiesta sull'uomo che chiese al suo biografo: "Ma secondo te, sono matto?"

Scartabellando tra la vita e le opere di Elon Musk, un termine ricorre di frequente. Lo pronuncia il fondatore di Tesla e SpaceX davanti a un'aragosta fritta in inchiostro di calamaro quando chiede serissimo al suo futuro biografo: "Secondo te sono pazzo?". Ne dibatte anche con l'ultima moglie, la musicista precedentemente nota come Grimes, oggi ribattezzata c (il simbolo della velocità della luce), che si definisce "un ibrido tra una fata, una strega e un cyborg": "Sono più pazzo io o sei più pazza tu?". Soprattutto la domanda non è suonata peregrina quando, dopo un improvvido tweet a mercati aperti in cui aveva detto che era pronto a ricomprarsi la sua azienda a 420 dollari ad azione (un numero sinonimo di cannabis, per tutta una serie di fumosi motivi che Wikipedia dettaglia), il titolo prima è stato sospeso per eccesso di rialzo, poi l'autorità di Borsa gli ha fatto due multe da 20 milioni di dollari l'una destituendolo temporaneamente da presidente dell'azienda e infine i suoi consiglieri d'amministrazione gli hanno tolto Twitter per tre mesi. Come a un Trump qualsiasi. Volendo gli esempi potrebbero moltiplicarsi ad infinitum, ma il senso l'avete capito.

Se questo quasi cinquantenne che si interroga circa il suo stato di salute mentale fosse l'artista più quotato del momento, ci sarebbero molti precedenti e nessuno scandalo. Ma si tratta dell'ingegnere, come gli piace definirsi, che ha deciso di rivoluzionare i trasporti privati e trasformare l'umanità in una specie multiplanetaria, apparecchiando su Marte il piano B per la Terra in rovina. Uno, per dirla altrimenti, che deve saper far di calcolo piuttosto bene ché altrimenti auto elettriche e razzi si schiantano. E che, sebbene si siano occasionalmente schiantati entrambi, il più delle volte ci riesce. Tant'è che nel frattempo le Tesla cominciano a essere avvistate anche sulle strade italiane, i razzi partono alla volta della Stazione Spaziale Internazionale al ritmo di una volta al mese e lui, in tutto questo, ha brevemente scalzato Jeff Bezos dal trono di persona più ricca del mondo con un patrimonio personale di quasi 200 miliardi di dollari, il Pil della Nuova Zelanda. Se non proprio scioglierlo, cercheremo almeno di diradare il mistero dell'imprenditore più "visionario" (altro ricorrente anglismo, ormai sdoganato) in circolazione.

Un muro di omertà

Sono anni che provo a intervistare Musk. All'ennesimo tentativo l'ufficio stampa europeo mi disse "vieni intanto a Parigi a provare una Tesla o a vedere le nostre nuove batterie". Non mi buttai a pesce su quella specie di antipasto e non mi rispondono più (Musk ha anche fama di cambiare i portavoce - che bypassa comunicando con i suoi 42 milioni di follower su Twitter - come si fa con i Kleenex durante un'influenza). Ho scritto, tra gli altri, a Adeo Ressi, imprenditore italo-americano che si fregia del titolo di suo miglior amico. A Tom Mueller, ex capo dei lanci di SpaceX. A Kevin Holland, altro suo veterano. A Hamish McKenzie, autore di Insane Mode, un'agiografia muskiana. Niente, zero, nada. Così, oltre alla robusta rassegna stampa che l'uomo ha prodotto, l'unica fonte diretta è Ashlee Vance, giornalista di Bloomberg BusinessWeek e autore di Elon Musk. Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico (Hoepli), un tomo di 380 pagine frutto di oltre 30 ore di interviste che si sono svolte perlopiù durante altrettante cene. È una biografia autorizzata, e ciò ovviamente ne determina il tono (le critiche, per bocca di un paio di accademici, sono affastellate senza convinzione negli ultimi paragrafi), ma si tratta di un libro documentatissimo, ben scritto ed essenziale per la comprensione del personaggio. Chiedo a Vance, che ha una quarantina d'anni ed è in lockdown in Messico, se a Musk il libro sia piaciuto: "Lì per lì sì. Contestò giusto che la Bmw di un viaggio americano l'aveva pagata lui e non il fratello Kimbal e che non era vero che gli ingegneri di SpaceX si lamentassero perché si prendeva tutti i meriti. Lo definì accurato al 95 per cento. Però, man mano che i giornali lo recensivano, l'attitudine cambiò fino a un paio di sue telefonate furiose. Abbiamo interrotto i rapporti per quasi tre anni, fino a una sua mail conciliante di pochi mesi fa".

Ex bimbo bullizzato

D'altronde, avesse avuto una sensibilità più standard, Musk si sarebbe reso conto da solo che non tutti avrebbero preso benissimo alcune sue rivelazioni. Tipo: "Ho sofferto moltissimo (con mio padre). È capace di prendere qualsiasi situazione, per quanto bella possa essere, e renderla brutta" al punto che con la prima moglie hanno proibito ai loro cinque figli (un altro morì neonato) di frequentarlo. Oppure il commiato da Mary Beth Brown, sua assistente per dieci anni, a cui aveva fatto persino gestire l'affido congiunto dei bambini, licenziata in tronco quando aveva chiesto un aumento (da allora se n'è persa ogni traccia digitale). O ancora quando ha candidamente ammesso che gli dà un po' fastidio sapere che la sua prole non avrà un'infanzia dura come la sua, perché crede che "gli abbia fruttato riserve aggiuntive di energia e forza di volontà". Che è come constatare che il lager, quando non ti uccide, ti fortifica.

Dunque: turbo-riassunto dell'Elon infante. Nasce a Pretoria, in Sudafrica, il 28 giugno 1971 da madre modella e dietologa e padre ingegnere e imprenditore immobiliare, che divorzieranno presto. Smanetta col computer Vic-20 e gioca a Dungeons & Dragons, passatempi ben noti alla generazione del cronista. Non fa sport e legge l'Encyclopedia Britannica, gran topos, sempre un po' sospetto, sul conto di geni precoci. Risultato: lo bullizzano pesantemente, fino a rompergli il setto nasale spingendolo giù dalle scale di scuola. Emigra in Canada per il college. Poi Università di Pennsylvania per economia e fisica. Nel '94, alba internettiana, fa due stage in Silicon Valley e capisce che è lì che deve stare. Lo prendono a Stanford per il dottorato ma lascia subito per fondare Zip2, un sistema di annunci su mappe ante-Google Maps (gli varrà 22 milioni) e poi X.com, che diventerà Paypal (165 milioni è la sua quota quando eBay la rileva). Con questo peculio, dopo averne speso un milione per una delle 62 McLaren al mondo, può dedicarsi al suo vero interesse: colonizzare Marte, dove i terrestri si potranno rifugiare quando il clima sarà definitivamente impazzito. Nel 2002, con 100 milioni di dollari propri, fonda SpaceX.

Autodidatta dello Spazio

Ora, mandare uomini nello Spazio è il benchmark internazionale per indicare qualcosa di tremendamente difficile. Musk è un autodidatta che però studia come un matto. Assume gli ingegneri migliori (uno di loro: "Faceva così tante domande da imparare il 90 per cento di quel che sapevi tu"). Chiama il primo razzo Falcon 1, in onore dell'astronave Millennium Falcon di Guerre stellari, il che sembra consolidare la reputazione di ragazzone a sviluppo interrotto. Però realizza anche sistemi di avionica, la dotazione informatica che sui razzi non costava mai meno di 10 milioni di dollari, per soli 10 mila. In questa terra di mezzo tra infantilismo e raziocinio prospera l'uomo. Quando gli dicono che è impossibile utilizzare la saldatura ad attrito sui razzi, dimostra che è vero il contrario. E quando Jeff Bezos gli scippa il prezioso specialista che sa realizzarla la prende così bene da ribattezzare la concorrente Blue Origin "BO",  slang per body odor, odore di sudore.

Dismessi gli shuttle, la Nasa gli affida, con una commessa miliardaria che dividerà con Boeing, la missione di portare gli astronauti in orbita. Niente più ammarraggi, promette, e nel dicembre 2015 riesce a far atterrare un Falcon 9 nel deserto. Solo razzi riutilizzabili, se vogliamo rendere le missioni spaziali più abbordabili. In attesa di prendere a bordo i primi turisti spaziali. Ogni tanto un razzo esplode ma l'anno scorso, con la missione Demo-2, la sua è stata la prima azienda privata a far arrivare sano e salvo un equipaggio umano sulla Stazione Spaziale Internazionale. Sin qui ci sono riusciti in tre: l'America, la Russia e lui. Già che si trovava nell'atmosfera gli è venuta l'idea di Starlink (in verità l'ha rubata a uno che gliel'aveva raccontata, ma non sottilizziamo), ovvero una serie di satelliti a bassa orbita (costo sui 10 miliardi) per dare accesso a internet in ogni zona del mondo.

E-Car: è vera gloria?

Tornando con i piedi per terra, per così dire, se dici Musk pensi subito a Tesla, ma né il nome (un omaggio a quel Nikola, pioniere del motore elettrico) né il prototipo della vettura sono suoi. L'azienda la fondano nel 2003 Martin Eberhard e Marc Tarpenning. Musk ci investe quasi sette milioni di dollari e inizia la sua scalata che finirà con l'estromissione degli altri. L'ostacolo gigantesco, per un'auto con più accelerazione di una Ferrari e originariamente composta all'80 per cento da batterie (ora sono un terzo del peso totale), è dissipare il calore prodotto senza farle esplodere. Il primo modello, la Roadster, costa 100 mila dollari, con 400 chilometri di autonomia. Genera buona stampa, ma scarso fatturato. Nel 2012 arriva il Model S, una berlina che fa quasi 500 chilometri e ha un doppio bagagliaio perché il motore è grande come un'anguria e sta tra le ruote posteriori. Altri dettagli: portiere ad ala di falco (immensamente più complesse di quelle ad ala di gabbiano perché una volta sollevate si ricompattano sopra il tetto). Un sistema operativo che viene aggiornato a distanza, come quello dei cellulari. L'avventata promessa di poterla ricaricare gratuitamente nelle stazioni Tesla. Motor Trend la nomina all'unanimità Auto dell'anno. Poi è Consumer Reports ad assegnarle 99 su 100, il punteggio più alto nella sua storia. Temendo di non poterla battere, Daimler Benz e Toyota comprano quote dell'azienda (10 e 2,5 per cento).

"Il campo unificato"

Nel 2015 esce il Model X, un suv. L'anno dopo Musk acquisisce SolarCity, il primo installatore di pannelli solari d'America. Ed entra in attività la Gigafactory in Nevada, la più grande fabbrica di batterie elettriche al mondo. Ormai si delinea ciò che il biografo Vance chiama la "teoria del campo unificato di Musk". Vale a dire: "Tesla produce gruppi batteria che SolarCity può poi vendere ai clienti finali. SolarCity fornisce i pannelli solari alle stazioni di ricarica Tesla, permettendo a queste ultime di offrire ai clienti la ricarica gratuita. I nuovi acquirenti di Model S scelgono spesso di convertirsi allo 'stile di vita Musk' e installano pannelli solari sul tetto di casa".

Tutto, almeno nella sua testa, si tiene. La Model 3 (che, se il marchio non fosse già stato registrato da Ford, lui voleva chiamare E per poter dire che l'acronimo dei tre modelli faceva SEX) è la berlina da 35 mila dollari con cui Musk vuol conquistare il ceto medio globale ambientalmente avvertito. L'entusiasmo per le prime 500 mila prenotazioni viene seppellito da una tempesta perfetta di sfighe produttive. Ritardi. Guasti. E almeno due grossi richiami dal mercato del modello precedente. Gli short sellers, investitori specializzati nel vendere allo scoperto azioni di aziende di cui prevedono il fallimento, sentono l'odore del sangue. Tesla diventa il titolo più shortato del mondo. Musk combatte come un leone. Compra azioni proprie con 25 milioni di soldi suoi per farne salire il valore. Litiga via social con gli assalitori. Resiste.

Ma c'è chi dice no

Tra gli speculatori convinti che l'uomo sia un mezzo bluff c'è Aaron Greenspan. Laureato in economia, vive a San Francisco sviluppando software e investendo in Borsa, sino a Tesla con profitto. Accetta di parlarmi previa lettura di un esposto da 138 pagine che ha presentato contro Musk. Dice: "Tesla è la più grande truffa finanziaria di sempre, i cui strabilianti risultati esistono solo nei racconti del suo amministratore delegato. Per cominciare: quante auto vende? Nessuno lo sa perché l'azienda parla di 'consegnè e non di 'vendite'. E i soldi li fa, più che altro, vendendo crediti verdi alle altre compagnie automobilistiche a benzina o diesel". In realtà numeri delle vendite esistono. Mentre è vero che Tesla ha incassato oltre 350 milioni di dollari vendendo crediti a chi, per legge, doveva sdebitarsi per l'inquinamento prodotto (per non dire degli altri 295 milioni intascati in due anni sempre come crediti per veicoli a emissioni zero in contropartita di un progetto di sostituzione gratuita di batterie mai partito). La pista che convince di meno Greenspan è quella della presunta instabilità mentale: "L'aver fumato uno spinello in diretta radiofonica non è stato un incidente, ma una manovra di pr perfettamente riuscita. Sino a pochi giorni prima tutti parlavano della sua grottesca accusa ('pedofilo') a un soccorritore britannico di quella squadra di ragazzini thailandesi rimasta intrappolata in una grotta. È bastata una canna per farla sparire dai tg!".

Ha più dubbi John Markoff, per decenni corrispondente tecnologico del New York Times, quello citato in Essere digitali di Nicholas Negroponte ("Perché non posso pagare solo per i suoi pezzi?"): "Alla presentazione losangelina di Do You Trust This Computer?, un documentario sui rischi dell'intelligenza artificiale che Musk aveva finanziato, il produttore dovette salire sul palco e scortarlo giù perché diceva cose incoerenti. Un momento imbarazzantissimo". Era il periodo in cui, come Musk racconterà in un'intervista più volte interrotta dalla lacrime, "non uscivo dalla fabbrica anche per 3-4 giorni di seguito, a scapito del rapporto con i miei figli e i miei amici". E parla uno noto per aver fissato la soglia del dolore da super-lavoro sopra le 80 ore settimanali ("piuttosto gestibili"), descrivendo l'aumento "non lineare" della pressione quando si avvicina alle 120 ("insano"). Per dormire trangugia Ambien, un popolare sedativo.

Chiedo a Markoff, che sta lavorando a un librone su Stewart Brand, il tecnologo che detiene il copyright dello Stay Hungry attribuito a Steve Jobs, quale sia la reputazione di Musk nella Valle ora che le cose sembrano andargli benone: "Paradossalmente peggiore di una volta, per aver più volte minacciato di spostare la sede in Texas sebbene la California l'abbia finanziato con oltre un miliardo di dollari. Per non dire del miliardo e tre versati dal Nevada per attrarre la fabbrica di batterie. Per un totale di circa 5 miliardi, tra prestiti e detrazioni, intascati durante l'amministrazione Obama. Se ti dichiari libertario, uno che per cui meno Stato c'è meglio è, ci fai una figura da ipocrita". Tanto più se, come membro di spicco della cosiddetta Paypal Mafia, assieme al famigerato Peter Thiel, forse l'unico imprenditore tecnologico trumpiano, hai fatto parte nell'ampiamente schifato gabinetto di consulenti dell'ex presidente.

Che cos'ha nel cervello

La vera preoccupazione di Markoff - la cui testa mentre parliamo via Zoom galleggia sullo sfondo virtuale di un laghetto - riguarda Neuralink, l'interfaccia uomo-macchina su cui Musk ha messo al lavoro un centinaio di neuroscienziati. Si tratta di elettrodi da 4 o 6 micron da impiantare nel cervello attraverso una chirurgia robotica, con lo scopo di favorire la simbiosi con i computer: "Musk immagina che ci permetterà di comandare meglio le macchine, io temo che, semmai, ci renderà comandabili".

L'ultima citazione, nella costellazione di idee apparentemente folli in cui è impegnato, va a HyperLoop, un sistema di trasporto a induzione magnetica all'interno di tubi a bassa pressione. Una specie di posta pneumatica per esseri umani a 1.200 km/h che consentirebbe di andare da Roma a Milano in meno di mezz'ora. Sette-otto anni fa un tripudio di rendering, prototipi, una compagnia ad hoc chiamata The Boring Company. Boring vuol dire  "scavare tunnel" ma anche "noioso", e nella testa di Musk deve aver prevalso la seconda accezione. Concorda Vance: "Se ne son perse le tracce. Non ho prove che stia scavando da qualche parte, sebbene un paio di startup si siano appassionate all'idea. Forse, banalmente, non è una sfida sufficiente per uno che si misura con Marte". Che te ne importa di rivoluzionare qui e ora il pendolariato di milioni di persone, moltiplicando per sei la velocità dei treni, quando l'unica stazione che ti interessa è quella spaziale? Questo è l'uomo, nel bene e nel male.

Casa e famiglia

L'analfabeta sentimentale che, al primo incontro con la futura seconda moglie, l'attrice ventenne Talulah Riley, le proporrà, con inconsapevole parafrasi alleniana, di farle vedere la sua collezione di razzi ("Ero scettica, ma mi mostrò davvero i video dei razzi"). E che, quando si lasceranno, confiderà i rovelli logistici al biografo ("Devo trovarmi una ragazza. Ecco perché devo riuscire a ritagliarmi un po' di tempo. Forse altre cinque o dieci ore... quanto tempo vuole una donna ogni settimana? Qual è il minimo sindacale? Non saprei"). E tuttavia, nei suoi brevi ma intensi periodi da scapolo, avrebbe avuto una relazione con Amber Heard, sposata con Johnny Depp (che poi l'ha svillaneggiato chiamandolo Mollusk), se non addirittura - stando ai tabloid - "una cosa a tre con lei e la sua amica Cara Delevingne". Per avere alcuni tratti da Asperger ad alto funzionamento ha detto cose sorprendenti, tipo questa a Rolling Stone: "Se non sono innamorato, se non sto con una compagna stabile, non posso essere felice". Una recente intervista con Maureen Dowd, über-firma del New York Times, è stata titolata "Decollando in una beatitudine domestica". Proprio a segnalare la quiete, con Tesla che da sola vale (inspiegabilmente in un anno in cui pochissimi han pensato di rinnovare il parco auto) più delle sei principali aziende automobilistiche messe assieme, dopo anni di tempesta. Cosa fa Musk, nei chirurgici ritagli di tempo? Guarda anime, ascolta audiolibri e podcast. La regola numero uno che ha imposto all'intera famiglia è presa dalla Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams: "Niente panico". Mentre il suo comandamento personale resta che "se le montagne russe quotidiane non sono incredibilmente spaventose, allora sto sbagliando qualcosa". Quando si dice il savoir vivre.

A maggio scorso gli è nato il sesto figlio, che all'anagrafe va per X Æ A-12 (il dittongo, in lingua elfica, starebbe per AI, intelligenza artificiale, oltre che per "amore" in giapponese. Mentre A-12 allude all'Archangel-12, l'aereo da ricognizione della Cia che lui e signora prediligono). In casa però l'abbreviano in X. E sorprende il riferimento all'intelligenza artificiale, dal momento che il papà è il principale sostenitore del rischio che si trasformi in un "dittatore immortale" (a chi gli obietta che esagera ribatte con la battuta dei Monthy Python: "Nessuno si aspettava l'Inquisizione").

Il signore dei meme

A Dowd, che chiude l'intervista con una specie di questionario di Proust, ha risposto "è probabilmente vero" alla domanda se "preferirebbe essere un signore dei meme che un milionario". In realtà lo è già. Un suo soffio provoca tsunami internettiani. Una sillaba e la Borsa si imbizzarrisce. Durante la vicenda GameStop, in cui legioni di piccoli investitori hanno sfidato speculatori allo scoperto, è bastato un suo onomatopeico cinguettìo ("Gamestonk"), interpretato come sostegno alla causa dell'azienda sotto attacco, per far crescere le azioni di un ulteriore 157 per cento ("Una bolla che produce un altra bolla" è stata la più perfida ma acuta battuta).

Sempre a gennaio l'invito a "usare Signal" aveva fatto lievitare il valore di un titolo omonimo che non c'entrava niente con l'applicazione di messaggistica. Da ultimo l'aver reso noto di aver comprato Bitcoin per 1,5 miliardi di dollari, annunciando che li accetterà come pagamento per le Tesla, ha fatto superare inediti record alla criptovaluta. Non pago, ha dichiarato di aver comprato un bel po' di Dogecoin, altri soldi virtuali ispirati a meme sui cani giapponesi shiba inu, come dote per l'ultimogenito, augurandosi che diventino la "valuta di internet" (risultato: +16 per cento). Tutto questo amore per le criptomonete, oltre ad avallare strumenti speculativi che economisti come Nouriel Roubini vedono come il male assoluto, fa esplodere anche l'ennesima contraddizione sulla sua strombazzata preoccupazione per il Pianeta, dal momento che i computer che servono per crearle assorbono lo 0,56% del fabbisogno elettrico mondiale.

Eccolo il libertario sussidiato, l'autistico romantico, l'ambientalista energivoro. "Non ci sono, sulla Terra, problemi più pressanti di Marte?" provoca uno dei rari critici nella biografia citata. Mi risponde Vance: "Certo, ma è un'obiezione che potremo fare a tanti: a ognuno interessa ciò che accende lui, non un altro". Arriva a ipotizzare che Musk abbia messo in piedi tutto questo circo per combattere la sua "profonda insicurezza, una tendenza all'auto-sabotaggio" con radici profonde. A lui ha confidato: "Mi piacerebbe morire su Marte" per poi aggiungere spiritosamente "ma non al momento dell'impatto. Idealmente vorrei andare a visitarlo, tornare qui per un po' e poi andare lassù quando avrò settant'anni o giù di lì, e restarci". Mogli e figli "probabilmente resterebbero sulla Terra". A meno che, di qui ad allora, non abbia trovato una soluzione a questo pendolariato interstellare dell'amore. Sul Venerdì del 26 febbraio 2021

La guerra dei follower tra Dem e conservatori: ma tutti temono Trump. Stefano Magni su Inside Over l'1 maggio 2022.

L’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk, l’affare del secolo da 44 miliardi di dollari, sta provocando un terremoto politico. Negli Usa, soprattutto, i Democratici perdono seguito, i Repubblicani lo guadagnano. Ma entrambi (anche i Repubblicani) temono il ritorno di Donald Trump, bannato a vita dal social network.

Il travaso dei follower

La conquista di un seguito maggiore è stata quantificata da diverse inchieste. Non sono numeri da poco. Usa Today che ha tracciato il flusso in entrata e in uscita dei followers in entrambi i partiti, ha contato centinaia di migliaia di nuovi utenti che seguono esponenti del Grand Old Party (Gop) e decine di migliaia che hanno smesso di seguire il Partito Democratico. Si tratta di un fenomeno molto diffuso: il 72% dei profili Twitter dei Repubblicani ha aumentato il numero di followers in appena 24 ore, dal 25 al 26 aprile, non appena è stata battuta la notizia dell’acquisto del social network da parte di Elon Musk. Mentre quasi tutti i profili dei membri del Congresso del Partito Democratico, 268 su 270, ne hanno persi.

Secondo un’altra inchiesta condotta dalla rivista Economist al Senato, i senatori democratici hanno perso, in media lo 0,2% dei loro followers, quelli repubblicani hanno guadagnato lo 0,8%. E questo, sempre e solo nelle prime 24 ore dopo l’annuncio dell’acquisto da parte di Elon Musk.

Questo flusso di utenti funziona quasi come un flusso di voti. Chi votava Democratico, soprattutto in tempi di grande polarizzazione, difficilmente si reca alle urne per votare Repubblicano, il più delle volte sta a casa. Le elezioni, in una democrazia matura, vengono vinte da chi riesce a mobilitare la propria minoranza e spingerla ad andare al voto. Così succede anche sui social network, secondo l’analisi di Usa Today i nuovi followers dei Repubblicani sono nuovi utenti, gente che prima del 25 aprile non aveva Twitter, o l’aveva chiuso perché, magari, considerava quel social troppo sbilanciato a sinistra. La perdita di followers dei Democratici, al contrario, è costituita da gente che ha disattivato adesso il proprio account, al grido (digitale) di #LeavingTwitter. Non solo americani: anche la tedesca Carola Rackete ha tenuto a dichiarare su Twitter che si è stancata di Twitter, soprattutto dopo l’acquisto da parte di Elon Musk.

I numeri di cui si parla sono molto grandi: in un solo giorno, Jim Jordan (deputato repubblicano dell’Ohio, trumpiano di ferro) ha guadagnato quasi 64mila followers, Marjorie Taylor Greene (oggetto di controversie perché ritenuta vicina alla setta QAnon) ne ha presi quasi 52mila, Ted Cruz (senatore del Texas, ex candidato presidenziale, lanciato dal Tea Party) più di 50mila. Non si traducono in voti, ma in una maggior cassa di risonanza. Perdono decisamente i Democratici: Nancy Pelosi (speaker della Camera) ne ha persi più di 14mila ed Elizabeth Warren (ex candidata presidenziale) più di 13mila. Bernie Sanders, socialista, ex candidato presidenziale (battuto da Biden alle primarie), ben 21mila.

Come si nota dai numeri e dai nomi, sono chiaramente di più le persone che hanno aperto un nuovo account Twitter rispetto a quelle che lo hanno chiuso. Poi: sono coinvolti nel fenomeno, in negativo o in positivo, i personaggi più in vista, vuoi perché sono oggetto di polemiche, come Jim Jordan e Marjorie Taylor Greene, o perché più importanti come carica istituzionale, come Nancy Pelosi, o perché lanciati nel grande pubblico per le loro campagne presidenziali, come Cruz, Warren e Sanders. Ma un aspetto, soprattutto, li caratterizza tutti: sono figure altamente polarizzanti, o si amano o si odiano. Per questo i loro seguiti sono pronti ad aprire o chiudere il loro account sul social network se solo pensano che prenderà una piega diversa.

L’ambiguità della sinistra

C’è da chiedersi, però, perché c’è proprio questo cambio di pubblico al cambio di proprietà? Elon Musk è un imprenditore impegnato nella produzione di auto elettriche e nella corsa allo spazio, non è un politico, non è neppure detto che voti repubblicano. Elizabeth Warren ne fa una questione sociale ed economica: “Un miliardario, il cui reddito netto stimato è 10 volte maggiore rispetto all’inizio della pandemia, sta per avere il potere di decidere come milioni di persone possono comunicare fra loro. È un pericolo per la nostra democrazia avere così tanto potere in così poche mani”. Anche la stessa amministrazione Biden, pur non commentando direttamente l’acquisto, esprime preoccupazione “per il potere dei social”. Adesso, sì, ma quando lo stesso Twitter veniva accusato dai Repubblicani di censurare solo i profili dei conservatori, non c’erano altrettante preoccupazioni. E se c’era una condizione di quasi monopolio nelle mani di Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp, Oculus e Giphy), perché la sinistra non ha fatto altrettanto chiasso?

La preoccupazione, paradossalmente, è che Elon Musk promette più libertà di espressione su Twitter: “Ho investito in Twitter dal momento che credo nel suo potenziale di piattaforma per la libertà di espressione in tutto il mondo e credo che la libertà di parola sia un imperativo sociale in una democrazia funzionante”. Se la libertà di espressione era una priorità dei liberal ai tempi delle contestazioni studentesche, negli anni Sessanta, ora è difeso quasi solo dai conservatori. Per i liberal di nuova generazione, soprattutto se studenti o docenti, la libertà di espressione è solo sinonimo di: fake news, insulti alle minoranze (tutte: razziali, etniche, sessuali, di genere o con disabilità).

Soprattutto, quel che ogni liberal teme è che Trump torni su Twitter e si prenda di nuovo tutta l’attenzione del mondo, lo stesso scenario che gli aveva permesso di vincere a sorpresa nel 2016, pur avendo contro tutti i media tradizionali. Anche funzionari dell’amministrazione Biden stanno seguendo con grande attenzione gli sviluppi della vicenda Twitter, temendo questo scenario, anche se Trump stesso smentisce, per ora, di voler tornare a “cinguettare” sul social network.

Paradossalmente, anche molti Repubblicani temono il rientro dell’ex presidente. Come alcuni di loro confidano alla rivista Politico, “Se fossi un Democratico, pregherei perché Elon Musk riporti Trump su Twitter”, perché: “Sarebbe abbastanza da creare grattacapi e probabilmente ci costerebbe anche qualche seggio”. Un altro anonimo politico repubblicano spiega anche che Trump, tornando su Twitter avrebbe “il più grande microfono del mondo. Può trarne molto di buono, ma anche molto di cattivo. Renderebbe sicuramente più difficile la vita politica di ogni membro del Gop”.

Da notare anche che, nel flusso di followers, i Repubblicani che guadagnano di più sono quelli più vicini a Trump, quantomeno non ostili a lui: tutti coloro che avevano un seguito che si sentiva discriminato da un social network troppo liberal. Trump sarebbe un problema, invece, per quei conservatori e moderati che vorrebbero liberarsi della sua pesante eredità. Sarebbero costretti a inseguirne i toni, a sostenere o ribattere (sempre a loro rischio) tutte le polemiche quotidiane che l’ex presidente è in grado di creare con le sue poche, lapidarie, provocatorie, parole affidate al mare del Web.

Il ritorno di Trump su Twitter spaventa di più i repubblicani. MATTEO MUZIO su Il Domani il 27 aprile 2022

L’ipotesi (per ora remota) del ritorno dell’ex presidente sulla piattaforma appena acquistata da Elon Musk è stata vista come una minaccia per i democratici di Joe Biden. Al momento però sta creando più problemi al suo partito, sempre più diviso.

In un’intervista al magazine Politico, un membro anonimo della leadership ha detto: «Se fossi un democratico, pregherei per il ritorno di Trump su Twitter». 

Il diretto interessato Trump ha dichiarato a Fox News che non intende tornare su Twitter, che resterà sulla sua applicazione Truth Social, lanciata lo scorso 21 febbraio.

Quando Elon Musk ha annunciato l’acquisto di Twitter per 44 miliardi di dollari, alcuni osservatori hanno posto l’attenzione sull’approccio libertario del tycoon di origine sudafricana alla “moderazione dei contenuti”. Avrebbe nuovamente liberalizzato gli insulti, anche su base etnica o sessuale? E la diffusione di fake news? Soprattutto, avrebbe nuovamente consentito a Donald Trump di tornare sulla piattaforma? Apriti cielo! I democratici, tra cui l’ex segretario al lavoro dell’amministrazione Clinton, Robert Reich, hanno definito questa nuova piattaforma “un incubo”. Per chi sarebbe però l’incubo? Per i repubblicani, probabilmente.

Non facciamoci trarre in inganno dal tweet inviato dall’account ufficiale del gruppo parlamentare alla Camera dei rappresentanti che il 25 aprile ha taggato il nuovo proprietario per chiedergli di “liberare” l’ex presidente. Nell’account del Senato, invece, si trova soltanto un retweet della senatrice Marsha Blackburn del Tennessee: afferma che il fatto che Musk sia per la libertà di parola è “una bella cosa”, ma niente altro.

IL PASTICCIO

Il ricordo va agli ultimi giorni di utilizzo dell’ex presidente, poco prima del ballottaggio in Georgia per due seggi del Senato, quando il suo protagonismo assoluto ha attirato su di sé l’attenzione, togliendo ai due repubblicani uscenti David Perdue e Kelly Loeffler un argomento forte nei confronti degli elettori: togliamo a Joe Biden la maggioranza al Senato per impedirgli di portare avanti il suo programma “radicale”. Non si poteva perché avrebbe voluto dire mettersi in contrasto con Trump, che riteneva quelle elezioni “rubate”. Insomma, un gran pasticcio che ha generato l’esile maggioranza di cui ancora dispone l’attuale presidente.

In un’intervista al magazine Politico, un membro anonimo della leadership ha detto: «Se fossi un democratico, pregherei per il ritorno di Trump su Twitter». Argomentando il punto, il politico senza nome ha continuato sostenendo che «ciò eleverebbe di nuovo le opinioni di Trump a notizia e i candidati repubblicani dovrebbero nuovamente rispondere di questo. Potrebbe costarci qualche seggio».

Non si sa ancora se e quando le nuove policy promosse da Elon Musk verranno implementate: al di là delle dichiarazioni di circostanza su quanto sia brutta la censura e il ban definitivo delle persone dalla piattaforma, non dovrebbero discostarsi di molto da quelle attuali. Inoltre, il diretto interessato Trump ha dichiarato a Fox News che non intende tornare su Twitter, che resterà sulla sua applicazione Truth Social, lanciata lo scorso 21 febbraio e che ora il suo ex social media preferito è diventato “noioso”.

UN EX PRESIDENTE POCO CREDIBILE

Peccato per due punti: la parola di Trump è assai poco credibile, tanto per gli avversari come per gli alleati, e la sua creatura, per la quale ha convinto l’ex deputato californiano Devin Nunes a lasciare il congresso per diventarne amministratore delegato, non sta andando affatto bene. Non soltanto perché è aperta solo agli utenti americani, ma anche perché gli utenti attivi quotidiani sono soltanto 513mila, poco meno degli abitanti del Wyoming, contro i 217 milioni di Twitter.

E anche l’ex presidente la usa poco: dopo un post iniziale a febbraio, non ha postato più nulla. La tentazione di tornare al centro dell’attenzione però potrebbe essere troppo forte, non solo per gli 88 milioni di follower che tornerebbe a informare direttamente, ma perché sarebbe il modo più facile per tornare sulla cresta dell’onda. Nonostante, oltre a Truth, ci siano altre tre piattaforme che hanno chiesto all’ex presidente di aprire un account: Gab, Parler e Gettr. Tutte e tre però non lo hanno convinto. Verrebbe da dire perché non ci sarebbero progressisti da “far arrabbiare”. Al Congresso però temono di tornare al 2017, quando Trump twittava qualcosa di molto forte la mattina e loro dovevano rispondere delle sue opinioni nel pomeriggio, lasciando poco spazio alle loro proposte costruttive.

Non che in un’elezione di metà mandato siano importanti, ma di certo aiuterebbe le fragilissime prospettive di Joe Biden l’aver a che fare con l’unico politico molto più impopolare di lui, che regalerebbe un argomento facile all’amministrazione: volete tornare al caos di Trump? Per di più, il leader repubblicano alla Camera Kevin McCarthy, che aspetta di diventare speaker da moltissimo tempo, si trova a dover fronteggiare le rivelazioni del New York Times di giovedì scorso: in un’intercettazione successiva all’assalto al Campidoglio dello scorso 6 gennaio, avrebbe cercato di far dimettere l’allora presidente insieme a colei che è diventata un nemico numero del mondo nazional-conservatore: la deputata del Wyoming Liz Cheney, avversaria strenua di Trump. Inutili quindi le visite mensili nella residenza di Mar-a-Lago per tenere buoni rapporti con il vecchio presidente. Due sostenitori del trumpismo come Marjorie Taylor Greene e Matt Gaetz hanno già annunciato che faranno mancare il loro appoggio a McCarthy qualora dovessero vincere nuovamente una maggioranza. In sintesi, Trump non è ancora tornato e già sta creando problemi. Soprattutto però ai repubblicani, che già pregustavano il trionfo elettorale il prossimo novembre. MATTEO MUZIO

Mattia Feltri per “la Stampa” il 28 aprile 2022.  

L'apprensione planetaria per l'acquisto di Twitter da parte di Elon Musk dimostra che il problema non è Elon Musk. Il quale è uno screanzato, un incontinente verbale e con lui, dicono, il social rischia di diventare una caienna più di quanto già lo sia, e siccome pare voglia riammettere il cancellato account di un monello peggio di lui, Donald Trump, l'apprensione lievita e ci si chiede che ne sarà della libertà di parola.

Non ho idea dei progetti di Musk su Twitter, ma ho un'idea sul mondo online, ancora incompreso e ingovernato. Lasciare che un social da qualche centinaio di milioni di iscritti sia gestito al capriccio del proprietario, è un approccio preistorico. Come ha spesso spiegato Luciano Floridi, le categorie novecentesche del privato e del pubblico non funzionano più: Twitter sarà pure di Musk, e di certo non può essere statalizzato, ma Musk non lo può gestire al modo in cui un barista gestisce il bar. 

Bisogna mettersi lì, avere un pensiero nuovo per leggi nuove in un mondo nuovo, mentre in un mondo nuovo continuiamo a pensare leggi vecchie. L'Ue ne ha per esempio progettata una che attribuisce la responsabilità di tutto quello che si scrive sui social all'azionista, come se fosse il direttore di un quotidiano.

Così uno come Musk, visto il livello di teppismo, rischia di ritrovarsi migliaia di cause al giorno, per non dire della meraviglia che se io sostenessi su Twitter che Musk è un pedofilo, Musk dovrebbe querelare sé stesso. Il problema non è Musk, il problema è lasciare tutto com' è, finché un giorno Twitter, o Facebook o Instagram, dovesse comprarseli il primo Putin che passa. 

Dagospia il 28 aprile 2022. ROB BESCHIZZA suboingboing.net.

Le azioni di Tesla sono scese del 20% in una settimana, cancellando circa 125 miliardi di dollari dal valore dell'azienda poiché il suo CEO Elon Musk ha invece lavorato al suo piano donchisciottesco per acquistare Twitter. Poiché l'accordo che ha concluso dipende dal mantenimento del valore di Tesla, un ulteriore calo lo metterà in pericolo. 

243 miliardi di dollari. Questo è quanto vale Musk, che possiede il 21% di Tesla ma ha impegnato più della metà della sua quota come garanzia di prestito, secondo Forbes . Il cofondatore di PayPal è cresciuto in Sud Africa prima di frequentare l'Università della Pennsylvania come studente trasferito. 

Nonostante il crollo delle azioni di Tesla martedì, Musk rimane di gran lunga la persona più ricca del mondo. Il fondatore e presidente di Amazon Jeff Bezos è quello che si avvicina di più , con un patrimonio netto di $ 166 miliardi. 

"Non crediamo che questa offerta su Twitter si tradurrà in una vendita importante delle azioni Tesla di Musk", ha detto l'analista di Wedbush Dan Ives in una nota di venerdì, ipotizzando che le azioni sarebbero invece state impegnate per prestiti. "Non vediamo alcun rischio da questa situazione di Twitter che influisca sulle azioni di Tesla o sul focus di Musk".

L'acquisizione di Twitter da parte di Musk sembra non piacere a nessuno tranne che agli utenti di Twitter di destra, meno di tutti i lavoratori o gli investitori a seconda della stabilità e della capacità di concentrazione di Musk. Ci sono altri motivi per pensare che l'accordo sia condannato, come il continuo trolling di Musk su Twitter e l'ingenuità della sua retorica sulla libertà di parola di fronte a ostacoli inamovibili come le politiche dell'App Store di Apple e le norme sulla privacy dell'UE.  

Da corrieredellosport.it il 28 aprile 2022.

Elon Musk pronto ad acquistare Coca-Cola. O almeno così ha scritto su Twitter, diventato di recente di sua proprietà, con un commento ironico: "Ora voglio acquistare Coca-Cola, per rimettere la cocaina nella bevanda”. Parole che richiamano un documento storico pubblicato dal National Institute of Drug Abuse. A quanto pare la cocaina era legale nel 1885 quando John Pemberton, un farmacista di Atlanta, produsse per la prima volta l’iconica bevanda. Pare che la ricetta originale, cambiata poi agli inizi del 1900, contenesse un estratto di cocaina ottenuto dalle foglie di coca. 

Da tag43.it il 28 aprile 2022.  

Perché Elon Musk ha deciso di comprare per 44 miliardi di dollari Twitter? La domanda è più che lecita, visto che il social è a malapena redditizio e Musk è pronto a sborsare otto miliardi in più del suo prezzo di mercato. Secondo il giornalista francese Olivier Lascar, autore di Indagine su Elon Musk: l’uomo che sfida la scienza (Alisio Science, in uscita a giugno in Francia), l’uomo più ricco del mondo acquistando Twitter ha messo le mani su uno «strumento di influenza» fondamentale per i suoi business. 

Una mossa che non stupisce. «Musk», spiega Lascar a France Info, «è un bambino digitale. Vent’anni fa creò la banca online X.com che si è fusa per trasformarsi in Paypal. Vendendo Paypal ha guadagnato i milioni necessari per fondare SpaceX. Con Twitter ritorna al suo primo amore». Oggi il patron di Tesla è alla guida di aziende tecnologiche che fanno discutere.

È il caso di Neuralink che sta sviluppando un chip per mettere in comunicazione le funzioni cerebrali degli esseri umani con l’intelligenza artificiale. Già nel mirino per maltrattamenti animali, al momento non può svolgere esperimenti su cervelli umani sani. «Elon Musk avrebbe quindi quasi bisogno di leggi ad hoc», sottolinea Lascar. «Uno strumento come Twitter può essere utile per influenzare la politica». E per trovare gli amici giusti.

Musk si è presentato come paladino della libertà di espressione, anche se la sua concezione di libertà va presa con le molle. In SpaceX per esempio solo lui o il suo vice hanno diritto di parola. E in passato ha bloccato utenti che su Twitter criticavano le sue imprese. 

Più che libertà di espressione, quella che ha Musk ha in testa è la libertà di dire tutto ciò che si vuole senza regole o limitazioni, fa notare Lascar. Per questo si può ipotizzare con la nuova gestione un ritorno sul social, dopo due anni di ban, di Donald Trump. Al momento resta una ipotesi. Il Tycoon non si è detto interessato, anche se molto dipenderà da The Truth, il social dell’ex presidente che al momento si sta rivelando un fallimento. Senza contare il richiamo esercitato dalla guerra in Ucraina e soprattutto dall’avvicinarsi delle Midterm.

Una cosa è certa: Musk gli lascerà la porta aperta. Intanto a festeggiare l’acquisizione ci ha pensato il governatore della Florida Ron De Santis, repubblicano rampante che mira alle Presidenziali del 2024. Lo stesso che dopo aver varato la legge “don’t say gay” nelle scuole, ha dichiarato guerra alla Disney contraria al provvedimento ora saluta Musk come un liberatore. 

Twitter per Trump e Musk è da sempre croce e delizia. Insieme i due hanno pubblicato oltre 72 mila post sebbene abbiano criticato a più riprese il social perché poco liberale. Se Trump è stato bandito nel gennaio 2020 per aver contribuito a scatenare con un tweet l’assalto del Campidoglio, a seguito di un tweet su Tesla nel 2018 Musk è finito nei guai con la Sec, l’autorità di Borsa americana, per turbativa di mercato. «Uso i miei tweet per esprimere la mia personalità. Alcune persone lo fanno con i capelli. Io uso Twitter», commentò lui dopo aver perso la causa. 

Ma la passione per i cinguettii non è l’unico elemento in comune tra i due. Il patron di Tesla entrò a far parte del comitato consultivo strategico creato dal Tycoon. Un impegno che però si è rivelato mediaticamente un boomerang visto che il suo coinvolgimento a fianco dell’allora presidente è stato interpretato come professione di trumpismo. Nonostante Musk abbia sempre cercato di evitare le etichette. 

Come ha riportato Newsweek è stato un donatore sia dei repubblicani sia dei democratici, definendosi sempre un moderato. L’unico candidato alla presidenza che ha apertamente appoggiato è stato Andrew Yang, imprenditore e filantropo fondatore dell’organizzazione non-profit Venture for America, che dopo il fallimento alle primarie dem del 2020 ha provato, ugualmente senza successo, a correre come sindaco di New York.

La verità è che Musk accettò di lavorare con Trump sperando di influenzarlo. «Più voci ragionevoli sente meglio è», spiegò. «Attaccarlo non porterà a nulla, meglio ci siano canali di comunicazione aperti».  La distanza tra i due però è cresciuta con la decisione di Trump di ritirare gli Usa dall’Accordo sul clima di Parigi. «Il cambiamento climatico è reale», twittò il patron di Tesla. 

«Lasciare Parigi non fa bene all’America o al mondo». In un’intervista con Rolling Stone nel novembre 2017, Musk disse di considerare il Climate Change «la più grande minaccia che l’umanità dovrà affrontare in questo secolo». A riavvicinarli è stata la pandemia. O, meglio, la critica alla gestione del Covid. Quando a maggio 2020 la contea di Alameda in California entrò in lockdown, Musk sfidò l’ordine di chiusura nello stabilimento Tesla di Fremont. Un’alzata di testa che incassò il sostegno pubblico di Trump. Del resto entrambi lottano contro le ingerenze del governo nella vita dei cittadini.

Poco importa che si tratti di vaccinazioni, chiusure, o dell’obbligo di utilizzare le mascherine. Trump dal canto suo non ha mai nascosto la sua simpatia per Musk definito in una intervista alla CNBC «uno dei nostri grandi geni». Non a caso da presidente ha sostenuto indirettamente Space X, snobbando il progetto Nasa di realizzare una stazione spaziale orbitante intorno alla Luna. The Donald si disse interessato solo a un ritorno degli astronauti sul satellite. E guarda caso Musk stava e sta lavorando alla costruzione di un veicolo in grado di portare l’uomo non solo sulla Luna ma pure su Marte.

Chi ha paura della lotta all'anonimato? Francesco Maria Del Vigo il 28 Aprile 2022 su Il Giornale.

Chi ha paura del nuovo Twitter? Molti, almeno a giudicare dalle reazioni scomposte.

Chi ha paura del nuovo Twitter? Molti, almeno a giudicare dalle reazioni scomposte. Elon Musk non ha ancora messo le mani sul social network più influente nel mondo dell'informazione, ma c'è già chi ha iniziato a tremare. Anche se, in realtà, nessuno sa precisamente che cosa intenda fare il numero uno di Tesla con il sito di microblogging. Stando alle sue parole, anzi ai suoi tweet, quella di Musk si preannuncia come una potentissima iniezione di libertà.

Talmente potente da aver già mandato in tilt parte dell'opinione pubblica, specialmente quella orientata verso sinistra che ha vissuto l'acquisto di Musk come se fosse l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin. L'imprenditore, un po' folle e visionario, ha messo i suoi stivali da cowboy sul tavolino del salotto dell'elite più radical e più chic. E, anche se non dovesse tornare a cinguettare Donald Trump in carne ed ossa, le sorprese per gli alfieri del politicamente corretto sono dietro l'angolo e sono in molti a temere che l'overdose libertaria trasformi Twitter un far west.

Una delle poche certezze della nuova gestione è la guerra senza esclusione di colpi agli account finti, ai bot. Cioè i profili che non rispondono all'identità di una persona. Non è cosa di poco conto e ce ne sono milioni, destinati ai più disparati utilizzi. Le shit storm e gli attacchi più violenti e beceri spesso partono proprio da profili anonimi, dietro i quali si nascondono intelligenze artificiali o cretini, ahinoi, molto reali. Intere battaglie e campagne politiche hanno avuto al centro squadracce digitali tanto virtuali quanto dannose, sia in Italia che negli Stati Uniti, dove il social network di Jack Dorsey, pur non essendo la rete con il maggior numero di iscritti, ha un ruolo nodale nel dibattito pubblico. Ed è proprio questo il motivo principale che ha spinto l'inventore di SpaceX a comprarlo. Combattere ed eliminare i bot - ammesso che sia tecnicamente possibile farlo - ridisegna il paesaggio stesso delle reti sociali e ridefinisce i pesi in campo.

E, bisogna ammetterlo, è anche un atto politico.

Luigi Mascheroni per ilgiornale.it l'1 maggio 2022.

 Così Musk smaschera la sinistra illiberale

Negli ultimi anni, la società si è più spostata a destra o a sinistra? Politici, politologi, sondaggisti e giornalisti (un po' meno gli elettori, non così preoccupati della questione) se lo chiedono spesso. La risposta non è facile. Servirebbero decine di saggi, convegni, congressi, inchieste Oppure si potrebbe tentare di riassumere la questione, in tempi in cui un'immagine pesa come mille parole, con un disegnino.  

Quello che ha fatto Elon Musk, imprenditore con azioni in pasta in compagnie varie, dalla aerospaziale SpaceX alla casa automobilistica Tesla, da PayPal a Twitter. Che si è appena comprato. Per battezzare la nuova avventura l'uomo più ricco del pianeta (secondo le stime di Forbes) ha postato una vignetta che visualizza lo spostamento dell'asse destra-sinistra su tre piani temporali: 2008, 2012 e 2021. 

Un omino, che rappresenta lo stesso Musk, è sempre fermo nel medesimo punto, ma nel 2008 è equidistante fra il centro e l'area liberal; nel 2012 la sinistra scivola sempre più a sinistra, lasciandolo al centro; mentre nel 2021 la sinistra è così scivolata sul crinale della cancel culture, dell'ideologia Woke, le proteste Black Lives Matter, ideologia gender e varie battaglie ultraprogressiste, da lasciarlo indietro, lontanissimo, vicino alla casa dei conservatori... 

La didascalia non c'è, ma sarebbe questa: «Non sono io a essere diventato di destra, è la sinistra che è diventata troppo di sinistra». Il disegnino ovviamente non vuol essere un trattato sociologico, ma una provocazione (in realtà negli ultimi anni, pensando a Donald Trump e Ocasio-Cortez negli Usa, o a Salvini e certi «dem» putiniani in Italia, la polarizzazione è cresciuta pericolosamente in entrambe le direzioni).

 C'è da dire, poi, che qui da noi della vignetta se ne erano accorti in pochi, fino a quando - ieri - non è stata rilanciata da Matteo Renzi, uno che infatti in pochi anni, senza cambiare posizione su nulla, da politico di centrosinistra ormai è percepito quasi di centrodestra. Comunque, di fronte al disegnino la sinistra, sia negli Stati Uniti sia da noi, si è infuriata oltre i limiti, dando prova esattamente della deriva illiberale a cui l'ha inchiodata Musk.

 A riprova che il miliardario sudafricano-canadese-statunitense (forse un po' troppo pragmatico, ma non stupido) ha saputo cogliere meglio di tanti intellettuali la trasformazione in atto nella società. E anche l'efficace sintesi di cui, a volte, è capace Twitter.

Twitter, Elon Musk fa impazzire la sinistra Usa. Benedetta Frucci su Il Tempo l'1 maggio 2022.

La sua colpa? Una policy basata sull’assoluta libertà di espressione, annessa alla certificazione dell’identità del profilo degli utenti: liberi di esprimersi ma assumendosene la responsabilità. E in effetti in una democrazia la libertà si associa sempre alla responsabilità individuale e alla fiducia che lo Stato ha nel cittadino. L’opposto di ciò che propaganda ormai da anni la sinistra radicale Usa. Una sinistra che si fa chiamare liberal, ma che di liberale non ha assolutamente nulla. Sono i cultori della cancel culture, della censura, delle statue abbattute e dei libri bruciati nei cortili delle scuole. Un paradosso che un movimento così sia nato e abbia preso piede negli Usa, la terra della libertà, ma tant’è.

Per capire la misura del fenomeno, basta pensare che l’amministrazione Biden, proprio pochi giorni dopo l’acquisto di Twitter da parte del magnate, ha assegnato a una figura ultra liberal come quella di Nina Jankowicz il ruolo di guidare una sorta di ministero della disinformazione, che suona molto simile all’orwelliano Ministero della Verità. Un caso? Comunque sia, il tema che pone Musk, che si dichiara lontano dall’estrema sinistra come dall’estrema destra, é un tema su cui vale la pena aprire una riflessione anche qui, in Europa e in Italia. Una riflessione che riguarda in primis la libertà di espressione, che dovrebbe essere sempre garantita in una democrazia.

Come combattere le fake news? La risposta liberale è combatterle con l’informazione, non con la censura. I fatti dimostrano che questo atteggiamento funziona, tanto più se associato alla certificazione dell’identità dell’utente, così da fermare il proliferare dei bot. Prendiamo l’esempio dei vaccini: nonostante lo spazio mediatico dato ai no vax, gli italiani si sono vaccinati in massa. Ma Musk nei suoi cinguettii offre anche uno spunto di riflessione su ciò che è accaduto alla sinistra in questi anni e lo fa postando uno schema che mostra come la sinistra sia corsa sempre più verso gli estremi e l’elettorato di centro si sia avvicinato per questo apparentemente ai conservatori, pur restando fermo sulle proprie posizioni moderate. Questo non significa che anche la destra non si sia spostata su posizioni più estreme, come nell’era trumpiana o nel caso dei sovranismi europei. Ma che sulla libertà di espressione, la sinistra abbia voltato faccia. E negli Usa, l’ha fatto anche per ciò che riguarda la libera iniziativa economica. In America non sono abituati infatti a una sinistra statalista, caratteristica della sinistra europea.

Questo spostamento traslato in Italia è evidente su più fronti. Da un lato, nell’abbraccio del Pd con il M5S, dall’altro, nelle posizioni ultraliberal - espressione fuorviante, meglio traducibile con ultraprogressismo - assunte da un pezzo dei dem italiani, come per esempio in occasione del Ddl Zan che, lungi dal limitarsi a tutelare la comunità omosessuale, introduceva nei fatti un meccanismo di censura. Soprattutto quello schema pone un interrogativo essenziale alla sinistra su dove voglia andare. Tornare al riformismo alla Blair o spostarsi sul radicalismo alla Sanders, alla Melenchon, alla Corbyn? Certo è che le elezioni si vincono ancora al centro e che quello che appare oggi agli occhi dell’elettore moderato è un pericoloso ibrido fra il radicalismo di vecchie teorie economiche stataliste, rappresentate dalla onnipresente proposta di una patrimoniale e il radicalismo liberal censorio americano.

Elon Musk e il paradosso della sinistra: i compagni chiedono a Twitter più censura. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 29 aprile 2022.

Per farsi un'idea sul carattere di Elon Musk c'è un sistema comodo: basta rileggere quanto successe quando venne trascinato in una causa per diffamazione da un inglese cui aveva dato del pedofilo nel corso di una lite. Per cavarsela in tribunale il miliardario nato a Pretoria tenne un discorso memorabile. E vinse, riuscendo a far digerire al giudice la teoria che in Sud Africa, dove è nato, un po' tutti danno del violentatore di bambini al prossimo, così, per burla. D'altra parte per l'imprenditore - oggi trasferito negli Usa - quel processo rappresentava una questione di principio, visto che da tempo si definisce un «assolutista del pensiero libero». E ora che si è comprato Twitter per 44 miliardi ha annunciato che adotterà questo metro per governare il suo social network (non certo il più popolare, ma sicuramente quello più usato dalla politica).

Tutti liberi, anche di andare nettamente sopra le righe, purché - sia chiaro - lo si faccia mettendoci la faccia. «Il limite deve essere solo la legge. Censurare qualcuno andando oltre ciò che è legale significherebbe andare contro il volere popolare», ha spiegato Musk.

Detto in altri termini, per chi non fosse pratico di questo mondo virtuale, oggi su Twitter chiunque può spacciarsi per il Mahatma Gandhi o per Topolino e andare a insultare chi gli pare - dal Dalai Lama a Minnie - rischiando solo che, dopo lunghe procedure, qualcuno dall'alto intervenga per cancellare il messaggio. Il che non sempre avviene. La rivoluzione di Musk è questa: lui vorrebbe lasciare anche che questo caos continui, purché chi scrive lo faccia a volto scoperto affrontando le eventuali conseguenze.

Un obiettivo che potrebbe apparire logico, ma non per tutti è così.

Da Cate Blanchett a Carola Rackete passando per Beppe Severgnini, migliaia di volti noti - praticamente tutti orientati a sinistra - si sono scagliati contro la «crociata per il pensiero libero di Musk». «Se pensiero libero vuol dire libertà di insultare, diffamare, minacciare e mentire (in forma anonima, of course), o di sovvertire la democrazia (come ha provato a fare Trump), allora non ci interessa più, caro Musk», ha scritto Severgnini. I Democratici Usa sono arrivati a rinfacciargli il suo patrimonio (come se Mark Zuckerberg, proprietario del colosso Face book -Wh atsapp - fosse un indigente). Altri semplicemente lo definiscono «pericoloso per la democrazia». Twitter infatti aveva cacciato Donald Trump, cosa farebbe oggi Musk? Lo lascerebbe parlare? Molto probabilmente sì. E questo è «pericoloso».

Tanti sembrano essere convinti che la soluzione per smontare tesi errate (o presunte tali) sia oscurarle. O che un social network possa e addirittura debba decidere a chi concedere diritto di parola e chi è dannoso per la società. Musk ieri ha ribadito di ritenere vero l'opresse) posto, come l'esperienza insegna: «Truth (ovvero il social creato dalla Trump Media & Technology Group per aggirare i divieti) esiste perché Twitter ha censurato il pensiero libero». In altre parole, chi pensava di risolvere la questione con un cartellino rosso ha sbagliato i conti.

In questo momento, sembra bizzarro, ma Musk si trova in mezzo al tiro incrociato dei pensatori di sinistra di mezzo mondo perché condanna la censura a 360 gradi. Il che è curioso anche per un altro dettaglio. Parliamo del patron di Space X, il progetto per portare i ricchi in vacanza nello spazio. Qualcuno ha provato a fare delle stime: pare che le sue navicelle rilascino nella nostra atmosfera fino a 100 volte più CO2 per passeggero rispetto a quella di un volo intercontinentale. Inquina come una centrale a carbone e lo fa per gioco. Non per questo finisce sotto accusa da parte di presunti ultra-ambientalisti come la Rackete - anzi pare che a nessuno freghi nulla - ma perché critica i censori. Forse il problema non è oscurare le idee altrui, ma di averne di sensate. «Spero che anche i miei peggiori critici rimangano su Twitter, perché questo significa libertà di parola», ha detto Musk. Lezioni.

Libertà, ricchezza, genio: tutto quello che la sinistra odia di Musk. Andrea Indini il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

Chi è davvero Elon Musk? Lo si può definire un anarcolibertario. La difesa della libertà è diventata una sua crociata. E questo fa infuriare la sinistra che non lo vuole a capo di Twitter.

Dice di essere progressista sui diritti civili e conservatore su quelli fiscali. Ama definirsi socialista. "Solo non il tipo che sposta le risorse dalla più produttiva alla meno produttiva, fingendo di fare del bene, mentre in realtà causa danni. Il vero socialismo cerca il massimo bene per tutti". I suoi detrattori, invece, non lo definiscono: si limitano ad attaccarlo aspramente e a bollare la sua filosofia di vita, le cui radici affondano nei romanzi scritti da J.R.R. Tolkien, Isaac Asimov e William Golding, col termine muskismo. Un neologismo (ovviamente dispregiativo) che sicuramente richiama il populismo e altri ismi con cui i progressisti si riempiono la bocca.

Non è facile inquadrare Elon Musk. Forse perché con i suoi eccessi, le sparate e i successi non lascia mai indifferenti: o piace o no, non c'è un'emoticon mediana per definirlo. E così, se volessimo proprio buttarci in questo esercizio che lascia il tempo che trova e tentassimo di racchiuderlo in una casella politica (il ché è praticamente impossibile visto il personaggio) potremmo azzardarci a definirlo libertario. Un ultrà delle libertà portate all'eccesso che sconfina nell'anarchia. Un anarcolibertario, dunque. Ma anche così saremmo lontanissimi dal capire il soggetto. Certo è che tutto quello che lui incarna urta profondamente i nervi di progressisti, liberal, dem, radical chic e via dicendo.

La lista di quello che intravedono in lui e che disprezzano è davvero lunga. Perché, pur essendo seduto su una montagna d'oro del valore monstre di mille miliardi e pur potendo gestire un patrimonio personale di quasi 270 miliardi (cento in più di Jeff Bezos), non è affatto il prototipo del liberal della Silicon Valley. Non sposa le campagne buoniste, le devasta a suon di tweet. Non cavalca i cambiamenti climatici per invocare un ritorno all'età della pietra, investe sul green su quattro ruote e ci fa soldi (tanti soldi). Non difende le minoranze e il politicamente corretto, fa di tutto per essere scorrettissimo agli occhi di qualsiasi minoranza. In una parola: è controcorrente. Sempre. E lo fa col sorriso sulle labbra irridendo tutto e irritando tutti (meno che i suoi oltre 86 milioni di follower su Twitter). Per questo non poteva che levare le tende dalla California e andarsene in un posto che gli era più congeniale (a livello ideologico e soprattutto fiscale): il Texas. La rottura è avvenuta all'inizio della pandemia e dell'ondata di restrizioni. Quando gli è stato comunicato che la sede di Palo Alto della Tesla avrebbe dovuto restare chiusa, ha fatto fare gli scatoloni e, tempo zero, ha spedito tutti quanti a Austin.

Un ultrà delle libertà, certo. Ma soprattutto un anti statalista in piena regola. "Lo Stato è semplicemente la più grande azienda con un monopolio sulla violenza, contro cui non hai possibilità di ricorso; quanti soldi daresti a questa entità?". Se da una parte appare ovvia l'incomunicabilità con l'incrollabile fede liberal californiana pro tasse e regolamentazione, dall'altra risulta altrettanto scontata l'attrazione verso il nuovo Eldorado a stelle-e-strisce: il Texas, infatti, non solo si presenta come un paradiso fiscale (non ha addizionale locale sull'Irpef), ma gode anche di una burocrazia che dire snella è davvero troppo poco. Due ingredienti che hanno portato questo Stato ad accogliere oltre 4 milioni di nuovi residenti, il 42% dei quali si sono trasferiti proprio dalla vicina California, e ad essere la prova provata che quello che professa Musk è giusto: non è lo Stato a creare occupazione e quindi benessere, ma la libertà di impresa.

La libertà è per Musk una sorta di religione. Per difenderla è disposto a tutto e con tutti ingaggia continui scontri. Nemmeno i talebani del gender, intransigenti fino al midollo e forse i più illiberali tra tutti gli illiberali, gli fanno paura. "Tutti questi pronomi sono un incubo estetico", twittò tempo fa facendo imbufalire l'intera comunità Lgbt. Negli ultimi anni ha intrapreso una personalissima crociata contro la cancel culture e l'ideologia woke, "un virus mentale" che oggigiorno rappresenta "una delle più grandi minacce per l'umanità". Quando Dave Chappelle è finito nel tritacarne per aver detto che "ogni essere umano sulla Terra è dovuto passare attraverso le gambe di una donna", non ha esitato a prendere le sue parti. E quando Netflix ha registrato, fra gennaio e marzo, 200mila abbonamenti in meno e un conseguente crollo in Borsa del 40%, ha gongolato: "Perde utenti perché aderisce all'ideologia woke". Colpito e affondato.

Forse il più grande successo (politico) di Musk è stato proprio entrare nel green, settore monopolizzato dalla sinistra ambientalista, e farci soldi. Un mucchio di soldi. Questo, a conti fatti, è Tesla. Oggi la società vale 880 dollari ad azione circa (pesa l'acquisto di Twitter) ma qualche mese fa era arrivata a valere fino a 1.200 dollari ad azione. Nei giorni scorsi sul Foglio Camillo Langone annotava: "La sua è la storia di un anarcolibertario divenuto ricchissimo vendendo macchine bruttarelle, dispendiose e disfunzionali a benestanti ambientalisti, perciò divietisti e statalisti". Giudizio estetico a parte, l'analisi sulla "lezione del grande maestro Musk" è perfettamente corretta e condivisibile: è riuscito a "vendere a perfetti conformisti l'illusione di essere diversi e superiori". Immaginate che travaso di bile deve venire a tutti questi sinistrorsi ogni volta che lo sentono difendere l'energia nucleare.

Oggi tutti questi liberal sono in subbuglio. Non gli va a genio l'incursione di Musk nel campo dei social media. Lui ha promesso che vuole più libertà di cinguettio. E questo ai liberal non va giù. Vogliono essere loro a stabilire cosa si può dire e cosa no, cosa si può scrivere e cosa no, cosa si può twitter e cosa no. E così ora minacciano di cancellarsi da Twitter. Un po' come quando nel 2016 avevano minacciato di emigrare in Canada qualora Donald Trump avesse vinto le elezioni. Oggi come allora giurano che la democrazia è a rischio. Già, ma quale democrazia?

L'antidoto al conformismo. Nicola Porro il 27 aprile 2022 su Il Giornale.

Elon Musk è un pazzo scatenato. Sì, avete letto bene. Essere l'uomo più ricco del mondo non esclude la follia, che può essere lucida. E soprattutto non esclude la voglia di avere sempre fame, per usare i termini del mitico Steve Jobs. Per questo è un po' diverso dal John Galt, l'eroe della libertaria Ayn Rand, che in pochi in Italia conoscono, ma che molti imprenditori della Silicon Valley continua ad influenzare.

Dietro la sua scalata a Twitter, il più traballante dei social network, ma il più usato dall'establishment di tutto il mondo, ci sono sicuramente ragioni finanziarie. Ha comprato valutando l'affare 44 miliardi di dollari, 54 dollari ad azione: più dei 44 delle ultime quotazioni, molto meno dei 77 che valeva solo pochi mesi fa.

È un pazzo visionario che si è inventato Tesla, che è ancora una scommessa, ma che è diventato uno dei marchi più famosi del mondo. È un pazzo visionario che si è inventato SpaceX, per i viaggi spaziali, quando nessuno ci pensava. Un bambino bullizzato in Sudafrica che lascia Stanford dopo solo due giorni. E poi a 28 anni si inventa Paypal, la società dei pagamenti che si apre in un click. E da lì, lo spazio, l'ecologia, i trasporti, i collegamenti neurali fino a Twitter.

Di sé ha detto: sono progressista sui diritti civili, conservatore su quelli fiscali. Dichiarazione molto simile a come si definiva un liberale Antonio Martino. È un ambientalista convinto, ma un distruttore del politicamente corretto. È contro il mainstream, anche se ne fa parte. La California, a cui deve molto, l'ha mollata solo un anno fa per il Texas: troppe tasse. Ha votato con i piedi.

E ora arriviamo a Twitter. Quello di Musk si annuncia come un incubo dei progressisti. Musk lo vuole rendere un social libero: niente più censure. In cui tutti possano esprimere le proprie opinioni, anche le più urticanti. Alla sinistra non va giù: è il suo cortile di casa. E teme che Trump, espulso dal social, possa così ritornarci. Non è detto che l'ex presidente lo faccia. E pochi si ricordano come Musk fosse sì contrario all'espulsione di Trump, ma fosse stato anche un suo acerrimo nemico riguardo ai cambiamenti climatici. Com'è quella frasetta, erroneamente attribuita a Voltaire: «Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire».

Musk è un libertario che sa fare i soldi. Il fondatore di Twitter, Jack Dorsey che vive digiunando e meditando e che si sente un eroe randiano, non poteva che apprezzare l'arrivo di Musk.

La sinistra, i liberal americani, i politicamente corretti di tutto il mondo stanno invece schiumando dalla rabbia. È la rivolta di Atlante, è l'Atlas Shrugged di Ayn Rand. Adesso vedremo che sapranno fare.

La guerra Twitter, tutti contro Musk. Rodolfo Parietti il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

Bezos lo attacca sulla Cina. La Ue: rispetti le regole. I dem Usa: pericolo. S&P: rating a rischio.

Solo contro tutti. Neanche il tempo di festeggiare la presa di Twitter, dopo un assedio durato meno di un mese ma costato 44 miliardi di dollari, ed Elon Musk rischia subito di soffrire della più classica sindrome da accerchiamento. Là fuori si è subito formata una coda di indici puntati contro lo stravagante miliardario spendaccione. Il più affilato è quello della senatrice democratica Elizabeth Warren, pronta a sentenziare che l'acquisizione «è pericolosa per la nostra democrazia. Abbiamo bisogno di una tassa sui ricchi e di regole più stringenti affinché Big Tech sia responsabile». Altrove, soprattutto sui media liberal (da Newsweek a The Independent, fino a Cnet), è tutto un fiorire di manuali pronti all'uso su «come cancellare il tuo account» dal social. Puro odio di classe distillato sotto forma di «do it yuorself» in risposta al «spero che rimangano anche i miei peggiori critici» del patron di Tesla. Odio che rimbalza nei commenti della sinistra mondiale, di cui Carola Rackete è alfiere: «Sto pensando di chiudere l'account».

Storce il naso pure Wall Street, dove Tesla è ruzzolata ieri di quasi il 10% e Twitter è calata di oltre il 3%, mentre c'è non lesina insinuazioni pesanti. Tipo Jeff Bezos: «Forse che il governo cinese ha appena guadagnato un po' di influenza sulla piazza del paese?», ha cinguettano il patron di Amazon. Lasciando così intendere che Pechino potrebbe acquisire influenza su Twitter, al momento oscurata dal cosiddetto Great Firewall, una volta andata in porto l'acquisizione. Il motivo? Semplice: il Dragone è il «secondo mercato più grande di Tesla» dopo quello degli Stati Uniti.

Solite ruggini tra i due Paperoni, rinnovate di recente da un editoriale del Washington Post, di proprietà di Bezos (titolo: «L'investimento di Elon Musk su Twitter potrebbe essere una cattiva notizia per la libertà di parola», con successiva replica al vetriolo di Musk («Quel giornale è sempre buono per farsi una risata»). È un po' un gioco delle parti, tutto sommato innocuo. I pericoli veri potrebbero arrivare da altre direzioni. Non dalla Sec (la Consob Usa), mai tenera (anche a ragione) con il creatore di Space X (che ha contraccambiato con un ruvido «la Sec è una marionetta senza vergogna», visto che Twitter va verso il delisting e diventerà un'azienda privata.

Il primo rischio serio è quello di subire la bocciatura da parte di Standar&Poor's, che ieri ha messo tutti i rating di Twitter sotto esame senza escludere il taglio di svariate tacche. S&P mette l'accento sulle modalità dell'acquisizione, finanziata in parte a debito e in parte con i 21 miliardi che Musk metterà di tasca propria senza dire come saranno reperiti. Ciò comporta «che la leva finanziaria di Twitter aumenti in modo sostanziale al di sopra del limite di 1,5 volte, livello per un downgrade del rating BB+». Stessi timori per Moody's che ha messo sotto osservazione il rating Ba2 di Twitter, puntando il dito contro i debiti e la governance. Poi c'è il caveat di Bruxelles. In base al nuovo regolamento sui servizi digitali (il Dsa) che impone la rimozione tempestiva dei contenuti illegali, l'Ue ricorda come la società «dovrà adattarsi completamente alle regole europee» indipendentemente dagli orientamenti del nuovo azionista in termini di libertà di espressione. Insomma, Musk è sotto tiro ancor prima che metta in pratica i cambiamenti annunciati per Twitter: «Algoritmi open source per aumentare la fiducia», battaglia allo spam e agli account falsi e inserimento di un bottone di modifica ai messaggi. «Sono per la libertà di parola nell'ambito della legge», ha twittato ieri. Chissà cosa succederà quando, com'è sua abitudine, deciderà di defenestrare l'intero board.

Il genio libertario che spacca la sinistra. Francesco Maria Del Vigo il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

Ha rivoluzionato i pagamenti e superato i verdi. Ora la sfida del Cosmo.  

«Clown, genio, bastian contrario, visionario, industriale, showman: un folle ibrido» è con queste parole che il Time, nel 2021, incorona Elon Musk come uomo dell'anno. Ma forse avrebbero dovuto aggiungere anche «politico» allo sterminato curriculum dell'imprenditore. Perché Musk non è solamente l'istrione che posta cinguettii strampalati durante la notte, che produce e vende lanciafiamme come se fossero oggetti di uso quotidiano, che si fuma una canna in diretta e che sogna di colonizzare Marte. È, anche e soprattutto, un libertario. Anzi, è una vera e propria icona libertaria e pure politica. Ipotesi confermata dalle reazione isteriche della sinistra mondiale d'innanzi al suo acquisto del social network più radical in circolazione (un esempio per tutti: Carola Rackete che annuncia la chiusura del suo profilo). Nell'arco di meno di vent'anni Musk ha rivoluzionato il mondo dei pagamenti con Paypal; ha creato Space X e riportato dopo più di un decennio gli astronauti statunitensi nello spazio, superando e salvando al tempo stesso la statalissima Nasa; non pago, ha messo la freccia e sorpassato a sinistra gli ecologisti di maniera inventandosi e mettendo sul mercato la Tesla, l'automobile elettrica più bella, chic e performante in circolazione. Più pragmatico e gretino di Greta stessa, pur non essendo una prefica dell'imminente fine del mondo. Tutto molto imprenditoriale, ma tutto anche molto politico. Si può rintracciare, in filigrana, un pensiero coerente dietro quello che Musk ha fatto in tutti questi anni? Negli Usa molti sono convinti di sì e hanno già coniato un termine per definire la filosofia del miliardario naive: il muskismo. E sono in molti a scommettere che l'acquisto del social di microblogging sia un primo passo verso una sua discesa in campo. Per Jill Lepore, docente di Storia americana all'università di Harvard, quello di Musk è un «capitalismo estremo, extraterrestre». E, in effetti, qualcosa di alieno c'è nell'epopea muskiana: la distanza siderale nei confronti di tutti i luoghi comuni tanto cari alla sinistra vessillifera del politicamente corretto e della cancel culture. Musk non si fa problemi a citare Ernst Jünger, a fuggire dalla progressista California per riparare nel repubblicanissimo Texas, a sbertucciare i guru della silicon valley, a portare il sistema capitalista alle sue estreme conseguenze con operazioni spericolate che a volte sembrano happening situazionisti. «Sono un anarchico utopico», ha dichiarato qualche anno fa il miliardario di origini sudafricane. Non sappiamo se il muskismo si farà mai politica, nel frattempo quella di Elon è una bella iniezione libertaria nel corpaccione di una società ancora troppo perbenista e statalista. 

"Ora odio e misoginia...". La sinistra va in paranoia per Twitter a Musk. Marco Leardi il 26 Aprile 2022 su Il Giornale.

Twitter nelle mani di Elon Musk? "Un pericolo per la democrazia". La sinistra americana e gli influencer progressisti in allarme per l'operazione del magnate favorevole alla libertà d'espressione.

Troppo libertario, troppo permissivo. Addirittura critico sugli eccessi del politicamente corretto. Dunque, "pericoloso per la democrazia". Per gli alfieri del progressismo da social network, Elon Musk è diventato una minaccia. L'acquisizione di Twitter da parte del patron di Tesla (un affare da 44 miliardi di dollari) ha mandato letteralmente in paranoia gli attivisti della sinistra globale che avevano trasformato la suddetta piattaforma digitale in una bolla favorevole ai loro ideali. I pareri poco mainstream su politica, immigrazione, gender e diritti civili erano infatti costantemente a rischio di espulsione. Come accaduto a Donald Trump, privato "per sempre" della facoltà di cinguettare con l'accusa di aver incitato alla violenza. Ora, però, l'avvento del magnate sudafricano potrebbe portare a un'inversione di rotta.

Musk, infatti, si è sempre dichiarato un assolutista della libertà di espressione e in tempi recenti aveva ribadito la sua intenzione di lasciare spazio a tutte le opinioni sul popolare social nework. Anche alle più scomode. "Spero che anche i miei peggiori critici rimangano su Twitter, perché questo significa libertà di parola", aveva scritto il magnate nei giorni scorsi. In tempi non sospetti aveva pure auspicato che lo spazio digitale in questione diventasse "un'arena inclusiva", nel senso più largo e permissivo del termine. Idee che hanno messo in allarme gli animi più conformisti e gli influencer del pensiero unico tendente a sinistra.

Così, proprio sulla piattaforma, è montata la protesta progressista. L'attrice britannica Jameela Jamil, femminista convinta e sostenitrice delle politiche arcobaleno, è stata tra le prime personalità a manifestare sconcerto per l'acquisizione della piattaforma da parte di Musk. "Ah, si è preso Twitter. Vorrei che questo fosse il mio ultimo tweet. Temo che questa offerta di libertà di parola aiuterà questa piattaforma infernale a raggiungere la sua forma finale di odio, fanatismo e misoginia totalmente illegali. Buona fortuna", ha cinguettato la donna, che già aveva manifestato l'intenzione di chiudere il proprio profilo qualora il magnate di Tesla avesse concluso l'accordo.

E pure all'interno di Twitter non sono mancate voci indignate. L'ingegnere del software, Addison Howenstine, ha cinguettato con toni allarmati: "Le cose sicuramente peggioreranno, è potenzialmente pericoloso per la democrazia e gli affari globali". Il collega Geraint Davies, provocatoriamente, ha invece chiesto su Twitter se qualcuno fosse interessato alla sua esperienza professionale (così da offrirgli un nuovo posto di lavoro).

Ma i contraccolpi dell'operazione di Elon Musk sono stati accusati anche dalla politica, in particolare dalla compagine democratica americana. L'arrivo del milionario ha infatti alimentato nella sinistra a stelle e strisce l'incubo del ritorno di Donald Trump sulla piattaforma. "Tutti dovrebbero essere preoccupati per questo", ha detto l'esponente dem Mary Anne Marsh, argomentando: "Abbiamo già visto l'impatto che Trump è riuscito ad avere con il suo account Twitter, sia mettendo in discussione il luogo di nascita di Barack Obama, sia rifiutando i risultati delle ultime elezioni. Immagina cosa farà per riprendere il potere nel 2022 o nel 2024 quando non ci sarà nessuno a fermarlo?".

Già, perché l'incubo progressista è che il tycoon possa tornare a servirsi di un account per lanciarsi alla riconquista alla Casa Bianca. E poco importa che, secondo quanto riferisce Fox News, l'ex presidente non sarebbe particolarmente interessato a un ritorno su Twitter. "Questo accordo è pericoloso per la nostra democrazia. Miliardari come Elon Musk giocano secondo un diverso insieme di regole rispetto a tutti gli altri", ha accusato la senatrice democratica Elizabeth Warren. Il possibile cambiamento dello status quo sta generando il panico: chi non cinguetta a senso unico è una minaccia.

L’escort in redazione. Saviano, la prostituzione da legalizzare e la stravagante baraonda del Corriere. Guia Soncini su L'Inkiesta il 30 Aprile 2022.

Alla giornalista Sargentini non è piaciuta una rubrica di Saviano sul magazine 7 ed è nato un putiferio in cui non si sa di chi sia la colpa: la cancel culture, il patriarcato o un quotidiano che nel 2022 va in tilt se riceve troppe email. 

Dio, come mi manca Nadia Macrì. Nadia Macrì, i meno implumi di voi se la ricorderanno, era la tizia che – quando le mignotte non le chiamavamo «sex worker» ma «escort» – andò da Santoro a raccontare che Berlusconi le aveva chiesto di cosa si occupasse professionalmente, e lei aveva risposto «Presidente, cosa vuole che faccia: le marchette».

Sto ripensando a Nadia Macrì da giorni, da quando al Corriere è in atto una farsa che oltre a quella di Nadia Macrì mi sta facendo sentire tantissimo la mancanza di Lina Wertmüller. Farsa che si può ricostruire solo di terza mano, giacché i protagonisti non si esprimono.

I protagonisti sono Roberto Saviano – che, come dicono i conduttori televisivi incapaci, non ha bisogno di presentazioni – e Monica Ricci Sargentini, redattrice del Corriere che fa parte del femminismo vecchio stile, che si distingue da quello postmoderno per essere più propenso a indignarsi per le cose concrete (dalla gestazione per altri alla prostituzione) che per quelle teoriche (dalle desinenze nelle lingue romanze alla sessualità dei cinquenni).

Accade che Saviano abbia una rubrica sul settimanale del Corriere, 7 (sì, neanch’io me n’ero mai accorta). Accade che in questa rubrica, qualche settimana fa, Saviano scriva che la prostituzione va legalizzata. Non è una posizione particolarmente sorprendente – bisogna non avere contezza dell’esistenza di Saviano per non sapere della sua convinzione che qualunque attività non venga legalizzata diventi fonte di guadagno per le mafie – e comunque nessuno se ne accorge, dato che nessuno sfoglia 7 («nessuno» è un’iperbole, lo dico per risparmiare a Linkiesta telefonate di puntualizzazione sulla popolarità dell’inserto del Corriere: in redazione a Linkiesta lo sfogliano tutti, manteniamo la calma, lo sapete che quella Soncini è sempre esagerata).

Nessuno sono io e siete pure voi – sì, sto storpiando Emily Dickinson – e, tra un nessuno e l’altro, qualcuno si offende tantissimo per questo editoriale di Saviano (c’è sempre qualcuno che si offende tantissimo per tutto, ve ne sarete già accorti) e indirizza a Luciano Fontana, direttore del Corriere, e Barbara Stefanelli, sua vice e responsabile di 7, una mail di protesta dal testo concordato (in gergo postmoderno: mail bombing). Fin qui è tutto normale, è quella dittatura che Elon Musk vuole imporre agli utilizzatori di Twitter: la libertà d’espressione consiste nel fatto che io posso scrivere le mie stronzate, e tu puoi scrivere che le reputi delle stronzate.

Possiamo ipotizzare che scrivere a un direttore per lamentarsi d’un editorialista sia tentata cancel culture? Secondo me no, in un paese ancora abbastanza sano di mente da non comportarsi come se uno valesse uno: quello è Saviano, e voi siete dei picchiatelli che scrivono delle mail. Mica lo licenziano per le vostre mail. Il problema è da qui in poi, quando il problema non è Saviano ma una dickinsoniana nessuno.

Da qui in poi, la ricostruzione abbisognerebbe delle voci dei protagonisti, ma Roberto Saviano al quale ho chiesto qualche giorno fa di raccontarmi non mi ha risposto, e a Monica Ricci Sargentini gli avvocati hanno consigliato di non parlare, quindi procediamo coi «si dice».

Si dice che un’amica della Sargentini le chieda cosa sia questa storia, lei le inoltri il testo della mail di protesta che sta girando, e questo fulmine di guerra, invece di fare copincolla, inoltri a sua volta la mail a Fontana e Stefanelli, facendo quindi risultare come ideatrice della tempesta di messaggi la Sargentini.

Si dicono, a questo punto, due cose diverse. L’azienda sostiene che a infuriarsi sia stata la direzione del Corriere; la direzione del Corriere sostiene sia stata l’azienda (cui però questa mail ormai più inoltrata dei meme su Zelensky qualcuno deve averla girata).

Fatto sta che succede una cosa che nessun ufficio del personale italiano ha mai visto: nel paese dei giornalisti illicenziabili, il Corriere della Sera chiede tre giorni di sospensione dalle mansioni e dallo stipendio per la Sargentini. Colpevole: di quella che Fontana definisce «una forma di intimidazione» (cioè: avergli mandato troppe mail); di aver inteso creare problemi, col sovraccarico di mail, al sistema informatico del giornale; e di aver tentato di lederne l’immagine. A me sembra leda più l’immagine d’un giornale, nel 2022, dire che se arrivano troppe mail i server non reggono, ma è sicuramente un’impressione sbagliata.

Poiché la situazione è come sempre grave ma non seria, il minuetto successivo a questa richiesta di sospensione include: il cdr che media chiedendo alla Sargentini una lettera di contrizione staliniana; le femministe che si stracciano le vesti perché la star Saviano non interviene a difendere la libertà d’espressione della redattrice carneade; l’ufficio legale che attende serenamente di perdere l’ennesima causa al tribunale del lavoro (quell’istituzione più italiana della pizza che serve a ribadire che non puoi licenziare nessuno mai, non se non si presenta al lavoro, non se timbra il cartellino e torna a dormire, figuriamoci se manda delle mail); Fontana e Cairo che giurano entrambi d’essere il poliziotto buono, e che la faccia cattivissima sia stato quell’altro a volerla fare; la ripubblicazione, ieri, d’un pezzo del 2016 della Ricci Sargentini sul cognome materno (le grandi battaglie civili italiane).

Io, che ho tanta nostalgia di quando Sandro Ruotolo chiedeva a Nadia Macrì se quella bigiotteria Berlusconi gliel’avesse regalata «senza prestazioni», nel ringraziare questo povero paese le cui élite culturali offrono ogni giorno uno spettacolo d’arte varia che rende superflui i comici professionisti, spero tantissimo che sia una manovra pubblicitaria tesa a farci d’ora in poi precipitare a sfogliare con bramosia 7 (che, non ricordo se l’ho già detto, a Linkiesta mandano tutti a memoria prima del cappuccino ogni venerdì).

DAGOREPORT il 24 aprile 2022.

La giornalista del Corriere della Sera Monica Ricci Sargentini è stata sospesa per tre giorni -lavoro e stipendio- dalla direzione e dall’azienda per avere approvato un’iniziativa di protesta contro il giornale, in difesa della legge Merlin che regola la prostituzione. 

L’allegato Sette del Corriere -diretto peraltro da una donna, Barbara Stefanelli- aveva pubblicato un’opinione di Roberto Saviano in favore del riconoscimento e della regolamentazione del “sex work”. 

ARTICOLO DI ROBERTO SAVIANO SUL SEX WORK - SETTE - CORRIERE DELLA SERA - 25 MARZO 2022

L’opinione era stata contestata da alcune associazioni femministe con un mail-bombing a cui hanno partecipato centinaia di donne. 

Qui il testo delle mail inviate a Barbara Stefanelli e Luciano Fontana:

“Mi chiedo come un giornale di tale diffusione e importanza in Italia possa difendere un’informazione tanto parziale, superficiale e dannosa. Da dove arriva tanta misoginia al Corriere della Sera e a chi lo dirige?

L’articolo di Saviano che avete ospitato nelle vostre pagine è scandaloso per contenuto e per superficialità e ritengo la testata responsabile di diffondere cultura da carta straccia, solo per conformismo ammantato di radicalità rivoluzionaria. Come si può paragonare la legalizzazione della marijuana alla legalizzazione della prostituzione. Ma si, certo, siamo carta igienica noi donne in fondo. 

Scrive Saviano: “… perché criminalizzare un fenomeno non lo elimina, regolamentarlo, invece, tutela chi vi è coinvolto.” 

Ma Saviano, non sa che la prostituzione è quasi solo tratta e la regolarizzazione è una manna per papponi e mafiosi? Non conosce il modello abolizionista, già in vigore in molti Paesi civili? Non sa che quello che lui chiamare "lavoro" è inaccettabile tragedia (per le donne coinvolte ovvio)? Perché riconosce agli uomini il diritto di stuprare a pagamento? Perché non studia e non riflette sull’umanità disgraziata che non è solo quella di Gomorra  prima di parlare? Da dove gli/vi viene tanta misoginia?”.

Ricci Sargentini non partecipa direttamente all’iniziativa di protesta, ma condividendone i contenuti ne dà privatamente notizia a una conoscente.

Venuta casualmente a saperlo, la direzione dell’azienda su sollecitazione del direttore Fontana invia alla giornalista una formale lettera di richiamo, contestandole l’intento di avere voluto danneggiare l’immagine del giornale nonché di aver inteso creare problemi al sistema informatico, intasato dalle mail di protesta. 

Ricci Sargentini si rivolge a un legale che replica al richiamo, iniziativa in seguito alla quale le viene comminata la sospensione di 3 giorni.

Dunque il primo giornale italiano contesta a una propria giornalista il diritto di manifestare la propria opinione, peraltro in difesa di una legge dello Stato -la 75/1958, nota come legge Merlin, la cui costituzionalità è stata recentemente ribadita dall’Alta Corte- ritenendola responsabile della legittima, spontanea e partecipatissima   iniziativa di centinaia di donne e femministe. 

Un fatto senza precedenti.

Lettera del Cdr del “Corriere della Sera” al direttore, Luciano Fontana il 24 aprile 2022. . 

Caro direttore, ti scriviamo riguardo alla lettera e al  provvedimento disciplinare conseguente che hanno raggiunto la collega Monica Ricci Sargentini e che oggi sono diventati di dominio pubblico. Li riteniamo gravi e inusuali sia per la collega che per la storia del Corriere e dei rapporti tra la Direzione e la redazione.

Ti chiediamo quindi di far ritirare la sanzione ex art.7 L.300/70 che giudichiamo inappropriata per la collega e lesiva per l’immagine stessa del giornale e della sua redazione. Un saluto Il Cdr

DAGOREPORT il 25 aprile 2022.

Era il 19 gennaio 2011 ed era direttore De Bortoli II (la vendetta), vicedirettori Luciano Fontana e Barbara Stefanelli. L’ex direttore Piero Ostellino in un editoriale scrive che “le donne sono sedute sulla loro fortuna”. Una banalità che scatena il finimondo. 

Chi lo scatena? La redattrice romana Monica Ricci Sargentini che, con altre pasionarie, non invia una mail bombing (forse, allora, non c’erano) ma una lettera a tutta la redazione.

Giovedì 20 gennaio 2011, ore 13.33: “Cari colleghe e colleghi, ieri abbiamo letto il fondo sul Corriere di Piero Ostellino, trovando inaccettabili alcuni passaggi che abbiamo sottoposto al vicedirettore Barbara Stefanelli. 

Mostrando comprensione, Stefanelli ci ha detto di scrivere una breve lettera da pubblicare in risposta a Ostellino. Antonella Baccaro, Monica Ricci Sargentini, Orsola Riva, Stefania Ulivi”. Il testo a Ostellino dice: “Gentile Direttore, abbiamo letto il suo fondo di mercoledì scorso, L’immagine dell’Italia e la dignità delle istituzioni, dove testualmente affermava: “Una donna che sia consapevole di essere seduta sulla propria fortuna e ne faccia - diciamo così - partecipe chi può concretarla non è automaticamente una prostituta.

Il mondo è pieno di ragazze che si concedono al professore per goderne l'indulgenza all'esame o al capo ufficio per fare carriera. Avere trasformato in prostitute le ragazze che frequentavano casa Berlusconi, non è stata (solo) un'operazione giudiziaria, bensì (anche) una violazione della dignità di donne la cui sola colpa era quella di aver fatto, eventualmente, uso del proprio corpo”. 

Noi pensiamo che la fortuna di una ragazza non risieda in una o più parti anatomiche da offrire al potente di turno, sia esso un professore o un politico, e che il mondo sia pieno di persone che s'impegnano per raggiungere risultati e far carriera conservando la propria dignità. Legittime tutte e due le scelte: noi sosteniamo la seconda”. 

La lettera fu pubblicata e la Stefanelli si salvò. Oggi si replica con il caso Saviano pro regolamentazione del sex-working, ma con una operazione diversa: non richiesta di articolo/replica bensì operazione di mail bombing.

Tuttavia, come si sussurra nei corridoi di via Solferino in attesa dell’assemblea sul caso “Ricci Sargentini e libertà di parola” al “Corriere”, l’affermazione contenuta nella replica del direttore Fontana, secondo la quale la redattrice poteva chiedere alla direzione “di poter esprimere la sua opinione o di promuovere un confronto sull’articolo” è totalmente retorica.

La direzione (cioè Fontana e accoliti), come il contratto giornalistico consente, fa scrivere non per competenze o merito ma chi pare a lei. Se ad ogni editoriale uno o più dei trecento giornalisti del “Corriere” potesse replicare perché dissente saremmo al “Corriere della replica”.   

Il profondo risentimento di parte dei giornalisti (specie dei più qualificati o di esperienza) verso questa e verso la precedente direzione De Bortoli (che vietò a suoi giornalisti di scrivere libri) è che, in Italia, tutti godono di libertà di espressione su tutti gli strumenti informativi (giornali, social, radio, tv…) a parte loro.

Questo aspetto è aggravato dalla politica del “Corriere” di dare in outsourcing quasi tutti gli editoriali, commenti, rubriche e interi supplementi (“La Lettura”, ad esempio). Ovunque è un comparire di scrittori (per mancanza di libri) amici o, meglio, amiche, della Stefanelli e della direzione. Ultimo caso quello di Rampini, al quale è stata affidata pure la cura di una collana di libri nella quale ha pubblicato, per metà, i suoi! Da qui la considerazione tra gli “anziani” del “Corriere” che siamo in una democrazia imperfetta: tutti possono esprimere le loro opinioni a parte i giornalisti del “Corriere”.

Dagospia il 25 aprile 2022.

1 - LETTERA DI LUCIANO FONTANA AL CDR DEL “CORRIERE DELLA SERA”

Cari colleghi, credo sia doveroso che l’organismo sindacale chieda prima all’azienda di conoscere esattamente i termini della questione che sono profondamente diversi da ciò che, come scrivete, <è diventato di dominio pubblico>.  Si tratta infatti della contestazione di un mail-bombing contro il giornale a cui la collega ha partecipato dando istruzioni sulla sua realizzazione. La collega Monica Ricci Sargentini  non ha mai chiesto alla direzione di poter esprimere la sua opinione o di promuovere un confronto sull’articolo che si riteneva di contrastare.

2 - CONVOCAZIONE ASSEMBLEA DI REDAZIONE DEL “CORRIERE DELLA SERA”

Care colleghe, cari colleghi, vi ricordiamo l’Assemblea di martedì 26 aprile, convocata durante la straordinaria del 19 aprile. All’ordine del giorno: discussione sui temi emersi nell’ultima assemblea, il caso del provvedimento disciplinare verso la collega Sargentini, varie ed eventuali.

Sarà alle 14.45 su teams. Vi manderemo il link per partecipare qualche minuto prima. Un saluto

Dagotraduzione da nypost.com l'1 aprile 2022.

Alcuni utenti di Facebook si lamentano del fatto che i loro account sono stati disabilitati senza motivo e affermano che la società stia impedendo loro di presentare ricorsi contro le decisioni. "Non possiamo rivedere la decisione di disabilitare il tuo account", si legge in un riquadro rosso condiviso in diversi screenshot. “Il tuo account Facebook è stato disabilitato perché non rispettava i nostri Standard della community. Questa decisione non può essere revocata".

Alcuni utenti di Facebook con account bannati si sono chiesti se si tratti di un pesce d'aprile da parte di Mark Zuckerberg. La portavoce di Meta Erica Sackin ha detto a The Post che stava esaminando le lamentele ma non ha fornito immediatamente un commento. 

L'ondata di lamentele per divieti inspiegabili sembra risalire all'incirca a mercoledì. Gli utenti si sono anche lamentati del fatto che Facebook non ha fornito spiegazioni su quali standard della comunità avessero violato. Alcuni di loro hanno affermato di non aver pubblicato sul sito per mesi, mentre altri hanno affermato che anche i loro account Instagram sono stati colpiti.

Stefano Filippi per “La Verità” il 26 aprile 2022.

La prima censura non è bastata, così il direttore del Corriere della Sera ne ha inflitta una seconda alla redattrice colpevole di avere una testa pensante. Il reato di leso Saviano era costato a Monica Ricci Sargentini tre giorni di sospensione dal lavoro e dallo stipendio. 

Quando il comitato di redazione (il sindacato interno dei giornalisti) ha domandato ragione di un provvedimento così abnorme, Luciano Fontana ha replicato che «la collega non ha mai chiesto alla direzione di potere esprimere la sua opinione». 

Proprio così: prima di aprir bocca bisogna bussare alla porta di Fontana e attendere l'augusto beneplacito. Già vengono fatti scrivere poco perché si preferisce affidare gli articoli principali a collaboratori esterni tipo Roberto Saviano, ma ora ai redattori del Corsera è vietato pure parlare senza autorizzazione.

Succede che sul numero del 25 marzo di Sette, il supplemento settimanale del Corriere che il vicedirettore vicario Barbara Stefanelli ha trasformato nella newsletter della mancata parità femminile, Roberto Saviano teorizza che bisogna «regolarizzare i sex workers per evitare gli abusi». In sostanza, lo scrittore che il Corriere ha strappato a Repubblica propone di cancellare la legge Merlin ed equiparare la prostituzione a «una vera e propria categoria professionale», come avviene in tanti altri Paesi. 

Peccato che la Merlin abbia rappresentato una delle prime conquiste femministe in Italia e fu difesa a spada tratta dalla sinistra quando la Lega chiese, come ora ha fatto Saviano, che le prostitute pagassero le tasse come una partita Iva qualsiasi.

L'articolo indispettisce molte donne. Viene lanciata un'azione di protesta e migliaia di computer femministi inviano raffiche di mail indignate ai vertici del giornale di Urbano Cairo. 

«Da dove arriva tanta misoginia al Corriere della Sera e a chi lo dirige?», vi si legge tra l'altro. Il nome di Ricci Sargentini non compare tra i promotori del «mail bombing», ma alle sensibili orecchie di Fontana giunge la voce che lei ne condivide i contenuti e ne avrebbe parlato con qualche amica alimentando il fuoco di sbarramento. Parte una lettera di richiamo, alla quale Ricci Sargentini controbatte attraverso il suo avvocato.

Toccato nella lesa maestà, Fontana la sospende. La giornalista punita fa intervenire il Cdr, che convoca un'assemblea straordinaria il 19 aprile e scrive al direttore chiedendo di togliere la sanzione. 

È a questo punto che viene a galla la vera questione: «La collega Monica Ricci Sargentini», replica Fontana, «non ha mai chiesto alla direzione di poter esprimere la sua opinione o di promuovere un confronto sull'articolo che si riteneva di contrastare».

Promuovere un confronto: per i vertici del Corsera non ce n'era bisogno, visto che nessuno tra direttore e vice si era sognato di aprire un dibattito sulla tesi di Saviano. Anzi, quando all'interno della redazione qualcuno ha osato alzare il dito, peraltro privatamente e tra i propri contatti personali, è partita la reprimenda. Oggi si svolgerà una seconda assemblea di redazione. E si saprà se ai giornalisti del Corriere va bene poter parlare solo quando lo dice Fontana.

L’iceberg dell’informazione. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 10 Marzo 2022.

Siamo sempre connessi ma non per questo ben informati. Nel mio lavoro di lobbista mi rendo conto che sui media e sui social emergono solo il 5% (?) dei temi che sono in discussione nel Governo e in Parlamento, per non parlare di Regioni o Comuni.  È una stima che butto lì a naso, perché non credo esista una ricerca specifica sul tema ma, dopo anni di professione, credo sia ragionevolmente attendibile. Malgrado le avvincenti affermazioni dei complottisti, questo non succede perché c’è qualche potere forte che ci vuole tenere all’oscuro di quanto accade realmente, ma per una fisiologica selezione della copertura mediatica e un altrettanto fisiologica economia della nostra attenzione come lettori di giornali e utenti del web. In realtà, a saperle cercare, le notizie ci sono e ci sono tutte. Ma nessuno può e vuole passare le sue giornate a fare un monitoraggio approfondito, a meno che non lo faccia per lavoro come noi lobbisti che ci limitiamo, peraltro, quasi esclusivamente ai temi di interesse dei nostri clienti.

Abbiamo toccato questo tema nella nostra ultima intervista per il mensile di Telos A&S PRIMOPIANOSCALAc al presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. Durante l’emergenza sanitaria eravamo portati a pensare che ci fosse una dialettica, se vogliamo usare un eufemismo, tra l’esecutivo e le Regioni, soprattutto sui confini decisionali su ‘aperture e chiusure’ su obbligo di test per entrare in Regione, gli ingressi a scuola, sul ‘colore’ della Regione, etc. In realtà non è stato così e questa notizia mi ha colpito perché ha posto l’accento sulla differenza tra il percepito e la realtà. “Dall’inizio della pandemia e durante i momenti più difficili dell’emergenza sanitaria, le Regioni hanno condiviso la stragrande maggioranza dei provvedimenti con il Governo. Parliamo del 97,98% delle norme e dei decreti nazionali. Posso dirlo con cognizione di causa, perché guidavo io all’epoca la Conferenza delle Regioni e, al netto di qualche piccola differenza, abbiamo lavorato molto bene con gli esecutivi che si sono succeduti. Comprendo che le polemiche trovino spazio sui giornali, ma i fatti sono questi e incontestabili” ha affermato Bonaccini. Leggi l’intervista.

Non c’è dubbio: la polemica fa notizia, mentre l’andare d’accordo non ha lo stesso effetto. Inoltre la mole sproporzionata di informazioni disponibili ci confonde e ci fa perdere i punti di riferimento. “Acqua, acqua ovunque. E non una goccia da bere” scriveva Samuel Taylor Coleridge nella Ballata del vecchio marinaio. Meno male che c’è sempre la possibilità di fare una domanda diretta e avere l’informazione che serve. La goccia da bere c’è, basta sapere dove trovare la cannuccia (rigorosamente non di plastica!).

Camillo Langone per ilfoglio.it il 7 marzo 2022.

Mi ha censurato perfino LinkedIn. Non proprio un social per bambini e però nell’avviso c’era scritto: “Ti informiamo che il post che hai pubblicato viola le nostre policy (motivo: contenuti per adulti). Il contenuto è stato rimosso”. 

Cosa caspita avevo postato sulla pudibonda bacheca specializzata in ricerche e offerte di lavoro? Non il mio curriculum (dove comunque esiste un romanzetto che Paolo Poli definì “purissima pornografia”) ma l’ultima tela di Enrico Robusti, “Proclamazione di Miss Vomito”, quadro fin dal titolo superespressionista, nient’affatto realista, e perciò orientato a deformazione, interpretazione, trasfigurazione, non a eccitazione.

Escludendo che sia stato censurato per i fiori (rose, margherite, papaveri, violette, peonie…) fuoriuscenti dalle bocche delle miss, immagino che la colpa sia di quel capezzolino dritto in basso a destra, fra un petalo e l’altro. Che vista l’algoritmo! Dodici decimi! 

Non ci avevo fatto caso nemmeno io, pur interessato al genere. Secondo me quella di Robusti è una critica al narcisismo, una rappresentazione dell’orrore dello spettacolo, una riflessione sulla scia di Debord e Vargas Llosa, mentre secondo LinkedIn è un’oscenità da cancellare.

Non sono soltanto io a preoccuparmi. Per me è ormai quasi una fissazione, per altri è una recente inquietudine. Su Le Point, il settimanale francese, è uscito un articolo sul perseverare della censura social, sul fatto che l’algoritmo continui imperterrito a bloccare “qualsiasi forma di nudità, senza riuscire a distinguere cosa sia arte o pornografia”. 

No, stavolta non si parla della “Origine del mondo” di Courbet, un capolavoro che probabilmente sopravvive piuttosto bene anche senza Facebook, ma dei problemi relativi a una foto postata dallo Jeu de Paume, museo parigino dedicato a cinema, arte contemporanea e appunto fotografia.

Qui mi piacerebbe, magari citando Baudelaire, Arthur Danto, Maurizio Ferraris, ricordare che la fotografia non è del tutto arte, che è più tecnica che arte, che quella fra algoritmo e obiettivo è una guerra fra macchine, una tecnomachia, ma ovviamente non è questo il punto. “La libertà d’espressione totale, illimitata, per qualsiasi opinione, senza alcuna restrizione né riserva, è un bisogno assoluto per l’intelligenza” ha scritto Simone Weil. 

Per qualsiasi opinione e, aggiungo io, per qualsiasi linguaggio artistico a prescindere dal suo status. Se le parole della filosofa francese sono vere, ed è difficile dubitare che lo siano, la censura è da considerarsi un bisogno assoluto dell’imbecillità. Questo spiegherebbe il suo crescente successo, in ogni ambito (ho appena letto dell’Università Milano Bicocca che tifando per l’Ucraina ha provato a cancellare il corso sul russo Dostoevskij tenuto da Paolo Nori…).

La firma di Le Point, Aurélie Jean, un’esperta proprio di algoritmi che Forbes ha indicato tra le quaranta donne francesi più influenti, addirittura, non è radicale come la sua connazionale, è preoccupata ma non abbastanza e mantiene un tono complessivamente blando. 

Non considera il Leviatano californiano come il nemico metafisico che è, sembra perfino dare qualche credito ai “moderatori professionali” ossia a quelle persone che, non si sa dove e non si sa con quali criteri, dovrebbero integrare lo spietato giudizio informatico con un senno vagamente umano.

Come se costoro (nerd americani o delocalizzati?) fossero espertissimi di storia dell’arte, come se non stessimo parlando di conformisti aziendalisti per giunta molto permeabili alla delazione (alcuni miei post pittorici sono stati censurati dopo mesi dalla loro pubblicazione e siccome i computer sono velocissimi è lecito pensare che siano incappati in segnalazioni antropiche, in denunce di spie in carne e ossa).

E, infine, come se moderatore non fosse sinonimo di censore. Io credo insieme a Joseph Conrad (cito una sua lettera del 1907) “che il Censore non dovrebbe esistere affatto. Tu dici: si cambi il poliziotto. Ma chi deve giudicare i suoi giudizi? Dove lo si scoverà. Chi lo licenzierà? A chi deve essere affidato il potere di nominarlo? No, quella funzione è impossibile. La pretesa di esercitarla è vergognosa come ogni tirannia mascherata”. 

Conrad si riferiva alla censura teatrale del suo tempo, si accalorava per una censura nazionale e parzialissima. Oggi che la tirannia mascherata è sovranazionale e onnipervasiva, pressoché cosmica, non vedo molti scrittori scagliarsi contro il Trust dei Braghettoni, il Cartello del Pensiero e del Pennello Unico.

Mi viene in mente Bret Easton Ellis: “I social media erano diventati una trappola, e quello a cui in realtà miravano era silenziare l’individuo”. E poi Edoardo Nesi, attraverso un suo personaggio: “Hanno creato un tribunale globale di mentecatti e ogni giorno si mettono davanti a un computer e decidono cosa è vero e cosa no, chi è puro e chi no”. E nessun altro. 

La critica avanzata sulle pagine di Le Point è troppo sommessa, vi serpeggia l’idea che la censura vada riformata, non abolita: “Senza questi algoritmi noi saremmo invasi di foto anatomiche”. Non è vero. Io sui social vedo soltanto coloro che seguo o coloro che cerco, se nessuno dei miei contatti posta foto anatomiche io foto anatomiche non ne vedo. Se qualcuno putacaso le postasse, tali foto, e io ne risultassi terribilmente turbato, potrei subito smettere di seguirlo e le sue foto, anatomiche o non anatomiche, non le vedrei più. Più facile (e liberale) di così…

Aurélie Jean, che sarà una statalista, partorisce invece una proposta difficoltosa: “Si può pensare di creare una libreria di produzioni artistiche conosciute – una banca dati aperta a tutti – per evitare di rivedere censurate le opere di Courbet e di Delacroix”. Qui avverto varie complicazioni, la prima delle quali nella locuzione “produzioni artistiche conosciute”: conosciute da chi? I quadri appesi al Museo d’Orsay e al Louvre sono conosciuti e riconosciuti da tutti, pertanto il pelo di Courbet e la tetta di Delacroix godrebbero subito del giusto usbergo. 

Ma al di sotto di tanta notorietà e ufficialità? La proposta di Le Point somiglia a una licenza di nudo da concedere ai pittori morti. Peggio: soltanto ai pittori morti famosi. E’ figlia di una concezione dell’arte schiacciata sul passato e sul museo, il luogo (lo ha scritto qui lo storico delle eresie Giorgio Caravale) dove le immagini vengono addomesticate, depotenziate.

Mentre il problema principale riguarda gli artisti di oggi, l’arte viva e magari combattiva che ha bisogno di respirare e a cui viene tolto l’ossigeno. Soffocando l’autentica rappresentazione del nostro tempo, di questa epoca di cui rischia di rimanere soltanto l’arte di propaganda, l’arte ideologica, l’arte di Cecilia Alemani che alla Biennale di Venezia esige l’arte che produce “risultati in termini di integrazione”, vale a dire l’arte che esclude la realtà. Io, per una mostra di Censurati che vorrei organizzare, ho una lista lunga un chilometro di pittori italiani viventi perseguitati dall’algoritmo, artisti continuamente sotto tiro, costretti all’autocensura e alle pecette per promuovere il proprio lavoro su internet (che se non è l’unico luogo dove promuovere qualcosa poco ci manca).

A cominciare dal bannato numero uno, Riccardo Mannelli, il toscanaccio polemico, il satiro che proviene direttamente dagli anni Settanta e quindi da una stagione di libertà espressiva oggi perfino inconcepibile (andatevi a vedere cosa pubblicavano lui e Vincino e Pino Zac sul Male), per proseguire, in ordine alfabetico, con Saturno Buttò, Pierluca Cetera, Francesco De Grandi, Roberto Ferri, Daniele Galliano, Giovanni Iudice, Federico Lombardo, Giovanni Manzoni Piazzalunga, Jara Marzulli, Michele Moro, Silvia Paci, il succitato Enrico Robusti, Giuliano Sale, Nicola Verlato, Daniele Vezzani…

E qualcuno mi sarà sfuggito, e sto elencando solo pittori italiani. Perché se potessi mettere in piedi una mostra di gittata internazionale aggiungerei gli americani Joan Semmel, Terry Rodgers, Eric Fischl, John Currin, Lisa Yuskavage, Jacob Collins, Will Cotton, Sergio Lopez, gli inglesi Jenny Saville, Jonathan Yeo, Michael Kirkham, i francesi Marcos Carrasquer, Hubert de Lartigue, Apolonia Sokol, le sudafricane Marlene Dumas e Lisa Brice, il catalano Xevi Solà, gli spagnoli Bernardo Torrens e Dino Valls, il tedesco Peter Klint, la slovacca Katarina Janeckova, il russo Serge Marshennikov, l’israeliano Kobi Assaf, il cinese Liu Xiaodong, il taiwanese Hilo Chen, il giapponese Nahoto Kawahara, e potrei continuare se avessi abbastanza pareti e lettori abbastanza pazienti, o abbastanza maliziosi da cogliere la ghiotta occasione per conoscere quadri riprovevoli…

In catalogo oltre al mio testo inserirei un intervento di Nicola Verlato, uno dei nostri artisti più internazionali e il filosoficamente più attrezzato, che interpellato mi risponde così: “Questo desiderio di cancellazione indiscriminato della figura nuda, assimilata immediatamente alla pornografia, nasconde in realtà la cancellazione dell’unica radice culturale che ha fatto del nudo l’epicentro della sua visione, ovvero la radice greco-romana.

Tutto ciò avviene da parte di culture ben radicate, anche inconsapevolmente, nelle culture iconoclaste del monoteismo lasciato allo stato brado, non ibridato con il paganesimo antico”. Insomma l’algoritmo è protestante, non cattolico. E’ puritano, non vaticano. Come dimostra il fatto che il meraviglioso aforisma con cui concludo proviene da penna ipercattolica e tridentina, quella di Nicolás Gómez Dávila: “Un corpo nudo risolve tutti i problemi dell’universo”.

Che cosa è la Woke Revolution e perché non va sottovalutata. Stefano Magni su Inside Over il 2 gennaio 2022. La “cancel culture”, la “woke revolution” e poi sempre il “politically correct” sono termini inglesi che stanno entrando anche nel lessico comune italiano, in quello giornalistico soprattutto. Si tratta di fenomeni ancora poco radicati nella coscienza comune, evanescenti, inafferrabili. Non esiste nulla di tutto ciò, secondo la maggior parte degli opinionisti di sinistra: sono solo paranoie dei conservatori, buone per far propaganda e demonizzare l’avversario. Sono invece tre aspetti di una rivoluzione culturale in corso, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, non solo secondo gli opinionisti di destra, ma anche per tutte quelle personalità di sinistra (giornalisti e docenti, soprattutto) che ne sono rimasti vittima. L’associazione Fire (“Foundation for Individual Rights in Education”, fondazione per la difesa dei diritti individuali nell’educazione) permette di comprendere correttamente la portata del fenomeno: è minoritario, ma importante e rischia di dilagare in futuro.

La “woke revolution” prende il nome dallo slang afro-americano e non a caso si è diffusa ultimamente a seguito del movimento Black Lives Matter, soprattutto dal 2015 in poi. Woke vuol dire letteralmente “in allerta”, anche se ultimamente è diventata la definizione del più generico “consapevole” (del problema, dell’ingiustizia, ecc…). Stare “in allerta” era d’obbligo per quei neri che uscivano dal loro quartiere e che rischiavano di fare una brutta fine per mano dei bianchi, ai tempi della segregazione. Dopo mezzo secolo dalla fine definitiva della segregazione, per molti neri il ghetto dà ancora un senso di protezione nei confronti del mondo esterno ed ogni episodio di brutalità della polizia contro un nero disarmato è indicato come prova di un razzismo persistente. Nelle università più costose d’America sono invece gli studenti (molto spesso bianchi) e gli intellettuali che sentono il dovere di restare “in allerta” per scovare ogni traccia di razzismo nel discorso pubblico. Un gesto, una parola, un tono di voce, possono sembrare innocui, ma, secondo gli woke, sono minacce velate o segni di un razzismo residuo.

Il politically correct è il codice che definisce ciò che per un woke è corretto o scorretto. E il razzismo contro cui lottano non è solo quello contro i neri, ma anche contro tutti coloro che sono visti come gli oppressi di ieri e di oggi: omosessuali, donne, immigrati, membri di minoranze etniche e religiose, transgender, animali (difesi da umani, in questo caso). Ma le categorie si estendono di continuo e in modi e tempi difficilmente prevedibili. La cancel culture è il modo in cui gli woke esercitano la giustizia. Ed è un eufemismo per definire la nuova forma di linciaggio online: il colpevole viene bandito, dopo una campagna di odio in rete, nelle università e in pubblica piazza, dopo il boicottaggio, il ritiro di ogni invito e infine anche il licenziamento. Se l’ingiustizia è un simbolo, come una statua, si chiede la sua rimozione. Se è un film, si chiede la sua cancellazione. Se è un testo, non deve essere più venduto. E così di seguito, fino al reset del passato.

Secondo i dati della Fire, dal 2015 al 2021, 426 docenti sono stati segnalati per aver espresso opinioni controcorrente, tre quarti di essi (314) hanno subito sanzioni. Il trend è in forte crescita: si contavano 24 casi di segnalazione nel 2016, sono arrivati a 113 nel 2020. La maggior parte dei docenti è stata contestata per discorsi che riguardano la questione razziale. Nei due terzi dei casi, solo perché hanno espresso un loro parere personale. Quasi sempre, le segnalazioni arrivano da gruppi organizzati di studenti di estrema sinistra o anche da colleghi dei docenti. Secondo Greg Lukianoff, il direttore di Fire, gli studenti sono già “tendenzialmente liberal” e all’università incontrano docenti “molto liberal” e un personale non docente “estremamente liberal”.

La sua fondazione fornisce una mappa aggiornata di scuole e università in cui la libertà di espressione è minacciata da regolamenti interni. E stila la classifica delle istituzioni in cui la libertà di parola è maggiormente repressa, ogni anno. La gran maggioranza delle istituzioni è in zona gialla, dunque a rischio. Solo una minoranza è nella zona verde (maggior tutela della libertà di espressione) e sono già di più le istituzioni in zona rossa, dove la repressione è esplicita. I docenti che si definiscono conservatori sono una minoranza sparuta (2,5%), dunque la politicizzazione nelle università e i fenomeni di cancel culture sono quasi esclusivamente appannaggio della sinistra. Il fenomeno è minoritario, ma importante appunto: episodi di censura sono avvenuti nel 65% delle università più influenti degli Stati Uniti e in ciascuna delle dieci scuole più prestigiose si sono registrati almeno 10 casi. Si tratta dunque di un fenomeno che colpisce l’élite del futuro.

Il quadro che fornisce Fire è parziale, perché riguarda solo l’educazione, a tutti i livelli. Mentre la “woke revolution” riguarda anche altri settori importanti della società. I media, prima di tutto, il cinema e l’arte e sempre più anche il mondo delle grandi aziende. Le multinazionali dell’informatica, le Big Tech sono a trazione woke, già da anni. Basti l’esempio di Netflix, attentissima a non dire nulla di scorretto, eppure una battuta di troppo sui transgender è scappata al comico afroamericano Dave Chapelle. Il risultato immediato è stato uno sciopero del personale e una campagna mediatica che ha indotto Chapelle ad incontrare i rappresentanti della comunità transgender.

Bari Weiss è la scrittrice e giornalista ebrea (membro di una minoranza, dunque, ma “privilegiata” secondo i canoni del nuovo antirazzismo) che ha rassegnato le dimissioni dal New York Times perché subiva mobbing dai suoi colleghi woke e non era difesa dai superiori. La sua è diventata la battaglia di tutte le vittime della cancel culture, vittime di sinistra soprattutto, epurate da chi è più puro. Sulla rivista conservatrice Commentary, la Weiss ha scritto un articolo-manifesto che descrive non solo le caratteristiche della woke revolution, ma porta anche numerosi esempi che permettono di comprendere quanto il fenomeno sia infido e pervasivo. Per Bari Weiss, infatti, “si viene condannati per quello che si è” e non per quel che si fa. Il maschio, bianco, eterosessuale, ma anche la donna ebrea bianca, sono “privilegiati”.

In una terza elementare si insegna ai bambini bianchi di liberarsi e pentirsi del loro privilegio, innato. In un’altra scuola, prestigiosa, per altro, si ritiene che un insegnante bianco non possa tenere lezioni a bambini neri. Non si distingue neppure l’intenzionalità, anche un fraintendimento può portare a una condanna: un operaio che scrocchia le dita in modo “sospetto” (che ricorda un gesto identificativo dei suprematisti bianchi) viene licenziato in tronco. Un professore di linguistica che insegna l’uso del “like” (come) e ha studenti cinesi, viene tacciato di razzismo perché “like” in cinese ha un suono simile a quello dell’ormai impronunciabile parola latina con cui si identificavano i neri. Sono storie surreali, angosciose che ricordano i regimi totalitari di Stalin e di Mao più che la terra della libertà. Secondo Bari Weiss, il mostro woke è cresciuto per mancanza di coraggio di chi avrebbe dovuto opporsi: è un atteggiamento infantile a cui gli adulti, i responsabili, gli insegnanti, non hanno mai risposto con un “no”. Ma nessuno, neppure Bari Weiss o Greg Lukianoff, riesce a individuare la radice di questa rivoluzione culturale.

Se tutto ciò vi ricorda il marxismo leninismo applicato in Urss e in Cina, ma anche nei movimento più violenti del nostro Sessantotto, forse avete ragione. La nuova sinistra non è molto distante dalla vecchia logica della lotta di classe. E se il fenomeno è cresciuto è perché negli Usa, che non sono mai stati comunisti, il marxismo è sempre più di moda nelle università, spesso filtrato attraverso lo studio di Gramsci, il filosofo italiano più influente nella cultura americana da vent’anni a questa parte.

Carlo Nicolato per "Libero Quotidiano" il 4 Gennaio 2022. Vi siete mai chiesti per caso che tipo di persona potrebbe mai essere quella che vi segnala su Facebook o Twitter, magari per aver espresso un punto di vista poco politically correct o non in linea con quello comunemente condiviso sui social? O che addirittura vi abbia fatto cancellare una fotografia di nudo su Instagram, che fosse anche la riproduzione della celebre Origine del mondo di Courbet sfuggita miracolosamente all'ottuso algoritmo?

Ebbene sappiate che i vostri sospetti su quel conoscente integerrimo rompipalle di sinistra non sono mal riposti: secondo infatti un sondaggio di Yougov le probabilità che sia stato proprio lui, progressista, bacchettone e decisamente poco democratico, inginocchiato per i diritti dei neri ma non per quelli degli avversari politici, sono molto alte, almeno il triplo della possibilità che sia stato uno di destra.

«Questo comportamento è fortemente legato all'ideologia politica», dice il think tank americano Cato Institute che ha commissionato il sondaggio che rivela appunto come il 65% degli "strong liberals", cioè di quelli sinistra più convinti, contro il 24% degli "strong conservators", abbiano almeno una volta fatto delle segnalazioni sui social. Tra i meno strong e i più moderati le differenze sono meno evidenti ma comunque rimangono, con un 32% dei liberals contro il 21% dei conservatori.

È la cancel culture da divano, quella che non abbatte le statue in piazza ma i post degli altri su Facebook. È la sinistra col ditino alzato di una volta, la razza moralmente superiore diventata più ottusa dell'algoritmo e che si rivolge all'autorità giudicante, nel caso specifico un nerd rintanato in un ufficio polveroso, arbitro in terra del bene e del male come il giudice nano di De Andrè.

Ne consegue che perla stessa categoria di persone, cioè chi si dichiara fieramente di sinistra, anche la stessa "amicizia" è appesa a un filo, o meglio a quel click che da un secondo con l'altro ti cancella dalla lista dei contatti. Otto "liberal strong" su dieci lo hanno fatto almeno una volta nella vita, per motivi politici ma anche per motivi legati alla scienza riguardanti per lo più il clima e il covid.

Ma lo hanno fatto anche i liberal moderati, quasi 7 su 10, contro i neanche i 5 su 10 dei conservatori che siano moderati o estremisti. Non deve sorprendere dunque che gli utenti di sinistra si trovino più a loro agio sui social di quelli di destra, le loro idee sono protette e condivise, raramente rimosse. 

È successo solo al 20% dei liberali estremisti contro il 35% dei conservatori, mentre solo al 12% di loro è stato bloccato o sospeso l'account contro il 19% di quelli di destra. A questo proposito il popolo conservatore pensa che il blocco definitivo degli account di Trump su Facebook e Twitter sia stato un sopruso e l'81% di loro ritiene che con tale condotta i social abbiano violato il primo emendamento secondo cui la libertà di espressione è inviolabile.

E se il 58% degli americani afferma che i social sono dannosi perla società, il 52% dei liberal crede invece che al contrario rappresentino qualcosa di positivo, e oltre il 70% di loro sono anche convinti che rappresentino un miglioramento anche per le loro vite.

Anche i conservatori credono che i social siano "personalmente utili", ma tale percentuale si abbassa nel loro caso a poco più del 50%. Secondo il sondaggio Yougov in generale gli americani non si fidano molto delle società di social media, il 75% di loro considera che non sono attrezzati per prendere decisioni eque sui post, ma anche in questo caso quelli di sinistra si fidano un po' di più di quelli di destra.

I liberal scettici sui social vanno dal 59 al 72% a seconda delle loro convinzioni più o meno estremiste, contro un range di conservatori scettici che va dall'88 al 90 per cento. Insomma se siete di destra, e siete convinti che la libertà di espressione sia un valore, guardatevi dai vostri amici di Facebook: tra loro c'è sicuramente una spia rossa, un maccartista del politically correct, vi sta tenendo d'occhio e non vede l'ora di segnalarvi. 

·        Quello che c’è da sapere su Wikipedia.

10 cose da sapere.  Da wiki.wikimedia.it.

10 cose da sapere su Wikipedia e Wikimedia: vademecum per evitare luoghi comuni ed errori quando parliamo dell’enciclopedia più consultata del web, della fondazione che la sostiene e dell’associazione che ne diffonde la conoscenza in Italia.

Indice

1"Wikipedia" oppure "Wikimedia"?

2Wikimedia Italia NON gestisce Wikipedia

3NON esiste «Wikipedia Italia»; il sito di Wikipedia NON è www.wikipedia.it

4NON esiste solo Wikipedia

5Libera NON vuol dire "posso copiarla come mi pare"

6Libera NON vuol dire "posso scrivere quello che voglio"

7Come posso (ri)scrivere una voce?

8Chi è il responsabile di quanto scritto su Wikipedia?

9Come faccio a contattare la redazione di Wikipedia?

10Wikimedia Italia si occupa SOLO dei progetti WMF?

"Wikipedia" oppure "Wikimedia"?

Wikipedia è l'enciclopedia multilingue collaborativa, online e gratuita che tutti conosciamo; ma naturalmente per esistere ha bisogno di una struttura che la supporti. Insieme ai suoi wiki fratelli, costituisce la galassia dei progetti Wikimedia.

Wikimedia Foundation, Inc. (WMF) è la fondazione senza fini di lucro con sede negli USA che ospita e gestisce i siti Wikimedia e ne sviluppa la piattaforma tecnica.

Wikimedia Italia (WMI) è un'associazione culturale, formata da volontari impegnati a promuovere la conoscenza e l'uso dei progetti a "contenuto aperto" (open content) in Italia, con particolare riguardo ai progetti Wikimedia di cui sopra. Wikimedia Italia è corrispondente italiana ufficiale ("capitolo") di Wikimedia Foundation, avendo per esempio il diritto non esclusivo di uso dei suoi marchi: però le attività di Wikimedia Italia non sono espressione di Wikimedia Foundation né vale il viceversa.

Wikimedia è il nome del "movimento" costituito da quanto sopra: i progetti Wikimedia e i loro volontari; WMF; decine di capitoli come WMI; gli altri progetti che vi si ispirano, come Wiki Loves Monuments; moltissime persone che credono nei progetti collaborativi, nel contenuto aperto, nelle licenze libere (copyleft).

Wikimedia Italia NON gestisce Wikipedia

Molte persone si rivolgono a Wikimedia Italia per chiedere aggiornamenti e modifiche a Wikipedia. L’associazione Wikimedia Italia però non controlla affatto i contenuti di Wikipedia e non ne è in alcun modo responsabile.

I server con la base dati di Wikipedia sono gestiti direttamente dalla Wikimedia Foundation e si trovano negli USA: nessun membro di Wikimedia Italia ha diritti particolari di accesso a essi.

A livello individuale, i soci di Wikimedia Italia sono tra le migliaia di utenti dei vari progetti Wikimedia (tra cui Wikipedia), ma essere iscritti all’associazione non dà alcun diritto né alcuna responsabilità in più rispetto all’enciclopedia. Per essere più chiari, ci sono amministratori di Wikipedia che non sono soci di Wikimedia Italia, e soci di Wikimedia Italia che non sono amministratori di Wikipedia.

Puoi paragonare Wikimedia Italia a un'associazione del tipo "amici del museo civico", con la differenza che i soci di Wikimedia Italia non hanno nemmeno lo sconto sul biglietto d’ingresso... perché usare Wikipedia è gratuito per tutti!

NON esiste «Wikipedia Italia»; il sito di Wikipedia NON è www.wikipedia.it

"Wikipedia Italia" è una dicitura errata che è stata spesso usata per indicare sia l’enciclopedia, sia la controparte italiana di Wikimedia Foundation. In realtà:

Non esiste una "Wikipedia Italia", ma la Wikipedia in lingua italiana (o, se si preferisce, "Wikipedia in italiano" o "Wikipedia italofona"; al massimo, "Wikipedia italiana" che è un calco del termine Italian Wikipedia usato in inglese). Non è solo un gioco di parole: i progetti WMF sono creati su base linguistica, non nazionale. Pensa ad esempio all’edizione inglese: nessuno ne parla come "Wikipedia USA" o "Wikipedia Gran Bretagna". Essendo quella italiana una lingua poco diffusa al di fuori dell’Italia, viene spontaneo associarla all’Italia, ma in realtà è parlata anche altrove (nel Canton Ticino, ad esempio); chiunque parli italiano può dare il suo contributo.

Non si può usare l’espressione "Wikipedia Italia" neppure in riferimento all’associazione Wikimedia Italia, poiché quest’ultima raccoglie utenti provenienti da tutti i progetti Wikimedia, non solo da Wikipedia. A dire il vero esiste un'"Associazione Wikipedia Italia", che ha in uso il dominio wikipedia.it. Però tale associazione non ha nulla a che fare né con Wikimedia Foundation né con Wikimedia Italia. Digitando www.wikipedia.it si arriva effettivamente a consultare Wikipedia in lingua italiana (perché si viene reindirizzati a https://it.wikipedia.org), ma la situazione potrebbe cambiare senza alcun preavviso. Il sito di Wikipedia in lingua italiana è https://it.wikipedia.org - in generale, ogni edizione linguistica è riconoscibile dal codice corrispondente alla lingua (quindi la Wikipedia in inglese è en.wikipedia.org, quella in russo ru.wikipedia.org, e così via).

NON esiste solo Wikipedia

Anche se Wikipedia è di gran lunga il progetto maggiore ospitato da Wikimedia Foundation, è solo uno dei dodici progetti creati fino ad oggi, ciascuno dei quali incarna un aspetto della diffusione della conoscenza.

Gli altri progetti Wikimedia sono:

Commons (risorse multimediali) commons.wikimedia.org

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Wikibooks (manuali e libri di testo) www.wikibooks.org

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Wikiquote (aforismi e citazioni) www.wikiquote.org

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Libera NON vuol dire "posso copiarla come mi pare"

Puoi utilizzare i contenuti di Wikipedia in due modi: usando porzioni ridotte del testo (diritto di citazione), oppure riportandone ampie parti, fino ad arrivare a tutta l'enciclopedia!

Nel caso di una breve citazione, proprio come un qualunque articolo o testo cartaceo dovrebbe riportare i dati relativi alle proprie fonti, occorre indicare che è tratta da Wikipedia e specificare da quale voce. È auspicabile che la citazione comprenda anche la data e ora completa della versione che stai utilizzando o, in alternativa, il suo numero di versione (vedi sotto); le pagine di Wikipedia continuano a venire modificate, e nel momento in cui viene pubblicato il tuo articolo con la citazione la voce potrebbe già apparire diversa! La maggior parte delle convenzioni bibliografiche richiederà l’intero indirizzo internet (URL) della pagina. Meglio ancora, utilizza l'indirizzo che trovi nel box a sinistra di ogni pagina, sotto Strumenti → Link permanente: così la tua citazione farà riferimento ad una precisa versione della voce. Otterrai così un riferimento di questo tipo:

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Ciò vale anche per gli altri progetti fratelli.

Libera NON vuol dire "posso scrivere quello che voglio"

Anche se chiunque può creare o modificare le voci di Wikipedia, questo non significa che qualunque materiale possa essere inserito. Occorre infatti che gli argomenti siano considerati enciclopedici dalla comunità che opera sull'enciclopedia; sono state definite varie linee guida, e nei casi meno chiari si apre una discussione che porta a una decisione il più possibile condivisa. Inoltre non puoi inserire informazioni create direttamente da te: Wikipedia non è una fonte primaria, cioè non raccoglie "nuova" conoscenza, ma una fonte secondaria o meglio ancora terziaria, cioè organizza la conoscenza già pubblica e meglio ancora già validata da altri. Infine i testi devono essere scritti con un punto di vista neutrale, quindi né esaltatori né denigratori.

Come posso (ri)scrivere una voce?

Mentre è relativamente semplice correggere una voce se si trova un errore - ma consigliamo comunque di specificare una fonte che corrobori il dato corretto, aggiungendola magari nell'oggetto della modifica - spesso se crei o riscrivi una voce ti vedi azzerato tutto il tuo lavoro, anche se sei in buona fede ed effettivamente il tuo testo è più corretto di quello originario. Purtroppo molte persone inseriscono materiale errato oppure pubblicitario; gli utenti che lavorano attivamente sull'enciclopedia sono relativamente pochi, e possono sbagliarsi anch'essi in buona fede. Prima di fare modifiche importanti, ti suggerisco di anticiparle nella pagina di discussione della voce (la raggiungi cliccando sull'etichetta in alto, subito a destra di quella della voce stessa), spiegando i motivi; la comunità è sempre molto meglio disposta quando vede che c'è la volontà di discutere e quindi lavorare per migliorare Wikipedia. Anche le pagine dei Progetti, in genere indicate al termine del testo della voce, possono essere utilmente consultate: sono i posti dove è più facile trovare utenti esperti sia di Wikipedia che del tema della voce stessa.

Chi è il responsabile di quanto scritto su Wikipedia?

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In caso di problemi relativi ad una voce di Wikipedia è possibile contattare l'assistenza di Wikipedia all'indirizzo info-it@wikimedia.org, oppure direttamente Wikimedia Foundation (i contatti sono disponibili nel suo sito). È invece inutile contattare Wikimedia Italia, dato che come scritto sopra l'associazione non ha alcuna autorità sull'enciclopedia; come azione immediata, può essere più utile contattare singoli utenti del progetto, direttamente su Wikipedia.

Come faccio a contattare la redazione di Wikipedia?

Non puoi: Wikipedia non ha una redazione.

Il suo funzionamento si basa su delle linee guida stabilite dalla comunità dagli utenti stessi e su alcuni principi di base non modificabili, noti come i "5 pilastri":

Wikipedia è un’enciclopedia, non una raccolta indiscriminata di informazioni;

Wikipedia ha un punto di vista neutrale;

Wikipedia è libera;

Wikipedia ha un codice di condotta;

Wikipedia non ha regole fisse.

All’interno di Wikipedia puoi contattare i singoli utenti, nelle loro "pagine di discussione" pubbliche oppure (se hanno abilitato tale funzione) inviando loro un messaggio riservato di posta elettronica.

Wikimedia Italia si occupa SOLO dei progetti WMF?

No. L'associazione Wikimedia Italia promuove il sapere libero anche attraverso iniziative slegate dalle attività di Wikimedia Foundation.

Wikimedia Italia sostiene diverse petizioni e campagne di supporto; gestisce la versione italiana del concorso fotografico mondiale Wiki Loves Monuments; partecipa a fiere, manifestazioni, barcamp, conferenze, corsi universitari o lezioni scolastiche per parlare del sapere libero, con il progetto Wikipedia va a scuola.

Inoltre, è capitolo ufficiale italiano di OpenStreetMap foundation, come OpenStreetMap Italia.

 Cultura, Informazione e Società. A proposito di Wikipedia, l’enciclopedia censoria.

Wikipedia, secondo la presentazione contenuta sulla sua home page web, è un'enciclopedia online, collaborativa e gratuita. Disponibile in 280 lingue, Wikipedia affronta sia gli argomenti tipici delle enciclopedie tradizionali sia quelli presenti in almanacchi, dizionari geografici e pubblicazioni specialistiche. Wikipedia, a suo dire, è liberamente modificabile: chiunque può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Ogni contenuto è pubblicato sotto licenza Creative Commons CC BY-SA e può pertanto essere copiato e riutilizzato adottando la medesima licenza. La comunità di Wikipedia in lingua italiana è composta da 771.190 utenti registrati, dei quali 8.511 hanno contribuito con almeno una modifica nell'ultimo mese e 105 hanno un ruolo di servizio. Gli utenti costituiscono una comunità collaborativa, in cui tutti i membri, grazie anche ai progetti tematici e ai rispettivi luoghi di discussione, coordinano i propri sforzi nella redazione delle voci. Quello che non si dice di Wikipedia, però, è che, pur lagnandosi essa stessa del pericolo della censura, i suoi utenti con ruolo di servizio svolgono proprio un’attività censoria. Non tutti i contenuti inseriti, nuovi o di rettifica, sono pubblicati sulla cosiddetta enciclopedia libera. Wikipedia ha una serie di regole e di linee guida per la pubblicazione, ma poi ti accorgi che sono puri accorgimenti per censurare contenuti e personaggi non aggradi all’utente di turno con mansioni di servizio. Censura dovuta ad ignoranza o mala fede. Un esempio: provate a cercare Antonio Giangrande, o i suoi 40 libri, o Associazione Contro Tutte le Mafie. Non troverete nessuna pagina a loro dedicata, e si potrebbe capire non reputandoli degni di attenzione, ma non troverete anche alcun riferimento a contenuti attinenti ed esistenti ed inclusi in altre pagine. Per esempio, alla voce mafia tra le associazioni antimafia non vi è l’Associazione Contro Tutte le Mafie. Addirittura hanno tolto il riferimento bibliografico al libro con il titolo “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana.

Il resoconto di un Avetranese”, scritto da Antonio Giangrande ed inserito alla pagina “Il Delitto di Avetrana”. Ognuno, comunque, può verificare da sé con i propri contenuti. Alla fine ti accorgi che, mancando alcune opere, fatti, personaggi o contenuti nuovi o di rettifica, proprio perché vi è impedimento al loro inserimento, Wikipedia proprio un’enciclopedia libera non è.

Tutto ciò è avvalorato da quanto scrive su “Il Giornale” Alessandro Gnocchi. Wikipedia come Mao: fa censura per cercare di riscrivere la storia. La popolare enciclopedia on line cancella gli interventi degli utenti che non si attengono alla "linea politica". «L’egemonia culturale è un concetto che descrive il dominio culturale di un gruppo o di una classe che “sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo”». La definizione, con ampia citazione di Gramsci, è prelevata da Wikipedia, l’enciclopedia on line ormai egemone nel fornire informazioni a navigatori, studenti, giornalisti e perfino studiosi. Nel mondo di Wikipedia le gerarchie sono quasi inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La garanzia dell’accuratezza poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma in qualità. Molto discutibile, e non solo in linea di principio. Infatti in Wikipedia esiste un problema di manipolazione del consenso, in altre parole è attivo un «sistema di controllo» simil-gramsciano (in sedicesimo, si intende). Le posizioni faziose passano quindi per neutrali, e il collaboratore che obietta può andare incontro a sanzioni che vanno dalla sospensione alla radiazione. Di recente, ad esempio, è stato espulso Emanuele Mastrangelo, caporedattore di Storiainrete.com, sito specialistico, e autore di alcuni studi sul fascismo. La pena «all’utente problematico» è stata comminata, dopo processo non troppo regolare, per un «reato» d’opinione gravissimo: aver affermato che in Italia la fine della Seconda guerra mondiale assunse anche il carattere di una «guerra civile». Opinione, quest’ultima, largamente maggioritaria tra gli storici di ogni orientamento, salvo forse quelli che hanno ancora il mitragliatore del nonno sepolto in giardino. «Guerra civile», per Wikipedia.it, non merita neppure una voce a sé: l’espressione è citata di passaggio all’interno di «Resistenza». Stesso trattamento è riservato alle forze armate che rifiutarono di aderire alla Rsi, facendosi deportare dai tedeschi: un accenno e via. Quanto alle «esecuzioni post conflitto» operate dai partigiani, si sfiora il giustificazionismo. Il paragrafo è preceduto da una imparzialissima (si fa per dire) dichiarazione di Ermanno Gorrieri, sociologo attivo nella Resistenza: «I fascisti non hanno titolo per fare le vittime». E accompagnato da una precisazione imparzialissima (si fa per dire) di Luciano Lama: «Nessuno vuole giustificare i delitti del dopoguerra. Prima di giudicare però si deve sapere cosa accadde davvero. Una guerra qualunque può forse finire con il “cessate il fuoco”. Quella no». Ecco, questo si può dire, è super partes al contrario di «guerra civile», definizione «non enciclopedica» solo per caso usata da una tonnellata o due di studiosi e scrittori di sinistra da Pavone a Pansa. Di conseguenza, dopo qualche giorno di discussione on line, arriva la sentenza: «A un utente che è stato bloccato sei mesi e non ha ancora compreso che la comunità non tollera atteggiamenti di questo tipo, è il momento di dire basta. Con tanto dispiacere, ci mancherebbe, né ho “corda e sapone pronta da lunga pezza”». In effetti l’impiccagione sarebbe stato troppo anche per un revisionista come Mastrangelo. «Pertanto - prosegue il giudice - procedo a bloccare per un periodo infinito l’utente». Al di là di questo caso personale, sono parecchie le voci contestate per una certa parzialità. Da quella sulla malga di Porzûs (dove nel febbraio 1945 i partigiani comunisti massacrarono quelli cattolici dell’Osoppo) a quella sull’attentato di via Rasella, che i wikipediani preferiscono chiamare «attacco», piena di lacune, a esempio sulle polemiche scatenate dall’azione gappista anche all’interno del Pci e degli altri partiti del Comitato di Liberazione a Roma. Oggetto di accese discussioni anche Cefalonia, Pio XII, l’Olocausto, la religione cattolica in generale. Anche in voci meno calde come quelle inerenti il liberalismo, il libero mercato, il neoliberismo emerge nettamente una visione assai orientata contro il capitalismo. Nella voce dedicata all’economista Milton Friedman si legge addirittura un giudizio morale: «Pur ricordando che né Milton Friedman né José Piñera sono stati coinvolti con le torture ed i crimini commessi dal governo Pinochet, la loro correità morale non viene per questo diminuita di fronte alla gravità dei crimini commessi contro l’umanità». Non si direbbe una valutazione «enciclopedica». Il sapere «democratico» di Wikipedia sembra un aggiornamento digitale del maoismo.

Wikipedia «blocca» la Raggi: non ha rilevanza se non è eletta. Secondo le regole, i candidati hanno diritto ad una pagina solo se diventano sindaci, scrive Emanuele Buzzi l’11 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Volete consultare la pagina Wikipedia dedicata a Virginia Raggi? Allora qualche nozione di spagnolo, russo o tedesco potrebbe essere fondamentale. Infatti non esiste una voce italiana sulla candidata Cinque Stelle al Campidoglio. Un paradosso del web, contando che Raggi si è conquistata la ribalta sulla stampa di mezzo mondo: dalla Cina alla Russia, dagli Stati Uniti alla Francia. Molti altri candidati, invece, anche di città di molto meno popolose, sono presenti sulla enciclopedia web. Compreso Roberto Giachetti. Sulla Rete c’è chi ha protestato, parlando di «chiara violazione della par condicio e della libertà di informazione» e chiedendo la pubblicazione di una pagina apposita. «Se ne riparla eventualmente dopo il ballottaggio, a seconda del risultato — hanno replicato gli amministratori —. Prima, no. Per inciso: Wikipedia è una enciclopedia e non un servizio giornalistico e in quanto tale non è soggetta alla par condicio». E proprio dai paletti fissati dalla comunità che dà vita alle voci di Wikipedia nasce il paradosso che riguarda Raggi. «Le regole sulla presenza di esponenti politici su Wikipedia risalgono addirittura al 2008, quando l’enciclopedia cominciò a essere famosa e quindi c’era chi voleva sfruttarla a fini elettorali — spiega Maurizio Codogno, wikipediano di lunga data —. La comunità scelse di limitarsi a parlamentari nazionali e sindaci dei capoluoghi di provincia, pensando che i candidati sindaco non avessero rilevanza prima di venire eventualmente eletti. Dopo il 2013, con i casi di Pizzarotti a Parma e Accorinti a Messina, si fece una nuova discussione, ma il consenso finale fu di non cambiare le regole». In altre parole, per ora, Raggi non è politicamente rilevante secondo le norme vigenti per avere una propria pagina. E come lei anche, per citare altri casi, Lucia Borgonzoni (al ballottaggio a Bologna) o Chiara Appendino (a Torino). Lo scopo della comunità è duplice: evitare che la pagina dei candidati venga strumentalizzata durante la campagna elettorale.

Salvatore Aranzulla cancellato da Wikipedia. E lui replica: «Rosiconi». La cancellazione della voce sul noto blogger di informatica dall'enciclopedia online ha scatenato un dibattito e diviso la Rete sulle ragioni che portano alla rimozione, scrive Raffaella Cagnazzo l’11 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un caso che ha aperto una discussione online, ma non solo. La voce Wikipedia su Salvatore Aranzulla è stata cancellata. Una citazione che riguarda uno dei divulgatori di consigli di informatica più conosciuti del web: il suo sito internet è tra i trenta più visitati d’Italia con oltre 400mila visite al giorno, su Facebook ha più di 340.000 follower, un fatturato che supera il milione di euro e chi cerca suggerimenti online su computer, internet e telefonia, difficilmente non si è imbattuto in un suo post. Cosa è successo. «Amici cari, vi dico solo che concorrenti di bassa lega e rosiconi stanno proponendo l’eliminazione della mia voce da Wikipedia» scriveva il 23 maggio scorso Aranzulla sulla sua pagina Facebook. E dopo una lunga discussione sulla piattaforma, la cancellazione è avvenuta. L'accusa mossa ad Aranzulla è di non essere un divulgatore scientifico, in sostanza i detrattori del blogger ritengono non risponda ai criteri di enciclopedicità necessari per essere presente sulla pagina di Wikipedia. Una delle tre ragioni che possono portare alla cancellazione di una voce dalla piattaforma di divulgazione in Rete (le altre sono la forma con cui è scritta una voce e il contenuto quando utile più al soggetto citato che ad un'informazione generale). Per la piattaforma di Wikipedia poco importa che il blogger sia una celebrità online, abbia scritto libri e sia considerato un esperto tanto da essere stato invitato più volte come ospite qualificato in trasmissioni nazionali. La replica di Aranzulla. «Abbiamo fatto scoppiare una bomba: più di 300.000 persone sono venute a conoscenza della cancellazione della mia pagina da Wikipedia. Ho ricevuto migliaia di messaggi di sostegno e centinaia di discussioni sono state avviate e sono in corso in Rete: da Facebook a Twitter, da Reddit a Linkedin. La comunità italiana di Wikipedia è di parte e il mio non è un caso isolato» commenta Aranzulla, spiegando che anche la pagina di Virginia Raggi, al ballottaggio per la poltrona di sindaco di Roma, è stata cancellata. La cancellazione, com'era inevitabile, ha scatenato un dibattito tra chi è un fervido sostenitore del blogger e lo considera un Guru del Web chi, invece, lo accusa di non avere competenze specifiche e di non aver mai programmato. Ma la questione sconfina oltre il singolo caso di Salvatore Aranzulla e apre una disputa sulla scelta delle voci attive su Wikipedia, le cui regole e linee guida sono state stabilite prima del 2004, e dove sono presenti le voci su tronisti di Uomini e Donne, Veline, e più in generale vari personaggi appartenenti alla cultura popolare. Chi è il blogger Aranzulla. Dal suo blog, Salvatore Aranzulla si definisce un divulgatore informatico, con più di 15.000 copie di libri venduti, autore del sito Aranzulla.it, uno dei 30 più visitati in Italia. Offre indicazioni pratiche con post in cui spiega «Come trasformare un Pdf in Jpg» o «Come filmare lo schermo del Pc», «Come cancellare la cronologia di Google» o ancora «Come connettersi ad una rete wireless»: argomenti di uso comune con cui, chi usa la tecnologia, si confronta tutti i giorni.

Wikipedia e la censura su Antonio Giangrande, le sue opere e le sue attività, scrive “Oggi” il 19 luglio 2012. Wikipedia, secondo la presentazione contenuta sulla sua home page web, è un’enciclopedia online, collaborativa e gratuita. Disponibile in 280 lingue, Wikipedia affronta sia gli argomenti tipici delle enciclopedie tradizionali sia quelli presenti in almanacchi, dizionari geografici e pubblicazioni specialistiche. Wikipedia, a suo dire, è liberamente modificabile: chiunque può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Ogni contenuto è pubblicato sotto licenza Creative Commons CC BY-SA e può pertanto essere copiato e riutilizzato adottando la medesima licenza. La comunità di Wikipedia in lingua italiana è composta da 771.190 utenti registrati, dei quali 8.511 hanno contribuito con almeno una modifica nell’ultimo mese e 105 hanno un ruolo di servizio. Gli utenti costituiscono una comunità collaborativa, in cui tutti i membri, grazie anche ai progetti tematici e ai rispettivi luoghi di discussione, coordinano i propri sforzi nella redazione delle voci. Quello che non si dice di Wikipedia, però, è che, pur lagnandosi essa stessa del pericolo della censura, i suoi utenti con ruolo di servizio svolgono proprio un’attività censoria. Non tutti i contenuti inseriti, nuovi o di rettifica, sono pubblicati sulla cosiddetta enciclopedia libera. Wikipedia ha una serie di regole e di linee guida per la pubblicazione, ma poi ti accorgi che sono puri accorgimenti per censurare contenuti e personaggi non aggradi all’utente di turno con mansioni di servizio. Censura dovuta ad ignoranza o mala fede. Un esempio: provate a cercare Antonio Giangrande pur avendo 200 mila risultati sui motori di ricerca (siti web che parlano di lui), o cercate i suoi 100 libri, o Associazione Contro Tutte le Mafie. Non troverete nessuna pagina a loro dedicata, e si potrebbe capire non reputandoli degni di attenzione, ma non troverete anche alcun riferimento a contenuti attinenti ed esistenti ed inclusi in altre pagine. Per esempio, alla voce mafia tra le associazioni antimafia non vi è l’Associazione Contro Tutte le Mafie. Addirittura hanno tolto il riferimento bibliografico al libro con il titolo “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese”, scritto da Antonio Giangrande e da tempo inserito alla pagina “Il Delitto di Avetrana”. Ognuno, comunque, può verificare da sé con i propri contenuti. Alla fine ti accorgi che, mancando alcune opere, fatti, personaggi o contenuti nuovi o di rettifica, dovuti al fatto perché vi è impedimento al loro inserimento, Wikipedia proprio un’enciclopedia libera non è.

E poi c'è la massa di frustrati. Il 9 giugno 2016 mi trovo sulla mia pagina Facebook la richiesta di amicizia di un tipo insignificante a da me ignorato. Attingo le sue informazioni: libero pensatore (?) di Milano e con pochi amici. Confermo la richiesta. Facebook lo impedisce. Cerco di eliminarla, idem. Dopo un paio di giorni vedo citato il mio nome a sua firma in un blog sconosciuto. E leggo quanto su di me racconta. Il tipo, sicuramente, lo fa con un certo astio, non avendo letto alcun mio libro. Oppure, avendo letto quello su Milano, ne sia rimasto risentito.  “Lenzuolate. Cercando informazioni sul sempreverde Paglia, al secolo Giancarlo Pagliarini mi sono imbattuto in codesto personaggio, tal Antonio Giangrande. Uno che le mitiche lenzoluate di Uriel Fanelli sono termini delle elementari. Un grafomane assoluto come non ne avevo mai visti. Nu tipo tutto d’un pezzo. Uno che tiene ‘na caterva di siti. Insomma una specie di professionista della neNuNZia civil/penale. Uno che – parole sue: Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate. Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d’informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l’uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. Gli ingredienti del complottista ci sono tutti:

è convinto che gli altri lo taccino di mitomania, calunnie o pazzie (oh, por ninin)

si ritiene ingiustamente maltrattato (oh, pora stela)

ritiene di essere perseguitato per la sua azione “meritoria”. Infatti:

i media lo censurano (oh, por ninin)

le istituzioni lo perseguitano (oh, pora stela)

ma chicca delle chicche, questa missione superiore oh, poffartopo,

gli impedisce di lavorare!

Dico, ma quello che fa a casa mia si chiama “giornalismo”. Tant’è vero che vende i suoi libri su Amazon, su Google libri, e perfino su Lulu o su Create Space. È talmente preso dal bisogno morboso e patologico di scrivere, di dire al mondo che è tutto un’ingiustizia che non si rende nemmeno conto che forse a strillare così come un ossesso sembra davvero fuori di cotenna. Poi capisco la foga di dire al mondo la notizia. Ma diamine scrive come se parlasse alla radio! E ne sà, ma quante ne sà. In lungo e in largo, su ogni tema e su ogni zona di codesto infame paese E son tutti cattivi con lui: non lo sfiora neanche per un attimo che forse è proprio il suo atteggiamento che lo rende poco credibile. Ma no, lui ci ha la CiuSDiZia nelle vene.

Giusto per non farsi mancare niente, leggete come si descrive – in inglese:

THE ASSOCIATION AGAINST ALL THE MAFIAS

INTRODUCES

THE RELATION OF THE JUSTICE IN ITALY

President: Antonio Giangrande been born in Avetrana in the 2nd June 1963.

Professions: entrepreneur, private investigator, lawyer.

he emigrated in Germany when he had 16 years, because he was poor.

today, in Italy, for the threats and the attacks of the Mafia, he is unemployed.

today, in Italy, for the irregular examinations, he is unemployed.

The President with the degree is unemployed.

His wife is unemployed.

His son with the 2 degrees is unemployed.

His daughter with the diploma is unemployed.

They are unemployed because they fight the Mafia.

The judges do not punish the Mafia.

In Italy the environment is polluted;

In Italy the administrators publics do not respect the law;

In Italy the insurance agencies do not respect the law;

In Italy the lawyers do not respect the law;

In Italy the banks do not respect the law;

In Italy all the examinations are irregular, wins who is more cunning.

In Italy the authorities ignore the disabled, the prisoner, the unemployed, the poor people.

In Italy the judges do not respect the law;

In Italy the police does not respect the law;

In Italy the authority does not respect the law;

In Italy the authority misuses its power.

In Italy the authority says to the citizen: you undergo and be quiet!

The Italian citizen is silent.

You can translate the complete relation. It is in Italian.

Nessuno è onesto, son tutti disonesti, farabutti ecceterì ecceterà. Ma se è così un campione di superiore intelligenza….. perché non è andato all’estero a far faville? Mistero….Personalmente io sono una mezza sega, ma almeno sò di esserlo… codesto è il genio dei farlocchi incompresi. O meglio, sembra esserne convinto…”.

Non aspiro al consenso assoluto, comunque grazie per la pubblicità. Oscar Wilde diceva “Bene o male, purchè se ne parli…” Il detto «Nel bene o nel male, purché se ne parli» (e simili) parafrasa un brano de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1890): “... ma attirare l'attenzione delle persone su di te ha due risvolti: il primo è che se non sei indifferente ad esse, e che quindi parlano, anche male, di te, vuol dire che comunque esisti; ma quando a parlare male di te sono persone disperate, derise dal resto del mondo e che passeranno su di esso senza lasciare alcuna traccia, allora è proprio triste...E ancora, se l'unica cosa che meriterebbero queste "persone" sarebbe un Oscar, se ne esistesse uno per la capacità di fingere, per la falsità con cui gestiscono i rapporti anche tra loro, allora è ancora più triste. Il mio errore più grande è stato quello di adeguarmi a frequentare "esseri" i cui neuroni sono pochi e purtroppo anche stanchi... e per adeguarmi intendo dire che ho accettato i loro limiti intellettivi, umani, culturali e sono passato sopra alle cose anche gravi che hanno fatto... così, perchè ho deciso di adottare la filosofia secondo la quale tutti siamo diversi... per intelletto, umanità e cultura... E quando mi sono sentito chiedere: "Come fai a stare con certa gente?" ho risposto che le persone è necessario conoscerle prima di giudicarle. Il problema è che io mi faccio conoscere come sono, ma spesso mi illudo di conoscere chi mi sta intorno. Forse sottovaluto ciò di cui possono essere capaci...Non avevo idea di come potesse essere cattiva la gente, o meglio, non pensavo di poterlo provare sulla pelle, di essere io l'oggetto della cattiveria di qualcuno/a... e mentre mettevo in guardia le persone a cui tengo di più, non mi accorgevo che dovevo stare anche io in guardia....La cosa che questi esseri (scusate ma non so proprio come definirli) non capiscono è che mentre cercano di rovinare la tua reputazione, dispensando giudizi negativi e gratuiti su di te, non si accorgono che la loro è già compromessa, o forse sono solo consapevoli che se si concentrano sui tuoi difetti non vedono i propri... Tu comunque non vieni intaccato, perchè ciò che dicono rimane nel loro piccolo mondo di cacca che si sono costruiti, e fuori da quel mondo di cacca tu sei apprezzato e rispettato, intrecci rapporti lavorativi, sociali, interagisci con persone diverse, mentre loro suscitano ilarità, disprezzo o peggio ancora indifferenza...Ecco perchè dopo tutto ciò non sono deluso, o triste, ma provo solo pietà... perchè io so, e sapevo, di tutta questa ilarità, disprezzo e indifferenza... la leggevo negli occhi di quelle stesse persone alle quali oggi gli esseri dispensano giudizi negativi e gratuiti su di me...Che falsità, che ipocrisia...Finchè nella tua vita non fai niente di "speciale", niente che possa suscitare l'invidia delle persone, passi inosservato, e nessuno si sente in diritto di giudicarti... ma quando eccelli in qualcosa, quando volente o nolente "ti fai notare" allora sei fottuto... e cosa ancora più grave proprio da chi ti diceva - Ma come sei bravo, diventerai un bravo ing., ecc.! . Giuda almeno ci ha guadagnato 30 denari con un bacio...L'importante è avere la stima delle persone a cui tieni di più: la tua famiglia, gli Amici veri, e perchè no, la gente con cui lavori... ma soprattutto il tuo orgoglio, il resto è niente... un tassello da aggiungere ad un puzzle, un pezzo che vorresti perdere ma che comunque fa parte del quadro, e senza mancherebbe sempre qualcosa, ci sarebbe un vuoto. Ben vengano le critiche allora, gli sguardi invidiosi, le maldicenze... sono prove a cui la vita ci sottopone, e ne usciamo più forti. Ci sono due tipi di "invidia": quella "malata", che porta molti a credere che per avere successo bisogna affondare chi è meglio o credi sia meglio di te, e quella "sana" che porta a migliorarti, perchè sai che tu puoi essere meglio di come sei ... che ti stimola a perfezionarti, perchè è così che si ottiene il successo. Purtroppo, come la gramigna, la prima è più diffusa, è insita nella natura umana, e propria di chi non vuole far fatica a mettere a prova sè stesso... è più facile distruggere chi rappresenta una minaccia...Rappresento una minaccia per qualcuno? non so, può darsi. Suscito invidia? Forse... ma non penso che qualcuno riesca a distruggermi.”

·        Il Nefasto Politicamente Corretto.

Da “Libero quotidiano” il 5 dicembre 2022.

Anche Tim Burton finisce nel mirino dei social network, per via della sua ultima serie tv «Mercoledì», in onda su Netflix, tratta dalla celebre saga della Famiglia Addams. Tutta colpa della sceneggiatura, che attribuisce a due attori di colori, Joy Sunday e Iman Marson, due ruoli negativi. Sarebbero prepotenti, ribelli, bulli irriverenti. Tutto il contrario di quanto imporrebbe la logica del politicamente corretto. 

Il lancio della serie è stato un successo: la fiction incentrata sulla figlia Addams e interpretata da Jenna Ortega, punta a superare i record della piattaforma in termini di ascolti. Avrebbe già battuto Stranger Things come serie in lingua inglese più vista in una settimana. 

Il prodotto è realizzato con lo stile dark di Tim Burton, produttore esecutivo e anche regista dei primi quattro episodi. La serie è ispirata dai fumetti di Charles Addams degli anni '60.

Nella serie, Mercoledì lascia un liceo normale per trovare rifugio nella bizzarra «Nevermore Academy». 

Nel corso della sua avventura, incontra, tra gli altri, due personaggi: Bianca Barclay e Lucas Walker, antagonisti e bulli, interpretati da due attori neri. Un affronto razzista, per molti utenti social che hanno inondato le piattaforme di proteste.

Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 5 dicembre 2022.  

Succedono cose strane, nel mondo del calcio. Sentite questa. La sera del 1° dicembre Stefano Carta - telecronista per la piattaforma Eleven Sports che trasmette in streaming la serie C - racconta l'incontro Trento-Vicenza e a un certo punto dice: «Negro, con il numero 15, attenzione a Negro!» Un istante dopo si corregge: «Greco, scusate, attenzione a Greco, non Negro».

In effetti il numero 15 di cognome fa Greco. È Jean Freddy Greco, centrocampista del Vicenza, 21 anni, nato in Madagascar e adottato da una famiglia italiana. Greco è un ragazzo di colore. E ovviamente la gaffe del telecronista non passa inosservata. È giusto tenere accesa l'attenzione su possibili episodi di razzismo. Ma stavolta il razzismo non c'entra. Lui si scusa immediatamente in diretta e basta ascoltare l'audio per cogliere il suo stesso imbarazzo. 

Il video però fa il solito giro del Web, un senatore di Forza Italia presenta una interrogazione parlamentare ai ministri dello Sport e dello Sviluppo economico, la gaffe diventa un caso. Lui si scusa di nuovo con tutti. Ma non basta. Nell'arco di poche ore la Eleven Sports lo sospende, che in sostanza significa che lo licenzia. L'annuncio è in una nota che il Vicenza rilancia sul suo sito. La nota dice che Stefano Carta «ha confuso il cognome con un altro cognome (comunque frequente fra i club di serie C) chiaramente fraintendibile». Aggiunge che è stata «una gravissima leggerezza», comunque senza «alcuno sfondo razzista». 

Parla di «imperdonabile lapsus», di un collaboratore che finora ha sempre «commentato con professionalità e puntualità tante partite di serie C». E conclude: «Pur avendo compreso le sue ragioni e raccolto le sue scuse la collaborazione è stata prontamente sospesa». Quindi: è stato un lapsus, il razzismo non c'entra, lui è un bravo professionista ma noi - la nota si chiude così - abbiamo sempre «condannato qualsiasi discriminazione a difesa dei più sani valori dello sport».

 E allora Freddy Greco quali valori difende quando dice: «Può capitare a tutti di sbagliare: succede a me in campo, può succedere anche fuori dal campo confondendo un nome. Speriamo di vedere Carta commentare presto un'altra nostra partita». Il suo è un appello a riassumere il telecronista dopo averlo incontrato, abbracciato, capito. Ora la palla passa a Eleven Sports. Speriamo faccia gol.

Il politicamente corretto squalifica il Carnevale. E l'Unesco lo cancella. Storia di Francesco De Remigis su Il Giornale il 3 dicembre 2022.

Un «processo» per direttissima. Un inedito assoluto. Poi, ieri, il verdetto senza appello: la Ducasse d'Ath, la parata folkloristica dalle antiche origini religiose, simbolo della cittadina belga a meno di un'ora da Bruxelles, è stata messa alla porta dall'Unesco. È considerata fuori dal perimetro del politicamente corretto e non potrà più vantare il sigillo dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura. Un calcio, e via. A un «Carnevale» che esiste da sei secoli e che aveva finora superato sempre i capricci della storia.

In poche ore, il comitato intergovernativo Unesco, riunito a Rabat, in Marocco, ha scelto di cancellare, per la seconda volta dalla sua istituzione, il riconoscimento di «patrimonio immateriale» a una festa popolare; la «Ducasse» lo vantava dal 2008. Ma cambiano i canoni, le società, e il paradigma della cultura woke anti-bianca non prevede sbavature, tanto meno una rievocazione, folkoristica, di 7 Giganti che danzano tra i carri della Vallonia. I protagonisti sono infatti enormi figure portate a spasso nei vicoli: tratti dalle Sacre Scritture, ma non solo.

C'è un personaggio minore del «Carnevale», il «Selvaggio», che dal 2019 pone un problema di «adeguamento ai tempi». Le autorità locali stavano già cercando di risolverlo con una commissione ad hoc, per valutare un suo «adattamento»; perché dal 1873 è interpretato da una persona col volto tinto di nero. E fino all'anno scorso indossava anche un anello al naso e catene ai polsi. Il «Selvaggio» urla, si agita di fronte alla folla in festa. E non sono mancate occasioni in cui sia stato permesso il dileggio con il lancio di oggetti.

È storia? Rientra nel carro sul colonialismo belga? No: l'Unesco ha decretato ieri che il «Selvaggio» esprime solo un contenuto «altamente razzista». Il tema era deflagrato lo scorso agosto, nell'annuale «Ducasse». E aveva spinto pure qualche politico a gridare al boicottaggio della parata. Ma dal 2019 è il collettivo antirazzista «Bruxelles Panthères» che rilancia la crociata «anti-Blackface», e cioè un uomo bianco che interpreti una persona di colore, denunciando il «Selvaggio» come «residuo della messa in schiavitù»; prima all'Unia (il Centro interfederale per le pari opportunità), poi alla Federazione Vallonia-Bruxelles e all'Unesco.

A fine 2019 l'organismo Onu aveva già eliminato dalla lista del patrimonio culturale dell'umanità il carnevale belga di Aalst, tacciato di antisemitismo per un carro caricaturale di ebrei ortodossi dal naso adunco, seduti su sacchi d'oro. Stavolta nel mirino dei gruppi antirazzisti è finita Ath. Il Botswana, con altri Paesi africani, ha chiesto un dibattito urgente: la «Ducasse» inscena l'umiliazione dei popoli africani? «Sì». Meglio dunque cancellarla. Su che basi? I delegati citano il movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti e i migranti. Poi la sentenza, tranchant: «Siamo universalisti, questo elemento (del festival, ndr) non può essere accettato dall'Unesco, sono africano e sono profondamente scioccato», ha detto il rappresentante del Marocco e presidente della sessione, Samir Addhare. Lo stesso Belgio, nella seduta, ha condannato «ogni forma di razzismo e discriminazione», dichiarandosi «consapevole della gravità della situazione» e invitando la città di Ath a fare ammenda. Il comitato promotore della «Ducasse» si dice sorpreso per la decisione-lampo. Sarebbe infatti dovuta avvenire dopo ulteriori verifiche a dicembre 2023: si era dato un tempo per cambiare l'approccio al «Selvaggio». «Abbiamo condotto un dialogo onesto, con un sito web e un lavoro nelle scuole che è ancora in corso», spiegano da Ath. Troppo tardi. Alla cancel culture, sono bastate poche ore.

Fabiana Salsi per corriere.it su Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022.

Bambini nei ristoranti eleganti: sì o no? A riaccendere l'eterna polemica è una nuova storia raccontata da un'utente di Reddit. Una donna e mamma di due figli che, dopo essere finalmente riuscita a trovare una babysitter, è uscita con il suo compagno per una cena romantica, salvo poi ritrovarsi nel costoso locale prescelto di fianco a un'altra coppia con un bimbo piccolo che non la smetteva di piangere.

«Mio marito e io siamo usciti a cena un paio di sere fa. Era la prima volta da soli dopo la nascita del nostro bambino. È il mio secondo figlio, il primo per mio marito, quindi non è stato facile deciderci a farlo. Abbiamo preso una babysitter e siamo andati in un ristorante elegante molto carino. Pochi minuti dopo aver ordinato, un'altra coppia si è seduta sul tavolo accanto a noi con un bambino piccolo nel passeggino. All'inizio andava bene ma dopo pochi minuti il bambino ha iniziato a piangere. Cercavano di confortarlo, ma ogni volta che sembrava che fossero riusciti a farlo addormentare, si svegliava piangendo di nuovo», ha scritto la donna nel suo post.

Insomma, una delusione: niente idillio, niente romanticismo, men che meno la tanto ricercata intimità dopo settimane trascorse tra pappe e altri pianti, dei suoi bambini. Cosa fare: meglio far finta di nulla o provare a ottimizzare le poche ore "libere"? La coppia alla ricerca di silenzio ha scelto la seconda opzione: ha chiesto al cameriere di cambiare tavolo, spiegando la situazione.

A questo punto, però, è scoppiata una discussione molto accesa: la mamma del bambino in lacrime non l'ha presa bene e ha anche lanciato epiteti poco eleganti contro la donna che ha chiesto di cambiare tavolo per via dei pianti di suoi figlio. «Ha continuato a dire che probabilmente non ho figli (ne ho 2!), e che anche i bambini sono persone e dovremmo semplicemente accettare che i bambini possono essere rumorosi e piangere», prosegue nel suo lungo post l'utente di Reddit, raccontando che a sua volta poi ha risposto senza andare troppo per le lunghe.

«Non volevo iniziare una rissa o altro, ma ero davvero infastidita dal suo atteggiamento, quindi le ho detto che se avesse voluto avrebbe potuto davvero fare qualcosa per il pianto: avrebbe potuto portare il suo bambino a casa in modo che potesse dormire tranquillo, lasciando anche gli altri tranquilli di godersi la cena».

 La discussione è terminata, tutti hanno cenato pur se a debita distanza, ma la donna che ha sollevato la polemica, probabilmente, ha avvertito qualche senso di colpa per aver consigliato a un’altra mamma di andar a casa e rinunciare alla sua serata per tranquillizzare il suo bambino. Da qui il senso del suo su Reddit: oltre che per raccontare la sua storia, è stato scritto per chiedere un parere agli altri utenti.

Nessuna voce fuori dal coro. Le risposte danno ragione alla donna che ha chiesto di cambiare tavolo. C'è chi ha scritto «ho un nuovo nato e, credimi, quando ne avrò l'opportunità, troverò una babysitter e andrò in un posto dove i bambini non possono andare». Qualcun altro, poi, ha sottolineato che «chiedere di allontanarsi dai bambini rumorosi è ragionevole, così come è ragionevole che i bambini rumorosi vadano in posti adatti a loro», ma anche che «non rovinerei l'uscita di altri per godermi la mia».

Infine, qualche genitore rassegnato, senza possibilità di chiamare una babysitter, ha scritto sconsolato: «Questo è uno dei motivi per cui per la mia famiglia ordino cibo d’asporto»

Da adnkronos.com il 25 novembre 2022.

Niente ritorno in Rai per "Miss Italia". Ad annunciarlo alla AdnKronos è il patron Patrizia Mirigliani, prima della partecipazione all'iniziativa "La cultura che sconfigge la violenza" con il ministro Gennaro Sangiuliano nella sala Spadolini del Mic al Collegio Romano. 

«Avevamo in progetto di fare la finale di miss Italia all'interno di un contenitore tv per famiglie sotto le feste di Natale, sulla Rai anche se non su Rai1 - riferisce Mirigliani - sarebbe stata una buona occasione sia per Miss Italia che per la Rai, tra l'altro a costo zero quindi senza utilizzare i soldi del canone".

L'ipotesi, a quanto si apprende, era collocata all'interno del programma "I Fatti Vostri" su Rai2. Questa possibilità sulla Rai alla fine è stata negata, pare perché i valori del concorso non sono più in linea con o valori di oggi, ma solo l'Italia ha questo preconcetto, che è segno di ignoranza», accusa Mirigliani.

Eppure, osserva ancora Mirigliani, "tante nostre ragazze sono oggi impegnate nel mondo della tv e della Rai in particolare, oltre che nel cinema, nel teatro, nella moda e persino nel giornalismo e nella politica. Mi vengono in mente, ad esempio, i nomi di Mara Carfagna e  di Monica Maggioni». Dove andrà in onda, dunque, "MISS ITALIA" edizione 2022? "Stiamo valutando altre opportunità", si limita a rispondere Patrizia Mirigliani.

Marco Vigarani per Corriere.it il 19 ottobre 2022.

«Le donne di Modena hanno le ossa grandi - Le donne di Modena hanno larghi i fianchi - Le donne di Modena accettano un invito - E non è il caso di essere il marito». Dopo oltre trent’anni di successo, il brano «Le donne di Modena» di Francesco Baccini di cui avete appena letto i primi versi finisce nell’occhio del ciclone con accuse di sessismo. Anzi, più precisamente con un’accusa singola che però lo stesso cantautore ligure non ha fatto passare sotto silenzio. 

Il racconto è stato affidato dallo stesso Baccini ai social network: «Ero ospite in teatro a Sondrio ad un premio internazionale di poesia e mi è successa una cosa inedita. Prima di cantare ‘Le donne di Modena’ faccio una battuta dicendo che oggi questa canzone sarebbe accusata di sessismo. Al termine dell’esibizione vengo chiamato sul palco per ricevere una targa alla carriera e in quel momento si sente una voce nel buio: ‘Sessista!’. Prendo la palla al balzo e invito la voce a salire sul palco: una ragazza sui vent’anni prende coraggio e mi raggiunge tipo automa».

«Una canzone ironica»

Dopo aver scherzato per primo sul suo brano, Baccini non ha accettato passivamente l’isolato attacco e deciso di avviare un dibattito: «Chiedo alla ragazza cosa l’avesse offesa, tento di farle capire che è una canzone ironica in cui prendo proprio in giro il gallismo italico ma lei immobile come un robot continua a ripetere la stessa frase senza nemmeno fare il tentativo di capire. 

Quando mi rendo conto che è impossibile alcun confronto verbale la saluto dicendo che mi piacerebbe portarla in tour con me e ripetere la scena ogni sera». Nel testo del brano datato 1990 il cantautore gioca ironicamente su alcune caratteristiche volutamente stereotipate delle donne di Modena, Genova, Padova e Napoli concludendo che «tutte fanno da mangiare, sanno cucinare, odiano stirare, e san far l’amore».

Il post del cantante

Un brano dal ritmo coinvolgente ma che già alcuni decenni fa di fatto denunciava proprio una visione maschilista della donna e proprio per questo motivo quella contestazione ricevuta a Sondrio ha generato una riflessione amara. «Questo è il frutto di quel maledetto politically correct che sta cancellando la libertà di parola e di pensiero - scrive Baccini - uccidendo qualsiasi possibilità di avere un senso critico e analizzare le parole e il contesto in cui vengono dette.

Oggi più del 70 per cento di canzoni, libri, film che hanno fatto la storia della nostra cultura non potrebbero più esistere. Se ‘Le donne di Modena’ ha un testo sessista saremo costretti a cancellare De Andre, Jannacci, Dalla, Vecchioni e Vasco. Si va avanti in retromarcia». E poche ore fa ha rincarato la dose con un nuovo post: «In un Paese dove regnano l’ignoranza, l’ipocrisia, il neo benpensantismo, la mancanza di creatività e fantasia dalle nuove generazioni l’ironia sarà capita sempre meno. La satira invece è già un ricordo del secolo scorso. Si va avanti in retromarcia. La satira e l’ironia sono l’unità di misura per comprendere il livello di cultura, di libertà di espressione

"Il politicamente corretto? Inventato dalla sinistra": i comici smascherano il buonismo. Giorgio Magri, Stefano Chiodaroli e Stefano Rapone ai nostri microfoni per parlare del politically correct. Massimo Balsamo il 18 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Il politicamente corretto è uno dei temi più discussi nel mondo dell’arte. Dal cinema alla televisione, si ha sempre la sensazione di non poter proferire parola su determinate categorie e/o comunità. Crociate, campagne social e persino petizioni per biasimare gli artisti (senza schwa) provocatori. Una tendenza destinata a proseguire? O una moda passeggera?

Nella prima puntata abbiamo intervistato Gene Gnocchi, Edoardo Ferrario e Dario Cassini. Riflessioni e spunti stimolanti da chi fa uno dei mestieri più delicati in questo tempo di iper sensibilità: il comico. In questa seconda e ultima parte, il pensiero di Giorgio Magri, Stefano Chiodaroli e Stefano Rapone.

Giorgio Magri: “Il politicamente corretto è un’arma della sinistra” 

Giorgio Magri si definisce un comico di sinistra, per la precisione di “quella sinistra senza la bandiera arcobaleno”. Lui è il primo (e per il momento unico) rappresentante dell’insult comedy, senza inglesismi della commedia dell’insulto. Abbastanza semplice immaginare i suoi show, la rappresentazione plastica della scorrettezza politica. “La scorrettezza politica è vista in questo momento come una rivendicazione, come una contestazione nei confronti di quello la destra chiama ‘buonismo’, che è un sistema per accalappiare voti progressisti senza fare pagare una lira al padrone”, la sua riflessione: “Io non ho mai avuto problemi, ma quando ho iniziato a fare questo genere sapevo che non mi avrebbero mai fatto fare il Dopofestival, I Fatti Vostri o la Melevisione. La modestia non è il mio forte, io faccio tutto con mestiere. Alcuni apprezzato il black humor ed è lecito”.

A Magri viene naturalissimo dire delle cose scompiacenti, ma si tratta di un mestiere: “All’inizio non veniva sempre tanto bene, a volte offendevo la gente, esageravo o facevo la battuta troppo presto. Queste sono cose che si imparano, c’è dietro un lavoro. E riuscire a dire porcate senza offendere non è facile. Il politicamente corretto non è una moda, è una tecnica che la finta sinistra ha inventato per accalappiare voti progressisti senza fare pagare nulla ai padroni”.

Stefano Chiodaroli: “Siamo in un mondo di fighe che si offendono subito” 

“Io non vado a reclamare il diritto di dire quello che voglio, ma lo esercito”: tranchant, categorico Stefano Chiodaroli. “Io credo che molte persone non abbiano capito che l’intento del cabaret e della comicità è parlare di tutto e fare ridere le persone. Se le persone ridono, sono felici e aiutano a costruire la pace nel mondo”, l’analisi dell’artista tra serio e faceto, accendendo i riflettori sul contesto di finzione: “Se dovessi fare una fiction dove sparo a qualcuno perché interpreto un bandito, non avrebbe senso che venissero i carabinieri ad arrestarmi. Se durante uno spettacolo dico delle cose, non ha senso essere sanzionato per aver detto quelle determinate cose. Non mi è mai giunta notizia che dopo uno spettacolo di un comico, la gente sia andata a sparare all’oggetto di una battuta. Mentre invece è accaduto il contrario. Non esistono comici che ammazzano le persone, ma di persone che ammazzano i comici”.

Come nei suoi spettacoli, Chiodaroli non è da mezze misure:“Io sono della vecchia scuola, ho fatto la gavetta e sono cresciuto in un mondo brutale. Adesso siamo in un mondo di fighe che si offendono subito. Questo è un mondo paranoico, i social hanno simulato delle relazioni sociali senza esserlo e ciò ha reso tutti dei mitomani della comunicazione”. Il giudizio sui paladini del politicamente corretto è caustico: “Il problema è che queste persone sono ignoranti e non hanno capito il contesto del cabaret e delle persone. Usiamo la parola per fare ridere la gente. Non certo per fare sentire qualcuno emarginato e sfigato”.

Stefano Rapone: “Il comico deve essere responsabile” 

Essendo un tema attuale, il politicamente corretto per forza di cose entra nel dibattito sulla comicità e in parte la influenza, la visione di Stefano Rapone: “Ci sono comici che ci si confrontano, cercano di comprenderlo e se gli riconoscono una validità. Cercano di capire come includerlo nel proprio mestiere, mentre ce ne sono altri che lo rifiutano a priori bollandolo come insensato e continuano comunque a lavorare senza problemi, vincere premi, fare programmi tv di successo. Quindi incide nel senso che non si può ignorarne l’esistenza, ma allo stato attuale delle cose se lo ignori non succede niente”.

Rapone si dice influenzato da questo clima di politicamente corretto, riconoscendone la validità. A livello sociale, per il comico capitolino, una maggiore attenzione nei confronti di persone che si sentono poco rappresentate può solo portare benefici e non comporta chissà quale sacrificio: “Dal punto di vista della comicità penso che spinga il comico a porsi più domande sul perché un tema considerato problematico lo faccia ridere e magari lo porti ad affrontarlo da un punto di vista più consapevole e meno banale”.

In linea generale, Rapone pensa che se vengono fatti riferimenti a categorie meno rappresentate non per colpirle ma anzi magari proprio per stigmatizzare chi le colpisce, e se questa cosa si riesce a comunicare anche usando il paradosso o la provocazione, allora ci si può permettere di dire tutto: "Nelle serate dal vivo è più immediato perché il pubblico è più consapevole del contesto comico e per il comico è più facile creare empatia e comunicare le sue intenzioni. I problemi di solito nascono quando il monologo o la battuta escono da questo ambiente protetto e vengono dati in pasto ai social, senza che vengano messi a fuoco senso e contesto. Motivo per cui sono convinto che stia innanzitutto al comico la responsabilità di essere consapevole dei temi che tratta e fare in modo che le sue intenzioni siano comprensibili, ma anche che stia al pubblico più generalista non avere una reazione pavloviana a un concetto che gli sembra fuori posto ma cercare di capirne il senso”.

Rampini: «Julia Roberts mi ipnotizzò con un trucchetto, Costner mi raccontò degli oceani. Vi racconto le star di Hollywood, schiave del politicamente corretto». Federico Rampini Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2022. 

Federico Rampini racconta le star di Hollywood: «A tu per tu la loro prima preoccupazione è di essere considerati come militanti di una giusta causa» 

«Ma noi due non ci siamo già incontrati da qualche parte?» Sono passati dieci anni da quando Julia Roberts mi ipnotizzò con quella battuta. Era nella suite dell’hotel Casa del Mar dove avevamo appuntamento per l’intervista, a Santa Monica in California. Non mi aspettavo il vecchio trucco con cui generazioni di maschi hanno agganciato una donna sola al bar o a un party. La Roberts, «il sorriso più famoso di Hollywood» (una leggenda sosteneva che quella bocca smagliante fosse assicurata, come le gambe di Cristiano Ronaldo), l’aveva sicuramente sperimentata su altri giornalisti prima di me. Spiazzato, l’intervistatore è in ginocchio subito. Avevo di fronte una grande professionista delle interviste, oltre che della recitazione. In 22 anni di carriera americana, cominciata in California, mi sono occupato di politica, economia, relazioni internazionali. Le puntate a Hollywood le ho vissute come un piacevole diversivo da affrontare con umiltà: intervistando le star precisavo di non essere un esperto di cinema. Così scoprii a mia volta un trucco. Alle celebrity dello spettacolo sta stretto il mestiere di attrici e attori. Vogliono essere considerate militanti politiche, sociali, ambientaliste, paladine per la salvezza del pianeta o delle minoranze. La 54enne Roberts fu una eroina anti-inquinamento ne Il Rapporto Pelikan (1993) ed Erin Brockovich (2000). Nella costruzione della sua immagine i ruoli impegnati hanno bilanciato i film che l’hanno resa milionaria come sex symbol, vedi la escort di Pretty Woman del 1990. Del nostro incontro a Santa Monica nel 2012 ricordo i messaggi impegnati del remake politicamente corretto di un classico di Walt Disney. «È la versione femminista di Biancaneve», mi disse la Roberts che nel film recitava la parte della regina cattiva: impegnata in una competizione feroce con la figliastra adolescente per strapparle il maschio-oggetto, il Principe Azzurro. Noi uomini in quel film siamo idioti da manipolare. Julia ci trattava con magnanimità: «Da parte del maschio ammettere la propria debolezza è segno di maturità». Eravamo all’apice del femminismo americano, le ragazze surclassavano sistematicamente i maschi nelle classifiche accademiche. «Certo che le ragazze vanno sempre meglio», confermò, per aggiungere che la preoccupava l’offensiva della destra conto il diritto all’aborto. 

Repubblicano pentito

Altra star «bianca e di mezza età», altro esemplare del politicamente corretto che estraggo dalle mie frequentazioni hollywoodiane: Kevin Costner. Lo intervistai nel 2016 in occasione di un bel film antirazzista, Il diritto di contare. Ispirato da una storia vera, quella di tre donne afroamericane, campionesse di calcolo matematico arruolate dalla Nasa agli albori della gara per la conquista dello spazio, ma umiliate nell’America segregazionista e misogina dei primi anni Sessanta. «Tutto risale alla nascita di questa nazione, fondata sullo schiavismo, da cui oggi ereditiamo dei problemi giganteschi», mi disse Costner, riprendendo un tema caro al movimento Black Lives Matter che otto anni fa stava acquistando un’egemonia culturale con la Critical Race Theory (secondo cui le istituzioni americane sono tuttora impregnate dell’eredità schiavista). Repubblicano pentito, Costner che oggi ha 67 anni da giovane tifava per il leader conservatore Ronald Reagan; nel 2008 e nel 2012 appoggiò le due campagne elettorali di Barack Obama. Gran parte dell’intervista lui la dedicò al suo impegno ambientalista: «Ho investito in una società che ripulisce gli oceani dalle maree nere degli incidenti petroliferi. Il mio interesse si estende all’alimentazione umana, come possiamo cambiarla per vivere meglio e rispettare l’ambiente». Mentre elencava le sue missioni progressiste allineate con l’agenda Obama, pensavo alla sua giovinezza repubblicana. Ci fu un’epoca in cui non era scontata l’egemonia della sinistra a Hollywood, quando la destra nel mondo dello spettacolo poteva contare su campioni come John Wayne, Shirley Temple, James Stewart, Charlton Heston, Clint Eastwood, fino ad Arnold Schwarzenegger. I progressisti alla Jane Fonda, Paul Newman e Warren Beatty erano l’opposizione, la contro-cultura. Da almeno un ventennio i rapporti di forze si sono ribaltati in modo drastico, fino all’ostracismo contro i conservatori. Oggi la Walt Disney produce cartoni animati dove dominano le minoranze sessuali, le eroine ed eroi devono essere di colore o immigrati.

Cena imbarazzante

Un altro dei miei incontri hollywoodiani fu con George Clooney a Pasadena nel 2019. Per lui la politica è una passione ereditaria, suo padre Nick era un reporter televisivo. Il più bel film diretto da Clooney è Good Night and Good Luck, la storia vera dell’anchorman della Cbs Edward Murrow che negli anni Cinquanta si schierò contro la «caccia alle streghe» istigata dal senatore Joseph McCarthy, la persecuzione di chi era sospettato di simpatie comuniste. Quando Clooney ha capito che ero un corrispondente accreditato alla Casa Bianca, addentro alla politica prima che al cinema, ha dimenticato di dover promuovere la serie tv Comma 22, la ragione del nostro incontro. Mancava un anno alla fine del mandato di Donald Trump e Clooney ne approfittò per una puntata nella politica italiana: «Il prototipo di Trump lo avete inventato voi, l’originale fu Silvio Berlusconi, populista e spudoratamente ricco». Poi l’affondo contro il trumpismo: «Vedo all’opera una sorta di crisi isterica delle masse. Per ritrovare una sanità mentale, sarebbe bene che l’America desse l’esempio. Abbiamo bisogno di un presidente che rappresenti il meglio dei nostri valori morali. E la smetta di trattare gli immigrati come terroristi». Allora Clooney era reduce di un piccolo scandalo tipico della Hollywood radicale. Lui e la seconda moglie anglo-libanese Amal Alamuddin, celebre avvocatessa per i diritti umani, avevano fatto da anfitrioni per due eventi a sostegno della campagna elettorale di Hillary Clinton. Le loro cene per la raccolta fondi a San Francisco e a Los Angeles avevano biglietti d’ingresso fino a 350.000 dollari a persona. Un episodio tipico di quel connubio fra star milionarie del cinema, miliardari di Big Tech o dell’alta finanza, e partito democratico. Di che confermare i sospetti delle classi lavoratrici sulla deriva dei democratici verso le élite. In seguito Clooney fece autocritica definendo «soldi osceni» quelli che aveva raccolto per la Clinton.

Pensionato del cinema

Un pioniere delle generazioni di star politicamente corrette è Robert Redford, oggi 86enne. Il nostro incontro otto anni fa cominciò con una sua dichiarazione d’amore per l’Italia, e commossi ricordi di giovinezza: studiava arte a Firenze. Poi volle sottolineare le sue credenziali antiche: «Il mio impegno ambientalista risale agli anni Settanta. In alcuni Stati del West, dalla California allo Utah, delle aziende energetiche volevano costruire ben undici centrali a carbone. Riuscii a organizzare una protesta con l’appoggio di Dan Rather, il leggendario anchorman della Cbs». Redford da giovane fu il reporter investigativo Bob Woodward in Tutti gli uomini del presidente sullo scandalo del Watergate. Quando lo intervistai Trump stava lottando per la sua prima nomination repubblicana e l’attore era angosciato da quella che definiva «la destra più estremista di tutti i tempi». Parlammo del mondo dei media, era uscito Truth dove Redford interpretava proprio la parte di Rather, ma in una vicenda senza lieto fine: lo scandalo che doveva affondare George Bush per gli imbrogli con cui aveva schivato il servizio militare durante la guerra del Vietnam, e invece aveva distrutto la carriera dell’anchorman. Redford fece atto di umiltà: «Devo confessarle che non uso neppure un computer, tantomeno Facebook». Si schernì dicendosi poco competente per parlare del nuovo universo dei media «irriconoscibile rispetto agli anni di Nixon e anche di Bush». Si disse angosciato per la scomparsa di figure arbitrali, al di sopra delle parti, «come Rather o Walter Cronkite, quegli anchormen che personificavano The News, incarnavano una credibilità delle notizie, erano fonti autorevoli e rispettate». Oggi, pensionato dal cinema, Redford preferisce essere «attivista e filantropo» a tempo pieno. Di recente Clooney, ormai 61enne, ha di nuovo confessato qualche dubbio sugli effetti delle crociate politiche hollywoodiane, ammettendo che possono aver contribuito alla polarizzazione estrema dell’America: «L’intera nazione, negli ultimi cinque anni è stata immersa nell’odio e nella rabbia, e a volte anch’io ho fatto la mia parte». È un barlume di autocritica raro di questi tempi. Un’eccezione, in un panorama ideologico del mondo dello spettacolo e della cultura dove domina il conformismo. Il pensatore comunista Antonio Gramsci sarebbe incuriosito dalla «egemonia culturale» che la sinistra estrema ha saputo costruire nella Mecca mondiale del cinema. Karl Marx si congratulerebbe con il suo motto: «Ben scavato, vecchia talpa».

Avvocata, architetta, medica… Treccani sdogana i femminili professionali. Addio stereotipi: in arrivo il nuovo "Dizionario della lingua italiana" che promuove l'inclusività e la parità di genere. Il Dubbio il 14 settembre 2022.

Architetta, notaia, medica, soldata, chirurga. Ma anche avvocata, al posto di “avvocatessa”. Treccani presenta il primo “Dizionario della lingua italiana” che sdogana e lemmatizza anche le forme femminili di nomi e aggettivi tradizionalmente registrati solo al maschile. L’Istituto della Enciclopedia Italiana abbandona così il “vocabolariese”, per fare la “cronaca” di una lingua in continua evoluzione, si fa promotore di inclusività e parità di genere e al tempo stesso riconosce tra i neologismi distanziamento sociale, lockdown, smart-working, dad, infodemia, lavoro agile, reddito di cittadinanza, rider, termoscanner, terrapiattismo e transfobia.

L’edizione 2022 de Il Vocabolario Treccani, si spiega, è «un progetto ambizioso e rivoluzionario, nel quale tradizione e progresso si fondono per testimoniare i cambiamenti socio-culturali del nostro Paese e riconoscere – validandole – nuove sfumature, definizioni e accezioni in grado di rappresentare e raccontare al meglio la realtà e l’attualità, attraverso le parole che utilizziamo per viverla e descriverla». Nella storia plurisecolare della lessicografia italiana, quello di Treccani sarà il primo vocabolario a non presentare le voci privilegiando il genere maschile, ma scegliendo di lemmatizzare anche aggettivi e nomi femminili. Una rivoluzione che riflette e fissa su carta la necessità e l’urgenza di un cambiamento che promuova l’inclusività e la parità di genere, a partire dalla lingua.

Cercando il significato di un aggettivo come “bello” o “adatto” troveremo quindi lemmatizzata, ovvero registrata e quindi visualizzata in grassetto, anche la sua forma femminile, seguendo sempre l’ordine alfabetico; bella, bello; adatta, adatto. E per la prima volta vedremo registrati dei nomi identificativi di professioni che, per tradizione androcentrica, finora non avevano un’autonomia lessicale: notaia, chirurga, medica, soldata. Per eliminare anche gli stereotipi di genere – secondo i quali a cucinare o a stirare è immancabilmente la donna, mentre a dirigere un ufficio o a leggere un quotidiano è puntualmente l’uomo – Treccani propone nuovi esempi di utilizzo e contestualizzazione ed evidenzia il carattere offensivo di tutte le parole e di tutti i modi di dire che possono essere lesivi della dignità di ogni persona.

Il lavoro di aggiornamento della lingua italiana a cui l’Osservatorio di Treccani si dedica senza sosta da oltre un secolo si concretizza ora in una nuova opera in tre volumi (Dizionario dell’Italiano Treccani, Dizionario storico-etimologico e Storia dell’Italiano per immagini) che sarà presentata venerdì 16 settembre in anteprima in occasione della XXIII edizione di Pordenone legge, Festa del Libro con gli Autori. Diretto dai linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, Il Vocabolario Treccani è molto più che la versione aggiornata dell’opera pubblicata nel 2018: è «lo specchio del mondo che cambia e il frutto della necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società, che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole».

Non più, dunque, nel Treccani 2022, il “vocabolariese”, quella sorta di linguaggio iniziatico che porta a definire una semplice vite come un «organo meccanico di collegamento, costituito da un gambo cilindrico o conico, sul quale è inciso un solco elicoidale il cui risalto (detto filetto o verme) va a impegnarsi tra i risalti di un solco analogo (preesistente o generato dalla sua stessa rotazione)». Sono state, inoltre, ridotte il più possibile sia le abbreviazioni (nessuno legge mai la lista che le spiega, e spesso vengono reinterpretate in modo fantasioso), sia le marche d’uso (che in molti casi sono frutto di una valutazione personale del lessicografo: capita spesso, per esempio, che una voce o un’accezione che un dizionario qualifica come lett., cioè letteraria, in un altro sia giudicata disus., cioè disusata). Sono stati eliminati i cortocircuiti lessicografici, evitando di obbligare lettori e lettrici a rimbalzare da una voce all’altra, in una catena di rinvii che creano spirali senza fine: nel “Dizionario dell’italiano Treccani” le spiegazioni di una parola sono sempre autosufficienti, e chi legge non è costretto, per comprenderle, a cercare il significato di un’altra parola presente nella spiegazione stessa.

La nuova edizione promuove la forma al femminile. Anche “architetta”, “sindaca” e “medica” nel dizionario Treccani: “Non si può tornare indietro”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Settembre 2022 

Ci saranno “avvocata”, “sindaca”, “ministra”, e anche “medica” o “soldata”, “architetta” e “notaia”. Il nuovo dizionario italiano Treccani uscirà il prossimo ottobre e terrà conto dei sostanziali e stimolanti sommovimenti e tendenze che stanno agitando la lingua, il dibattito culturale, le scelte lessicali negli ultimi anni. Ovvero: il nuovo dizionario conterrà anche le forme femminili di nomi e aggettivi insieme con quelli maschili. E nella novità saranno quindi incluse anche le professioni.

L’ultima edizione del Treccani era uscita quattro anni fa. I due direttori del progetto Valeria Della Valle (prima linguista a dirigere un’edizione nel 2008) e Giuseppe Patota hanno annunciato la novità. Il dizionario darà uguale importanza a femminili e maschili indicandoli in un’unica voce o in due voci separate, sempre continuando a disporli in ordine alfabetico. I femminili infatti nella maggior parte dei dizionari pubblicati fino a oggi o non comparivano o comparivano in riferimento al lemma maschile. “Le altre case editrici dovranno tenere conto di quello che abbiamo fatto. Indietro non si può più tornare”, ha commentato Della Valle a Il Corriere della Sera.

E quindi nel dizionario compariranno numerose professioni declinate al femminile, così come le nuove consapevolezze di genere e linguistiche hanno portato a fare negli ultimi anni nella società reale. Dai giornali alle comunicazioni ufficiali a ogni altro tipo di testo scritto. Della Valle ha precisato: “Se suonano male o sembrano brutte è solo perché sono usate poco”.

La visione androcentrica, e quindi incentrata sul maschile, è stata rivista anche nella sostituzione della parola “uomini” nei casi in cui questa indicava gli esseri umani in generale. A “uomini” è stata preferita “essere umano” o “persona”. E infatti Della Valle ha raccontato: “Il fatto che i vocabolari registrassero aggettivi e nomi al maschile corrisponde a una visione androcentrica che si spiega in gran parte col fatto che i vocabolari sono sempre stati diretti unicamente da uomini”.

I dizionari Treccani, nota per essere l’enciclopedia più famosa in Italia, vengono pubblicati con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e sono acquistabili solo contattando la casa editrice e tramite gli agenti sul territorio. Il dizionario costerà 200 euro, 590 con il Dizionario storico etimologico e la Storia dell’italiano per immagini. La nuova edizione includerà come sempre nuove espressioni diventate di uso corrente, in questo caso lemmi come dad (didattica a distanza), distanziamento sociale, infodemia, lavoro agile, smartworking, lockdown, spillover e termoscanner ma anche reddito di cittadinanza, revenge porn, rider e terrapiattismo.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Enrico Ruggeri contro la svolta gender della Treccani: “Avevamo la lingua più bella del mondo…” Adriana De Conto il 13 Settembre 2022 su Il Secolo d'Italia.

“Avevamo la lingua più bella e completa del mondo, figlia di padri greci e latini…”. E’ Enrico Ruggeri a polemizzaare con la Treccani. Lo fa su Twitter, rilanciando un articolo di Luigi Mascheroni sul Giornale, il quale a sua volta aveva commentato: “Ci occupiamo di nuovi fascismi di Bollette e gas. Poi crolla il mondo occidentale e va bene così…Purtroppo la battaglia è persa completamente“. Non va giù ad Enrico Ruggeri che il prestigioso vocabolario della Treccani si sia piegato ai diktat boldriniani. Accogliando voci quali architetta, notaia, medica, soldata, chirurga. Che un istituto di tal prestigio si pieghi a fare cronaca corrente ha lasciato sbigottiti linguisti, scrittori e gran parte degli italiani. La presentazione del  il primo “Dizionario della lingua italiana” che lemmatizza anche le forme femminili di nomi e aggettivi tradizionalmente registrati solo al maschile fa infatti cadere le braccia.

Enrico Ruggeri: “Avevamo la lingua più bella,figlia di padri greci e latini”

Si tratta di un colpo ben assestato alla bellezza della lingua italiana che però alla Treccani, spiegano, è “un progetto ambizioso e rivoluzionario”.  Enrico Ruggeri, sempre controcorrente e mai uso a lisciare il pelo del mainstremingaggia sui social un duello con chi, invece plaude all’inclusività delle nuove scelte.  Ma la  rivoluzione gender dell’edizione 2022 del Vocabolario Treccani non gli va giù. Come ha scritto stamattina sul Secolo Lorenzo Peluso, “la questione di genere merita certamente tutto l’interesse della società civile, con un cambio radicale del nostro agire. Ma la lingua in tutto questo non può e non deve entrarci.”. La pensa così anche il cantautore e conduttore.

Su twitter alcune donne lo provocano: “Enrì, lo sappiamo che sei rimasto fermo a “Siamo così, dolcemente complicate”,  gli scrivono citando un testo della Mannoia. Lui risponde in modo molto lineare: “Io sostengo che le battaglie civili e la parità dei sessi non passano attraverso stucchevoli forzature grammaticali, tutto qui”. Di fronte agli insulti che sta ricevendo una follower lo esorta:”Lascia perdere, il furore ideologico impedisce loro di ragionare, comprendere”. Lui insiste: “Hai ragione, dovrei lasciar pardere, ma non mi rassegno a vedere un mondo così imbruttito”.

Treccani? No, "Treccagne": roba da matti, ecco il dizionario... della Boldrini. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 14 settembre 2022

E un'altra battaglia fondamentale perla civiltà occidentale è stata vinta. No, non parliamo della controffensiva ucraina, quella è realtà, mentre il terreno di caccia preferito delle nostre avanguardie intellettuali, com' è noto, è l'ideologia. In particolare, quella sua ultima forma ipocrita e petalosa che si chiama Politicamente Corretto. Poteva il nuovo Dizionario Treccani della (neo)lingua italiana sottrarsi alla moda? La risposta è insita nella domanda, ed ecco a voi il primo vocabolario inclusivo, sessualmente paritario, nemico del dannato patriarcato tipico del dannatissimo maschio bianco. E in cosa consiste l'operazione riparatrice, sobriamente annunciata dagli autori come una "rivoluzione"? Anzitutto, come spiegava ieri Repubblica in trance arcobaleno (fate i bravi, abbiamo scritto trance, non trans), nell'addio alla retriva "prevalenza del maschile". Un "lavoro enorme" mirato a "scardinare l'androcentrismo dei dizionari": nomi e aggettivi non vengono infatti più lemmatizzati, ovvero registrati, in base alla forma maschile, come da ultrasecolare prassi dell'umanità primitiva, fascio-androcentrica. Per cui le nuove leve grammaticalmente corrette troveranno "amica" invece di "amico", "bella" invece di "bello", "gatta" invece di "gatto", insomma la salvifica desinenza rosa in luogo di quella fallocentrica che ci vergogniamo persino a nominare. 

SPECCHIO DEL MONDO Non essendo all'altezza del tema, prendiamo a prestito dal sito della Treccani: tale opera "è lo specchio del mondo che cambia e il frutto della necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società, che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole".

Non nascondono nemmeno il furore ideologico dietro finti tecnicismi, questo va riconosciuto, sono espliciti: si tratta di costruire una "nuova società" attraverso un "nuovo utilizzo delle parole", di farla finita con l'archeo-lingua, direbbe Orwell. Pura teleologia marxista, con un'unica, decisiva differenza: il fine ultimo non è più l'uguaglianza del collettivismo, ma la diversità del femminismo. Non a caso l'altra, epocale riforma dell'imprescindibile dizionario è, citiamo sempre da Repubblica, l'introduzione di "forme femminili di lavori da sempre declinati al maschile". Per cui è tutto un florilegio di "notaia", "avvocata", "chirurga", "soldata", "architetta", "ingegnera", con gran sprezzo della cacofonia incombente e del rispetto per quelle migliaia di avvocati, chirurghi, notai, soldati di sesso femminile che stimano il proprio valore e la propria professionalità superiori a un cambio di vocale.

È il trionfo conclamato del boldrinese istituzionalizzato in italiano corretto, corrente e vidimato Treccani. Il cui zelo orwelliano non si ferma qui: la nuova edizione dichiara anche lotta dura agli "stereotipi di genere", ovvero gli esempi spesso utilizzati per spiegare la definizione dei termini.

Molti infatti erano legati a inaccettabili schemi machisti in bilico sull'istigazione al femminicidio, come "la mamma è in cucina, il papà è al lavoro". Per incentivare un più decoroso ribaltamento dei ruoli (immaginari, il pregiudizio come sempre sta nell'occhio di chi guarda), il neovocabolario mette in risalto voci come "casalingo" e "ricamatore": qui il maschile diventa improvvisamente importante, in quanto evidentemente lo si presume addomesticato e para-femminile ("la donna non è più un sesso, è un ideale" scriveva Éric Zemmour). 

CAPOLAVORO Ma il capolavoro definitivo degli autori Valeria della Valle (prima donna direttrice del Dizionario, a chi la chiamasse direttore ovviamente sarebbe ritirata la licenza elementare) e Giuseppe Patota è un altro. Trattasi dell'abolizione della parola "uomo" per indicare il platonico animale bipede implume, insomma chiunque appartenga al genere umano. Un chiaro residuo androcentrico, da sostituire con "persona" (che ha pure il pregio di essere un sostantivo femminile) o "essere umano". Poi ci sarà da mettere d'accordo il dizionario femminista col dizionario etimologico, secondo cui "uomo" deriva dal latino "homo" che significa anche e anzitutto creatura umana (almeno al momento in cui questo giornale va in stampa, ma non escludiamo che qualche zelante psicopoliziotto della Treccani abbia nel frattempo provveduto), ma non fossilizziamoci sui dettagli, anche la rivoluzione linguistica soggiace al dogma leninista di tutte le rivoluzioni: non si può fare una frittata senza rompere delle uova. L'importante è conservare il senso dell'umorismo, di cui è abbondantemente fornita la professoressa Della Valle, almeno stando alle sue parole riportate da FanPage: «Il nostro non è un dizionario con una presa di posizione ideologica intransigente e astratta». Assolutamente, è semplicemente la Treccani che diventa Treccagne. Sipario. 

Testo di Rosamund Urwin pubblicato da “la Stampa” il 25 agosto 2022.

Quando gli chiedo cosa è accaduto all'Old Vic, Terry Gilliam mima il gesto di cucirsi le labbra. Il teatro londinese ha cancellato il suo allestimento di Into the Woods a novembre, senza dare spiegazioni, dopo una rivolta del personale per i commenti fatti da Gilliam riguardo al movimento #MeToo e i diritti dei transgender. È la sua prima intervista dopo la «cancellazione». «Li chiamo neocalvinisti - dice di quelli che hanno chiesto ai dirigenti del teatro di cancellare il suo spettacolo - hanno una mente totalmente chiusa, con una sola verità e una sola visione del mondo. La mia risposta è vaff...!».

La moglie di Gilliam, Maggie Weston, che l'ha sposato 49 anni fa, gli consiglia di evitare controversie, ma non è nella sua natura. «Ho una testa, e a volte la faccio spuntare sopra la balaustra per vedere cosa succede», dice, per poi fingere di essere stato sparato: «Oh! Oh! Ma noi resistiamo». 

Incontro Gilliam, 81 anni , e il suo coregista Leah Hausman, 63 anni, nella sala prove RSC a Clapham, Londra Sud. Into the Woods, il musical di Stephen Sondheim tratto dal libro di James Lapine, è stato preso dal Theatre Royal Bath, e il cast prova da settimane nell'interrato che Gilliam chiama «le segrete».

Gilliam è diventato famoso come l'anima dei Monty Python, dove era l'unico americano (ha rinunciato alla cittadinanza Usa nel 2006) e interpretava ruoli che gli altri rifiutavano, spesso perché richiedevano ore di trucco, come il carceriere in Brian di Nazareth . Oggi è più celebre come regista di 13 film, tra cui Brazil, 12 scimmie e Parnassus, e si è spostato al teatro e all'opera. «Mi annoio facilmente e mi piace provare cose nuove - spiega - è un modo di restare giovani perché sto imparando». Questo è il suo primo musical. 

A scatenare la rabbia del personale dell'Old Vic era stato l'invito lanciato da Gilliam ai suoi follower su Facebook di guardare lo spettacolo del comico Dave Chappelle su Netflix, criticato per transfobia. Aveva anche preso in giro le politiche di identità, sostenendodi essere «una lesbica nera», e definendo #MeToo una «caccia alle streghe» e affermando che alcune delle vittime di Harvey Weinstein erano «adulti che avevano fatto la loro scelta». 

Gilliam e Hausman dicono di non aver mai parlato con i membri di Old Vic 12, l'organizzazione di attori che aveva sollevato il problema, ma soltanto con l'amministrazione. «Credo sia molto triste - aggiunge Gilliam - hanno permesso a un piccolo gruppo di ragazzi di dettare legge o addirittura di fare pressione. Sappiamo che esiste un senso di colpa, e la fonte di questo senso è appena rientrata nel Paese».

Gilliam intende Kevin Spacey, direttore artistico dell'Old Vic per 11 anni, fino al 2015, quando è stato accusato di comportamenti sessuali inappropriati, e il teatro è stato sospettato di aver chiuso un occhio. Spacey è stato incriminato per quattro «assalti sessuali», accuse che nega. Hausman si domanda se dovevano venire puniti per i presunti peccati dell'attore. Ma la questione non si ferma all'Old Vic, e Gilliam aggiunge che la gente ora si lamenta anche delle battute nel Monty Python's Flying Circus. Dice di aver ricevuto una telefonata dalla BBC sulla presunta offesa contenuta nella frase «grassi bastardi ignoranti» pronunciata in uno degli sketch.

«Sono denunce di offesa alla virtù», dice. Gilliam, nato nel Minnesota nel 1940, crede che questi comportamenti siano una nuova religione. È cresciuto in una famiglia devotamente cristiana, e voleva addirittura diventare un missionario, ma ora si definisce un «epicureo», che crede soltanto negli atomi e nel vuoto. La Bibbia non sarà la benvenuta al suo funerale: «Quando sono cambiato? Quando la gente in chiesa non ha trovato divertenti le mie battute su Dio. Come potete credere in un dio senza senso dell'umorismo? L'unico nel quale credo è il dio dell'ironia».

Gilliam ha una casa in Italia e confessa di avere un debole per il cattolicesimo: «Lo trovo più divertente. Mi piacciono i santi, ciascuno ha la sua storia. E poi è bello, entri in una piccola edicola e dici "ho peccato", ricevi la benedizione e non devi pagare uno psicologo seguace di Freud. Costa molto meno e funziona. La chiesa cattolica ha una mente molto più aperta nei confronti dell'umanità e dei suoi difetti». 

Gilliam si considera un prodotto degli Anni 60: «Tutti erano più espansivi, si poteva esplorare il nuovo, era emozionante, il mondo offriva tante possibilità. Ora si va nella direzione opposta, stiamo implodendo. Siamo nella fase in cui vogliamo essere protetti da ogni idea che ci mette a disagio. È terribile. Nelle università, quando arriva un docente che ha idee diverse, gli studenti devono chiudersi in una stanza dove possono tenersi per mano e riprendersi. Di cosa parlano le università quando dicono che gli studenti devono sentirsi a loro agio? Le università sono fatte per aprire la mente».

Non rimpiange nulla di quello che ha detto: «Quando ho annunciato che in realtà ero una lesbica nera, non sono state le persone LGBT o nere ad arrabbiarsi, ma quelle che credevano di dover difendere le vittime della mia battuta. Gli "attivisti". Amano trasformare gli altri in vittime per poterli difendere» 

Sulla questione dei trans critica il gruppo di pressione Stonewall - che aveva appoggiato a suo tempo - per aver costretto enti e politici a mettere l'inclusione dei trans sopra i problemi delle donne. «Come dice qualcuno, un movimento nasce da un sentimento autentico che qualcosa è sbagliato, poi diventa un business, e se il business cresce diventa un racket». Aggiunge che la BBC e una serie di dipartimenti del governo hanno troncato i contatti con Stonewall, e spera che «forse il buon senso sta tornando».

Gli chiedo se ha cambiato idea riguardo a #MeToo come caccia alle streghe. "Lo è stato. Con tutta la mostruosità di Harvey Weinstein - certo, le vittime parlano chiaro - ci sono state anche persone che ne hanno beneficiato. Hollywood è piena di adulti ambiziosi. Dico solo questo, non dico che non siano stati commessi dei crimini." 

Parla dell'ex senatore Al Franken (ora tornato con un podcast e uno spettacolo comico itinerante) e di John Lasseter di Pixar (che ora ha fatto il film "Luck" con Apple) come di uomini accusati ingiustamente dal #MeToo. "John era stato accusato di abbracciare troppo!", sostiene Gilliam: "Ci sono vittime da entrambe le parti. Ma quando il crimine è così lieve, bisogna essere attenti alla punizione da scegliere".

Io replico che le vittime spesso sono impotenti. "La gente dice che lo sono perché lo crede", replica Gilliam e mi parla di una sua amica attrice che è sfuggita alle grinfie di Weinstein: "Gli ha parlato ed è andata via. È una donna tosta. Ma riesco a vedere al suo posto una attrice giovane e spaventata che non sa cosa fare e teme di rovinarsi la carriera". Weinstein ha rovinato le carriere delle attrici che hanno respinto le sue avance, replico, e quindi altre donne hanno acconsentito sotto pressione, "Lui è un f...to mostro", risponde Gilliam: "Io l'ho detto, ma nessuno ha citato queste mie parole! Quello che non mi piace è la mentalità da folla. Non bado molto a come mi esprimo, nemmeno con i giornalisti. Me ne pento sempre".

Gilliam ha messo una notifica Google sul suo nome, e vede come tutte le frasi controverse che ha mai pronunciato vengono riportate di nuovo e di nuovo: "Questo è un modo di attirare click, non c'è nulla da fare. Tutto il resto della tua vita non ha rilevanza, non importa quante cose meravigliose puoi avere fatto". E ce ne sono state parecchie. Into the Woods dovrebbe aggiungersi alla lista: Gilliam dice che nel cast non c'è "un solo anello debole", e ha aggiunto al musical tocchi di animazione che ricordano quelli del Monty Python's Flying Circus. Dice che la sua versione è più cupa: "I personaggi sono più profondi e più turbati, ma non finiamo mai nel pretenzioso".

Dieci anni fa Gilliam diceva di essersi "esaurito", ma gli dico di non crederci: possiede l'energia di uno che ha la metà dei suoi anni (e un taglio di capelli più o meno della stessa epoca). "Oh, sono esausto", mi risponde: "Sto seduto tranquillo per la maggior parte del tempo, cercando di restare sveglio. Sono vecchio. Mia moglie sa che quando torno a casa faccio così", e scivola sulla sedia. Poi aggiunge: "Le tocca vivere con il lato più depresso della sua personalità".

Cancel culture: il politicamente corretto ucciderà la letteratura? Costanza Rizzacasa D’Orsogna su Il Corriere della Sera il 12 Settembre 2022

Trame modificate, personaggi osteggiati, libri «riscritti» in nome di un’etica e di una correttezza influenzate dal moderno sentire. Ma è davvero rispetto per le minoranze? O l’eccesso di anti-razzismo, anti omofobia e anti misoginia porterà a limitare la produzione e la pubblicazione di saggi e romanzi? Due scrittori (e un saggio) riflettono

Da qualche tempo si è diffusa l’idea, alquanto preoccupante per noi scrittori, che la letteratura debba promuovere il bene, il giusto, il politicamente corretto. C’è questo e molto altro alla base di quello che chiamiamo, semplificando movimenti estremamente complessi, cancel culture , tema cui ho da poco dedicato un saggio, Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana (Laterza). È giusto giudicare il passato alla luce delle sensibilità odierne? Si può essere razzisti, omofobi, misogini, e contemporaneamente grandi autori? E d’altronde, possiamo chiedere ai diritti di aspettare in nome di una presunta sacralità della letteratura? Ne ho parlato con Walter Siti, autore sugli stessi temi del pamphlet Contro l’impegno (Rizzoli, 2021), e Jonathan Bazzi.

Insomma, come conciliare il rispetto delle diversità con la lettura dei capolavori antichi e moderni?

Walter Siti: «Mi sono sempre considerato un diverso. Prima in quanto omosessuale, poi, per certe mie posizioni, tra gli omosessuali. Questo mi ha portato a considerare la diversità come qualcosa di molto prezioso. Oggi invece si tende a negarla, a dire “siamo tutti diversi”. Un modo di evitare le durezze della vita che mi sembra porti solo a un mondo pavido di finta uguaglianza. Negare le diversità significa privare le persone della forza di patire la violenza».

Jonathan Bazzi: «Negli ultimi vent’anni i social media hanno moltiplicato i punti di osservazione e di dibattito. Allo stesso tempo vediamo sempre più spesso un’incapacità di tollerare sguardi e opinioni diversi dai propri. Io ho usato molto i social. Col tempo, però, mi sono reso conto che se volevo scrivere avevo bisogno di spazi diversi e ulteriori da quelli dell’attivismo».

SITI: «UNA CERTA TENDENZA A VOLER ELIMINARE LA SOFFERENZA È CERTAMENTE UN TEMA. SONO D’ACCORDO CHE QUESTA VISIONE SIA LIMITATA». BAZZI: «PER IL MIO SECONDO ROMANZO, L’EDITORE AUSTRALIANO MI HA CHIESTO DELLE MODIFICHE, PER NON RISCHIARE DI URTARE LE SENSIBILITÀ DI ALCUNE PERSONE... HO RISPOSTO CHE PRIMA DI DECIDERE VORREI CAPIRE DI CHE MODIFICHE SI TRATTA»

Tanto più che prendersela con autori di duecento anni fa non serve affatto a costruire un presente e un futuro migliori. Il passato non lo puoi cambiare. Non ha nulla da perdere: noi sì.

Siti: «È la perdita del senso storico, avvenuta negli ultimi vent’anni. Se iniziamo a giudicare il passato, a dire che c’è troppo di questo e troppo poco di quell’altro, rischiamo di alterare il giudizio di valore sulle opere d’arte. Invece bisogna poter continuare a dire che la Divina Commedia è un po’ meglio di un libro di Fabio Volo. Ritenere che un testo letterario si qualifichi unicamente per le posizioni che prende ha il fiato corto. Tornando alla diversità, non pensate che il dolore possa fornire contenuti alla letteratura?».

Bazzi: «Una certa tendenza a voler eliminare la sofferenza, anche ad esempio attraverso quelle avvertenze all’inizio di un testo chiamate trigger warning , come spiega Costanza nel suo libro a proposito delle università americane, è certamente un tema, e sono d’accordo che questa visione sia limitata. Detto questo, in generale credo sia importante essere accolti, almeno ogni tanto».

Ciascuno di noi può essere a volte cattivo. Che ne è della letteratura se creiamo fotocopie di personaggi improbabili e perfetti in cui chi legge non potrà mai immedesimarsi? Intanto sul mercato anglosassone si è affermata la figura del sensitivity reader , che rilegge un testo alla luce di ciò che potrebbe urtare le sensibilità di varie categorie.

Bazzi: «Per il mio secondo romanzo, Corpi minori (Mondadori), l’editore australiano mi ha chiesto delle modifiche. Ritengono che un certo personaggio possa urtare le sensibilità di alcune persone. Io ho risposto che prima di decidere vorrei capire di che modifiche si tratta».

Siti: «Una quindicina di anni fa, il mio editore francese mi chiese di sostituire la parola “juifs”, ebrei, utilizzata in un contesto non proprio positivo. Se l’avessi lasciata, disse, si sarebbe parlato solo di quella parola e non del libro. Acconsentii, ma se mi chiedessero di modificare un personaggio direi sicuramente di no. La preoccupazione di uno scrittore, mentre scrive, non può essere quella di non offendere nessuno, altrimenti meglio non scrivere più niente. Ho molto ammirato Marsilio, l’anno scorso, per aver pubblicato Le ripetizioni di Giulio Mozzi così com’era».

Quando ho pubblicato il mio primo romanzo, un paio d’anni fa ( Non superare le dosi consigliate , Guanda), sono rimasta sorpresa da quanti avessero puntato il dito contro l’essere antipatica e politicamente scorretta della mia protagonista.

Bazzi: «Purtroppo si è affermata l’idea di concepire persone e personaggi come estensioni di un programma politico. È inevitabile che la politica e l’attivismo facciano il loro senza grandi slanci introspettivi. Bisogna però mantenere spazi come la letteratura e l’arte dove coltivare uno sguardo più ampio. Le donne non sono solo vittime, possono essere anche manipolatrici e violente. E spesso chi arriva dai margini è tutt’altro che innocuo».

Siti: «Platone diceva: “Il malvagio fa quello che il buono sogna”. Ascolti la tua coscienza di scrittore o ti autocensuri e scrivi solo quello che può andar bene al Premio Strega? Sapete cosa trovo rischioso, però, nel distinguere tra attivismo e letteratura? Che si rischia di fare della letteratura una specie di paradiso terrestre. Un recinto dove si possono portare in superficie il male e l’odio purché lì rimangano confinati. Ma la letteratura ha sempre fornito punti di vista per la realtà».

LO SCHWA AIUTA UN LINGUAGGIO PIÙ INCLUSIVO? SITI: «CREA PIÙ PROBLEMI DI QUANTI NE RISOLVA...» BAZZI: «NON CAPISCO CHI, PROGRESSISTA, RIDICOLIZZA QUESTI TEMI»

Il linguaggio che ci aiuta a definirci ci chiude anche in gabbie dove non ci riconosciamo più.

Siti: «L’ortopedia linguistica che giustamente interviene per raddrizzare certi malcostumi finisce a volte per dare una connotazione medicale che non convince neanche i presunti offesi. Io ho un amico sordo che è molto seccato dall’essere chiamato non udente. “Io non mi sento privato di qualcosa se mi chiamano sordo”, dice. “Se mi mettono un ‘non’ davanti invece sì”».

Che ne pensate allora dello schwa?

Siti: «Che quando un’innovazione linguistica crea più problemi di quelli che risolve tende a morire, perché la lingua è economica e preferisce soluzioni efficaci. Poi chissà, magari tra cent’anni ve lo ritroverete su tutte le tastiere».

Bazzi: «Ritengo che lo schwa e altre innovazioni linguistiche che mirano a rendere il linguaggio più inclusivo siano delle possibilità. E mi lascia perplesso come anche gente di cultura, sulla carta progressista, si accosti a questi temi con sufficienza o proprio ridicolizzandoli. Forse in futuro la questione si porrà più seriamente anche da noi. Anche perché un giorno la certezza del binarismo biologico potrebbe venir meno».

Siti: «So di essere un dinosauro. Giorni fa alla Fondazione Prada ho visto una scritta su un muro: “Siamə tuttə buonə “, diceva, e io l’ho letta in napoletano, perché a me lo schwa richiama i dialetti del Sud. Non prendo assolutamente in giro chi fa esperimenti. Mi sembra legittimo, però, come Lenin, ricordare il rapporto fra avanguardia e massa. Se un’avanguardia rischia di andare troppo lontano dalle masse tanto che esse finiscono per non vederla più, la differenza fra essere efficaci ed essere ridicoli è un rischio che si può correre. Però è vero che esiste il problema, come esistono lingue più inclusive di quella italiana. Allargare l’orizzonte è sempre utile. Poi i primi tentativi sono destinati a fallire, anche Lenin lo sapeva».

Cosa vuol dire «politicamente corretto»? Il passato non va demolito, ma coltivato. DACIA MARAINI su Il Corriere della Sera il 20 Agosto 2022. 

Sono state abbattute le statue di Cristoforo Colombo e Jefferson. Sono finiti sotto accusa Omero, Dante e Shakespeare. Ma la battaglia per i diritti non può portare a demolire la storia

La statua di Cristoforo Colombo a New York (Spencer Platt/ Getty Images/ Afp)

Cosa vuol dire essere politicamente corretti? In questi giorni si sente spesso questa parola per indicare un nuovo sguardo critico che vorrebbe essere etico, nei riguardi del passato. Si accusa il grande navigatore Colombo di avere favorito il colonialismo e si buttano giù le sue statue. Si accusa Jefferson di avere combattuto gli indiani d’America e si lorda la sua immagine con getti di vernice rossa, e così via. Da noi forse le proposte della cancel culture sembrano meno sentite che in una America ancora fortemente legata al suo passato puritano.

Dalle statue poi si passa al linguaggio e anche quello viene preso di mira. Si propone di eliminare le differenze fra il femminile e il maschile mettendo un asterisco al posto della vocale. Senza tenere conto che le parole non sono isolate come stelle in cielo ma sono legate fra di loro e esprimono un pensiero, una scelta, una abitudine secolare che non possono essere cambiate con una semplice operazione meccanica.

L’idea di riflettere sulla misoginia e sul razzismo insito nel linguaggio è un esercizio validissimo. Tutta la grammatica è fortemente discriminante: se si scrive «l’uomo» si comprende anche la donna, e sta per essere umano; se si scrive «la donna» si intende un genere solo. Il primo comporta una idea di universalità, mentre la seconda è parziale e primitiva. Ragionare pubblicamente su queste disparità ci aiuta a capire i cambiamenti del presente, le nuove sensibilità nei riguardi dell’identità sessuale. Molti infatti ritengono che l’identità sessuale sia un destino biologico, eterno e immutabile. E non tengono conto delle mutazioni culturali che ogni condizione umana si porta dietro. Non esistono identità fisse e indelebili. La natura certamente sta alla base del nostro essere vivi, ma in millenni di passione evoluzionista abbiamo creato un essere umano consapevole e sedicente superiore, tanto da considerare tutti gli altri esseri viventi come suoi sottoposti. Ebbene, a prescindere dalla volgare presunzione, questo significa che abbiamo dominato, controllato, trasformato la natura creando dominii culturali che hanno reso più duttile, più suscettibile di cambiamenti i sapiens. Ma nello stesso tempo lo abbiamo caricato di enormi responsabilità. E soprattutto lo abbiamo sempre più allontanato dalla natura, per farne una creatura capace di adattarsi e di mutare.

Prendersela con personaggi e idee del passato perché non corrispondono alle sensibilità odierne vuol dire negare la grande capacità metamorfica della storia. Vuol dire sconfessare le conquiste fatte, vuol dire rifiutare l’evoluzione, smantellare i passaggi preziosi del tempo, le sensibilità storiche che variano, le alterazioni dovute alle scoperte scientifiche, alle innovazioni mediche, al prolungamento della vita, ai cambiamenti sociali ed economici. Vuol dire entrare in quel pericoloso luogo della mente in cui, come asseriva Goya: «Il sonno della ragione genera mostri».

La storia non è una freccia che si lancia verso il futuro, ma ha movimenti sinusoidali, va avanti e indietro , anche se alcune conquiste come il passaggio dalla Vendetta alla Giustizia sono diventate basi etiche riconosciute. Basta pensare al Novecento, che pure era un secolo nato nel segno delle nuove scoperte e delle grandi rivoluzioni progressiste, poi finito nel razzismo e nell’odio che ha portato due guerre micidiali.

La volontà di cambiare le cose non vuol dire automaticamente negare le contraddizioni del passato. Basta un poco di consapevolezza storica per capire che in un ambiente di totalitarismo religioso, per esempio, ogni pensiero scientifico come quello di Galilei, il quale sosteneva che era la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa, non poteva che risultare eretico. Basta osservare quanto le società cambino, le sensibilità popolari siano permeate dalle ideologie e dai credo del momento, per uscire da questo atteggiamento moralistico e integralista. Una giusta voglia di adeguare il linguaggio e le azioni umane alle nostre certezze attuali ci porta a gettare in mare grandi filosofi e grandi artisti con un gesto di rabbia infantile. C’è chi ha perfino messo sotto accusa Shakespeare e Dante e Omero. Ma la domanda dovrebbe essere: sono ancora capaci di comunicarci delle emozioni anche se sappiamo che hanno risentito delle idiosincrasie, dei vizi, dei difetti e delle contradizioni del loro tempo? Cosa da cui, ricordiamolo, non siamo esenti nemmeno noi. Fra qualche decennio i nostri nipoti ci guarderanno con aria di sufficienza e troveranno che molte delle nostre convinzioni erano arcaiche e fuori luogo. Questa è la meravigliosa vitalità del nostro viaggiare dentro le contradizioni della storia.

Libri proibiti e guerra per la scuola: cosa succede davvero negli Usa. Alberto Bellotto su Il Giornale il 2 settembre 2022.  

In alcune scuole degli Stati Uniti basta poco per perdere il lavoro. È quello che è successo a Summer Boismier, insegnante in un liceo di Norman, sobborgo di Oklahoma City. Boismier è stata costretta a dimettersi dopo aver esposto nella sua classe una lista di volumi dal titolo “Libri che lo Stato non vuole che tu legga”. Una risposta, ha raccontato la professoressa, a una legge del Sooner State che impone limiti agli educatori sugli insegnamenti riguardanti questioni di razza o genere.

Boismier è solo l’ultima insegnante vittima della guerra dei libri che sta infiammando le comunità americane. Da diversi anni nei consigli scolastici delle varie contee che compongono gli Stati Uniti si stanno combattendo aspre battaglie per vietare libri o fumetti nelle scuole. Si tratta di una delle guerre culturali più accese tra quelle che dividono sempre di più la società americana.

Una delle ultime battaglie ha riguardato la città di Keller, in Texas, dove una quarantina di libri sono stati messi al bando nelle scuole, tra i quali un adattamento a fumetti del Diario di Anna Frank. In passato altri libri, come il volume Maus, sono finiti negli indici di qualche distretto. Anche in Florida gli scontri non sono mancati. Tra luglio 2021 e marzo 2022, in otto distretti scolastici del Sunshine State sono finiti all’indice 200 volumi.

Non mancano neanche le fake news. Nelle ultime settimane, sui social ha avuto molto risalto una lista di 25 titoli che la Florida avrebbe bandito da tutte le scuole dello Stato, tra questi anche il libro Il buio oltre la siepe. Peccato che non solo la lista fosse falsa, ma soprattutto che non esistano bandi a livello statale in Florida. In questo scontro, il paradosso più grande è che gli americani, tutti senza distinzione tra democratici e repubblicani, sono contrari a un divieto in senso stretto.

I numeri del fenomeno

Ma quanto è ampio il fenomeno? E perché spiegarlo è più complesso di quanto sembri? Partiamo dalla prima domanda, dai numeri. Diverse associazioni per i diritti civili e la libertà di espressione hanno provato a monitorare messe al bando e tentativi di revisione delle biblioteche scolastiche. Secondo le stime di una di queste, la PEN America, tra il primo luglio 2021 e il 31 marzo di quest’anno i libri proibiti dai distretti scolastici di mezza America sono stati 1.145.

I più attivi su questo fronte sono stati i texani con 713 libri finiti all’indice, seguiti quasi a sorpresa non da uno Stato conservatore del Sud, ma da uno Swing State come la Pennsylvania, che ne ha banditi 456. Gli altri membri dell’Unione si sono mossi in ordine sparso, ma molti Stati conservatori dell’America profonda, come il Mississippi, l’Alabama, la Louisiana o il West Virginia, non hanno preso di mira i libri; mentre in luoghi più democratici, come nello Stato di New York, in Illinois o in Virginia, qualche volume è finito all’indice.

Per Deborah Caldwell-Stone, esponente della American Library Association (l’associazione delle biblioteche americane), nel giro di poco tempo si è passati da 1-2 libri finiti all’indice ogni anno a 5-6 libri posti sotto indagine al giorno. Per Caldwell-Stone il 2015 è l’anno in cui la grande battaglia sui libri è iniziata. Prima di quella data gli scontri tra genitori non mancavano, ma riguardavano per lo più questioni legate all’educazione sessuale o alla religione. A partire da quel momento il dibattito si è spostato sui temi del gender e della razza.

Chi finisce sotto tiro

Nel periodo considerato dal PAM America, tra gli oltre mille volumi banditi, il 41% aveva personaggi principali afroamericani, il 22% si concentrava su temi legati alla razza o al razzismo e il 33% si occupava di temi e personaggi della galassia Lgbtq.

Scorrendo i lunghi elenchi delle associazioni che monitorano i ban, si trovano moltissimi volumi a tema razziale o sull’identità di genere. Anche se in mezzo, ci sono libri di altre categorie, come il Diario di Anna Frank, Maus, V per Vendetta di Alan Moore, Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, Peter Pan di J. M. Barrie, Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini, Lolita di Vladimir Nabokov e pure Uomini e topi di John Steinbeck.

Questa guerra dei libri si è inasprita lì dove un tempo c’era poco interesse: i consigli scolastici. Negli Stati Uniti, diversamente che da noi, quasi ogni carica che si trova a maneggiare soldi pubblici è elettiva. È il caso ad esempio dei pubblici ministeri che vengono eletti e che scelgono quali crimini perseguire e quali no. I consigli scolastici non fanno eccezione. Le cariche sono elettive e chiunque nella comunità si può candidare e partecipare alla gestione delle scuole del distretto.

Oggi gruppi di genitori e grandi associazioni genitoriali, come ad esempio Moms for Liberty, hanno lanciato vaste campagne “elettorali” e portato una parte dello scontro in questi consigli. E le vittime sono stati proprio i libri. Gli esponenti di queste associazioni hanno difeso la richiesta di porre un freno ai testi spiegando di voler evitare che bambini e ragazzi entrino in contatto con “contenuti sessuali espliciti”, “linguaggi offensivi”, ma anche la teoria critica della razza, un quadro teorico accademico che afferma come il razzismo negli Stati Uniti sia sistemico e connaturato nelle stesse istituzioni americane.

Cosa dicono i sondaggi

Questa “guerra” ai libri può essere letta in modo molto diverso se la si osserva dai sondaggi. Ne bastano pochi per capire come i veri obbiettivi degli scontri nei consigli scolastici non siano i libri. E che anzi i vari volumi messi all’indice sono delle vittime collaterali in un certo senso.

A febbraio un sondaggio di YouGov condotto per Cbs News ha rilevato che l’87% degli americani è contrario alla messa al bando di libri su temi come razza o schiavitù. Un’altra indagine fatta a marzo dall’Hart Reserarch Associates per conto dell’American Library Association ha scopetto che il 71% degli elettori è contrario agli sforzi per rimuovere i libri dalle biblioteche pubbliche. Una terza e ultima rilevazione ha messo in luce che solo il 12% degli americani sostiene la rimozione dalla scuole di libri su “argomenti divisivi”.

Persino se si prova a scorporare i dati in base alle convinzioni politiche i numeri non cambiano di molto. Il 75% dei democratici è contrario agli indici, così come il 70% dei repubblicani. Come si conciliano quindi questi sondaggi con quello che avviene in decine di consigli scolastici? Osservando il tutto dalla prospettiva di come e cosa insegnare ai figli. Su questo gli elettori sono davvero spaccati a metà.

Lo scontro sull’istruzione

Prendiamo la teoria critica sulla razza. Sebbene non esistano programmi specifici di insegnamento nelle scuole medie e superiori (altro discorso ben più complesso riguarda l’istruzione universitaria), il tema divide moltissimo le due Americhe. L’81% dei democratici vedrebbe positivamente l’insegnamento della teoria critica, mentre l’86% dei repubblicani lo vede con un’accezione negativa.

Questo è il sintomo di una divisione più ampia. Interrogati su cosa li preoccupi davvero intorno ai temi della scuola, la maggior parte dei cittadini ha parlato di bullismo, libri proibiti e studenti che mancano gli obbiettivi di apprendimento. Ma se le stesse domande vengono divise per il partito di appartenenza, la forbice si fa enorme.

Il gap principale si nota proprio sul ban del libri: per il 57% dei dem è un rischio che gli studenti corrono, mentre è pericoloso solo per il 28% dei repubblicani. Il 62% degli elettori del Gop teme, invece, che gli studenti vengano indottrinati a idee troppo liberal, contro il 16% dei democratici. E il 36% dei conservatori ha paura che i ragazzi entrino in contatto con testi inappropriati.

Il termometro di questa divisione lo si ha anche sul tema del coinvolgimento dei genitori nelle scelte delle scuole. Il 37% dei repubblicani teme di restare tagliato fuori. Mentre il 16% dei democratici ha detto di aver paura di un eccessivo coinvolgimento nei processi decisionali.

Ecco quindi che i libri finiti all’indice non sono altro che l’ennesimo capitolo di una guerra tra due mondi culturali che faticano sempre di più a parlarsi e a capirsi. Una spaccatura che ha coinvolto la scuola e che anzi l’ha trasformata in un ennesimo campo di battaglia. È probabile che nei prossimi mesi, o anni, la guerra si intensifichi.

L’uso massiccio della didattica a distanza durante le fasi acute della pandemia ha portato sempre più genitori in contatto con la quotidianità della scuola e degli insegnamenti. E molti repubblicani non sembrano essere contenti di cosa (e come) viene insegnato nelle scuole. Non è un caso che proprio Donald Trump abbia promesso l’abolizione del dipartimento dell’Istruzione nell’eventualità di un suo ritorno alla Casa Bianca.

Cancel culture: se l’Occidente terrorizzato si autocensura. Dopo l'inchiesta del "Times" su tutti i libri proibiti o sconsigliati negli atenei britannici, una riflessione sugli eccessi del politicamente corretto. E su come la fine del discorso pubblico lasci spazio solo alle sue caricature. Corrado Augias La Repubblica l'11 Agosto 2022.

Ha fatto bene Antonello Guerrera a segnalare prontamente (su Repubblica di ieri) da Londra il fenomeno delle letture proibite o sconsigliate nelle università inglesi. Vi figurano autori moderni e contemporanei ma anche il padre di ogni letteratura, Shakespeare nientemeno, nel cui Sogno di una notte di mezza estate si scorgerebbero segni di classismo. Non vado a controllare, è possibile che ci siano, così come è certo che nei libretti della lirica italiana compaiano pesanti riferimenti agli abietti zingari e al sangue dei negri.

Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” l'11 agosto 2022.

(…) gli atenei britannici stanno rimuovendo decine di titoli, persino premi Pulitzer come La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead del 2017, dai loro corsi e per un altro migliaio c'è l'imbarazzo dell'avvertimento agli studenti: se non volete leggerli, potete evitarli, in quanto controversi o potenzialmente pericolosi. Forse il caso di Whitehead, uno degli scrittori più celebri in America, è il più paradossale. Perché per i giudici del Pulitzer, la sua descrizione delle tensioni razziali combinano «la violenza della schiavitù e il dramma della fuga in un mito che parla agli Stati Uniti di oggi».

Tanto che lo stesso romanzo non solo ha vinto il National Book Award in America, ma è stato pubblicamente lodato da presidenti e star come Barack Obama e Oprah Winfrey.

Ma proprio quelle descrizioni crude della schiavitù, encomiate oltreoceano, sono degne di censura per la Essex University, dove il libro è stato rimosso permanentemente per «passaggi espliciti di violenza e schiavitù». 

Ma come? Spostiamoci poco lontano, all'Università inglese del Sussex. Qui a perire sotto l'implacabile scure censoria è stata la tragedia teatrale La signorina Julie (1888) del grande intellettuale svedese August Strindberg, tra i destinatari dei "biglietti della follia" di Nietzsche a fine XIX secolo. La motivazione: «contiene dialoghi sul suicidio» e alcuni studenti hanno contestato i «potenziali effetti psicologici dell'opera ».

(…) Il Pasto nudo di William Burroughs è stato bollato dalla Cardiff metropolitan University per il «linguaggio scioccante e controverso» e quindi può essere rimpiazzato da altre opere in alcuni corsi di letteratura. Stesso destino per Charlie Hebdo , che gli studenti di francese alla Nottingham Trent possono evitare perché «razzista, sessista, islamofobo e bigotto». 

Mentre ad Aberdeen, sempre dopo le lamentele di alcuni iscritti, «avvertimenti per l'uso» sono stati destinati addirittura a opere come Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare («attenti al classismo»), Geoffrey Chaucer («può essere arduo a livello emozionale » ), Oliver Twist di Charles Dickens («abusi su minori»), ma anche Jane Austen, Charlotte Brontë e Agatha Christie.

Gli atenei si difendono parlando di scelte dettate dagli studenti o comunque non obbligatorie nella stragrande maggioranza dei casi per i laureandi. Scrittrici come Rachel Charlton-Dailey parlano di sensazionalismo e che «avvertimenti simili sono sempre esistiti». «Certo che le università devono proteggere la salute mentale dei propri studenti», ribatte il sottosegretario dell'Istruzione britannico James Cleverly, «ma allo stesso tempo non si può non affrontare il passato. Se alcuni testi sono complessi, vanno capiti, non censurati. E poi sinceramente, mi turba l'idea che in un'università gli studenti non abbiano lo spirito critico e la maturità per leggere classici del genere».(…)

Caterina Soffici per “la Stampa” l'11 agosto 2022.

Vi racconto una storiella: un signore ha trovato la soluzione per evitare che i figli dei poveri in Africa siano di peso ai loro genitori e per renderli utili alla società. La proposta consiste nel dare da mangiare ai ricchi europei i bambini africani denutriti opportunamente ingrassati. I poveri africani vendendo i figli entro l'età di un anno (in modo che la carne sia ancora tenera) risolverebbero insieme il problema economico e quello della sovrappopolazione del continente.

Le famiglie africane avrebbero l'ulteriore vantaggio di risparmiare sul nutrimento dei figli e ci sarebbe una maggiore attenzione degli uomini africani verso le mogli (fattrici di figli da vendere) e per i figli stessi (merce preziosa) e si risolverebbe anche il problema degli sbarchi di immigrati.

Immaginate ora di raccontare una storiella del genere sul palco di un qualsiasi teatro o di metterla in bocca a un comico in uno show televisivo.

Adesso sostituite i bambini africani con i bambini dei cattolici irlandesi (stesso problema di sovrappopolazione e povertà) e i ricchi europei con i proprietari terrieri inglesi dell'epoca e avrete La modesta proposta, uno dei testi satirici più famosi di sempre, dello scrittore irlandese Jonathan Swift. 

Graffiante, cattivo al limite del cattivo gusto, questo testo è del 1729, e anche allora suscitò scandalo. Ma è proprio ciò che deve fare la satira. Aprire gli occhi, alzare veli, denunciare, sfottere - in questo caso il potere e il sopruso degli inglesi in Irlanda. La comicità è una chiave per capire il presente e per ridimensionare o mettere nella giusta luce le cose. Sennò non è più comicità, non fa più ridere, non indigna, è un'arma spuntata.

Tutto vero fino all'arrivo della Cancel Culture e della correttezza politica portata al parossismo. Se per una battuta sull'alopecia della moglie, Will Smith ha dato uno schiaffo al presentatore Chris Rock durante la notte degli Oscar, immaginatevi la reazione che una storia come quella di Swift - per quanto chiaramente satirica - potrebbe suscitare. Come minimo il bando da ogni consesso pubblico e la flagellazione mediatica a mezzo social.

E quindi siamo al punto che i comici inglesi hanno stilato una Carta dei Diritti del Comico per evitare di venire messi alla gogna e per proteggersi da eventuali ripercussioni delle loro battute - vedi schiaffi o aggressioni o molestie - da parte di un pubblico sempre più intransigente e violento. L'ha presentata il sindacato britannico delle arti dello spettacolo Equity all'Edinburgh Fringe Festival e non sembra il frutto dell'umorismo inglese ma di una preoccupazione reale per l'incolumità, anche fisica, degli attori.

La Carta invita i teatri che ospitano gli show ad attenersi ad alcuni comportamenti. 1) Postare chiaramente sui loro siti web che in caso di offese o intemperanze, il molestatore verrà portato fuori senza rimborso del biglietto 2) Fornire agli attori informazioni su trasporti pubblici sicuri e scortarli a casa 3). Fornire luoghi sicuri nella sede degli spettacoli. C'è poco da ridere, se siamo a questo punto.

Ma in effetti il comico dovrebbe essere inserito nella lista dei lavori ad alto rischio, visti i recenti episodi. A maggio il comico Dave Chappelle è stato aggredito a Los Angeles sul palco dello lo show Netflix is a Joke da un uomo armato di pistola finta che conteneva un coltello. Chappelle è finito nel mirino della comunità Lgbtq+ per le sue battute anti trans, anti gay e misogine di The Closer.

Simile scena durante un'esibizione dell'attrice inglese Dani Johns: un uomo le è saltato addosso e l'ha presa per i capelli. Suo commento: «Dopo la pandemia la gente è fuori, gli spettatori non sanno più come ci si comporta». 

Peggio è finita per Terry Gilliam, 81 anni. Il teatro londinese Old Vic ha cancellato il suo spettacolo Into the Woods dopo che la leggenda dei Monty Phyton ha appoggiato Dave Chappelle su Fb («per me è il più grande cabarettista vivente») esortando la gente a guardare il suo spettacolo su Netflix. Gilliam ha risposto per le rime: Neo calvinisti, una minoranza che ha solo una verità e un modo di guardare il mondo. La mia riposta è: vaffanculo.

Poi ha peggiorato la sua situazione facendo commenti su diritti dei trans, definendosi una lesbica nera e ha detto che il #Metoo è una «caccia alle streghe». Ma il campione di tutti i comici scorretti è anche il più geniale. Ricky Gervais, dall'umorismo spiazzante di The Office a quello macabro e dolce di After Life, sembra divertirsi a provocare. In SuperNature, il suo ultimo spettacolo su Netflix, caustico e spietato come il solito, ha attaccato i trans, con battute sui bagni delle donne e donne con il pene. Stralci: «Le donne all'antica, quella con l'utero», ha detto. Mentre «le nuove hanno la barba e i caz*i». Vi lascio immaginare le reazioni.

Ma proprio il comico inglese in un tweet di pochi giorni fa ha annunciato che SuperNature è stato nominato il miglior Stand Up da The Hollywood Critics Association e che è stato anche il più visto su Netflix. Quindi forse non tutto è perduto. Forse l'eccesso di politicamente corretto non ha ancora ucciso la satira. Gervais è comicità allo stato puro, scorrettissima e cattiva. Quasi quanto Jonathan Swift.

La "black list" dei libri: le università inglesi rinunciano ai capolavori. Mille titoli esclusi: offensivi, cruenti, diretti Depennati pure Shakespeare e Agatha Christie. Erica Orsini l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.

Londra - Un libro parla troppo esplicitamente della schiavitù? Meglio evitarlo. Un altro affronta il tema del suicidio? Magari se ne trova uno meno impegnativo. Ci sono persino William Shakespeare, Jane Austen, Charlotte Brontë, Charles Dickens e Agatha Christie tra gli scrittori che 140 università britanniche ritengono autori di testi «pericolosi» per gli studenti, tanto da depennarli dalle varie liste di lettura consigliate dei corsi di letteratura o almeno da renderli facoltativi per gli studenti che potessero ritenersi offesi dal loro contenuto o troppo emotivi per affrontare un simile percorso formativo.

È quanto ha scoperto il quotidiano Times in seguito ad una difficile inchiesta investigativa che ha portato alla luce risultati sconcertanti. Dopo aver mandato quasi 300 richieste ufficiali a 140 università del Paese sui libri di testo che sono stati rimossi dalle liste di lettura, due atenei, quello dell'Essex e del Sussex, hanno ammesso di aver messo tolto determinati testi per timore che potessero essere offensivi per gli allievi. Altre otto, incluse quelle Warwick, Exeter e Glasgow non li hanno banditi, ma trasformati in letture opzionali «per proteggere il benessere degli studenti». Già in passato alcuni atenei erano stati molto criticati per aver messo in guardia i loro iscritti dalla lettura di alcuni libri e sempre il Times ha trovato più di un migliaio di esempi da citare nei vari corsi per laureandi, sebbene il quotidiano abbia avuto molti ostacoli in quest'inchiesta. Le autorità accademiche hanno tentato di bloccarla in ogni modo - affermano al Times - per esempio invitando sui social media i docenti a non rispondere alle richieste presentate dai giornalisti. «Alcune università- racconta l'articolo - non hanno voluto fornire alcuna informazione per paura che queste avessero un impatto negativo sul personale universitario». Timore fondato in realtà, poiché apprendere che The Underground Railroad, il racconto di Colson Whitehead, vincitore del Premio Pulitzer, viene considerato pericoloso per la sua descrizione troppo incisiva della schiavitù americana, da effettivamente da pensare. «Un tentativo fatuo, paternalistico e profondamente razzista», l'ha definito Trevor Phillips, presidente di Index on Censorship, un gruppo contro la censura che ritiene la politica messa in atto dagli atenei parte di «un'ondata più ampia di censura esistente nei campus britannici». Una strategia che affonda le sue radici in quella «cancel culture» che, soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, tende ad azzerare la storia passata nel momento in cui diventa socialmente inaccettabile in tempi attuali. «Ma è importante che le università non dimentichino la storia, anche se risulta scomoda», ha commentato il ministro all'Istruzione James Cleverly, secondo il quale «le persone devono capire gli orrori accaduti in passato, i cambiamenti che ne sono derivati, come le cose sono migliorate e quali miglioramenti devono essere ancora fatti». «Ma se si tenta costantemente di nascondere o cancellare gli accadimenti storici, allora è veramente difficile anche comprendere i tanti progressi che sono avvenuti», ha sottolineato. Il ministro si è detto convinto che gli atenei abbiano «il dovere di proteggere la salute mentale dei propri studenti, ma allo stesso tempo hanno il dovere di aiutarli a mettersi alla prova, a capire il mondo così com'è e non solo come vorrebbero che fosse».

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 9 agosto 2022.

Attenzione, il telescopio Webb, quello che sta riscrivendo la storia dell'astronomia, ha un difetto: è omofobo. Negli Stati Uniti c'è una polemica, che si trascina dal 2021, contro il più raffinato strumento mai lanciato nello spazio dalla Nasa. Oltre millesettecento ricercatori hanno chiesto di cambiare il nome al telescopio che, proprio di recente, è riuscito a fotografare le galassie più antiche e dunque i momenti successivi al Big Bang. Le immagini sono finite sulle prime pagine e nei telegiornali di tutto il mondo. 

Secondo gli estensori dell'appello di protesta, James Webb avrebbe partecipato alla discriminazione delle minoranze LGBTQ+ nel campo della astronomia, in particolare alla NASA. Webb è stato il secondo capo della agenzia spaziale americana. Sotto la sua guida, sono state realizzate molte delle missioni Apollo degli anni Sessanta. Lasciò nel 1968, appena prima della discesa sulla Luna.

Di fatto ebbe un ruolo chiave nel rimediare al ritardo tecnologico della agenzia e nel battere i sovietici nella corsa al satellite della Terra. La polemica contro Webb è ora nuovamente decollata sulla scia dei successi del telescopio da 10 miliardi «erede» dell'altrettanto famoso Hubble. 

Webb è accusato di aver avuto un ruolo nella persecuzione degli omosessuali nella pubblica amministrazione durante gli anni Cinquanta e Sessanta. Il fenomeno fu parallelo al maccartismo, la caccia alle streghe (comuniste) nel mondo dello spettacolo e della cultura.

Non fu una campagna priva di conseguenze: molti omosessuali furono costretti ad abbandonare il posto di lavoro. Nel 1963, mentre Webb era a capo della agenzia, Clifford Norton, impiegato della Nasa, fu licenziato per «condotta immorale» dopo essere stato interrogato in quanto sospetto gay. In seguito, fece causa e vinse. Documenti interni alla Nasa, saltati fuori nel corso di una inchiesta, hanno messo in luce la politica anti-omosessuale nelle assunzioni dell'agenzia. 

Webb, dicono i detrattori, non fece nulla per eliminare questa discriminazione. A detta della Nasa, però, James Webb, che fu anche sottosegretario di Stato tra il 1949 e il 1952, non c'entra nulla: «Non abbiamo trovato alcuna prova che possa giustificare il cambiamento di nome del telescopio Webb». Parola di Bill Nelson, numero uno della agenzia, interpellato nel settembre dell'anno scorso.

Al di là della pretesa di cancellare il nome, il tema è più dibattuto di quanto si possa pensare. Ad esempio, è finito anche al centro di For All Mankind, una delle migliori serie tv di fantascienza, ancora in corso su Apple TV. Ambientata in un futuro alternativo, ma non troppo dissimile al nostro, racconta la corsa alla Luna, prima, e quella a Marte, dopo. Proprio la conquista dello spazio porta a superare discriminazione sessuale, razziale e di genere.

Una serie politicamente corretta (però di spessore) che vorrebbe mostrare l'avanzata in parallelo di progresso tecnologico e progresso sociale. Chiaro il sottinteso: non è andata così. Lo spazio è l'ultima frontiera della cultura woke.

La satira che a sinistra non ci vogliono far vedere. Emanuele Beluffi su Culturaidentita.it l'8 Agosto 2022

Eppure oggi la satira, di materiale, ne avrebbe in sovrabbondanza. Più che in passato. Eppure latita. O meglio, la troviamo nelle riserve che il famigerato politicamente corretto, anche se ormai questa espressione ci ha rotto le balle, ha lasciato agibili. Una volta Enrico Beruschi si pittava la faccia di nero per interpretare nel glorioso Drive In di Antonio Ricci il personaggio di Beruscao: quegli sketch con Margherita Fumero erano stati di un successo strepitoso e nessuno si sentiva offeso o pensava che qualche presunta minoranza oppressa potesse sentirsi offesa. Oggi non glieli farebbero fare, lo crocifiggerebbero con lo stigma del razzista. Ve lo ricordate il regista olandese Theo Van Ghog che aveva osato satireggiare su Maometto? I mozzorecchi islamisti lo ammazzarono. E i giornalisti di Charlie Hebdo? Idem, potevano prendersela solo con Gesù e con gli italiani.

La satira oggi è morta? Di sicuro anche noi non è che stiamo tanto bene. Eppure certe uscite sulle “zone di sicurezza” a tutela di minoranze che non hanno chiesto di essere difese si presterebbero assai. Anche le assurdità gravi e ridicole della cultura della cancellazione sono compatibilissime con la satira, la cretineria abbonda. Eppure la mordacchia c’è e bella stretta, spesso e volentieri magari te la autoimponi per evitare scocciature se non peggio.

Del resto, in Italia da sempre chi va controcorrente prima o poi paga a caro prezzo la volontà di pensare con la propria testa, vedi Giovannino Guareschi, giornalista, disegnatore satirico, scrittore, papà del Candido (a proposito, se andate a Roncole trovate ancora il suo bar, quello che aprì quando lo fecero uscire di prigione, lo stesso dove il grande Montanelli lo incontrò per quella straordinaria intervista: sui tavoli, sotto vetro, ci sono le pagine del suo Candido e le sue vignette). 

Per tutte queste ragioni non possiamo che accogliere come una ventata di ossigeno l’uscita del libro Politically scorrect. Le vignette, la satira e l’eresia di Alessio Di Mauro (I libri del Borghese, Pagine editore, 2022, prefazione di Ottavio Cappellani): «Roba da ridere, direte voi. Manco per sogno! Perché, parafrasando un genio politically scorrect come Flaiano, quando niente si fa sul serio guai ad avere l’aria di chi vuol scherzare», come scrive l’autore. La lettura di questo libro è una cosa che oggi va fatta di nascosto come La filosofia nel boudoir di De Sade. Oppure, in un atto eroico di immolazione, da esibirne la lettura sotto l’ombrellone. Perché ci vuol coraggio: «Magari leggetelo, se siete abbastanza forti di stomaco, ma poi bruciatelo immediatamente senza lasciarne traccia».

Questa raccolta ragionata di vignette e articoli satirici, apparsi nell’ultimo quindicennio su diverse testate nazionali è l’ultima sigaretta, il tentativo di ridere ancora di quel poco che resta delle vecchie categorie perdute e del nulla che oggi avanza e che passa il convento. 

«Tempi in cui bisogna stare attenti a non offendere la sensibilità di chi è diverso, ma dove ogni differenza viene asfaltata in nome di un globalismo senza confini. Tempi in cui i neri non possono più essere chiamati tali, però possono essere mandati a pedalare giornate intere come schiavi (senza diritti né malattie pagate) per garantire, a quelli che si indignano per la schiavitù di romana memoria, la cenetta bio che salvaguarda l’equilibrio del pianeta».

Nemo propheta in patria, verrebbe da dire. E quindi facciamoci una risata e seppelliamo gli indignati speciali per le goliardate tipo la “Gara di mangiatrici di banane” della Festa degli uomini. Facciamocela ‘sta risata finché ce lo permettono, prima che magari ci facciano uscire coi piedi in avanti dopo la succitata sigaretta.

Michele Serra per “la Repubblica” il 4 agosto 2022.

A Monteprato di Nimis, Friuli profondo, da anni si svolge una festa fallica, nata dopo il terremoto del '76. Non è elegante (nemmeno i fescennini lo erano, né i culti priapici) ma ha una sua sguaiata innocenza, con processioni di falli megalitici, molte banane, molto fracasso e la evidente partnership di Dioniso, che è il solo vero patrono del Friuli, con Priapo ha un'intesa millenaria e annaffia la notte con il nettare d'uva. 

Molte le donne presenti, apparentemente non offese né costrette a divertirsi senza essere divertite: rende bene l'idea il breve ma intenso reportage video di Simone Modugno sul sito di Repubblica. 

Si chiama Festa degli Uomini, non la inserirei tra le mie mete turistiche preferite ma è importante parlarne perché, con tutti i problemi che abbiamo (compresi i problemi con il maschile, il patriarcato eccetera), vale la pena evitare gli equivoci, che sono sempre fatica sprecata. Molte e molti, sapendo che in quella festa c'è anche un torneo di mangiatrici di banane, esplicita allusione alla fellatio, hanno giudicato inaccettabile e umiliante la cosa, anzi il coso.

Credo che tanta indignazione sia mal riposta. Intanto perché il tutto avviene tra adulti consenzienti, e questa è sempre una regola aurea. Poi perché la volgarità non è un reato, altrimenti bisognerebbe oscurare una buona metà dei palinsesti televisivi mondiali. Infine, e soprattutto, perché levate di scudi come questa rafforzano il sospetto che lo scandalo, oggi come ieri come sempre, sia il sesso in sé e per sé. Vale sempre la pena ribadire, con la necessaria brutalità, che sono molto più osceni i missili dei cazzi. La raffigurazione odiosa della fallocrazia non è la banana, è il missile.

Michele Serra difende la Gara di mangiatrici di banane, mentre le femministe sono attaccate sui social. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 04 agosto 2022

La gara con le donne in ginocchio a mangiare banane per una busta con 100 euro si è svolta, ma le polemiche continuano. Per Serra c’è ben altro di peggio: «I missili». Sotto il post di Laura Boldrini contro la gara la colpa viene data alle donne. Le promotrici della petizione per fermarla chiedono di immaginare «una produzione culturale alternativa». «Potevamo farci i fatti nostri, ma il messaggio è machista, e abbiamo diritto di critica»

La Gara di mangiatrici di banane a Monteprato di Nimis, in provincia di Udine, alla fine si è svolta: le donne, in occasione della “Festa degli uomini”, il 2 agosto si sono inginocchiate di fronte alle banane tenute ad altezza cintura dagli uomini. In palio, ha spiegato il presentatore, una busta con cento euro alla vincitrice, rigorosamente scelta da una giuria maschile. Il dibattito se questo sia giusto o no continua. Michele Serra, editorialista di Repubblica, reputa che «non sia elegante» ma c’è ben altro di più grave: «I missili».

Nel frattempo le femministe si difendono dagli attacchi social, visto che sotto i post, a partire da quello di Laura Boldrini contraria alla gara, sono partite le critiche alle donne, a chi biasimava la festa e alla fine anche personali alla deputata. Tuttavia Boldrini specifica: «Su 1.300 qualcuno negativo ci può essere, ma la maggior parte dei commenti dimostra indignazione nei confronti della manifestazione».

I SOCIAL

Le promotrici della petizione contro la festa, Valentina Moro ed Elena Tuan si aspettavano che insieme all’appoggio sarebbero nate le critiche e hanno deciso di bloccare i commenti sui social: «Non avremmo avuto tempo per moderarli», spiegano. Hanno divulgato un comunicato: «In quanto organizzatrici della petizione prendiamo fortemente le distanze da ogni strumentalizzazione della stessa, in particolare quando si traduce in attacco contro i corpi delle donne e contro l'autodeterminazione dei desideri».

Per molti, spiega Moro, dopo l’invito al boicottaggio da parte della regione, «il punto non è più l’iniziativa, sono diventate le donne che hanno deciso liberamente di partecipare, tanto che il presentatore ha ripetuto che era una loro libera scelta prima di far partire la competizione».

LA DIFESA DI SERRA 

La festa è nata degli anni Settanta, ma da allora molte cose sono cambiate. La Commissione pari opportunità della Regione ha segnalato alla vigilia della competizione che la manifestazione è profondamente scesa di livello e ha chiesto agli organizzatori di smetterla di portarla avanti. L’appello è stato inascoltato.

L’editorialista di Repubblica Michele Serra ribatte ironizzando: «Non è elegante (nemmeno i fescennini lo erano, né i culti priapici) ma ha una sua sguaiata innocenza, con processioni di falli megalitici, molte banane, molto fracasso e la evidente partnership di Dioniso, che è il solo vero patrono del Friuli, con Priapo ha un'intesa millenaria e annaffia la notte con il nettare d'uva».

Anche lui si appella all’adesione volontaria: «Molte le donne presenti, apparentemente non offese né costrette a divertirsi senza essere divertite». Per Serra a causare la reazione sarebbe stata «l’esplicita allusione alla fellatio, hanno giudicato inaccettabile e umiliante la cosa, anzi il coso».

Né le promotrici della petizione, né la Commissione pari opportunità del Friuli tuttavia hanno mai parlato di questo, ma del fatto che le immagini della gara «mortificano e infieriscono sul sacrosanto diritto delle donne a non essere continuamente soggette a violenza, nonché ridicolizzate e banalizzate». 

DONNE E BANANE

Moro aggiunge che non è chiaro cosa c’entrino le banane del 2022 con i culti nati circa tre secoli prima di Cristo: «Qua parliamo del 1970, non abbiamo un culto dionisiaco, non mi risultano templi. Noi non capiamo come una festa legata al piacere lo interpreti in maniera unidirezionale. Potevamo farci i fatti nostri, ma quel messaggio lì stava circolando, e abbiamo diritto di critica».

Da quando hanno lanciato la loro petizione per fermare la gara, sono state raccolte 3.600 firme. Anche l’attivista egiziano Patrick Zaki ha firmato e ha chiesto di firmare. Il problema non è più solo la gara, aggiunge la promotrice: «L’altra questione è mettere l’accento su quello che riteniamo importante. La veicolazione di questi messaggi», a partire dall’opportunità di una locandina con una donna in costume da bagno che addenta una banana fino ai video delle partecipanti che mimano rapporti orali in mezzo a una folla festante.

Serra si preoccupa della rappresentazione del maschio, al punto da scrivere: «Vale sempre la pena ribadire, con la necessaria brutalità, che sono molto più osceni i missili dei cazzi. La raffigurazione odiosa della fallocrazia non è la banana, è il missile»

Ma chi si oppone non ha problemi con la frutta o con “i cazzi”. La festa ha previsto spettacoli di burlesque e una competizione maschile, ma ben diversa: «L’uomo che si mette in gioco per diventare “mister” è un conto, per la donna il desiderio che risponde al piacere legato al fallo ritorna a essere sempre la solita immagine eteronormativa». Adesso «si apre uno spazio di confronto per immaginare delle produzioni culturali diverse».

Su questo non molleranno, spiega Moro: «Riteniamo che sia importante: non la sospensione della gara, ma come noi abitiamo il territorio. Abbiamo provato a farlo da un punto di vista femminista». Sulla festa invece non ha dubbi: «Ricalca un punto di vista maschilista. I video e le informazioni che ci sono giunte non ci propongono un’immagine diversa. Dalla locandina con il messaggio machista, ai video di donne inginocchiate e bendate».

Da “il Venerdì – la Repubblica” il 22 agosto 2022.

Gentile Michele Serra, le scrivo a nome di tutte le volontarie del Telefono Rosa, dopo aver letto con attenzione la sua Amaca del 4 agosto "Le banane e i missili". Ha scelto di mettere in evidenza la goliardia della festa, avvenuta in Friuli, definendola «poco elegante ma con una sua sguaiata innocenza». Magari il problema fosse l'eleganza.

Cita i fescennini e i culti priapici, ma non fa altro che aumentare la confusione. I fescennini erano dialoghi sboccati che il popolo, soprattutto i contadini, rivolgevano ai novelli sposi.

Una tradizione certamente discutibile che è però preludio della nostra satira. Venivano infatti scherniti anche politici e aristocratici. Gli insulti o le frasi volgari, come preferisce, erano rivolte a tutti: uomini e donne. Nessuno escluso. Nella festa degli uomini, tralascio il titolo che la dice lunga, sono unicamente le donne le "addette a mangiare banane". Come mai nessun uomo si è prestato, mettendo in piazza la propria libertà sessuale?

Per l'ennesima volta l'ironia o goliardia vede come protagonista la donna, con esplicita allusione alla fellatio. Il cunnilingus non fa ridere?

Rispetto invece ai culti priapici, che dire: per fortuna siamo andati avanti, o almeno lo speravo. Riporto la mia dichiarazione rilasciata all'Ansa: «La giunta comunale e il sindaco dove sono? Non ci sono donne nella giunta comunale? Ai ragazzi che messaggio diamo? Un messaggio devastante, è assurdo farla passare come una festa». Lei ha ragione rispetto ai missili e alla guerra, ma mi creda, la cultura fa danni altrettanto enormi.

Quella festa è l'ennesima rappresentazione di una cultura della quale non riusciamo a liberarci, una cultura maschilista e patriarcale che vede la donna come un oggetto.

La pubblicità e il marketing non ne sono ancora privi nonostante le battaglie fatte, e oggi, nel 2022, vediamo un bel cartellone con una donna in costume e una banana con sopra scritto: "In occasione della festa degli uomini, gara di mangiatrici di banane".

Ultimo punto, è quello che tali feste possono scatenare. Tanti potrebbero arrogarsi il diritto di essere volgari, come se la volgarità andasse di moda. 

Proprio dopo la goliardica rimpatriata un signore ha ben pensato di insultare me, e quindi tutta l'associazione, attraverso varie mail. Se davvero ci fosse la libertà sessuale, di cui tanto ci piace parlare, non si sarebbe proposto un modello stereotipato della donna. Ma questa purtroppo è una vecchia storia e, se vogliamo giustificarla con il fatto che a partecipare siano stati adulti consenzienti, c'è ancora tantissima strada da fare.

Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente dell’Associazione Nazionale Volontarie del Telefono Rosa

Risposta di Michele Serra:

Gentile Maria Gabriella Carnieri, e gentili volontarie del Telefono Rosa. L'argomento è così importante, e così centrale, che forse è stato spericolato il tentativo di affrontarlo in uno scritto breve come l'Amaca. Ma dopo la vostra lettera mi sono riletto e non ho cambiato opinione. Posso però cercare di spiegarmi meglio, con più spazio a disposizione.

Nessun dubbio che la goliardia sia volgare, né che sia, da quando esiste, una "disciplina" maschile, alle quali le femmine sono ammesse solo come gregarie. Sono pienamente d'accordo anche sul fatto che nessuna espressione culturale, comprese le più popolari o le più spensierate, sia senza conseguenze. Ogni nostra parola, ogni nostro comportamento incidono nel discorso collettivo.

Ma lo sdegno - sentimento molto abusato, ultimamente - deve essere proporzionale allo scandalo; e, quanto a persistenza del maschilismo, mi preoccupa assai di più - per fare l'esempio più evidente - che la parte politica per la quale voto, la sinistra, sia stata capace di mettere in campo, negli ultimi anni, solamente leader maschi, con l'eccezione, antica e appartata, di Emma Bonino; o che ci sia disparità di salario tra uomini e donne.

Mi preoccupa assai meno (anzi, quasi per nulla) che un gruppo di buontemponi porti in processione enormi falli, o celebri la fellatio con esplicita trivialità: l'intenzione, per quanto l'esito sia discutibile, è comico-satirica (per questo ho tirato in ballo i fescennini), e la satira abbonda di cadute di stile. Dal Vernacoliere a Charlie Hebdo gli atti sessuali, dal coito alla sodomia alle pratiche, diciamo così, collaterali, sono pane quotidiano, arma di derisione, oggetto di scherno e di beffa.

Decisivo, sempre, è il contesto. Se il New York Times o Le Monde pubblicassero in prima pagina una fellatio, tutti sgranerebbero gli occhi chiedendosi se il direttore è uscito di senno. Se lo fa un giornalaccio di satira credo che nessuno si scandalizzi, al massimo si scelgono altre letture. Il mio timore è che il concetto stesso di "contesto", che è decisivo per stabilire di che cosa si sta davvero parlando, sia agonizzante, per non dire estinto.

Le parole e gli atti delle persone circolano sulle reti sociali (e di rimbalzo sui media tradizionali, gravemente gregari di ogni tweet) estirpati dal loro contesto. In un magma indistinto e infetto, che non costruisce senso critico, costruisce solo facile polemica. In aggiunta a questa perdita di lucidità del giudizio pubblico, o forse in conseguenza di essa, ho le netta sensazione che si stiano incrociando e confondendo i destini di due campi ideali ben diversi: la battaglia contro il patriarcato è il primo campo, la sessuofobia il secondo. Del primo mi sento partecipe, del secondo no. 

Quando il movimento #MeToo assunse il suo giusto rilievo mondiale, un documento di donne francesi, che conservo tra gli indizi d'epoca più significativi, mise in guardia sulla possibile confusione tra una battaglia sacrosanta, quella contro gli abusi sessuali, e la diffidenza nei confronti dell'eros, che ha manifestazioni molteplici, non tutte eleganti e virtuose. 

La Francia, si sa, è più libertina, e la strage di Charlie Hebdo («vecchi sporcaccioni massacrati da giovani bigotti» fu la mia definizione di quell'abominevole atto) è stata uno dei prezzi pagati. Almeno un paio di quei vecchi sporcaccioni erano miei amici. La mia generazione, tra tanti difetti, ebbe il pregio di credere quasi ciecamente nella libertà, compresa la libertà sessuale, e "fate l'amore non la guerra" è uno degli slogan più umani e più rivoluzionari di sempre. Per questo ho scritto che il missile è molto più osceno della banana.

E dunque, gentili amiche, accetto il vostro invito a essere meno concessivo con la volgarità sessuale, che coincide quasi sempre con la volgarità maschile. Ma in cambio vi chiedo di riflettere sul rischio che un nuovo moralismo prenda piede, e pieghi parole e comportamenti a una specie di continua autocensura. Il concetto di limite mi è ben chiaro, e ben caro, ma ci sono troppi tribunali del popolo in attività permanente, pronti a censurare, stroncare, maledire.

La repressione e l'autocensura non sono veicoli di coscienza, tantomeno di liberazione. Rientrano in questo contesto le disgustose mail che avete ricevuto. Non dovete dare troppo peso allo squallore e alla violenza di quelle voci, gli insulti e le minacce, in rete, sono un oceano putrido sul quale dobbiamo navigare sereni e guardando più in là. Tenete la vostra rotta e non curatevi degli imbecilli. Quanto a me, sono contento di avere dedicato una intera rubrica della posta a un tema così importante.

Diana Alfieri per “il Giornale” il 28 luglio 2022.

La campagna elettorale è, di fatto, già iniziata con i fuochi d'artificio. E non si perde occasione per fare bagarre neppure nelle sedi delle istituzioni. Da queste colonne abbiamo sempre difeso, senza dubbio alcuno, i diritti delle donne. Ma, allo stesso modo, abbiamo sottolineato quanto sia ipocrita e inutile la battaglia lessicale che pensa che basti storpiare una parola al femminile per percorre giganteschi passi nel cammino della parità di genere. 

Quindi sindaca, presidente e direttora sono solo uno schiaffo alla lingua italiana e al buon senso. Nulla di più. Ma anche l'ossessione di raddoppiare i generi - come in questo caso - è più che altro una battaglia di parole. Le quali, come si sa, sono importantissime, ma non quanto i fatti. E quelli, purtroppo, nella parità tra i due sessi troppo spesso ancora mancano. Ieri una piccola crociata delle parole si è arenata, con un certo clamore e non poche polemiche, proprio nei palazzi del potere. 

Il Senato, infatti, ha respinto l'emendamento della senatrice del M5s Alessandra Maiorino, che prevedeva l'introduzione del linguaggio inclusivo in tutte le comunicazioni di Palazzo Madama. Nulla di fatto. La proposta ha ottenuto solo 152 voti favorevoli, 60 contrari e 16 astenuti, senza raggiungere la maggioranza assoluta richiesta per approvare l'emendamento.

Vediamo cosa proponeva l'illuminatissimo, ma sfortunatissimo, testo della Maiorino: «Il Consiglio di presidenza stabilisce i criteri generali affinché nella comunicazione istituzionale e nell'attività dell'amministrazione sia assicurato il rispetto della distinzione di genere nel linguaggio attraverso l'adozione di formule e terminologie che prevedano la presenza di ambedue i generi attraverso le relative distinzioni morfologiche, ovvero evitando l'utilizzo di un unico genere nell'identificazione di funzioni e ruoli, nel rispetto del principio della parità tra uomini e donne». 

 Questioni di lana caprina. Niente di particolarmente sconvolgente, ma tuttavia abbastanza per scatenare l'ira funesta della sinistra nei confronti del centrodestra e per tirare fuori ancora una volta la clava del maschilismo. 

La prima a salire sulle barricate è stata Laura Boldrini: «Perché la destra ha paura di declinare al femminile i ruoli istituzionali delle donne? - ha attaccato l'ex presidente della Camera -. Perché al Senato Fratelli d'Italia ha chiesto il voto segreto sull'emendamento che prevedeva la possibilità di introdurre la differenza di genere nella comunicazione istituzionale scritta? Perché vuole cancellare i traguardi delle donne, usando anche il linguaggio».

A stretto giro di posta arriva anche la replica di Monica Cirinnà, che nella sconfitta in Senato scorge i cattivi presagi di un futuro imminente: «Se questo è l'anticipo del nuovo Parlamento, abbiamo un motivo in più per lottare con forza». Si accodano le parlamentari pentastellate che puntano il dito contro «l'evidente misoginia di chi ha votato contro rifiutando l'utilizzo del femminile e confermando così l'imposizione del solo maschile».

Lucio Malan, invece, spiega la posizione di Fdi: «Ci siamo astenuti sull'emendamento sul cosiddetto linguaggio di genere perché riteniamo che l'evoluzione del linguaggio non si faccia per legge o per regolamento. Imporre che in tutti i documenti del Senato si debba scrivere, ad esempio, non più i senatori presenti ma i senatori e le senatrici presenti, ha davvero poco senso». Tutto abbastanza logico, ma tutto buono per fare polemica elettorale. 

Miliardari from the block. Il sesso spaziale di Musk, il cognome patriarcale di J-Lo e le apparenze che ingannano. Guia Soncini su Linkiesta il 27 Luglio 2022.

I giornali temono di non apparire abbastanza inclusivi e per evitare di farsi dare di sessisti giudicano la scelta di una delle più grandi star globali come un segnale del cedimento ancillare della società

Le apparenze ingannano, il che è sconcertante nell’epoca in cui crediamo di conoscere qualcuno perché ne abbiamo visto la versione social. Oppure: alle apparenze non diamo abbastanza retta, saperlalunghisti come siamo, convinti che le cose non stiano mica così. Così come? Così.

Quattro giorni fa, il New York Times pubblica l’editoriale d’una scrittrice, Jennifer Weiner, su un dettaglio della comunicazione coniugale di Jennifer già Lopez: la signora si firma Affleck, avendo come molte donne americane preso il cognome del marito.

Molte ma non lei, ci spiega eroica l’editorialista, che in due matrimoni non ha mai cambiato cognome nonostante il suo, ripete varie volte, sia orribile (“weiner”, il salsicciotto, era gergo per quel che immaginate anche prima che, in un capolavoro di sceneggiatura, un politico che si chiamava Anthony Weiner si sputtanasse la carriera per la compulsione di mandare in giro foto del salsicciotto).

Lei, eroica, non ha ceduto al patriarcato, non come Jennifer già Lopez, che manda un messaggio di sottomissione. Un messaggio di sottomissione. Jenny from the block. Con quel piglio. Con quella carriera. Con quel patrimonio. Soprattutto, con quel culo.

Facciamo uno sforzo d’immaginazione. Torniamo all’estate dei miei dodici anni. Immaginiamo che nell’agosto dell’85 ci siano i social, e Madonna li usi per annunciare che prenderà il cognome (non che ne abbia mai usato uno, ma vi ho detto di fare uno sforzo) del tizio che s’è appena sposata, Sean Penn. Immaginiamo che una scrittrice proponga al New York Times un editoriale su Madonna ancella del patriarcato. Immaginiamo come le avrebbero riso in faccia.

È perché nel Novecento i grandi giornali erano luoghi seri, e ora posti che pubblicano cani, porci, e Soncini? Forse. Ma temo sia anche perché ormai vale tutto. Così come i talk-show danno dignità di rappresentanza ai picchiatelli che diffidano dei vaccini o del governo o della forza di gravità, i giornali sono terrorizzati di non sembrare abbastanza inclusivi. Mica ci sarà un movimento femminista preoccupato dai cognomi delle mogli? Mica ci diranno che siamo dalla parte dei maschi abusanti (scusate il calco) del Racconto dell’Ancella? Mica se le rifiutiamo questo splendido editoriale questa andrà in giro a dire che siamo sessisti?

Quante divisioni ha il Papa, quanti follower ha l’editorialista scarsa. (Centosessantamila, nella fattispecie: ho visto giornali tremebondi per numeri più piccoli). Possiamo permetterci d’inimicarci le cinquantenni nostalgiche d’un vecchio amore che vedono nel matrimonio tra lei e Affleck che s’erano lasciati due decenni prima una speranza di lieto fine? Forse sì, commissioniamo a Jennifer Salsicciotto il pezzo su Jennifer Miriano, dai.

Mentre il New York Times scriveva di Jennifer più sottomessa di Costanza Miriano, il Financial Times raccontava la stupendissima (stupendissima anche se non è vera, anzi di più) storia di Elon Musk (quello di Tesla, o di Twitter, o dei figli coi nomi fatti di numeri e consonanti) che chiedeva perdono in ginocchio a Sergej Brin (quello di Google) per avergli scopato la moglie.

Non sembrava inverosimile a nessuno: sono anni che tutti ci chiediamo come faccia Musk – uno di cui ogni sei mesi spunta fuori un figlio più o meno segreto, una fidanzata più o meno ufficiale – a trovare il tempo di dirigere tutte quelle aziende, tentare di scalare Twitter, fare lo spiritoso in 280 caratteri. Nell’impeccabile sintesi che ne ha fatto ieri Natalia Aspesi su Repubblica, «l’irrefrenabile imprenditore che non si sa quando lavori preferendo giustamente fare l’amore di qua e di là. Tanto da aver messo al mondo una decina di piccini con varie ragazze imprenditrici del loro futuro». («Imprenditrici del loro futuro» il New York Times mi sa che gliel’avrebbe cassata).

Naturalmente la risposta weineriamente corretta a questa domanda è: è perché il lavoro di cura è lasciato alle donne, Musk può riprodursi come un coniglio e non dedicare neanche un minuto a un pannolino (a occhio neanche le madri dei suoi figli: stai a vedere che mi riproduco con Elon Musk e i pannolini non li cambiano le governanti). Ma la domanda non è «dove trova il tempo di star coi figli», è: dove trova il tempo di copulare? Ci vorrà un minimo di corteggiamento, due cene, due brillocchi, ai miliardari la si dà più in fretta ma son comunque ore di nullafacenza da dedicare alla pratica. (Naturalmente uso «darla» perché sono della scuola Jenny from the block di sottomissione).

Poi ieri Elon Musk ha fatto una serie di tweet uno più mesto dell’altro. Dice che non è vero niente, che lui e Sergej sono amici e la sera prima erano a una festa insieme, che la moglie di lui l’ha vista due volte in croce e sempre in pubblico. È una vita che non scopo, conclude come un qualsiasi impiegato cui non sia bastato investire la tredicesima in rose mezze morte.

E quindi la morale qual è? Che le apparenze ogni tanto ingannano e ogni tanto bisognerebbe dar loro più retta, e che i soldi non ingannano quasi mai, è sempre bene seguirli (se siete della scuola semantica di Woodward e Bernstein) e pensare a loro innanzitutto (se siete della scuola del padre di Mahmood).

Domenica sul Times di Londra c’era un’interessante ricostruzione di come Jennifer Lopez sia perfettamente consapevole d’essere una macchina da soldi, e non solo perché lo diceva in quei versi di vent’anni fa («non fatevi ingannare dai brillocchi, sono ancora Jenny dei quartieri, avevo poco e adesso ho molto»). Quando ha deciso di lanciare una sua linea d’abbigliamento, ha incassato trecento milioni di dollari in un anno. Sono meno di quelli che incassa in un giorno Elon Musk, certo. Però, qualunque sia il suo cognome, Jennifer ha ancora tempo di scopare.

Lagnosi di tutto il mondo, sdoganatevi! La suscettibilità di Brunetta, il corpo di Calenda e il vittimismo social militante. Guia Soncini su L'Inkiesta il 26 Luglio 2022.

Va ancora di moda sentirsi discriminati per qualsiasi cosa, ma arriverà il momento in cui cresceremo e smetteremo di pensare che i peli delle nostre ascelle, la nostra altezza o la forma fisica siano il centro del mondo

«Calenda assomiglia troppo ai pinguini del Madagascar. Sarà bodyshaming? Io non voglio fare bodyshaming a Calenda, però cazzo, è veramente uguale». Federica Cacciola è un’autrice comica, ieri su Instagram ha pubblicato un video sui dilemmi dell’elettrice di sinistra che non sa chi votare. Chissà se l’ha registrato prima o dopo la visione di Mezz’ora in più.

Domenica, al programma di Lucia Annunziata su Rai3 (le crisi di governo sono ottime per aggiungere puntate ai contratti dei talk-show), era ospite Renato Brunetta. Che, come tutti gli ambiziosi di questo tempo sbandato, mica vuol essere Giulio Andreotti: vuol essere Giorgia Soleri.

Giorgia Soleri è una ragazza senza particolari qualità che si è ritrovata protagonista delle homepage dei giornali italiani grazie a un combinato disposto che andrebbe studiato nelle facoltà di comunicazione.

Approfittando della visibilità che aveva come apparente fidanzata d’un cantante per adolescenti (Damiano dei Måneskin), Soleri: ha pubblicato un libro di poesie (vuoi negare il ruolo di nuova Patrizia Cavalli a una che non sa come sia strutturato un sonetto ma ha 660mila follower? Gli editori devono pur campare, e Soleri le poesie te le fa andare in classifica); è diventata testimonial su Instagram di capi d’acrilico di varie marche; si è posizionata come vittima multidisciplinare, che viene discriminata (non si sa da chi) perché non si depila le ascelle, e con cui un reparto ospedaliero fu cafone quando abortì (per le altre patologie si sa che negli ospedali son tutti amabilissimi), e che infine ha inventato l’endometriosi.

Prima di lei non era mai stata diagnosticata a nessuno, prima di lei il mondo ignorava che fosse una patologia da bestemmie plurime, prima di lei il Parlamento non se ne occupava. È tutto un complesso di occhi di bue, intesi come riflettori da cui ognuna vuol essere illuminata. La starlette che si posiziona come testimonial dell’endometriosi, la deputata che la riceve in Parlamento come se davvero fino a quel momento lo Stato avesse ignorato quella patologia (che era persino nella lista di fragilità con le quali vaccinarsi in anticipo), i giornali che sanno che i titoli che sanno di lagna saranno i più cliccati e che quel che le ventenni d’oggi vogliono sentirsi dire non è «siete fortunate, ai miei tempi se avevi l’endometriosi la diagnosi era “quante storie”», bensì «siete le più sfortunate le più vittime le più vessate della storia dell’umanità».

Ho un’amica che ogni mattina mi manda una foto di qualche sito di giornale italiano per il quale ancora una volta Soleri è una notizia. L’altroieri era «ho tentato il suicidio», e abbiamo convenuto fosse insuperabile: d’ora in poi come avrebbe fatto a diventare titolo? Siamo state ottimiste, ieri era già di nuovo titolo con un più innocuo «perché non mi depilo». Un’ascella, un suicidio: tutto fa brodo di clic.

E quindi, in un mondo in cui solo il vittimismo genera facile consenso, Brunetta domenica va dalla Annunziata – la quale, come tutti quelli che non vogliono essere Giorgia Soleri, vuol essere Barbara D’Urso – e spiega a lei e a noi tutti quanto lo faccia soffrire che Marta Fascina gli abbia dato del tappo. Non: ammazza che ficcante dialettica ha la Fascina, si vede che Hegel l’ha studiato al Bagaglino. Non: rompete tanto i coglioni con la Zan e poi quando uno è avversario politico vale tutto. No.

Renato Brunetta, 72 anni, decide di metter su l’occhio lucido e, mentre Lucia D’Urso Annunziata lo esorta a togliersi questo peso dal cuore, confessa quanto lo feriscano i commenti sulla sua altezza, ma ora ha deciso di appropriarsene (lui dice «sdoganare», perché ormai non ce n’è uno che non parli in frasifattese) e di darsi del tappo da solo, e quindi grazie Marta, che mi hai fatto venir voglia di darmi del tappo prima che me lo diano gli altri, che magnifica storia di empowerment (Brunetta non dice «empowerment», perché c’è un limite anche al frasifattese).

L’altro giorno il portiere isterico d’un condominio nel cui cortile m’ero fermata a rispondere al telefono, mentre gli dicevo che me ne stavo già andando senza che me lo dicesse e di non farsi venire crisi isteriche che fanno male alla salute, ha fatto un gesto che percorreva le mie frolle carni e ha detto una cosa tipo: muore prima lei, visto com’è ridotta. Se avessi avuto ventisei anni, l’età della Soleri, questo commento mi avrebbe ferita, invece di farmi pensare «eh, lo dice sempre anche il cardiologo»?

Forse sì, ma ci dev’essere pure un’età in cui diventi adulto e pensi che se qualcuno è dialetticamente così scarso da doverti dire «brutta cicciona» il problema è suo e non tuo, e invece di offenderti ti vien voglia di dargli un buffetto. Ci dev’essere un’età in cui ti fa ridere l’idea di somigliare più a un pinguino del Madagascar che ad Alain Delon periodo Gattopardo. Ci dev’essere un momento in cui cresciamo e smettiamo di pensare che i peli delle nostre ascelle siano il centro del mondo.

Se il video la Cacciola l’avesse fatto l’altroieri, avrei pensato: ah, vedi, venire presi per il culo per il proprio aspetto è diventato privilegio dei maschi, di una donna non direbbe mai che ha il culone, altrimenti la seppellirebbero di «solo alle donne, puntesclamativo». Poi è arrivato Brunetta, e ora è solo questione di tempo. Entro la fine della campagna elettorale, Renzi frignerà perché qualche vignettista l’ha ritratto coi nei, Calenda farà un comizio al bioparco e con l’occhio lucido confermerà la sua stima ai pinguini usati per irriderlo, e Gasparri chiederà una bandierina del pride che rappresenti l’identitarismo strabico. Invece di far passare la suscettibilità alle femmine, l’abbiamo contagiata ai maschi. Brunetta direbbe: l’abbiamo sdoganata.

Tonia Mastrobuoni per repubblica.it il 19 luglio 2022.  

Sul murale compariva un soldato con la faccia da maiale e “Mossad” inciso sull’elmetto. Un'altra figura esibiva i tratti che gli antisemiti attribuiscono agli ebrei: naso adunco e i “payot”, i riccioli sulle tempie tipici degli ortodossi, e una scritta “SS” sulla bombetta. Un mese fa, quando il dipinto La Giustizia dei popoli del collettivo indonesiano Taring Badi è stato eretto sulla piazza principale di Kassel per l’inaugurazione di Documenta, il brusio che ha accompagnato dallo scorso inverno una delle mostre più importanti al mondo si è trasformato in una bufera.

Sulle prime, il murale è stato goffamente e parzialmente oscurato. Infine, dopo le indignate reazioni della Comunità ebraica (“la libertà artistica finisce dove comincia la xenofobia” ha tuonato il presidente, Josef Schuster), è stato rimosso, tra gli applausi dei visitatori. Ma le polemiche sulla quindicesima edizione di Documenta non si sono placate. Il dipinto antisemita è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E dopo mesi di polemiche, di scuse un po’ timide e di silenzi imbarazzanti, la direttrice generale Sabine Schormann si è dimessa sabato scorso dal suo incarico. Il consiglio di sorveglianza ha fatto sapere che il murale “aveva chiaramente superato una linea rossa causando un danno considerevole a Documenta”. 

In realtà la discussione era cominciata già lo scorso inverno, quando il collettivo indonesiano Ruangrupa, scelto dai tedeschi per curare la quindicesima edizione della mostra, aveva optato per alcuni artisti che sostengono il BDS, il movimento che invita al boicottaggio di Israele. In Germania è condannato persino da una risoluzione del Bundestag: quando un portavoce del Juedisches Museum di Berlino osò twittare il suo sostegno al BDS, si dovette dimettere persino il direttore. In Germania non si scherza con l’antisemitismo. E sin dalle prime battute, la mostra è stata accompagnata da enormi critiche.

Secondo l’ambasciata israeliana “Documenta promuove propaganda nello stile di Goebbels” e alcune opere “rievocano capitoli oscuri della storia tedesca". Tanto che nell’ultimo mese, alcune opere di artisti filopalestinesi esposte a Kassel sono state vandalizzate. All’inaugurazione, non è mancato un passaggio critico sulle scelte dei curatori persino nelle parole del presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier: “E’ piuttosto chiaro che nessun artista ebreo o israeliano è stato invitato a questa importante mostra d’arte”, ha dichiarato.

Le buone intenzioni degli organizzatori di Kassel si sono rivelate un boomerang. L’idea lodevole di affidare a un collettivo asiatico il compito di attirare lo sguardo dell’Europa sull’arte dei Paesi asiatici o africani si è infranto contro un pregiudizio contro gli ebrei che purtroppo non conosce confini. Sul dipinto dello scandalo, Ruangrupa ha chiesto scusa: “E' stato un errore e ci scusiamo per la delusione, la vergogna, la frustrazione, il tradimento e lo shock che quegli stereotipi hanno causato nei visitatori”. Gli artisti del dipinto hanno addotto come giustificazione il fatto che si trattasse di una condanna dei crimini del sanguinario dittatore indonesiano Suharto, sostenuto per anni dall'Occidente. 

Forse il bilancio più lucido lo ha espresso Maron Mendel, responsabile dell’Istituto Anne Frank, chiamato mesi fa da Susanne Schormann come consulente esterno. Mendel aveva gettato la spugna dopo appena due settimane perché si sentiva “una foglia di fico” per una mostra che non riusciva ad affrontare seriamente il problema dell’antisemitismo di alcune opere. “C’è un problema di fondo e riguarda l’immagine globale degli ebrei: in questa mostra Israele è dipinto come uno stato coloniale. E ciò è incompatibile con la coscienza della Germania attuale, nata dalle ceneri dell’Olocausto e percepita come un porto sicuro, per gli ebrei di tutto il mondo”

I sessi? Non dite che sono due. Luigi Mascheroni il 19 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'onda lunga della cancel culture, partita dai campus universitari degli Stati Uniti ormai si è già abbattuta anche sull'Europa. 

L'onda lunga della cancel culture, partita dai campus universitari degli Stati Uniti - a riprova che i peggiori orrori culturali di solito li commettono le élite intellettuali, studenti e professori, e non gli emarginati analfabeti delle periferie del mondo - ormai si è già abbattuta anche sull'Europa. L'ultimo flutto in ordine di tempo ha travolto Berlino, Humboldt-Universität, qualche settimana fa (la coda di polemiche e reazioni continua però a propagarsi, fino a oggi), dove a fine giugno la biologa Marie Luise Vollbrecht doveva tenere una conferenza sul tema: «Perché in biologia ci sono solo due sessi». Titolo, come si può immaginare alla luce dell'ideologia gender, delicatissimo. L'iniziativa faceva parte dell'evento «La lunga notte della scienza» organizzato dall'Università assieme ad altri istituti culturali tedeschi, ma l'argomento dell'intervento in programma è stato più che sufficiente per aizzare l'ala dura e pura dell'attivismo di sinistra. Il Gruppo di lavoro dei giuristi critici («Akj») ha infatti immediatamente sollevato una protesta formale. Motivo: l'affermazione che in biologia esistono solo due sessi sarebbe «non scientifica» oltre che «disumana e ostile» nei confronti delle persone queer e trans.

Conseguenza? Sembra strano, ma l'Università Humboldt, invece di schierarsi in difesa di Marie-Luise Vollbrecht, ha annullato l'incontro per «motivi di sicurezza», cedendo alle richieste degli attivisti. È così: ora non si può più sostenere che i sessi biologici siano due: maschile e femminile (anche se, ovviamente, esistono persone che trascendono il binarismo biologico - cioè «si sentono» altro - e le loro vite, così come i loro diritti, non possono essere ignorati; ma ciò con la scienza ha poco a che vedere).

Comunque. In Italia il caso viene rilanciato, qualche giorno fa, da MicroMega (non proprio un foglio propagandistico dell'Alt Right trumpiana...) riprendendo la notizia dal sito femminista tedesco EMMAonline. Da notare il paradosso che Marie-Luise Vollbrecht è vicina alla sinistra radicale ed è sempre stata a favore delle battaglie femministe. Tanto che nella sua conferenza - bocciata preventivamente - non intendeva affatto negare i diritti delle persone transessuali, ma solo, semmai, spiegare che l'ideologia non ha posto nella scienza. Marie-Luise Vollbrecht, però, è ingiustificabile agli occhi dei guerriglieri della cancel culture: è infatti uno dei cinque autori dell'appello, lanciato a maggio, per denunciare l'unilateralità dell'informazione sul tema della transessualità e per chiedere di «abbandonare l'approccio ideologico al tema della transessualità» presentando i fatti biologici in base allo stato della ricerca e della scienza. Un appello firmato da oltre cento scienziati tra medici, biologi e psicologi. Niente da fare. Il loro appello è stato definito «transfobico».

Penny Mordaunt (la favorita per il dopo Boris Johnson) e le persone trans: una guerra culturale per affondarla? Luigi Ippolito su Il Corriere della Sera il 17 Luglio 2022.  

Nel 2018 Penny aveva affermato che «gli uomini trans sono uomini, le donne trans sono donne»: una frase controversa per la base del partito conservatore. Gli attacchi a colei che potrebbe prendere il posto di BoJo

È lei la donna da affondare. A sorpresa, Penny Mordaunt è la favorita nella corsa alla successione a Boris Johnson : 49 anni, viceministra per il Commercio, già ministra della Difesa per un breve periodo sotto Theresa May, è quasi sconosciuta al grande pubblico. Nonostante ciò, ha scombinato le carte nella gara per diventare primo ministro con la sua personalità diretta e accattivante: e per questo sono partite quelle che lei ha definito «operazioni oscure» per bloccarne l’ascesa.

La polemica principale si concentra sui diritti delle persone transgender. Nel 2018 Penny aveva affermato in Parlamento che «gli uomini trans sono uomini, le donne trans sono donne»: una frase controversa che è un anatema per la base del partito conservatore, i cui favori vanno conquistati per poter sperare di insediarsi a Downing Street.

Nei giorni scorsi la Mordaunt ha provato a fare marcia indietro: «Una donna come me non ha un pisello», ha detto citando un intraducibile gioco di parole di Margaret Thatcher. Affermazione che ai più potrebbe apparire scontata, ma non ai sostenitori dei diritti trans, secondo i quali anche chi ha un pene può essere una donna, se si identifica come tale. «Io sono biologicamente una donna — ha continuato Penny —. Alcune persone nate maschi e che sono passate attraverso un processo di riconoscimento di genere sono anche legalmente donne. Questo NON significa che sono donne biologiche, come me».

Una inversione a U che ha soltanto agitato le acque, perché Penny si è vista accusata di ambiguità: infatti è emerso un documento che suggerisce che lei, quando era sottosegretaria all’eguaglianza, aveva appoggiato una legislazione controversa - poi abbandonata - che avrebbe autorizzato l’auto-identificazione di genere a prescindere da un parere medico. E la Mordaunt si sarebbe opposta anche all’introduzione delle parole «donna» e «madre» a proposito di donne incinte.

Insomma, ce n’è quanto basta per far dire a Sarah Vine, seguitissima commentatrice del Daily Mail — tabloid conservatore che ha guidato il cannoneggiamento contro Penny — che «se Penny Mordaunt non si batterà per i diritti delle donne, non avrà mai il mio voto».

È tutta una controversia che può stupire, ma non in Gran Bretagna, dove la «guerra culturale» attorno alla questione trans è una delle più divisive e ha visto, ad esempio, una scrittrice come JK Rowling, la creatrice di Harry Potter, condannato all’ostracismo dai custodi del politicamente corretto per aver sostenuto la realtà del sesso biologico. Dall’altro lato, la destra usa la polemica come una clava per additare al pubblico ludibrio quanti — come la Mordaunt — si mostrano sensibili alle ragioni dei trans.

Ed è un peccato, perché Penny ha sicuramente le carte in regola per dimostrarsi una scelta vincente da parte dei conservatori. Figlia di un paracadutista, lei stessa riservista della Marina, vanta un curriculum tutt’altro che convenzionale: da ragazza ha lavorato come assistente di un prestigiatore per aiutare la sua famiglia in difficoltà dopo la morte della madre, mentre alcuni anni fa ha partecipato a un reality tv, «Splash», di tuffi dal trampolino. E una volta, per una scommessa con i suoi commilitoni, ha pronunciato in Parlamento un surreale discorso sul benessere del pollame al solo scopo di scandire il più volte possibile la parola «cock» (che in inglese sta per gallo, ma volgarmente anche per c...). Insomma, una donna di spirito in grado di risollevare le sorti dei conservatori dopo l’ottovolante di Boris Johnson: ma che rischia di essere impallinata per troppo progressismo.

Pietro De Leo per “Il Tempo” il 18 Luglio 2022. 

Effetti collaterali della politica gender. In un carcere femminile del New Jersey sono ospitati 27 detenuti transessuali, assieme a circa 800 donne. Tutto questo è avvenuto dopo una battaglia pubblica, e legale, intentata da un trans supportata da un’associazione per i diritti civili. 

La struttura correzionale in questione, peraltro, non contempla la condizione di un intervento chirurgico di “riassegnazione di genere” per ospitare persone transgender. Risultato? Due detenute sono rimaste incinte, dopo aver avuto dei rapporti sessuali all’interno del carcere, con altri detenuti. 

Al momento si sa ancora poco di questa storia (riportata dal quotidiano inglese Daily Mail), non si è ancora a conoscenza se vogliano proseguire o meno la gravidanza, né se abbiano avuto rapporti con lo stesso transessuale. Tuttavia, quel che è trapelato dall’istituto penitenziario è che tutto si sia svolto nel pieno consenso.

Una circostanza, questa, che tuttavia non cancella alcuni precedenti poco felici. Nel 2021, infatti, una detenuta aveva sporto denuncia per presunte molestie da parte di alcuni detenuti trans. Così come il sindacato delle guardie carcerarie si era sempre opposto all’affiancamento donne-trans paventando conseguenze spiacevoli per tutta la popolazione carceraria e problemi di gestione.

Che puntualmente si sono verificati, a riprova di quanto sia rischioso seguire i dettami di una società dove il desiderio diventa ideologia.

Blackface all'Arena di Verona, la soprano Angel Blue dà forfait: "Pratica razzista, non ci sarò". La Repubblica il 16 Luglio 2022. 

La protesta della cantante contro la pratica di tingere il volto di nero, adottata da Anna Netrebko in 'Aida' in scena una settimana fa. La replica della Fondazione: "Nessun motivo di offendere o disturbare la sensibilità di alcuno".

Angel Blue si rifiuta di accostare il proprio nome e la propria immagine "a una istituzione che continua a utilizzare il trucco blackface, pratica offensiva, umiliante e apertamente razzista". Con una nota, fortemente indignata, la soprano americana - tra le voci più prestigiose del panorama internazionale della lirica - ha annunciato il proprio forfait alla 99esima edizione dell'Arena di Verona Opera Festival dove, il 22 e il 30 luglio, avrebbe dovuto interpretare Violetta ne La Traviata.

Netrebko e Aida con il blackface

La decisione di Angel Blu è dovuta al fatto che la superstar del belcanto Anna Netrebko, sul palco dell'Arena lo scorso 8 luglio in Aida, nell'allestimento pensato da Franco Zeffirelli vent'anni fa, ha fatto ricorso al blackface, ovvero la pratica di scurire, attraverso il trucco, il volto di un interprete bianco al quale è assegnato il ruolo di un personaggio nero. Quello di netrebko era il secondo caso: Aida aveva esordito il 18 giugno, in quell'occasione la principessa etiope era interpretata dalla soprano Liudmyla Monastyrska, anch'essa truccata di nero.

Angel Blue: "Blackface umiliante e razzista"

"Cari amici, famiglia e amanti dell’opera - si legge nella nota di Angel Blue - sono giunta alla dolorosa conclusione che quest’estate non canterò Traviata all’Arena di Verona come previsto. Come molti di voi sapranno, l’Arena di Verona ha recentemente deciso di utilizzare il blackface in una recente produzione di Aida. Vorrei essere perfettamente chiara: l’uso del blackface in qualsiasi circostanza, artistica o altro, è una pratica profondamente fuorviante basata su tradizioni teatrali arcaiche che non hanno posto nella società moderna". E sottolinea: "È offensivo, umiliante e apertamente razzista. Non vedevo l’ora di fare il mio debutto in casa all’Arena cantando una delle mie opere preferite, ma in coscienza non posso associarmi a un’istituzione che continua questa pratica. Grazie per la vostra comprensione e per tutti coloro che hanno mostrato supporto e sensibilità a me e ai miei colleghi artisti del colore".

La replica della Fondazione: "Nessuna volontà di offendere"

L'Aida all'Arena di Verona Nella replica, la Fondazione Arena di Verona spiega che la produzione zeffirelliana di Aida non è "recente", che l’accordo con Angel Blue, e l'agenzia che la rappresenta, risale a quasi un anno fa, che la prima di Aida ha avuto luogo il 18 giugno e quindi "le caratteristiche di questa produzione erano ben note quando Angel Blue si è impegnata consapevolmente a cantare all’Arena di Verona". Quanto alla questione blackface, si legge ancora nella nota della Fondazione che "tutti i Paesi hanno radici diverse e la loro struttura culturale e sociale si è sviluppata attraverso percorsi storico-culturali differenti" e dunque "sullo stesso argomento la sensibilità e l’approccio possono essere molto diversi tra loro nei diversi angoli del mondo; spesso si arriva ad una idea condivisa solo dopo anni di dialogo e comprensione reciproca. Non abbiamo alcun motivo, né alcuna volontà di offendere e disturbare la sensibilità di alcuno. Raggiungiamo con vive emozioni persone provenienti da diversi Paesi, da contesti religiosi differenti, ma per noi tutte le persone sono uguali. Crediamo nel dialogo, nello sforzo di comprendere il punto di vista altrui, nel rispetto degli impegni artistici presi".

L'appello dell'Arena: "Angel, ti aspettiamo fiduciosi"

Il comunicato si conclude con un appello alla soprano affinché possa tornare sui propri passi: "Angel, noi e il pubblico areniano ti aspettiamo fiduciosi, sarà l’occasione di dialogare in modo costruttivo e concreto partendo proprio dalle tue riflessioni. Il mondo digitale non crea la stessa empatia che solo il contatto diretto riesce a determinare: proprio come in teatro. Le contrapposizioni, i giudizi, le categorizzazioni, la mancanza di dialogo non fanno altro che alimentare una cultura del conflitto che noi rifiutiamo totalmente. E auspichiamo che tutti lavorino per non alimentare divisioni".

Da “la Stampa” il 13 luglio 2022.

Nel pieno di una crisi politica estiva, alla vigilia del voto di fiducia sul dl Aiuti, la Lega decide di aprire un nuovo motivo di scontro con il Pd: le Barbie. Matteo Salvini va a riprendere un'intervista rilasciata sabato scorso da Laura Boldrini, a Polignano a Mare durante il festival Il libro Possibile. A una domanda di un giornalista sull'educazione di genere e in particolare l'uso di giochi come le Barbie da parte delle bambine Laura Boldrini risponde: «È la cultura che deve cambiare: bisogna iniziare nelle scuole a cambiare a non dare alle bambine le pentoline e le Barbie ma a farle sognare in grande e dare anche a loro le astronavi e il meccano, quindi smetterla con queste distinzioni. C'è un lavoro enorme da fare». 

Il team social di Salvini caricaturizza le parole rallentandole in modo da renderle ridicole e pubblica il video sulla pagina Facebook del leader della Lega con un commento di Salvini: «Boldrini e Pd, se non ci fossero bisognerebbe inventarli!». Da quel momento parte una campagna contro l'ex presidente della Camera. Secondo il quotidiano online Il Primato Nazionale Laura Boldrini ha dichiarato di volere «una scuola impostata sul modello dei campi di rieducazione, dove si strappano le Barbie dalle mani delle bambine per riprogrammare i loro cervelli in quelli di piccole femministe in erba». 

Per Il Secolo d'Italia «o è fuori dal mondo o vive in un mondo tutto suo dove incarnare un modello di femminilità solare piacevole e vincente - il più moderno dei modelli di femminilità - è una colpa da emendare di per sé». Sul Barbie-gate interviene anche Laura Ravetto, responsabile del dipartimento Pari opportunità della Lega per parlare dei suoi giochi da bambina: «Avevo Barbie astronauta. Forse l'esponente Dem, presa dalle sue battaglie ideologiche, non si è accorta che anche le Barbie hanno imparato a pensare in grande. Crescere con bambole e pentolini non ha portato me, come tante altre donne, ad abdicare alla carriera. Se le può interessare, adoravo anche il dolce forno, ma a casa cucina mio marito. Lasciamo le bambine giocare con quello che più piace, e preoccupiamoci, piuttosto, di dare loro gli strumenti per accedere ad ogni tipologia di studio e lavoro».

Barbie e pentoline, perché la Boldrini sbaglia (ancora una volta). Andrea Indini il 13 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'ultima battaglia ideologica dell'esponente dem: "Non date alle bambine le pentoline e le Barbie". Ecco perché sbaglia.

Ci sono giornate di pioggia in cui il corridoio di casa diventa un campo di calcio. Ci vuole un po' di fantasia perché è corto e stretto. Ma alle mie bimbe, la fantasia certo non manca. E così, preso il pallone, capita che per ingannare un pomeriggio d'inverno, buio e freddo fuori, improvvisiamo una partita. Le porte alle estremità e noi tre, nel mezzo, a inseguire la sfera. Unica regola: niente tiri alti, altrimenti si rischia di tirare giù i quadri e farsi male coi vetri rotti. Talvolta la partita va avanti per un'ora buona, finché le mie figlie, congestionate, non si stufano e si interessano ad altri giochi.

Il calcio, nell'assurda visione di Laura Boldrini, potrebbe essere un gioco giusto da proporre a una bambina perché va a colmare il gender gap coi coetani maschi. Nella mia visione, che è molto più basica, due tiri al pallone sono l'occasione per sfogarsi, divertirsi e stare insieme. Sempre nella mia visione lontana dalle ideologie non esistono giochi da maschio o da femmina. Due tiri a un Super Tele sgonfio diventano l'occasione per tenere insieme mia figlia più grande, che di anni ne ha quasi otto, e la secondogenita, che invece ha quattro anni in meno. È quasi impossibile metterle d'accordo. Il calcio, come qualsiasi altro gioco, può avere obiettivi interessanti (oltre, ovviamente, quello principe di sfiancarle per non arrivare a sera con la cantilena "Ma io non ho sonno"). Non fare falli, per esempio. Giocare correttamente. Passare la palla. E così via.

Nelle scorse ore la Boldrini ha detto che "c'è un lavoro enorme da fare" per "cambiare la cultura" del nostro Paese. "Bisogna iniziare nelle scuole a cambiare - ha detto - a non dare alle bambine le pentoline e le Barbie ma a farle sognare in grande". Io, però, non mi sento di sbagliare né se le faccio giocare a calcio né se, aperta la mega villa di Malibu, ci mettiamo in cameretta con Barbie, Skipper, Stacie e Chelsea. Ken non lo vuole mai nessuno e quindi, immancabilmente, tocca a me. Il gioco prende una piega diversa a seconda della giornata: a volte la famiglia Roberts va a scuola, altre in vacanza, altre ancora organizza una festa in giardino. Cosa c'è di sbagliato in questo gioco lo sa soltanto la Boldrini. Che, tra l'altro, è probabilmente rimasta indietro coi tempi. Se c'è, infatti, una bambola che si è completamente inginocchiata al politicamente corretto, ebbene quella è proprio Barbie. Basta sfogliare il catalogo per capirlo: troviamo la Barbie in carrozzina, la Barbie curvy (a cui a fatica entrano i vestiti di tutte le altre) e persino la Barbie trans dedicata a Laverne Cox (l'attrice statunitense transgender di Orange is the new black).

Per "farle sognare in grande", nell'immaginario della Boldrini, le bambine dovrebbero usare il meccano e le astronavi. Nulla in contrario. Anche i Lego e i libri su avventure fantastiche (la grande, per esempio, adora Harry Potter). Ma, non per tornare a difendere l'universo Barbie, l'ex presidente (pardon presidenta) della Camera lo sa che ce n'è una dedicata a Samantha Cristoforetti? O che nei negozi di giochi è possibile trovarla anche in versione esploratrice, dottoressa, veterinaria o nei panni di qualsiasi professione immaginabile? Non c'è più solo la Barbie wasp e ricca di Malibu. Per chi la preferisce c'è pure quella newyorchese: vive a Brooklyn ed è di colore, ça va sans dire.

Anche la propaganda sui pentolini lascia il tempo che trova. A casa, dietro i fornelli, le mie bimbe vedono sia me sia mia moglie (a lavare i piatti quasi soltanto me, se vogliamo dirla tutta). Cucinare è dare sapore alla vita, curarsi della famiglia, dare vita alla casa. E fare una torta tutti insieme, a mio modestissimo parere, non è una cultura da cambiare ma da tornare a insegnare.

Da blitzquotidiano.it l'8 luglio 2022.

Camper, trasmissione del mezzogiorno estivo di Rai 1 condotta da Roberta Morise e Tinto, è finita al centro della polemica per un siparietto da molti considerato retrogrado e di cattivo gusto. 

Camper, polemiche per il collegamento con Pucci Cappelli

L’inviata Maria Elena Fabi, in collegamento dalla spiaggia di Rimini, ha accolto con entusiasmo Pucci Cappelli, un playboy che ha svelato in diretta tv con quante donne è stato a letto. 

“Prima di concludere, ho una sorpresa: ho trovato l’uomo che ha conquistato migliaia e migliaia di donne. Sono sicura che conquisterà anche te Roberta. C’è qui Pucci Cappelli. Quante donne hai conquistato nella tua vita?”, ha esordito la giornalista. “Buongiorno, devo dirlo proprio? 5246”, ha affermato Cappelli. “Oh già che lo dice non mi piace questa cosa”, ha commentato la conduttrice scoppiando poi in una risata.

“Come non ti piace? Manca la 47esima e oggi Pucci è un uomo fedele“, ha ribadito l’inviata portando avanti la gag. “Il segreto? La gentilezza. L’invito a cena e quando ti vengo a prendere ti porto un mazzo di rose”, il consiglio del playboy. “Lui è stato l’esponente di quel genere di uomo italiano che conquistava tutte le donne”, ha aggiunto la giornalista. Un momento televisivo ritenuto di cattivo gusto per una trasmissione già finita nel mirino della critica, sconfitta quotidianamente dalle repliche di “Forum”.

Chi è Pucci Cappelli

Pucci Cappelli, al secolo Marco Cappelli, è un nome noto nel mondo della movida romagnola, fino al 2014 al capo del night club La Perla di Riccione. Fama da playboy e anche uno stop nel 2015, Cappelli finì al centro di una vicenda giudiziaria che lo portò ai domiciliari per un giro di prostituzione e droga scoperto all’interno del suo locale. Si è difeso ribadendo più volte la sua estraneità, è tornato a lavorare nei night club l’anno successivo e nel 2017 ha patteggiato un anno e quattro mesi per favoreggiamento della prostituzione.

Mirella Serri per “la Stampa” il 5 luglio 2022.

Forse sarebbe stato opportuno che Vittorio Sgarbi, presidente del Mart di Trento e Rovereto, al momento di organizzare l'importante esposizione delle tele di Julius Evola avesse dato un'occhiata al volume di Umberto Eco che raccoglie le Bustine di Minerva (è stato pubblicato dalla bella casa editrice La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi, sorella di Vittorio). In una delle Bustine uscite su l'Espresso Eco prende le mosse dalle parole scritte da Evola nel settembre del 1937 come introduzione a I Protocolli dei Savi Anziani di Sion. 

Un'opera totalmente falsa che ha contribuito, il grande semiologo lo rileva senza mezzi termini, a «far gassare sei milioni di ebrei», poiché venne usata da nazisti e fascisti per denunciare una fantomatica congiura ebraica per impadronirsi del mondo. Evola, filonazista, fascista e razzista, certifica nel suo scritto l'autorità e la veridicità dei Protocolli, a suo avviso essenziali per comprendere «l'organizzazione segreta alla quale sarebbero da riferirsi i principali focolai di pervertimento della civiltà e società occidentali: liberalismo, individualismo, egualitarismo, libero pensiero, illuminismo antireligioso». 

Sgarbi nel suo commento alla mostra non tiene in alcun conto degli orientamenti culturali, politici e ideologici dell'intellettuale romano, evidenziando invece esclusivamente la capacità del pensatore e pittore di partecipare «attivamente all'Avanguardia italiana». 

Viene esplorata la vicenda dell'Evola artista che durò dal 1915 al 1921 e che fu poi abbandonata, così si commenta nel catalogo, per lo studio della filosofia, dell'esoterismo e delle dottrine orientali, ermetiche e alchemiche. Il pittore riprese la sua avventura con il pennello negli Anni 60. Ma come mai quando si parla, per esempio, di rapporto con le dottrine orientali, non si chiarisce la natura del legame di Evola con Martin Bormann, segretario personale di Hitler, appassionato di esoterismo, che finanziava le numerose conferenze evoliane in Germania? C'è dell'altro. Durante la guerra Evola fu molto noto in quanto padre del razzismo in salsa italiana. Nel 1942, su Roma fascista, giornale per gli universitari, scriveva della necessità di una «razza interiore» che esige «uomini tutti di un pezzo, forze unitarie e coerenti odio per il promiscuo, fedeltà al proprio sangue». Si potrebbe continuare, anche perché nel dopoguerra il filosofo romano negherà il suo legame con i despoti.

Nella presentazione per l'esposizione del Mart, Sgarbi ricorda che Evola «dopo un primo periodo futurista in cui realizzò composizioni dinamiche e vivaci, prese le distanze dal movimento per avvicinarsi a Tristan Tzara e alle poetiche del Dadaismo. Cercava una dimensione interiore in linea con le tendenze astratte europee e il pensiero espresso da Vasilij Kandinskij nel suo celebre saggio, "Lo spirituale nell'arte"». In realtà, quando l'artista si schierò con le dittature e denunciò gli intellettuali decadenti, marci e corrotti, mise nel mirino pure il suo ex maestro, l'ebreo Tzara, considerato «limite estremo della degradazione della cosiddetta arte d'avanguardia», nonché l'«Ebreo Freud, la cui teoria s' intende a ridurre la vita interiore a istinti e forze inconsce... Einstein, col quale è venuto di moda il "relativismo"... 

Schoenberg e Mahler, principali esponenti di una musica della decadenza». Evola e i nazisti, in perfetta sintonia, mandavano al rogo le opere e gli scritti di questi autori, in quanto esponenti dell'«arte degenerata» che suscitava in loro il massimo disgusto. Sgarbi sottolinea «che tra forti e vivaci contrasti cromatici, il percorso espositivo del Mart è il maggiore mai organizzato». 

Ma, senza confondere il valore artistico delle tele (che pure alcuni critici contestano) con le inclinazioni politiche del pittore, non era il caso di chiarire chi è stato veramente Evola? Il suo viaggio intellettuale non si è fermato nella seconda metà del Novecento. Nel 1987 Eco lo definisce «un triste e dissennato figuro che negli ultimi anni la Nuova Destra ha riproposto come pensatore di rango, mentre alcuni imbecilli della nuova sinistra hanno concesso che in fondo, sì, l'uomo aveva alcune qualità (preciso che la maggior parte delle pagine di Evola sono occultismo da operetta di cui si vergognerebbe il mago Otelma)».

All'inizio degli Anni 50 Evola era stato incriminato come ispiratore dei Far, fasci di azione rivoluzionaria, che misero in atto attentati neofascisti. Successivamente si conquistò il Msi e gli esponenti di Casa Pound, ma oggi soprattutto è considerato un ispiratore dei folli convincimenti imperiali dello zar Putin. Aleksandr Dugin - ribattezzato il filosofo del presidente della Federazione russa per le sue teorie a supporto dell'espansione della Russia e dell'odio per la democrazia e l'Occidente - descrive l'importanza decisiva per la sua «filosofia della Tradizione» del pensiero di Evola. Se è giusto non collegare meccanicamente l'opera artistica all'azione politica, ignorare le conseguenze politiche di un filosofo, pensatore e pittore è quanto di più politico vi sia. E' un modo per esaltare lui e i suoi seguaci che Norberto Bobbio aveva definito «intellettuali fascisti di mezza tacca tra cui il delirante Julius Evola».

Vittorio Sgarbi per “la Stampa” il 6 luglio 2022.

Il fascismo nasce nel 1922. Evola smette di dipingere nel 1921. Certo, un uomo è responsabile anche per quello che ha fatto dopo. Ed è per questo che noi, seguendo il ragionamento di Mirella Serri sulla Stampa di ieri, usiamo giudicare l'opera di Arthur Rimbaud non sulle sue pagine, concepite entro il 1874, "Illuminations" o "Une saison en enfer" del 1873, ma sui suoi comportamenti dopo il tempo della poesia, quando commerciava in armi con l'avventuriero francese Pierre Labatut e, probabilmente, come riferisce il console italiano ad Aden, faceva anche il mercante di schiavi. 

Giusto dunque giudicare versi come questi, alla luce dei comportamenti criminali di Rimbaud: «Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi». 

È il metodo Serri. Così ci si può chiedere come la Pleiade abbia deciso di pubblicare l'opera omnia dell'autore di "Bagattelle per un massacro", Louise Ferdinand Céline. Nel "Viaggio al termine della notte", aveva scritto: «Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l'illuminazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte.

Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient' altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall'altra parte della vita». Appunto: è dall'altra parte della vita. È un libro che parla, è un dipinto. I dipinti di Evola esprimono un linguaggio che esalta stati d'animo, non dittature. 

Era stato chiarissimo Vanni Scheiwiller. Già Evola aveva subito la "congiura del silenzio". Adesso bisogna giudicarlo sul falso storico dei viaggi finanziati da Bormann. Evola fu pittore, poeta, filosofo, cultore di esoterismo e alchimia, studioso di dottrine politiche, di filosofia della storia, teorico della razza, critico della modernità. Come ricorda Gianfranco de Turris, «si avventurò in terrae incognitae raramente o mai frequentate sia ieri che oggi dagli uomini di cultura del Bel Paese, esplorandole, descrivendole in opere spesso ancora uniche nel loro genere». 

La Serri è evidentemente disorientata, e ripropone per Evola la maledizione di Nietzsche, prima che Colli e Montinari lo sottraessero dalla responsabilità di avere ispirato Hitler: senza senso del ridicolo accusa Evola di anticipare Putin. Quindi anche Santoro, Ovadia, D'Orsi e altri esponenti della sinistra pacifista putiniana. Definisce Evola «ispiratore dei folli convincimenti imperiali dello Zar Putin». Verrebbe da risponderle come il governatore Bonaccini a Hoara Borselli: "Roba da matti". Le ricordo che anche Giorgio Bocca scrisse in favore della "Difesa della Razza", e Montanelli scrisse un elogio del Duce. Pietro Ingrao solo una poesia. 

Al Mart, io non c'ero ancora, avrebbero dovuto evitare di dedicare una mostra a Margherita Sarfatti che scrisse una euforica biografia di Mussolini. Il testo - rivisto accuratamente dallo stesso Mussolini- fu dapprima pubblicato nel 1925 in Inghilterra col titolo The Life of Benito Mussolini e l'anno successivo in Italia col titolo Dux. 

Per la notorietà del personaggio e per la familiarità dell'autrice con il dittatore, il libro ebbe un enorme successo di vendite (un milione e mezzo di copie vendute solo in Italia e 17 edizioni) e verrà tradotto in 18 lingue, compreso il turco e il giapponese. Per quanto discreta (e non esclusiva), la relazione tra Sarfatti e Mussolini continua nel decennio successivo, fatta di incontri segreti a Palazzo Venezia, non mancando di suscitare in più di un'occasione le gelosie di Rachele Mussolini.

Le curatrici Daniela Ferrari a Rovereto e Anna Maria Montaldo, con Danka Giacon, avrebbero dovuto processarla, e invece si sono limitate a studiare l'influenza della Sarfatti sull'arte e gli artisti del suo tempo. Rammento alla Serri che anche Mario Sironi, diversamente da Evola, fu fascista militante convinto fino all'ultimo, e si lodano perfino le sue opere di propaganda negli anni del consenso. Voglio anche ricordarle che, essendo "La nave di Teseo", guidata da mia sorella, la casa editrice fondata da Umberto Eco, io gli ho in più occasioni parlato di Evola pittore e dei sui rapporti con gli esponenti del Dadaismo.

E più volte Eco mi ha detto che sarebbe stato utile - "brillante idea"- poterne finalmente vedere i dipinti per capire ciò che in quel tempo (senza alcuna relazione con quanto è seguito, ed è stato interpretato tendenziosamente, come conferma Marcello Veneziani, che dedicò a Evola la tesi di laurea, ben oltre i luoghi comuni rimasticati dalla Serri) gli passava per la testa. Disse proprio così, da fenomenologo degli stili. E così ho fatto. Adesso, anche se come la Sarfatti era una donna, dovrò consultarmi con la Serri, prima di aprire la mostra su Leni Riefenstahl.

Giampiero Mughini per Dagospia il 6 luglio 2022.

Caro Dago, quanto alla disputa se siano o no da mettere in mostra i quadri del periodo dadaista di un tipino (qualcuno direbbe un tipaccio) quale Julius Evola, sono d’accordo fino all’ultima riga con quanto sostenuto da Vittorio Sgarbi. 

A una mostra che mettesse in risalto quei quadri mi ci precipiterei domattina. Sono opere fra le più importanti dell’avanguardia italiana degli anni Venti e più precisamente del suo minuscolo nucleo dadaista, un’avanguardia di cui in quel momento Evola era un protagonista primario.

Poi venne quella sua seconda vita, e questo per tutta la durata del fascismo, di teorico di una forma “spirituale” di antisemitismo che lo portò a rifugiarsi nella Germania nazi al tempo delle ultime battute della Seconda guerra mondiale. 

Lesionato alla spina dorsale dall’esplosione di una bomba lanciata dagli aerei alleati, passò l’ultimo segmento della sua vita inchiodato alla poltrona e al letto di un appartamento al quinto piano di un palazzo romano a Corso Vittorio Emanuele di proprietà di una famiglia ultrafascista, dove morì l’11 giugno 1974. 

Non ricordo chi mi raccontò che negli ultimi sgoccioli della sua agonia chiese a qualcuno dei suoi sodali di portarlo sino alla finestra del suo appartamento, a poter guardare per l’ultima volta il cielo. Per tutto il secondo dopoguerra quella casa romana era stata una sorta di tempio cui attingevano alcuni giovani intellettuali orgogliosi del dirsi fascisti, Pino Rauti uno di questi.

Evola negli anni Cinquanta venne messo sotto accusa come ispiratore di alcune loro sporcaccionerie fatte a Roma, ad esempio l’assalto e il danneggiamento della Libreria Rinascita lì al pianterreno del palazzone di via Botteghe Oscure. In aula lo difese il celebre avvocato Francesco Carnelutti, che di certo non era un fascista. Evola venne assolto. 

Nella casa in cui l’Evola paralizzato alle gambe trascorse gli ultimi venti e passa anni della sua vita ci sono stato. Alle pareti di quel piccolo appartamento c’erano i quadri dadaisti di Evola. Bellissimi. Solo che erano delle copie. Era successo che nei primi anni Cinquanta Achille Perilli, uno dei primattori dell’avanguardia artistica romana del secondo dopoguerra, uno che quei mirabili quadri li conosceva, portasse a casa di Evola il gallerista e collezionista ebreo milanese Arturo Schwartz, quello che nel frattempo era divenuto il più grande esperto di dadaismo al mondo. 

E’ stato Perilli a raccontarmelo. Schwartz ci mise meno di un minuto a chiedere a Evola che glieli vendesse tutti. Evola che non aveva di che vivere disse di sì, solo che se ne fece delle copie per averne un ricordo.

Quando sono entrato in casa di Evola, solo una cosa era originale di quelle che arredavano la casa. Un tavolo basso in legno il cui ripiano Evola aveva disegnato nel suo periodo dadaista. Una meraviglia. So che un altro grande collezionista romano, il mio amico Pablo Echaurren, aveva tentato in tutti i modi di comprarlo. Non c’era riuscito. Non so che ne sia accaduto di quel tavolo. Non fossi il poveraccio che sono sempre stato, avrei fatto di tutto per acquistarlo. Quanto ai quadri dadaisti di Evola, credo facciano parte della donazione che l’ebreo Schwartz ha fatto a Israele o forse mi sbaglio e a Israele lui ha donato solo il comparto libri della sua magnificente collezione di dadaismo.

E a proposito di libri, nella mia collezione di prime edizioni del Novecento italiano mancano i due mirabolanti libri dadaisti di Evola, pubblicati entrambi a Roma in pochissime copie. Mi sono sfuggiti dalle dita due volte. L’ultima a un’asta parigina dov’era in vendita la strepitosa collezione novecentesca di un collezionista francese ebreo. 

C’era uno dei due libri italiani di Evola. Io che sono un morto di fame, l’ho battuto sino a 10mila euro. E’ andato venduto a 13mila più i diritti. Una meraviglia. Da morire da quanto era smagliante di creatività. Da mettere in mostra? A dire poco.

Lettera di Mirella Serri a Dagospia il 6 luglio 2022.

Caro Mughini, nessuno mai e tanto meno la sottoscritta si è sognato di dire che i quadri di Evola non vadano esposti. Se i critici li ritengono validi (non tutti concordano, però, Demetrio Paparoni sul “Domani” ha sostenuto che sono molto modesti) vanno assolutamente riscoperti. Ma devono essere accompagnati dalla spiegazione di chi sia stato veramente Julius Evola. 

Come dire, tanto per riprendere un esempio fatto da Vittorio Sgarbi, che non si può elogiare il successo internazionale di Margherita Sarfatti e del suo “Dux” dimenticando – ops, che distrazione! - che era l’amante di Benito Mussolini il quale ne ha promosso e sostenuto l’opera e le ha fatto vendere migliaia di copie. Evola è stato un pensatore filo nazista, fascista, antisemita, ha influenzato la Nuova Destra italiana così profondamente che i militanti di Casa Pound nel 2021 sono andati all’assalto della Cgil romana avendo come livre de chevet proprio i suoi testi.

Vuoi, caro Mughini, un assaggio di quello che scriveva il filosofo che qualcuno ha definito “antifascista” (Luigi Mascheroni su “il Giornale del 6 luglio)? “L’offensiva che il giudaismo sta svolgendo da tempo contro la civiltà occidentale impiega due armi, una è l’oro e l’altra è l’intelligenza… proprio l’intelligenza giudaica è un’arma per la negazione della civiltà nostra, ariana e tradizionale”. E dal momento che il giudaismo è come un “acido” che “infetta e corrode” bisogna mettere in atto tutto le misure per limitarne l’azione nefasta. Bisogna mandare gli ebrei nei lager.

Queste considerazioni Evola le ha espresse nel volumetto del 1942 “Gli ebrei hanno voluto la guerra” (edizioni di Avanguardia) in cui  scrive in compagnia di Giovanni Preziosi, il più feroce antisemita italiano. Nella mostra del Mart non c’è nemmeno un accenno, dico uno, al fatto che il pittore fosse anche un ammiratore di Himmler e di Mussolini. Questo toglie qualcosa ai suoi quadri? Assolutamente nulla. 

Ma va detto e ricordato. Chi organizza una mostra dedicata a Evola, pittore sconosciuto al largo pubblico, ha il dovere etico, lo ripeto etico, di raccontare chi è stato Evola, di descrivere l’artista, il politico, l’uomo. Dopo essere stato un brillante avanguardista nell’arte, come mai Evola dopo pochi anni si collocò all’opposto delle correnti più moderne? Fu un opportunista, dal momento che in Europa dominavano i totalitarismi? 

Perché denunciò il suo maestro Tzara, che aveva amato e incontrato di persona a Parigi, come “ebreo” da mandare insieme a milioni di altri ebrei allo sterminio? Evola peraltro non è un “redento”, non ha mai cambiato casacca ed è sempre rimasto fedele a se stesso. Negli anni Sessanta, quando aveva ricominciato a dipingere, preciserà di non essere mai stato un seguace di Hitler bensì di Himmler che aveva dato vita alle SS “elementi scelti, che avrebbero dovuto dar vita all’uomo nuovo e che si supponeva fossero di razza”. Sono una grande estimatrice delle opere di Marinetti, di Ernst Jünger, di Céline, di Pound e così via.

Ma li apprezzo proprio perché esprimono una cultura radicale di destra: ho letto di Jünger non solo il romanzo “Sulle scogliere di marmo” ma i diari e i tormenti in cui accusava il partito di Hitler di essere troppo moderato e ho letto e “Morte a credito” di Céline ma anche i suoi pamphlet antisemiti. Questi artisti possiamo capirli soprattutto se riattraversiamo in loro compagnia il “viaggio al termine della notte” perché è proprio dal buio, dalla melma e dal fango che traggono le loro energie.

Evola è oggi un filosofo sulla cresta dell’onda, ammirato dagli esponenti del pensiero “tradizionalista e fascista” europei e russi: ragion di più per spiegare ai visitatori del Mart la grande attualità di questo sconosciuto artista riscoperto da Vittorio Sgarbi. Non era opportuno raccontare di quali lacrime e sangue si sia nutrito il personaggio anziché tacere? Il critico, per concludere, non ci ha restituito Evola al completo ma ce l’ha presentato solo come un grandissimo pittore. Grandissimo, forse, ma antisemita e nazista, di sicuro.  

Mirella Serri     

Vittorio Sgarbi per la Verità l'8 luglio 2022.

E dunque si dica che non si può leggere Ernst Jünger, che nel 1930 aveva descritto gli ebrei come una minaccia per l'unità dell'Occidente. Poco conta che nel 1980 abbia ricevuto il premio Goethe , come Bertolt Brecht e Thomas Mann. E tanto meno Martin Heidegger che aderì con entusiasmo alla rivoluzione nazionalsocialista, con evidenti posizioni antisemite, come osserva Donatella De Cesare. 

E non parliamo di Céline, chissà perché pubblicato nella Pléiade. E naturalmente evitiamo di leggere Pound, sicuramente responsabile, con i parametri di Mirella Serri, di aver ispirato la inqualificabile Casapound, la cui esistenza è certamente una sua colpa. Evitiamo di leggere Gottfried Benn, chiamato nel 1933 a dirigere la sezione di poesia dell'Accademia di Prussia dalla quale erano stati espulsi poeti e pensatori ostili al regime nazista. Oltretutto nel 1937 Benn fu difeso da Heinrich Himmler. Bruciamo le fotografie di Leni Riefenstahl, amica di Hitler, il cui film Il trionfo della volontà fu giudicato dal dittatore «una incomparabile glorificazione della potenza e della bellezza del nostro movimento nazionalsocialista».

Dopo la caduta del nazismo, Leni fu sottoposta alla cura Serri: nel 1948 il quotidiano francese France Soir e quello tedesco Wochenende pubblicarono un presunto diario di Eva Braun, che conteneva dettagli imbarazzanti sul rapporto tra la Riefenstahl e Hitler. Era stato il suo vecchio amico e collega Luis Trenker a cedere il diario, assicurando che gli era stato affidato personalmente dalla defunta amante del Führer. 

Lo schema è semplice: qualunque autore, scrittore, pittore, regista abbia avuto a che fare con il nazismo, o con il fascismo, è colpevole anche per quello che ha fatto prima.

E, se per caso la sua opera piace a un sostenitore di Putin, è colpevole di aver ispirato «i folli convincimenti imperiali dello zar Putin». Lo dice esplicitamente la Serri: «Se è giusto non collegare meccanicamente l'opera artistica all'azione politica, ignorare le conseguenze politiche di un filosofo è quanto di più politico vi sia». Per cui io sono colpevole di aver esposto al Mart di Rovereto i dipinti di Julius Evola, concepiti tra il 1915 e il 1921. 

All'epoca non c'era l'ombra né del fascismo né del nazismo, e però nel 1937 l'introduzione di Evola alla traduzione italiana dei Protocolli dei Savi anziani di Sion ha contribuito ( lo pensava anche Umberto Eco) a far gassare 6 milioni di ebrei, perché venne usata da nazisti e fascisti per denunciare una fantomatica congiura ebraica per impadronirsi del mondo.

Ho molti dubbi che un testo di Evola abbia avuto una così potente influenza. Adesso che lo so, mi chiedo come ho potuto far vedere il lavoro di un pittore che dopo 20 anni si è manifestato come antisemita o fascista. Ma dobbiamo ricordarcelo ogni volta che parliamo di Filippo Tommaso Marinetti, di Fortunato Depero, di Mario Sironi, di Margherita Sarfatti, di Giacomo Balla, e molti altri dimenticati. Attenti: la Serri vigila.

Vittorio Sgarbi per “Il Giornale” il 10 luglio 2022.

Un museo documenta; non propone necessariamente capolavori, definizione opinabile e transitoria nelle alterne fortune dei maestri. Dante non piacque per gran parte del Seicento e del Settecento, come ha dimostrato l'impeccabile e imperdibile - ma da molti perduto - convegno sulla sua fortuna nelle sale della Accademia dei Lincei, in palazzo Corsini, sotto la illuminata presidenza del filologo Roberto Antonelli: «La ricezione della Commedia dai manoscritti ai media».

Non è il gusto di un critico o il suo personale giudizio che promuove o stronca un artista, il criterio che guida le scelte di un museo. Così appaiono sbagliate e pretestuose tutte le affermazioni di Demetrio Paparoni e di Elio Cappuccio, uno un critico mancato, l'altro un filosofo senza esperienza d'arte, i quali hanno, sommersi di fischi, ma emulati da un'altra incompetente, sparlato e sparato ad alzo zero contro Julius Evola, facendosi forti di un severo giudizio di Umberto Eco, senza alcun riferimento alla sua pittura tra il 1915 e il 1921, prima della nascita del Fascismo, e ignorando che, proprio parlandomi di Evola, Eco mi aveva manifestato la sua curiosità per il pittore, ricordando l'intelligente posizione di Enrico Crispolti. I due tordi, nelle vesti fittizie e a loro inadeguate del Gatto e della Volpe, si sono espressi in modo indegno sulla ben documentata, e certo non esaltata, esperienza pittorica dadaista di Evola, da me voluta e presentata al Mart di Rovereto.

L'obbiettivo infatti non è Evola. Sono io, sgradito alla presidenza del Mart. A loro vorrei dire che, anche ammesso che Evola non fosse paragonabile a Balla, lo stesso può dirsi (e lo dice il Vasari) di Giovanni Santi rispetto a suo figlio Raffaello. Nondimeno Palazzo Ducale di Urbino gli ha dedicato una mostra monografica, certamente utile. Eppure Vasari scriveva di lui: «pittore non molto eccellente e, anzi non pur mediocre in questa arte». I due incontinenti, su un giornale inesistente che esce sempre il giorno dopo (il Domani), hanno scritto qualunque cosa, con supponenza e presunzione, senza veramente guardare i quadri. Apre il Cappuccio: «A questa mostra va dato il merito di dimostrare che Evola non è stato presto dimenticato, come pittore, per le sue idee, ma semplicemente perché è stato un pittore modesto».

Non spiega perché, ma conclude, sconoscendo che la storia dell'arte è storia di riscoperte e che Caravaggio, per loro assassino prima che pittore, per esempio, fu «oscurato» fino al 1951: «Confrontandosi con le avanguardie, Evola ha presto compreso che quanto i suoi compagni di strada cercavano non rientrava nella sua concezione del mondo. Diversamente, come quelli di Emile Nolde, i suoi dipinti sarebbero stati tenuti in buon conto». Come se la sua affermazione o riscoperta dipendesse da lui. Considerazione incomprensibile se si pensa a quanti artisti sono stati scoperti e apprezzati tardivamente (Alessandro Rosi, Bernardino Mei, ma anche Wildt, Antonio Donghi o Wilhelm von Gloeden).

Poi Cappuccio perde il filo, e inizia a divagare, per spingersi, fuori campo, ai Protocolli dei Savi di Sion presentati da Evola nel 1938 (!), che in realtà è il '37, un altro Evola, come il Rimbaud di Aden è altro rispetto al Rimbaud di Parigi, Londra e Bruxelles; e a massacrare l'Evola politico, reazionario, fino a rimproverargli, fuori tempo massimo, di avere ispirato Putin (senza timore del ridicolo, e seguito, con temeraria fedeltà, da Marina Serra, sulla ignara Stampa, con lo sgomento Giannini, che ospita il plagio).

L'antistorica conclusione è impressionante, coinvolgendo anche, senza pudore, René Guenon: «Guenon ed Evola, il mito della Grande Madre Russia e della Terza Roma, possono essere utili per alimentare il dispotismo».

Da questi deliri, pur condivisi, cerca di allontanarsi Paparoni. In una Newsletter irricevibile scrive: «A incuriosirmi realmente era la mostra dedicata a Julius Evola, nata da un'idea di Vittorio Sgarbi. Non amo affatto Evola. Trovo le cose che ha scritto indigeribili, ma i quadri sino a quel momento li avevo visti solo in fotografia. E la fotografia, si sa, inganna: rimpicciolendo l'immagine corregge le indecisioni della mano, non fa ben percepire l'impasto e la consistenza della materia e comunque non consente di dare un giudizio corretto in quanto favorisce i pittori meno dotati e penalizza i più bravi». 

Tenta l'equidistanza, incartandosi, come se mai avesse capito la qualità della pittura, e mentendo: «Sono andato alla mostra animato da buona volontà. Poi mi sono trovato dinanzi ai quadri di Evola e sono rimasto sconcertato: che ci fanno dei quadri di un pittore così mediocre in un posto come il Mart? Ancora di più mi ha stupito leggere in catalogo che Evola-pittore sarebbe un protagonista del primo Novecento che ha dato un contributo a quello stesso modernismo che poi ha denigrato in tutti i modi possibili e immaginabili. Se si guardano le date dei dipinti, appare chiaro che Evola non ha dato nessun contributo innovativo al modernismo, perché ha sempre dipinto guardando i futuristi senza nemmeno arrivare a sfiorare la grandezza di Balla, Boccioni o Severini». 

Continua, il temerario, disperdendosi: «Non sorprende che, in un periodo storico segnato da sovranismo e derive autoritarie si tenti di valorizzare la figura di Evola pittore. Il titolo della mostra poi, Julius Evola. Lo spirituale nell'arte, creando un'associazione con l'arte di Kandinskij, suona come uno spericolato equilibrismo critico. Altro che vittima di damnatio memoriae, come sostiene Sgarbi in catalogo. Ci troviamo dinanzi al tentativo di sfruttare la sana opposizione alle orrende tesi sulla cancel culture per dare importanza, attraverso il suo mediocre lavoro di pittore, a un filosofo caro all'estrema destra. Artisti come Emil Nolde, Maurice Vlaminck, André Derain o Mario Sironi sono stati nazisti, collaborazionisti o fascisti, ma le loro opere trovano posto nei maggiori musei».

Paparoni sembra ignorare, nei confronti scelti, gli evidenti limiti di Vlaminck rispetto, per esempio, a Soutine, o di Derain rispetto a Balthus. Ma vuole infierire, non perdona, dimenticando di quanti mediocri si è occupato: «Le pennellate sono goffe, le linee incerte, la definizione dei punti di contatto tra le diverse masse pittoriche testimonia scarsa padronanza tecnica. A farla breve, come pittore Evola non spicca né per abilità tecnica né per originalità. Il suo è un velleitario tentativo di tradurre visivamente un problematico travaglio filosofico ed esistenziale». Così Paparoni può concordare con Cappuccio: «Evola era il simbolo del rifiuto della modernità e delle democrazie liberali. Ecco perché nel progetto eurasiatico di Aleksandr Dugin, che alimenta la politica di Putin contro l'Occidente, Evola diviene un alleato contro l'Europa e gli USA».

Bum! Non esistere dà alla testa. Demetrio Paparoni da tempo non esiste, come i giornali su cui scrive. Inutile rispondere. Lo fa, da par suo, il mio nemico Giampiero Mughini: «Quanto alla disputa se siano o no da mettere in mostra i quadri del periodo dadaista di un tipino (qualcuno direbbe un tipaccio) quale Julius Evola, sono d'accordo fino all'ultima riga con quanto sostenuto da Vittorio Sgarbi... Sono opere fra le più importanti dell'avanguardia italiana degli anni Venti e più precisamente del suo minuscolo nucleo dadaista, un'avanguardia di cui in quel momento Evola era un protagonista primario. Poi venne quella sua seconda vita, e questo per tutta la durata del fascismo, di teorico di una forma spirituale di antisemitismo che lo portò a rifugiarsi nella Germania nazi al tempo delle ultime battute della Seconda guerra mondiale... Nella casa in cui l'Evola paralizzato alle gambe trascorse gli ultimi venti e passa anni della sua vita ci sono stato. Alle pareti di quel piccolo appartamento c'erano i quadri dadaisti di Evola.

Bellissimi. Solo che erano delle copie. Era successo che nei primi anni Cinquanta Achille Perilli, uno dei primattori dell'avanguardia artistica romana del secondo dopoguerra, uno che quei mirabili quadri li conosceva, portasse a casa di Evola il gallerista e collezionista ebreo milanese Arturo Schwartz, quello che nel frattempo era divenuto il più grande esperto di dadaismo al mondo. È stato Perilli a raccontarmelo. Schwartz ci mise meno di un minuto a chiedere a Evola che glieli vendesse tutti. Evola che non aveva di che vivere disse di sì, solo che se ne fece delle copie per averne un ricordo... Nella mia collezione di prime edizioni del Novecento italiano mancano i due mirabolanti libri dadaisti di Evola, pubblicati entrambi a Roma in pochissime copie... Una meraviglia. Da morire da quanto era smagliante di creatività. Da mettere in mostra? A dire poco».

Come abbiamo fatto, ovviamente. In realtà sperando che i due gonzi (e la ganza) abboccassero per far parlare di Evola, per dargli Eco. Per concludere: «Oh gran bontà de' cavallieri antiqui!/ Eran rivali, eran di fé diversi,/ e si sentian degli aspri colpi iniqui/ per tutta la persona anco dolersi;/ e pur per selve oscure e calli obliqui/ insieme van senza sospetto aversi». Dall'altra parte, il niente. 

Lettera di Mirella Serri inviata a La Verità pubblicata da Dagospia l'11 luglio 2022.

Gentile direttore, su “La Verità” dell’8 luglio Vittorio Sgarbi mi attribuisce affermazioni mai pronunciate a proposito della mostra sui dipinti di Julius Evola da lui organizzata al Mart. Il critico mette in guardia  dal cosiddetto “metodo Serri” che consisterebbe nel demonizzare la cultura di destra. Secondo lo Sgarbi-pensiero io mi sarei espressa in questi termini: “Non esponete quadri di Evola perché filo nazista”. E di conseguenza il mio invito a tenersi lontani da autori fascisti o filonazisti si estenderebbe anche alle opere di Marinetti o di Céline, di Sironi o di Jünger. Mai detta una simile baggianata! 

Quelli citati sono tutti artisti da me molto amati. Le cose che ho scritto su Marinetti, ad esempio, di cui sono molto orgogliosa, testimoniano che ho sempre valorizzato la sua funzione modernizzatrice e rivoluzionaria nel contesto culturale italiano ancorché fascista (mi sono occupata, fra l’altro, dei rapporti tra lui ed Eva Kühn Amendola). 

Analogamente, spaziando nel campo opposto, nel mio libro “I redenti” ho raccontato la vicenda umana e politica di Renato Guttuso prima sostenitore del regime fascista e poi comunista dimentico dei suoi rapporti con la stampa mussoliniana. L’adesione politica nulla toglie all’espressione artistica, questo è il mio profondo convincimento. Ma è comunque un elemento imprescindibile per collocare un autore nel suo tempo e per gettar luce sulla sua poetica.

Per questo sono rimasta stupefatta quando, leggendo il catalogo della mostra organizzata da Sgarbi (di cui Demetrio Paparoni sul “Domani” ha segnalato alcune carenze), non ho trovato nessuna informazione o notizia relativamente alle posizioni ideologiche che lo hanno reso noto nel mondo occidentale e non solo.

Dagli anni Trenta Evola fu un convinto sostenitore del battage antisemita, continuò sulla stessa strada anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale e lo fece fino alla morte. 

Benissimo riscoprire in lui un valente dadaista fino a oggi ignorato ma un critico come Sgarbi ha il dovere etico di illustrarne l’antisemitismo e di inquadrarlo storicamente. Sarebbe come mettere in mostra gli acquerelli di un pittore di nome Adolf Hitler senza ricordare che è stato Cancelliere del Reich e tutto il resto. Oggi inoltre il filosofo romano filonazista deve la sua fama al fatto di essere un importante riferimento del pensatore Alexandr Dugin, come riconosce quest’ultimo a sua volta ispiratore della politica aggressiva e imperiale dello zar  Putin. Attualmente la sua riflessione filosofica viene utilizzata per giustificare l’aggressione russa all’Ucraina.  

Arrivo al dunque: se Sgarbi mi mette in bocca cose che non ho mai detto, non sarà perché, presentandolo solo ed  esclusivamente come pittore, proprio lui ha esercitato una censura sulla vita e sul pensiero di Evola? Perché non parla di tutto questo? Le esternazioni del filosofo sugli ebrei  erano così feroci che nel 1942 sollecitavano il giovane Italo Calvino a interrogarsi scandalizzato su tutte le “balle di Evola sul pensiero ariano”.  

Caro Sgarbi, basta dunque con le censure su Evola. Perché non prolunghi la mostra e stampi un depliant aggiuntivo al catalogo con un profilo completo del pensatore? Sarebbe un modo per orientare i numerosi visitatori dell’esposizione nel percorso pittorico e per allontanare da te stesso il sospetto di essere stato  il censore di un autore che tutti devono assolutamente conoscere, nel bene e nel male.         

Ps. Su  “il Giornale” del 10 luglio Sgarbi mi cita storpiando il mio nome in Marina Serra, usando la tecnica adoperata da Palmiro Togliatti per denigrare gli avversari. Ma soprattutto cerca di far dimenticare il fatto, a cui io ho dato un grande rilievo su “La Stampa”, che Umberto Eco denunciava su “l’Espresso’ la vera natura del razzismo “spiritualista” di Evola. 

E cioè che le teorie di Evola, così apprezzate da Mussolini, erano molto più efficaci nel mandare al lager gli ebrei del razzismo biologico elaborato dai nazisti. Ed è questo l’antisemitismo che oggi piace molto a Putin. Ma queste sono quisquilie per Sgarbi il Censore, si sa.  

Da mowmag.com l'11 luglio 2022.  

Vittorio Sgarbi risponde alle critiche per la mostra su Julius Evola al Mart di Rovereto (“celebra l’Evola pittore futurista ma dimentica il suo lato fascista e razzista”, tuonava tra gli altri La Stampa) e per l’apparente incoerenza rispetto all’atteggiamento tenuto riguardo all’esposizione su Margherita Sarfatti, amante del Duce. E in esclusiva per MOW rilancia e annuncia: “Farò una grande mostra su arte e fascismo e arte e comunismo”. 

Sgarbi comincia rispondendo ai rilievi mossi dal nostro Niccolò Fantini: “Se chiedi per strada chi era la Sarfatti, ti risponde correttamente uno su un milione, non è come Naomi Campbell o la Ferragni. È una grandissima, straordinaria storica dell’arte che ha fatto epoca, che ha dato la rotta all’arte del Novecento, che lo ha inventato, che al di là dei rapporti col Duce ha indicato un’arte fascista nel senso più alto della parola (non in senso politico, basta pensare a Sironi, fascista ma grande artista).

Però le persone che sono andate a vederla sono poche, mentre adesso Evola può essere più aiutato perché hanno fatto lo scandalo. Per questo io dicevo: se vuoi che vedano la Sarfatti devi scrivere «Arte e fascismo» e sotto mettere Sarfatti. È un problema di comunicazione, io non richiedevo un processo alla Sarfatti, dicevo che la mostra aveva avuto pochi visitatori perché nessuno sa chi è la Sarfatti”.

Quindi l’annuncio: “Lo dico a voi in anteprima. Farò una grande mostra su arte e fascismo e arte e comunismo. Ma non è che la faccio per giudicare, la faccio perché con un titolo del genere sai di cosa si tratta. Se fai un’operazione pensando che le persone sappiano chi è la Sarfatti presumi troppo e ottieni un risultato che non è quello che volevi, perché nessuno sa che era l’amante del Duce: andava comunicata come «Arte e fascismo – Margherita Sarfatti e il Duce». Io non ne ho fatta una questione di contenuto, come dice chi fa polemica. Dicono che avrei dovuto dire che Evola era fascista, ma quello non c’entra niente, è diventato fascista dopo: io mostro le opere come sono state mostrate quelle della Sarfatti.

Dopodiché la descrizione di quello che loro sono è un problema dei curatori: non è che parlo di Caravaggio perché era un assassino, ma perché era un pittore. In questa logica c’è evidentemente una confusione dei campi. Vorrebbero che per mostrare un dipinto di Caravaggio nel 1602 dicessi che era un assassino nel 1606. Se parlo del quadro del 1602 cosa c’entra l’assassino? 

Mi chiedono di occuparmi della questione razzistica di Evola, quando lui ha dipinto dal 1915 al 1921. Se io parlo delle opere d’arte che ha fatto in quel periodo – giuste, sbagliate, in rapporto al futurismo – non devo parlare di quello che è diventato dopo. Al contrario della Sarfatti, Evola è stato così tanto al centro di polemiche che la gente sa chi è, quindi non c’era bisogno che scrivessi fascismo o altro. Non c’è alcuna contraddizione – conclude Sgarbi – rispetto alle mie parole sulla Sarfatti”.

Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 6 luglio 2022. 

«Certo che sono felice dello stop alla scultura di Guglielmo Marconi a Cardiff. Tutti devono sapere che allontanò mio padre dalla sua azienda solo perché ebreo». Esther Rantzen, 81 anni, è lapidaria. Ex celebre giornalista della Bbc, ha presentato il programma That' s Life! per due decenni ed è da sempre impegnata nel sociale, per i bambini e gli anziani soli. 

Non a caso, è stata omaggiata dalla Regina Elisabetta II con le onorificenze "Officer" e "Commander of the British Empire", per poi essere nominata "Dame". 

Ma "Dama" Esther Rantzen, nata in Hertfordshire il 22 giugno 1940, è anche la figlia di Henry Barnato Rantzen, morto nel 1992 all'età di novant' anni. Il dottor Rantzen era un ingegnere elettronico ed ebreo, come tutta la sua famiglia che ha vissuto almeno dalla metà del Diciannovesimo secolo nell'East End di Londra, a Spitafields, allora quartiere di folte comunità di ebrei, irlandesi ed ugonotti francesi.

Henry Barnato Rantzen, da giovane ingegnere, ha iniziato a lavorare per la Marconi' s Wireless Telegraph Company. Ovvero, l'azienda del padre della radio e grande inventore italiano premio Nobel, fondata nel 1898 a Chelmsford, nell'Inghilterra che lo adottò, e specializzata in ricerca e produzione di dispositivi di trasmissione. 

Fino a quando, secondo quanto ora rivela a Repubblica sua figlia Esther, «venne cacciato perché ebreo». 

Sarebbe un'altra gravissima macchia sulla controversa immagine di Marconi, già accusato di fascismo e, dalla studiosa italiana Annalisa Capristo nel suo L'esclusione degli ebrei dall'Accademia d'Italia , di aver marchiato con la lettera "e" i candidati ebrei a quella che oggi è diventata l'Accademia dei Lincei, che gli affidò Mussolini. 

Perciò, Cardiff ha deciso di revocare il progetto in onore dello scienziato. La signora Rantzen non può che condividere pienamente questa decisione.

Dama Esther, ci racconti.

«Mio padre era un uomo intelligentissimo. Ingegnere elettronico, viveva a Londra, iniziò presto a lavorare per Marconi, ma poi dovette abbandonare. Quando divenni grande mi disse il motivo: era ebreo e dunque non era gradito». 

Venne licenziato?

«Venne allontanato o fu costretto a dimettersi, solo perché era ebreo. Non ho documenti che provino quale delle due, ma sul motivo lui non ha mai avuto dubbi e me lo ha sempre detto. Credo che accadde lo stesso anche ad altri colleghi della sua stessa religione». 

Quando avvenne?

«All'inizio degli anni Trenta, io non ero ancora nata». 

La questione sul "fascismo e l'antisemitismo di Marconi" è sempre stata molto controversa in Italia, lo sa?

«Sì. Questa immagine popolare benigna di lui nel vostro Paese mi ha sempre stupita. Ho sempre saputo che Marconi fosse fascista e antisemita. La decisione del Comune di Cardiff è assolutamente corretta: in genere sono contro l'abbattimento di statue, ma bisogna dare un messaggio forte contro l'antisemitismo e non permettere che si glorifichino personaggi simili. Del resto, Hitler non mandò una corona di fiori al suo funerale? Marconi è stato un leggendario inventore, ma anche un essere umano ripugnante». 

Suo padre come prese la defenestrazione dall'azienda?

«Era una persona stoica, non si è mai abbattuto. Con mia madre si sposò nel 1937, a 35 anni, accolsero un bambino ebreo in fuga dall'Europa. Poi, ebbero me e mia sorella Priscilla. Andò a lavorare per la Bbc, e lì costruì una brillante carriera, lavorando nel settore più innovativo. Curò persino il video dell'abdicazione di Edoardo VIII. Mi raccontava che a registrazione finita il sovrano uscente gli fece: "Ah, questo non farà piacere a Queen Mary!", ossia sua madre. 

Certo, in quegli anni l'antisemitismo era molto esteso in Europa, e papà ne fu vittima anche alla Bbc. Ma, a differenza di Marconi, alla tv pubblica venne aperta un'inchiesta interna, il responsabile fu punito e i dirigenti si scusarono con papà».

Dopo quasi un secolo, quanto è ancora minaccioso oggi l'antisemitismo nel Regno Unito?

«Siamo certo una società molto più tollerante, ma purtroppo l'antisemitismo è duro a morire. C'è ancora un subdolo pregiudizio verso gli ebrei, che si annida nell'atteggiamento verso Israele. Lo dico da ebrea non sionista, e critica verso molte politiche dello Stato ebraico. Purtroppo però è evidente, sia nell'estrema destra, sia in certa sinistra, come nel Labour di Jeremy Corbyn». 

La rassicura ora il suo successore, Sir Keir Starmer?

«Sì. Conosco bene Keir, perché abbiamo lavorato insieme in passato per la protezione dei bambini. Si sta impegnando molto per riconquistare la fiducia della comunità ebraica. Ma mi spaventa ancora parte del partito e dei suoi iscritti». 

Si è mai chiesta cosa sarebbe stata la sua vita se suo padre non fosse stato licenziato dall'azienda di Marconi?

«Ogni tanto sì. Forse neanche io avrei lavorato alla Bbc per 39 anni.

Quindi, in un certo senso sono grata a Marconi. Ma quella scultura a Cardiff proprio no, grazie».

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” l'1 luglio 2022.

«Miss, mia cara Miss, faccio a scummessa ca io mi sposo a te. Miss mia dolce miss, io voglio il bis e tu lo sai di che», cantava il grande Totò. E magari oggi sarebbe stato considerato anche lui un rude sessista sia per aver elogiato una Miss che per avere alluso a rapporti intimi con lei. E, in quanto tale, non avrebbe potuto mettere piede e tanto meno cantare quella canzone a Corato, in provincia di Bari, la cui amministrazione comunale ha negato il patrocinio alla manifestazione locale di Miss Italia, perché giudicata «maschilista» e ispirata a una concezione «consumistica» (sic!) della bellezza femminile.

La rassegna si è svolta domenica 26 giugno e, a differenza degli altri anni - si legge su coratolive.it -, nella giuria non era presente alcun rappresentante istituzionale o componente dell'amministrazione comunale, visto che per la prima volta il Comune aveva deciso di non patrocinare l'evento. La ragione? Si è scoperta dopo una domanda del consigliere di opposizione Vito Bovino cui ha risposto direttamente il sindaco di centrosinistra, Nicola De Benedittis. 

CONCETTO DISCUTIBILE «Abbiamo fatto una riflessione sul corpo delle donne e sul concetto di bellezza», ha detto il primo cittadino.

«Riteniamo che quella idea di bellezza propinata dal concorso Miss Italia sia molto discutibile, molto relativa e molto riduttiva» perché «quei canoni sono alquanto riconducibili a una visione maschilista e consumistica della bellezza e del corpo delle donne». E ancora: «Sappiamo che dentro il sistema economico consumistico la declinazione maschilista sui corpi delle donne prevale e noi a questo con fermezza e serenità diciamo di no».

Una dichiarazione rispedita al mittente dall'organizzatore del concorso, Antonio Garofano, presidente dell'ASD Wellness che, insieme alla Carmen Martorana Eventi, ha realizzato la manifestazione. «È una decisione che ci ha lasciato spiazzati», ha avvertito. 

NIENTE DI DISDICEVOLE «Non nascondo delusione poiché non è stato riconosciuto l'autentico valore della manifestazione. Durante la rassegna è stato dato spazio alla bellezza e all'eleganza ma anche a messaggi importanti come una riflessione sul femminicidio, il problema dei disturbi alimentari, e l'ambizione delle donne di fare carriera negli ambiti più disparati». Ma, ci permettiamo di aggiungere, quand'anche la manifestazione coratina si fosse limitata a mettere in mostra la bellezza delle concorrenti, non ci sarebbe stato nulla di disdicevole, se è vero che l'esaltazione del Bello è uno dei principi su cui si fonda la civiltà occidentale.

A maggior ragione se, come nel caso di questo concorso, la celebrazione della bellezza non ha alcunché di volgare o di offensivo. Mettici pure che Miss Italia è un evento che, al pari del Festival di Sanremo, fa parte del costume italiano e della sua cultura nazionalpopolare, è stato trampolino di lancio per carriere illustri (ricordiamo Sophia Loren, Martina Colombari, Anna Valle, Francesca Chillemi, Miriam Leone) e si associa a una dimensione ludica della competizione, che crea innocente divertimento in chi la guarda e "sorellanza" tra le concorrenti. Negarle il riconoscimento istituzionale non è una forma di progresso, ma di oscurantismo, un atteggiamento bacchettone che rischia di suonare talebano: che facciamo, sindaco, mettiamo il velo alle concorrenti per non mercificare il loro corpo e non esporlo al consumismo?

Non vorremmo però che tutto nasca dal fatto che la prima edizione di Miss Italia si svolse nel 1939. E, in quanto tale, è una manifestazione fascistissima da proibire... P.S.: Corato è il paese di mia mamma, la più bella. E, col benestare del sindaco o meno, resterà lei sempre Miss Corato.

"Eliminiamoli dalla faccia della Terra". Odio "buonista" contro Pio e Amedeo. Francesca Galici il 30 Giugno 2022 su Il Giornale. 

Il duo comico è stato riconfermato con due nuovi show su Canale5 ma questo ha scatenato la furia dei politicamente corretti accecati di rabbia

I soldatini del politicamente corretto proprio non ci vogliono stare alla democrazia, che garantisce a tutti diritto di parola. Lo dimostrano a ogni piè sospinto e ogni occasione sembra buona per invocare la censura su chi ha un pensiero diverso dal loro. In queste ore i social sono invasi da messaggi d'odio contro Pio e Amedeo, "colpevoli" di essere stati riconfermati per la prossima stagione Mediaset con due programmi.

Il duo comico pugliese è stato il mattatore della serata dei palinsesti a Cologno Monzese e, tra una battuta e l'altra, è stato annunciato il loro ritorno con Emigratis, programma che li ha resi celebri al grande pubblico, ma anche con Felicissima sera, il programma campione di incassi che dopo una stagione di stop tornerà in primavera per provare a replicare gli ottimi ascolti della prima edizione. La forza della coppia comica è nell'ironia dissacrante del politicamente scorretto che non risparmia nessuno, e lo hanno dimostrato in varie occasioni. Va sempre tutto bene quando la coppia calca la mano su personaggi e temi che non sono graditi alla comunità radical chic, ma quando quel tipo di battute viene rivolto ad altre categorie si sollevano le mobilitazioni popolari e si chiede la testa dei due "eversivi".

Il coraggio di Pio e Amedeo di non chiedere scusa

Il livello d'odio nei confronti di Pio e Amedeo è cresciuto a dismisura dopo un monologo fatto proprio nel corso della prima edizione di Felicissima sera. "Nemmeno ricchione si può dire più, ma è sempre l'intenzione il problema. [...] Se vi chiamano ricchioni, voi ridetegli in faccia perché la cattiveria non risiede nella lingua e nel mondo ma nel cervello: è l'intenzione", dissero, tra le altre cose, in quell'occasione, scatenando un putiferio mediatico che scomodò perfino la politica. Sono stati tacciati di essere omofobi, quando il loro monologo viaggiava esattamente nella direzione opposta, solo perché non vengono considerati abbastanza "chic" per parlare di certi temi. E quindi, memori di quanto accaduto oltre un anno fa, ecco che sui social sono piovuti i commenti contro Pio e Amedeo. "Non capisco perché Mediaset continui a dare spazio a Pio e Amedeo", si chiede un utente che evidentemente non ha familiarità con i concetti di pluralità di idee e di libertà di espressione.

Altri considerano il duo comico "una piaga", altri ancora li paragonano a "una colica renale il 15 agosto". Poi ci sono quelli che "Pio e Amedeo devono essere cancellati dalla faccia della Terra, è incredibile quanto mi stiano sul cazzo". Niente meno. Tutta questa indignazione gratuita, inutile, futile e ridicola per due persone che semplicemente esercitano il loro diritto di espressione non l'abbiamo notata per quanto detto sul palco del concerto organizzato da Fedez. Abbiamo i soliti due metri di giudizio per "quelli che piacciono" quelli che no. Evviva (sempre e comunque) il politicamente scorretto.

Francesca Galici per “il Giornale” il 30 luglio 2022.

«Questa che mi vede apre le cosce / Vorrebbe un figlio col mio cognome». È il concerto organizzato da Fedez, Love Mi. «Figlio di puttana, non finocchio / Ho una 9 vera, non farlocco (Non farlocco)». 

È musica trap, proprio sotto la Madonnina. «Dico solo vero, no Pinocchio (Ah) / Metto rapper puttane in ginocchio / Volevo una Glock, ora ne ho quattro». È Paky, lì sul palco. C'è la sua gang. Canta «Blauer», fuma una sigaretta e sproloquia. È la trap, appunto.

Tutto normale. Solo che non ce lo aspettavamo lì, invitato da Fedez, il marito social di Chiara Ferragni che, a furia di fare storie pro Lgbtqi+ su Instagram, sembrava essersi dimenticato le sue origini.

Paky è politicamente scorretto. Anzi scorrettissimo. Le sue rime arrivano da Rozzano. Periferia milanese. Degli accorgimenti linguistici, dello schwa e di altri mode sinistre tanto care ai radical chic che stanno al di qua della cerchia dei Bastioni non sa proprio che farsene. «Quest'anno ho chiuso due date a Riccione / La scena in Ita è piena di ricchioni».

E piazza Duomo impazzisce: salta, balla e canta. Nessuno ci fa caso alle parolacce, alle puttane da mettere in ginocchio, ai finocchi. Tutto molto scorretto, tutto dannatamente trap. 

Un tempo anche Fedez faceva lo stesso. Le sue canzoni (o meglio i suoi primi successi) vengono da quella stessa cultura. E il linguaggio, che usava per colorire le sue rime, non si discostava poi tanto da quello di Paky. C'era un tempo in cui il marito della Ferragni non viveva incasellato nelle strette maglie del politicamente corretto.

Più di dieci anni fa cantava Tutto il contrario. E così reppava: «Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing / ora so che ha mangiato più wurstel che crauti». E, invece, in Ti porto con me: «Non fare l'emo con lo smalto sulle dita». Oggi, certe rime, non le scriverebbe più. 

Negli ultimi anni l'esplosione dei social e la ricerca compulsiva del consenso hanno trasformato Fedez in un paladino della causa Lgbtqi+. Le storie con lo smalto arcobaleno fanno presa sui più giovani e questo porta una vagonata di like (e di soldi). Così ieri sera, al termine del concerto Love Mi, molti gli hanno fatto notare di non aver detto «beh» a Paky dopo che dal palco aveva cantato Blauer.

Siamo ben lontani dall'accodarci noi, che da sempre combattiamo il politicamente corretto, a certe ramanzine. Forse Fedez è tornato il Fedez delle origini, quello che cantava Canzone da gay nel 2006, quello che non si faceva imbrigliare da certi conformismi. Forse. Noi ce lo auguriamo.

Ecco come asfaltiamo il politicamente corretto. Di Fabio Dragoni su Culturaidentita.it su Il Giornale il 25 Giugno 2022.

Plasmano le parole con la sfrontatezza di un bimbo alle prese con quello che una volta chiamavamo pongo. Oggi Didò. Ma anche con la maestria di uno scultore. L’accademia dei linciaggi prende il posto dell’accademia dei Lincei. In una civiltà oppressa dal politicamente corretto. L’ideologia diventa odiologia. Per tutti quei protagonisti da Orsini a Cacciari; da Santoro a Giorgino. Una volta usciti dal cono di luce del mainstream diventano reietti. Edoardo Sylos Labini si confronta con Marcello Veneziani all’apertura del Quinto Festival di Cultura Identità ospitato dalla città di Senigallia. Pensatore controcorrente e sempre fuori posto. Che è un po’ il destino dei profeti inascoltati del Novecento. Sempre in disaccordo col proprio tempo. Sempre avanti. Sempre dalla parte sbagliata che poi è quella giusta. Ma tutti la vedranno come tale ma solo dopo molti anni. Finirà a far loro compagnia pure Veneziani. Lo sa. Non se ne compiace. Accetta semplicemente il destino. Mentre li racconta intervistato da Sylos Labini. Nelle vesti di presentatore e padrino della manifestazione accompagnato dal cantautore Stefani e dal “doppiatore artigiano” Violini.  Pierpaolo Pasolini fu espulso dal Partito Comunista per la sua omosessualità mentre oggi ne fa una bandiera tanto stanca quanto conformista. Sempre dalla parte “sbagliata”. Coi poliziotti non con i figli annoiati della borghesia che giocavano a fare i rivoluzionari nelle rivolte studentesche. “Difendi, conserva, prega” diceva Pasolini che oggi farebbe 100 anni se fosse ancora vivo. Vanno spesso d’accordo ma non sempre. E comunque talvolta non troppo, Marcello ed Edoardo. “Tu Edoardo sei come Giordano Bruno Guerri. Vi piace Filippo Tommaso Marinetti e pure d’Annunzio perché sono pelati come voi”. Chiosa Veneziani a proposito del padre del futurismo. Un vero imprenditore dell’arte e della cultura. Ha unito Roma a New York. Parigi a Mosca. In quelle città il suo pensiero ha messo le radici. Ma di sé ha anche lasciato un ricordo quasi archeologico. Che è un po’ un cortocircuito. Per chi si professa futurista. Chiosa sarcastico Marcello Veneziani. Con lo stesso sarcasmo di Flaiano. Non raccontava l’italiano migliore. Ma quello che vedeva. Imbattibile negli aforismi. Chissà che meraviglia vederlo oggi su twitter. Pirandello? Intellettuale apparentemente provinciale ma autenticamente globale. Tanto da vincere un Nobel. Ma la letteratura italiana non è metropolitana. Finendo a Giovanni Gentile. Filosofo, pensatore e che da ministro ha plasmato la nostra scuola. Non al servizio di un regime ma a quello del Paese. Ancora oggi la nostra scuola è quella di Gentile. Fa caldo a Senigallia. Una cappa di calore. Molto meglio sopportabile di quella raccontata da Veneziani nel suo ultimo saggio. Apprezzato dal pubblico in libreria ma molto meno dai critici dei giornaloni. Se no che cappa sarebbe? Due anni di pandemia con le loro odiose restrizioni, la cultura della cancellazione, la guerra col tifo da stadio, il politicamente corretto che altro non è che fascismo in assenza di fasciamo. “Credevamo di vivere in una società aperta ed invece era una società coperta”. Chiude Veneziani salutando Edoardo applaudito dal pubblico.

Maurizio Cattelan E Anish Kapoor per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2022.

Ciao Anish. So che cominci a lavorare alle 9.30 tutte le mattine. È vero? Ma cosa fai quando ti svegli?

«Mi sveglio alle 6.30. Dopo colazione faccio un po' di meditazione. Inizio a lavorare alle 9.30 e continuo fino alle 18 - una normale giornata di lavoro». 

Come passi il tempo libero?

«Leggendo, guardando la tv, camminando, giocando con mio figlio». 

L'ultima mostra (non tua, possibilmente) che hai visto?

«Kiefer a Palazzo Ducale a Venezia».

Pensavo fossi uno scultore, invece dipingi...

(Maurizio ride) «Vado dove mi porta l'opera. Negli ultimi 40 anni ho fatto dipinti e, in qualche modo, hanno richiamato maggiore attenzione». 

Hai un maestro, a parte Giorgione, Tiziano, Antonello da Messina?

«Tutti quelli che hai detto e tanti, tanti altri: Barnet Newman; Picasso; Walter Benjamin; Julia Kristeva; Paul Celan; il mio caro amico Homi Bhabha, e così via». 

Che cos' è per te il processo creativo?

«Ho una pratica. Costante e continua, il lavoro emerge dalla pratica. Non credo nelle buone idee. Tutte le idee sono buone, cerco di attenermi al principio "prima idea, migliore idea". Il mio mestiere è scoprire quello che è nascosto o è semisconosciuto dentro di me. Il non riconosciuto-saputo. Faccio almeno un lavoro al giorno». 

Com' è organizzata la struttura operativa del tuo studio? Quante persone lavorano con te alle tue opere?

«Nello studio ho 23 persone - una decina lavora in studio e il resto è in amministrazione. Io lavoro da solo in uno spazio separato. La scultura è un processo lungo». 

Lavori più con le visioni o con i materiali? Da dove parte e come prende vita un tuo progetto?

«Alchimia, visione e materiali. Una volta ho chiesto a un fisico quantico quale fosse la differenza a livello quantico tra la pittura in una metropolitana e la pittura su una grande opera d'arte. Non ha saputo rispondermi, ma io so che la pittura su una grande opera d'arte possiede materia psichica ed è diversa dalla pittura in una metropolitana. In altri termini, è stata sottoposta a una trasformazione alchemica. Il mix di psiche e materia è quella meraviglia che noi umani possiamo fare e che abbiamo dimenticato che possiamo fare». 

L'acquisto di Palazzo Manfrin ha a che fare con un bisogno personale di garantire un futuro ai tuoi lavori? Temevi di essere dimenticato? Perché hai scelto Venezia?

«Non mi importa di cosa succederà dopo la mia morte. Ho comprato Manfrin per il gusto di farlo, una sciocchezza, ma io amo Venezia». 

È vero che la tua mostra veneziana è tutta orientata a rappresentare l'opposizione, quella tra luce e buio, presenza e assenza, idea e realtà? Pensi di esserci riuscito?

«Nessuna mostra valida si concentra su un'unica cosa, non ho niente da dire. Non ho messaggi da inviare come artista. L'arte con i messaggi è svilita dal suo bisogno di dire qualcosa. La grande arte porta significato interagendo con lo spettatore. Ritengo che negli anni sia emersa la perdurante realtà di un universo di opposti - giorno e notte, maschile e femminile, buono e cattivo, pieno e vuoto. Mi dici tu, caro Maurizio, se ci sono riuscito?». 

Che cos' è davvero il tuo nero assoluto?

«Questo materiale deriva dalla nanotecnologia. È il materiale più nero dell'universo, più nero di un buco nero. È una sostanza che viene messa su una superficie e poi inserita in un reattore. Questo processo fa sì che le particelle si rizzino come le fibre sul velluto. Per dare un senso delle proporzioni: se una particella è larga un metro, è alta 300 metri, e questo fa sì che la luce venga intrappolata tra le particelle, senza alcuna possibilità di fuoriuscire. Questo nanomateriale assorbe il 99,8% di tutta la luce.

Nel Rinascimento ci furono due grandi scoperte. Una, ovviamente, è la prospettiva, che pone l'individuo al centro, e l'altra è la piega. La piega è l'essenza dell'essere - il corpo avvolto nell'abito o la piega. Se questo materiale nero viene posto su una piega, la piega scompare. Non si vede più. Quindi, penso che questo mio progetto porti l'oggetto Oltre l'Essere ... Ovviamente mi riferisco al Quadrato nero di Malevich e alla sua affermazione che è una proposizione quadridimensionale. L'arte deve fare realtà mitologica. Nella confusione tra occhio, cuore e mente c'è tanto mistero». 

Per te il senso del tuo lavoro è legato allo sguardo di chi osserva? Te lo chiedo perché anni fa un visitatore è precipitato all'interno della tua opera «Descent into Limbo» realizzata con il Vantablack. Siete diventati amici?

«Lo sguardo dell'osservatore è essenziale. Non faccio arte per lo spettatore, ma sono consapevole del modo in cui lo spettatore completa il ciclo dell'opera d'arte. Non possiamo guardare senza identificarci, perché guardiamo con amore, odio, desiderio, disgusto, ammirazione, etc. È impossibile fare diversamente. Visto che l'arte è mitologica e non riguarda l'oggetto in sé, essa gioca con queste cose dentro di noi.

Descent into Limbo è un buco profondo nel terreno, fatto in modo da sembrare un oggetto sul pavimento. È uno spazio talmente pieno di oscurità da non essere più vuoto. È uno spazio pieno di oscurità. Quel tipo non credeva a ciò che vedeva davanti a sé. Nonostante gli fosse stato detto che era pericoloso. Ci è saltato dentro... No, non siamo amici, ma sarei felice di incontrarlo. Kant dice che il sublime è pieno di rischi. La perdita di sé è la nostra paura più grande. Stai sul ciglio e salta... volare o morire». 

Perché sei ossessionato dal non-oggetto?

«In un mondo pieno di oggetti, è l'opposto di un oggetto. Lo spazio interno è più grande di quello che lo contiene. Chiudi gli occhi e chiedi se lo spazio che occupi è uguale al limite fisico del tuo corpo. I nostri sé immaginari sono fatti di oggetti invisibili e ho scoperto che il mondo oggettivo reale è anche fatto del semi-reale o dell'irreale-reale, il Non-Oggetto».

Come si diventa un artista? Tu come hai fatto?

«Essendo un pazzo, profondamente anti-autoritario e non essendo disposto a stare al gioco. Ho scritto sulle pareti del mio studio: dissenti - disobbedisci - disconosci . La società è padrona, non essere uno schiavo, dissenti, sii un artista e di' al mondo di prenderlo in quel posto». 

Quanto conta la tecnica rispetto all'idea?

«Non è importante. Ma anche le idee non sono importanti. L'arte vive in uno spazio tra idea e nessuna idea. In un universo pieno di oggetti, oggetti nominabili e comprensibili, l'Arte raramente può proporre qualcosa di inconoscibile o di innominabile. Questo vale una vita di lavoro». 

Chi decide oggi che cos' è arte? C'è una differenza rispetto al passato?

«Ci troviamo in una profonda crisi culturale. Tutti i territori formali sono stati oltrepassati. Tutto è permesso. Questo provoca confusione. Purtroppo, abbiamo pazzi ignoranti che si definiscono curatori e a quanto pare dirigono i nostri musei. I musei sono in confusione, hanno perduto i mezzi con cui esprimere giudizi estetici e poetici e quindi loro vanno in giro per il mondo a raccogliere arte qua e là, una forma di esotismo. Guidati dal politically correct e da programmi estremamente banali. Tutto questo, preservando la gerarchia del maschio bianco per quanto attiene agli eventi storici. Che stupidaggine. Noi artisti dobbiamo rifiutarci di essere parte di questo neo-colonialismo culturale ignorante».

Quanto la tua ricerca è condizionata dalle esigenze del mercato o quanto è un atto totalmente inconsapevole, inconscio, libero?

«Il mercato è il nemico degli artisti. Lavorare per il mercato significa la morte dell'artista e dell'arte, eppure il denaro è una delle proprietà mitologiche dell'arte». 

Nella Casa di Asterione Borges spiega che il terribile Minotauro non è (solo) un mostro, ma una vittima, in realtà, di Teseo. L'arte per te dovrebbe fare questo? Capovolgere il senso comune?

«Sì. Il grande visionario psichico, Sigmund Freud, ci ha indotti a ri-conoscere quello che gli antichi sapevano, che tutti i mostri sono vittime, che il linguaggio psichico è, al contempo, il linguaggio di fatti e controfatti». 

Secondo te oggi l'arte è in crisi? Se lo è, perché? O pensi che l'arte sia ancora capace di produrre davvero qualcosa di nuovo?

«Come ho detto, la cultura è in crisi profonda. Siamo diventati schiavi del capitalismo. Dobbiamo tenere sempre ben presente che noi artisti non siamo produttori di beni di lusso. Il nostro ruolo è essere RADICALI in un mondo che ha dimenticato cosa può essere il radicale. Come è possibile che il radicale sia in vendita? Una volta consumata, l'arte non può più essere radicale. Ci è stata tolta tutta l'oscurità. Asserviamo i nostri figli al capitalismo privandoli della loro creatività e individualità. La disobbedienza è l'unico modo. Finché non ci rifiutiamo di seguire le regole, restiamo intrappolati nel conformismo. Lo spirito umano è meraviglioso e pieno di inventiva, ma nel XXI secolo è ormai schiavo. ARTISTI, LIBERATEVI». 

Quali sono gli artisti viventi che invidi?

«Quelli che dicono al mondo di andare all'inferno. Quelli che non staranno al gioco». 

Da “il Messaggero” il 15 giugno 2022.

Il vaiolo delle scimmie cambia nome e lo fa contro le discriminazioni. Così come è accaduto per il Covid, nome voluto dall'Organizzazione mondiale della Sanità per evitare che l'epidemia di Coronavirus venisse identificata con la Cina, anche monkeypox, il vaiolo delle scimmie, avrà una nuova definizione. 

La decisione è stata annunciata dal direttore generale dell'Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus, che ha convocato il 23 giugno il Comitato di emergenza per stabilire se si tratti di «un'emergenza internazionale», e arriva dopo che 30 scienziati la scorsa settimana hanno lanciato un appello segnalando «l'urgente bisogno» di trovare un nome che non sia discriminatorio e non crei alcuno stigma nei confronti dell'Africa.

Questo perché è ignota l'origine geografica dell'epidemia. «Stiamo lavorando a una soluzione con partner ed esperti di tutto il mondo», e l'annuncio della nuova definizione sarà fatta «il prima possibile». ha fatto sapere l'Oms.

"La verità è un'altra". La guerra delle immagini sul vaiolo delle scimmie. Roberto Vivaldelli il 15 Giugno 2022 su Il Giornale.

Un gruppo di scienziati africani accusa i media mainstream occidentali di impiegare le foto di bambini del Continente nero anziché i maggiori pazienti di questa nuova ondata del virus: gli uomini occidentali che hanno avuto rapporti omosessuali.

Il "vaiolo delle scimmie"? È discriminatorio, almeno secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). L'istituto specializzato dell'Onu per la salute ha annunciato che sta lavorando con alcuni esperti per cambiare il nome del virus che si è diffuso in più di 20 paesi nelle ultime settimane, dopo che nei giorno scorsi un gruppo di scienziati internazionali ha lanciato l'allarme sulla "natura discriminatoria" dei nomi che vengono affibiati a queste malattie di natura virale. Ad annunciarlo è stato il direttore generale dell'Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, il quale ha affermato che l'organizzazione sta "lavorando con partner ed esperti di tutto il mondo" per trovare un nome alternativo alla patologia infettiva causata dall'Orthopoxvirus. Ma dietro questa iniziativa dell'Oms c'è molto di più.

Perché l'Oms vuole cambiare il nome al "vaiolo delle scimmie"

Il tutto nasce, come accennato, da un documento pubblicato venerdì scorso da un gruppo di scienziati africani, stufi di come i media rappresentino il virus con le immancabili foto di bambini (sempre africani) colpiti dalla malattia. Una rappresentazione non veritiera quando, a loro dire, i più colpiti sono in realtà gli occidentali di orientamento omosessuale. "Nel contesto dell'attuale epidemia globale, il continuo riferimento e la nomenclatura di questo virus africano non solo sono imprecisi, ma sono anche discriminatori e stigmatizzanti" sottolinea Christian Happi, direttore dell'African Center of Excellence for Genomics of Infectious Diseases presso la Redeemer's University di Ede, in Nigeria, uno dei promotori di quest'iniziativa.

"Se il SARS-CoV-2, ad esempio, non è stato chiamato il virus di Wuhan, allora la domanda è: perché abbiamo un virus che prende il nome da una specifica posizione geografica in Africa, e quindi per estensione che si estende alle persone in quelle aree”, ha detto Happi. "Se dobbiamo usare la posizione geografica come riferimento, allora lo deve essere per tutti i virus " afferma.

"Basta foto di bimbi africani malati, la verità è un'altra"

Happi si scaglia contro il modo in cui l'epidemia viene descritta dai media mainstream, a cominciare dalle foto dei bambini africani con lesioni da vaiolo delle scimmie che vengono utilizzate per parlare della diffusione della malattia. Lo scienziato nota infatti che quest'ondata di vaiolo delle scimmie non si sta diffondendo tra i bambini africani ma perlopiù tra gli uomini, occidentali, che hanno avuto rapporti sessuali con altri uomini.

"Lo troviamo molto discriminatorio, lo troviamo molto stigmatizzante e in una certa misura... lo trovo molto razzista", ha detto. "I media mainstream, invece di mostrare immagini di persone che si presentano con le lesioni, che sono uomini bianchi, continuano a proporre immagini di bambini in Africa e africani. E non c'è nessun collegamento". Capito? Lo scienziato africano accusa i media mainstream occidentali di "razzismo" perché le vere vittime di quest'ondata di vaiolo delle scimmie non sono i bimbi africani, ma gli occidentali gay. Chissà se questo gruppo di scienziati africani verrà accusato di "omofobia" dalle anime belle del politically correct. Ecco perché, al fine di togliere le castagne dal fuoco ed evitare ulteriori imbarazzi, l'Oms è pronto a trovare un nome diverso a questa patologia. Al più presto.

Che cos'è il "Monkeyprox"

Il vaiolo delle scimmie - Monkeypox - fu scoperto per la prima volta nel 1958 quando si verificarono due focolai fra gli essere umani di una malattia simile al vaiolo studiato fra le scimmie, da cui il nome "Monkeypox". Il primo caso umano di vaiolo delle scimmie è stato registrato nel 1970 nella Repubblica Democratica del Congo (RDC). Da allora, la malattia è stata segnalata in persone provenienti da molti Paesi dell'Africa centrale e occidentale: Camerun, Repubblica Centrafricana, Costa d'Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Liberia, Nigeria, Repubblica del Congo e Sierra Leone. La maggior parte dei contagi, prima dell'attuale ondata di casi, si registrava proprio nella Repubblica Democratica del Congo.

Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” il 17 giugno 2022.

Ma fanno sul serio le teste d'uovo dell'Oms? Un'associazione di idee così infelice, e così plasticamente razzista se letta alla luce di logica e grammatica, probabilmente non la si riuscirebbe a rintracciare nemmeno nelle riunioni clandestine dei neonazisti tedeschi. Ma facciamo parlare la cronaca, che come sempre è la cosa migliore quando l'assurdo e la realtà combaciano. 

L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha solennemente annunciato che il "vaiolo delle scimmie" d'ora in poi si chiamerà diversamente, accogliendo il fondamentale appello lanciato la settimana scorsa da una trentina di scienziati, che sottolineavano «il bisogno di dargli un nuovo nome in modo che non sia discriminatorio nei confronti dell'Africa».

Il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus ha dichiarato che il 23 giugno sarà convocato il Comitato di emergenza dell'Oms per dirimere la questione, non dando segno di accorgersi, da etiope, del sillogismo ubriaco che l'Organizzazione sta avallando. Collegare un morbo alle scimmie è "discriminatorio" nei confronti dell'Africa e degli africani. Dunque, gli africani sono in qualche modo collegati alle scimmie. 

Il documento degli scienziati (ma chiediamo scusa ad Albert Einstein) spronava infatti a coniare denominazioni «neutre, non discriminatorie e non stigmatizzanti» (la rifondazione edulcorata del linguaggio è il primo obiettivo di ogni autoritarismo, compreso quello protocollare del politically correct) che la piantino con il «riferimento impreciso all'Africa».

Il problema, secondo il ragionamento allucinato della burocrazia sanitaria mondiale, non sono quindi le scimmie in sé, che peraltro non vivono solo nel Continente Nero (forse dovremmo dire Diversamente Pigmentato), ma le scimmie in noi, anzi in loro: il rimando alla popolazione africana. Immediato, autoevidente, peggio che lombrosiano, etnicista, se non francamente suprematista. 

Se a questa conclusione arrivasse un esponente nostrano della destra becera e sovranista, sarebbe tradotto in ceppi davanti al Soviet dei Buoni ed espulso dal consesso civile, o perlomeno condannato ad imparare a memoria l'opera omnia di Walter Veltroni. Col timbro dell'Oms, questa boiata da positivismo d'osteria tardo-ottocentesca viene seriamente rilanciata nel rullo delle agenzie di stampa internazionali.

«Stiamo lavorando a una soluzione con partner ed esperti di tutto il mondo», e la nuova definizione del morbo verrà resa pubblica «il prima possibile», ha rassicurato tutti il risoluto Ghebreyesus, non nuovo a prodezze di neolingua orwelliana in tema di epidemie. 

Resta infatti agli annali la sua funambolica crociata contro chi si permetteva di definire un patogeno deflagrato in tutto il mondo a partire da Wuhan, anche per comprovate opacità e omissioni del regime comunista, «virus cinese». 

Del resto, il direttore era un militante del Fronte di Liberazione del Popolo del Tigri, organizzazione marxista-leninista appoggiata da Pechino, e come tutti i marxisti si muove perfettamente a suo agio nella nuova ideologia del progressismo globale, il Politicamente Corretto. Paranoico come ogni ideologia, questo marchingegno pseudobuonista vede razzismo ovunque, perché è intimamente razzista esso stesso.

È il Politicamente Corretto che divide l'umanità per colore, per epidermide, per genere, per geografia, per inclinazione, costringendo quella che il filosofo Paul Feyerabend chiamava «l'abbondanza del mondo» dentro i propri schemi classificatori. Nei quali crede così ciecamente, che finisce per replicarli in modo irriflesso, fino al cortocircuito finale: "vaiolo delle scimmie" non va bene, insulta gli africani.

Servirebbe un nuovo Tom Wolfe, l'immortale diagnosta dei contorcimenti dell'ipocrisia radical-chic, per raccontare un tale suicidio logico, morale, culturale. Noi non possiamo che provare a immaginare i nomi alternativi che circoleranno al Tavolo della Psicopolizia... pardon, dell'Oms. «Vaiolo dei primati!». «No, chi arriva secondo può offendersi». «Vaiolo non europeo». «Bieco reazionario, l'Europa non esiste, e se esiste è fascista». «Aspetta, ce l'ho, vaiolo delle scimmie, ma quelle non capaci di accendere il fuoco». Compiacimento generale, sipario.

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 17 giugno 2022.

Il cinema è sempre all'avanguardia nello sperimentare le nuove frontiere del politicamente corretto. Da tempo è in corso una gara a chi è più inclusivo ma forse abbiamo un vincitore: Tom Hanks. Il grande attore ha vinto due Oscar, il primo per la memorabile interpretazione di un avvocato malato di Aids nel film Philadelphia (1993) di Jonathan Demme. L'Aids era ben noto dagli anni Ottanta ma la pellicola aprì definitivamente gli occhi a chiunque dubitasse dell'emergenza sanitaria. Interpellato dal New York Times Magazine, Tom Hanks dice che oggi non potrebbe interpretare quel ruolo premiato con la statuetta.

Ecco le parole esatte: «Domandiamoci: può un eterosessuale oggi fare quello che ho fatto io in Philadelphia? No, e giustamente. Il punto centrale di Philadelphia era: non aver paura. Uno dei motivi per cui le persone non avevano paura è che ero io ad interpretare l'omosessuale. Ora siamo oltre e non credo che la gente accetterebbe la mancata autenticità di un uomo etero che interpreta un gay». Conclusione: «Non è un crimine né un capriccio se qualcuno oggi desidera di più da un film in termini di autenticità. Sembra che stia pronunciando un sermone? Non è mia intenzione».

L'intervista non è passata inosservata, anche perché Hanks è una delle personalità di maggior spicco dell'Academy, e ha aperto un dibattito che va avanti sulle colonne del New York Times. C'è chi esulta per l'ennesimo successo del politicamente corretto ma c'è anche chi manifesta più d'una perplessità. Hanks infatti sembra negare il senso stesso della recitazione: entrare nei personaggi. Il miglior attore spesso è quello capace di calarsi nei panni di uomini completamente diversi da lui. Lo stesso Hanks, per il film in questione, perse quindici chili e risultò perfetto.

C'è anche chi fa notare l'assurdità del ragionamento: un etero non può interpretare un gay quindi un gay non può interpretare un etero... oppure in quest' ultimo caso non conta l'orientamento sessuale? Di questo passo, comporre il cast di un film potrebbe diventare un incubo. Ne sa qualcosa Bradley Cooper, in queste settimane contestato perché ha accettato di recitare la parte del direttore d'orchestra e compositore Leonard Bernstein (al quale, tra l'altro, assomiglia molto). Il motivo? Bernstein era ebreo. Quindi il ruolo andava assegnato a un ebreo. Cooper non lo è. Come si permette?

Così il politicamente corretto, trasformato in paranoia, si impadronisce dell'intrattenimento. I guru di questa ideologia sembrano credere che il cinema sia l'arma più forte. In questo si trovano d'accordo con Benito Mussolini.

Giorgio Gandola per “la Verità” il 10 Giugno 2022.

«Stiamo assistendo a una sacralizzazione dell'Ucraina mai vista». È disarmato Mario Cardinali, dopo 60 anni precisi è costretto a spiegare una battuta, a depotenziare un motteggio, a fare l'esegesi di una vignetta. E a scusarsi. Non glielo chiese mai Giulio Andreotti, massacrato almeno una volta al mese; non lo pretesero gli ospiti fissi Bettino Craxi e Tina Anselmi; ci ridono sopra Matteo Renzi, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, abbozza a ogni sberlone il pisano Enrico Letta. Una volta arrivò in redazione la querela di cinque suore ma fu archiviata dalla Procura.

Invece il suo Vernacoliere, storico mensile livornese di satira e borborigmi, è finito nel circo Medrano dell'indignazione collettiva per una locandina colorita, stile bassifondi, in cui si dà notizia di una badante ucraina che riesce - grazie a doti taumaturgiche molto terrene - a risolvere i problemi di erezione di un anziano. «Ora anche i miràoli!», si legge in puro dialetto labronico che stinge nello sghignazzo. Chiudi gli occhi e vedi Roberto Benigni prima maniera, sboccato ma innocuo. Ebbene, la storiella non è piaciuta alla comunità ucraina di Livorno, ha suscitato reazioni piccate e deluse. Ora il giornale rischia la denuncia. 

«Oltre al pensiero delle nostre famiglie che si trovano in una situazione drammatica per la guerra», si legge in una lettera firmata da badanti residenti in Toscana, «non ci sembra giusto subire anche una satira offensiva della nostra dignità». «Lavoriamo, siamo oneste, abbiamo delle responsabilità e poi veniamo offese così», ha dichiarato la portavoce della protesta, Alina Ivanova. «In oltre 20 anni a Livorno non mi sono mai sentita così umiliata». Contro il Vernacoliere è in atto una raccolta di firme per far togliere la locandina «lesiva della dignità del popolo ucraino».

Solitamente il direttore-editore Cardinali, che nel 1961 fondò il giornale chiamandolo «Livorno cronaca, settimanale di controinformazione», si lascia scorrere le critiche sulle spalle e tira dritto. Questa volta ha annusato l'aria, ha colto accenti pericolosi dovuti alla rigidità del pensiero unico e ha deciso di spiegare. 

«Mi spiace se qualcuno si è sentito offeso, non c'è la volontà di insultare nessuno, è soltanto satira e non tutti la capiscono. L'intento non era di colpire le badanti ma la concezione che abbiamo adesso dell'Ucraina».

La replica è interessante perché tocca un nervo scoperto, un retropensiero permanente: la concezione molto italiana che - soprattutto sul tema della guerra - chi critica il manovratore commette reato. 

Senza voler scomodare Charlie Hebdo, Cardinali vede il re nudo e lo addita. Ma l'obiettivo non è la badante, bensì il nostro conformismo di facciata. 

«Stiamo assistendo a una sacralizzazione dell'Ucraina, che da noi aveva lo stereotipo della badante. Ora sono vittime dell'imperialismo russo e stanno vivendo una brutta pagina di guerra, così come molti altri popoli di cui si parla meno. Sull'Ucraina si è riversata una forte attenzione mediatica, mai vista finora. L'intento della locandina era quello di desacralizzare questa cosa, non quello di sbeffeggiare un lavoro nobile. È solo ironia. È un modo per prendere in giro la nostra visione delle cose, non quello che deve sopportare il popolo ucraino».

La distinzione è decisiva. Quanto a serenità collettiva siamo al livello del vecchio Carosello in cui Gatto Silvestro, tentando di prendere a mazzate il canarino Titti, vedeva la passata di pomodoro e diceva: «No, su De Rica non si può». È la fenomenologia di un dibattito pubblico isterico nel quale - va sottolineato - gli ucraini sono vittime e la loro pelle sottile è normale. Durante la prima ondata di Covid, Canal + trasmise un video nel quale si mostrava come produrre la nuova «pizza corona» e tutti parlarono di «immondizia antitaliana».

Detto questo, è singolare soprassedere con sussiego davanti alle liste di proscrizione stilate da quotidiani paludati e chiedere provvedimenti contro una rivista che fa della derisione e della distorsione satirica ragioni di vita. Nella sua storia Cardinali non ha risparmiato nessuno. 

Ora prova a sorridere: «Se i pisani se la fossero presa per tutte le volte che abbiamo fatto ironia su di loro... Spiace davvero se qualcuno si è offeso, ma la speculazione che si vede in Italia sull'Ucraina e il popolo ucraino non si è mai vista finora». Alla fine l'unico gesto che conta è quello che lui non farà: ritirare la locandina. «No, ci sono delle leggi sulla libertà di stampa, sull'informazione. Però mi ha fatto male sentire persone che si sono sentite umiliate, mi spiace ma non volevo offendere nessuno».

Lo sport dell'indignazione a prescindere è poco ucraino e molto boldriniano, molto piddino, molto mediatico e televisivo. La macchina del conformismo di Stato ha meccanismi perfino scontati, anche le badanti ucraine li hanno imparati. Non bombardate il Vernacoliere, non lo ha fatto neppure Vladimir Putin quando è stato definito «peggio di un pisano». Siamo pur sempre il Paese in cui Tognazzi è il capo delle Br. E gli unici servizi deviati erano quelli di Panatta.

Dagotraduzione da CNN Business il 7 giugno 2022.

Il Washington Post ha sospeso per un mese il giornalista David Weigel senza stipendio per aver ritwittato una battuta sessista. Lo hanno reso noto lunedì due fonti informate dei fatti alla CNN. 

Weigel non ha voluto commentare la notizia, ma stando al messaggio di risposta fuori ufficio che arriva dal suo indirizzo di posta elettronica, il giornalista dovrebbe tornare al lavoro il 5 luglio prossimo. 

Weigel si è scusato pubblicamente la scorsa settimana per il retweet, dicendo che "non intendeva causare alcun danno", mentre un portavoce del giornale ha rifiutato di commentare, per la privacy sulle questioni del personale. 

Il retweet di Weigel è stato reso pubblico dalla sua collega, Felicia Sonmez, che ha aveva fatto causa al giornale per discriminazione, una causa che è stata archiviata e a cui il suo avvocato intende presentare ricorso.

Sonmez ha scritto sarcasticamente venerdì su Twitter che è "fantastico lavorare in una testata giornalistica in cui sono consentiti retweet come questo".  

E ha allegato uno screenshot che mostrava il retweet di Weigel a un tweet dello YouTuber Cam Harless, che scherzando, aveva scritto: "Ogni ragazza è bi. Devi solo capire se è polare o sessuale". 

Sonmez, secondo i messaggi ottenuti dalla CNN, si è confrontata anche con Weigel su un canale interno all'azienda. Sonmez lo ha taggato e ha scritto: "Scusa ma cos'è questo?"

Sonmez ha aggiunto che il retweet di Weigel è "un messaggio che mette confusione su quali sono i valori del Post". 

Venerdì altri dipendenti si sono uniti alla discussione, spingendo l'editore Matea Gold a scrivere: "Voglio solo assicurare a tutti voi che The Post si impegna a mantenere un luogo di lavoro rispettoso per tutti. Non tolleriamo linguaggio o azioni umilianti. " 

Il portavoce principale del Post, Kris Coratti, ha anche rilasciato una dichiarazione alla stampa in cui affermava: "Gli editori hanno chiarito allo staff che il tweet era riprovevole e un linguaggio umiliante o azioni del genere non saranno tollerate". 

Ma l'ammonimento pubblico e privato del retweet di Weigel non è riuscito a sedare la tensione all'interno di The Post. 

Jose A. Del Real, giornalista di The Post, ha risposto sabato su Twitter al tweet iniziale di Sonmez dicendo che il tweet di Weigel era "terribile e inaccettabile".

"Ma", ha aggiunto, "radunare Internet per attaccarlo per un errore che ha commesso in realtà non risolve nulla. Facciamo tutti casini in un modo o nell'altro. Abbiate compassione". 

Sonmez ha risposto, dicendo che "contestare il sessismo non è 'crudeltà'", ma qualcosa che è "assolutamente necessario". 

Sonmez e Del Real hanno quindi continuato a battibeccare, con Del Real che alla fine ha disattivato temporaneamente il suo account. 

Sally Buzbee, la direttrice esecutiva di The Post, domenica mattina ha cercato di tenere a freno la redazione inviando un promemoria che ricordava ai membri dello staff "di trattarsi l'un l'altro con rispetto e gentilezza sia in redazione che online". 

"Il Washington Post si impegna a creare un ambiente inclusivo e rispettoso, libero da molestie, discriminazioni o pregiudizi di qualsiasi tipo", ha aggiunto Buzbee. "Quando sorgono problemi, per favore sollevateli con la leadership o le risorse umane e li affronteremo prontamente e con fermezza". 

Tuttavia, il tentativo della leadership di reprimere la controversia è fallito di nuovo. 

Sonmez domenica pomeriggio ha dichiarato su Twitter che la nota di Buzbee aveva fornito "foraggio per ulteriori molestie" nei suoi confronti. 

Domenica pomeriggio Del Real ha quindi riattivato il suo account e per affermare di aver affrontato "una serie incessante di attacchi destinati a offuscare la mia reputazione professionale e personale" dopo aver twittato a Sonmez. 

Lunedì mattina, la tensione al The Post era ancora alta. 

La questione del retweet di Weigel ha creato un effetto domino per cui anche altri dipendenti del Washington Post hanno discusso altri episodi sessisti.

Simona Siri per “La Stampa” l'11 giugno 2022.

Alla fine Felicia Sonmez è stata licenziata. La giornalista che per una settimana ha messo in subbuglio il Washington Post invischiando il quotidiano in uno scandalo via Twitter in cui in mezzo c'è finito di tutto - accuse di sessismo, strascichi del #MeToo, il problema della diversità nelle redazioni, vecchi rancori e frustrazioni - è stata lasciata a casa. Per «cattiva condotta che include insubordinazione, diffamazione dei colleghi online e violazione degli standard del Post sulla collegialità e inclusività del posto di lavoro», si legge nella nota di licenziamento.

Tutto era iniziato la settimana prima, quando il collega David Weigel aveva twittato una battuta considerata sessista fatta da un altro («Ogni donna è bi. Rimane da capire se sessuale o polare»). Sonmez lo aveva criticato, sia nella chat interna su Slack sia pubblicamente, chiedendo provvedimenti. Weigel si era scusato, aveva cancellato, ma la direzione del giornale aveva deciso di sospenderlo: un mese senza paga. Un provvedimento per alcuni necessario, per altri esagerato, figlio del clima troppo sensibile di cui oggi sono vittima le redazioni dei giornali Usa. Sarebbe potuta finire così, a chiederci se fare battute sulle donne sia ancora accettabile o meno, soprattutto se a divulgarle è un giornalista di uno dei quotidiani più blasonati al mondo, ma c'è di più perché da lì è nato un lungo e molto pubblico botta e risposta.

Jose A. Del Real, ad esempio, ha sostenuto come tanti le lamentele di Sonmez definendo la battuta di Weigel «terribile e inaccettabile» ma ha anche detto che «farlo attaccare da tutta internet perché ha commesso un errore non risolve nulla».

«Sottolineare il sessismo non è crudeltà, ma qualcosa di necessario», ha ribattuto Sonmez. La direttrice Sally Buzbee per due volte ha tentato di reprimere le pubbliche lotte intestine. «Non tolleriamo che colleghi attacchino altri colleghi né faccia a faccia né online. 

Il rispetto per gli altri è fondamentale per qualsiasi società civile, inclusa la nostra redazione», ha scritto in una nota ai dipendenti. Belle parole, rimaste tali. Il giorno prima di essere licenziata, Sonmez è tornata all'attacco criticando i colleghi che avevano definito il Post un posto di lavoro inclusivo e pieno di gente di talento, un luogo nel quale loro erano felici di lavorare. «È un ottimo posto di lavoro per loro», ha scritto in un lungo thread domandandosi se la struttura istituzionale del giornale funzionasse anche per «tutti gli altri» ovvero per i giornalisti non bianchi e non famosi.

Una neanche troppo velata accusa di non inclusività, un problema che già il direttore precedente, Marty Baron, aveva dovuto affrontare. I problemi tra Sonmez e il Post non si limitano a oggi, ma vanno indietro nel tempo. Nel 2021 la giornalista aveva fatto causa (poi persa) per discriminazione perché quando Brett Kavanaugh era candidato alla Corte Suprema - ed era accusato di aggressione sessuale - le era stato proibito di seguire la vicenda: in quanto vittima di stupro e in quanto impegnata attivamente e pubblicamente in materia di molestie sessuali, si temeva non fosse imparziale.

Nel 2020 poi l'episodio di Kobe Bryant: nel giorno della sua morte, Sonmez aveva twittato un articolo del 2016 che ricordava le vecchie accuse di stupro contro il giocatore. Baron aveva messo Sonmez in congedo amministrativo retribuito, dicendo che aveva mostrato «scarso giudizio» e che aveva «minato il lavoro dei suoi colleghi». Il congedo era terminato dopo che più di 300 dipendenti avevano firmato una lettera a suo sostegno. Tra loro anche David Weigel. 

Secondamedismo perpetuo. Il giornale del Watergate si è ridotto a occuparsi di retweet di cronisti adultescenti. Guia Soncini su L'Inkiesta il 9 Giugno 2022.

Quello che è avvenuto al Washington Post è la rappresentazione della crisi della stampa americana, passata dalle grandi inchieste alle ripicche per battute innocue sui social, in una battaglia capitanata da una cronista che aveva scritto cose false in un articolo (restando al suo posto)

Questo sarà un articolo confuso, incompleto, e che parla di gente che non avete mai sentito nominare. Sì, persino più del solito. Questa è la storia di quel che è successo negli ultimi cinque giorni al Washington Post, costringendoci a rivalutare gli ambienti lavorativi di qui, e forse persino i giornali italiani.

È cominciato tutto con Taylor Lorenz, un nome che vi sconsiglio di memorizzare perché è una falsa protagonista: la cito all’inizio solo perché così ce la leviamo di torno subito. Lorenz è una giornalista che si occupa di tecnologia e che a marzo di quest’anno passa dal New York Times al Washington Post.

La sua prima eroica impresa è svelare l’identità della tizia che tiene un account Twitter chiamato Libs of TikTok, in cui riposta video di adepti dell’identitarismo che enunciano le loro follie. È un po’ lo stesso principio dell’ultimo monologo di Ricky Gervais: perché prendersi il disturbo di scrivere testi satirici se la realtà è lì pronta a farci ridere senza ulteriori commenti?

Comunque: Lorenz avrebbe svelato l’indirizzo di casa della tenutaria del Twitter in questione, sarebbe andata a molestare i suoi familiari, e altre cose che una volta i giornalisti d’inchiesta del Washington Post facevano per svelare illegalità presidenziali e adesso fanno per sputtanare chi riposta video buffi.

Passa un mese, e Lorenz scrive un pezzo su come gli account di YouTube a tema legale si sarebbero arricchiti col processo Depp/Heard. Nel pezzo scrive di aver chiamato Tizio e Caio per sentire la loro versione dei fatti. Tizio e Caio fanno sapere che non è vero. La Cnn si domanda come abbia fatto il Washington Post a pubblicare un articolo senza neanche verificare che le fonti fossero effettivamente fonti. Lorenz si proclama perseguitata del mese. Le piacerebbe. È un campionato molto competitivo, ed è in arrivo Felicia Sonmez.

Prima di raccontare chi sia Felicia Sonmez però – vi avevo promesso un articolo confuso – torniamo all’autunno 2017, quando il massimo scopo d’ogni giornale americano era trovare qualcuna che fosse stata stuprata da Harvey Weinstein. A una protagonista d’antico stupro, Ronan Farrow chiese come mai non avesse mai detto niente prima. La signora rispose la cosa più intelligente che abbia sentito in questi cinque anni in cui abbiamo trasformato la vittimizzazione secondaria da effetto collaterale in ambizione. Disse una cosa tipo: perché non volevo che, quando entravo in un ristorante, tutti dicessero ah, è quella stuprata da Weinstein. Nessuno voleva diventare il suo trauma, finché eravamo intelligenti (fino a cinque anni fa: sembra un secolo).

Nel 2018, dunque, Sonmez è a Pechino e passa una serata che non si sa come sia andata con un giornalista del Los Angeles Times. «Non si sa come sia andata» è la descrizione di qualunque incontro tra un uomo e una donna che finisca con denunce ma pure di qualunque incontro che non abbia conseguenze penali o reputazionali: le due parti non daranno mai la stessa versione dei fatti di nessun rapporto sentimentale o sessuale, lo sa qualunque adulto, ed è questo quello che rende le denunce sessuali un territorio perlopiù scivoloso. Non è solo «dice lui, dice lei»: è «dice lui, dice lei, com’è normale che sia anche in casi consensuali».

Fatto sta che quando arriva il caso Brett Kavanaugh (il giudice della Corte Suprema durante la valutazione del quale vengono fuori accuse di stupri giovanili) il Post dice a Sonmez che è meglio non ne scriva lei, essendo la sua posizione su quel tema da militante e non da cronista. Era diventata il suo stupro. (Oddio, stupro: Jonathan Kaiman non è mai stato denunciato e processato, solo sputtanato e reso disoccupato per una serata in cui, da sbronzo, aveva tradito la fidanzata con Sonmez, anche lei sbronza e con vaghi ricordi di, sì, aver fatto sei piani di scale per andare nell’appartamento di lui, ma mica si ricordava a che scopo).

Sonmez, non potendo scrivere di Kavanaugh, fa causa al giornale per discriminazione. La perde.

Tenete tutto a mente, vi servirà tra un po’. Sonmez, che nel frattempo continua la sua militanza (la sera in cui morì Kobe Bryant si affrettò a twittare che era uno stupratore, venne sospesa dal giornale, gli altri giornalisti protestarono, venne reintegrata), la settimana scorsa fa un tweet che i più ingenui di noi credevano fosse solo un tweet, e non il principio d’una settimana di delirio.

Dave Weigel, giornalista del WP e tra i firmatari della lettera in cui si chiedeva di non punire Sonmez per il tweet su Bryant, ritwitta una battuta. Blanda come le risate a denti stretti della Settimana Enigmistica. Faceva così: tutte le donne sono bi-, si tratta solo di capire se sessuali o polari.

Felicia twitta «Bello lavorare in un giornale in cui sono permessi certi retweet», Weigel cancella e si scusa, e la cosa in un mondo normale finirebbe lì. Ma non siamo in un mondo normale: siamo nel perpetuo secondamedismo in cui gli uffici del personale devono occuparsi di chi twitta cosa, e se vuoi far licenziare qualcuno il modo migliore per farlo è un’indagine sui suoi like. Ha messo un cuoricino a una brutta battuta, che sia decapitato.

È una settimana che la Sonmez, nonostante Weigel sia stato sospeso per un mese senza stipendio (per un retweet: lo ripeto casomai vi sfuggisse la portata del delirio), twitta centinaia di volte al giorno ponendosi come eroina contro il dilagante sessismo (tutti quelli che difendono Weigel premettono terrorizzati che comunque la battuta era d’inaccettabile sessismo: se sentissero certe battute mie, chiamerebbero il tribunale dei crimini di guerra).

È una settimana che il Washington Post manda comunicazioni interne (puntualmente rese pubbliche) esortando i suoi giornalisti a non insultarsi sui social (precetto puntualmente disatteso).

È una settimana che gli esegeti di questa vicenda si dividono.

Da una parte quelli convinti che il WP sia sotto ricatto: qualunque azione intraprendano contro la Sonmez, i suoi avvocati la useranno nell’appello (Sonmez ha perso la causa per discriminazione, e resta lì, appellante e discriminata e onnipotente e attaccata al posto fisso come neanche Zalone). Dall’altra quelli convinti che il WP le stia lasciando la corda per impiccarsi: non hanno avuto la prontezza di licenziarla quando avrebbero dovuto, e lo faranno ora, dopo averla fatta twittare isterica centinaia di volte diffamando l’azienda che la stipendia.

E poi, in un angolino, ci sono io, che mi chiedo non solo e non tanto come siano passati dal Watergate a «signora maestra, ha ritwittato una battuta che mi ferisce»; più di tutto, mi chiedo come facciano a mandare un giornale in edicola tutti i giorni, considerato che sono impegnati a bisticciare su Twitter come dei dodicenni senili.

Per parlare educati e corretti ci siamo "tagliati" la lingua. Luigi Mascheroni il 5 Giugno 2022 su Il Giornale.

Contro tutti i perbenismi e le ossessioni di genere.

Ci sono parole che non si possono più usare, per quanto molto efficaci nel definire qualcosa o qualcuno, perché considerate volgari o blasfeme. Altre che non si possono più dire perché, per quanto vere, rischiano di offendere qualcuna o qualcuno. E altre ancora a cui non si può più ricorrere perché, troppo stravaganti o colte, rimangono ormai incomprensibili a tanti e tante.

Il linguaggio - in tutte le sue sfumature: gergali, irriverenti, fantasiose è il patrimonio culturale più straordinario che abbiamo. E stiamo facendo di tutto per depauperarlo. Contro la creatività vincono i conformismi, le censure di piccolo cabotaggio, le finte buone maniere. Taci, i guardiani del Pensiero ti ascolano. E così, senza accorgersene, sono finite le parole

Le parole del primo tipo, immorali e sboccate, si trovano nel nuovo «vocabolario ragionato» del linguista Pietro Trifone Brutte, sporche e cattive, sottotitolo «Le parolacce della lingua italiana» (Carocci). Esempi: «puttana» - il sessismo del maschio primordiale - dove «putta» è il più antico vocabolo volgare italiano registrato dagli storici della lingua, siamo nel XII secolo: «File dele pute, traite» un'iscrizione in un affresco della basilica romana di san Clemente; «ciornia», «ciula», «culano» e «culattino» (omofobia! omofobia!!), «sgnacchera», «tana», «torrone», «trapanare» (tutte parole di area settentrionale); «brodosa», «cazzabubbolo», «cazzomatto», «ceppa», «fresca», «nerchia», «sorca», «tubo» (siano in area centrale: Roma caput mundi del turpiloquio); «androcchia», «pesce», «recchione», «spellecchiapalle», «sticchio» (area meridionale).

Le parole del secondo tipo, quelle della discriminazione, o supposta tale, le peschiamo invece nella cronaca quotidiana perché bandite dal micidiale combinato disposto politicamente corretto - cancel culture - #MeToo - ideologia Woke. Esempi: negro, frocio, handicappato, zingaro, rom, camminante di merda, «crucco», terrone, nano, checca, barbone, ebreo (termine in qualsiasi accezione scivolosissimo, meglio evitare), vecchio, grasso, mongoloide, spastico, pompinara (e sinonimi), «femmina» (ma si può usare spesso femminista, termine molto amato). Tutti termini moralmente sconvenienti, ma linguisticamente impagabili nel descrivere il mondo.

Le parole del terzo tipo infine, estrose e raffinate, le possiamo spilucchare dal Dizionarietto illustrato della lingua italiana lussuosa (ora ripubblicato da Elliot a cura di Antonio Castronuovo) di Giampaolo Barosso (1937-2014), già ricercatore Centro di Cibernetica e Attività Linguistiche dell'Università di Milano ma anche sceneggiatore di centinaia di storie di Topolino. Esempi: «acconigliare», cioè tirare i remi in barca, «achiro», essere umano mancante di mani, «cacume», sommità, «digrumare», mangiare con voracità spaventosa, «harem», sinonimo di «donnile», o «stalla da donne» (questa va bene anche come esempio della seconda categoria), «litòdomo», costruttore di muri (ma si sa, i muri oggi si devono solo abbattere), «mordacchia», ossia stringilabbro per bestemmiatori, ma oggi anche per chi infrange le tre categorie; «orbilio», maestro che picchia gli alunni, «ribrezzare», che significa «passare»: «Come te la ribrezzi?», che rispetto all'odierno «Come butta, raga'?», non ha prezzo Il catalogo linguistico di quel gentiluomo torinese di Barosso uscì da Rizzoli nel 1977, e contiene 2500 lemmi. Oggi, se volessimo aggiornarlo con le parole che non sappiamo più usare o abbiamo dimenticato, a quanto arriveremmo?

A proposito. Quando Tullio De Mauro, mai compianto come oggi (breve inciso: strana quella società in cui non si può più usare «morto», mentre ci si conforta con l'«outlet del funerale» di una celebre pubblicità) stilò il suo celebre Vocabolario di base della lingua italiana che censiva le parole maggiormente usate della nostra lingua - erano gli anni Ottanta raccolse circa settemila termini. Quelli che tutti usano sempre. L'italiano essenziale, appunto. E oggi? Se diamo fiducia a Save the Children (organizzazione secondo la quale una percentuale fra il 30 e il 50% dei quindicenni italiani non comprende il significato dei testi scritti); oppure se guardiamo i devastanti dati di lettura nel Paese (di libri e di quotidiani); o consideriamo il grado zero di scrittura utilizzato dagli italiani sui diversi device, potremmo azzardare che il vocabolario di base, ossia le parole usate e capite da tutti, si sia ristretto alla cifra di 1500? O 1000?

Poi, come se non bastasse l'impoverimento del linguaggio, ci si mettono le varie polizie del pensiero, i cui occhiuti agenti dell'Inclusività dimenticano una regola fondamentale: come insegna l'Accademia della Crusca, le parole che fanno parte dell'italiano e di qualsiasi lingua naturale non possono e non devono essere «decise» o «scelte» o «imposte» dall'alto, ma sono quelle che spontaneamente si attestano negli usi dei parlanti, sulla base delle normali dinamiche di funzionamento delle lingue. Eppure... Qualcuno ha mai contato le parole spazzate via dai discorsi quotidiani siano essi chiacchiere private o scritti pubblici perché tacciate di sessismo, razzismo, omofobia, binarismo linguistico? L'ossessione per l'inclusione, vietando o modificando le parole, ha generato mostri, desertificato il linguaggio, mortificato la ricchezza espressiva. Così non schwa, ammonisce il linguista Andrea De Benedetti nel suo nuovo saggio-pamphlet pubblicato dalla solitamente iper correttissima Einaudi. Già, così non va. Morale: come rendere meno accessibile, più piatta, mutilata e più povera una lingua. Senza contare la superficialità di azzerare del tutto il contesto in cui è detta una parola, condannando con furia cieca e senza logica certe parole. Come se «negro» o «nano» pesassero allo stesso modo in uno show di Roberto Benigni o nel discorso di un parlamentare

Per il resto, da giornalisti che considerano sacre e degne di essere usate (con l'unico limite del codice penale) tutte le parole della lingua italiana, troviamo più sgraziato un termine come «LGBTQ+» piuttosto che un leggiadro «piglianculo», più offensivo un burocratico «assessora» piuttosto che un metaforico «maiala», più sterile un gelido «gender» piuttosto che un espressivo «sbrodare» Certo, poi esistono anche le follie ideologiche. Giorni fa il Corriere della sera titolava un articolo su Anna Netrebko «La soprana russa». Troviamo che questo sia un vero esempio di hate speech nel senso di odio per una lingua...

E vorremmo anche raccontare gli straordinari effetti espressivi della blasfemia, o gli insostenibili incubi dottrinali della didattica inclusiva. Ma purtroppo abbiamo finito lo spazio. E anche le parole.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2022.

Passeggiando per strada, ci si può imbattere in scene come questa: un ragazzo a torso nudo con la faccia sporca di sangue che ne insegue un altro con indosso la maglietta della Juve. Il calcio non c'entra. C'entra che siamo a Torino, in corso Giulio Cesare, la porta della città per chi arriva da Milano. C'entra che sono le quattro del pomeriggio, non le tre di notte. C'entra che l'inseguitore brandisce un machete. Un machete, ripeto. A Torino. Alle quattro del pomeriggio. Davanti a una scuola. 

Che cosa ci vuoi fare? Se dici che la zona è in mano alla criminalità nordafricana, sei razzista. Se ti limiti a generiche lamentazioni, sei buonista. O collezionista di banalità, «signora mia, dove andremo a finire». Ci siamo già finiti, in quel «dove», ed è il luogo dell'impotenza, preludio della resa.

I politici fanno denunce quando stanno all'opposizione, ma tacciono, o vanno di supercazzola, appena prendono il comando. Le associazioni si barcamenano eroiche. E i cittadini non mugugnano neanche più, avendo perso ogni speranza in un cambiamento reale, possibile solo se gli amministratori - per usare il linguaggio bellico oggi di moda - si decidessero a mettere «gli stivali sul terreno», riconquistando fisicamente, palmo dopo palmo, i territori a loro affidati. 

Ma finché non succede e in strada vige la legge del machete, la gente scappa dalle città oppure si barrica in casa anche senza lockdown. In un nuovo Medioevo aggravato dai social.

Dagoreport l'11 giugno 2022.

“Lei sedeva spesso dentro il cubicolo in fondo alla toilette per le signore a fissare la porta. Stava seduta lì per tutta la pausa pranzo, a volte, aspettando di cacare…” È l’inizio di “Anatomia di un fine settimana”, (astoria edizioni, gruppo Gems) 116 pagine di frasette scritte grandi di Natasha Brown che, come riportato da “La Stampa” e Dagospia ha chiesto all’editore, che mal gliene incolse l’ha pubblicata, prima il cambio di copertina, poi una pecetta su una frase nella biografia dove si afferma che è inglese di seconda generazione (cosa vera), infine contestato la traduzione e chiesto il ritiro del libro (unico aspetto sul quale siamo d’accordo: ritiratelo) accusando la casa editrice di razzismo.

Allarmati da tanta sopraffazione siamo andati a leggerlo per voi, così voi potete tranquillamente non leggerlo. Il libro è animato dalla prima all’ultima riga, da quella che il magistrale critico d’arte Robert Huges definì “La Cultura del piagnisteo” (Adelphi, 1993). Ben gli sta a editori e giornali occidentali vista la costruzione del consenso che continuano a fare intorno a figure come quelle di Amanda Gorman (già, dov’è finita la grande poetessa griffata Prada?) e ora Natasha Brown, che qualche copertina di “Vogue” la sta mettendo alle spalle posando come modella. Ecco il gioco: il passaggio da giovane “scrittrice” nera a modella di una maison “bianca” è diventata la regola. 

Protagonista del testo (la Brown ha vinto il “London Writers Awards”, premio destinato a favorire “the number of writers from under-represented communities”, annammo bene!) è proprio una inglese di seconda generazione che in quanto nera si sente discriminata anche se totalmente inserita. 

Verso gli uomini bianchi, il suo è un bodyshaming continuo: “Erano sei uomini vari per età, stazza e temperamento” (stazza = bodyshaming). “Uno dei più vecchi, grasso” (vecchio = discriminazione; grasso = bodyshaming), “solo un uomo di mezz’età come tanti, dal corpo flaccido e pieno di grinze” (bodyshamiong). Ma essendo nera può fare del bodyshaming.

Quando discute se andare a letto o no con il capo ufficio non è perché le piace o per far carriera bensì è una azione politica di smascheramento: “Rachel (ndr ovviamente femminista delle Home Counties, fissata con il manifesto Lean In) era adamantina sul fatto che la sua tresca con uno dei capi del dipartimento globale dello studio era in effetti una sua prerogativa: quella di rivendicare e sovvertire la narrativa delle molestie sul lavoro”. La dà al capo per sovvertire le molestie. Anche perché ha capito perfettamente l’andazzo in corso. Il capo viene cacciato e chi promuoveranno? “Una donna offesa, un’altra ricompensata, mi pare legittimo!”. A posto. 

La protagonista scopre che ha qualcosa anche lei da offrire agli uomini di potere bianchi. “In cambio gli offro una certa credibilità liberale. Nego parte del suo bagaglio politico legato alla ricchezza antica. Assicuro la sua posizione a sinistra del centro”: offre la cancellazione di un presunto peccato originale, essere bianco e addirittura benestante: il legame con lei dispensa un automatico giusto collocamento nel mainstream.

Le superpotenze, Inghilterra compresa, sono una merda: “Ora è evidente che queste superpotenze mondiali non sono né infallibili né superiori. Non sono niente, non senza una relatività imposta con la forza. Una brutalità sistematica e organizzata che i loro bambini molli e flaccidi possono tollerare a fatica” (ennesimo bodyshaming ai bambini). 

Poi ci risiamo, tutto nella logica di “Orientalismo” di Edward Said presa come se fosse il “Vangelo”. “Come dice Bell Hooks: se vogliamo avere significative opportunità di sopravvivenza ci dobbiamo impegnare in una pratica critica della decolonizzazione… sì, sì! Ma non so come… Perché ancora oggi la madrepatria non ha mollato la presa. La Gran Bretagna continua a possedere, sfruttare e trarre profitto da terre conquistate durante i suoi exploit del Ventesimo secolo…Bruciando il nostro futuro”.

Viene da chiedersi, ha scritto Caterina Soffici, “se sarebbe stato lo stesso con una donna bianca protagonista. E la risposta è chiaramente no”. Ma Natasha Brown rifiuta questa catalogazione. Se le chiedi come descriverebbe il suo romanzo, risponde: “E' un libro che si interroga sulla narrativa e sul linguaggio. Ogni altra lettura è impropria e dannosa”. Eccome no!

Caterina Soffici per “la Stampa" il 3 giugno 2022.

L'autrice inglese Natasha Brown contro Astoria, il marchio del gruppo Gems che l'ha tradotta in Italia. Ha chiesto prima il cambio di copertina, poi una pecetta su una frase nella biografia, ora contesta addirittura la traduzione e chiede il ritiro del libro. Natasha Brown ha debuttato l'anno scorso con Anatomia di un fine settimana (per Astoria nella bella traduzione di Valentina Ricci), e si è fatta subito notare. «Sorprendente» per Bernardine Evaristo, «un appello non urlato alla rivoluzione» per Ali Smith, inserito nella short list del Rathbones Folio Prize e del Goldsmith Prize, premi letterari di alta qualità.

Il libro è uno dei romanzi più intensi e interessanti letti di recente, un meraviglioso ritratto al vetriolo del sistema di classe britannico, del suo rapporto irrisolto con il colonialismo, quindi con la razza, l'immigrazione, l'identità e anche con il sessismo. Non sorprende la scelta di Astoria, sempre attenta a voci nuove e particolari del panorama internazionale, di aggiudicarsi la pubblicazione. 

La protagonista senza nome e voce narrante del romanzo è una giovane donna britannica di colore che ha studiato nelle migliori scuole del regno, lavora nella City ed è lanciata in una carriera di prestigio nel mondo della finanza. 

Stipendi da capogiro, vita agiata, appartamento in una zona cool di Londra, piano sanitario privato. Ha un fidanzato bianco, rampollo di una famiglia aristocratica con villa in campagna, dove la protagonista è invitata a passare il fine settimana e finisce sotto la lente di ingrandimento degli inglesissimi parenti snob di lui.

Con una scrittura tagliente e precisa, Natasha Brown fa emergere tutto il disagio e il senso di straniamento della protagonista, che sulla carta ha tutto, ma la sua condizione di donna e nera la rende una persona irrisolta, le manca qualcosa al punto tale che farà una scelta imprevista (e assurda) pur di potersi definire una donna libera. 

Si dà il caso che anche Natasha Brown sia una giovane donna britannica di colore, laureata a Cambridge in matematica e abbia lavorato per dieci anni in finanza nella City prima di prendersi un anno sabbatico per scrivere il romanzo.

L'ho intervistata a metà aprile e quello che leggerete è quanto ci siamo dette. Nel frattempo sono successe altre cose. Tramite la sua agenzia londinese l'autrice ha contestato alla casa editrice italiana la biografia in copertina, dove viene definita «inglese di seconda generazione». 

Sembra un dettaglio minimo, ma non lo è nel clima incandescente del post #Black Lives Matters, di una Cancel Culture che sta diventando dittatura del politicamente corretto e di una sensibilità «woke» che deborda nella censura: ogni riferimento a questioni che evocano l'origine etnica di una persona è terreno minato. In sostanza la Brown accusa Astoria di razzismo. 

Allo stupore dell'editore italiano (aveva già ottenuto l'ok alla copertina e su richiesta dell'agente aveva sostituito l'immagine di una donna dai capelli neri con quella di una sedia) che si è offerto di mettere una pecetta, coprendo le parole incriminate con il libro già in distribuzione, la situazione è peggiorata. Adesso la Brown contesta anche alcune parti della traduzione e chiede il ritiro del libro.

Viene da chiedersi se sarebbe stato lo stesso con una donna bianca protagonista. E la risposta è chiaramente no, perché il tema è proprio il disagio di una donna nera, seppure ricca e di successo, nel panorama della società classista e sotterraneamente razzista dell'ex impero britannico. Così è stato recepito anche dai giornali inglesi e americani che ne hanno parlato in maniera entusiastica. 

Ma Natasha Brown rifiuta questa catalogazione. Se le chiedi come descriverebbe allora il suo romanzo, risponde: «E' un libro che si interroga sulla narrativa e sul linguaggio. Ogni altra lettura è impropria e dannosa».

Non è autobiografico o autofiction, ma quanto ha messo della sua esperienza in questo libro?

«Intenzionalmente non ho messo niente di me. E non voglio parlare di me. Non credo che sia importante, ma il fatto che è in traduzione in molte lingue e in diverse culture significa che non parla di una persona in particolare». 

Forse non lei come scrittrice, ma i suoi personaggi hanno opinioni chiare al riguardo. La voce narrante, soprattutto, è fortemente critica sulla società britannica, si interroga su cosa significa essere inglesi oggi.

«Penso che il libro sembri così politico perché il mio aspetto è politicizzato, ma è molto meno politico e impegnato rispetto a tanti altri libri contemporanei riguardo a questi argomenti. Ma il fatto che da quando il romanzo è uscito molta gente continua a porre l'accento su questi temi mi fa interrogare sul fatto se sia accettabile politicizzare un libro solo per l'aspetto del suo autore. E questo non mi fa sentire a mio agio». 

Ma questo è quello che accade coi libri. I lettori accedono a un'altra dimensione, una dimensione dove l'autore l'ha portato magari inconsciamente. Per me è un complimento.

«Non è questo che voglio dire. Io dico, se prendi le parole di questo romanzo e le confronti con le parole di altri libri pubblicati nello stesso periodo, questo libro è abbastanza chiaramente non politico. Il lato inconscio non lo trovi nelle pagine».

 Quindi secondo lei qual è il cuore del libro?

«Non è il compito di un autore dire alla gente come prendere il proprio libro, ma per me è centrale la questione se il linguaggio possa essere neutro e se il linguaggio possa essere usato per alterare la percezione della realtà. Poi ovviamente c'è una storia, perché ci deve essere una storia per funzionare come romanzo, ma quello che mi interessava era piuttosto come scrivere una storia che fosse una rappresentazione della realtà». 

Come è arrivata alla scrittura dopo la matematica e la finanza?

«Mi ha sempre interessato il linguaggio. Ho letto tanto su semiotica, strutturalismo, post-strutturalismo, linguistica. Mi interessava capire come si usano le parole, come funziona il linguaggio. Volevo scrivere di queste cose e il romanzo alla fine è stato un modo per capire piuttosto il modo in cui si raccontano le storie e come renderle reali».

Sta scrivendo un altro libro?

«Mi sono presa un po' di tempo per scrivere ancora, un paio di anni di pausa dal mio vecchio lavoro, ma credo che poi tornerò alla vita vera. Sto scribacchiando, ma non mi vedo in una carriera di scrittrice».

 Ah! La vita vera! Non crede che fare la scrittrice possa essere un lavoro a tempo pieno?

«Assolutamente sì, un sacco di gente fa dello scrivere delle ottime carriere, ma io non voglio essere motivata da preoccupazioni commerciali quando scrivo e non voglio dover fare concessioni. Oggi sono grata di poter scrivere quello che mi interessa e sono molto contenta di poterlo fare senza dover fare compromessi». 

L'Ue finanzia il vademecum sull'islam che imbavaglia giornalisti e media. Roberto Vivaldelli il 2 Giugno 2022 su Il Giornale.

Arriva il vademecum contro l'islamofobia realizzato da un ente no-profi che in passato ha cercato di minimizzare gli attentanti compiuti dai terroristi islamisti. "Il sensazionalismo è tossico".

Un vademecum per i giornalisti e media finanziato dall'Unione europea al fine di evitare un linguaggio che possa offendere l'islam. Si tratta del progetto Report Diversity! Guidelines to Train Media Circles on Inclusiveness and Preventing Gender Islamophobia, citato da Libero, secondo il quale i giornalisti e i mezzi di informazione hanno "un ruolo fondamentale" da svolgere nell'esporre la realtà dell'ingiustizia sociale, del razzismo e dell'islamofobia e sono in una buona posizione per fare la differenza. Secondo questo progetto rivolto a giornalisti e media, stiamo vivendo un contesto di "crescente islamofobia", che è stata spesso rafforzata dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001 dal pregiudizio dei media e dall'attenzione al cosiddetto "terrorismo musulmano". Questo, si legge, è il momento in cui i mezzi di informazione "devono concentrarsi su un giornalismo inclusivo" che allevi l'ansia pubblica, denunci l'intolleranza politica e respinga pregiudizi. In particolare, i media devono affrontare la minaccia dei "pregiudizi anti-musulmani".

Nel rapporto, sono contenuti suggerimenti e consigli per giornalisti e mezzi di informazione "su come affrontare il problema dell'islamofobia", in particolare per quanto riguarda le "donne musulmane". Si tratta di una pubblicazione prodotta nell'ambito del progetto MAGIC, guidato dal Media Diversity Institute Global (MDIG) - l'ex Centro europeo per la guerra, la pace e i media - e coordinato da Aidan White, Presidente Onorario dell'Ethical Journalism Network, e con il contributo di Mariam El Marakeshy, regista e reporter.

Cos'è il Media Diversity Institute

C'è un problema, però. Il Media Diversity Institute Global sembra essere tutto fuorché un ente super partes. Sui suoi canali, ad esempio, monitora e attacca i media di "estrema destra" e l'ex presidente Donald Trump. In un articolo pubblicato sul blog dell'istituto, si legge che molti dei discorsi di Trump "hanno ottenuto il favore di molti individui di destra. I suoi discorsi hanno anche alimentato le paure di quelle persone, il che non era una buona cosa. Alla fine, le azioni e i discorsi di Trump hanno portato il Paese a essere più diviso rispetto a prima del suo ingresso in carica. Quindi, ora sta cercando di creare la sua piattaforma di social media perché alcune piattaforme popolari lo hanno bandito". In passato, il Media Diversity Institute, finanziato dal Consiglio d'Europa e dalla Commissione europea, con sede nel Regno Unito, ha affermato che le risposte dei media "responsabili" al massacro di Charlie Hebdo dovrebbero indicare il colonialismo francese in Algeria e discutere se le vignette di Maometto siano effettivamente la libertà di parola "in un moderno 21° secolo”.

Così l'istituto minimizza gli attentati dei terroristi islamici

L'istituto ha affermato che quando i media presentano testimonianze "scioccanti" e che si riferiscono ad attentati islamisti, si rischia di aumentare il sentimento anti-Islam. Guardando come i media hanno riportato gli attacchi terroristici a Parigi, Nizza e Orlando, il Media Diversity Institute afferma che il sensazionalismo "può portare all'intossicazione della sfera pubblica". All'epoca, il gruppo ha duramente criticato TV France 2 per aver incluso "immagini e testimonianze scioccanti" in seguito all'attacco di Nizza in cui un terrorista islamista ha provocato la morte di 84 persone. Ciò includeva un resoconto dell'evento che raccontava "come l'autista ha investito donne e bambini". Secondo l'istituto questo modo di fare giornalismo è sbagliato, perché occorre "evitare di agire in modo impulsivo e non diffondere resoconti che possano incitare l'odio sui social network".

Nel 2014 la Open Society Foundations del magnate liberal George Soros ha finanziato un progetto dell'istituto per contrastare “gli atteggiamenti xenofobi” e “promuovere opinioni positive sulla migrazione” durante la campagna sulla Brexit, ovviamente a favore del "Remain". Non ci vuole una grande immaginazione per capire, dunque, quali consigli e suggerimenti possano provenire da questo vademecum sull'islamofobia.

DAGONEWS il 30 maggio 2022.

Il CEO di Tesla Elon Musk è intervenuto per difendere Ricky Gervais, travolto dalle critiche per aver “osato” scherzare sui trans nel suo nuovo spettacolo “SuperNature”. 

Gervais è stato definito transfobico, ma non tutti sono d’accordo e su internet lo spettacolo ha incassato una valanga di recensione positive. Come dimostra, tra l’altro il tweet dell’autore dello staff di The Atlantic Conor Friedersdorf, che ha pubblicato un screenshot tratto da Rotten Tomatoes. Dalle recensioni è emerso che il 92% delle oltre 250 persone che hanno visto lo speciale hanno apprezzato lo show. Ma solo il 14% dei critici professionisti ha dato un punteggio alto.

Ed è proprio in risposta a questo tweet che Elon Musk si è scatenato: «I "critici" non cercano di criticare, ma piuttosto di fare i moralizzatori. Non hanno contatto con le persone, e così perdono la loro credibilità tra la gente». 

Il nuovo speciale stand-up di Gervais è arrivato solo una settimana dopo che Netflix ha distribuito un nuovo "promemoria culturale" allo staff dicendo loro che se sono offesi dal contenuto su cui sta lavorando l'azienda, possono andarsene.

DAGONEWS il 24 maggio 2022.

Lo speciale Netflix di Ricky Gervais "SuperNature" è disponibile da poche ore, ma ha già scatenato un’ondata di polemiche e accuse di transfobia. Dopo quattro minuti dall'inizio dello speciale, Gervais si tuffa sulla comunità trans. 

«Oh, donne! – inizia Gervais - Non tutte le donne, intendo quelle all'antica. Le donne all'antica, quelle con l'utero. Quei fottuti dinosauri. Amo le nuove donne. Sono fantastiche, vero? Quelle con la barba e il cazzo. Sono buone come l'oro, le adoro. Ora quelle all'antica dicono: "Oh, vogliono usare i nostri gabinetti". Perché non dovrebbero usare i tuoi gabinetti? Sono donne, guarda i loro pronomi! Questa persona non è una signora. “Beh, ha il pene. E se mi violentasse” potrebbero rispondermi le donne all’antica. E se ti stuprasse, fottuta puttana TERF?”. All’acronimo TERF, o Trans-Exclusionary Radical Femminista, sono associate le persone che rifiutano l'idea che le donne trans siano donne.

Pochi minuti dopo, parlando di Kevin Hart bandito dagli Oscar nel 2018 per tweet omofobi scritti in passato, Gervais ha continuato a scherzare sulla comunità trans: «Non puoi prevedere cosa sarà offensivo in futuro. Non sai quale sarà il pensiero dominante. Non sai quale sarà la cosa peggiore che puoi dire per farti cancellare su Twitter e ricevere minacce di morte. Di sicuro la cosa peggiore che puoi dire oggi è "Le donne non hanno il pene", giusto? Ora, non troverai un tweet di dieci anni fa di qualcuno che dice: "Le donne non hanno il pene". Ma sapete perché? Non pensavamo di doverlo fare, cazzo!».

Verso la fine dello speciale, Gervais torna sui trans: «Nella vita reale ovviamente sostengo i diritti dei trans. Sostengo tutti i diritti umani e i diritti dei trans sono diritti umani. Vivete la vostra vita nel migliore dei modi. Usate i tuoi pronomi che preferite. Siate il genere che sentite di essere. Ma incontriamoci a metà strada, signore: perdete il cazzo. Questo è tutto quello che sto dicendo». Gervais si è lanciato anche in battute su Hitler e l’Aids. 

Decine di fan di destra hanno difeso Gervais mentre un’altra fetta ha chiesto di boicottare lo speciale di Netflix.

DAGONOTA il 27 maggio 2022: BATTUTE E INSOLENZE DA “SUPER NATURE” DI RICKY GERVAIS  

- Parlo di quelle donne all'antica. Oddio. Quelle con l'utero. Quei fottuti dinosauri. Adoro le nuove donne. Sono fantastiche, vero? Quelle con la barba e il cazzo” 

- "Non troverai un tweet di dieci anni che dice "Le donne non hanno il pene". Tu sai perché? Non pensavamo di doverlo fare, cazzo!' 

- "Quando le persone parlano dell'Olocausto, parlano della tragedia e dell'orrore di sei milioni di vite di ebrei perduti a causa della macchina da guerra nazista. Ma non menzionano mai le migliaia di zingari uccisi dai nazisti. Nessuno ne parla mai perché nessuno vuole parlare degli aspetti positivi.' 

- Discutendo delle minoranze e dei dati demografici della Gran Bretagna, Gervais sottolinea: "Siamo per il 5% neri, per il 5% asiatici. 5% LGBTQ. Sono un multimilionario bianco, eterosessuale. C'è meno dell'uno per cento di noi. Piango? No. Non mi dispiace'.  

- Pedofilia, che fare? E propone di dare i nani come metadone per i pedofili. 

- Prendendo in giro un dibattito sui servizi igienici di genere, Gervais inizia la battuta: "Sono donne, guarda i loro pronomi. Che mi dici di questa persona che non è una signora? "Beh, il suo pene’’. ‘'Il suo pene, fottuto bigotto’'. "E se LEI ti violentasse?"  

- 'Vivi la tua vita migliore, usa i tuoi pronomi preferiti, sii il genere che senti di essere. Ma incontratemi a metà, ragazze, perdete il cazzo, non sto dicendo altro.'  

Da lascimmiapensa.com il 27 maggio 2022.

Su Netflix è approdato SuperNature, ultimo show di Ricky Gervais che ha scatenato subito uno tsunami di polemiche. Il comico britannico ha infatti incluso nel suo spettacolo diverse battute sulla comunità trans.

Oh, donne. Non tutte le donne, intendo quelle vecchio stile. Quelle con l’utero. Quei fottuti dinosauri. Adoro le nuove donne. Sono fantastiche, vero? Le nuove che abbiamo visto ultimamente. Quelle con la barba e il ca**o.

Queste parole e il proseguo dello sketch lo hanno fatto finire nel vortice delle critiche del web. Per ciò ha deciso di rispondere, spiegando la sua posizione, durante un’intervista con The Spectator.

Il mio obiettivo non era il popolo trans, ma l’ideologia dell’attivista trans. Mi sono sempre confrontato con il dogma che opprime le persone e limita la libertà di espressione. Probabilmente è stato l’argomento tabù più attuale e di cui si è parlato di più negli ultimi due anni. Mi occupo di argomenti tabù e devo confrontarmi con l’elefante nella stanza

Recentemente, probabilmente immaginandosi questo tipo di risposta, aveva parlato del concetto di ironia durante un’intervista con Stpehen Colbert spiegando come, secondo lui, le persone intelligenti non si offendano.

Penso che le persone si offendano quando scambiano l’argomento di una battuta con l’obiettivo reale e le persone intelligenti sanno che puoi affrontare qualsiasi argomento. Soprattutto quando hai a che fare con qualcosa come l’ironia. L’umorismo ci fa superare le cose brutte – prosegue. Ecco perché rido di cose brutte e terrificanti. Ecco perché i comici sono ossessionati dalla morte… è un vaccino per le cose reali che accadranno

Sempre sulla stessa lunghezza d’onda, qualche tempo prima, la star di After Life, aveva anche parlato della Notte degli Oscar, quando Will Smith aveva colpito il comico Chris Rock 

Non colpisci le persone per una battuta, per quanto brutta sia. E non era neanche male! – aveva detto in quel caso. È stata la battuta più banale che avrei mai raccontato. Qualcuno ha detto che stava scherzando sulla sua disabilità. Beh, sto diventando un po’ magro, quindi sono disabile. Ciò significa che ora posso parcheggiare proprio accanto a Tesco. E io sono grasso. È una malattia, giusto?

Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” il 27 maggio 2022.

Lo spettacolo di cui stiamo per parlarvi è altamente sconsigliato a persone eccessivamente sensibili, convinti cattolici, difensori dei diritti Lgbt, transessuali, travestiti, omosessuali, vittime di qualsivoglia tipo di molestia, handicappati, malati di pressoché qualunque morbo, uomini di colore, ebrei, cinesi, bambini, vittime dell'olocausto, donne, femministe e praticamente qualunque altra categoria sulla quale, solitamente, non si è abituati a fare ironia pesante. Molto pesante.  

Uno humour nero come la pece e la morte che molto spesso fa arrossire. Ma la lista potrebbe essere, anzi è, infinita. Provate a pensare alla cosa che secondo voi non si dovrebbe mai dire? Ecco quella cosa lì, quella che avete appena messo a fuoco e che probabilmente vi vergognate anche un po' di pensare, qualunque essa sia, sicuramente è contenuta in uno spettacolo di Ricky Gervais.

Il re della stand up comedy portata alle sue estreme conseguenze, il blasfemo che bestemmia a squarcia gola nella chiesa del politicamente corretto. 

Preparatevi a ridere, ma tanto, di tutti quei temi sui quali le vestali del pensiero mainstream non vorrebbero neppure che coltivaste dubbi, figuriamoci delle spernacchianti e liberatorie sghignazzate. E per sicurezza mettete i bambini a letto e, se avete dei vicini di casa piuttosto suscettibili, abbassate anche il volume del televisore. 

L'ultimo show del comico inglese si chiama Supernature ed è approdato da qualche giorno su Netflix (anche in Italia). Con un inevitabile strascico di polemiche. Cosa che probabilmente sia l'attore che la piattaforma avevano meticolosamente studiato. 

Ed è molto divertente che la Netflix giudicata da Elon Musk inguardabile perché troppo liberal e succube del virus Woke, pubblichi uno dei contenuti più provocatori e ustori in circolazione. Perché Gervais è un coinquilino ingombrante e in un'ora e quattro minuti sbeffeggia, sbertuccia e demolisce tutti i feticci e le sottoideologie radical che sono alla base di buona parte della produzione del colosso dello streaming, tutto quel bel mondo di sedicenti perbenisti che nel nome dell'arcadia dell'inclusione sbattono porte in faccia a chi la pensa diversamente e lo chiudono fuori dal privé del politicamente corretto. 

A partire dal culto dei diritti del mondo Lgbtq+eccecc, specialmente quando si trasforma in spocchioso complesso di superiorità. E, guarda caso, è proprio su questo argomento che la critica anglosassone ha cercato di fare la pelle a Gervais. 

Non perché ha mimato atti sessuali di ogni sorta, ha proposto di dare i nani come metadone per i pedofili o ha ipotizzato di picchiare bambini disabili (ma gli esempi sono infiniti e se riportassimo alcune delle battute presenti nel suo spettacolo - probabilmente le più divertenti - la versione online di questo articolo verrebbe sicuramente bannata dal bigottissimo algoritmo di Google e dei social network). 

No, la sua colpa è aver fatto ironia sui transessuali. Pungente, pungentissima, caustica, certo. Ma sacrosanta, irriverente e liberatoria ironia. Con lo spillone della satira ha forato - ancora una volta e più di prima - la bolla plumbea del galateo liberal.

Un esempio: «Parlo di quelle donne all'antica. Oddio. Quelle con l'utero. Quei fottuti dinosauri. Adoro le nuove donne. Sono fantastiche, vero? Le nuove donne che si vedono ora. Quelle con la barba e il ca**o».  

Siamo solo all'inizio e la sta ancora toccando pianissimo. Ma, usando un termine orribile, non siamo qui per spoilerarvi un bel nulla. 

Terminati i 64 minuti più deliranti che possiate trovare online, se siete sopravvissuti, se non vi siete offesi in quanto ciccioni, africani, travestiti o molte altre cose, se non avete spento la tv e non hanno fatto irruzione nel vostro appartamento i gendarmi del pensiero unico, probabilmente state riflettendo sullo stato di salute della libertà di espressione nel mondo occidentale.  

Forse non era necessario toccare temi così scabrosi e disegnare nell'aria con le mani organi genitali di varia foggia per ottenere il medesimo risultato, ma in realtà il suo monologo è una riflessione a cervello aperto e ben visibile sulle degenerazioni cancerogene del politicamente corretto.

Un paradosso in forma di spettacolo sull'ipocrita e pelosa difesa delle minoranze che si trasforma in una dittatura che tiene in scacco la maggioranza, mozza le lingue di chi la pensa diversamente, schiaffeggia il senso comune e ha pure la pretesa retroattiva di cancellare dal passato tutto quello che oggi sarebbe fuori dalla zona traffico limitato del pensiero (!) dominante. 

Va da sé che una roba del genere in Italia non potrebbe farla nessuno: la sinistra dichiarerebbe lo stato di emergenza morale nazionale, i militanti dell'Arcigay, del Moige e di tutte le associazioni esistenti da Trieste in giù si farebbero esplodere nella pubblica piazza, i giornali sarebbero pieni di articolesse indignate e in Parlamento si accumulerebbero le interpellanze contro l'indecente spettacolo. Per fortuna (per ora) possiamo vederlo su Netflix. 

Sia chiaro: Gervais non è né un profeta, né un filosofo e tantomeno un attivista politico. È un attore e comico multimilionario (lo ripete più volte con molto compiacimento durante i suoi spettacoli, senza nessun senso di colpa cattocomunista, e noi ce ne compiacciamo) che fa il suo lavoro. Ma è un sano antidoto alle lagne e alle censure perbeniste. Antidoto da somministrare con cura. Gervais, a suo modo, è il lenzuolo che ogni tanto ci permette di evadere dal carcere del politicamente corretto. Merce preziosa, di questi tempi.

Far ridere è un mestiere pericoloso. Il delirio di questi tempi è stato già fatto a pezzi 40 anni fa dal genio di George Carlin. Guia Soncini su L'Inkiesta il 24 Maggio 2022.

Il documentario Hbo di Judd Apatow esplora la figura del comico americano, il quale è vissuto nell’epoca d’oro in cui poteva fare battute devastanti e scandalose senza che orde di indignati militanti chiedessero la sua testa su Twitter. 

A cosa servono i comici? In “George Carlin’s American Dream” c’è Chris Rock che dice che hanno preso il posto dei filosofi: chi è che oggi si mette ad ascoltare i filosofi? Su Twitter ci sono ogni giorno militanti offesi perché un qualche comico ha mancato di rispetto al loro settore d’appartenenza: vogliamo essere rassicurati e rappresentati, due ruoli più adatti alle maestre elementari che ai filosofi e ai comici; non vogliamo essere spiazzati né irrisi, il che rende quello del comico contemporaneo un mestiere impossibile.

Gira voce che stia per uscire un nuovo monologo di Gervais, che sarebbe grandemente transfobico, ed è un’accusa che magari qualche tempo fa avremmo preso quasi sul serio, sebbene tendenzialmente scema (non tutto quello che t’irride ha una fobia nei tuoi confronti: anzi). Ma sabato un comico americano ha invitato Dave Chappelle ad aprire il suo spettacolo, e domenica Twitter era un catalogo d’accuse di transfobia. Vi ricordate del matto che l’aveva aggredito sul palco qualche settimana fa? Aveva un coltello a forma di pistola. Chappelle l’altra sera l’ha descritto come «un coltello la cui identità di genere era una pistola» (vi vedo che state ridendo), e la sobria risposta della militanza trans è stata «fa battute transfobiche perché ci vuole morti, è stata una violenza imporcelo sul palco». Capite che non solo la militanza è sempre più ottusa, è anche sempre più difficile non riderle in faccia.

Naturalmente tutto quel che sto dicendo è solo fintamente realista: attiene al modo in cui ci atteggiamo, non a quello in cui siamo. Ci atteggiamo a moralisti ma ci fanno ridere le stesse sconcezze di sempre. Gervais o Chappelle stanno su Netflix non perché è una multinazionale autolesionista che si balocca alienandosi il pubblico: ci stanno, pagati cento volte Hannah Gadsby o Michela Giraud, perché totalizzano mille volte il loro pubblico (ovviamente ho scelto due donne come esempi minori perché sono un’orrida sessista).

Quando non prendiamo i cuoricini facendo gli scandalizzati per le cause sensibili sui social, vogliamo ancora sentire qualcuno che faccia battute stronze su temi rilevanti, invece di raccontarci la poetica delle piccole cose: se non mi metti a disagio, tanto vale vada a cercarmi le repliche di Beruschi su YouTube.

Vi svelo un segreto: per ascoltare discorsi intelligenti occorre cercare interlocutori intelligenti. Che spesso non corrispondono all’insieme che più facilmente ci attrae: gli interlocutori che la pensano come noi. Nessuno è distante dal mai rassicurante George Carlin quanto Judd Apatow, rassicurante-in-chief, regista di “Questi sono i 40”, produttore di “Girls”, e uno di quelli che negli ultimi anni più si sono omologati alla sacralizzazione della suscettibilità; eppure è stato lui a mettersi a girare quattro ore di documentario per spiegare Carlin agli americani. Pressoché impossibile spiegarlo a noialtri, che abbiamo scoperto il mestiere del monologhista tre quarti d’ora fa, e i nostri dirompenti testi sono fermi a quant’è difficile montare la libreria Ikea.

(Non lo conoscevano neanche loro, il mestiere, prima; non avevano le parole per chiamarlo: Kevin Smith racconta d’una volta negli anni Ottanta in cui il padre gli disse che Carlin avrebbe fatto «una cosa su Hbo in cui dirà battute per un’ora»).

Carlin ha fatto tutto prima, e questo Apatow ce lo dice nei primi cinque minuti, senza bisogno di dircelo. Le cose che avrebbe poi detto Roberto Bolaño sulla sinistra persino più imbecille della destra? Eccole dalle teche: Carlin le aveva dette quarant’anni prima. Lo slogan ormai stracco sulla destra che è prolife fino al parto e poi come e se campi il bambino sono cazzi non suoi, oramai stracco ma ancora il più utilizzato? Eccovelo d’archivio, era un monologo di Carlin di sessant’anni fa.

Persino sulla scemenza della solidarietà dimostrativa, della segnalazione di virtù, della militanza per fare presenza era in anticipo. Il comico più famoso della giovinezza di Carlin era Lenny Bruce (sì, quello che è un personaggio fisso della “Fantastica Signora Maisel”, quello che veniva continuamente arrestato per oscenità o simili). Una sera la polizia sale sul palco su cui Bruce si sta esibendo, e già che c’è chiede i documenti a quelli in platea, tra cui Carlin. Che risponde: io non credo nei documenti. Arrestano pure lui, li caricano sulla stessa volante, Carlin dietro e Bruce davanti. «Mi sono fatto arrestare anch’io, per solidarietà» «Ma tu sei proprio scemo».

Al cui proposito. È probabile che abbiate sentito nominare Bruce e non Carlin. Ma, come dice qualcuno nel documentario, c’è una differenza non secondaria: nessuno usa mai nessuna battuta di Lenny Bruce per spiegare il presente. È che ha ragione Stewart: Carlin non era un comico, era Bach e Beethoven, era un classico da vivo, era uno storico prima che la cronaca diventasse storia. Ed era un cocainomane; interessato, su questo concordano tutti, solo alla cocaina. Non agli esseri umani, non ai rapporti, non a niente che non stesse dentro al suo cervello; alle sue idee, e alla cocaina. «Il problema della cocaina è se non hai molti impegni: se non hai niente da fare fino a marzo, stai comunque sveglio». E certo non al riscontro, lo racconta Bill Burr: decideva che voleva cambiare direzione, e non gliene fregava niente se non lo seguivano, se perdeva pezzi di pubblico, mica poteva annoiarsi.

Comunque, a metà della prima puntata arriva il miglior conduttore televisivo americano degli ultimi anni, Stephen Colbert, e dice due cose illuminanti. La prima riguarda il passaggio di Carlin da tizio che faceva il varietà – un Walter Chiari, un intrattenitore talentuoso che non voleva scandalizzare nessuno – a uomo che ruppe tutte le regole. Fu i Beatles della commedia, dice Colbert: faceva il “Love Me Do” della commedia, e a un certo punto c’è questa svolta pazzesca, e si mette a fare il White Album della commedia.

L’altra questione è che Colbert è cattolico, e Carlin della religione dice cose devastanti. In uno dei suoi monologhi più famosi, quello su che puttanata fosse l’idea di avere diritti (oggi lo inseguirebbero coi forconi, oggi che «diritti» è una parola più sacralizzata di «mamma»), ci ricordava l’imbecillità di pensare che i diritti venissero da dio, come no, la carta dei diritti americana è talmente dettato divino che l’abbiamo dovuta emendare diciassette volte: dio s’era dimenticato cosucce come lo schiavismo. E insomma Colbert, invece di offendersi come farebbe un giovane comico cattolico di oggi (come farebbe oggi un giovane di qualunque convinzione sentendo chicchessia prendere per il culo la sua convinzione), Colbert all’epoca invece lo ascolta e pensa: ma quindi posso guardare la mia religione da quest’altro punto di vista. Che tempi meravigliosi, dovevano essere.

O forse i tempi sono sempre uguali – è il 1992 quando qualcuno dice a Carlin: se fossi un comico nuovo, oggi non ti farebbero mai cominciare – e quelli che s’incomodano a pensare sono sempre una minoranza. Gli altri sono disposti a perdonarti il tuo saper fare il tuo lavoro – che non è temere che d’una battuta s’appropri la fazione politica avversa, non è non dire niente che non possa essere usato contro le buone cause: quella è militanza, tutto il contrario dell’intelletto – solo perché sei morto o venerato maestro; ma, se lo facesse un loro coetaneo, come minimo lo accuserebbero di qualcosafobia. Lo dice Jon Stewart, a un certo punto: la longevità è un’ottima cosa, da un certo punto in poi ti applaudono solo perché non sei morto. I feticci e le religioni hanno funzionato sempre nello stesso modo, e le militanze cancellette hanno semplicemente sostituito i culti tradizionali tenendo identico l’approccio dialettico. Quel meccanismo che Carlin sintetizzava in: «Il mio dio ce l’ha più grosso del tuo».

Il film politicamente scorretto. Erika Pomella il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

Bob's Burger abbandona la comfort zone del piccolo schermo e si prepara a debuttare al cinema, con una storia che richiama quelle di formazione diventate iconiche.

Era il 2011 quando la serie animata Bob's Burger fece irruzione sul piccolo schermo, inserendosi in quella lista di prodotti - come I Simpson e I Griffin - in cui il racconto iconico di una quotidianità a stelle e strisce era nelle mani di una famiglia comune, a tratti disfunzionale e vicina al politicamente scorretto. Grazie al successo ottenuto negli anni, ora Bob's Burger arriva al cinema con Bob's Burger - Il film, codiretto dal creatore Loren Bouchard e da Bernard Derriman, che aveva già diretto molti degli episodi della serie disponibile su Disney+

Bob (H. Jon Bengamin) e Linda Belcher (John Roberts), come sempre, devono trovare un modo per far sì che i conti quadrino e che il loro fast food a conduzione famigliare decolli nel mondo degli affari. Le cose, però, non vanno esattamente come previsto e i due coniugi si vedono costretti a fronteggiare un ultimatum da parte della banca che li mette in difficoltà anche con il pagamento dell'affitto. Come se tutto ciò non bastasse, proprio davanti al ristorante si apre una voragine profondissima che rende impossibile l'entrata in negozio. Ed è proprio in questa voragine che i tre figli della coppia, Louise (Kristen Schaal), Tina (Dan Mintz) e Gene (Eugene Mirman), faranno una scoperta macabra che li spingerà a far luce su qualcosa di terribile accaduto al lunapark Wonder Wharf, gestito dai fratelli Calvin e Felix Fischoeder.

Bob's Burger - Il film: un esperimento riuscito

Non è la prima volta che una serie d'animazione di successo tenta di fare il grande salto e superare i limiti concessi dal piccolo schermo: era già accaduto anche con I Simpson, quando le avventure di Homer e della sua famiglia avevano fatto il debutto in sala, cercando di allargare il già ampio bacino d'utenza degli spettatori. Bob's Burger - Il film tenta di fare lo stesso. Alla base dell'operazione cinematografica c'è da una parte il desiderio di soddisfare l'avido bisogno dei fan dello show di avere sempre delle storie nuove; dall'altra, invece, Loren Bauchard sembra voler tendere la mano a quegli spettatori che ancora non conoscono la famiglia Belcher. Questa doppia ambizione, sulla carta, poteva rischiare di rendere l'intera operazione disequilibrata, caotica, incapace di accontentare gli uni e gli altri. Invece Bob's Burger - Il film riesce a costruire una narrativa che danza sul filo del rasoio, capace di divertire il pubblico già avvezzo allo show televisivo, ma anche di intrattenere i neofiti.

Un equilibrio che è stato raggiunto grazie a una storia molto semplice e facile da seguire, che guarda allo Stephen King di Stand by me e che sembra perfetta per l'imminente stagione estiva. Pur non presentando nulla di forzatamente originale, Bob's Burger - Il film costruisce un impianto narrativo che intrattiene e si lascia seguire senza sforzo. Grazie al tono sardonico dello show originale, inoltre, la pellicola in arrivo nelle sale è di quelle che riescono a strappare più di una risata e che fanno ridere per la satira verso realtà sociali e culturali che, pur facendo parte della società americana, sono talmente universali da riuscire a colpire più o meno tutti: dalla burocrazia macchinosa alle forme di bullismo nelle scuole, passando anche per i divari tra classi sociali. A questo si aggiungono alcuni topoi come il primo amore adolescenziale, il desiderio di rivalsa e il concetto stesso di famiglia, temi che a Hollywood non vanno mai fuori moda e che Bob's Burger - Il film investe con una marea d'ironia pressoché irresistibile. Forse l'unico difetto che si potrebbe riscontrare nell'operazione cinematografica di Loren Bouchard e di Bernard Derriman è un ritmo d'azione un po' troppo concitato, che a volte rischia di correre troppo velocemente affinché lo spettatore possa seguire l'alternarsi di dialoghi e battute che sono il cuore dello show. Piccola ciliega sulla torta: l'aggiunta dei numeri musicali - volutamente goffi, satirici, bizzarri.

Lisa Di Giuseppe, "Scusi, dove va?": la giornalista vestita così in Aula, scoppia il finimondo. Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 22 maggio 2022

Dimenticate i tempi dei tailleur pastello di Irene Pivetti, le pashmine al collo anche a luglio, le scarpe chiuse, i collant, rigorosamente coprenti. Sarà l'effetto del riscaldamento globale, ma in Parlamento oggi va di moda il look Formentera e per vedere qualcuno veramente vestito, come la solennità del luogo imporrebbe, tocca passare in rassegna i commessi: gli unici, per contratto, a dovere indossare una divisa che prevede camicia bianca, completo blu, calze, scarpe e farfallino per gli uomini, in alcuni casi anche i guanti bianchi, come era solito indossare Marco Ferretti, lo storico capo dei commessi di Montecitorio, stroncato dal Covid l'anno scorso, sempre impeccabile nella sua uniforme: la sola con quattro strisce d'oro ricamate sulle maniche per rimarcare il suo alto grado di assistente superiore.

Per i deputati maschi il dress code impone di entrare alla Camera con la giacca, mentre al Senato dove sono più agée è obbligatoria pure la cravatta, e sebbene qualcuno trovi stramba questa distinzione tra i due rami del Parlamento, sono le piccole regole che governano i palazzi della politica e chi ci entra, in genere, ne è consapevole. I cronisti più navigati, poi, raccontano che prima i commessi andavano a caccia dei deputati senza calzini, ma poi con l'avvento del M5S nel 2013 hanno rinunciato a causa del troppo lavoro. Ora, il casus belli del giorno è che una giornalista del quotidiano Il Domani, diretto da Stefano Feltri, mercoledì si è presentata in tribuna stampa per seguire l'informativa di Draghi sull'Ucraina, con un tubino nero senza maniche, niente di scandaloso, ma una funzionaria particolarmente zelante, o forse incavolatissima perché lei deve vestire più sobria ed è costretta a tenersi addosso la giacca pure d'estate, l'ha avvicinata per dirle che lì così «sbracciata» non poteva stare. In pratica, l'ha invitata ad andarsene.

La collega, Lisa Di Giuseppe, ha raccontato il fattaccio sul giornale, ha spiegato di essersi sentita umiliata, il direttore Feltri ha chiosato con un editoriale dal titolo "Le istituzioni non possono legittimare il pregiudizio", all'interno un altro articolo, a firma Sonia Ricci, ha insistito indignato sulla circostanza che "Nessuna regola autorizza la Camera a cacciare una donna per un vestito", riportando comunque le scuse da parte dell'ufficio stampa della Camera e la dichiarazione dell'Asp (Associazione stampa parlamentare) che ha parlato di «errore». In aggiunta, ieri, sono arrivate alla cronista le scuse ufficiali da parte della vicepresidente M5S della Camera, Maria Edera Spadoni, e si attende un segnale pure da Roberto Fico, a cui forse toccherà emanare una circolare sul no alle zeppe in aula, ma sì alle sciarpe di lana ad agosto. Sui social, poi, è montato il polverone sulla «giornalista cacciata, mentre tutti oggi si vestono così», «ormai alla Camera entra gente in infradito, non è certo l'unica», ed è sembrato che fosse l'ennesima polemica sul genere: femministe contro maschi, donne discriminate e penalizzate al lavoro. Quando, invece, a volte è solo questione di galateo e buon senso, da entrambe le parti.

LA CRONISTA DI DOMANI ESPULSA DALLA TRIBUNA STAMPA. Alla Camera le giornaliste donne sono trattate come oggetti di decoro. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 20 maggio 2022

Ieri mattina ho scoperto di essere inadatta. Nel caso specifico alla tribuna della Camera dei deputati. La ragione: il mio vestito senza maniche.

Mi ero appena messa seduta in tribuna in mezzo ad altri colleghi della carta stampata e fotoreporter quando si è sporta verso di me una funzionaria di Montecitorio che mi ha chiesto di coprirmi perché non era il caso che sedessi lì «sbracciata».

È stato umiliante: incerta se non ci fosse davvero un riferimento alle spalle nude delle donne nel bizantino codice che regola la vita della Camera, non ho avuto altra risposta da dare alla funzionaria se non andarmene fumante di rabbia. 

Ieri mattina ho scoperto di essere inadatta. Nel caso specifico alla tribuna stampa della Camera dei deputati. La ragione: un vestito senza maniche.

Sono entrata a palazzo Montecitorio passando come sempre dall’ingresso riservato ai cronisti senza accredito permanente e ho superato i controlli. Ho ricevuto il cartellino blu che mi identifica come giornalista e sono entrata.

In attesa dell’arrivo del presidente del Consiglio, Mario Draghi, ho passato un’ora tra il cortile della Camera e il Transatlantico, dove i parlamentari passano il tempo tra una seduta e l’altra. Ieri era pieno di parlamentari che commentavano la discussione sull’informativa che stava già avendo luogo in quel momento al Senato. Ho dunque fatto qualche domanda a diversi di loro e salutato qualche collega. Tutto nella norma.

UMILIAZIONE

Poi sono salita in tribuna per assistere al dibattito sull’informativa di Draghi. La tribuna è suddivisa in spazi che permettono agli spettatori di osservare l’aula dall’alto. Una ventina di posti, si accede attraverso un ingresso presidiato da un commesso.

Mi ero appena seduta in mezzo ad altri colleghi quando si è avvicinata una funzionaria di Montecitorio che mi ha chiesto di coprirmi: non era il caso che sedessi lì «sbracciata», ha detto. Frequento il parlamento da qualche anno e non ho mai ricevuto alcuna osservazione su come mi vesto. Come poi mi è stato assicurato anche dalla Camera, non è previsto un dress code per le donne (per gli uomini è obbligatoria la giacca). Non avendo con me alcuna giacca o foulard per coprire le spalle, me ne sono dovuta andare, sfilando tra i colleghi e scortata dalla funzionaria.

È stato umiliante: incerta se non ci fosse davvero un riferimento alle spalle nude delle donne nel bizantino codice che regola la vita della Camera, non ho avuto altra risposta da dare alla funzionaria se non andarmene. D’altra parte ho visto diverse deputate in aula con abiti o camicette senza maniche.

Per tutto il tragitto dalla Camera alla redazione mi sono chiesta se ci fosse qualche passaggio che mi era sfuggito, qualche regola che avessi colpevolmente ignorato. Avrei dovuto chiedere alla funzionaria a che norma facesse riferimento per chiedermi di cambiare qualcosa nel mio tubino (nero, ammesso che sia di qualche interesse, l’ho comprato per la mia laurea, non è un vestito da sera o inadatto a un contesto professionale).

Ho anche notato che, fin quando non ho messo piede in redazione, nessuno dalla Camera mi ha cercato per scusarsi o propormi di tornare. È successo solo più tardi, e dopo la nostra protesta.

Oltre alla rabbia si è riaffacciata in me l’umiliazione quando, dopo essermi assicurata che il regolamento effettivamente non prevedesse un dress code femminile neanche in tribuna e aver chiesto conto all’ufficio stampa della Camera del fatto, una delle risposte ricevute è stata che il mio vestito era davvero inadeguato. Chi può decidere che il vestiario di qualcun altro, specie se non c’è una norma a regolarlo?

NON È UN EPISODIO

Credo che tante donne si domandino quali implicazioni possano avere i vestiti che indossano la mattina per uscire. Non penso che gli uomini si facciano altrettanti problemi. È assurdo che un pensiero in più debba essere dedicato anche gli «eccessi di zelo», come li ha chiamati l’ufficio stampa nella chiamata di scuse che alla fine è arrivata, di chi rappresenta le istituzioni che frequentiamo per guadagnarci uno stipendio. Vorrei scrivere di politica o di Germania su queste pagine, che è quello di cui mi occupo, come è scritto nella mia biografia sul sito di questo giornale.

Ma ho voluto comunque dedicare qualche riga a quello che mi piacerebbe poter definire soltanto uno spiacevole episodio. Purtroppo è la norma, benché non scritta. È grave che, in un’istituzione che ogni giorno si vanta di risultati raggiunti in tema di parità e diversità, una funzionaria si faccia scappare un riflesso discriminatorio sfruttando un potere, formale o morale. Con tante scuse, dopo. 

La vicepresidente della Camera Spadoni si scusa con la giornalista di Domani allontanata dalla Camera. Il Domani il 20 maggio 2022

Anche la vicepresidente di Montecitorio Maria Edera Spadoni, esponente del M5s, si è scusata ed è intervenuta sulla vicenda dell’allontanamento dalla Camera di una nostra cronista

Anche la vicepresidente di Montecitorio Maria Edera Spadoni, esponente del M5s è intervenuta sulla vicenda dell’allontanamento dalla Camera della giornalista di Domani, Lisa Di Giuseppe, a causa di un vestito giudicato da un’assistente parlamentare inappropriato, nonostante non ci sia un dress code previsto.

«È stato fatto un errore. La Camera ha fatto già pervenire le sue scuse alla giornalista e a queste scuse si aggiungono anche le mie». «Si sa che la Camera - prosegue la vice presidente della Camera - ha un regolamento che impone ai colleghi di indossare una giacca. Ma non permettere a una giornalista di assistere alla seduta la trovo una cosa inopportuna. Ripeto: rinnovo le scuse della Camera alla giornalista».

Spadoni ha tenuto a rimarcare, in un colloquio con l’Adnkronos: «La Camera è un luogo dove l'abbigliamento deve essere adeguato. Spesso parlando anche con le colleghe faccio presente questa cosa. Ma, a parte la giacca, non esiste nel regolamento della Camera un dress code per i giornalisti. Esiste un dress code per chi viene a vedere le assemblee, ma ieri è stato commesso un errore».

D’altronde non esiste a Montecitorio alcun articolo del regolamento, o comma, che imponga alle donne il dress code. Gli uomini, invece, sono obbligati a indossare la giacca; al Senato anche la cravatta. I commessi presenti all’entrata delle due camere si occupano di valutare la congruità del vestiario maschile. Nel caso non corrisponda alle norme previste gli viene negato l’accesso, senza eccezioni. Le donne, giornaliste, deputate o funzionarie che siano, non hanno invece il dovere di portare un abbigliamento specifico. 

La cronista di Domani cacciata dalla Camera: il parlamento ha problemi con le donne. STEFANO FELTRI, direttore, su Il Domani il 20 maggio 2022

Una cronista politica di Domani, Lisa Di Giuseppe, è stata umiliata e costretta ad allontanarsi dalla Camera dei deputati perché a una funzionaria non piaceva come era vestita.

La signora riteneva che fosse inappropriato restare in parlamento con le spalle non sufficientemente coperte.

Par di capire che nella cultura della Camera la presenza delle donne a Montecitorio non è questione di professione o ruolo, ma di decoro, quasi fossero arredi (nessun uomo verrebbe mai cacciato perché ha la cravatta mal abbinata), e che nei loro confronti ci si possano permettere abusi senza conseguenze.

STEFANO FELTRI, direttore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani. 

Se una giornalista deve lasciare Montecitorio perché ha un vestito "sbracciato". Stefano Pagliarini, Giornalista Today, il 21 maggio 2022.

Quando ho letto la notizia di una collega giornalista allontanata dal palazzo di Montecitorio perché ha osato sedersi sulle tribune dell’Aula con un vestito “sbracciato” (la vicepresidente della Camera Spadoni si è poi scusata), ho pensato ad alcuni episodi che mi hanno visto protagonista l’anno scorso, quando muovevo i miei primi passi nei corridoi dei palazzi Parlamentari. Ricordo di quando una volta mi ero dimenticato la giacca (per gli uomini è obbligatoria da regolamento) ed ero stato bloccato all’ingresso di una conferenza stampa. E che facevo tornavo in redazione dicendo che non avevo seguito l’incontro perché non avevo la giacca. Mi sono fiondato in un negozio da uomo lì accanto chiedendo la giacca più economica. Quaranta euro e sono entrato alla conferenza stampa nel palazzo dei gruppi parlamentari. Poi ricordo quella volta in cui avevo pensato che un bel gilè potesse sostituire la giacca per entrare alla Camera ad agosto con quaranta gradi all’ombra. Niente da fare. Mi ha salvato la gentilezza della senatrice che dovevo intervistare, la quale è uscita e ha parlato con me all’esterno.

Mi sono ricordato di quanto fossero stato situazioni imbarazzanti perché avevo sentito quei biasimi per il dress code, seppur giustificati e giustificabili, come qualcosa di svilente per la mia professione. Io, giornalista, con l’impegno di ascoltare attentamente un segretario di partito che parla e la responsabilità di riportarlo ai lettori nella forma migliore possibile, restavo fuori perché non avevo una giacca. Che poi per me non è mai stato un problema. Figuriamoci. Vesto in abito, camicia e cravatta da quando facevo l’arbitro di calcio a 20 anni. Ho continuato a farlo da cronista quando frequentavo i palazzi di giustizia nelle Marche e lo faccio oggi a Roma quando scrivo di politica nazionale.

Ma io ho ben presente cosa possa aver provato la collega Lisa Di Giuseppe, giornalista de Il Domani, quando le hanno detto di coprirsi perché non era il caso che lei stesse lì “sbracciata”.  Si sarà sentita umiliata. Non me la sento di cassare la cosa pensando che la collega avrebbe potuto mettersi una cosina in più addosso. Non c’è una regola che imponga un codice di abbigliamento per le donne ma allora perché la giornalista si è dovuta allontanare dall’Aula? Per una questione di opportunità. Dunque una scelta etica (dal greco éthos, costume, comportamento, consuetudine). 

Allora siccome io credo che a guidarci, in generale debbano essere le leggi fatte dal Parlamento, le regole che ci diamo come società e non i presunti valori etici di qualcuno (soprattutto quando quel qualcuno ha la pretesa di imporla anche agli alti), io non posso che essere solidale con Lisa Di Giuseppe. Mi spiace non essere stato presente. Le avrei dato volentieri il mio soprabito per “coprirsi” e continuare a fare il suo lavoro, che è scrivere di politica o di Germania. Le avrei dato il soprabito perché non avrei potuto darle direttamente la giacca. In quel caso sì che avrei violato un regolamento. Quello che non ha fatto la collega Lisa Di Giuseppe, libera di mostrare le braccia in quanto donna e giornalista libera, ma “punita” per ragioni di etica. Quella che a volte si dovrebbe vedere di più in Aula in effetti ma non da parte dei giornalisti.

Quando gli eroi del politically correct si rivelano dei campioni di intolleranza. Mario Giordano il 10 Maggio 2022 su Il Giornale.

Mario Giordano porta sotto i riflettori i rappresentanti della categoria dei "tromboni", quelli che razzolano malissimo dopo aver predicato.

Bisogna usare termini adeguati. Non urtare sensibilità. E perciò bisogna abolire le desinenze che sono di per se stesse offensive nei confronti di chi non si sente né uomo né donna o magari un po' tutti e due. Quindi non si può dire «cari» o «care»: bisogna dire «car*» . Con l'asterisco. O, meglio ancora, con lo schwa, la «e rovesciata».

(...) Nel giugno 2021, per la prima volta, la e rovesciata compare su un settimanale a larga diffusione, L'Espresso. A usarla nella sua rubrica è la scrittrice Michela Murgia, che dice di voler così combattere discriminazioni e differenze di genere per rispettare tutti. Un giorno, durante il lockdown, le chiedono se teme il prolungarsi della pandemia. E lei, sempre avvolta da questo suo grande amore per il prossimo, che trasuda da ogni schwa: «Se il risultato è la vivibilità delle strade, io sul lockdown ci metterei la firma». Ma certo: tutti chiusi in casa, pur di consentire all'amante del prossimo di evitare la coda in tangenziale.

(...) I giovani cattolici tedeschi hanno chiesto addirittura di scrivere Dio con l'asterisco. «Non è né uomo né donna» sostengono. E Gesù che insegnava il Padre nostro? Un terribile maschilista. Patria? Errore: ora bisogna dire «matria». Pure i cavi elettrici devono adeguarsi: non si può più dire «maschio» e «femmina», lo spinotto deve essere neutro. Se prendi la scossa non importa: purché tu lo chiami correttamente «spinott*».

(...) Tutto era cominciato con l'abolizione della parola «zingaro», per la disperazione dei pianobar. In effetti: come si fa a cantare «il mio cuore è un nomade rom»?

(...) Le associazioni degli animalisti sono insorte anche contro i modi di dire che potrebbero urtare la sensibilità degli animali: «in bocca al lupo»? È scortese nei confronti del lupo. «Avere la pelle d'oca»? Non rispetta le oche. «Prendere due piccioni con una fava»?

A questo punto si potrebbe persino prendere sul serio quel burlone che ha proposto di cambiare il nome del Portogallo: per non fare differenze di genere, dice, dovrebbe diventare, almeno ogni tanto, Portogallina.

(...) Dicono di voler proteggere la lingua. In realtà la molestano. La uccidono. E, come sempre, totalizzano il pieno di ipocrisia. Natalia Ginzburg lo scriveva già negli anni Ottanta: non diamo nessun vero sostegno ai ciechi, ma li chiamiamo non vedenti.

(...) Bisogna difendere i diritti, no? I diritti di tutti. Bisogna rispettare le persone. Tutte le persone. Per quello che sono. Ci vuole attenzione per gli altri. Per le loro sensibilità. E per questi motivi nell'ottobre 2021 seicento paladini delle sensibilità e dei diritti universali hanno firmato una lettera per denunciare la professoressa Kathleen Stock, stimata filosofa, docente all'Università del Sussex, pluripremiata per la sua attività accademica e già insignita dell'Ordine dell'Impero Britannico. La sua colpa? Ha detto che un uomo dovrebbe frequentare gli spogliatoi degli uomini e non quelli delle donne. Un pensiero rivoluzionario, non vi pare? La professoressa Stock ha aggiunto che, secondo lei, bisogna pensarci bene prima di dare ai minorenni farmaci che bloccano lo sviluppo degli organi sessuali. E se anche questa affermazione vi sembra normale state attenti perché rischiate grosso: i paladini del rispetto delle persone, infatti, non si limitano a dissentire. Macché: organizzano vere cacce alle streghe, con tanto di torce, passamontagna e cartelli, in stile adunate di nazisti. Tanto che la povera Kathleen è stata costretta a prendere una guardia del corpo.

(...) Quello della professoressa Stock, purtroppo, non è un caso isolato. Anzi: negli ultimi tempi se ne sono registrati molti. Nel febbraio 2022, per esempio, la cantante inglese Adele, ritirando il premio musicale Brit Awards, in cui erano state appena eliminate le categorie maschile e femminile, ha detto: «Capisco la scelta, ma io amo essere donna». È stata massacrata sui social. Le hanno detto di tutto.

(...) Avete sentito parlare di Amy Gibbs? È la responsabile di un'organizzazione benefica (Birthrights) che si batte per la difesa delle donne. Amy Gibbs non ha trovato di meglio che licenziare una sua storica collaboratrice, la terapista e scrittrice Milli Hill, colpevole di aver detto che anziché «persona che partorisce» si può usare l'espressione «donna che partorisce». In effetti: come si è permessa? Non lo sa questa Hill, femminista da anni, che anche gli uomini possono partorire? Non lo sa che dire «la donna partorisce» è un atto di violenza?

(...) Sapete che ci vuole? Una bella commissione per «fermare l'intolleranza», «contrastare il razzismo» e «combattere l'istigazione all'odio». Al ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi non è sembrato vero di aver partorito un'idea tanto brillante e soprattutto originale. (...) L'avvio è imbarazzante. Nella commissione nata per combattere l'odio entra, fra gli altri, Simon Levis Sullam, professore associato all'Università Ca' Foscari, uno che ha alle spalle anni di ricerca politicamente corretta con saggi politicamente corretti ovvia mente pubblicati dagli editori politicamente corretti. E che però battezza la sua nomina nella commissione ministeriale in modo piuttosto scorretto. E cioè diffondendo sui social una foto a testa in giù dell'ultimo libro di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia. Si può combattere l'istigazione all'odio inneggiando a piazzale Loreto?

(...) I tre comici Aldo Giovanni e Giacomo hanno raccontato che il loro film La banda dei Babbi Natale è stato accusato perché c'era una scena in cui prendevano a calci un gatto, anche se il gatto era un peluche. Gli animalisti sono insorti. Nello stesso film c'era una scena in cui la suocera veniva sedata e messa in un cassonetto. Nessuna organizzazione in difesa delle suocere si è fatta viva. Dunque nel politicamente corretto conta più un peluche di una suocera?

Io e la violenza Alessandro Bertirotti 9 maggio 2022

È tutta questione di… onnipotenza.

Ogni periodo storico che la nostra umanità ha attraversato è stato caratterizzato da un insieme di situazioni di luce e di ombre.

Non dico certamente qualcosa di nuovo, anche se, forse, nella nostra contemporaneità, sembra di assistere alla presenza di una differenza di intensità, rispetto all’espressione della luminosità e dell’oscurità.

Scrivo “sembra”, perché non ne sono del tutto sicuro.

In effetti, se pensiamo allo stile di vita che ha caratterizzato l’Impero Romano, e, ancora prima, l’Antica Grecia, per non parlare delle grandi civiltà dell’Asia Minore, dobbiamo ammettere che le fonti storiche ci raccontano azioni violente, perpetrate dalle diverse forme di potere.

Insomma, la relazione che possiamo definire di dominio-sottomissione ha caratterizzato lo sviluppo dell’umanità, la quale, utilizzando l’affermazione della propria identità culturale come funzionale alla vita di un qualsiasi gruppo umano, territorialmente organizzato, ha fatto dell’aggressione il proprio stile di vita.

Nessuna etnia è esente da questo processo esistenziale, che, peraltro, condividiamo con quei nostri vicini evolutivi che sono i primati non umani. Con questi ultimi, in effetti, abbiamo in comune il 98% del nostro intero genoma, che è costituito da circa 30.000 geni. Quindi la differenza biologicamente rilevante fra noi, primati umani terricoli e le scimmie, primati non umani arboricoli, è affidata all’esiguo restante 2%.

Eppure, all’interno di questa differenza non è stato ancora selezionato uno stile cognitivo esistenziale che permetta l’abbandono di atteggiamenti di dominazione a svantaggio di persone che risultano pertanto oppresse.

Alessandro Manzoni ha fondato la sua fortuna intellettuale e culturale (I promessi sposi) proprio su questa caratteristica umana, raccontando come l’essenza della vita umana si snodi fra soprusi, violenza, difese e fughe.

Sappiamo che la storia non è maestra di vita, e, nonostante questo continui ad essere vero e sotto gli occhi di tutti, io continuo a credere che le mie gocce di speranza e di positività siano utili, nonostante sarò altrove quando sarà possibile godere dello spettacolo del miglioramento.

Come agisco, per produrre, giustificare e mantenere viva in me e negli altri questa speranza?

Continuo a credere che si possa migliorare, e lo comunico in ogni dove, specialmente quando sono di fronte ai miei giovani studenti, ossia a tutti coloro che tendono a considerarmi un eventuale punto di riferimento, per il loro futuro.

A volte mi rattristo, è vero… oltremodo vero.

Ma, il giorno successivo mi sveglio come se la demotivazione della sera prima non fosse mai sopraggiunta, e continuo a comunicare che dobbiamo educarci ed educare gli altri alla solidarietà.

Sarò un sognatore?

Certo, consapevolmente e felicemente. E poi, non saprei essere diverso da così, perché i miei genitori questo mi hanno insegnato, ed ho incontrato insegnanti, maestri, che hanno confermato in me questa visione.

Dunque, resto un uomo felice e positivo, specialmente di fronte a tanto buio e male.

Free speech. L’onda del politicamente corretto è in ritirata.  Linkiesta il 3 Maggio 2022.

Il mondo illiberale immaginato e voluto da chi accetta senza problemi la cancel culture si sta sgretolando. Era solo questione di tempo, prima che i sostenitori della democrazia liberale capissero che quella corrente di pensiero non va sostenuta né ignorata.

Negli ultimi dieci anni il dibattito pubblico su temi politici, sociali, culturali e poi anche economici si è fatto estremo, si è polarizzato fino a produrre storture e assurdità. Non tanto e non solo la cancel culture, ma anche coloro che negano la sua esistenza: da destra, nonostante il rigetto formale della cancel culture, emergono versioni ancora più estreme della censura, intese come baluardo contro una società in rapido cambiamento, con leggi che vieterebbero i libri, soffocherebbero gli insegnanti e scoraggerebbero la discussione aperta nelle classi; da sinistra, invece, si è prodotto e riprodotto un rifiuto di riconoscere perfino che esista una cancel culture.

Lo scorso settembre parlavamo della pericolosa ascesa della sinistra illiberale, raccontandola a partire dalla copertina dell’Economist: «Nonostante i mirabolanti successi sociali, economici e culturali in oltre mezzo secolo e in ogni continente della Terra, negli ultimi tempi questa idea e questa consapevolezza sono state messe in crisi dal populismo di destra e dai regimi autoritari, da Donald Trump e dalla Cina di Xi Jinping e dalla Russia di Vladimir Putin, per mille ragioni che la nuova copertina dell’Economist affronta con la tradizionale capacità di analizzare i fenomeni globali in corso. Il settimanale inglese, però, aggiunge un elemento non banale all’attacco al sistema liberale, ovvero che il pericolo per il mondo come lo conosciamo non arriva soltanto da lì, dalla destra populista e autoritaria. Fin dal titolo della cover di questa settimana, l’Economist riconosce “la minaccia della sinistra illiberale”».

L’Economist spiega che i due populismi, quello di destra e quello di sinistra, «si nutrono patologicamente a vicenda» in una campagna di odio nei confronti degli avversari che favorisce soltanto le ali estreme.

Una tendenza all’illiberalismo che si lega al politicamente corretto sempre più rigido ed esclusivo. Una corrente di pensiero che ha stravolto la normale scala di valori e reso le parole equivalenti alla violenza, ha reso le controversie politiche una specie di gioco a somma zero tra oppressore e oppresso. Norme di condotta illiberali che hanno spesso avuto origine nel mondo accademico e poi si sono allargate in comunità solitamente progressiste, come i media, l’editoria e le organizzazioni politiche e di attivisti sociali.

Ciò che ha reso tutto questo così inarrestabile è che i critici avevano buone ragioni per temere di esprimersi contro. Ricordiamo che il New York Times ha costretto il giornalista scientifico Donald G. McNeil Jr. a dimettersi per aver citato (non usato) un insulto razziale, e l’editorialista del Washington Post Margaret Sullivan ha scritto che chiunque fosse in disaccordo con il suo licenziamento fosse anche razzista. Sembra la logica della caccia alle streghe: chiunque si opponga alle nuove norme di comportamento si macchia di un crimine paragonabile a quello del reale colpevole.

Era accaduta una cosa simile a ottobre, quando un professore di origine cinese ha dovuto rinunciare a insegnare all’Università del Michigan per aver mostrato agli studenti un film molto vecchio in cui c’era un personaggio con la blackface. Per fortuna quasi 700 docenti hanno firmato una lettera per chiederne la reintegrazione nell’ateneo.

Lo scorso marzo un editoriale preoccupato del New York Times si schierava fermamente in difesa della libertà di parola, contro le minacce della destra e della sinistra illiberale: il quotidiano più importante d’America prometteva implicitamente di non lasciare che le campagne di indignazione dei social media dettassero le sue decisioni.

Anche perché nel frattempo un nuovo sondaggio nazionale commissionato dal Times Opinion e dal Siena College ha rivelato che solo il 34% degli americani ritiene che tutti gli americani godano della totale libertà di parola. Il sondaggio ha rilevato che l’84% degli adulti definisce un problema «molto serio» o «piuttosto serio» il fatto che alcuni americani non possano parlare liberamente nelle situazioni quotidiane per paura di ritorsioni o critiche.

I numeri fotografano una crisi di fiducia attorno a uno dei valori più basilari dell’America – e in generale di tutto il mondo occidentale: la libertà di parola e di espressione.

È per questo che Jonathan Chait sull’Intelligencer ha pubblicato un commento dai toni ottimistici. Il suo articolo, intitolato «Il politicamente corretto sta perdendo», spiega perché questa tendenza illiberale stia già cambiando. «Un sistema basato sulla sottomissione spaventosa dei dissidenti è una fragile base per il cambiamento sociale. Quello che sembrava essere un ampio consenso all’interno delle istituzioni d’élite era in realtà un silenzio imposto, che sta cominciando a cedere il passo a un attento ma deciso respingimento in ogni settore».

È per questo che anche il successo vertiginoso della sinistra illiberale degli ultimi tempi non può essere dato per scontato. «Mi vengono in mente tre ragioni per cui l’onda del politicamente corretto potrebbe essere in ritirata», scrive Chait.

La prima è che molti liberali che erano incerti su come reagire alla spinta illiberale hanno ormai capito e deciso che queste nuove norme di comportamento non gli piacciono, così sono passati da favorevoli o indifferenti a critici. Chait cita scrittori come Matthew Yglesias e Jeffrey Sachs, che alcuni anni fa respingevano l’idea di una tendenza in aumento dell’illiberalismo a sinistra, salvo poi ammettere che la tendenza esiste, è molto reale.

In secondo luogo, aggiunge l’autore dell’articolo, i cambiamenti culturali provocati da queste idee hanno rapidamente messo in luce la loro intrinseca impraticabilità. Una delle risposte all’omicidio di George Floyd si è tradotta in una massiccia richiesta di formazione sul posto di lavoro sui temi della sensibilità razziale, alcune di queste erano goffe o semplicemente ridicole.

Il terzo e più grande fattore di limitazione del politicamente corretto sono state le elezioni del 2020. La sconfitta di Donald Trump ha rimosso un acceleratore di questa tendenza. Con i suoi toni razzisti e una finta critica alla cancel culture (finta perché lui stesso in realtà ha sempre cercato di cancellare i suoi critici), Trump ha incoraggiato più di chiunque altro la new wave del politicamente corretto.

«Si scopre che la stessa democrazia – è la conclusione dell’articolo – è stata il fattore correttivo. Le passioni dell’ultimo mezzo decennio hanno dimostrato che, nonostante tutte le sue colpe, il Partito Democratico, con la sua coalizione multirazziale che rende conto al pubblico, è l’istituzione nella vita americana che è meglio attrezzata per respingere l’illiberalismo. Il Partito Repubblicano ha ceduto completamente al fanatismo molto tempo fa».

L'ultima follia del politically correct: ritirato il libro sulle femministe nere scritto da un'autrice bianca. Roberto Vivaldelli il 24 Aprile 2022 su Il Giornale.

Dopo la pioggia di critiche e proteste, la casa editrice del saggio sul femminismo trap ha deciso di ritirare il titolo del mercato. Motivo? Era scritto da una docente bianca.

Una donna bianca può scrivere un libro che parla delle donne nere? Non negli Stati Uniti della cultura woke imperante e della politica dell'identità. Sta facendo discutere la vicenda relativa a Bad and Boujee: Toward a Trap Femminist Theology, libro pubblicato dalla casa editrice Wipf and Stock Publishers e scritto dalla docente di teologia, Jennifer M. Buck. Il libro racconta "la sovrapposizione tra l’esperienza dei neri, la musica hip-hop, l’etica e il femminismo per concentrarsi su un aspetto di quest’ultimo conosciuto come femminismo trap" ma come accennato poc'anzi, c'è un problema di fondo: Jennifer M. Buck è una donna bianca, docente di un'università cristiana. E questo aspetto ha aperto un acceso dibattito negli Usa e addirittura polemiche sulla copertina del libro - che ritrae una donna afroamericana - definita "razzista" e fuorviante secondo i critici. E c'è chi parla di "colonizzazione" e di appropriazione culturale.

Una donna bianca può parlare delle donne nere? Non negli Usa

"Perché parla per voce delle donne nere? Chi ha le dato l'ok per fare questo? Non ha mai vissuto le nostre vite!" si legge in una delle tante recensioni del libro apparse su internet, scritte perlopiù da persone e utenti che il libro non lo hanno nemmeno letto o sfogliato. "Non avrebbe dovuto scrivere questo libro" osserva un altro utente. "Non sono sicuro di come una donna bianca possa scrivere un libro sulle esperienze delle minoranze e tanto meno capire le esperienze che non avrà mai". Come riporta il New York Times, a seguito delle tante critiche ricevute, l'editore del libro, Wipf e Stock Publishers, ha deciso di ritirare il titolo dalla circolazione. In una dichiarazione hanno affermato che i detrattori del saggio avevano espresso obiezioni "serie e valide". "Riconosciamo umilmente di aver deluso in particolare le donne nere e ci assumiamo la piena responsabilità", hanno affermato Wipf e Stock. "I nostri critici hanno ragione". È davvero così oppure la piccola casa editrice dell'Oregon temeva possibili ripercussioni ben più gravi come campagne social e boicottaggi?

L'ultima follia woke: il femminismo "trap"

Fra i detrattori del libro c'è l'autrice Sesali Bowen, che anni fa ha coniato il concetto di "femminismo trap". Trap, ricorda il Los Angeles Times, è uno slang che indica una casa dove si vende droga e la musica fa riferimento alla vita di strada, alla violenza, alla povertà e a molte delle esperienze che gli afroamericani affrontano nel sud degli Stati Uniti. Un genere molto in voga fra i più giovani che esalta droga, violenza, e soldi facili, e mette la musica decisamente in secondo piano. Chissà come convinve il "femminismo" con tutto questo e con un machismo che trasuda in ogni videoclip "trap". Bowen è autrice di Bad Fat Black Girl: Notes From a Trap Feminist, saggio in cui l'autrice riflette su sessismo, "fatphobia" - paura dei grassi - e "capitalismo" nel contesto dell'hip-pop. Uno dei mille rivoli della cultura woke americana che riflette l'ossessione per le minoranze di una società sempre più atomizzata.

Ecco come difendersi dal politicamente corretto. Stenio Solinas il 19 Aprile 2022 su Il Giornale.

Mastrocola e Ricolfi mettono in luce tutti i limiti dell'ideologia che ci schiaccia in nome del bene.

Per capire che cosa sia il politicamente corretto, oggetto di questo agile pamphlet di Paola Mastrocola & Luca Ricolfi (Manifesto del libero pensiero, La nave di Teseo, 127 pagine, 10 euro), bisogna fare un passo indietro, sino all'Italia anni Sessanta, quando, ci dicono i due autori, la censura stava a destra e la libertà di espressione era di sinistra. È una dicotomia molto, forse troppo schematica, ma rende l'idea, nel senso che c'era una cultura dominante conservatrice, bigotta per molti versi, autoritaria nelle famiglie come nella società. Erano i retaggi del culturame caro da un lato all'onorevole Mario Scelba, Dc, delle intemerate del Pci contro l'arte d'avanguardia e la corrotta classe borghese dall'altro. In sostanza, c'erano due chiese intellettuali che si contendevano l'egemonia ideologico-politica del Paese, ma che celebravano la stessa messa puritana e insieme ipocrita. Ciò che rimaneva fuori da un simile connubio, erano un po' di spiriti liberi, liberali e libertini, un po' di borghesia controcorrente e bastian contraria, qualche scrittore, pittore o regista eterodosso e, insomma, un insieme di singole voci che facevano da controcanto al coro conformista egemone sulla scena.

Il '68 e dintorni, ovvero la contestazione, aprirono una crepa in questa costruzione, apparentemente massiccia, e di fatto la fecero franare. Non era un fenomeno italiano, ma internazionale, segnava l'ingresso nella storia della prima generazione interamente postbellica, nonché il compimento di una società industriale e di massa all'insegna della tecnica e del consumo. Il suo affermarsi esigeva il rifiuto delle regole e delle autorità prima esistenti, il vietato vietare, insomma, con cui ogni libertà, in ogni campo, doveva essere garantita. Da una mentalità dominante conservatrice si passò a una mentalità dominante progressista e/o liberatrice.

È allora che, quasi insensibilmente, scrivono Mastrocola & Ricolfi, comincia l'uso del politicamente corretto, ovvero una sorta di legislazione del linguaggio, un'ansia e una bulimia di ribattezzare e in qualche modo santificare il nuovo corso delle cose e insieme fare tabula rasa del passato. Il suo assunto di base è che siano le parole a generare i comportamenti, un assunto paradossale se si pensa che nasce all'interno di una corrente di pensiero per la quale erano sempre state le condizioni sociali, ovvero materiali, a generare tanto le idee quanto le azioni. Il passo successivo è che il linguaggio si fa etico, non nomina più le cose, ma le connota moralmente: Lo spazzino o il netturbino diventano operatori ecologici, così come i bidelli operatori scolastici e i becchini operatori cimiteriali. Ciò che sino al giorno prima era neutro, viene caricato di un valore spregiativo/regressivo e corretto appunto in modo ritenuto giusto e quindi positivo. Poco importa, naturalmente, se le condizioni di lavoro rimangono le stesse

Nel tempo la colonizzazione del politicamente corretto si estende a tutti i gangli della società. Lo fa ipocritamente, perché affetta un rispetto verbale che, per esempio, nobilita i vecchi trasformandoli in anziani o nella ribattezzata terza età, continuando però a trattarli sempre nello stesso modo, espellendoli cioè brutalmente dalla società. Lo fa anche spregiativamente, perché contrappone al linguaggio comune, trasformato in reazionario e retrogrado, il linguaggio ufficiale dell'élite, un codice linguistico di cui viene sorvegliato, se non addirittura imposto, il rispetto. Il risultato finale è che il linguaggio ufficiale, cadaverico, stando alla bella definizione di Natalia Ginzburg ancora alla fine degli anni Ottanta, si fa censorio nel suo imporre un conformismo linguistico che è anche un conformismo ideologico, chiudendo così il cerchio.

Nel loro pamphlet, Mastrocola & Ricolfi esaminano anche il politicamente corretto applicato persino alle convenzioni del linguaggio, alle regole dell'ortografia e della grammatica, dalla stigmatizzazione dell'uso neutro del pronome maschile, all'utilizzo del cosiddetto schwa, sino alla comica finale di chi vuol ribattezzare history con herstory, come se quell' his iniziale sia un pronome possessivo maschile anglosassone e non una derivazione greca istoria, o latina historia. Nessuno sembra accorgersi, dicono, che un conto è una lingua che cambia nel tempo, come è sempre stato, un processo di evoluzione spontanea che avviene dal basso, e un conto è «la deriva della lingua» imposta dall'alto: «Solo i regimi totalitari hanno questa pretesa, in spregio al comune sentire delle persone».

Come ogni settarismo, il politicamente corretto non ha il senso del ridicolo. Non si spiega altrimenti come un'associazione animalista e ambientalista sia potuta insorgere contro una canzoncina di Cochi & Renato, La gallina, ormai vecchia di mezzo secolo, considerandola «un insulto verso i polli e le galline». «Allora il rispetto degli animali non esisteva» hanno concesso i censori, ma adesso è ora di ridare ai pennuti la considerazione che meritano

Applicato in campo artistico, il politicamente corretto altro non è che un bavaglio etico. Se si va a guardare il contenuto medio, in letteratura come al cinema, della nostra arte contemporanea, si vedrà che è cronachistico e angusto allo stesso tempo: ci sono i migranti e c'è l'orgoglio femminile, le minoranze etniche e i bambini in guerra, vari tipi di diversità, avvocati e giornalisti eroici contro la mafia, avvocati e giornalisti corrotti dalla mafia. È una sorta di nuovo realismo socialista, dove non ci sono più personaggi, ma esemplari, non più individui, ma rappresentanti. Scompare la complessità del reale, non c'è più spazio per l'ambivalenza e la dialettica del bene e del male. Come notano Mastrocola & Ricolfi, siamo di fronte a un'arte «che compiace. Liscia il pelo. Non va controvento. Non è più alterità». È insomma «un'arte pedagogica, che dà voce alle idee dominanti per convincere tutti della bontà di quelle idee. Asservita, allineata, ammaestrata. Mai veramente spiazzante, mai capace di stupire, interrogare, indicare altri orizzonti».

C'è di più. In quanto arte neo-impegnata nel nome del bene, automaticamente è solo lei l'arte giusta, quella che promuove i valori buoni. Chi non la pensa allo stesso modo, non si limita a pensarla diversamente: più semplicemente è il villain, il cattivo, il male. Nessun dialogo è possibile, nessun confronto auspicabile. Il finale di partita è il bullismo etico.

Le parole indicibili. Il dramma dei comici di talento nel secolo del «come ti permetti». Guia Soncini su L'Inkiesta il 16 Aprile 2022.

Se ridete solo di ciò con cui siete d’accordo, dovrete farvi bastare le battute noiose su quanto si mangia male in aereo. Per tutti gli altri c’è un mondo di artisti irriverenti con cui divertirsi e riflettere su tutto, anche su temi tabù, come l’11 settembre.

Di che cosa si può ridere? Sì, la so la risposta «di niente, perché qualunque argomento è potenzialmente offensivo per qualcuno». Uno bravo, Bill Maher, la settimana scorsa ha fatto nel suo programma una ricostruzione dello schiaffo degli Oscar (ve lo ricordate?) in cui, considerato quant’era blanda la battuta di Chris Rock, concludeva che presto ai comici resteranno solo le battute su quanto si mangia male in aereo, e quelle sui baristi di Starbucks che sbagliano a scriverti il nome sul bicchiere di carta (ma forse sono entrambe battute classiste: lo sai quanto guadagna una hostess, lo sai quanto guadagna un barista, non ti vergogni).

Intanto è morto Gilbert Gottfried, uno dei molti comici americani che non avete mai sentito nominare (almeno finché non ci inciampate su Netflix) e che lì sono leggendari, e proprio Maher (di cui ieri sera Hbo ha trasmesso un nuovo monologo, poi ci torniamo) e Jimmy Kimmel l’hanno rievocato con la risposta perfetta a «di cosa si può ridere».

La risposta era nel fatto che il pezzo più famoso di Gottfried era The Aristocrats, che è un po’ come se domani morisse il cantante Tizio e io vi dicessi che il suo pezzo più famoso era O sole mio. The Aristocrats è talmente un classico della comicità americana che nel 2005 ci hanno fatto un documentario. Poi ci torniamo.

La risposta era in una serata per Hugh Hefner che Kimmel presentava, a New York, in un mese di cui forse avete sentito parlare: il settembre 2001. C’erano i comici che credevano di poter fare i comici, e non sapevano che era cominciato il secolo del «come ti permetti». Gottfried sale sul palco e dice che deve andare in California, ma non c’è un volo diretto: «Prima devono fare tappa sull’Empire State Building». La folla si gela e gli urla «troppo presto». Tragedia più tempo, e tutte quelle stronze frasette che usiamo per illuderci che esistano formule infallibili per far ridere (o per fare praticamente qualunque altra cosa tranne le addizioni).

Gli altri comici pensano che non si riprenderà più, ormai per quella sera il pubblico l’ha perso. Solo che, se sei un giocatore, non hai perso finché non hai perso tutto; fino ad allora, rilanci. E quindi Gottfried pensa bene di fare The Aristocrats. Una storiella il cui inizio e la fine sono fissi, e la cui parte centrale è improvvisazione. Può durare ore, dice la leggenda (e fingono di credere quasi tutti i comici intervistati nel documentario del 2005).

L’inizio è: una famiglia entra nell’ufficio d’un agente d’artisti e dice «Abbiamo un numero che vorremmo farle vedere». Sono, come da ricostruzione documentaristica, una famiglia a formula fissa: madre, padre, figlio, figlia, cane. L’agente li invita a esibirsi per lui, e a quel punto pensate a tutto quel che di più irripetibile vi viene in mente.

Quando hanno girato il documentario era ancora vivo George Carlin, che voi non sapete chi è perché non ve lo trovate su Netflix e mica possiamo aspettarci abbiate studiato, ma i comici americani lo considerano il loro padre nobile, e uno dei suoi numeri più famosi s’intitola Le sette parole che non si possono dire alla tv americana. La settimana scorsa Maher ha detto che ora è tutto cambiato: le sette parole indicibili sono «Jada, voglio vederti in Soldato Jane 2». Ai documentaristi, Carlin raccontava che, nella sua versione degli Aristocratici, il padre cagava in bocca alla madre, con dettagliata descrizione di quel che mangiava per dare consistenza alle feci.

Coprofagia a parte, le variazioni sono molteplici e perlopiù sessuali: incesto, accoppiamenti tra il cane e gli umani, tutto quel che di schifoso vi viene in mente, in un crescendo che fa chiedere al pubblico dove diavolo sia capitato.

Gottfried, se avete perso il filo, si lancia in questo crescendo davanti a un pubblico che ha appena gelato con una battuta sull’undici settembre quando l’undici settembre è avvenuto da un paio di settimane. Il pubblico in sala, ha raccontato Kimmel l’altra sera (e raccontano da vent’anni tutti quelli che c’erano), all’inizio sta sulle sue, alla fine piange dal ridere. Ed è dopo nove minuti di immagini raccapriccianti che Gottfried arriva alla chiusa fissa. La più schifosa delle famiglie termina il proprio numero, s’inchina all’agente potenziale, e quello chiede «Ah, e come vi chiamate?». Gli aristocratici. Inchino, applausi.

L’apparizione più interessante, nel documentario del 2005, è quella di Chris Rock, che dice che The Aristocrats fa bagnare le mutande (sintesi mia) ai comici bianchi, perché hanno un frisson a poter dire cose schifose. I comici neri le hanno sempre dette, tanto in televisione non li invitavano comunque, e quindi mica dovevano attenersi a standard di presentabilità sociale.

Nel documentario di ieri sera, Adulting, Maher comincia dal grande indicibile: la pandemia. È allora che capisci non se sia all’altezza lui, ma se sei all’altezza tu. Se sei uno che ride solo di ciò con cui è d’accordo, dovrai farti bastare le battute sui nomi scritti sbagliati sui bicchieri di Starbucks. Maher – che quelli che sono per la libertà d’espressione di chiunque sia d’accordo con loro detestano da quando molti anni fa espresse dubbi sui vaccini – dice che continua a vedere gente con la mascherina, e gli vien voglia di chiedere «ma tu tieni il preservativo dopo aver finito di scopare» e che comunque «la salute è un mistero: come fa Trump a essere ancora vivo?», e che sua madre beveva da incinta, tutti fumavano in aereo, medici compresi, e insomma la scienza non è scolpita nella pietra. Mentre ridevo pensavo che certo, le battute sul diritto ad abortire delle donne trans, che non hanno un utero e quindi non possono restare incinte ma noi non vogliamo violare il loro diritto di scelta su feti immaginari, quelle poteva farle dopo, perché le questioni di genere non hanno più il primato della suscettibilità, «cheppalle con ’sta pandemia» è forse il nuovo grande indicibile, ed è all’inizio che devi dire al pubblico che il tuo aereo fa una fermata sull’Empire State Building, e che non pensi ci siano cose di cui non si possa ridere. È in apertura di serata che devi verificare d’essere nel posto giusto; e che sia all’altezza, il pubblico.

Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 15 aprile 2022.

Un fatto personale. Sono stata per due sere di seguito a vedere lo stesso spettacolo. È una messa in scena il cui esito è, di solito, l'insurrezione del pubblico rispetto al monologo finale dell'attore che interpreta il politico di governo, fascista: cori di basta, fischi, sollevazione della platea. 

Sono tornata perché volevo riascoltare il testo - tratto da oltre duecento ore di veri comizi di politici oggi in carica, uno dei quali italiano - e perché volevo vedere se cambiava, e come, la reazione del pubblico fra una sera e un'altra. Un interesse antropologico, diciamo così. Sono stata accontentata, ecco come.

Poiché mi sono alzata, dopo i fischi della platea ma prima del sipario e dunque degli applausi, una spettatrice dalla fila dietro la mia a voce molto alta mi ha chiesto, accusatoria: la signora se ne va senza applaudire? Sottotesto: sta dalla parte del fascista? Eravamo tutti con maschera, cappelli e cappotti, irriconoscibili. 

Stavo per risponderle (ripensandoci non avrei dovuto, ma stavo per) quando è partita una scena da musical: da varie file, come in una coreografia, hanno cominciato a ripetere: non applaude? Si vergogni. Brava, fa bene a correre fuori.

Tutti spettatori democratici, naturalmente, tutti entusiasti dell'esperienza di partecipare a un "atto politico" di ribellione al fascista in scena e tutti pronti a urlare "si vergogni" chi non si comporta come pensano si debba, cioè come loro. Non è neppure la sinistra autoritaria. È meno, è niente. È il format dei talk di successo, è l'indignazione social trasferita nella vita. L'esibizione di sé come prova dell'esistenza. Un tribunale in servizio permanente tutto attorno a noi. La gogna democratica.

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 15 aprile 2022.  

Benvenuta nel club, Concita. Siamo contenti di vederti inserita tra coloro che, solo per aver osato non accodarsi al plauso collettivo imposto dal Politicamente Corretto, vengono additati di essere fascisti. E la cosa fa ancora più scalpore visto che la De Gregorio - ex direttrice dell'Unità, ora conduttrice del programma In Onda su La7 - non è certo tacciabile di simpatie destrorse.

Ma è bastato un suo abbandono della seggiola anzitempo allo spettacolo teatrale cui assistevano tanti democratici dei salotti buoni e in cui si raccontava «la bellezza di ammazzar fascisti» per scatenare nei suoi confronti l'ira (democratica) del pubblico. Ieri nella sua rubrica su Repubblica la giornalista raccontava un'esperienza in cui suo malgrado si è trovata coinvolta in un teatro di Roma, durante la pièce Catarina e la bellezza d'ammazzar fascisti. 

Si tratta di un'opera, messa in scena da un regista portoghese, in cui, evocando il motto "Uccidere un fascista non è un reato", si narra una tradizione decennale della famiglia di Catarina, la protagonista: e cioè ammazzare un seguace o un nostalgico delle camicie nere. La stessa Catarina tuttavia, al momento di eseguire a sua volta questo macabro rito ideologico, sceglie di non farlo. Da cui una interessante disquisizione filosofica su cosa sia il Male e come si debba contrastarlo, se ci sia posto per la violenza nella costruzione di un mondo migliore e quanto, per debellare un nemico, sia lecito ricorrere ai suoi stessi mezzi.

La pièce, che attinge a duecento ore di comizi di politici di oggi, si chiude con il monologo finale di un uomo di governo fascista; discorso che il pubblico in sala è libero di approvare o di fischiare. Ma che, vista la platea cui l'opera è destinata, viene inesorabilmente sommerso di fischi. 

E qui si consuma la tragicommedia, termine appropriato visto che parliamo di teatro, di cui è stata vittima Concita. La quale ha fatto l'errore di andare «due sere di seguito a vedere lo stesso spettacolo», come lei racconta, dimenticando che non si torna mai sul luogo del delitto (del fascista). Lei dice di esserci «tornata perché volevo riascoltare il testo e volevo vedere se cambiava, e come, la reazione del pubblico fra una sera e un'altra.

Un interesse antropologico, diciamo così». 

Sennonché ha fatto l'altro "errore" - ma solo agli occhi degli altri spettatori perbenisti - di lasciare il teatro prima che l'opera finisse, ossia «dopo i fischi della platea ma prima del sipario e degli applausi».

A chi le era a fianco il gesto è suonato come una diserzione, anzi una forma di collaborazionismo col nemico (nero) e di dissenso rispetto al tripudio di disapprovazione contro l'attore che incarnava il politico fascista e di ovazioni per il regista che aveva ideato lo spettacolo antifascista. «Una spettatrice dalla fila dietro la mia», scrive Concita, «a voce molto alta mi ha chiesto, accusatoria: La signora se ne va senza applaudire? Sottotesto: sta dalla parte del fascista?». A quel punto, continua la giornalista, «è partita una scena da musical: da varie file, come in una coreografia, hanno cominciato a ripetere non applaude? Si vergogni. Brava, fa bene a correre fuori».

Chi erano quegli indignati e indottrinati ideologicamente che le sbraitavano contro, in quanto lei non aveva obbedito al riflesso condizionato antifascista del "fischio più applauso"? A svelare la loro identità è la stessa Concita: «Tutti spettatori democratici, naturalmente, tutti entusiasti dell'esperienza di partecipare a un "atto politico" di ribellione al fascista in scena e tutti pronti a urlare "si vergogni" chi non si comporta come pensano si debba, cioè come loro. Non è neppure la sinistra autoritaria. 

È meno, è niente. È il format dei talk di successo, è l'indignazione social trasferita nella vita. Un tribunale in servizio permanente tutto attorno a noi. La gogna democratica». Già, la gogna democratica. Quella che adotta i medesimi metodi, solo in forma più subdola e meno manesca (le mani sono usate solo per applaudire) dell'ideologia che si vorrebbe contestare.

Quella che ti vieta di dissentire, di non seguire la corrente, di non cedere al conformismo dilagante, e ti impone non solo un unico (non) pensiero, ma anche azioni e gesti omologati (l'applauso tutti insieme, e se non lo fai sei derubricato a pecora nera). Un totalitarismo soft delle coscienze che mette al bando sia chi disapprova esplicitamente, chi sceglie di boicottare o di criticare lo spettacolo (a proposito, troviamo sbagliato l'appello censorio di Fratelli d'Italia al sindaco di Roma affinché «la programmazione dello spettacolo sia sospesa». 

Orsù, non mettiamo il bavaglio all'arte, foss' anche l'opera più odiosa, lasciamo che sia il pubblico a snobbare o sommergerla di fischi); sia chi, come Concita, era andato a teatro, solo per fare un'indagine «antropologica», cioè per assistere senza pregiudizi, non tifando né per una parte né per l'altra. Ma i compagni, e la De Gregorio ora l'ha scoperto, non ammettono terzietà né sguardi imparziali: vedono tutto o rosso o nero. E, quando vedono nero, diventano rossi dalla rabbia. Al punto da insultare chi non agisce come vorrebbero. Per loro, cacciare dalla sala chi non fischia un fascista non è reato.

"Quanto è bella uccidere un fascista". Concita De Gregorio non applaude e viene insultata: vergogna-sinistra. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.

Benvenuta nel club, Concita. Siamo contenti di vederti inserita tra coloro che, solo per aver osato non accodarsi al plauso collettivo imposto dal Politicamente Corretto, vengono additati di essere fascisti. E la cosa fa ancora più scalpore visto che la De Gregorio - ex direttrice dell'Unità, ora conduttrice del programma In Onda su La7 - non è certo tacciabile di simpatie destrorse.

Ma è bastato un suo abbandono della seggiola anzitempo allo spettacolo teatrale cui assistevano tanti democratici dei salotti buoni e in cui si raccontava «la bellezza di ammazzar fascisti» per scatenare nei suoi confronti l'ira (democratica) del pubblico. Ieri nella sua rubrica su Repubblica la giornalista raccontava un'esperienza in cui suo malgrado si è trovata coinvolta in un teatro di Roma, durante la pièce Catarina e la bellezza d'ammazzar fascisti. Si tratta di un'opera, messa in scena da un regista portoghese, in cui, evocando il motto "Uccidere un fascista non è un reato", si narra una tradizione decennale della famiglia di Catarina, la protagonista: e cioè ammazzare un seguace o un nostalgico delle camicie nere. La stessa Catarina tuttavia, al momento di eseguire a sua volta questo macabro rito ideologico, sceglie di non farlo. Da cui una interessante disquisizione filosofica su cosa sia il Male e come si debba contrastarlo, se ci sia posto per la violenza nella costruzione di un mondo migliore e quanto, per debellare un nemico, sia lecito ricorrere ai suoi stessi mezzi. 

TRAGICOMMEDIA - La pièce, che attinge a duecento ore di comizi di politici di oggi, si chiude con il monologo finale di un uomo di governo fascista; discorso che il pubblico in sala è libero di approvare o di fischiare. Ma che, vista la platea cui l'opera è destinata, viene inesorabilmente sommerso di fischi.

E qui si consuma la tragicommedia, termine appropriato visto che parliamo di teatro, di cui è stata vittima Concita. La quale ha fatto l'errore di andare «due sere di seguito a vedere lo stesso spettacolo», come lei racconta, dimenticando che non si torna mai sul luogo del delitto (del fascista). Lei dice di esserci «tornata perché volevo riascoltare il testo e volevo vedere se cambiava, e come, la reazione del pubblico fra una sera e un'altra.

Un interesse antropologico, diciamo così».

Sennonché ha fatto l'altro "errore" - ma solo agli occhi degli altri spettatori perbenisti - di lasciare il teatro prima che l'opera finisse, ossia «dopo i fischi della platea ma prima del sipario e degli applausi». A chi le era a fianco il gesto è suonato come una diserzione, anzi una forma di collaborazionismo col nemico (nero) e di dissenso rispetto al tripudio di disapprovazione contro l'attore che incarnava il politico fascista e di ovazioni per il regista che aveva ideato lo spettacolo antifascista. «Una spettatrice dalla fila dietro la mia», scrive Concita, «a voce molto alta mi ha chiesto, accusatoria: La signora se ne va senza applaudire? Sottotesto: sta dalla parte del fascista?». A quel punto, continua la giornalista, «è partita una scena da musical: da varie file, come in una coreografia, hanno cominciato a ripetere non applaude? Si vergogni. Brava, fa bene a correre fuori». 

GOGNA DEMOCRATICA - Chi erano quegli indignati e indottrinati ideologicamente che le sbraitavano contro, in quanto lei non aveva obbedito al riflesso condizionato antifascista del "fischio più applauso"? A svelare la loro identità è la stessa Concita: «Tutti spettatori democratici, naturalmente, tutti entusiasti dell'esperienza di partecipare a un "atto politico" di ribellione al fascista in scena e tutti pronti a urlare "si vergogni" chi non si comporta come pensano si debba, cioè come loro. Non è neppure la sinistra autoritaria. È meno, è niente. È il format dei talk di successo, è l'indignazione social trasferita nella vita. Un tribunale in servizio permanente tutto attorno a noi. La gogna democratica». Già, la gogna democratica. Quella che adotta i medesimi metodi, solo in forma più subdola e meno manesca (le mani sono usate solo per applaudire) dell'ideologia che si vorrebbe contestare. Quella che ti vieta di dissentire, di non seguire la corrente, di non cedere al conformismo dilagante, e ti impone non solo un unico (non) pensiero, ma anche azioni e gesti omologati (l'applauso tutti insieme, e se non lo fai sei derubricato a pecora nera). Un totalitarismo soft delle coscienze che mette al bando sia chi disapprova esplicitamente, chi sceglie di boicottare o di criticare lo spettacolo (a proposito, troviamo sbagliato l'appello censorio di Fratelli d'Italia al sindaco di Roma affinché «la programmazione dello spettacolo sia sospesa». Orsù, non mettiamo il bavaglio all'arte, foss' anche l'opera più odiosa, lasciamo che sia il pubblico a snobbare o sommergerla di fischi); sia chi, come Concita, era andato a teatro, solo per fare un'indagine «antropologica», cioè per assistere senza pregiudizi, non tifando né per una parte né per l'altra. Mai compagni, e la De Gregorio ora l'ha scoperto, non ammettono terzietà né sguardi imparziali: vedono tutto o rosso o nero. E, quando vedono nero, diventano rossi dalla rabbia. Al punto da insultare chi non agisce come vorrebbero. Per loro, cacciare dalla sala chi non fischia un fascista non è reato.

Bordelli, latrine e cantine. Il ritorno dei "porcheristi". Giordano Bruno Guerri il 13 Aprile 2022 su Il Giornale.

Sconvolsero il comune senso del pudore dell'Italia di fine Ottocento, reinventando la poesia.

Un canzoniere oggi quasi dimenticato fu per decenni il bestseller in versi della letteratura italiana: Postuma di Olindo Guerrini.

Bibliotecario romagnolo avvezzo a indossare maschere truffaldine con pseudonimi d'occasione, in quella raccolta dal titolo funereo pubblicata nel 1877, Guerrini attribuì le sue liriche a un fantomatico cugino, morto prematuramente di tisi, tale Lorenzo Stecchetti. Lo sfortunato, immaginario poeta descriveva le proprie afflizioni di amante tradito, ora deprecando le infedeltà della donna ora ricambiandole pan per focaccia nel concedersi, tra una seduta alcoolica e l'altra, il diversivo del sesso mercenario con a una frotta di donne in vendita.

Fu uno scandalo di proporzioni inimmaginabili, che suscitò immediatamente un vespaio di polemiche e divise l'agone letterario in due fronti contrapposti: da una parte, la legione degli imitatori che inondarono le patrie lettere con raccolte, elzeviri e volumi scollacciati; dall'altra, le anime belle della pubblica moralità, gli idealisti indignati per il dilagare del malcostume, che aveva corrotto addirittura il Parnaso nazionale.

Sia pure con la cautela di chi non voleva intrupparsi in alcun schieramento, anche il giovanissimo Gabriele d'Annunzio simpatizzò per i primi e non si fece scrupolo di accogliere, tra i suoi primi versi, echi, temi e reminiscenze della lezione di Guerrini: forse venne proprio da lì la trovata con cui fece parlare di sé l'Italia quando, ancora collegiale, in occasione dell'uscita di una raccolta di poesie, fece girare la notizia falsa - della sua morte suscitando coccodrilli piangenti sui giornali.

Intanto Postuma imperversava, portando lo scompiglio nella paludata critica italiana, abituata ai patetismi tardo-romantici, alle fanciulle morigerate, allo stile educato e perciò disgustata dalle licenze della nuova moda. La tendenza poetica inaugurata da Guerrini aveva preso piede in un batter d'occhio specie tra quanti ritenevano che la poesia non dovesse più rincorrere ideali astratti e anacronistici, ma avesse il compito di raccontare la realtà, anche quella più ordinaria e squallida. La letteratura ha il compito di ritrarre la totalità delle esperienze e dei sentimenti umani, scrivevano: proprio come avevano fatto Dante e Boccaccio, inclini a dare conto sulla pagina anche delle sgradevoli brutture.

Per questo motivo, per designare la nuova corrente, gli avversari coniarono l'etichetta spregiativa di «verismo»: nulla a che vedere con il termine oggi codificato nella pratica scolastica, perché i poeti in questione avevano ben poco a che spartire con Verga e Capuana e con la loro neutrale, impassibile oggettività.

Avrebbero potuto essere designati come fautori del «carnalismo» o del «porcherismo»: così proposero i critici più disgustati, visto che tra i loro versi il lettore poteva sguazzare tra i miasmi della vita cittadina, i fetori delle stamberghe e le indecenze dei postriboli.

Felice Cavallotti, il famoso bardo della democrazia, rivoluzionario in politica ma conservatore in arte, indicò con indignazione le note onnipresenti di questo spartito: «letto, latrina e cantina». E sotto questo titolo Giuseppe Iannaccone, ripescando nei polverosi cataloghi editoriali del tempo, ripropone per la prima volta in una curiosa e divertente antologia (Letto, latrina e cantina. La poesia verista in Italia, Interlinea, pagg. 265, euro 18) i componimenti più significativi e gli autori protagonisti di questa esperienza (da Domenico Milelli a Enrico Onufrio, da Pier Enea Guarnerio a Ulisse Tanganelli), che si ritagliarono un quarto d'ora di celebrità spaziando tra le cortine delle alcove.

Oltre all'eros non mancavano, d'altro canto, neppure i tipici motivi della poesia sociale e protestataria, particolarmente fiorente negli anni postunitari. Sicché non sorprende, sfogliando il volume, di imbattersi in livorosi j'accuse anticlericali, in peana satanici e in battaglieri inni rivoluzionari, scagliati perlopiù ai danni dell'odiata borghesia.

Eredi dei bohémien di casa nostra, gli Scapigliati, i veristi si specializzarono tuttavia nell'esercizio della misoginia, che sparsero senza ritegno per offrire un controcanto provocatorio all'immagine della vergine onesta, della madre operosa e della moglie fedele. Sull'amante traditrice piovono così accuse e anatemi, da realizzare post mortem: «quando ti coleran marcie le gote / entro i denti malfermi / nelle occhiaie tue fetenti e vuote /brulicheranno i vermi», minaccia Guerrini nel Canto dell'odio, immaginando la sua vendetta postuma ai danni del povero cadavere spolpato nella tomba.

«Maledetti» all'epoca, i «porcheristi» oggi non solleverebbero scaldalo alcuno, se non quello modesto del politicamente corretto: è la prova che furono, anche, dei precursori.

Battista: il nuovo oscurantismo della cancel culture è come il fanatismo maoista. Redazione sabato 20 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia.

Pierluigi Battista, già vicedirettore del Corriere della Sera dopo esserlo stato di Panorama, oggi firma la rubrica «Uscita di sicurezza» su Huffington Post. Parla del politicamente corretto in una lunga intervista a la Verità. Un tema che gli sta molto a cuore e al quale ha dedicato un titolo, Libri al rogo, per denunciare la nuova cultura dell’intolleranza.

La sfida al conformisticamente corretto con il libro “Mio padre era fascista”

Con un altro libro Battista aveva sfidato il conformismo mainstream. Aveva raccontato in Mio padre era fascista l’amore per l’Italia e la dirittura morale di suo padre Vittorio, un “fascistone” che poi divenne convinto missino. Questo per dire che Battista non è uno che ha timore di dire come la pensa. E neanche di essere accostato alla destra quando dichiara che “dal 2011, quando Mario Monti ha sostituito Silvio Berlusconi, son 10 anni che i governi non corrispondono alla volontà degli elettori. I nostri giornali sono succubi di questa situazione”.

La sinistra divide il mondo in due: i buoni, loro, e i cattivi di destra

La politica lo annoia, o meglio non lo interessa più, pur dopo avere sperimentato gli anni Settanta del “tutto è politica”. «Ho smesso di fumare e di votare», dice nell’intervista. Eppure non tace sul manicheismo della sinistra: «A sinistra si pensa che la politica determini l’antropologia. Esistono due categorie di italiani: quelli di sinistra, buoni, generosi, che non parcheggiano in seconda fila, pagano le tasse e leggono i libri, e quelli di destra, populisti, prepotenti, ignoranti, evasori e che non rispettano le regole».

Impietoso giudizio su Conte e Casalino

Battista dunque la politica continua a osservarla, e su Conte e il suo apparato propagandistico dà un giudizio impietoso. Quella di Conte – afferma – «non era ipercomunicazione, ma ufficio propaganda che con la pandemia è diventato Istituto Luce Casalino. Detto questo penso che, con la comunità provata dalla paura, serva una comunicazione istituzionale che dia certezze».

La distinzione tra politicamente corretto e “cancel culture”

Quindi introduce una importante distinzione tra il politicamente corretto e la cancel culture. «Con la cancel culture – afferma Battista -c’è stato un salto di qualità. Il piagnisteo, molto molesto, non era arrivato ad abbattere le statue, a cancellare Shakespeare nelle università e Egon Schiele nei musei. Nel cinema western i buoni erano i cowboy, poi arrivò Soldato blu a mostrarci che i pellerossa erano un popolo. Quello era il politicamente corretto. La cancel culture vuole che i western siano eliminati dalle cineteche. Come pure Peter Pan e Dumbo, ci rendiamo conto? È fanatismo maoista che abbatte ciò che non si conforma. È un nuovo oscurantismo che, sbagliando, abbiamo preso per una bizzarria». Invece «favorisce un nuovo conformismo perché intimidisce. Nessuno vuol passare per sessista o razzista. Nel libro di Guia Soncini L’era della suscettibilità c’è un capitolo intitolato “Pensa oggi”. Pensa cosa accadrebbe se Lucio Dalla scrivesse oggi 4 marzo 1943, se qualcuno facesse un apprezzamento sulla minigonna di Alba Parietti, se Vasco Rossi scrivesse Colpa d’Alfredo: “È andata a casa con il negro, la troia”. Non si tratta di elogiare la parola offensiva, è un diritto non essere insultati, ma deve valere per tutti».

L’intolleranza colpisce anche il linguaggio

Invece? «L’indignazione si ferma quando viene colpito l’avversario. Si dà del nano a Renato Brunetta o dello psiconano a Berlusconi. Non registro crociate contro le frequenti offese a Giorgia Meloni».Ingabbia anche il linguaggio?«Parlare di normalità è proibito perché stabilisce il primato della norma sull’anomalo e offende chi non rientra nei canoni. Siamo nel regno della stupidità universale. A confronto, Robespierre aveva una sua grandezza. Come diceva Carlo Marx, la storia da tragedia si trasforma in farsa». E anche il linguaggio subisce la noelingua dell’intolleranza. L’ultimo episodio: i Maneskin costretti a cambiare il testo della loro canzone Zitti e buoni per l’Eurovision.

Federico Rampini, l'affondo di Dagospia: "La metamorfosi, tutto cambiato salvo le bretelle". Libero Quotidiano il 31 marzo 2022.

"La metamorfosi di Federico Rampini": così inizia l'attacco di Dagospia contro l'editorialista del Corriere della Sera, di recente molto presente in tv e sui giornali per parlare soprattutto della guerra in Ucraina e delle sue conseguenze sul piano internazionale. "Da 'occupy Wall Street' ai tempi di Repubblica alla condanna di Black Lives Matter l'altro giorno ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica": si legge sul portale di Roberto D'Agostino.

Dago fa riferimento insomma alle ultime opinioni espresse da Rampini sul BLM. Nel suo ultimo libro, "Suicidio occidentale", il giornalista parla anche di scuole e università. Luoghi - come scrive Danilo Taino sul Corsera - "conquistati da un’ideologia secondo la quale non solo ogni fenomeno negativo è responsabilità dell’uomo bianco, ma anche secondo la quale questo uomo bianco va rieducato e da subito penalizzato. Un razzismo della pelle che si cela dietro le campagne contro il razzismo condotte ad esempio dal movimento Black Lives Matter". 

Dago alla fine si chiede: "Ma quello vero è il Rampini 1 o il Rampini 2? Tutto cambiato, salvo le bretelle". Il giornalista, tra l'altro, ha fatto parlare di sé ieri dopo un duro scontro con Marco Tarquinio a L'Aria che tira sulla guerra in Ucraina. Dopo che il direttore di Avvenire ha detto: "Le sanzioni non fanno meno male dei bombardamenti", lui ha perso le staffe e ha risposto: "Ha messo sullo stesso piano le sanzioni economiche e i bombardamenti. Ma stiamo scherzando?".

L’Occidente sotto scacco: il libro di Rampini contro il politicamente corretto. DANILO TAINO su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.  

Esce il 29 marzo per Mondadori il nuovo saggio dell’editorialista del «Corriere» che analizza e denuncia l’indebolimento delle democrazie nel confronto con le dittature

Vladimir Putin quando guardano l’Occidente? Un mondo che non sarà difficile battere e forse abbattere. Da attaccare, come si vede in Ucraina. Debole, confuso, in declino irreversibile. È così? È questa la nostra realtà? L’ultimo libro di Federico Rampini — Suicidio occidentale, in libreria da oggi per Mondadori — non è solo un esempio di tempismo che spiega cosa si è fissato nella mente dei leader autoritari quando sfidano le democrazie liberali. È soprattutto la ricognizione di come queste ultime si stiano impegnando seriamente nella cancellazione dei propri valori: chiarisce, per dire, che dietro l’invasione di queste settimane ordinata dal Cremlino non c’è solo una generica mossa geopolitica; alla radice c’è il nostro vacillare sociale, culturale, economico, istituzionale e ovviamente politico.

Le potenze autoritarie – scrive Rampini – disprezzano il modello occidentale. Ma, prima ancora, «quest’ultimo è stato ripudiato in casa propria»: da un establishment economico che, dietro la globalizzazione, detesta l’identità nazionale, «cioè quello che fu il collante storico delle democrazie»; e da un establishment culturale germogliato negli Anni Sessanta e oggi in piena fioritura secondo il quale «il Male supremo siamo noi». Il libro è una denuncia ampia e precisa del «politicamente corretto». Ma non una denuncia superficiale dei modi fastidiosi nei quali il conformismo di sinistra si palesa: ne analizza le conseguenze profonde sulle società.

Uno dei luoghi nei quali «l’indottrinamento propagandistico» produce i danni peggiori è il sistema dell’istruzione, soprattutto negli Stati Uniti, «dove la cultura seria è messa al bando». Le scuole e le università sono state in buona parte conquistate da un’ideologia secondo la quale non solo ogni fenomeno negativo è responsabilità dell’uomo bianco, ma anche secondo la quale questo uomo bianco va rieducato e da subito penalizzato. Un razzismo della pelle che si cela dietro le campagne contro il razzismo condotte ad esempio dal movimento Black Lives Matter. E non solo: in molte università è impossibile, per chi non si accoda anche alle posizioni più estreme su sesso e genere, avere diritto di parola. Spesso, docenti che osano esprimere opinioni diverse da quelle di gruppi di militanti organizzati devono poi umiliarsi in autocritiche pubbliche e rischiano comunque di essere allontanati dall’insegnamento da autorità accademiche impaurite.

In questa analisi di quel che succede negli Stati Uniti, Rampini è particolarmente critico con i media cosiddetti progressisti. Soprattutto con il «New York Times», il quale ha compiuto negli anni recenti una svolta intollerante verso il dibattito delle idee. Oltre a essersi chiuso al confronto a causa dell’attivismo di molti suoi giovani giornalisti, il grande quotidiano newyorkese ha avuto un ruolo centrale nella costruzione della critical race theory, la teoria secondo la quale il razzismo è la pietra costitutiva delle istituzioni americane: teoria diventata il collante di movimenti spesso violenti e anche la copertura di gang organizzate.

La responsabilità del «New York Times» è individuata da Rampini nel «1619 Project» che il giornale porta avanti da anni: una serie di analisi storiche spesso infondate per sostenere che la vera fondazione degli Stati Uniti va datata all’anno in cui vi arrivò la prima nave di schiavi dall’Africa.

Nella critica intensa che porta alle ideologie della «sinistra illiberale» che rischiano di sgretolare la forza formidabile dell’Occidente, Rampini non si risparmia. Quando parla dei movimenti ambientalisti che si mobilitano sul clima, parla di «Nuovo Paganesimo», del ruolo sacerdotale di questa religione portata avanti da accademici, politici, capi azienda, star del cinema e della musica. E, parlando di Greta Thunberg, dice che l’averla considerata la portatrice di una nuova filosofia politica «è un segnale di imbarbarimento culturale, l’appiattimento del mondo adulto verso un linguaggio infantile». E chiosa: il comunista e confuciano Xi Jinping «osserva il “fenomeno Greta” come una delle perversioni occidentali», quelle che nella sua lettura testimoniano del declino dell’Occidente.

Il libro non è solo un’analisi dei danni seri che il politicamente corretto arreca. E non riguarda solo gli Stati Uniti. Parla della capacità calante degli Stati democratici di realizzare cose, a cominciare dalle infrastrutture. Parla dei grandi gruppi economici che tendono a imbrigliare la nascita di nuove imprese. Dei politici, soprattutto californiani, che a causa di un’ideologia che disprezza legge e diritto hanno reso invivibili intere parti delle città che governano. Ma non è un libro rassegnato: il sottotitolo è un’apertura, Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori.

Il capitalismo, in particolare quello americano, è in fase di involuzione ma non è certo morto. Elon Musk può nascere solo in America, comunque in Occidente, non certo in Cina e in Russia. Il venture capital continua a finanziare idee e imprese. Il sistema finanziario fondato su dollaro ed euro è dominante. E, sul versante geopolitico, alla ritirata incresciosa di Joe Biden dall’Afghanistan si contrappone il «Blob», l’establishment potente – diplomazia più parte della politica più apparato industrial-militare – che continua ad avere una visione imperiale degli Stati Uniti.

Xi Jinping e Vladimir Putin vedono la convulsione dell’Occidente. Sanno che gli imperi, da quello romano a quello americano, prima o poi finiscono e di solito crollano prima dall’interno. Faranno di tutto per aiutare e accelerare questo processo. Ma non è detto che i tempi li dettino loro. La guerra in Ucraina, per esempio, potrebbe ridare alle democrazie liberali un certo senso di sé stesse. Vedremo. Rampini, intanto, chiude il libro con un una speranza: «Vorrei che sentissimo un centesimo di quel che provano i popoli a cui i nostri valori sono proibiti».

Claudia Casiraghi per “La Verità” il 16 marzo 2022.  

«Omofobia», «sessismo», «misoginia». Poi, «manifestazioni di femminismo tossico», «invidia», «vergogna». La ruota delle accuse è girata ancora, investendo colei in difesa della quale si è mossa la prima volta. 

L'intellighenzia benpensante, che nelle settimane passate ha preso, sdegnata, le parti di Jane Campion, massacrata da Sam Elliott, si è affannata a scaricare, e pure di fretta, la propria protégé. «Inopportuna», l'ha definita, prendendo le distanze dal commento con il quale la regista neozelandese, osannata per "Il potere del cane", ha festeggiato la vittoria ai Critics choice awards. 

«Venus e Serena, siete delle meraviglie, ma non dovete competere con i maschi, come invece devo fare io», ha detto la disgraziata, rivolgendosi alle Williams, in platea perché oggetto del film biografico King Richards. Jane Campion avrebbe voluto strappare un sorriso. Ma sul volto delle tenniste si è allargata, unicamente, un'espressione imbarazzata.

Un ghigno di disgusto, che il Web, tribunale popolare dalla memoria corta, ha deciso di enfatizzare. La neozelandese, data come gran favorita agli imminenti Oscar, è stata messa alla gogna, accusata di aver irriso il palmares delle atlete, di aver dato voce a un livore pericoloso. E tanto è stato detto da costringere la Campion alle pubbliche scuse. 

«Ho fatto un commento sconsiderato, paragonando ciò che io faccio nel mondo del cinema a tutto quello che Serena e Venus Williams hanno ottenuto. Non avevo intenzione di svalutare queste due leggendarie donne nere e atlete di livello mondiale. In realtà le sorelle Williams si sono schierate contro gli uomini in campo (e fuori) e hanno entrambe alzato il livello e aperto le porte a quello che è possibile fare alle donne in questo mondo.

L'ultima cosa che vorrei è minimizzare queste donne straordinarie. Adoro Serena e Venus. I loro successi sono titanici e stimolanti. Serena e Venus, mi scuso con voi e vi celebro senza riserve», ha dichiarato la regista, che due settimane fa si è scagliata contro Sam Elliott, reo di aver definito il suo film «una merda». Elliott ha detto di aver trovato fuori luogo "Il potere del cane". 

«Cosa ne sa questa donna della Nuova Zelanda - che reputo una regista di talento - del West americano. E perché ha girato il film in Nuova Zelanda dicendo che era Montana? Questa cosa mi ha infastidito», ha commentato l'attore, spiegando come il film sia pieno di «allusioni omosessuali» che poco hanno a che spartire con i cowboy. La Campion è stata impietosa. «Stronzo», ha definito Elliott, togliendoli quella libertà d'espressione che, oggi, lei pure, si è vista negata.

Da “il Giornale” il 16 marzo 2022.

La candidata all'Oscar, la regista Jane Campion, nel corso di una cerimonia, vedendo tra il pubblico le sorelle Williams, dee del tennis, si è rivolta a Venus e Serena con queste parole: «Voi avete vinto tanto ma io ho dovuto vedermela con i maschi». Il più che si possa dire è che la battuta non fa ridere. 

Invece la regista di «Lezioni di piano» e ora del «Potere del cane» ha suscitato la solita reazione via social: razzista, maschilista, politicamente scorretta e via col solito coro di recriminazioni al limite del ridicolo. Invece di farsi una risata, Jane Campion, per non rovinare la candidatura all'Oscar, è stata costretta alla abiura: «Ho fatto un commento sconsiderato paragonando ciò che faccio nel mondo del cinema a tutto ciò che Serena Williams e Venus Williams hanno ottenuto nella loro carriera», ha detto in una dichiarazione. 

E ancora: «Non avevo intenzione di svalutare queste due leggendarie donne nere». Alla Campion suggeriamo il titolo del prossimo film: dopo «Il potere del cane», potrebbe girare «Il potere della canea».

Daniele Dell'Orco per ilgiornale.it l'1 marzo 2022. 

Ora sì che Roma ha finalmente cambiato registro. Dopo 5 anni di disastrosa amministrazione targata Virginia Raggi, finalmente un sindaco che si occupa delle priorità: la parità dei sessi nella toponomastica. 

Come ricostruito da Il Tempo, la giunta guidata da Roberto Gualtieri (Pd) ha stabilito che le strade, piazze, parchi e aree pubbliche della Capitale nei prossimi anni saranno intitolate in maniera equa tra uomini e donne. 

Questo perché, studiando i mille dossier dei problemi di Roma, gli assessori alla Cultura e alle Pari opportunità Miguel Gotor e Monica Lucarelli si sono accorti di uno scandalo in piena regola. Tangenti? Disservizi? Assenteismo? Sprechi? Viabilità? No, il "problema" è che su 16.377 toponimi stradali solo il 4% è intitolato a donne. Fanno riferimento a uomini, il 48% mentre un altro 48% è "neutro", ovvero intitolato a luoghi, categorie, popoli e avvenimenti storici. Uno scempio, insomma.

L'obiettivo ambizioso del Campidoglio è quello di riequilibrare la presenza femminile nelle denominazioni dei luoghi pubblici, così da rendere Roma finalmente una "città modello". La toponomastica, nel magico mondo dei politici di sinistra, "può essere un potente strumento per il recupero della memoria storica delle donne che hanno inciso in maniera significativa nella vita della comunità locale, nazionale e internazionale, offrendo in particolare alle giovani generazioni importanti testimonianze che aiutino a superare gli stereotipi di genere che contrassegnano ancora troppo spesso la narrazione della storia", spiegano Gotor e Lucarelli.

Un'iniziativa che coinvolgerà anche le scuole, sollecitata dall'associazione Toponomastica femminile, in vista della festa della donna dell'8 marzo. Una svolta rosa anche per le vie di Roma, insomma, per combattere la "menomazione" subita dalle grandi donne ignorate o sepolte nei meandri della storia senza valorizzazione. Un impegno lodevole, se non fosse che il concetto di "quota" è proprio manchevole di per sé. 

Di grandi profili femminili della scena locale, nazionale e internazionale che meritano onore e conoscenza ce ne sono senza fine, ma basterebbe impegnarsi nel concreto per una azione culturale fatta di pubblicistica, conferenze, convegni, libri cosicché i profili adatti e sottoposti a damnatio memoriae possano essere riscoperti e rivalutati. Un principio che vale per tutti, non solo per uomini o donne. Il solo fatto che qualche dipendente pubblico sia stato messo a scartabellare i registri e contare quanti uomini compaiono sulle vie di Roma rispetto alle donne invece ha dell'incredibile. 

E del resto, se c'è qualcuno che sui social si è persino soffermato sulla drammatica assenza di donne al tavolo di pace tra delegazione russa e ucraina di ieri a Gomel (Bielorussia), allora di davvero incredibile ormai resta ben poco.

Stretti e ripidi sono i Tornanti che portano al dubbio sul politicamente corretto. Davide Bartoccini il 23 Febbraio 2022 su Il Giornale.

I Tornanti, la nuova collana edita da Giubilei Regnani e curata da Andrea Indini, esce dal binario del mainstream e propone spunti diversi per contestualizzare il coro mainstream.

“Non vuoi oggi salire su un alto monte? L’aria è pura, e si può scorgere più mondo che mai”, provocava Nietzsche il pigro viandante. Ebbene questa è la domanda che si dovrebbe porre a coloro che non volessero leggere, non tanto per sfiducia quanto per principio, una collana editoriale come I Tornanti, edita da Giubilei Regnani, a cura dal responsabile del Giornale.it, Andrea Indini.

Una raccolta di saggi che, partendo dalla genesi dell'ideale, analizzano l'attualità per proiettarsi verso il futuro, come i tornanti di vecchie strade in salita, spesso impervie e poco battute, per consuetudine quelle che portano l’uomo capace ad un’altezza tale da poter mutare la sua prospettiva sul mondo. Come il Viandante sul mare di nebbia dipinto da Friedrich. Come i giovani allievi del professor Keating ne L’attimo fuggente in piedi sui loro banchi, pellicola citata proprio nel primo volume firmato da Alberto Bellotto, Il tramonto del sogno americano (clicca qui), un saggio dedicato al "tramonto del sogno americano” dove l'autore, attraverso un viaggio nell’iconografia cinematografica che ha senza dubbio contribuito più della pur notevole letteratura americana alla trasposizione dell'American dream, intraprende un percorso non dissimile da quello scelto in Bianco da Breat Easton Ellis - ultimo irriverente e discusso lavoro che, ripercorrendo tappe salienti nella storia del cinema, monta e smonta il mito dell’inclusione per "buon cuore" e sottolinea l'occulta presenza di una caccia alla streghe degna del peggior maccartismo, volta a scovare i “politicamente scorretti” non più i comunisti. 

Come Ellis, Bellotto traccia un percorso con l’ausilio di eventi che appartengono alla storia reale e alla narrazione che i maestri della settima arte hanno saputo confezionare, permeando l’immaginario collettivo globale, nella creazione e, perché no?, in una certa distruzione - almeno per come possiamo intenderla noi europei, oppressi dall’asservimento culturale della super potenza che meglio di tutte ha saputo esercitate il soft power - del grande sogno americano. Un sogno che ha scandito l'esistenza di milioni di donne e uomini figli di quella terra di opportunità, contraddizioni e profonde divisioni, che ha profondamente condizionato il nostro presente, il nostro passato, e ancora il nostro futuro. Del resto, in Europa chi non ha mai sognato, almeno una volta, l'America?

Dai preppy post-yuppie delle Ivy League, gli atenei più blasonati e ambiti del pianeta dove si progettano le start-up che arriveranno nella Silicon Valley per inseguire il successo planetario di Facebook, ai prepper che nei loro bunker, scavati nelle remote lande del Midwest, si preparano al crollo della civiltà in stile Mad Max. E intanto comprano e continuano a comprare armi (il 46% di proprietà civile a livello mondiale è detenuto negli States, ci ricorda Bellotto). Dai black bloc, partiti da Seattle e arrivati a Genova, ai complottisti QAnon di Washington che partendo dalla pizzeria Comet Ping Pong sono arrivati Capitol Hill. Dai movimenti pacifisti, che hanno ispirato la rivoluzione culturale giovanile degli anni Sessanta, alla dura realtà che, conti alla mano, dimostra che in America non esiste una sola generazione che non abbia combattuto una guerra. Dal fuoco fatuo del suprematismo bianco alle fiamme diventati del Black Liver Matters.

Questa è l’America.

Queste le lenti attraverso cui dovremmo imparare a guardarla, per iniziare ad analizzarla meglio. Partendo o ripartendo dal profondo che mostri sacri come Michael Moore ci hanno già indicato. Mettendo da parte, almeno per il tempo della lettura, quella cha viene definita "una cialtroneria giornalistica e accademica che non vuole mai togliersi le lenti eurocentriche" quando guarda ai fatti di un'attualità mutevole, come solo la moda e il maistream dettato dalla nomenclatura politicamente corretta, che oramai “divide et impera”, possono dettare nell’agenda che conduce per osmosi verso un progresso privo di garanzie. 

È questa accezione dunque che si declina l’obiettivo e la sfida de I Tornanti. Attraverso uno sguardo “diverso dal mainstream” e ben distante, quando necessario, dalle posizioni egemoni del politicamente corretto, la collana divulgativa curata da Indini punta a raggiungere un pubblico eterogeneo, senza cadere nell’identitarismo che rivolgendosi per scelta di mercato al solo pubblico già ricettivo, delimita a suo discapito il proprio campo d’azione. Una scelta tipica, se mi è consentito dire, di quel mondo conservatore che mantiene con coerenza transepocale del proprio pensiero, e a cui la casa editrice è legata a doppio filo. Al primo saggio di Alberto Bellotto “Il tramonto del sogno americano”, seguirà una riflessione a firma di Lorenzo Vita sul concetto di impero e neo-imperialismo; diverso da quello che abbiamo studiato sui libri di storia, ma assai tangibile nei progetti delle super potenze come l’America - e non di meno la Russia -, che ogni giorno si muovono e si confrontano nello scacchiere geopolitico globale.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che

Da liberoquotidiano.it il 19 febbraio 2022.

Una pubblicità scandalo è apparsa a Napoli nei giorni scorsi, ma subito è stata rimossa perché ritenuta sessista. Il manifesto aveva fatto la sua comparsa nel quartiere Posillipo, scatenando non poche polemiche. Nel cartellone si vedono sette ragazze di spalle, che mettono in mostra il lato B, con tanto di Vesuvio in lontananza. A corredo lo slogan, "Il panorama più bello del mondo". "Non volevamo creare nessuna polemica, l'idea di quel cartellone nasce solo da esigenze di marketing e dalla volontà di pubblicizzare i nostri leggins", hanno spiegato le protagoniste della pubblicità a Barbara D'Urso, ospiti di Pomeriggio Cinque. 

"La polemica non è stata creata da noi - dicono in collegamento con il programma di Canale 5 Stefania e Alice - la foto di spalle serviva per dare importanza alle caratteristiche del prodotto. Il nostro leggins ha il logo sul corpetto posteriore ed è per quello che abbiamo deciso di farci fotografare di spalle". Non ci sarebbe stato alcun intento nascosto, insomma. 

"Siamo state lese come azienda e come donne - hanno proseguito le protagoniste del cartellone -. Non era nostra intenzione paragonare il lato B al Vesuvio". "Bastava farla in maniera un po' più spiritosa, se serve a pubblicizzare dei leggins io vorrei che quelli fossero i protagonisti del cartellone. Così invece io guardo il cu**, mi perdoni", ha commentato Mauro Coruzzi, ospite della trasmissione.

Dagospia. JULIE BURCHILL PER IL DAILY MAIL il 18 febbraio 2022.  

La gente diceva degli anni '60: "Se riesci a ricordarli, non eri lì". Direi degli anni '80: "Se riesci a ricordarli, ti sentivi un vincitore della lotteria, finché non hai fatto saltare tutte le tue vincite, sei svenuto e sei tornato in vita nella piovosa mattina grigia dell'eterna veglia". 

Quindi non sono stato affatto sorpresa di vedere che un sondaggio del King's College ha rilevato che ben due terzi delle persone hanno nostalgia del mio decennio preferito, quando la birra costava 67 pence la pinta, il prezzo medio della casa era di £ 27.500 e il cielo era il limite per ogni persona, dalla signora Thatcher al mio umile io.

Gli anni '80 erano un ‘’libero tutti’’, non solo libero nel senso sfrenato (deregolamentazione, privatizzazione) ma libero come nella libertà di espressione, a un livello che fa sembrare questi giorni il Medioevo. 

Non è iniziato bene. Nel 1979, l'URSS andò in Afghanistan per combattere una prima versione dei talebani e tutti credevano che la terza guerra mondiale fosse iniziata. Invece, si è rivelato un decennio davvero divertente.

Dopo essersi scrollata di dosso la processione degli anni '70 di leader avulsi ma ottusi, la signora Thatcher era Primo Ministro. E anche se parlava di tradizione quando le andava bene, sapevamo che era una di noi - una demolitrice borghese che non ha mai visto una vacca sacra - dai sindacati al partito Tory.

La deregolamentazione del mercato azionario guidato dalla Thatcher nel 1986 ha strappato via la logora gentilezza della città e l'ha aperta ai brillanti ragazzi della classe operaia, rendendo Londra la capitale mondiale del capitalismo.

Sì, l'inflazione e i tassi di interesse erano alti, ma lo erano anche i salari. 

Sono arrivata a Londra nel 1976 come giornalista per un giornale musicale, specializzata nella fiorente scena punk rock. Odiavo la musica solo un po' meno di quanto odiassi l'aria di miseria che aleggiava intorno a quest'isola come una nebbia.

Intendiamoci, essendo cresciuta nei tristi anni '70, dalle interruzioni di corrente alla settimana dei tre giorni del 1974 a Winter Of Discontent del 1978, ero abituato al pessimismo. "L’avidità sexy è la fine degli anni '80", ha detto un personaggio nella commedia di Caryl Churchill Top Girls. L'ha detto come se fosse una brutta cosa! Ho sempre preferito la rotazione di Gordon Gekko: "L'avidità è buona".

C'era qualcosa di così onesto nel capitalismo degli anni '80, in contrasto con l'abitudine farinosa delle società moderne che ostentano la loro sensibilità: M&Ms che bandivano i dolci femminili "sessualizzati", Ben e Jerry agitavano all'infinito le dita in faccia con una mano mentre spalavano lo zucchero nelle nostre bocche con l'altro e, naturalmente, l'umile dado Knorr si vanta di "reinventare il cibo per l'umanità".

E poi: "Pot Pourri For Peace"? Gli anni '80 erano così spudoratamente avari che persino i buddisti - la religione degli anni '80 preferita dalle mediocrità dei media - cantavano soldi. 

Al giorno d'oggi, l'ambizione nuda non è vista come bella - e le giovani attrici che si lamentano della loro "vulnerabilità" e "ansia" piuttosto che vantarsi della loro bellezza hanno sostituito le vampire con le spalle imbottite degli anni '80.

Le canzoni che tutti amavamo riflettevano la stessa fame, come FLM (Fun, Love, Money) di Mel & Kim e When Am I Going To Make A Living? di Sade. 

Ma le due band più grandi erano gli Spandau Ballet e i Duran Duran: dovevi scegliere se essere una "Spandie" o una "Durannie", la maggior parte delle ragazze sceglieva quest'ultima a causa dell'attraente John Taylor. 

Qual è la scelta adesso? Sam Smith o Ed Sheeran! Due che non sarebbero stati autorizzati a fare i roadie negli anni '80.

Quando George Michael (il nostro miglior cantautore) e Lady Diana (la nostra principessa del pop) si sono fidanzati, eravamo in paradiso, vedendoli condividere una battuta e, a quanto pare, anche un parrucchiere.  

In linea con l'atteggiamento positivo dei tempi, diversi film di successo erano storie di Cenerentola sexy, in cui un estraneo si trasforma e conquista tutto: Working Girl e Dirty Dancing. 

Le pop star come Adele hanno il diritto di trasformare l'angoscia in... 

Molto prima dei libri di Cinquanta sfumature di grigio, Kim Basinger e Mickey Rourke stavano facendo cose improbabili con i cibi in ‘’9 settimane e mezzo’’.  

Le top model amazzoniche come Iman ed Elle Macpherson sono state sostituite da adolescenti "eroina-chic" dall'aspetto spaventato. Oggi, come mostra Vogue di questo mese, le modelle (Naomi Campbell, ndr) portano i bambini al posto delle borse Birkin. 

Ho sempre trovato ripugnanti i segnali di virtù - anche prima che esistesse la frase - e sono iniziati gli anni '90, portandoci alla fine nell'atmosfera soffocante della caccia alle streghe #BeKind Or Else che affligge i social media e la sfera pubblica. 

Gli anni '80 sono stati brillanti da un punto di vista edonistico, ma hanno anche dato quel senso di libertà illimitata così gravemente carente ora.

Programmi TV davvero originali come The Comic Strip e The Young Ones hanno dimostrato che non dovevi raccontare barzellette sulla madre di tua moglie per essere considerato divertente. Ma nemmeno i comici sentivano il bisogno di segnalare incessantemente quanto fossero puri di cuore scusandosi per tutto. 

Deprimente, la commedia ha chiuso il cerchio e basta ascoltare ciò che passa per umorismo su BBC TV e radio per riflettere che i fumetti si fanno una risata ogni volta che gridano "Brexit!" è altrettanto debole di quei cafoni anni '70 che si aspettavano ruggiti di ilarità ogni volta che nominavano la suocera. 

Cresciuta come donna della classe operaia negli anni '70, ci si aspettava che non mi esprimessi mai. E dopo alcuni gloriosi decenni di libertà, mi ritrovo improvvisamente di nuovo in quella situazione. Come quando ero bambina, mi viene detto quello che posso e non posso dire, tranne che ora i rimproveri sono più piccoli di me.

Naturalmente, nessun decennio è perfetto. Avevamo ancora la Guerra Fredda. Ma quei giorni, quando ciascuna parte sapeva dove erano i confini, non sembra così male rispetto ai difficili impegni di oggi con la Russia di Putin, la sua guerra informatica e la sua brutta amicizia con Pechino. 

Sebbene l'AIDS fosse nuovo e spaventoso, sapevamo tutti di essere dalla stessa parte: contro l'ignoranza. Le donne potrebbero vedere gli uomini gay come oppressi e censurati sessualmente proprio come erano, senza subire la minaccia degli attivisti trans di oggi, che cercano di picchiarci negli sport e si uniscono a noi nei nostri gabinetti.

È stato l'ultimo grande decennio di divertimento e libertà: dopo che le persone si sono rese conto che le battute razziste e sessiste erano stupide, ma prima del pignolo dell'eco-camera di oggi. Erano tempi più semplici. Abbiamo vissuto pienamente ogni momento, senza le distrazioni dei social media e dell'entertainment-streaming.

Quando ho visto per la prima volta un "telefono portatile" - delle dimensioni di un mattone - ricordo un gruppo di noi seduti attorno ad esso, che lo frugava affascinato, come le scimmie all'inizio di 2001: Odissea nello spazio. 

Come negli anni '60, il nepotismo era giustamente considerato una cosa molto sfigata negli anni '80: non come oggi dove lo spettacolo e i media appartengono a chi ha nomi famosi o i soldi di famiglia che gli permettono di lavorare senza compenso come stagisti. 

Ora ho 60 anni, vivo un po' con calma sulla costa meridionale e non provo mai nostalgia del passato: ho avuto abbastanza divertimento, amore e denaro per nove vite.

Ma mi auguro che i giovani poveri e ambiziosi di oggi possano sperimentare il sesso facile, i soldi facili e la vita facile che per me ha caratterizzato i luccicanti e selvaggi anni '80 piuttosto che il paesaggio censorio e atomizzato di oggi che è il loro arido terreno di gioco.

Gli anni '80 sono stati un'era così piena, sembra strano che le persone oggi li ricordino come un periodo più "facile". Ma rispetto alle guerre culturali di oggi, sembrano davvero una terra di contenuti perduti. 

"È razzista". Così vogliono cancellare Shakespeare. Roberto Vivaldelli il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La crociata woke sta cercando di "cancellare" il Bardo: le sue opere sono accusate di essere piene di suprematismo bianco, misoginia, omofobia e razzismo. Il tribunale del politicamente corretto ha già emesso la sua sentenza.

I crociati del politicamente corretto hanno messo nel mirino William Shakespeare. Il Bardo, infatti, è da tempo bersagliato dai progressisti woke che lo vogliono "eliminare" in ogni modo, dai teatri passando per i curriculum scolastici, per sostituirlo con modelli più "inclusivi". Come accade con ogni fondamentalismo, si pretende di giudicare il celebre drammaturgo morto nel 1616 con gli standard morali di oggi, o meglio, con i canoni stabiliti dall'ossessione identitaria. E così, mancando completamente il senso della storia, Shakespeare viene superficialmente etichettato come "razzista", "sessista" e "colonialista" e le sue meraviglisoe opere boicottate, rivisitate, decontestualizzate. O peggio ancora, censurate. Gli esempi recenti di attacchi a Shakespeare sono molteplici.

L'anno scorso Sir Michael Morpurgo, 78 anni, si è rifiutato di includere Il mercante di Venezia nel suo libro per bambini, definendo il Bardo "antisemita". Negli Stati Uniti, un numero crescente di insegnanti "woke", secondo il New York Post, si rifiuta di far studiare il drammaturgo agli studenti, accusando le sue opere classiche di promuovere "misoginia, razzismo, omofobia, classismo, antisemitismo e misoginia". Alcuni insegnanti di letteratura inglese hanno raccontato allo School Library Journal (SLJ) come hanno abbandonato opere come Romeo e Giulietta e Amleto per "dare spazio a voci moderne, diverse e inclusive".

Shakespeare, la battaglia "woke" per eliminarlo

"Shakespeare era uno strumento utilizzato per 'civilizzare' i neri nell'impero inglese", spiega la studiosa di Shakespeare Ayanna Thompson, professoressa di inglese all'Arizona State University. Gli insegnanti devono anche "sfidare la Whiteness" e la convinzione che le opere di Shakespeare siano "universali”, osserva Jeffrey Austin, che è a capo del dipartimento di letteratura inglese di una scuola superiore del Michigan. L'ex insegnante di una scuola pubblica dello stato di Washington, Claire Bruncke, ha dichiarato a SLJ di aver bandito il Bardo dalla sua classe per "allontanarsi dal centrare la narrativa su uomini bianchi, cisgender ed eterosessuali. Eliminare Shakespeare è stato un passo che potevo facilmente fare per lavorare in tal senso. E ne è valsa la pena per i miei studenti", ha insistito. Altri insegnanti hanno affermato di essere rimasti fedeli a Shakespeare, ma di "rivisitare" le sue opere attraverso una lente più moderna. È il caso di Sarah Mulhern Gross, un'insegnante di inglese alla High Technology High School di Lincroft, ha affermato di insegnare a scuola "Romeo e Giulietta" facendo però un'analisi della "mascolinità tossica" contenuta nell'opera. Secondo l'autrice dell'articolo pubblicato sul School Library Journal, in definitiva, "le opere del drammaturgo sono piene di idee problematiche e superate, con abbondanza di misoginia, razzismo, omofobia, classismo, antisemitismo e misoginia".

Il Bardo e i "seminari antirazzisti"

Nel Regno Unito non va meglio. Come riporta Il Foglio, infatti, Mary Bousted, segretaria della National Education Union, il più potente sindacato degli insegnanti del Paese, spiega che si deve andare oltre il celebre drammaturgo e poeta ."Come insegnante non ho problemi con Shakespeare, ma so che in una scuola dove si parlano trentotto lingue oltre all'inglese devo avere scrittori afro-caraibici nel curriculum, e poi scrittori indiani e cinesi". Per questo, ha detto Bousted, il curriculum dovrà andare oltre il Bardo e gli altri autori bianchi. Gli studenti di Cambridge, nel frattempo, ricevono "un'avvertimento" prima di leggere Shakespeare, così da non restarne sconvolti. Come se non bastasse, la British Library vuole "rietichettare" il "First Folio" del poeta, la fonte principale di molte delle sue opere, per rifletterne i "legami coloniali". E non finisce qua.

Come già riportato da Il Giornale lo scorso ottobre, il celebre Globe Theatre di Londra - il teatro londinese ricostruito nel 1997 dove recitò la compagnia del Bardo - ha organizzato in autunno una serie di "seminari antirazzisti" per sviscerare e riflettere sulle opere del Bardo. Nel mirino c'è soprattutto La Tempesta, opera che appartiene all'ultima fase della produzione del drammaturgo inglese, bollata già da tempo nel mondo anglosassone come "razzista" e "colonialista". Contro la follia woke si è scagliata la Royal Shakespeare Company, la quale ha avvertito che la cancellazione del noto drammaturgo per questioni che turbano il pubblico moderno politicamente corretto è "la cosa peggiore che possiamo fare".

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali 

"Il Signore degli Anelli vittima del politicamente corretto": bufera online contro la serie Amazon. Roberto Vivaldelli il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.

"Ci è sembrato naturale che un adattamento del lavoro di Tolkien riflettesse l'aspetto reale del mondo", ha affermato il produttore esecutivo Lindsey Weber. Il Signore degli Anelli vittima del politically correct, scatta la protesta online.

Molti fan di Tolkien non hanno per nulla gradito il primo teaser della nuova serie Amazon Prime Video Il Signore degli Anelli: Gli anelli del potere mostrato per la prima volta durante il Super Bowl di domenica. Il motivo è semplice: fra elfi e nani neri, la serie, in onda dal prossimo 2 settembre - il programma televisivo più costoso mai realizzato da Amazon Studios - sembra strizzare eccessivamente l'occhio alla nuova moda del politicamente corretto. Un Tolkien in versione "woke", secondo i canoni estetici del progressismo identitario. Ne è nata così una protesta sotto forma di "comment bombing" che ha preso di mira la pagina Youtube del teaser. Migliaia i commenti, tutti con medesima citazione tolkeniana: "Il male non è in grado di creare nulla di nuovo, può solo distorcere e distruggere ciò che è stato inventato o fatto dalle forze del bene". Il cast "woke" e forzatamente multiculturale scelto da Amazon non piace affatto ai fan di vecchia data dello scrittore e studioso britannico.

La serie, inoltre, spiega The National News, girata in Nuova Zelanda e nel Regno Unito, non è basata su un romanzo specifico di Tolkien, ma ne è ispirata, e porta sullo schermo, per la prima volta, le "leggende eroiche della leggendaria storia della Seconda Era della Terra di Mezzo", secondo Amazon Studios. Lo studio promette che "porterà gli spettatori indietro a un'era in cui sono stati forgiati grandi poteri, i regni sono saliti alla gloria e sono caduti in rovina, eroi improbabili sono stati messi alla prova, la speranza è stata appesa ai fili più sottili e il più grande cattivo che sia mai scaturito dalla penna di Tolkien minacciava di coprire tutto il mondo nelle tenebre". Gli stessi Amazon studios confermano di aver riletto l'autore inglese secondo i canoni della modernità: "Ci è sembrato naturale che un adattamento del lavoro di Tolkien riflettesse l'aspetto reale del mondo", ha detto il produttore esecutivo Lindsey Weber a Vanity Fair, che ha recentemente pubblicato diverse foto della serie. "Tolkien è per tutti. Le sue storie parlano delle sue razze immaginarie che fanno del loro meglio quando lasciano l'isolamento delle proprie culture e si uniscono". Un vero e proprio inno al multiculturalismo.

Così Amazon si piega al politicamente corretto

Come già anticipato nelle scorse settimane, Amazon Prime introdurrà nella nuova serie dedicata a Il Signore degli Anelli una "tribù multietnica", ritraendo così i Pelopiedi (Harfoots), una delle tre razze di Hobbit che abitano al di là delle Montagne Nebbiose, nelle Terre Selvagge, originariamente descritta da Tolkien come più piccola e dalla pelle più "abbronzata" e scura rispetto agli altri Hobbit. Nell'universo di Tolkien, gli Harfoots sono fisicamente meno possenti, hanno le mani piccole. Amano vivere presso le colline, all'interno delle quali costruiscono le tipiche case hobbit dette Smíal. Se ci fossero dubbi dubbi sulla trasposizione televisiva all'insegna del politically correct, basta ascoltare le parole pronunciate dall'attore Sir Lenny Henry ai microfoni della Bbc: "Siamo Hobbit ma ci chiamiamo Harfoot, siamo multiculturali, noi siamo una tribù, non una razza, quindi siamo neri, asiatici e scuri, ci sono anche dei tizi Maori". I primi scatti diffusi in questi giorni hanno confermato le indiscrezioni delle scorse settimane e riacceso le polemiche sulle concessioni al politically correct della serie.

Gli elfi e i nani neri ne sono la prova. Ismael Cruz Cordova vestirà infatti i panni di Arondir, un "elfo silvano", personaggio originale della serie che come spiega Everyeye, Tolkien non aveva mai nominato nei suoi scritti. L'attore, nato a Puerto Rico nel 1987, ha la pelle scura e non rientra per nulla nel canone estetico elfico tradizionale. Accanto ad Arondir ci sarà anche la prima donna nana di colore: si tratta di Disa, mostrata anche lei nel teaser del Super Bowl. Altra forzatura della nuova serie de Il Signore degli Anelli che a molti fan non è piaciuta per nulla.

Tolkien, cattolico e "conservatore": se ne facciano una ragione i fondamentalisti "woke"

Di destra o di sinistra? Sarebbe sbagliato strumentalizzare e banalizzare il pensiero del professore fino a questo punto. Tirato per la giacchetta da ogni ideologia e fazione politica da decenni, ciò che si può tranquillamente affermare è che il professor Tolkien era un sincero cattolico e un conservatore vecchio stampo e chissà cosa penserebbe delle riletture "woke" delle sue opere. Come riportato in Lettere (p. 273, numero 142), epistolario che raccoglie le 354 lettere scritte dall'autore inglese dal 1914 fino alla morte, "ovviamente Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un'opera religiosa e cattolica; all'inizio lo è stato inconsciamente, ma lo è diventata consapevolmente nella revisione. È per questo motivo che non ho inserito, o ho eliminato, praticamente ogni riferimento a qualsiasi tipo di religione, culto o pratica religiosa, nel mondo immaginario. L'elemento religioso è infatti insito nella storia e nel simbolismo". Nel Signore degli Anelli, insisteva l'autore in un'altra lettera, "il conflitto essenziale non riguarda la libertà, anche se è naturalmente compresa. Riguarda Dio e il suo diritto esclusivo agli onori divini".

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al

Dagotraduzione dal Daily Mail il 7 febbraio 2022.

Il mese scorso Maureen Lipman ha suscitato un'aspra lite quando ha insistito sul fatto che Helen Mirren non avrebbe dovuto interpretare l'ex primo ministro israeliano Golda Meir nel suo biopic perché non è ebrea. 

La Lipman si è lamentata del fatto che la scelta di un'attrice non ebrea per interpretare il leggendario premier Golda fosse inaccettabile. Scrivendo una lettera a The Guardian, ha sottolineato: «Se l'etnia o il genere del personaggio guida il ruolo, allora quell'etnia dovrebbe avere la priorità». 

La storia ha provocato un acceso dibattito, con diverse voci ebraiche di spicco che hanno sostenuto che Maureen Lipman si sbagliava. Ma Helen Mirren ha tenuto riservate le sue considerazioni, almeno fino ad ora. 

Parlando dalla cucina di casa sua in Italia, la star premio Oscar ieri sera mi ha sorpreso dicendo che Maureen Lipman aveva ragione a sollevare una questione così provocatoria. «È stata certamente una domanda che mi sono posta, prima di accettare il ruolo», ha detto con calma.

Golda Meir «è una persona molto importante nella storia israeliana», ha continuato la 76enne. Ha detto di aver persino espresso i propri dubbi al regista di Golda, Guy Nattiv, quando stavano discutendo della possibilità che lei interpretasse il ruolo. 

«Ho detto: “Senti Guy, non sono ebrea, e se vuoi pensarci e decidere di andare in una direzione diversa, niente rancore. Capirò assolutamente”. Ma voleva davvero che interpretassi il ruolo, e siamo partiti». 

«Credo che sia una discussione che deve essere fatta - è del tutto legittima», ha aggiunto. Ma, ha detto, solleva anche tutti i tipi di altre domande. «Sai, se qualcuno che non è ebreo non può interpretare un ebreo, qualcuno che è ebreo può interpretare qualcuno che non è ebreo?». 

Dice che il casting, in particolare di questi tempi, può essere un barattolo di vermi. «C'è un sacco di terribile ingiustizia nella mia professione», ha detto Helen Mirren. «Se c'è un attore che è disabile, che è brillante ma ha avuto pochissime opportunità, e ora arriva un ruolo meraviglioso che è per un attore disabile, tutto è giusto, lui o lei dovrebbe avere quel ruolo».

Un altro problema dei casting molto dibattuto è che solo agli attori gay è permesso interpretare ruoli gay. «So che attori come Ian McKellen, credo, avrebbero un grosso problema», ha detto, con cautela, «perché cosa succede se sei un attore gay? Non dovresti essere in grado di suonare parti semplici? È davvero un percorso che vuoi percorrere?». 

Ha ammesso, tuttavia, che deve essere incredibilmente frustrante per un attore gay «vedere un attore etero che offre, dal suo punto di vista, un tipo di interpretazione finta e semplicistica». 

Ha applaudito un cambiamento epocale nel modo di pensare, nel teatro e nel cinema, negli ultimi anni che ha consentito alcuni momenti davvero rivoluzionari. Ha citato il caso di Glenda Jackson, «che ora può interpretare Re Lear», e dell'attore nero Adrian Lester, «che può interpretare Enrico V e rivelare nuove prospettive sulla commedia». 

Sulla questione del ruolo di Golda Meir, Helen Mirren ha detto di non essere stata in contatto con Maureen Lipman, né di avere sue notizie. «Io rispetto moltissimo Maureen», disse. «E la amo come attrice, assolutamente. Mi piacerebbe incontrarla e sedermi, prendere una tazza di tè e parlarne», ha aggiunto. 

Il caso Whoopi Goldberg e le battaglie culturali incrociate dell’America. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 02 febbraio 2022.

Durante una puntata del talk show The View, l’attrice ha detto che l’Olocausto non riguarderebbe «la razza». È stata sospesa. Gli attori di Hollywood sono bravissimi a pronunciare frasi scritte da altri, e approvate da produttori e registi. Quando parlano a ruota libera, può succedere un po’ di tutto. L’ultima vittima del fenomeno che i nostri antenati avrebbero visto come molto bizzarro — l’attore considerato maître à penser dalle masse: fino a qualche secolo fa erano tenuti ai margini della società — è Whoopi Goldberg, che durante una puntata del fortunatissimo talk show The View, che conduce con altre colleghe, ha detto che l’Olocausto non riguarderebbe «la razza» ma più genericamente «l’inumanità dell’uomo verso l’uomo». Frase ovviamente senza senso, che però prima dei social media e della mitologica «cancel culture» forse sarebbe anche passata sotto silenzio. Adesso invece l’ha fatta sospendere per due settimane dal programma e riprendere dalla presidente del network Kim Godwin (afroamericana come Goldberg), che ha definito le sue dichiarazioni «sbagliate e offensive».

«Se da un lato Whoopi ha chiesto scusa, dall’altra le ho chiesto di prendersi del tempo per riflettere e imparare, i suoi commenti hanno avuto un impatto. L’intera organizzazione di Abc News è in solidarietà con i nostri colleghi, amici, famigliari di religione ebraica, e l’intera comunità», ha spiegato Godwin. Goldberg si era anche scusata con un comunicato via Twitter, ma le scuse non sempre bastano. Non è stata «cancellata» — le sue credenziali progressiste la proteggono dal licenziamento — ma semplicemente messa in castigo: è comunque faticoso da comprendere per gli osservatori non americani come si sia arrivati a questo punto. Da una parte gli attori che si avventurano su terreni scivolosi per chi non ha letto — studiato — abbastanza: terreni come le radici del nazismo, l’ascesa di Hitler, il milieu antisemita tedesco nel quale Mein Kampf trovò terreno fertile. Dall’altra la cosidetta «wokeness», l’attivismo militante progressista americano che fa dell’identità un feticcio e per sua stessa natura ha continuamente bisogno di colpevoli da mettere alla berlina.

La sinistra americana gioca male questa partita mediatica, ormai da decenni: affida i suoi messaggi a celebrità a volte — spesso? — poco attrezzate, andando a scovare esempi di razzismo un po’ ovunque (esempi che, tristemente non mancano perché il problema esiste ed è enorme) e buttando tutto in caciara sui social. La destra lavora invece sotto traccia, nei poco mondani ma importantissimi «school board» locali ormai largamente in mano a repubblicani che dettano le regole nelle scuole, creando scandali che non esistono per togliere dal curriculum e a volte anche dalle biblioteche scolastici i libri non graditi, giudicati cioè poco patriottici. Aspettano i nemici di sinistra sulla proverbiale riva del fiume: tanto le «celebrities» democratiche prima o poi qualche passo falso lo fanno, grande o piccolo.

Enorme come quello della «comedian» che si fece fotografare agitando una finta testa mozzata di Trump, alla maniera dell’Isis. O, appunto, come quello molto sgradevole di Goldberg, mandata in punizione — in ginocchio sui ceci come Fantozzi? — in attesa dell’inevitabile perdono. Cose di altri mondi per noi. Ma che forse aiutano a capire — anche — come mai i democratici fanno così fatica a comunicare decentemente il loro messaggio, con messaggeri di questo tipo. E come mai Joe Biden ha in quest’anno e un mese di governo messo a segno un boom occupazionale storico ma ha un indice di approvazione del 33%, peggiore di quello di Trump tra un impeachment e l’altro.

 Whoopi, bufera sull'Olocausto. Pier Luigi del Viscovo il 3 Febbraio 2022 su Il Giornale.

"Con effetto immediato, sospendo Whoopi Goldberg per due settimane per i suoi commenti sbagliati e nocivi ". «Con effetto immediato, sospendo Whoopi Goldberg per due settimane per i suoi commenti sbagliati e nocivi - ha detto Kim Goodwin, presidente della ABC, importante network americano -. Le ho chiesto di prendersi il tempo di riflettere e imparare dall'impatto dei suoi commenti». Invece il Primo Emendamento della Costituzione Americana recita che «il Congresso non emanerà alcuna legge (...) per limitare la libertà di espressione o di stampa». Il potere politico no, ma il potere del marketing sì. Sta tutta qua la vicenda. La sospensione è motivata da commenti non illegali ma solo inopportuni per la sensibilità di alcune persone. Eccoli. «L'Olocausto non fu una questione razziale, ma di disumanità dell'uomo verso l'uomo. È questo il problema. Non importa se sei nero, bianco o ebreo». Poi si è scusata: «Ho detto che l'Olocausto non riguarda la razza ma la disumanità. Avrei dovuto dire che riguarda entrambe». Nel merito, la Goldberg ha ragione e torto. Ha ragione, perché tecnicamente l'ebraismo non è una razza ma una religione e infatti lei spiega che erano tutti bianchi, vittime e carnefici. Ha anche torto, perché nella sostanza non la vedevano così i tedeschi - e nemmeno gli italiani, non ce lo dimentichiamo mai. La persecuzione era fondata sulla differenza, tutta razziale, tra ariani ed ebrei. Però la Goldberg offre una lettura più profonda, antropologica prima che culturale. La capacità di compiere gesti tanto efferati, pur nel nome della razza o della religione, non è la realizzazione cruenta di un'idea, ma una patologica degenerazione dell'uomo. E non dipende dal colore della pelle o dalla fede, come la storia ha dimostrato. Tuttavia, resta un'opinione. Ciò che invece pare devastante è il bavaglio imposto in spregio al Primo Emendamento. Quasi che la differenza tra una grande testata giornalistica del Mondo libero e i terroristi che hanno colpito Charlie Hebdo stia solo nell'uso della lettera invece del mitra. L'obiettivo è lo stesso: mettere a tacere una voce che urta delle sensibilità. L'informazione esiste non per compiacere ma per conoscere i fatti e confrontare le opinioni. Fuori dal perimetro dell'istigazione al crimine, le opinioni vanno criticate, non censurate. Purtroppo, ciò che viene difeso dall'ingerenza del potere politico viene poi assoggettato alle leggi della convenienza commerciale, che suggerisce di non inimicarsi gruppi influenti. Se non è Medioevo questo? Pier Luigi del Viscovo

Matteo Persivale per il "Corriere della Sera" il 2 febbraio 2022.

Lei e lui, mano nella mano, sotto il nevischio, sorridenti. La giacca di lei completamente aperta sul davanti tranne per un bottone, a lasciare il ventre scoperto. È una masterclass da studiare attentamente (per chi si occupa di comunicazione) la modalità scelta da Rihanna, 33 anni, cantante e imprenditrice da un miliardo di dollari, per rivelare al mondo la sua gravidanza: una fotografia - lei incinta, con il compagno rapper A$ap Rocky - subito rimbalzata sui social media, uno scatto verissimo e fintissimo allo stesso tempo, l'autenticità della gravidanza e la messa in scena di attenzione maniacale ai dettagli.  

Sembrano scatti rubati ma è il fotografo è Miles Diggs paparazzo delle star, la giacca Chanel, al polso porta un Rolex King Midas da 40mila euro, il «set» è una strada di Harlem per aggiungere realismo (Harlem, quartiere storico dei neri newyorchesi, è stato teatro della «Harlem Renaissance» laboratorio di tante idee e tendenze del Novecento). 

Rihanna è cantante e stilista ma soprattutto genio del branding: nella luce diffusa di una mattina nevosa le basta scoprire l'addome come a Marilyn nel bel mezzo del Novecento bastò camminare sopra una grata del metrò: Rihanna deve più che alla musica ai cosmetici la maggior parte della sua fortuna (più dell'80%, circa 1,4 miliardi di dollari su 1,7). La giovane barbadiana è entrata sei mesi fa in classifica come neomiliardaria: il suo patrimonio è stimato attorno a 1,7 miliardi di dollari (1,4 miliardi di euro). Davanti a lei, nel mondo dello spettacolo, c'è soltanto Oprah Winfrey. 

La foto di Rihanna presto mamma apre una nuova fase mediatica nella rappresentazione della gravidanza: nel 1991, quando Vanity Fair americano mise in copertina Demi Moore nuda e incinta di otto mesi, ci fu - difficile crederci oggi - uno scandalo: Wal-Mart, gigantesca catena della grande distribuzione ieri come oggi, rifiutò di distribuire la rivista («Dissero ai nostri responsabili della distribuzione che era indecente e che non l'avrebbero mai messa nei loro negozi», spiegò la direttrice Tina Brown, che vendette comunque 1,2 milioni di quel numero, più o meno il 30% in più). 

Annie Leibovitz aveva realizzato scatti «normcore», la diva con un semplice abito scuro, così voleva il magazine: poi però Moore le aveva chiesto un nudo da conservare per ricordo, con l'allora marito Bruce Willis. Brown vide quello scatto e capì subito che quella era la «cover», il resto è storia del giornalismo: vendite per l'appunto record, polemiche, fine di un tabù sulla rappresentazione mediatica del corpo femminile in avanzata gravidanza.  

Un nuovo modello mediatico di bellezza si era affermato, destinato a essere imitato per un trentennio (il pioniere fu nei primissimi Novanta l'inglese Max Vadukul, che ritrasse Trudie Styler moglie di Sting nuda e incinta, senza però l'eco mediatica di Moore/Vanity Fair: lo scatto su Internet non c'è quindi è come se non fosse mai esistito). 

Variazioni sul tema Demi Moore - a volte omaggi veri e propri: stessa posa, stesse luci, stesso fondale - ne abbiamo viste da allora tantissime, in copertina e non, da Jessica Simpson a Christina Aguilera, Kylie Jenner e Nicki Minaj fino a Serena Williams, che pochi mesi dopo la copertina sempre di Vanity Fair , da neomamma fece un ritorno fulmineo alle competizioni. E Beyoncè che durante la gravidanza ha reinterpretato con l'artista Awol Erizku una serie di immagini sacre, creando un progetto da galleria d'arte oltre alle ovvie immagini virali.

Giovanni Sallusti, autore del libro ''Politicamente Corretto - la dittatura democratica'' - Giubilei Regnani editore, per Dagospia l'1 febbraio 2022.

Caro Dago, è la vittoria definitiva di Eric Arthur Blair, meglio noto come George Orwell. 

“1984” vittima di una censura orwelliana, di più, di un clima e di una realtà ormai palesemente orwelliani, quelli del Politicamente Corretto all’ultimo stadio. 

È ormai una profezia che si autoavvera quotidianamente, quella del genio britannico, a cominciare proprio da casa sua.

Northampton, Inghilterra centrale: l’università decide di apporre il “trigger warning” su alcune opere, tra cui appunto il più maestoso romanzo distopico del Novecento. 

I “trigger warning” sono una delle tante diavolerie iper-correttiste partorite dal mondo anglosassone (passato in pochi decenni da Orwell agli zelanti funzionari della Cancel Culture) e consistono in avvertimenti, messi all’inizio di un testo, sulla “potenziale pericolosità” del testo medesimo (l’idea che la letteratura debba essere non pericolosa e quindi innocua è peraltro la tomba della letteratura medesima, con tanti saluti a Sofocle, Shakespeare, De Sade, Céline, Burroughs e via citando sporchi reazioni che non usavano nemmeno lo schwa murgiano).  

Nella fattispecie, rendiconta il Daily Mail, il capolavoro orwelliano è finito nella lista nera perché (virgolettato dell’ateneo) “affronta questioni impegnative relative a violenza, genere, sessualità, classe, razza, abusi, abusi sessuali, idee politiche e linguaggio offensivo”.

Che affronti il tema della violenza non c’è dubbio, anzi che lo svisceri fino all’estremo in cui diventa violenza di Stato/Partito (lo “stivale che calpesta un volto umano in eterno”), ma noi sempliciotti non rieducati pensavamo che stesse proprio lì la sua immortalità filosofica. 

Sul genere e la sessualità non sapremmo, la Psicopolizia contemporanea (più noiosa dell’originale orwelliano) li infila un po’ ovunque, forse si allude al fatto che Winston conosce il suo unico lampo di umanità (poi annichilito) nella storia d’amore con Julia, e che quindi alla fine i protagonisti sono due retrogradi eterosessuali anacronisticamente ancorati alla vetusta distinzione tra il maschio e la femmina. 

“Abusi” certo che ve ne sono a bizzeffe, dannazione, è il racconto anticipatore di come la macchina oppressiva perfetta escogitata dall’uomo, il totalitarismo, si divora l’uomo medesimo fino a sputarne la carcassa (“Se è vero che sei un uomo, Winston, tu sei l'ultimo uomo. 

La tua specie si è estinta e noi ne siamo gli eredi”, è la sentenza finale del torturatore O’ Brien), ma è proprio per questo che andrebbe letto in tutte le università d’Occidente, finché questa fetta libera di mondo esiste ancora, almeno formalmente.

“Idee politiche”, poi, è tragicomico. Non compaiono idee politiche, in “1984”, come non compaiono la morale o la storia (“un palinsesto che poteva essere raschiato e riscritto tutte le volte che si voleva”). 

Piuttosto, tutto il libro è la diagnosi della Politica che si fa Apparato spersonalizzato e autoreplicantesi, scientifico e quasi indifferente nella sua persecuzione pianificata di ogni refolo di dissenso (compreso quello che non c’è, anzi soprattutto), una persecuzione di nuovo genere, che non si era mai vista finché appunto esisteva qualcosa come la “storia” umana.

Il Grande Fratello non ti punisce per quello che fai, né si limita a indicarti cosa pensare: molto più radicalmente, ti impone cosa devi essere (sostanzialmente, una sua appendice). 

Non c’è nulla di “politica”, ci sono solo tragedia e dolore non riscattato. Come non c’è “linguaggio offensivo”, esimi accademici beoti, al massimo c’è la “neolingua”, ovvero la riscrittura integrale delle categorie con cui pensiamo, per rendere impossibile a priori qualcosa come la coscienza individuale, e guardacaso è il dramma della contemporaneità, è il vostro dramma, di voi che chiamate il terrorismo islamico “radicalizzazione” o i campi di concentramento per i non allineati “modello cinese”. Perché di fondo è questo, che deve pagare George Orwell: la grandezza di avere previsto tutto, compreso i suoi censori.

I supereroi vigilano: ecologisti radicali e utili idioti del globalismo state attenti. Alessandro Gnocchi l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.  

Gli uomini di destra sono convinti di vivere circondati da una cultura di massa orientata a sinistra. Hanno ragione ma non del tutto. A furia di lamentele, ossessioni e vittimismo, corrono il rischio di non accorgersi di avere un alleato, e che alleato, addirittura gli Avengers, i vendicatori inventati dalla Marvel Comics di Stan Lee, ora passata nelle mani della Disney. Gli Avengers, cari ragazzoni conservatori, sono Capitan America, Iron Man, Thor, Spider-Man, Hulk, la Vedova nera, Occhio di Falco, Wanda, Visione, Dottor Strange, Ant-man, Falcon e tanti altri minori (ma non meno potenti e divertenti, ad esempio i Guardiani della Galassia, dei buontemponi armati fino ai denti).

La Marvel, nata nel mondo del fumetto e traslocata con successo al cinema, ha pianificato anche la conquista del servizio televisivo in streaming, diventando, assieme alla saga di Guerre Stellari, il punto forte della piattaforma Disney. Si vi collegate, potete trovare tutti i film dell'universo Avengers, e tutte le serie tv collegate (le ultime sono Wanda Vision e The Falcon and the Winter Soldier). Avengers Endgame, il film che, in teoria, segna la fine dei Vendicatori come gruppo organizzato, è stato il più grande incasso della storia del cinema, prima che un offeso James Cameron riportasse in sala il suo Avatar solo per riprendersi la medaglia d'oro.

Ciclicamente, la Marvel si inventa qualche caso per dividere il pubblico e conquistare le prime pagine. Ad esempio, in un universo parallelo, Spider-Man è afroamericano o omosessuale o trans o donna. Gioia dei progressisti, sorrisetto di compassione dei conservatori. Lasciamo da parte queste sciocchezze collaterali e guardiamo tutto l'universo Avengers in ordine cronologico, come consente di fare il canale in streaming della Disney. Ci vorrà un po', tenetevi le serate libero per... mah, a occhio e croce, si direbbe un annetto.

Cosa c'è dunque di reazionario negli eroi di casa Marvel? Innanzi tutto, Iron Man e soci sono l'equivalente dei santi protettori. Tuttavia ricordano molto da vicino, e qualche volta esplicitamente, le divinità dell'antica Grecia o gli eroi immortali del Walhalla. Angelina Jolie negli Eternals è la dea guerriera Atena. Thor e Loki sono figli di Odino.

L'apparenza delle storie è fantascientifica ma la sostanza è più vicina alla magia correttamente intesa come capacità di modificare la natura con la forza della volontà (potenziata dai rituali). Infatti, tra i superereoi c'è il Dottor Strange, professione: stregone.

Fino a qui, sono questioni culturali. Sembra che la politica c'entri poco e niente ma in realtà è il piatto forte. Cominciamo con Avengers Civil War: il governo vuole trasformare gli Avengers, organizzazione privata, in uno strumento pubblico al servizio dell'Onu.

Il progressista Tony Stark ovvero Iron Man, che fino a questo film si direbbe un imprenditore uscito dalla penna di Ayn Rand, si pone a capo dei «responsabili» che accettano di essere armi in pugno delle Nazioni unite. Il conservatore Capitan America non ne vuole sapere e sfoggia un repertorio da conservatore liberale. Teme che, mettendosi al servizio dell'Onu, sia la politica a decidere arbitrariamente chi è il nemico da eliminare. Inoltre pensa che firmare l'accordo sia il primo passo verso una restrizione generale delle libertà individuali. Nel film, questo aspetto è evidente ma sfumato per esigenza di rapidità, nel fumetto dallo stesso titolo è invece sottolineato da una selva di citazioni dei Padri della Patria. Capitan America è il simbolo dei veri valori patriottici, il baluardo a difesa della Costituzione e della Dichiarazione d'indipendenza. Lo scontro con Iron Man è inevitabile e infatti se le danno di santa ragione. Gli Avengers non esistono più. Sono divisi in due fazioni. A voi scoprire la vincitrice. Lo scontro tra statalisti e libertari non è neppure la vicenda più significativa.

Avengers Infinity War e Avengers Endgame sono i due kolossal che concludono la saga. In entrambi, gli Avengers, costretti a lottare insieme per un'ultima volta, devono bloccare quel matto di Thanos, un fustacchione spaziale alto un paio di metri che ha un sogno: sterminare metà degli esseri viventi nell'intero universo. Vastissimo programma ma possibile da realizzarsi grazie a preziose perle che regalano il potere assoluto sulla materia e sul tempo. Thanos, direte voi, sarà uno spietato massacratore. Per niente. Thanos è un ecologista radicale. La strage cosmica restituirà ai superstiti cieli azzurri, acqua pulita e risorse in abbondanza. Quest'ultimo problema sta molto a cuore a Thanos che dice a chiunque osi chiedere spiegazioni: «Le risorse non sono infinite». Thanos non è mosso dal desiderio del potere: ha già costruito una graziosa casetta nei boschi e programmato una pensione da agricoltore per nutrirsi a chilometro zero, senza produrre emissioni.

Le serie tv sono solo all'apparenza dei contorni rispetto al piatto forte del filone cinematografico. The Falcon and the Winter Soldier è uscita a metà 2021 ed è sicuramente l'antefatto necessario per far ripartire la saga tenendo conto di tutti gli avvenimenti che hanno portato alla fine degli Avengers.

Falcon è un militare normale munito di ali meccaniche e altri trucchetti. Il Soldato d'Inverno è in realtà Bucky, il compagno di Capitan America in mille avventure nel corso dei decenni. Ha un braccio meccanico che sfascia tutto e, come Capitan America, ha ricevuto il siero del supersoldato, che potenzia le qualità fisiche. I nemici sono un gruppo di hippie-terroristi che vogliono creare un mondo senza frontiere. Il loro motto è: «Un mondo, un popolo». A Falcon e al Soldato d'Inverno questo slogan non piace. L'America è l'America. Per gli hippie armati si mette male, molto male. Altro non si può dire senza far arrabbiare chi volesse vedere la serie. Alessandro Gnocchi

Luigi Sparti per "Libero quotidiano" il 27 gennaio 2022.

L'ultima "perla" in ordine di tempo è recente un articolo dedicato a Edward O. Wilson pubblicato tre giorni dopo la sua morte, che in pratica etichetta senza troppi complimenti il celeberrimo biologo evoluzionista come "razzista". In particolare tale Monica McLemore nel pezzo in questione sostiene - senza portare alcuna prova - che il retroterra scientifico dello scienziato sarebbe appunto caratterizzato da un "razzismo implicito". 

È questo il più recente episodio della deriva politicamente corretta che sta minando l'obiettività scientifica e la lucidità di una rivista di divulgazione scientifica di altissimo profilo, ossia lo Scientific American. Un tempo la casa di giganti come Martin Gardner e Philip Morrison, la rivista in questione ha compiuto negli ultimi anni una sterzata verso il "wokeism" - come viene chiamata negli Usa la ligia adesione al politically correct puro e duro, un'ideologia che vede tutto attraverso le lenti di razza, genere e orientamento sessuale, finendo che sconfinare ampiamente nel vittimismo di professione. 

TONI BIZZARRI Parliamo ad esempio dell'attacco portato dallo Scientific American all'amministrazione Biden per aver scelto come consigliere scientifico Eric Lander, ottimo scienziato, senz' altro, ma che ha la colpa - molto grave, in effetti - di essere maschio e bianco. Tornando poi indietro nel tempo, citiamo il caso - risalente al 2014 - di Ash Jogalekar, collaboratore della rivista licenziato in tronco dalla direttrice editoriale Laura Helmuth per aver scritto un post troppo complimentoso verso Richard Feynmann, geniale premio Nobel per la fisica e padre dell'elettrodinamica quantistica che, essendo un noto donnaiolo, difficilmente si inserirebbe nel contesto neo-puritano del wokeism contemporaneo.

Ma la nostra storia non finisce di certo qui, anzi, assume toni sempre più bizzarri. Ne parla ampiamente in un suo articolo online il notissimo divulgatore e scettico Usa - nel senso di studioso che smonta le bufale e le affermazioni del paranormale - Michael Shermer. Lo scrittore in particolare elenca tutta una serie di episodi in cui il politically correct si è dimostrato un veleno per l'obiettività dello Scientific American.

Ricordiamo dunque un articolo dell'agosto 2021 in cui si sostiene in modo abbastanza esplicito che, se ci sono così pochi neri e donne tra i matematici americani, dipende dal fatto che tale comunità è infestata da razzisti e misogini. Ora, dice Shermer, vero è che è senz' altro possibile che nel mondo della matematica, come negli altri settori della vita, ci siano alcuni razzisti e misogini; ma, calcolando che il matematico medio è politicamente un "liberal", l'eventualità che l'intero settore sia vittima di una mentalità patriarcale e sciovinista è improbabile.

In più - aggiunge Shermer - una rapida analisi delle domande di ammissione a posti accademici nel campo della matematica mostra come in effetti in proporzione pochi neri e donne fanno domanda per tali pozioni. Quindi in effetti tali gruppi sono sottorappresentati, ma ciò non è di certo colpa delle commissioni di matematici che valutano tali richieste. Le cause della disparità vanno dunque cercate altrove. Il 5 luglio del 2021 lo Scientific American pubblica poi un articolo in cui si sostiene che il creazionismo - cioè l'idea, diffusa in diverse parti dell'America, per cui l'evoluzione non esiste e le specie siano state create da Dio così come sono - sia una forma di "suprematismo bianco".

In pratica, se sei un creazionista sei di conseguenza anche un nazista. Ora, puntualizza Shermer, senz' altro alcuni creazionisti del secolo scorso erano anche razzisti, ma in linea di principio il creazionismo ha motivazioni sostanzialmente religiose e non politico-razziali, prova ne è anche il fatto che è diffuso ugualmente - secondo le statistiche presentate da Shermer - tra i bianchi e tra gli afro-americani.

IL TERMINE JEDI Dulcis in fundo, citiamo un articolo pubblicato dallo Scientific American lo scorso 23 settembre, in cui si definisce il termine "Jedi" - si avete capito bene, gli Jedi di Star Wars - come "problematico" - definizione usata dal wokeism per indicare concetti che urtano la sensibilità dei suoi veri credenti. E l'acronimo JEDI viene usato negli Usa come sigla per indicare tutti i programmi politici e sociali che promuvono appunto "Justice, Equity, Diversity and Inclusion."

Il problema? Gli Jedi sono un ordine di monaci intergalattici che promuovono il "salvazionismo bianco" e sarebbero intrisi di mascolinità tossica - altro termine molto caro alle femministe "woke". Nel caso il lettore se lo stesse chiedendo, no, non è un articolo satirico, ma proprio lo Scientific American.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 23 gennaio 2022.

La copertina del numero di febbraio di British Vogue è finita sotto il fuoco incrociato dei social media. Molti l’hanno definita «offensiva» per via dell’illuminazione e dello stile della foto, che ritrae nove modelle nere su uno sfondo molto scuro vestite di scuro, in uno stile, a dire degli utenti, volto a nascondere i loro lineamenti e a rendere la loro pelle più nera per soddisfare «lo sguardo bianco». 

È la prima volta che la rivista pubblica in copertina un gruppo di donne nere in una foto di queste dimensioni, in una foto che voleva celebrare l’ascesa delle modelle africane, scattata dal brasiliano Rafael Pavarotti, famoso per questo stile. 

Ma dozzine di fan hanno accusato le foto di essere «mal illuminate», scurire i modelli, al punto da renderli irriconoscibili e farli sembrare dei «manichini».

Un utente ha scritto: «British Vogue? Quindi… hanno radunato tutte queste belle donne e hanno deciso di non usare l’illuminazione in modo corretto? Non può nemmeno capire chi è chi! E le parrucche? Quelle donne hanno carnagioni scure molto belle e affascinanti, quindi perché scurirle in questo modo?». 

Un altro ha accusato il fotografo di voler soddisfare lo «sguardo bianco» «feticizzando» le modelle ed esagerando i toni della loro pelle: «puoi essere impenitentemente nero senza caricature». Un utente ha scritto che «è una delle peggiori copertine di Vogue di sempre».  

E molti altri hanno criticato allo stesso modo gli abiti scelti e i colori, che si «mimetizzano» con le modelle. «Tutto si fonde», scrive un altro, «I capelli sono dello stesso colore della pelle. Pazzo. Penso che questa sia l'estetica che scelgono quando si scatta la pelle nera. Non è la prima volta che vedo questo sguardo da loro».

E un altro: «TBH Personalmente mi sarebbe piaciuto vedere più colore qui con il trucco/guardaroba - sappiamo tutti che la melanina si schiude contro tonalità più luminose - e almeno una persona con i loro capelli naturali in questo scatto. Anche l'illuminazione potrebbe richiedere del lavoro. Ma prendiamo questo come un inizio». 

Francesco De Remigis per “il Giornale” il 9 gennaio 2022.

Che in Francia non si respirasse un bel clima nelle università, e in generale nelle scuole, era chiaro sin da quando, dopo la decapitazione del professor Samuel Paty, si innescò una sorta di gara dei distinguo durante le commemorazioni. Perché parlare di Islam è sempre più complicato in aula? Perché colpevolizzare i bianchi, tanto gli studenti quanto i prof, da parte di certi gruppuscoli organizzati sull'onda del Black Lives Matter, è così di moda? 

A queste e a domande simili hanno provato a rispondere alla Sorbona di Parigi. La reazione del tempio francese, al culto della cancel culture nelle università, è stata una due giorni promossa dall'Observatoire du décolonialisme e dal Collège de philosophie. Filosofi, storici, politologi e sociologi contro il politicamente corretto. 

L'obiettivo? Combattere le derive del pensiero «decolonialista» che si infiltra nel mondo dell'educazione e della ricerca, e che cerca di imporsi «come dogma morale contro lo spirito critico». L'hanno chiamata «ripartenza». Il simposio patrocinato dal ministero dell'Istruzione (che l'ha finanziato) ha inevitabilmente scatenato una bufera Oltralpe: alla gauche non è piaciuto il percorso di «ricostruzione» lanciato nella più antica università dell'Esagono. 

Né che il governo abbia avallato un convegno imbevuto di stilemi contrari alla neo lingua «woke», che prevede censure preventive o postulate. Marine Le Pen ed Éric Zemmour denunciano il «wokismo» come «male anglosassone» che ha scavalcato la Manica. Il ministro dell'Istruzione Blanquer, che ha aperto il simposio, si è convinto che «la cancel culture cerchi di minare la civiltà umanistica». 

Alla Sorbona, in presenza e online (1.300 iscritti), sono fioccate formule come «epidemia transgender», «sole nero delle minoranze»: un florilegio di casi che l'ideologia «woke» stia martirizzando l'università. Un senso di marginalizzazione viene denunciato da studenti «no-woke» bullizzati da forme di «terrorismo intellettuale». Ci sono associazioni che attivano la gogna pubblica contro prof, artisti e giornalisti: la polemica diventa di moda e fa comodo accodarsi ai forcaioli.  

Ecco il perché della difesa del «pluralismo illuminato» rivendicato alla Sorbona; per difendere il libero pensiero, sottoposto a forme di censura con minacce ai prof che non si adeguano ed elenchi dei loro nomi affissi sui muri di Parigi. Di «enclave intellettuale che vuol dettare legge su tutto» ha scritto pure un gruppo di studenti sul Figaro. «Chiunque si rifiuti di sottomettersi ai dogmi decolonialisti, filo-Lgbt e anti-sessisti viene insultato». 

Classici da sbianchettare, film e cartoon da rivisitare (Disney non è la sola ad aver «rivisto» i classici per sfuggire agli iconoclasti). Poi le opere d'arte, le statue di leader storici: le cui imprese decontestualizzate appaiono risibili e dunque da abbattere o sfregiare. Il tema è conteso anche da Macron. E non a caso Zemmour ieri in Vandea ha difeso la statua di San Michele, «simbolo delle tradizioni cristiane oggetto dell'idiota punizione di laici obsoleti». 

Le autorità locali hanno ordinato di rimuoverla dopo un braccio di ferro portato e al tar da un'associazione. Basta, mordersi la lingua per assecondarli, è il messaggio in Francia a tre mesi dal voto. Dove però gli 007 del politically correct sono numerosi anche nelle case editrici e i docenti che non ci stanno, bollati come «unfit». Negli Usa, in prima battuta nel mirino del «woke» c'erano i vip rei d'aver pronunciato frasi giudicate offensive. Emarginati. Poi è toccato agli intellettuali, ai prof e infine alle aziende.

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” l'1 gennaio 2022.  «Porco cane», «figlio di un cane», «mondo cane», «cane bastardo»: sono solo alcune delle espressioni (escludendo le bestemmie) che sentiamo spesso e talvolta utilizziamo pure noi senza pensarci. Con leggerezza. Senza alcun riferimento cattivo al miglior amico dell'uomo. Che si farebbe tagliare non una, ma tutte e quattro le zampe per il suo padrone. Senza riflettere, lo mettiamo dentro le nostre frasi peggiori, volgari, piene di ira e di risentimento contro chi ci offende o ci fa del male, contro i nostri peggiori nemici. Non si contano le volte in cui è accaduto. 

Ma come abbiamo potuto includere queste anime pure sempre pronte e disponibili ad allietarci le giornate, incapaci di mentire su ciò che provano, incapaci di mentire sulle loro emozioni (avete mai visto un cane triste che fingesse di essere felice?)...  

Chissà cosa pensano coloro che imprecano «figlio di un cane» o «cane bastardo»? (Frasi che chi scrive non ha mai utilizzato, nemmeno per sbaglio). Forse a un essere spregevole. Sarebbe meglio allora dire «figlio di un essere umano bastardo», ne è pieno il mondo. Purtroppo. Scriveva il francese Tristan Bernard: «Ci sono due cose che mi hanno sempre sorpreso: l'intelligenza degli animali e la bestialità degli uomini». Parole sante. 

E dunque lasciamoli in pace i nostri amati e nobili animali che non sono capaci di gesti ignobili. Sanno leggere il cuore dell'uomo, quello sì. E da quel cuore si aspettano solo amore. All'amico scodinzolante non importa quanto siete ricchi, non importa nulla del vostro conto in banca.  

Se gli date il vostro cuore, vi donerà il suo. Di quante persone potete dire lo stesso? Ecco perché ci uniamo alla battaglia di Lorenzo Croce, presidente di Aidaa, che denuncia a gran voce: «È una vergognosa appropriazione e un'offesa all'animale, il cui nome cane, appunto, viene impropriamente utilizzato per epiteti e insulti violenti». 

L'associazione Italiana Difesa Animali ed Ambiente, spiega: «Crediamo che occorra spiegare fin dalla scuola materna e approfondire poi nella scuola dell'obbligo ai bambini che "Porco cane", o "D*o cane", oltre che espressioni volgari, insultano e offendono l'animale». 

E aggiunge: «Non vogliamo qui fare del facile moralismo, ma così come avviene ad esempio con le favole, dove si presenta sempre, sbagliando, il lupo come un animale cattivo, occorre che qualcuno si prenda la briga di iniziare a modificare questo linguaggio che trasforma il migliore amico dell'uomo in un aggettivo insultante. 

Ci auguriamo che le varie accademie che curano con amore e gelosia la purezza della nostra lingua prendano posizione in merito a questa nostra richiesta. Che mette in evidenza l'improprio uso di una parola riferita al cane, tanto amato e che viene considerato oramai parte delle famiglie italiane». 

Lorenzo Croce non è nuovo a questo tipo di battaglie. Ha iniziato qualche anno fa col difendere il lupo «cattivo» delle favole chiedendo una rettifica della fiaba. Poi se l'è presa con Vittorio Sgarbi che utilizzava capre per dare dell'imbecille ai suoi interlocutori. Si è battuto per togliere dalla palla di vetro il pesciolino rosso nello spot televisivo di Fiorello. Insomma l'Aidaa si è data da fare pure per difendere la gallina di Cochi e Renato. Nella loro celebre canzoncina intonavano: «La gallina non è un animale intelligente, lo si capisce da come guarda la gente». 

Una dichiarazione smontata anche dalla scienza che ha dimostrato come la gallina abbia lo stesso numero di neuroni di un piccolo primate. Possiede un sofisticato sistema di comunicazione vocale e gestuale. Ed è in grado di ricordare e trasmettere informazioni ai suoi simili. Chiudo con le parole di Voltaire «È solo per un eccesso di vanità ridicola che gli uomini si attribuiscono un'anima di specie diversa da quella degli animali».

·        Gli Oscar comunisti.

DONNE, LGBT, MINORANZE ETNICHE. I NUOVI REQUISITI POLITICALLY CORRECT PER VINCERE UN OSCAR. Niccolò Brighella su vdnews.tv/ il 10.09.2020.  

L’Academy ha preso una decisione, per il 2024, che è l’esito di un percorso ormai decennale, di tutto lo show business americano, verso una più forte inclusività. Il politically correct, sviluppatosi negli anni Novanta tra i campus delle Università americane per formare una zona sicura dove realizzare la società multiculturale immaginata dagli studenti dell’epoca, è sbarcato a Hollywood da tempo. Da molti anni anche le scelte dell’Academy cercano di essere le più inclusive possibile, basti pensare agli Oscar di Moonlight e Green Book, interpretati entrambi dallo straordinario Mahershala Ali.

Come funzionano i nuovi standard

Gli Oscar non sono la prima istituzione del cinema a creare una serie di standard di inclusività e diversità. Iniziò il British Film Institute con una serie di impegni per poter accedere alla produzione e alla distribuzione di film e programmi tv, seguendo l’UK Act of Equality del 2010. Ora tocca all’Academy che, progressivamente, introdurrà gli stessi standard obbligatori del BFI per poter competere come Miglior Film mentre «tutte le categorie diverse da quella saranno soggette ai loro attuali requisiti di idoneità» fa sapere l’Academy. I nuovi standard sono divisi in quattro settori: A, che riguarda sia il tema del film che la rappresentazione sullo schermo attraverso attori principali e secondari; B, sulla composizione del team creativo e dei suoi leader; C, per aumentare l’accessibilità della produzione per i lavoratori; D, su una maggiore inclusività nella leadership che formerà la comunicazione e il marketing della produzione nei confronti del pubblico. In pratica, per essere candidata come Miglior Film, la pellicola dovrà scegliere tra una storia che parli di: 

Donne

Gruppo razziale o etnico

LGBTQ+

Persone con disabilità cognitive o fisiche, non udenti o ipoudenti

Impiegare nella produzione, da uno dei protagonisti al 30% del cast secondario, da due leader del team creativo a sei altri membri della squadra e il 30% della troupe, lavoratori di questi gruppi: 

Donne

Gruppo razziale o etnico

Asiatico

Ispaico/Latino

Nero/afroamericano

Indigeno(Nativo americano/ nativo dell’Alaska

Mediorientale/nordafricano

Nativo hawaiano o altro isolano del Pacifico

Altra razza o etnia sottorappresentata

LGBTQ+

Individui con disabilità cognitive o fisiche, non udenti o ipoudenti

Oppure aprire tirocini formativi per persone appartenenti a queste categorie e avere almeno un dirigente senior di questi gruppi nel settore marketing, distribuzione e pubblicità, come spinta a una nuova comunicazione col pubblico, più inclusiva e diversificata. Per poter concorrere come Miglior Film, le pellicole dovranno soddisfare almeno due di queste quattro categorie. 

Quando saranno obbligatori i nuovi standard

L’introduzione di questi nuovi criteri di inclusività non sarà immediata. D’accordo con l’AMPAS e la Producers Guild of America, l’Academy chiederà alle produzioni di compilare un modulo confidenziale dalla 94° edizione degli Oscar. Solo dalla 96° edizione, quella del 2024, i criteri diventeranno obbligatori e sarà impossibile competere al premio cinematografico più famoso del mondo senza rispettarne almeno due su quattro. Il presidente dell’Academy David Rubin e il CEO Dawn Hudson, hanno commentato: «Dobbiamo ampliare il nostro sguardo per riflettere la popolazione globale sia nella creazione di film che nel pubblico che li guarda. Crediamo che questi standard di inclusione saranno catalizzatori di un profondo e duraturo cambiamento nella nostra industria».

I 60 anni di Kevin Spacey, due Oscar e una carriera cancellata dallo scandalo. Cinema, per vincere l’Oscar ci vuole il Cencelli del “politically correct”: parola di Pigi Battista. Giacomo Fabi giovedì 18 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.

Fa bene Pigi Battista a lamentarsi della brutta piega presa dalla procedura per l’assegnazione degli Oscar. Ancor di più a bollarlo come una sorta di «manuale Cencelli dei riconoscimenti» con tanto di «percentuali etniche, di genere, di orientamento sessuale, di ceto social». A sentir lui – e non c’è ragione per dubitarne -, «le discussioni sui film» sono ormai «noiose come un simposio sulla legge elettorale». Insomma, spiega il giornalista ex-Corsera ora blogger all’Huffington Post, «si giudica sempre meno la bellezza di un film e di chi lo realizzato». In compenso, «ti premio di più se parli della piaga del nomadismo e meno se rappresenti un interno middle class a Manhattan».

Pigi Battista ora è all’Huffington Post

Con tali premesse, la sua conclusione non poteva che risultare amara sebbene non rassegnata: «Non vinca il migliore». Parole da condividere una per una. Aggiungendo una sola postilla per ricordare che all’Oscar lottizzato il cinema non è arrivato per caso, ma sull’onda di una melassa conformista che ha avviluppato tutti, giornaloni compresi, incluso quello dove la firma di Pigi Battista ha campeggiato per anni. Non è una colpa, ci mancherebbe. Ma è tutt’altro che un fuor d’opera ricordare come certe tendenze non siano frutto di improvvisazione. Il culto del politicamente corretto conta sacerdoti zelanti e arcigni custodi un po’ ovunque.

«Ti premio sei parli dei nomadi»

Soprattutto laddove si ferma l’opinione. E se proprio in quei luoghi di pensiero e di critica accade che ogni discostamento dal culto ufficiale diventi eresia da stroncare, è fatale che di posizione in campo ne resti una sola. Unica e perciò stesso dominante. E gli effetti si vedono: nel cinema come nella scuola, nei giornali come nell’università, nelle tv come a teatro. Anno dopo anno, giorno dopo giorno, l’onda di melassa si è fatta sempre più grande fino a travolgere tutto. Lo tsunami del politically correct non risparmia né Rossella O’Hara né le statue pur di imporre, ora per allora, lo spirito del tempo. Spiace ammetterlo, ma purtroppo arriviamo tardi: il peggiore, caro Pigi Battista, ha già vinto.

Gli Oscar sono sempre stati politici e quest'anno non sarà diverso. Mentre guardiamo avanti a una cerimonia pronta per riconoscere la guerra in Ucraina, una storia di come la più grande notte di Hollywood abbia messo in luce decenni di ingiustizie e controversie. DAVID CANFIELD su vanityfair il 24 marzo 2022. 

In questo periodo dell'anno scorso, Donald Trump ha chiamato gli Oscar per essere troppo "politicamente corretti", accusando lo spettacolo di fungere da piattaforma per il Partito Democratico e suggerendo che l'Accademia si stava allontanando dalla sua funzione iniziale per onorare i film senza riconoscere il mondo che li circonda. A parte la natura generale e sconclusionata della dichiarazione, la sua premessa implicita era sbagliata: gli Oscar hanno mostrato momenti politici fintanto che abbiamo prestato attenzione. 

Di conseguenza, i tentativi di lunga data dell'Accademia di raggiungere una più ampia rilevanza culturale troveranno sicuramente eco questa domenica sera, quando i conduttori Wanda Sykes, Amy Schumer e Regina Hall , per non parlare di un caotico assortimento di presentatori , hanno messo in scena uno spettacolo stellato in un momento di guerra in tutto il mondo. L'invasione russa dell'Ucraina è già stata messa in luce e condannata da Maria Bakalova ai Critics Choice Awards, Kristen Stewart ai Film Independent Spirit Awards e altri nel circuito precursore, e i colori e le bandiere ucraine sono stati visibili su un'ampia gamma di tappeti rossi . Mentre l'apparente desiderio di Schumerche il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy appaia nello show via satellite probabilmente non avverrà perché è, uh, altrimenti occupato, il supporto per la lotta del suo paese, senza dubbio, influirà in modo significativo nella trasmissione. 

Non sarebbe nemmeno la prima volta che la tragedia in Ucraina raggiunge il palcoscenico dell'Accademia. Nel 2014, il vincitore dell'attore non protagonista Jared Leto ( Dallas Buyers Club ) ha dedicato il suo discorso a coloro che vivono i disordini in Crimea, che le forze russe hanno recentemente superato, così come al Venezuela: "A tutti i sognatori là fuori in tutto il mondo che guardano questo stasera ...Voglio dire che siamo qui, e mentre lotti per realizzare i tuoi sogni, per vivere l'impossibile, stiamo pensando a te stasera." 

I vincitori spesso usano il loro grande momento per far luce sulle cause a loro più vicine o particolarmente rilevanti nei titoli dei giornali. Durante l'era Trump, tali discorsi erano definiti dal respingimento alla crescente ostilità nei confronti delle popolazioni emarginate, inclusi gli immigrati musulmani e latinoamericani. Nel 2019, Spike Lee ha usato il suo discorso di accettazione della sceneggiatura adattata , per BlacKkKlansman, per mobilitare gli elettori delle elezioni del 2020 ed evidenziare "la scelta morale tra amore e odio". Asghar Farhadi ha rifiutato di partecipare alla cerimonia del 2017 nonostante fosse stato nominato; quando il suo film, The Salesman, ha vinto il premio come miglior film internazionale, il regista iraniano ha scritto una risposta feroceche si leggeva sul podio a suo nome: “La mia assenza è per rispetto delle persone del mio Paese e di quelle di altre sei nazioni che sono state violate dalla legge disumana che vieta l'ingresso degli immigrati negli Stati Uniti” E, infine, diversi i discorsi degli ultimi quattro anni hanno parlato al movimento #MeToo , nato da storie dell'orrore legate sia a Hollywood che allo stesso presidente.

Naturalmente, tutto questo non è iniziato con Trump. Torna agli anni '40 e vedrai l'industria confrontarsi con la prospettiva di congratularsi per la prima volta durante la guerra: gli Oscar furono quasi cancellati nel 1942, dopo il bombardamento di Pearl Harbor, prima di procedere con gli adeguamenti strutturali e il codice di abbigliamento alterazioni. Il vincitore dell'attore non protagonista Donald Crisp ha indossato la sua uniforme militare e, alla cerimonia dell'anno successivo, è tornato a leggere un discorso del presidente Franklin D. Roosevelt : "Nella guerra totale, i film, come tutte le altre imprese umane, hanno un ruolo importante da svolgere nella lotta per la libertà e la sopravvivenza della democrazia”. Entrambe le cerimonie si sono svolte all'ombra del conflitto globale e hanno osservato attentamente quel senso di discordia.

Quando Jane Fonda ha vinto la migliore attrice per Klute nel 1972, al culmine della guerra del Vietnam, è stata una figura fortemente controversa per la sua irremovibile opposizione al conflitto. Il suo discorso di 15 secondi è stato acuto come qualsiasi affermazione o gesto radicale, ringraziando "tutti voi che avete applaudito" prima di concludere: "C'è molto da dire e non lo dirò stasera". Alcuni anni dopo , il film contro la guerra Hearts and Minds vinse l'Oscar del documentario e dopo che il produttore Bert Schneider lesse un telegrammadalla delegazione vietcong agli accordi di pace di Parigi che trasmette amicizia, il co-conduttore Frank Sinatra è stato incaricato di chiarire che l'Accademia non era responsabile di "nessun riferimento politico fatto sul programma". 

Gli anni '70 hanno anche portato forse il momento politico più famigerato nella storia degli Oscar, quando Marlon Brando ha vinto il premio come miglior attore per Il padrino ma ha rifiutato la statuetta. L'attivista per i diritti indigeni americani Sacheen Littlefeather è stato mandato sul podio al suo posto, e per suo conto ha criticato "il trattamento riservato agli indiani d'America oggi dall'industria cinematografica" e ha richiamato l'attenzione sull'occupazione in corso di Wounded Knee. E se non hai visto Vanessa Redgrave chiamare "teppisti sionisti" nel suo discorso di accettazione del 1978, in risposta alle proteste per il suo sostegno all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina, beh, suona anche meglio di come si legge.

Il dissenso sul palcoscenico degli Oscar ha raggiunto di nuovo nuove vette durante la guerra in Iraq; una serie di vittorie ha fornito l'opportunità per le critiche televisive a livello nazionale all'amministrazione di George W. Bush . Quando Bowling for Columbine di Michael Moore ha vinto il premio per il documentario nel 2003, il regista ha gridato: “Siamo contro questa guerra, signor Bush! Vergognati, signor Bush! Vergognatevi!" Gran parte della folla ha fischiato e la musica ha provato a suonarlo ad alta voce prima che lasciasse il palco. Il prossimo vincitore di quel premio, Errol Morris ( The Fog of War ), si è basato sullo slancio di Moore, con un'accoglienza più calorosa nella stanza che riflette un tono più addomesticato (e cambiamenti generali nelle opinioni sulla guerra in Iraq): “Quaranta anni fa, questo paese cadde in una tana di coniglio in Vietnam e milioni di persone morirono. Temo che stiamo andando ancora una volta in una tana del coniglio, e se le persone possono fermarsi a pensare e riflettere su alcune delle idee e dei problemi in questo film, forse ho fatto qualcosa di maledettamente buono qui".

Prima di tutto ciò, però, si verificò l'11 settembre e mise gli Oscar in un punto simile a quello in cui erano stati 60 anni prima durante la seconda guerra mondiale. Le voci di rinvio abbondavano, il tappeto rosso è stato notevolmente ridimensionato per motivi di sicurezza e la trasmissione è andata avanti come una sorta di nobile causa. Poi il presidente dell'Accademia Frank Pierson ha detto che lo spettacolo doveva andare avanti , altrimenti, "I terroristi hanno vinto". Di conseguenza, Tom Cruise ha aperto con un ambizioso invito all'azione sulla creazione di opere d'arte durante i periodi di turbolenza. Woody Allen,che notoriamente non aveva mai partecipato agli Oscar prima, ha fatto un'apparizione a sorpresa dopo essere stato presentato come un "punto di riferimento di New York", ricevendo una standing ovation che sembrava raddoppiare per lui e la città che era stata così brutalmente attaccata. 

Il tono era solenne, addolorato e unitario. Quest'anno, tra le continue questioni di giustizia sociale negli Stati Uniti, dal disegno di legge "Don't Say Gay" della Florida alle misure anti-aborto adottate dagli stati di tutto il paese, ci sono molte opportunità di dissenso e attivismo mentre torniamo a il Teatro Dolby. Ma con gli americani nel loro insieme che continuano a radunarsi dietro l'Ucraina, potrebbe esserci anche la possibilità che alcuni si uniscano. In entrambe le direzioni, comunque, c'è sicuramente un precedente.

David Canfield è uno scrittore dello staff di Hollywood per Vanity Fair. Copre premi tra cui gli Oscar e gli Emmy.

Oscar 2022, la cerimonia: il politically correct colpisce ancora. Il premio più importante a una pellicola per noi decisamente inferiore rispetto a titoli del calibro di «Licorice Pizza», «West Side Story» e «Drive My Car». Stefano Biolchini e Andrea Chimento su Il Sole 24 ore il 28 marzo 2022.

Nel corso della storia degli Oscar non c'è da stupirsi e nemmeno da scandalizzarsi se spesso non ha vinto il migliore, anzi, poiché l'Academy ha di frequente previlegiato film con al centro determinate tematiche o argomenti sensibili, in particolari momenti storici, rispetto al valore artistico delle pellicole. Molte volte, però, le cose sono andate di pari passo, mentre in altri casi hanno preso una piega difficile da accettare.

Politically correct

L'attenzione per il politically correct c'è sempre stata, anche se forse negli ultimi anni si è accentuata per varie situazioni che hanno evidenziato gravi lacune nella storia dell'Academy, relative, in particolare, a un argomento sempre più urgente come quello dell'inclusività, sostenuto con battaglie davvero sacrosante.

L'importante è però non esagerare con una dittatura del politically correct, che finisce per sapere più di ipocrisia che di reale attenzione, a discapito del valore artistico delle opere in concorso: un limite sottile che quest'anno si è decisamente superato con la statuetta più ambita andata a «I segni del cuore – Coda». Non è neanche colpa di questo film che fa comunque in parte il suo dovere: un feel-good-movie piuttosto godibile, se ci si vuole accontentare di poco e passare due ore con un sorriso sulle labbra e qualche emozione da voler sentire nel cuore. 

Sian Heder

Diretto dalla regista Sian Heder, parla dell'adolescente Ruby, unica persona udente della sua famiglia, che durante le prime ore del mattino, prima di entrare a scuola, lavora sulla barca di famiglia per aiutare i suoi genitori e suo fratello a portare avanti la loro attività di pesca. Ruby ha inoltre uno straordinario talento canoro tutto da coltivare. 

Remake di un furbissimo film francese, «La famiglia Bélier», «I segni del cuore – Coda» è un lavoro buonista, che sfrutta le sequenze dell'originale ad alto tasso di retorica offrendo una visione semplice e appagante. Andrebbe tutto bene, per carità, con questa pellicola che può anche meritare una sufficienza piena in termini generali (anche per l'ottima prova del cast e, in particolare, di Troy Kotsur, premiato come miglior non protagonista) ed essere apprezzata per come affronta con il giusto rispetto il tema dell'inclusività ma… qui stiamo parlando dell'Oscar al miglior film.

Come spiegheremo ai posteri che nell'edizione 2022 ha vinto questo film mentre tra i candidati c'erano tre lungometraggi artisticamente meravigliosi come «Licorice Pizza», «Drive My Car» e «West Side Story»? Soltanto l'incipit di ognuno di questi tre titoli vale per noi praticamente dieci volte un intero prodotto convenzionale come «I segni del cuore – Coda». E anche l'altro favorito della vigilia, «Il potere del cane», è un film che, cinematograficamente parlando, non sembra neanche giocare nello stesso campionato del vincitore. Non ha vinto soltanto «I segni del cuore – Coda» l'Oscar al miglior film: l'hanno vinto anche l'ipocrisia e il politically correct e, ancora una volta, a perdere è soprattutto il (grande) Cinema. Stefano Biolchini, redattore

Tutto quello da sapere sulla notte degli Oscar 2022 da Hollywood. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Marzo 2022.

Oltre al regista napoletano, Paolo Sorrentino a sostenere le speranze italiane l'attenzione si concentra anche su Enrico Casarosa, che ha diretto il film d'animazione "Luca", e Massimo Cantini Parrini, in gara per i costumi di "Cyrano"

È arrivata la notte degli Oscar di Hollywood a Los Angeles, che inizierà preceduta dall’immancabile red carpet a seguito del fuso orario fra l’Italia e la California nelle prime ore di lunedì 28 marzo per concludersi intorno alle 6 del mattino. Per vederla davanti al televisore bisognerà fare come si suol dire “nottata”. La 94esima edizione della Notte degli Oscar avrà un momento dedicato all’Ucraina. “Sarà uno spazio onesto e sentito, come devono essere trattati questi difficili momenti”, hanno detto Regina Hall e Wanda Skyes al New York Times , due delle tre presentatrici della “notte delle stelle” in onda sulla Abc. La Hall e la Skyes non hanno precisato se il segmento includerà un collegamento con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky come caldeggiato dalla terza conduttrice, Amy Schumer, che non ha partecipato all’intervista perché non si sentiva bene. 

La notte degli Oscar 2022 verrà trasmessa in diretta dalle 00.15 su Sky Cinema Oscar (canale 303 di Sky), su Sky Uno, in streaming internet su NOW e in chiaro su TV8. La conduzione è affidata a Francesco Castelnuovo affiancato da Gianni Canova e dalla giornalista Francesca Baraghini di Sky TG24. La premiazione degli Oscar verra riproposta integralmente lunedì 28 marzo su Sky Cinema Oscar nel pomeriggio, mentre in prima serata l’appuntamento con “Il meglio della Notte degli Oscar® 2022″ sarà dalle 21.15 su Sky Cinema Oscar e Sky Uno, disponibile anche on demand su Sky e NOW e in chiaro su TV8 sempre il 28 marzo alle 23.45.

Tra gli ospiti della nottata televisiva italiana sono annunciati Claudia Gerini, Costantino della Gherardesca, Lillo&Greg, e due attori Enzo Decaro e Massimiliano Gallo in rappresentanza del cast del film italiano nominato come miglior film internazionale “È stata la mano di Dio” diretto da Paolo Sorrentino.

La conduzione degli Oscar

Dopo aver rinunciato ad affidare negli ultimi tre anni, la conduzione della notte degli Oscar a un solo conduttore “guida”, Hollywood punta di nuovo su una conduzione non più “monocratica” ma di forte impatto della serata, e la scelta è ricaduta su tre attrici comiche molto amate dal pubblico americano: Regina Hall, Amy Schumer e Wanda Sykes. Il cast che si alternerà alla presentatrici e annuncerà candidati e aprirà buste prevede la presenza di: Josh Brolin, Jamie Lee Curtis, Jennifer Garner, Jake Gyllenhaal, Tiffany Haddish, Woody Harrelson , Tony Hawk, HER, Samuel L. Jackson, Lily James, Daniel Kaluuya, DJ Khaled, Mila Kunis, John Leguizamo, Simu Liu, Shawn Mendes, Jason Momoa, Bill Murray, Lupita Nyong’o, Elliot Page, Rosie Perez, Tyler Perry, JK Simmons, Kelly Slater, Wesley Snipes, Uma Thurman, John Travolta, Shaun White, Yuh-Jung Youn e Rachel Zegler. 

La speranza è quella di vedere salire gli indici di ascolto, sempre più in discesa, puntando sulle “gag” irriverenti di un trio di donne molto esperte. La Schumer ha condotto gli Mtv Movie Awards nel 2015, la Hall ha presentato i Bet Awards nel 2019, mentre la Sykes ha condotto i Glaad Media Awards 2018.

Hollywood prevede che le tre conduttrici rompano gli schemi, creando qualcosa di virale, otto anni dopo il celebre selfie di Ellen DeGeneres con un gruppo di star, tra cui Bradley Cooper – che scattò la foto – Brad Pitt, Meryl Streep, Julia Roberts e, sullo sfondo, prima che gli scandali sessuali lo travolgessero, Kevin Spacey. Quella foto, pubblicata dalla conduttrice su Twitter, venne ritwittata quasi 3 milioni di volte. “Se solo il braccio di Bradley fosse stato più lungo – aveva commentato DeGeneres – Miglior foto di sempre“. 

L’ Italia ad Hollywood

L’attenzione dell’Italia si concentra oltre al regista napoletano Sorrentino, su altri due candidati all’Oscar: Enrico Casarosa, che ha diretto il film d’animazione “Luca“, e Massimo Cantini Parrini, in gara per i costumi di “Cyrano“. Casarosa, genovese di nascita ma ormai newyorkese di adozione, ha iniziato la carriera disegnando tavole per alcune serie tv di Disney Channel, ed è poi passato nella squadra di disegnatori di “Cars-Motori ruggenti”, “Ratatouille” e “Up“, Oscar come miglior film di animazione rispettivamente nel 2008 e nel 2010. 

Un suo precedente cortometraggio di animazione, “La luna”, era stato candidato alla statuetta nel 2012. “Luca” che è stato prodotto da Pixar e Disney, ed è la prima volta che i due colossi di Hollywood hanno ambientato un loro film in Italia, narra l’estate del 1959 di un gruppo di ragazzini alle Cinque Terre: protagonisti Luca Paguro e Alberto Scorfano, due giovani mostri marini in grado di assumere sembianze umane che decidono di passare le loro vacanze insieme agli umani.

Massimo Cantini Parrini, fiorentino, ha ereditato la passione per i costumi dalla nonna sarta. Dopo la laurea in Cultura e Stilismo della moda, grazie a una borsa di studio si è trasferito a Roma per lavorare al Centro Sperimentale di Cinematografia. Cantini Parrini allievo del maestro Piero Tosi, ha lavorato nelle sartorie dello spettacolo più prestigiose: dalla Tirelli a quella di Gabriella Pescucci, vincitrice dell’ Oscar nel 1994 per i costumi di “L’età dell’innocenza” diretto da Martin Scorsese.

Cantini Parrini era già stato candidato l’anno scorso per il “Pinocchio” di Matteo Garrone. Oltre alla nomination per l’Oscar, “Cyrano” ne ha ottenuta una ai BAFTA 2022, i premi riconosciuti dall’accademia britannica del cinema. “Stavolta la sfida – ha raccontato lo stilista in un’intervista alla Cnn – era raccontare con i costumi una storia parallela a quella del film, che tra l’altro è una versione rinnovata di un classico della letteratura”. Gli abiti di “Cyrano“, pensato dal regista Joe Wright come un musical con una colonna sonora rock, rievocano l’epoca della narrazione ma al tempo stesso consentono agli attori di muoversi e ballare. E sono belli da vedere come un quadro.

I favoriti degli Oscar 2022

Quest’anno l’accoppiata degli Oscar per il miglior attore e la migliore attrice protagonisti potrebbe risultare una questione di famiglia, a patto che Will Smith e Jessica Chastain lo permettano. Nella lista dei nominati ci sono Javier Bardem per “A proposito dei Ricardo“, biopic sulla vita privata di Desi Arnaz e Lucille Ball, la coppia protagonista negli anni Cinquanta della sit-com “Lucy e io“, e la moglie, Penelope Cruz, per “Madri parallele“, storia incentrata sulle maternità intrecciate a relazioni complesse, diretta da Pedro Almodovar.

In corsa per l’Oscar ci sono anche Benedict Cumberbatch, cowboy crepuscolare in “Il potere del cane”; ed Andrew Garfield, nelle vesti del compositore di Broadway Jonathan Larson nell’adattamento cinematografico del suo musical “Tick, Tick Boom!” ed il vero grande favorito, Will Smith, nei panni di padre-padrone delle sorelle Venus e Serena Williams in “Una famiglia vincente – King Richard“.

Conclude le candidature il “gigante” del cinema americano Denzel Washington, protagonista di un “Macbeth“ girato come un’opera teatrale da Joel Coen. Sul fronte femminile, le altre quattro attrici in gara con Penelope Cruz sono la grande favorita Jessica Chastain, per il suo straordinario ruolo in “Gli occhi di Tammy Faye“, in cui impersona Tammy Faye Bakker, la telepredicatrice americana che conquistò l’America insieme al marito Jim, prima che la coppia fosse travolta da una serie di scandali; Olivia Colman, al centro di una complessa relazione madre-figlia in “La figlia oscura”; Nicole Kidman, nei panni di Lucille Ball in “A proposito dei Ricardo“, e Kristen Stewart, che interpreta Lady D in “Spencer“, ricostruzione dei giorni in cui Diana Spencer decise di divorziare dal Principe Carlo.

I grandi esclusi

Nella grande notte degli Oscar come sempre ci saranno dei vincitori e degli sconfitti. Ma a ventiquattr’ore dall’inizio della 94 edizione, in programma al “Dolby Theatre” di Hollywood, ci sono dei grandi personaggi che risultano già sconfitti: sono gli esclusi dalle nomination annunciate l’8 febbraio.

Tra loro, anche se può apparire un paradosso, compare il regista Denis Villeneuve, il cui film, “Dune“, con dieci nomination è il secondo per potenziali Oscar dietro “Il potere del cane“, che è in corsa in dodici categorie: “Dune” è presente tra i miglior film, sceneggiatura non originale, sonoro, effetti visivi, fotografia, montaggio, scenografia, costumi, trucco e acconciature, colonna sonora originale, ma non per la regia.

Grande la delusione per Lady Gaga, magnifica interprete di “House of Gucci”, ma anche per la cantante americana Jennifer Hudson (“Respect“), l’attrice irlandese Caitriona Mary Balfe (“Belfast“) e la norvegese Renate Reinsve per “La persona peggiore del mondo“.

I candidati alla vittoria

A contendere il premio 10 film, due in più rispetto all’edizione 2021. Molto considerato anche “Belfast” di Kenneth Branagh; “I segni del cuore” di Sian Heder; “Don’t Look Up” di Adam McKay; “Dune” di Denis Villeneuve; “Una famiglia vincente – King Richard” di Reinaldo Marcus Green; “West Side Story” di Steven Spielberg; “La Fiera delle illusioni” di Guillermo del Toro e “Licorice Pizza” di Paul Thomas Anderson.

“Il potere del cane” concorre di fatto contro tutti: è questa, secondo gli scommettitori, la vera grande sfida per il miglior film alla 94esima notte degli Oscar, prodotto da Netflix, e presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, vede un grande Benedict Cumberbatch come protagonista.

La versione cinematografica del romanzo “Il potere del cane“ scritto da Thomas Savage, pubblicato nel 1967, narra la storia di un allevatore, Phil Burbank, che incute paura e rispetto e sembra disinteressato all’amore, sino a quando il fratello non porta la nuova moglie, e il figlio di lei, a vivere nel ranch. Il film ha ricevuto 12 nominations, tra cui quello di “miglior film”, “miglior regista“, “miglior attore protagonista“, “miglior attore non protagonista” e “miglior scenografia”.

Se il film dovesse vincere, per la regista neozelandese Jane Campion sarebbe il secondo Oscar, dopo quello ottenuto – per la miglior sceneggiatura originale – per il leggendario “Lezioni di piano” del ’94. Sarebbe anche il secondo anno consecutivo in cui vincerebbe una donna, dopo Chloe’ Zoe con “Nomadland“. Redazione CdG 1947

Oscar 2022: il trionfo di “Coda”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Marzo 2022.

Sei statuette per "Dune": miglior suono, miglior montaggio, miglior scenografia, miglior fotografia, migliori effetti speciali e migliore colonna sonora

La cerimonia è tornata in presenza, dal Dolby Theatre, con un terzetto di presentatrici, le attrici Regina Hall, Wanda Sykes e Amy Schumer che non ha perso l’ occasione per lanciare una frecciata: “Quest’anno l’Academy ha voluto tre donne per presentare, costano meno di un uomo”.

Tre candidature, tre premi per Coda: miglior film, miglior sceneggiatura originale, miglior attore non protagonista. Edizione che resterà negli annali per diversi motivi, la 94 esima degli Academy Awards, a cominciare dalla vittoria del film arrivato come outsider. Trionfo annunciato dalla vittoria di Troy Kotsur per “I segni del cuore”. Coda , il primo attore sordomuto a vincere un Oscar (la prima era stata Marlee Matlin, sua moglie nel film), festeggiato dai colleghi con stand ovation e applausi nel linguaggio dei segni. 

L’ Academy come prevedibile non ha potuto ignorare il dramma in corso in Ucraina, occupata dalle truppe russe. La cerimonia si ferma per un minuto di silenzio e di riflessione con un messaggio di sostegno #standwithUkraine seguito alla presenza sul palco dell’attrice Mila Kunis attrice nata a Cernivci in Ucraina, compagna di Ashton Kutcher, la quale ha detto: “Nelle ultime settimane, il mondo è rimasto scioccato da un’invasione non provocata e da un atto di aggressione” e sullo schermo nero è apparsa la scritta che invitava a dare “supporto al popolo dell’Ucraina che sta affrontando invasione, conflitti e pregiudizi all’interno dei propri confini”. Già dal red carpet dalle star di Hollywood arrivano messaggi di solidarietà al popolo ucraino. Diversi attori, tra cui gli italiani Luisa Ranieri e Paolo Sorrentino, hanno mostrayo un nastro blu con la scritta “Con i rifugiati“. 

Momenti di tensione sul palco tra Chris Rock e Will Smith, che sembrava essere uno scherzo, un siparietto divertente, ma in realtà si è trattato di un vero scontro con Smith che ha perso le staffe, si è alzato dalla poltrona e ha sferrato un pugno al comico Rock che aveva fatto una battuta “ti prepari per Soldato Jane 2?“( con allusione a look di Demi Moore) rivolta alla moglie di Will Smith, l’attrice Jada Pinkett ,  che aveva spiegato tempo fa la scelta di rasarsi con un problema di alopecia.

La star di King Richard non ha apprezzato la gag, è salito sul palco e dopo aver sferrato un pugno al comico gli ha detto: “Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua fottuta bocca“. In un primo momento gli spettatori hanno pensato a una “gag”, ma in realtà di è trattato di una reazione dettata da rabbia reale. “Non mi aspettavo che sarebbero stati gli Oscar più eccitanti di sempre”, ha detto il rapper Puff Diddy: “Will e Chris, lo aggiusteremo con amore“.

Tutti i premiati

Miglior film: I segni del cuore (Coda)

Miglior regia: Jane Campion (Il potere del cane)

Miglior attore: Will Smith (King Richard. Una famiglia vincente)

Miglior attrice; Jessica Chastain (Gli occhi di Tammy Faye)

Miglior attrice non protagonista: Ariana DeBose (West Side Story)

Miglior attore non protagonista: Troy Kotusr (Coda)

Miglior film internazionale: Drive my car di Ryûsuke Hamaguchi

Miglior sceneggiatura originale: Kenneth Branagh (Belfest)

Miglior sceneggiatura non originale: Siân Heder (I segni del cuore. Coda)

Miglior documentario: Summer of Soul (…Or, When the Revolution Could Not Be Televised) di Ahmir Questlove Thompson, Joseph Patel, Robert Fyvolent e David Dinerstein

Migliori costumi: Jenny Beavan (Cruella)

Miglior fotografia: Greig Fraser (Dune)

Migliori effetti speciali: Paul Lambert, Tristan Myles, Brian Connor e Gerd Nefzer (Dune )

Miglior film di animazione: Jared Bush, Byron Howard, Yvett Merino e Clark Spencer (Encanto)

Miglior canzone: No Time to Die (No Time to Die), Billie Eilish, Finneas O’Connell

Miglior sonoro: Dune

Miglior montaggio: Joe Walker (Dune)

Miglior colonna sonora: Hans Zimmer (Dune)

Miglior scenografia: Patrice Vermette e Zsusanna Sipos (Dune)

Miglior trucco e acconciatura: Linda Dowds, Stephanie Ingram e Justin Raleigh (Gli occhi di Tammy Faye)

Miglior corto animato: The Windshield Wiper

Miglior corto live action: The Long Goodbye

Miglior corto documentario: The Queen of Basketball

Redazione CdG 1947

Da open.online il 30 novembre 2022.

Nella sua prima apparizione televisiva dopo il violento episodio dello scorso marzo, l’attore 54enne ha dichiarato: «Quella era una rabbia che era stata covata per molto, troppo, tempo. Ma questo non giustifica il mio comportamento»

Will Smith, nella sua prima apparizione televisiva dopo lo schiaffo dato a Chris Rock durante la notte degli Oscar, ospite del programma The Daily Show con Trevor Noah, ha ripercorso quella che oggi definisce «notte orribile». Una volta tornato a casa, ha raccontato Smith, «il mio nipotino Dom, che ha nove anni ed è il ragazzino più dolce che esista al mondo era rimasto alzato fino a tardi per vedere lo zio Will che riceveva l’Oscar».

E l’attore 54enne ha aggiunto: «Quando eravamo seduti in cucina, con lui sulle mie ginocchia che teneva in mano la statuetta, mi ha chiesto "Perché hai picchiato quell’uomo, zio Will?"». Una domanda che, come spiegato dall’attore, ha fatto crescere in lui un «imbarazzo mai provato in tutta la vita». Nel corso dell’intervista, Smith ha spiegato: «Ci sono molte sfumature, ma alla fine della giornata ho perso il controllo. Stavo attraversando un momento difficile, ma questo non giustifica affatto il mio comportamento».

E Smith ha proseguito: «Dobbiamo solo essere gentili l’uno con l’altro, anche se ogni tanto è difficile. La cosa più dolorosa per me è che ho accumulato tutte le mie difficoltà, mettendo in difficoltà altre persone. Ho capito perché esiste quel modo di dire per cui "le persone ferite feriscono le altre persone"». L’attore, che dopo l’episodio è stato bandito per dieci anni dalla cerimonia dell’Academy, ha proseguito: «Capisco quanto sia stato scioccante per le persone: ero completamente andato, e quella era una rabbia che era stata covata per molto, troppo, tempo». E Will Smith, concludendo l’intervista, ha fatto accenno alla sua infanzia, sostenendo che abbia influito sull’aggressione: «Quello schiaffo era un sacco di cose: era il ragazzino che guardava suo padre mentre picchiava sua madre. Tutto quel passato è esploso in quel momento. Ma non è quello che voglio essere, non è l’uomo che voglio essere».

Will Smith colpisce Chris Rock sul palco degli Oscar, poi vince la statuetta come miglior attore protagonista per King Richard. Chiara Severgnini su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.

Smith ha colpito Chris Rock sul palco degli Oscar con quello che sembrava uno schiaffo o un pugno. Poco dopo, l’attore si è aggiudicato la statuetta come miglior attore protagonista per King Richard. Sul palco si è scusato: «L’amore fa fare cose folli». 

Prima il colpo sul volto a Chris Rock, poi il premio Oscar come miglior attore protagonista, infine le scuse all’Academy e le lacrime. Will Smith, 53 anni, ha vinto l’Oscar come migliore attore protagonista per la sua interpretazione in King Richard - Una famiglia vincente. 

Pochi minuti prima, Smith era stato protagonista di un alterco sul palco con il comico Chris Rock, uno dei presentatori della serata. Mentre Rock introduceva il premio per i documentari, ha fatto un commento sui capelli di Jada Pinkett Smith, moglie di Smith, affetta da alopecia. 

L’attore, visibilmente infastidito, si è alzato, ha raggiunto il comico sul palco e lo ha colpito. Poi è tornato al suo posto. Tra i due c'è poi stato uno scambio a distanza. «Era solo una battuta», ha detto Rock. «Tieni fuori mia moglie da quella f*****a bocca», gli ha gridato Smith.

Pochi minuti dopo, l'annuncio: Smith si è aggiudicato l'Oscar come miglior attore protagonista per aver interpretato Richard Williams, padre delle due campionesse di tennis Serena e Venus Williams, nel film diretto da Reinaldo Marcus Green. Si tratta della sua prima statuetta, ma in passato era già stato nominato per Alì (2001) e La ricerca della felicità (2006). Quest’anno, gli altri attori in lizza per il premio erano Javier Bardem (Being the Ricardos), Benedict Cumberbatch (Il potere del cane), Andrew Garfield (tick, tick...Boom!) e Denzel Washington (Macbeth).

Durante il suo discorso di ringraziamento per il premio Oscar, l’attore, in lacrime, ha chiesto scusa all’Academy e a tutti i colleghi e le colleghe presenti alla cerimonia, spiegando che «l’amore fa fare follie». «Richard Williams — ha detto Smith ricordando il padre delle sorelle Venus e Serena Williams, a cui è dedicato il film King Richard — era un difensore accanito della sua famiglia».

«In questo momento della mia vita sono sopraffatto da quello che Dio mi chiede di fare su questa terra. Sono stato chiamato nella mia vita ad amare le persone, a proteggere le persone ed essere un fiume per la mia gente. Ho dovuto proteggere Jade che è una delle donne più forti e delicate che ho mai incontrato. Io voglio essere un ambasciatore di questo tipo di amore, cura, attenzione», ha detto l’attore. Un discorso, il suo, a metà tra una richiesta di scuse e una autogiustificazione.

In serata, la polizia di Los Angeles ha fatto sapere che è a conoscenza dell'episodio ma che non si è attivata in merito, dato che, per il momento, Rock non ha sporto denuncia. «Se, in futuro, le persone coinvolte desiderassero un report investigativo sull'episodio, saremmo disponibili a realizzarlo», si legge in una nota delle forze dell'ordine citata da Reuters. L'Academy, tramite il suo account Twitter ufficiale, fa sapere che «non tollera la violenza in nessuna forma». Ma la polemica sembra inevitabile: Smith non è stato allontanato dopo aver aggredito Rock, anzi gli è stato permesso di salire sul palco e ritirare il premio. Una decisione che, secondo alcuni, di fatto equivale a una sorta di condono, da parte dell'Academy, del suo gesto violento.

Oscar 2022: il trionfo di «Coda», Jane Campion miglior regista. Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.

Tornata al Dolby Theatre la cerimonia della 94 esima edizione degli Academy Awards. Dalle star solidarietà con il popolo ucraino. Niente premi per gli italiani. 

Tre candidature, tre premi per I segni del cuore. Coda : miglior film, miglior sceneggiatura originale, miglior attore non protagonista. Edizione che resterà negli annali per diversi motivi, la 94 esima degli Academy Awards, a cominciare dalla vittoria del film arrivato come outsider, arrivato dal Sundance, storia di una famiglia di pescatori sordomuti del Massachusetts. È la prima volta di una piattaforma di streaming, Apple tv, a dispetto delle 27 candidature di Netflix.

Il trionfo di I segni del cuore. Coda è annunciato dalla vittoria di Troy Kotsur per I segni del cuore. Coda , il primo attore sordomuto a vincere un Oscar (la prima era stata Marlee Matlin, sua moglie nel film che Eagle pictures manderà in sala dal 31 dicembre), festeggiato dai colleghi con stand ovation e applausi nel linguaggio dei segni. Al film, remake della commedia francese La famiglia Bélier, anche l’Oscar per la sceneggiatura non originale, opera della regista Siân Heder.

Glamour, polemiche, noia e solidarietà. Anche una scena violenta nell’edizione che doveva invocare la pace. Non manca nulla alla 94esima edizione degli Oscar. La cerimonia è tornata in presenza, dal Dolby Theatre, con un terzetto di presentatrici, le attrici Regina Hall, Wanda Sykes e Amy Schumer che non perde occasione per lanciare una frecciata: «Quest’anno l’Academy ha voluto tre donne per presentare, costano meno di un uomo».

Storico anche il bis di Jane Campion, già Leone d’argento a Venezia 78, miglior regia per Il potere del cane dopo quello per la sceneggiatura di Lezioni di piano, la terza regista dopo Kathryn Bigelow per The Hurt Locker (2010) e Chloe Zhao, l’anno scorso, per Nomadland. Il miglior attore è Will Smith che vince il suo primo Oscar per King Richard. Una famiglia vincente, poco prima protagonista di uno scontro con Chris Rock, a cui ha sferrato un pugno per una battuta greve sulla moglie Jade. Ritira il premio in lacrime e fatica a dare un senso al suo discorso: «Voglio scusarmi con l’Academy e con gli altri candidati. Sono stato chiamato a amare le persone, a proteggerle, a essere un fiume per loro. So che per fare quello che facciamo bisogna essere in grado di prendere, di accettare chi in questo settore non ti porta rispetto, sorridendo e facendo finta che tutto vada bene. Voglio essere un messaggero di amore». Ma il suo pugno al collega, intanto, fa il giro del mondo.

Tra le donne vince Jessica Chastain (Gli occhi di Tammy Faye), è la sua prima statuetta alla terza nomination. Attrice non protagonista, come previsto è Ariana DeBose per West Side Story di Steven Spielberg, per il ruolo di Anita per cui 60 anni fa vinse Rita Moreno che rivendica il suo essere «la prima donna di colore apertamente omosessuale». Niente bis per Paolo Sorrentino : il miglior film internazionale è Drive my car di Ryûsuke Hamaguchi. L’Italia resta a mani vuote: era arrivata con tre candidati: oltre a Sorrentino per È stata la mano di Dio, Massimo Cantini Parrini per i costumi di Cyrano (vinti da Cruella) e Enrico Casarosa per l’animazine di Luca, a cui i giurati hanno preferito Encanto. Kenneth Branagh vince il suo primo Oscar per la sceneggiatura di Belfast. Miglior documentario è Summer of soul. Miglior canzone è No Time to Die cantata da Billie Eilish e Finneas O’Connell. Prima dell’inizio della diretta erano già state consegnate otto delle 23 statuette previste, le tre dei corti e cinque tecniche (montaggio, colonna sonora, sonoro, e scenografia conquistate da Dune di Denis Villenueve che vince anche per la fotografia e effetti speciali, e trucco e acconciatura che va a Gli occhi di Tammy Fa ye). Scelta della produzione molto contestata dagli addetti ai lavori, considerata una mancanza di rispetto.

Come ci si aspettava l’Academy non può ignorare il dramma in corso in Ucraina, occupata dalle truppe russe. Nessun collegamento con il presidente ucraino Zelensky. La cerimonia si ferma per un minuto di silenzio — seguito alla presenza sul palco dell’attrice di origine ucraine Mila Kunis che ha detto: «nelle ultime settimane, il mondo è rimasto scioccato da un’invasione non provocata e da un atto di aggressione» — in cui sullo schermo nero è apparsa la scritta che invitava a dare «supporto al popolo dell’Ucraina che sta affrontando invasione, conflitti e pregiudizi all’interno dei propri confini». E già dal red carpet dalle star di Hollywood arrivano messaggi di solidarietà al popolo ucraino. Diversi attori, tra cui Luisa Ranieri e Paolo Sorrentino, mostrano un nastro blu con la scritta «Con i rifugiati».

Tutti i premiati

Miglior film

I segni del cuore (Coda)

Miglior regia

Jane Campion (Il potere del cane)

Miglior attore

Will Smith (King Richard. Una famiglia vincente)

Miglior attrice

Jessica Chastain (Gli occhi di Tammy Faye)

Miglio attrice non protagonista

Ariana DeBose (West Side Story)

Miglior attore non protagonista

Troy Kotusr (Coda)

Miglior film internazionale

Drive my car di Ryûsuke Hamaguchi

Miglior sceneggiatura originale

Kenneth Branagh (Belfest)

Miglior sceneggiatura non originale

Siân Heder (I segni del cuore. Coda)

Miglior documentario

Summer of Soul (...Or, When the Revolution Could Not Be Televised) di Ahmir Questlove Thompson, Joseph Patel, Robert Fyvolent e David Dinerstein

Migliori costumi

Jenny Beavan (Cruella)

Miglior fotografia

Greig Fraser (Dune)

Migliori effetti speciali

Paul Lambert, Tristan Myles, Brian Connor e Gerd Nefzer (Dune )

Miglior film di animazione

Jared Bush, Byron Howard, Yvett Merino e Clark Spencer (Encanto)

Miglior canzone

No Time to Die (No Time to Die), Billie Eilish, Finneas O’Connell

Miglior sonoro

Dune

Miglior montaggio

Joe Walker (Dune)

Miglior colonna sonora

Hans Zimmer (Dune)

Miglior scenografia

Patrice Vermette e Zsusanna Sipos (Dune)

Miglior trucco e acconciatura

Linda Dowds, Stephanie Ingram e Justin Raleigh (Gli occhi di Tammy Faye)

Miglior corto animato

The Windshield Wiper

Miglior corto live action

The Long Goodbye

Miglior corto documentario

The Queen of Basketball

Da corrieredellosport.it il 28 aprile 2022.

Non è stata tutta rose e fiori la vita di Jada Pinkett, la moglie di Will Smith. Nel 2019 - ben prima dello schiaffo che l'attore ha dato a Chris Rock durante gli Oscar 2022 - l'attrice ha raccontato di aver vissuto dei momenti molto difficili a causa di varie dipendenze. Prima l'alcol e il sesso, poi la droga e la ponografia.

"Ho avuto diversi tipi di dipendenze. Cambiavano di volta in volta. Quando ero più giovane, ero dipendente dal sesso. Pensavo che il sesso fosse la soluzione a tutto. Capite quello a cui mi riferisco? Fare tanto sesso è ottimo, ma perché io volevo farlo in continuazione? Era quello l’aspetto da monitorare", ha confidato. 

Le dipendenze di Jada Pinkett Smith

Jada Pinkett Smith ha dovuto fare i conti pure con la droga: sua madre faceva uso abituale di eroina. L'attrice ha provato ogni tipo di sostanza fino a quando non ha deciso di smettere. Ha cercato di disintossicarsi iniziando a vedere filmini a luci rosse. Peccato che questo abbia portato ad una nuova dipendenza... 

"Avevo un rapporto malsano con certi video. All'epoca non avevo relazioni con uomini, stavo attraversando un periodo di astinenza. Dovevo colmare un vuoto", ha ammesso. L'incontro con Will Smith, avvenuto nel 1995, ha cambiato tutto: "Will è arrivato nella mia vita quando avevo più bisogno di lui. Questo non può essere un caso". La coppia si è sposata nel 1997 e ha avuto due figli.

La malattia di Jada Pinkett Smith, moglie di Will Smith: che cos’ha. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.

L’attrice americana convive dal 2018 con l’alopecia. Ne ha parlato apertamente, spiegando di aver anche imparato a riderne. 

Con una battuta infelice durante la cerimonia di consegna dei premi Oscar, il comico Chris Rock ha fatto riferimento alla testa rasata dell’attrice Jada Pinkett Smith, scatenando l’ira del marito Will Smith: «Lascia il nome di mia moglie fuori dalla tua fottuta bocca», gli ha intimato l’attore, prima di tirargli un pugno in diretta tv che ha lasciato di stucco tutti i presenti. Chris Rock aveva detto di non vedere l’ora di vedere Pinkett Smith in «Soldato Jane 2», rievocando il film in cui Demi Moore si arruola in marina e si rasa la testa a zero.

Il motivo per cui Pinkett Smith porta i capelli rasati, però, è dovuto a una malattia, cioè alla diagnosi di alopecia di cui l’attrice stessa, 50 anni, ha parlato a partire dal 2018: «Mi hanno fatto un sacco di domande sul perché io porti il turbante, la risposta è che ho un problema di perdita di capelli», aveva detto in quel periodo, raccontando per la prima volta del problema. L’alopecia è una malattia autoimmune che porta al diradamento dei capelli o dei peli, lasciando delle aree glabre.

Pinkett Smith aveva spiegato che la scoperta iniziale della malattia era stata spaventosa: «Ho visto i capelli nella doccia, sono rimasta con una ciocca in mano, e ho temuto di diventare calva. È stato uno di quei momenti nella vita in cui ho veramente tremato dalla paura. Per questo motivo continuavo a tagliare i capelli che prima invece erano i protagonisti di un mio rituale di bellezza».

Con il tempo, però, la star americana, sposata con Will Smith dal 1997, ha detto di avere imparato a convivere con l’alopecia e anche a scherzarci su: «Mi raso fino al cuoio capelluto, altrimenti sembra che sia stata operata alla testa, o qualcosa del genere», ha raccontato in un video pubblicato sulla sua pagina Instagram. «Credo proprio che io e l’alopecia diventeremo amiche. A questo punto posso solo riderne». Certo, un conto è che sia lei a scherzarci su, un conto è che lo faccia qualcun altro.

Che cos’è l’alopecia, il disturbo di cui soffre Jada Pinkett Smith. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.

Le caratteristiche e come si fa la diagnosi. Le prospettive di terapia e le altre patologie che portano a calvizie ma sono differenti. 

Che cos’è e chi colpisce l’alopecia, il disturbo di cui soffre la moglie di Will Smith, Jada Pinkett Smith? 

L’alopecia areata è una malattia dovuta a una disfunzione del sistema immunitario che non riconosce più i follicoli, li considera «nemici» e dunque li attacca e ne blocca l’attività. 

Colpisce il 2% della popolazione, uomini e donne.

Nell’alopecia areata c’è la caduta dei capelli (nelle fasi attive della malattia anche più del 30% del totale) e a volte anche dei peli di altre parti del corpo (ciglia, sopracciglia, barba).

Può essere a chiazze (con zone prive di capelli o peli), totale (quando la perdita si manifesta in tutto il cuoio capelluto), universale (se cadono tutti i capelli e i peli del corpo). Anche in caso di alopecia areata, e nelle forme più gravi, spesso la ricrescita dei peli può avvenire senza alcun trattamento, in particolare entro un anno dall’inizio della malattia (percentuale di guarigione fra il 34 e il 50%). 

L’alopecia femminile in Italia colpisce circa quattro milioni di donne, specialmente dopo la menopausa, quando l’assetto ormonale cambia e i capelli si assottigliano e cadono sempre di più. 

Per la diagnosi nelle donne, un tempo il marcatore principale utilizzato era l’iper-androgenismo (l’eccesso di ormoni maschili), in realtà si è scoperto che l’alopecia femminile può essere presente anche con livelli normali degli ormoni maschili. Lo specialista di riferimento è comunque il dermatologo. 

Nell’alopecia areata è presente una forte predisposizione genetica e ne possono soffrire anche i bambini. 

Come terapia, si può scegliere tra medicinali che agiscono sulla componente autoimmune dell’alopecia areata (come i corticosteroidi) o tra principi attivi che possono favorire la ricrescita di peli e capelli (minoxidil, antralina). Vi sono anche sostanze che sensibilizzano la cute inducendo reazioni eczematose nell’area trattata (difenciprone, acido squarico). Nel paziente pediatrico trova scarsa indicazione e applicazione l’immunoterapia topica. Sono allo studio farmaci biologici promettenti, i cosiddetti JAK-inibitori, che potranno avere un utilizzo sia topico che sistemico. 

Qualsiasi cura dev’essere protratta per almeno 9-12 mesi prima di poterne valutare l’efficacia. 

Anche a seguito di un cancro accade che ci sia una calvizie più o meno pronunciata, in alcuni casi per colpa degli effetti diretti delle terapie sui follicoli piliferi, in altri anche solo a causa del forte stress a cui si è sottoposte. Uno dei farmaci impiegati a questo scopo è lo spironolattone, a lungo sotto la lente dei ricercatori per gli effetti estrogeno-simili che hanno fatto dubitare della sua sicurezza nelle pazienti con tumore al seno. Ora una ricerca pubblicata sul Journal of the American Academy of Dermatology sembra autorizzare alla tranquillità nell’uso di questo farmaco. 

La caduta dei capelli può essere dovuta ad altre cause: ad esempio il cosiddetto «telogen effluvium» e l’alopecia «androgenetica», la classica calvizie. 

Il «telogen effluvium» è una perdita intensa e generalizzata (fino al 20-30% del totale dei capelli), spesso estesa all’intero cuoio capelluto, che colpisce quasi esclusivamente le donne. Spesso è però seguita dalla ricrescita. Un caso tipico è quello del post-partum: durante la gravidanza l’aumentata produzione di estrogeni favorisce l’attività dei follicoli che, dopo il parto, non sono invece più stimolati. Inoltre durante l’allattamento aumenta la prolattina, un ormone che indebolisce ulteriormente i capelli. Un altro periodo a rischio è quello della menopausa, per lo squilibrio ormonale che si viene a creare. Vi sono poi, soprattutto nelle donne, forme di telogen cronico che non sono semplici periodi di caduta protratta ma vere alterazioni nella dinamica del ciclo del capello: ne consegue un impoverimento della massa, spesso con accentuazione della stempiatura. Per diagnosticare il telogen ci si sottopone a un esame chiamato tricogramma, tramite il prevede di capelli, che vengono poi distinti in base alla fase del loro ciclo di vita: anagen (crescita), catagen (involuzione) e telogen (riposo). Se la percentuale di telogen supera il 20% si può parlare di «telogen effluvium». 

L’alopecia «androgenetica» è appunto la calvizie più tipica degli uomini ed è irreversibile. In questo caso i follicoli si rimpiccioliscono e dunque i capelli si assottigliano, in particolare sulla fronte e sulle tempie. Questo fenomeno, in forma lieve, è molto frequente con l’avanzare dell’età, anche nelle donne. L’alopecia androgenetica colpisce circa il 70% degli uomini e il 40% delle donne, soprattutto dopo la menopausa: negli uomini si manifesta con la perdita di capelli sulla parte alta della testa (che spesso rimane completamente calva), nelle donne c’è un diradamento generalizzato.

Alopecia, cos'è e come riconoscere la malattia della moglie di Will Smith. Novella Toloni il 28 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'alopecia è una patologia infiammatoria in varie forme e gradi, che colpisce i follicoli portando alla perdita di capelli e anche peli.

Negli ultimi tempi pare che servano grandi nomi per portare all'attenzione del pubblico alcune malattie di cui si sente parlare poco, ma che in realtà colpiscono milioni di persone. È il caso dell'alopecia, una malattia autoimmune che porta al diminuzione parziale o totale dei capelli o dei peli.

La scenata fatta da Will Smith alla serata degli Oscar - per difendere la moglie Jada Pinkett Smith affetta da alopecia - ha puntato gli obiettivi su una problematica, che colpisce non solo gli uomini ma anche le donne con percentuali crescenti. Secondo un recente studio di Sanders, infatti, 4 milioni di italiane soffrono di alopecia (una donna su quattro) con incidenza maggiore - a seconda della tipologia - nelle donne in menopausa.

Ma cos'è l'alopecia e in cosa si differenza dalla più comune calvizie? I due termini vengono spesso confusi e in realtà sono molto simili. Il termine calvizie viene utilizzato principalmente per definire il processo di perdita dei capelli per lo più in età avanzata e in aree localizzate del cuoio capelluto. L'alopecia, invece, può colpire anche in età molto giovane, evolversi a chiazze sparse (interessando anche la peluria), ma soprattutto comporta la perdita di capelli a ciocche.

Le forme sono numerose e tutte differenti tra loro. Principalmente si dividono in alopecia non cicatriziale (le più diffuse) e cicatriziali (che si scatenano da malattie rare come lupus, porocheratosi di Mibelli o epidermoliosi bollosa distrofica). Le forme più comuni sono: l'alopecia androgenetica (che riguarda solo i capelli delle zone frontali e superiori del capo), l'alopecia areata (che si manifesta con chiazze glabre generalizzate), l'alopecia areata totale (con la caduta di tutti i capelli) e l'alopecia areata universale (che riguarda la caduta di tutti i peli del corpo).

Le cause sull'origine dell'alopecia sono ancora poco conosciute ma gli studi puntano l'attenzione su cinque fattori scatenanti: genetico; psicologico (da stress o evento traumatico); nutrizionale (carenza di proteine, vitamine o minerali), biologico (da diidrotestosterone) o immunologico (diminuzione delle difese immunitarie o malattie autoimmuni). A definire la tipologia e la progressione della malattia sono le scale di Hamilton-Northwood (per gli uomini) e di Ludvig (per le donne).

Come riconoscere l'alopecia

Trattandosi di una patologia infiammatoria cronica che interessa i follicoli, l'alopecia può colpire anche in età giovane, costituendo un serio inestetismo soprattutto per le donne. La forma più diffusa in questo caso è l'alopecia areata, che si manifesta con la caduta improvvisa dei capelli - spesso a ciocche - e principalmente a chiazze sparse. Difficilmente si hanno sintomi di allarme o dolore, salvo in alcuni casi in cui la perdita è anticipata da prurito. L'evolversi della patologia è soggettivo. In alcuni soggetti può essere rapida in altri, invece, può avanzare più lentamente. Il disturbo, inoltre, ha un andamento imprevedibile (e riconoscibile solo dopo un attento esame medico, che ne valuta il grado) tanto che in alcuni casi si risolve spontaneamente, mentre in altri casi si hanno recidive.

Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti” il 29 marzo 2022.

L'Academy che assegna i Premi Oscar ha condannato pubblicamente lo schiaffo che, l'altra notte, Will Smith ha rifilato al presentatore Chris Rock durante la cerimonia. 

«L'Academy non perdona la violenza in nessuna forma», hanno scritto su Twitter. A scatenare le ire di Will Smith (poi premiato con l'Oscar per migliore attore) è stata un'infelice battuta di Rock sul taglio dei capelli della moglie, Jada Pinkett Smith, che soffre di alopecia. Questa la battuta «Ti stai preparando per il sequel del film Soldato lane?». 

Dopo lo schiaffo, tornato a sedere visibilmente infuriato, Smith ha urlato due volte a Rock: «Tieni fuori il nome di mia moglie dalla tua fottuta bocca!»

«Un gesto apparentemente fuori copione», ha scritto il New York Times, lasciando trapelare comunque l'ipotesi che si sia trattato di una gag preparata. Ipotesi che è stata avanzata da molti media.

• «Dietro l'aggressione di Smith a Rock si nasconderebbe anche della vecchia ruggine. Nel 2016, sempre durante la notte degli Oscar, Rock aveva fatto riferimento alla signora Smith nel suo monologo d'apertura. Allora Jada Smith aveva deciso di boicottare la serata di premiazione dopo l'esclusione del marito dalle nomination per l'interpretazione di Concussion. "Jada che boicotta gli Oscar è come se io boicottassi le mutandine di Rihanna: non sono stato invitato!" aveva detto Rock» [Messina, CdS].

• Chris Rock non ha denunciato Smith alla polizia per lo schiaffo. Ma ha sei mesi di tempo per cambiare idea. In tal caso, l'attore rischierebbe una condanna fino a sei mesi di prigione e a una multa fino a centomila dollari. 

• Com'era inevitabile in Tv e sul web è stato lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock a monopolizzare l'attenzione del pubblico. Ma per l'industria del cinema la notizia più importante venuta dalla cerimonia di consegna degli Oscar è stata la vittoria di Apple TV+, il distributore di CODA, il film di Sian Heder che si è aggiudicato lo statuetta per il Miglior film. La produzione franco-statunitense ha battuto il favorito Il potere del cane (distribuito dalla rivale Arefflix) che ha vinto una sola statuetta (Miglior regista, ane Campion) nonostante ben 12 nomination [Sole].

Da ilgiorno.it il 29 marzo 2022. 

Continua il mea culpa pubblico di Will Smith, l'attore premio Oscar che ha mollato un ceffone in piena faccia al comico Chris Rock durante la Notte delle Stelle per una battuta infelice sull'alopecia della moglie, Jada Pinkett-Smith. "Vorrei scusarmi pubblicamente con te, Chris - scrive Smith su Instagram all'indomani dell'incidente - Ero fuori dai gangheri e ho sbagliato. Sono imbarazzato e le mie azioni non erano rappresentative dell'uomo che voglio essere. Non c'è posto per la violenza in un mondo di amore e gentilezza". 

L'Academy, che assegna gli Oscar, valuta provvedimenti nei suoi confronti. Sembra che si stia valutando l'esclusione di Smith dai membri della stessa Academy ma non il ritiro del premio come miglior attore protagonista che gli è stato assegnato domenica (poco dopo la scazzottata) per "Una famiglia vincente" in cui interpreta Richard Williams, padre delle tenniste Venus e Serena.

Le scuse di Smith vanno quindi anche all'istituzione cinematografica: "Vorrei anche scusarmi con l'Academy, i produttori dello spettacolo, tutti i partecipanti alla cerimonia e tutti quelli che l'hanno vista in tutto il mondo. Vorrei scusarmi con la famiglia Williams e la mia famiglia di "King Richard" (il titolo originale del film, ndr).

Sono profondamente dispiaciuto che il mio comportamento abbia macchiato quello che è stato un viaggio altrimenti meraviglioso per tutti noi", conclude Smith che si definisce "un lavoro in corso".

Gloria Satta per “il Messaggero” il 29 marzo 2022. 

Può costare carissimo, a Will Smith, il ceffone assestato a Chris Rock in mondovisione: l'attore 53enne, fresco di Oscar per il film Una famiglia vincente - King Richard, rischia una sanzione e addirittura la sospensione dall'Academy. O, nello scenario peggiore, il ritiro della sua prima statuetta. 

Anche se il comico, che aveva scherzato sull'alopecia di Jada Pinkett Smith, la moglie del premiato («E ora mi aspetto di vedere Soldato Jane 2», ha detto alludendo alla testa rasata di Demi Moore), non ha denunciato per ora l'aggressione, risparmiando al collega le manette e la galera fino a sei mesi. 

Ma l'Academy si è affrettata a prendere le distanze dall'episodio che continua a far parlare il mondo intero e ha inesorabilmente oscurato i premi e i premiati: «L'Academy non perdona la violenza in nessuna forma», ha twittato a caldo l'organizzazione che nel 2017, dopo l'esplosione del movimento #MeToo, si è data delle nuove regole. Che parlano chiaro: «Non c'è posto per le persone che abusano del loro status, potere o influenza in un modo che viola gli standard di decenza».

Ma riavvolgiamo il film della serata più turbolenta, senza precedenti, nella storia quasi centenaria dell'Oscar. Verso la fine della cerimonia (in Italia sono passate le cinque del mattino) e pochi minuti prima che l'Oscar venga consegnato al protagonista di Una famiglia vincente - King Richard, Rock spara la famigerata battuta. 

Smith si alza dal suo posto in prima fila e colpisce il collega. Sul momento tutti pensano che sia uno sketch concordato. Ma quando l'aggredito fa per reagire, Will gli urla: «Tieni fuori il nome di mia moglie dalla tua fottutissima bocca». 

Gelo in sala, si capisce che non è una gag. Ma nessuno interviene, tantomeno il produttore dello show Will Packer: l'unico, con i contabili della Price Watarhouse Cooper che ha elaborato i voti, a sapere che l'attore sta per ricevere la statuetta. Durante la pausa pubblicitaria, Will viene raggiunto dall'affannatissima addetta stampa Meredith O. Sullivan, poi da Denzel Washington che, uomo notoriamente pio, gli elargisce un'ammonizione di sapore biblico: «Nel momento più alto, fai attenzione: è lì che il diavolo viene a prenderti».

Arriva il momento dell'Oscar e Smith, vincitore dopo tre nomination (le aveva avute anche per Alì e per La ricerca della felicità di Gabriele Muccino) ritira il premio tra le lacrime arrotolandosi in un fiume di parole. «Voglio scusarmi con l'Academy», dice e tira in ballo il suo personaggio Richard Williams, il padre-mentore delle tenniste Vanessa e Serena Williams: «Era un feroce difensore della famiglia.

In questo momento della mia vita, sono sopraffatto da ciò che Dio vuole che io faccia e che io sia in questo mondo... mi viene chiesto di amare la gente, e proteggerla... Voglio essere un veicolo per l'amore. 

E l'amore fa fare cose assurde». Ancora: «In questo business, bisogna accettare che le persone ti manchino di rispetto...». Ci siamo. L'attore allude proprio a Chris Rock con cui esiste una ruggine antica: nel 2016, presentando gli Academy in piena protesta #OscarSoWhite, il comico prende di mira sempre la povera Jada che proponeva il boicottaggio della cerimonia.

E va giù pesante: «È come se io boicottassi le mutande di Rihanna: mica sono stato invitato!». Finisce là, ma questa volta Smith ha usato le mani proprio in una serata in cui si condannava, con un minuto di silenzio e le coccarde anti-war, la violenza dei russi contro l'Ucraina. E mentre l'attore diserta la tradizionale conferenza stampa post-premiazione, sulla rete si scatenano le reazioni.

Più di condanna che di comprensione. Mentre Mia Farrow minimizza («Era solo uno scherzo») e Maria Shiver posta «l'amore non è violento», il commento più frequente è «imperdonabile». Will è difeso dal figlio Jaden, che sgancia un tweet, altrettanto imperdonabile, di solidarietà maschilista: «È così che si fa». 

Prende invece le distanze Gabriele Muccino che, pur non essendo stato tenero con l'interprete dei suoi film La ricerca della felicità e Sette anime nel suo libro autobiografico, questa volta aveva fatto il tifo perché vincesse l'Oscar: e ora è «sbigottito e affranto, la famiglia per lui non si tocca e l'alopecia di Jada è un problema serio». Il regista twitta: «Mi dispiace enormemente per come Will sia riuscito a rovinare la serata più importante della sua vita.

Nessuno sa i pregressi di quel nervo tanto scoperto da fargli perdere così il controllo. Il fatto che sia inciampato mi addolora».

Nel 1991, Vittorio Sgarbi beccò un ceffone in diretta tv da Roberto D'Agostino. «Fu un atto violento», afferma il critico d'arte, «perché la nostra discussione poteva sfociare nello scherzo. Smith invece non lo è stato. Se durante la cerimonia degli Oscar un cretino prende in giro tua moglie malata, fai bene a dargli uno schiaffo». 

Sullo stesso tono il fondatore di Dagospia: «Con il suo schiaffo Smith ha voluto esprimere il suo disprezzo verso Chris Rock che ha infamato e oltraggiato sua moglie: non è violenza», dice D'Agostino, «l'attore ha difeso la sua famiglia».

Barbara Visentin per corriere.it il 29 marzo 2022. 

Sposati dal 1997, Will Smith e la moglie Jada Pinkett Smith sono una delle coppie più longeve di Hollywood. Entrambi attori, si sono sempre mostrati uniti e insieme sedevano anche alla cerimonia degli Oscar, prima del gesto impulsivo e violento con cui Smith ha colpito il comico Chris Rock, colpevole di una battuta infelice sulla moglie (poco dopo è stato premiato come miglior attore protagonista per «Una famiglia vincente - King Richard»). Il loro matrimonio, negli anni, ha attraversato alti e bassi ed è stato più volte al centro delle cronache e dei gossip, anche per le scelte più o meno discutibili dei due attori.

Will e Jada si sono conosciuti nel 1994 sul set di «Willy, il principe di Bel-Air»: l’attrice aveva fatto il provino per il ruolo della fidanzata di Willy, Lisa Wilkes, ma non era stata presa perché considerata troppo bassa (è alta 1 metro e 52, contro 1 metro e 88 di lui). I due hanno iniziato a frequentarsi qualche anno dopo e, quando si sono sposati, il 31 dicembre 1997, lei era in attesa del loro primo figlio Jaden, nato nel 1998. La coppia ha poi avuto la figlia Willow nel 2000 e Pinkett Smith è anche diventata madre adottiva di Trey Smith, primogenito di Will nato dal precedente matrimonio. Se Willow è conosciuta soprattutto per la sua ascesa nel mondo della musica, di Jaden, attore e rapper, è noto anche un periodo difficile a causa di problemi alimentari: improvvisatosi vegano, vittima poi di forte stress, aveva perso molto peso, tanto che i genitori sono dovuti intervenire.

Jada Pinkett Smith, classe 1971, ha una ricca carriera nell’entertainment. Eletta dal magazine «Time» una dei 100 personaggi più influenti al mondo nel 2021, ha recitato nella sitcom degli anni 90 «A different world», in vari episodi di «The Matrix» (dove interpreta Niobe), nella serie «Gotham» e in una miriade di altri film e serie tv. Ha cantato e scritto canzoni per il gruppo metal Wicked Wisdom, ha scritto un libro (bestseller) per bambini e con il marito ha una casa di produzione.

Accanto ai successi professionali, la coppia Smith è conosciuta anche per le vicissitudini private, a partire dai presunti legami con Scientology, da entrambi smentiti: in particolare, a far discutere è stata una loro ingente donazione a un istituto scolastico con un sistema educativo collegato almeno in parte ai dettami dell’organizzazione. Le speculazioni su una loro affiliazione con Scientology sono nate anche per l’amicizia stretta fra Will Smith e Tom Cruise, uno dei membri di spicco del movimento fondato da L. Ron Hubbard. Smith ha poi voluto mettere a tacere i rumors spiegando di essere cristiano ma interessato a tutte le religioni. E altrettanto ha fatto la moglie.

I due sono stati al centro del gossip anche per un tradimento di Pinkett Smith (che qualche anno fa ha rivelato anche di soffrire di alopecia, motivo dell’infelice presa in giro di Chris Rock): dopo aver a lungo negato la relazione, durante il Red Table Talk (format che conduce su Facebook), Jada ha ammesso di aver avuto un flirt con il rapper August Alsina, 21 anni meno di lei, conosciuto tramite il figlio Jaden e accolto in casa per qualche mese. Ha spiegato che in quel periodo lei e il marito erano separati in casa e ha detto di aver avuto bisogno di sentirsi bene. Will Smith è stato comprensivo sull’accaduto, ammettendo le sue responsabilità nella crisi di coppia che è poi rientrata. Da allora, i due hanno rivelato di aver aperto il matrimonio e di aver detto basta alla monogamia.

Da repubblica.it il 28 marzo 2022.

Will Smith è stato il protagonista della notte degli Oscar 2022 prima per aver colpito sul volto Chris Rock e poi per aver ricevuto il suo primo Oscar come attore protagonista per l'interpretazione di 'King Richard'. Secondo alcuni media Usa, tuttavia, il gesto sarebbe stato preparato a tavolino e non era una reazione in difesa della moglie, Jade Pinkett Smith.

La tesi di chi dubita si basa sulle seguenti incongruenze: Will Smith che ride dopo la battuta di Chris Rock (mentre la moglie sembra seccata), sembra che lo schiaffo non sia avvenuto ed è poco crdibile la gestualità e l'audio del colpo, e il sorriso sul volto dell'attore subito dopo aver preso a schiaffi il comico. Ecco i momenti estrapolati dal video della premiazione.

Ottavio Cappellani per mowmag.com il 28 marzo 2022.

L’alopecia di Jada Pinkett Smith è solo di Jada Pinkett Smith? Anche se Jada Pinkett Smith ha fatto un video, pochi mesi fa, per mostrare al mondo la sua alopecia e, quindi, farne discutere? È una questione di diritti dell’immagine calva? O si possono prendere in giro solo gli uomini calvi? 

Si dirà: Will Smith tiene molto al pelo rasato di sua moglie, ma solo in alcune zone. Non ci risulta che abbia preso a pugni August Alsina, che ha parlato di qualcosa di ben più intimo, la relazione avuta con la moglie di Smith, confermando inelegantemente quello che, in quel momento, era solo un gossip senza fondamento. Probabilmente, Jada Pinkett Smith, lì sotto non si rasa.

Insomma a Will Smith puoi dargli del cornuto (lo ha fatto prima Alsina e poi sua moglie stessa svelandogli, in diretta, il suo tradimento), ma non puoi dire che sua moglie ha un taglio di capelli alla “Soldato Jane”. E in questo caso, il pugno, non spettava forse a Jada Pinkett Smith sferrarlo? 

Ascoltate: lo so che sono tantissime donne innamorate di questo gesto cavalleresco di Will Smith che mette in pericolo l’Oscar per salvare la moglie, da cosa? Da una battuta? 

O la coppia Smith è convinta davvero che il tradimento, l’alopecia, il sesso a tre che Jada Pinkett Smith ha ammesso di avere fatto dinanzi alla loro figlia, rigorosamente in diretta, siano argomenti che, se vengono da Jada Pinkett Smith, debbano essere trattati soltanto in maniera seriosa, annuendo profondamente, come se le esperienze di vita della coppia Pinkett-Smith fossero in qualche modo ammantati di un’aura sacrale, mentre sono solo trasmissioni in cui Jada Pinkett Smith parla un po’ dei cazzi suoi e molto dei cazzi degli altri (si parla molto di cazzi, nella trasmissione di Jada Pinkett Smith, che si intitola, non a caso Red Table Talk).

Sono molti gli interrogativi che suscita questo gesto. 1) Il rapporto conflittuale tra Will Smith e il pelo di sua moglie. 2) Si può picchiare un comico e, nel caso si potesse, chi deve farlo? 3) Jada Pinkett Smith è una gatta morta? 4) Si può dire a una donna che è una gatta morta? 

Elisa Messina per corriere.it il 28 marzo 2022.

«Un gesto apparentemente fuori copione». Così il New York Times stamani definisce lo schiaffo dato da Will Smith a Chris Rock durante la diretta degli Oscar dopo che l’attore ha fatto una battuta (infelice, va detto) sull’alopecia della moglie Jada Pinkett Smith.

«Apparentemente»: un avverbio che insinua un dubbio e anima il dibattito, almeno nei social americani e nei talk televisivi del mattino. Qualcosa di cui parlare, dopo un’edizione degli Academy Awards giudicata da molti una delle peggiori di sempre. La «quasi rissa» tra Smith e Rock era una gag prevista da due amici di vecchia data per animare la serata oppure va a inserirsi nell’elenco storico degli imprevisti capitati durante la premiazione?

Commentatori, cronisti e influencer si scaldano riguardando il video della scena dell’aggressione in time laps, analizzano le espressioni facciali di Smith, di Pinkett, ma pure quelle dei loro vicini di posto per capire se c’era qualcosa sotto: lui, Will, che in un primo momento ride alla battuta, mentre la moglie alza gli occhi al cielo è uno degli argomento dei sostenitori del «Will Smith ha fatto tutto da solo». Mentre la spensieratezza di Will e Jada che ballano scatenati all’afterparty di Vanity Fair , è letta, dal britannico Daily mail, per esempio, come una prova che si sia trattato di una sceneggiata.

«Tieni fuori il nome di mia moglie dalla tua fottuta bocca!» è stata la battuta - ripetuta ben due volte da Smith - che ha seguito lo schiaffo (in quel momento la tv america ha tolto l’audio). Alterato, l’attore lo era davvero, tanto che Denzel Washington e Bradley Cooper si sono precipitati a calmarlo. Mentre altre star, intorno, sbarravano gli occhi incredule. Guardare la faccia di Lupita Nyong’o per credere. Se sono interpretazioni, sono da Oscar.

Ma ci sono altri retroscena che aiutano a far luce sui fatti: dietro l’aggressione di Smith a Rock, in verità, si nasconderebbe anche della vecchia ruggine. Nel 2016, sempre durante la notte degli Oscar, Rock aveva fatto riferimento alla signora Smith nel suo monologo d’apertura. Jada Smith aveva deciso di boicottare la serata di premiazione dopo l’esclusione del marito dalle nomination per l’interpretazione di «Concussion». «Jada che boicotta gli Oscar è come se io boicottassi le mutandine di Rihanna: non sono stato invitato!» aveva detto Rock. E non aveva risparmiato neanche «l’amico» Will Smith: «Non è giusto che Will, così bravo, non sia stato inserito in nomination. Ma è anche ingiusto che Will sia stato pagato 20 milioni per Wild Wild West» facendo rifermento al film flop per il quale il divo aveva ottenuto un ingaggio record.

Non solo: lo status di coppia solida ma «aperta» di Smith e Pinkett, una delle più potenti e influenti a Hollywood, ha provocato spesso battute border line tra il gossip e l’ironia. Persino aldiqua dell’Oceano. Rebel Wilson durante dell’ultima edizione dei Bafta, i premi della British Academy Film Awards, gli Oscar britannici, disse: «Penso che la miglior performance di Will Smith negli ultimi anni sia stata fare buon viso davanti a tutti i fidanzati di sua moglie». Insomma, per il divo di «Io sono leggenda» si tratterrebbe di nervosismo accumulato per anni. Che è esploso nel momento sbagliato. E qualcuno, come l’attore e regista Rob Riner, chiede ora, addirittura, che a Will Smith sia tolto l’Oscar: «Le scuse e le lacrime nel suo discorso di ringraziamento non valgono nulla, dovrebbe chiedere scusa a Chris Rock».

Comunque la si voglia leggere, in famiglia Smith hanno applaudito al gesto: «Così si fa!» ha twittato Jaden, il figlio 23enne della coppia. Compiaciuta anche Serena Williams (il film per cui Smith ha vinto l’Oscar, King Richard, racconta la storia della sua famiglia) e il rapper 50cent. Per un mondo attentissimo al politically correct, come quello dello star system americano, è un curioso cortocircuito.

Convinto che il gesto di Smith sia del tutto impulsivo è stato, fin da subito, Gabriele Muccino, il regista che lo ha diretto in »Alla ricerca della felicità» e in «Sette anime» pensa che l’amico abbia rovinato la serata più bella della sua vita: in effetti tutti si ricorderanno del ceffone piuttosto che del fatto che Smith ha portato a casa l'ambita statuetta dopo trent'anni di carriera e due nomination. «Lui sa sempre come uscire da ogni situazione. Il fatto che sia inciampato mi addolora» 

Il lato divertente di tutto ciò? Quei quatto-cinque secondi di «arrivo, schiaffo e ritorno al posto» sono diventati un meme indimenticabile.

Il lato desolante? Del fatto che Smith è stato il quinto attore di colore nella storia del cinema a vincere un Oscar resterà solo un (brutto) meme. E ora le parole «Smith» e «punch» sono più cercate di «Smith» «Oscar»

Dagotraduzione dal Daily Mail il 28 marzo 2022.

Will Smith ha lasciato i telespettatori sbalorditi domenica notte, quando ha tirato un pugno durante la premiazione degli Oscar al comico Chris Rock per una battuta sulla caduta dei capelli di sua moglie Jada dovuta all’alopecia. 

Le star di Hollywood si sono rivolte subito a Twitter per denunciare l’attacco di Smith. Il comico e regista Judd Apatow ha definito il gesto «rabbia e violenza pura fuori controllo» e ha detto che Smith «avrebbe potuto uccidere» Rock.

«Sembra che il piano di Will Smith di diventare un comico mentre il mondo non deve fare battute su di lui non avrà successo. La famiglia Williams deve essere furiosa. Puro narcisismo» ha detto. 

«Inoltre… Il soldato Jane era bellissima. Cosa c'è esattamente di offensivo nell’essere paragonate a una Demi Moore sbalorditiva?» ha scritto. Apatow ha respinto con forza un utente di Twitter che ha affermato di “capire” perché Smith ha colpito Rock. «Avrebbe potuto ucciderlo. È pura rabbia e violenza fuori controllo. Ha sentito milioni di battute su di loro negli ultimi tre decenni. Non è una matricola di Hollywood. Ha perso la testa» ha scritto.

Kathy Griffin si è detta d'accordo con Apatow. «Lascia che ti dica una cosa: è una pessima pratica salire sul palco e aggredire fisicamente un comico. Ora dobbiamo preoccuparci tutti di chi vorrà essere il prossimo Will Smith nei comedy club e nei teatri». 

Rob Reiner ha scritto che «non ci sono scuse» per quello che ha fatto Smith. «Will Smith deve a Chris Rock enormi scuse. Non ci sono scuse per quello che ha fatto. È fortunato che Chris non presenti accuse di aggressione. Le scuse che ha fatto stasera erano stronzate».

L'Accademia ha alluso allo schiaffo di Smith senza menzionarlo esplicitamente in una dichiarazione pubblicata su Twitter. «L'Accademia non approva la violenza di qualsiasi forma». 

Anche il figlio di Jada e Will, Jaden Smith, ha scritto un comento senza mai fare riferimento al gesto del padre: «È così che facciamo». E poi, in un altro post: «Il discorso di mio padre mi ha fatto piangere».

Serena Williams, in sala per via del film sulla sua infanzia interpretato proprio da Will Smith nei panni del padre, ha pubblicato un breve video sulle storie di Instagram.  «Mi sono appena seduta perché mi sentivo come: "Devo prendere un drink ora"», ha detto in un video di follow-up pubblicato dall'interno del teatro, anche se non ha affrontato esplicitamente l'apparente aggressione. 

«La violenza non è mai una "prova d'amore"», ha scritto Glennon Doyle. «Questa è un'idea mortale che ha alimentato e giustificato la violenza domestica (e tutto il resto) per troppo tempo. pensaci bene, per favore».  

Jodie Turner-Smith ha detto: «E per quanto riguarda *quell'incidente*.... sto ancora elaborando», ha scritto. «Provo imbarazzo di seconda mano per tutti i soggetti coinvolti». 

Alcune celebrità non potevano credere che lo schiaffo fosse avvenuto in diretta sulla televisione nazionale. «Cosa?????» ha twittato Trevor Noah del Daily Show. «Non era sceneggiato?????». Conan O'Brien ha scritto: «Ho appena visto lo schiaffo di Will Smith. Qualcuno ha uno spettacolo a tarda notte che posso prendere in prestito solo per domani?».  

Il comico Nikki Glaser sembrava alludere alle voci sulla relazione tra Will e Jada twittando: «Le relazioni aperte sembrano sane». Ron Funches, anche lui comico, ha difeso Rock e ha detto che la sua battuta era "innocua". «Quella battuta era innocua. Chris è stato coinvolto nel dramma familiare», ha twittato. 

«Senti, tutto quello che so è che Katt Williams avrebbe sparato a tutto il posto se fosse stato schiaffeggiato», ha aggiunto in seguito. 

Maria Shriver non ha usato mezzi termini per definire Smith. «#WillSmith dice che vuole essere una nave per l'amore. L'amore non è violento. L'amore non è ciò che è stato mostrato su un palcoscenico globale stasera», ha twittato.

Prima della cerimonia, Will e Jada avevano condiviso alcuni post giocosi. «Io e atjadapinkettsmith ci siamo vestiti per scegliere il caos», ha sottotitolato un breve video di Instagram.

Da corriere.it il 28 marzo 2022.

«Mi dispiace enormemente per come Will sia riuscito a rovinare la serata più importante della sua vita. Nessuno sa i pregressi di quel nervo tanto scoperto da fargli perdere così il controllo. Lui sa sempre come uscire da ogni situazione. Il fatto che sia inciampato mi addolora».

Il regista Gabriele Muccino, molto legato a Will Smith dopo averlo diretto in «La ricerca della felicità» e «Sette anime», ha commentato così via Twitter l’alterco avvenuto durante la notte degli Oscar, quando l’attore americano - poi premiato con la statuetta come migliore attore protagonista nel film «Una famiglia vincente - King Richard» - ha tirato un pugno a Chris Rock dopo un commento infelice da parte del comico su sua moglie.

Muccino conosce bene Smith e per lui faceva anche un gran tifo, visto l'Oscar «mancato» dell'attore nel suo film «La ricerca della felicità». A esplicitarlo era stato lo stesso regista con un tweet precedente, scritto alla vigilia dei premi: «Domani sera Will Smith vincerà l’#Oscar che sfiorò per 15 voti con la nostra ricerca della felicità. Lui è sensazionale. Ci siamo scritti e se lo sente anche lui secondo me. Anche se non si può dire. Ma io vado contro la superstizione e domani so che godrò con lui!», aveva twittato.

DAGONEWS il 28 marzo 2022.

Quanto ci ha messo Will Smith a dimenticare lo schiaffone rifilato a Chris Rock, le lacrime e le scuse? Il tempo di arrivate al party post Oscar di Vanity Fair dove si è scatenato come se nulla fosse successo, probabilmente nel tentativo di mettere una pietra sopra su quanto è accaduto.

L'attore 55enne ha posato per i selfie, ballato con gli amici e rappato i suoi più grandi successi tra cui Summertime e Gettin' Jiggy Wit It. Accanto a lui la moglie e i figli: Jada è stata vista ballare e ridere al fianco del marito che si esibiva senza freni davanti agli ospiti della serata tra cui Serena e Venus Williams, Kendall Jenner, Kim Kardashian, Dakota Johnson, Kevin Costner, Chris Pine, Olivia Colman e Natalie Portman.

Sono bastate poche ore per far cambiare umore a Will Smith che si è presentato al party in vena di far festa dopo lo schiaffo e le lacrime. Pare che tra il principe di Bel Air e Chris Rock ci sia un conto in sospeso: la faida risale a sei anni fa quando il comico fece un’altra battuta su Jada alla cerimonia di premiazione del 2016.

ADNKRONOS il 28 marzo 2022.

''La violenza è quando parte il pugno, lo schiaffo è un'altra storia. Lo schiaffo è invece una reazione di disprezzo verso la persona che hai davanti e che ti ha offeso. Con quello schiaffo Will Smith ha voluto esprimere il suo disprezzo verso Chris Rock che ha insultato sua moglie, non è violenza. L'attore ha difeso la sua famiglia e chi parla di violenza sbaglia!''.  

Così il giornalista e opinionista Roberto D'Agostino all'Adnkronos sullo schiaffo di Will Smith a Chris Rock nel corso della cerimonia di consegna degli Oscar. Per D'Agostino la reazione di Smith non è stata esagerata: ''E' normale che se arriva qualcuno e ti offende uno alla fine reagisce. Ad ogni azione corrisponde una reazione. Accadde anche a me - ricorda il giornalista - quando diedi uno schiaffo a Sgarbi: era il 1991 ed eravamo ospiti a 'l’Istruttoria' di Giuliano Ferrara. 

Fu il primo schiaffo della storia della televisione italiana e arrivò dopo che lui mi gettò in faccia dell'acqua. All’inizio, per la verità, volevo spaccargli la bottiglia dell'acqua in testa - confessa D'Agostino - ma per fortuna mi salvai dalla mia violenza quando Sgarbi afferrò la bottiglia, a mia volta mollai la bottiglia e con la mano libera  gli mollai solo un ceffone. 

Durante l'episodio - racconta ancora D'Agostino - ricordo che era presente in studio anche la mia compagna e dentro di me pensai: ''Ora io a questo gli spacco la bottiglia in testa'. Nessuno può offendere il mio onore, quello schiaffo a Sgarbi era solo la risposta a una offesa''. Quanno ce vo' ce vo', dicono a Roma.

Tornando alla vicenda avvenuta durante la cerimonia degli Oscar il giornalista prosegue: "È da tempo che la coppia Smith viene presa di mira da tutti: è successo anche ai Bafta, gli Oscar inglesi, quando la conduttrice comica fece una battutaccia sul fatto che lui (Smith, ndr) e la moglie sono una coppia 'aperta'. Smith e sua moglie da tempo hanno dichiarato pubblicamente di vivere il loro matrimonio in modo 'aperto' - spiega D'agostino - successe infatti che uno degli amanti della moglie di Smith vendette la sua storia ai giornali. 

Ovviamente anche lui (Smith, ndr) ha avuto le sue storie. Forse la reazione dell'attore, provocata dalla battuta di Chris Rock che non faceva neanche ridere, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Forse aveva raggiunto il limite e così ha perso la santa pazienza. 

So bene cosa è il linguaggio del corpo perché sono nato e vissuto per 37 anni a San Lorenzo, un quartiere romano popolare e il linguaggio più convincente era quello del corpo. Ci si picchiava per strada, non si viveva nei salotti - conclude D'Agostino - Lo schiaffo è la risposta a una offesa - ribadisce - è un gesto di disprezzo verso la persona che hai davanti. Se voglio essere violento con una persona lo prendo a pugni, non mi pare che Chris Rock sia finito all’ospedale''.

DAGONEWS il 28 marzo 2022.

Will Smith potrebbe essere privato del suo Oscar? L'Academy sta subendo pressioni affinché prenda provvedimenti dopo che l’attore ha rifilato uno schiaffone al comico Chris Rock che si è permesso di scherzare sui capelli corti della moglie. Per molti Smith ha violato il codice di condotta redatto sua scia del movimento MeToo. Al momento l’Academy si è limitata a condannare il gesto, ma è improbabile che prenderà provvedimenti diversi.

Da Ansa il 28 marzo 2022.

L'Academy "non perdona la violenza in nessuna forma", ha fatto sapere in un tweet l'organizzazione dietro gli Oscar dopo lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock che ha movimentato la 94esima notte delle stelle.

Da Ansa il 28 marzo 2022.

Chris Rock non fa denuncia alla polizia, almeno per ora, e dunque Will Smith non sara' arrestato per lo schiaffo in diretta al comico che aveva ironizzato sulla testa rasata di sua moglie. Se Rock, che ha sei mesi di tempo per cambiare idea, avesse denunciato l'attore il vincitore dell'Oscar per "king Richard" avrebbe potuto essere condannato fino a sei mesi di prigione e a una multa fino a centomila dollari.

TRASCRIZIONE DELLO SCAZZO CHRIS ROCK - WILL SMITH. Dagospia il 28 marzo 2022. 

Chris Rock: “Jada, ti amo. Soldato Jane 2, non vedo l’ora di vederlo. È… Questa era buona. Sono quassu. Uh, oh, Richard? 

(Will Smith si alza, va sul palco e tira lo schiaffone al comico) 

Chris Rock: “Oh, wow. Wow. Will Smith mi ha appena spaccato il culo”

Will Smith: “Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua bocca del cazzo”

Chris Rock: “Wow, amico”

Will Smith: “Sì…”

Chris Rock: “Era una battuta sul Soldato Jane”

MEME SULLO SCHIAFFO DI WILL SMITH 2

Will Smith: “Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua bocca del cazzo”

Chris Rock: “Vado. Ok? Oh, Ok. È stata la più grande notte nella storia della televisione”.

Da ilgiorno.it il 28 marzo 2022.

Will Smith ha vinto la statuetta come miglior attore per il suo ruolo nel film "Una famiglia vincente - King Richard" (leggi qui tutti i vincitori), ma la sua partecipazione agli Oscar 2022 resterà legata a un episodio che per qualche minuto è sembrato sospeso tra l'incidente e il preparato. 

L'attore ha avuto un alterco con il comico Chris Rock e, lasciando la sua poltroncina, è salito sul palco sferrandogli uno schiaffo. 

E' successo quando Rock stava presentando i migliori documentari e si è lanciato in una battuta piuttosto infelice sulla perdita di capelli della moglie di Smith, Jada Pinkett.

"Jada - ha detto - ti voglio bene, 'G. I. Jane 2', non vedo l'ora di vederlo", prima che Pinkett mostrasse un segno di disappunto. A quel punto Will Smith è salito sul palco e ha colpito Rock con uno schiaffo, per poi fare ritorno al suo posto. L'audio è stato tolto, ma successivamente si sono sentite le sue parole. "Will Smith - ha reagito Rock - mi ha appena picchiato. E' la più grande notte nella storia della televisione".

L'attore invece è tornato al suo posto invitando a gran voce Rock a non nominare più la moglie: "Tieni il nome di mia moglie via dalla tua fo***** bocca», ha detto l'attore, mentre Rock restava momentaneamente spiazzato prima di difendere la battuta.

L'episodio ha creato grave imbarazzo nella sala ed l'hashtag con il nome Will Smith è immediatamente diventato un trend topic sui social. Inizialmente gli spettatori hanno pensato a una gag, ma pare sia stato un momento di rabbia reale. "Non mi aspettavo che sarebbero stati gli Oscar più eccitanti di sempre", ha detto il rapper Puff Diddy: "Will e Chris, lo aggiusteremo con amore". 

Al momento della consegna della statuetta come migliore attore, scusandosi con l'Academy e con gli altri candidati per aver avuto lo scatto di rabbia durante la diretta, Will Smith ha commentato:. Richard Williams, il padre di Venus e Serena Williams che ha ispirato "King Richard", è stato "un feroce difensore della sua famiglia",  "l'amore ti fa fare pazzie". 

Non è comunque la prima volta che il comico prende di mira la coppia. In occasione degli Oscar 2016 aveva fatto una battuta più cattiva: "Jada Pinkett Smith che boicotta gli Oscar è come io che boicotto i pantaloni di Rihanna: non sono stato invitato". 

Jada Pinkett Smith soffre di alopecia e, dopo aver a lungo coperto la testa con sciarpe e cappelli, da qualche mese si rade i capelli.

Da tgcom24.mediaset.it il 28 luglio 2022. 

"Chiunque abbia detto che la parole feriscono non ha mai preso un pugno in faccia", così, a oltre quattro mesi dalla fatidica notte degli Oscar, Chris Rock commenta, par la prima volta, lo schiaffo ricevuto da Will Smith. Il comico è tornato sull'incidente in un monologo al NC Bank Arts Center di Holmdel, in New Jersey, durante lo spettacolo di Kevin Hart, dove ha anche ammesso di essersi lasciato definitivamente l'episodio alle spalle. 

Riferendosi allo spiacevole fatto accaduto durante la cerimonia di consegna degli Oscar, quando Will Smith salì sul palco e all'improvviso gli diede uno schiaffo dopo una infelice battuta che Rock aveva fatto su sua moglie Jada Pinkett Smith, l'attore comico ha infatti voluto aggiungere: “Non sono una vittima, però. Quella caz*o di roba me la sono fatta scivolare e sono andato a lavorare il giorno dopo. Non vado all’ospedale per un graffio“.  Durante lo show di Hart Rock ha anche chiamato Smith ironicamente "Suge Smith”, con un probabile riferimento a Suge Knight, incarcerato per omicidio.

Dopo l'incidente, la star di "Hitch" si era scusata pubblicamente per le sue azioni "inaccettabili e imperdonabili": “Vorrei scusarmi pubblicamente con te, Chris. Ero fuori linea e mi sbagliavo. Sono imbarazzato e le mie azioni non erano indicative dell'uomo che voglio essere. Non c'è posto per la violenza in un mondo di amore e gentilezza", aveva anche scritto l'attore su Instagram. Smith in seguito si è dimesso dall'Accademia, mentre gli è stata vietata la partecipazione a tutti gli eventi relativi agli Oscar, inclusa la cerimonia del prossimo anno, per 10 anni.

A caldo Rock non aveva voluto fare nessun commento dichiarando che era ancora in fase di "elaborazione dell'accaduto". Un mese dopo però il comico aveva fatto riferimento all'incidente in modo più esplicito assicurando al pubblico di essere "OK" dopo lo schiaffo. "[Ho] recuperato la maggior parte del mio udito", aveva detto scherzando durante un'esibizione nel maggio 2022 alla Royal Albert Hall di Londra. 

Chris Rock risponde al video di Will Smith e scherza: "Dopo lo schiaffo, sono andato a lavorare". La Repubblica il 31 Luglio 2022.  

Prosegue a distanza il botta e risposta tra il comico e l'attore dopo l'episodio sul palco degli Oscar: "Chiunque dice che le parole fanno male, non ha mai ricevuto un pugno".

Prosegue a distanza il dialogo mai ripreso di persona tra Will Smith e Chris Rock dopo lo schiaffo dato dall'attore al comico sul palco degli Oscar lo scorso marzo.  Dopo il video di scuse postato due giorni fa dall'ex principe di Bel Air, ora è il comico tornare sulla vicenda: "Tutti cercano di fare le vittime, ma se tutti fanno le vittime nessuno ascolterà più le vere vittime. Io dopo essere stato picchiato da Suge Smith sono andato a lavorare, ho famiglia", ha scherzato Rock durante un suo spettacolo ad Atlanta coniando un nuovo soprannome per la star di Hollywood 'Suge' in riferimento a Marion 'Suge' Knight, un discografico noto il suo comportamento duro e spesso violento quando era a capo dell'etichetta di Dr. Dre, Snoop Dogg e Tupac.

"Chiunque dice che le parole fanno male non ha mai ricevuto un pugno", ha ironizzato ancora. In un video postato ieri su Instagram, Smith si è detto "profondamente pentito" e "pieno di rimorsi" per il suo comportamento durante la notte degli Oscar definendolo, ancora una volta, "inaccettabile". "Ho cercato di contattare Chris, ma lui non è pronto a parlare con me", ha detto Will, premiato quella sera con la statuetta per il suo ruolo in 'King Richard - Una Famiglia Vincente'. 

Quando lo sarà, si farà vivo lui". "Non c'è parte di me che pensa che quella fosse la cosa giusta", ha aggiunto il divo a proposito del gesto di rabbia con cui ha reagito alla battuta del comico sulla testa rasata di sua moglie, Jada Pinkett, che soffre di alopecia, ma Rock non lo sapeva. Un mea culpa a tutto campo: "Non ho pensato, in quel momento, a tutte le persone a cui stavo facendo del male. Così ora mi voglio scusare con la madre di Chris e con la sua famiglia, soprattutto il fratello Tony. Avevamo una bella relazione e questo è probabilmente irreparabile". 

Da tg24.sky.it il 30 Agosto 2022.

L’ultima edizione dei Premi Oscar, il riconoscimento più importante nel mondo del cinema, è passata alla storia non tanto per i vincitori, quanto per quello che è accaduto sul palco. La cerimonia è stata presentata dall’attore comico Chris Rock che, come di consueto, ha riservato molte battute agli ospiti presenti. Tirando in ballo Jada Pinkett-Smith, moglie di Will Smith, il presentatore ha esagerato con alcune dichiarazioni che non sono affatto piaciute al marito, salito sul palco per rifilargli un ceffone in mondovisione, intimandolo a non parlare della sua compagna.

L’evento ha ovviamente scatenato il clamore dei presenti e di tutti i telespettatori collegati. Will Smith è stato bandito per dieci anni dalla cerimonia, con Chris Rock che ha deciso di non porgere denuncia per l’accaduto. Durante una serata all’Arizona Financial Theatre, a Phoenix, il comico ha risposto pubblicamente a chi gli chiedeva se fosse tornato sul palco degli Oscar in qualità di presentatore. 

Benché l’Academy gli avesse chiesto di essere al timone della cerimonia, Chris Rock ha rifiutato e ha confermato che non parteciperà alla kermesse nel 2023. Inoltre, l’attore ha aggiunto che gli era stato offerto anche uno spot per il Super Bowl, l’evento sportivo più seguito al mondo durante l’anno, ma di aver rifiutato anche quello.

Nonostante la sua scelta, Chris Rock ha commentato con la consueta ironia, dichiarando che “presentare nuovamente gli Oscar sarebbe come chiedere a Nicole Brown Simpson di tornare al ristorante”. Infine, per quanto concerne il famigerato schiaffo ricevuto da Will Smith, Chris Rock ha provato a minimizzare l’accaduto affermando di “non andare in ospedale per un semplice taglio con un foglio di carta”. 

Chris Rock ha debuttato nel mondo del cinema con Beverly Hills Cop II – Un piedipatti a Beverly Hills nel 1987. La sua carriera è stata spesso caratterizzata da film comici e irriverenti come Manuale d’infedeltà per uomini sposati del 2007, Un weekend da bamboccioni del 2010 e Il funerale è servito sempre del 2010.

Tuttavia, Chris Rock ha fatto parte anche di pellicole di altro genere come Arma letale 4 nel 1998 o, più recentemente, nel 2021 in Spiral – L’eredità di Saw, sequel/spin-off della saga de L’Enigmista dove interpreta il detective Zeke Banks che indaga sugli omicidi compiuti da un emulatore di John Kramer. Il prossimo 3 novembre, invece, uscirà in Italia il film Amsterdam dove recita nella parte di Milton. 

Accanto a lui un cast d’eccezione composto da Christian Bale, Margot Robbie, Zoe Saldana, Anya Taylor-Joy e Taylor Swift. Infine, ha presentato la cerimonia degli Oscar nel 2005 e nel 2016, con la terza che non sarà nel 2023 ma rinviata a data da destinarsi.

Il pentimento di Will Smith dopo lo schiaffo la notte degli Oscar: "Chris Rock non mi parla". L'attore aveva colpito il comico la notte degli Oscar dopo una battuta contro sua moglie Jada Pinkett. La Repubblica il 29 Luglio 2022.

Will Smith parla per la prima volta dopo l'ostracismo a cui è stato condannato dall'Academy per lo schiaffo in diretta al comico Chris Rock che aveva fatto una battuta su sua moglie, Jada Pinkett.

Will Smith infatti si è detto "profondamente pentito" ed è tornato a definire "inaccettabile" il suo comportamento durante la notte degli Oscar che si è tenuta a marzo di quest'anno.

L'artista ha detto anche: "Ho cercato di contattare Chris, ma lui non è pronto a parlare con me", ha quindi aggiunto l'attore, premiato durante la notte degli Oscar per il suo ruolo in 'King Richard - Una famiglia Vincente': "Non è pronto. Quando lo sarà, si farà vivo lui".   

(ANSA il 29 luglio 2022) - Per la prima volta dopo l'ostracismo a cui e' stato condannato dall'Academy per lo schiaffo in diretta a Chris Rock, Will Smith si dice "profondamente pentito" ed e' tornato a definire "inaccettabile" il suo comportamento durante la notte degli Oscar. "Ho cercato di contattare Chris, ma lui non e' pronto a parlare con me", ha detto l'attore, premiato durante la notte delle stelle per il suo ruolo in 'King Richard - Una famiglia Vincente': "Non e' pronto. Quando lo sarà, si fara' vivo lui".

"Ero annebbiato. È tutto confuso. Ho contattato Chris e il messaggio che mi è arrivato è che non è pronto a parlare. Quando lo sarà, mi contatterà. Ti dirò, Chris, che mi scuso con te. Il mio comportamento è stato inaccettabile e sono qui quando sei pronto a parlare. Voglio scusarmi con la madre di Chris.

Ho visto un'intervista che ha fatto e questa è stata una delle cose che non ho capito. Non stavo pensando a quante persone sono state ferite in quel momento. Voglio scusarmi con la madre di Chris, voglio scusarmi con la famiglia di Chris, in particolare con Tony Rock. 

Avevamo un ottimo rapporto. Tony Rock era il mio uomo. Questo probabilmente è irreparabile. Ho passato gli ultimi tre mesi a rivedere e comprendere le sfumature e la complessità di ciò che è accaduto in quel momento. 

Non cercherò di spiegarlo ora, ma posso dire a tutti voi che non c'è nessuna parte di me che pensi che quello fosse il modo giusto di comportarsi in quel momento. Nessuna parte di me pensa che quello sia il modo migliore per gestire una sensazione di mancanza di rispetto o di insulto".

Zar Will.  Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 29 marzo 2022.

Sempre che non si tratti di una sceneggiata (dopo un mese di guerra, tendo a diffidare di qualunque cosa), un analista della complessità saprebbe sicuramente spiegarci che ha sì tirato uno schiaffo al comico Chris Rock durante la cerimonia degli Oscar, ma che focalizzarsi su questo pur deprecabile aspetto della questione rappresenta un approccio pigro e semplificatorio. Perché è stato Rock, con la sua battuta sull’alopecia della moglie, ad avere provocato la reazione del grande attore. I grandi attori sono persone suscettibili e la Realpolitik suggerisce di non andarli a stuzzicare con frecciatine di dubbio gusto. Dopo avergli addossato la responsabilità del ceffone, l’analista elogerebbe però il comportamento del comico, che a differenza del collega Zelensky si è lasciato picchiare senza opporre resistenza. E concluderebbe dando la colpa agli Stati Uniti (su, aprite gli occhi: chi organizza la serata degli Oscar?), capacissimi di avere indotto Rock a provocare Smith per qualche losco fine economico travestito da libertà di espressione. Come ragionamento non fa una grinza. Eppure, dai tempi della testata di Zidane a Materazzi, il sempliciotto dentro di me si ostina a credere che il passaggio dall’aggressività latente a quella manifesta non sia marginale. Appena invadi, o appena meni, lo scenario cambia di colpo e le motivazioni della violenza non contano più. Resta solo la violenza. Anche quando, come nel caso di Will Smith, si vorrebbe spacciarla per amore . 

Lo schiaffo, l'Oscar e le lacrime: l'incredibile notte di Will Smith. Il Quotidiano del Sud il 28 Marzo 2022.

Prima lo schiaffo sferrato a Chris Rock, poi il premio come miglior attore, le lacrime sul palco, l’elogio della famiglia e le scuse ai colleghi. La notte degli Oscar non è mai banale, ma per Will Smith la cerimonia di quest’anno al Dolby Theatre sarà certamente indimenticabile. E non solo per lui. L’episodio avvenuto nel bel mezzo della serata è un inedito anche per un ambiente come quello degli Oscar che ama stupire: gag tra gli attori, provocazioni e invettive sono ingredienti che da sempre fanno della notte delle stelle un appuntamento unico in tutto il mondo. Mai però fino ad ora il palco degli Oscar si era quasi trasformato in un ring.

Tutto è nato dalla battuta infelice di Chris Rock sull’aspetto di Jada Pinkett Smith, moglie di Will Smith. “Jada, ti amo. GI Jane 2, non vede l’ora di vederlo”, ha detto Chris Rock. Jada Pinkett Smith ha rivelato nel 2018 di soffrire di alopecia, un problema di cui ha parlato spesso anche sui social media. A questo punto Will Smith, fuori di sé, ha raggiunto il palco e lo ha colpito tra l’incredulità del pubblico. È stato poi lui stesso a sgombrare il campo dal possibile dubbio che si trattasse dell’ennesima gag. Tornato al suo posto, Smith ha rivolto un invito dai toni forti e decisi al collega: “Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua fottuta bocca”. “È la più grande notte nella storia della televisione”, ha provato a sdrammatizzare Chris Rock. Ma la tensione è rimasta palpabile anche quando pochi minuti dopo il rapper Sean Combs, sul palco per presentare un tributo a “Il Padrino”, si è calato nel ruolo del paciere suggerendo ai due di risolvere le loro divergenze a un afterparty degli Oscar.

Sul caso c’è in qualche modo tornato lo stesso Will Smith, ritirando il premio come miglior attore protagonista. L’attore ha citato il papà delle sorelle tenniste Venus e Serena Williams, da lui interpretato nel film “Una famiglia vincente – King Richard”, sottolineando che “Richard Williams era un difensore accanito della sua famiglia”. “In questo momento della mia vita mi sento sopraffatto da quello che Dio mi chiede di fare ed essere su questa terra”, ha proseguito Will Smith, letteralmente in lacrime. “Per fare questo film – ha proseguito – ho dovuto proteggere mia moglie, una delle donne più forti e delicate che abbia mai incontrato. Ho dovuto proteggere Saniyya e Demi, le due attrici che hanno interpretato Venus e Serena. Sono stato chiamato ad amare le persone, a proteggerle, a essere un fiume per loro. So che per fare quello che facciamo bisogna essere in grado di prendere, di accettare chi in questo settore non ti porta rispetto, sorridendo e facendo finta che tutto vada bene”.

“Voglio essere un messaggero di amore”, ha aggiunto nel suo discorso, ringraziando “Venus, Serena e tutta la famiglia Williams per avermi affidato la vostra storia”. “Questo è un momento bellissimo e non sto piangendo perché ho vinto un Oscar ma perché è possibile proiettare luce sugli altri”, ha evidenziato, prima di porgere le scuse ai suoi colleghi e all’Academy e concludere con un auspicio: “Spero che l’Academy mi inviti di nuovo”.

La risposta, è stata una ferma condanna del suo gesto: “L’Academy – si legge sui social – non perdona la violenza in qualsiasi forma”. Chris Rock, infine, non ha sporto denuncia per l’aggressione subita.

Quello schiaffo che fece incontrare Raf Vallone ed Elena Varzi. ENRICA RIERA su Il Quotidiano del Sud il 28 Marzo 2022.

IL MONDO del cinema è pieno di schiaffi memorabili. E a quanto pare ne è pieno, considerando il sinistro di Will Smith a Chris Rock durante la cerimonia degli Oscar di questa notte (LEGGI), anche il suo “dietro le quinte”.

Oltre al ceffone appena menzionato, che sta spostando l’attenzione da premi e premiati hollywoodiani e sta pure dividendo il popolo del web assai avvezzo alla polemica, ne esiste un altro che, al contrario, ha dato vita a un’unione lunga circa cinquant’anni. Per saperne di più, è necessario chiudere gli occhi e immaginare il set de “Il cammino della speranza”, il film tratto dal romanzo “Cuore negli abissi” di Nino Di Maria e girato da Pietro Germi nel 1950. È insomma qui che il regista di pellicole indimenticabili come “Divorzio all’italiana” o “Alfredo, Alfredo” schiaffeggia l’attrice che avrebbe dovuto interpretare la protagonista principale del suo lungometraggio, poi presentato a Cannes e vincitore dell’Orso d’argento al Festival di Berlino.

Come ricorda Franco Sepe in un articolo pubblicato nel 2014 su Sipario.it, il motivo di questo gesto – e chissà se Germi ci ripenserà quando scriverà successivamente la memorabile sequenza di “Amici miei” – sta nel fatto che l’interprete prescelta avesse tagliato i capelli, risultando così “inadatta” al ruolo di Barbara Spadaro. Il taglio non concordato e, naturalmente, lo schiaffo a seguire fanno sì che l’attrice scritturata si ritiri dalla scena e venga di conseguenza sostituita da Elena Varzi, che aveva già esordito con “È primavera” di Renato Castellani un anno prima. 

L’attrice romana, giunta sul set de “Il cammino della speranza” – storia di minatori siciliani, sfruttamento ed emigrazione – conosce, quindi, e si innamora del calabrese di Tropea Raf Vallone, che l’affianca nel ruolo di attore protagonista. Il legame tra Varzi – richiestissima da Fellini, De Sica e Sordi – e Vallone – non solo attore ma pure giornalista, calciatore, partigiano – è dunque destinato a durare nel tempo. I due si sposeranno subito, continueranno a recitare insieme (vedasi “Roma ore 11” di Giuseppe De Santis, “Gli eroi della domenica” di Mario Camerini, “Delirio” di Pierre Billon e Giorgio Capitani, “Siluri umani” di Antonio Leonviola) e avranno tre figli, Eleonora e i gemelli Saverio e Arabella.

Nonostante una breve parentesi sentimentale con Brigitte Bardot, il ragazzo calabrese – laureatosi in giurisprudenza a Torino sotto la guida di Einaudi e Ginzburg – e l’attrice – volto del neorealismo italiano – non si lasceranno mai. La coppia celebra, infatti, le nozze d’oro nel 2002, poco prima della morte di Vallone all’età di 86 anni: oggi riposano insieme (Varzi è scomparsa nel 2014 a 88 anni) nella cappella di famiglia, nel cimitero comunale della cittadina vibonese.

Tuttavia pare che nessun epitaffio ricordi al mondo intero che galeotto, per il loro incontro e il loro amore, fu un vero e proprio schiaffo.

Will Smith: tutti i retroscena dello schiaffo agli Oscar (e le scuse pubbliche a Chris Rock). Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.

Lo schiaffo era finto, secondo alcuni media Usa: ma tra Will Smith e Chris Rock c’erano vecchie ruggini sulla moglie di Smith e sul fatto che sono una coppia aperta. 

La scena dello schiaffo di Rocky-Smith contro Rock, davanti alle telecamere, ha trasformato lo «show» nel «film» Per un pugno di Oscar. Non è stato lo schiaffo del soldato. Will Smith, bravo attore ma deprecabile nell’istinto, in un fuori programma imbarazzante si è alzato dalla poltrona e ha colpito duro al volto il presentatore Chris Rock. Che faceva il suo mestiere di comico, ma è uscito fuori binario con una battuta di pessimo gusto sulla testa rasata della moglie dell’attore, Jada Pinkett: «Ti prepari per Soldato Jane 2?». In realtà l’attrice, come rivelò lei stessa nel 2018, soffre di alopecia. Su Instagram ha parlato della sfida nel perdere i capelli, optando per un taglio radicale piuttosto che ricorrere a un cappello.

Si sono rincorse due malizie: l’attore dapprima ha riso, e solo quando ha incrociato lo sguardo teso della moglie ha messo i guantoni. La seconda malizia è dei media americani che hanno ipotizzato un copione studiato, una messinscena. Una volta tornato al suo posto Smith ha urlato: «Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua bocca del ca…». «Uao. Ok, lo farò», ha detto il presentatore. E ha aggiunto, le mani composte dietro la schiena: «E’ una grande serata nella storia della tv». C’è una terza malizia: Mr e Mrs Smith hanno dichiarato di essere una coppia aperta (e anche longeva, sposati dal ’97), e il comico aveva già preso di mira l’attore ai premi Bafta: «La sua migliore interpretazione di questi ultimi anni è di aver fatto buon viso ai fidanzati di sua moglie». Interrompendo l’atmosfera di festa, Smith ha trasformato il Dolby Theatre in un ring. Ha colpito l’«avversario», ma ad andare sul tappeto è stato lui. Dopo mezz’ora, Will Smith è salito sul palco per ricevere la sua prima statuetta come miglior attore per King Richard, il padre protettivo e onnipresente delle tenniste Venus e Serena Williams. Si è scusato tra le lacrime, ma non si è scusato con la sua vittima: «Lo so che per fare ciò che facciamo, dobbiamo essere in grado di sopportare degli abusi, dobbiamo essere capaci di avere a che fare con gente che parla male di noi. In questo lavoro, devi avere a che fare con gente che non ti rispetta. E pure sorriderci sopra, e fare finta che vada bene così».

Si è paragonato a Richard Williams, «fiero difensore della famiglia» e del talento delle sorelle con la racchetta, «la vita imita l’arte, l’amore ti fa fare pazzie; in questo momento della mia vita sono sopraffatto da quel che Dio mi chiede di fare». E poi: «Voglio scusarmi con l’Academy e con i miei colleghi candidati. Questo è un momento bellissimo e non sto piangendo per aver vinto un premio. Si tratta di essere in grado di offrire una luce a tutte le persone». Durante un’interruzione pubblicitaria della diretta tv, Denzel Washington, con Bradley Cooper, ha accompagnato Smith ai lati del palcoscenico, sussurrandogli all’orecchio: «Nei tuoi momenti più alti, stai attento perché è allora che il diavolo ti viene a cercare». Si sono avvicinati i coniugi Nicole Kidman e Keith Urban, il marito cantautore, per qualche parola di conforto, mentre il rapper Sean Combs, in scena per introdurre un omaggio a Il padrino di Coppola, ha cercato di fare da paciere suggerendo a Smith e a Rock di risolvere la vicenda al party del dopo Oscar. La polizia di Los Angeles è stata a conoscenza dell’accaduto, e ha riferito che Chris Rock non intende sporgere denuncia.

Will Smith ha manifestato la speranza che «l’Academy mi inviti di nuovo». Più tardi, non si è presentato alla conferenza stampa dei vincitori. E si è andati avanti a colpi di web. «Non tolleriamo la violenza in qualsiasi forma», si legge sul profilo twitter dell’Academy Awards. Il riferimento della maldestra battuta del presentatore era a Soldato Jane, il film di Ridley Scott in cui Demi Moore ha i capelli rapati a zero come tenente della marina americana. Smith era già stato candidato due volte in passato, per Alì, sul pugile Cassius Clay; eper la seconda per La ricerca della felicità di Gabriele Muccino. Il quale ha twittato: «Mi dispiace enormemente per come Will sia riuscito a rovinare la serata più importante della sua vita. Nessuno sa i pregressi di quel nervo tanto scoperto da fargli perdere così il controllo. Sa sempre come uscire da ogni situazione. Il fatto che ieri sia inciampato mi addolora».

Poi finalmente, una lunga riflessione e sono arrivate anche le scuse pubbliche «Vorrei scusarmi pubblicamente con te, Chris — ha scritto Smith su Instagram —. Ero fuori dai gangheri e ho sbagliato. Sono imbarazzato e le mie azioni non erano rappresentative dell’uomo che voglio essere. Non c’è posto per la violenza in un mondo di amore e gentilezza. La violenza in tutte le sue forme è velenosa e distruttiva. Il mio comportamento agli Academy Awards è stato inaccettabile e imperdonabile. Le battute a mie spese fanno parte del mio lavoro, ma una battuta sulle condizioni mediche di Jada era troppo per me da sopportare e ho reagito emotivamente».

Oscar, su Instagram le scuse di Will Smith per lo schiaffo a Chris Rock: "Ho sbagliato, imperdonabile". La Repubblica il 29 Marzo 2022.  

L'attore protagonista dell'aggressione sul palco della Notte degli Oscar affida a social il suo pentimento. 

Arrivano su Instagram le scuse di Will Smith dopo lo show machista alla Notte degli Oscar. Un post social per chiedere scusa a Chris Rock, autore della battutaccia che ha dato il la all'attore per salire sul palco e colpire il comico, scatenando un caso che ha fatto il giro del mondo. "La violenza in tutte le sue forme è velenosa e distruttiva - si legge sul post di Smith - Il mio comportamento agli Academy Awards di ieri sera è stato inaccettabile e imperdonabile. Le battute a mie spese fanno parte del lavoro, ma una battuta sulle condizioni di salute di Jada era troppo per me da sopportare e ho reagito emotivamente".

A scatenare le ire dell'attore è stata un'infelice uscita di Rock sul taglio dei capelli di sua moglie, Jada Pinkett Smith, che soffre di alopecia. "Ti stai preparando per il sequel del film Soldato Jane?", le ha detto il comico durante la sua esibizione.

"Vorrei scusarmi pubblicamente con te, Chris. Sono stato fuori luogo e inopportuno, ho sbagliato. Mi vergogno e le mie azioni non rappresentano l'uomo che voglio essere. Non c'è posto per la violenza in un mondo di amore e gentilezza. Vorrei anche scusarmi con l'Academy (che ha condannato il gesto ricordando che "non perdona la violenza in nessuna forma", ndr) i produttori dello spettacolo, tutti i partecipanti e gli spettatori in  tutto il mondo. Vorrei scusarmi con la famiglia Williams e la mia famiglia King Richard. Sono profondamente dispiaciuto che il mio comportamento abbia macchiato quello che è stato un viaggio altrimenti meraviglioso per tutti noi". Per concludere con un "I am a work in progress". 

Lo schiaffo di Will Smith, vero o farsa. Il giallo agli Oscar (secondo i media Usa). Rita Celi La Repubblica il 28 Marzo 2022.

C'è chi si interroga se il clamoroso gesto dell'attore sia stato preparato a tavolino durante la cerimonia in diretta. 

È stato il gesto che ha risvegliato dal torpore di una serata piacevole ma un po' lunga e fuori orario per il Vecchio Continente, ma ha anche scatenato il giallo sui media Usa che ora si interrogano se non fosse tutto preparato alla cerimonia di consegna degli Oscar. Il riferimento è a Will Smith, protagonista della lunga notte delle stelle, prima per aver colpito sul volto Chris Rock e poi per aver ricevuto il suo primo Oscar per attore protagonista per la sua interpretazione di King Richard. Un siparietto preparato a tavolino secondo alcuni media Usa, versione che non convince altri che invece credono all'estemporaneità del gesto, una reazione in difesa della moglie. 

Poco prima di ricevere l'Oscar come migliore attore, Will Smith è stato protagonista di un gesto eclatante nei confronti di Chris Rock, colpevole di aver fatto una battuta sull’aspetto della moglie dell'attore, Jada Pinkett Smith, chiedendo se il suo prossimo film sarebbe stato il seguito di Soldato Jane, riferendosi al film con Demi Moore che aveva la testa rasata. Con molta calma Will Smith si è alzato dalla poltrona, ha raggiunto il palco e ha sferrato un colpo sul volto del comico.

Quindi è tornato al suo posto, rivolgendo qualche parolaccia verso Rock, omessa dalla diretta tv sulla Abc: "Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua fottuta bocca” gli ha urlato due volte. Tutto questo perché Jada Pinkett Smith da anni combatte contro l'alopecia, una malattia autoimmune che causa la caduta dei capelli. La telecamera ha inquadrato la donna, seduta accanto al marito, che alla battuta ha alzato gli occhi verso il cielo.

Chris Rock è rimasto impassibile e ha tentato qualche battuta: "Will Smith mi ha appena picchiato. È la più grande notte nella storia della televisione". Poco dopo, durante una pausa, prima Denzel Washington e poi Bradley Cooper si sono avvicinati a Will Smith mostrando il loro supporto all'amico, che avrebbe reagito per difendere la moglie da una battuta infelice, abbracciandolo.

Ad avvalorare la tesi che non fosse tutto preparato, le lacrime e lo smarrimento nelle parole di Will Smith che dopo una mezzora è tornato sul palco per ricevere l'Oscar come miglior attore e si è scusato con l'Academy e i suoi colleghi candidati per l'incidente, ma non ha menzionato Rock. Ma c'è chi dubita dell'autenticità della scena facendo notare alcune incongruenze: innanzitutto il fatto che Will Smith rida dopo la battuta di Chris Rock (mentre la moglie guarda in alto con aria seccata); alcuni inoltre sostengono che lo schiaffo stesso non sia avvenuto realmente, e puntano il dito sulla gestualità e l'audio del colpo; infine il sorriso visibile sul volto dell'attore subito dopo aver preso a schiaffi il comico.

Stringendo la statuetta tra le mani Will Smith ha parlato di Richard Williams, il padre di Venus e Serena Williams, che interpreta nel film King Richard - Una famiglia vincente. Smith ha detto che Richard Williams "è stato un feroce difensore della sua famiglia". E ha aggiunto tra le lacrime: "In questo momento della mia vita sono sopraffatto da quello che Dio mi chiede di fare su questa terra. Sono stato chiamato nella mia vita ad amare le persone, a proteggere le persone ed essere un fiume per la mia gente. Ho dovuto proteggere Jade. Io voglio essere un ambasciatore di questo tipo di amore, cura, attenzione". Smith ha confidato che prima della sua vittoria, il collega Denzel Washington lo aveva messo sull'avviso, dicendogli: "Nel tuo momento più alto fai attenzione, è allora che il diavolo arriva". Quindi si è scusato per l'accaduto manifestando la speranza che "l'Academy mi inviti di nuovo".

L'Academy ha affidato il suo commento in un post su Twitter dicendo che "non tollera la violenza in qualsiasi forma". Da parte sua Chris Rock si è rifiutato di presentare una denuncia alla polizia nei confronti di Will Smith. La polizia di Los Angeles non sta indagando sull'incidente in questo momento, secondo quanto ha riferito il dipartimento in un comunicato. Chris Rock ha comunque sei mesi di tempo per denunciare l'attore per lo schiaffo ricevuto in diretta: Will Smith rischierebbe fino a sei mesi di prigione e a una multa fino a centomila dollari.

"Mi dispiace enormemente per come Will sia riuscito a rovinare la serata più importante della sua vita. Nessuno sa i pregressi di quel nervo tanto scoperto da fargli perdere così controllo" commenta su Twitter Gabriele Muccino che poco prima della cerimonia aveva fatto il tifo per l'amico attore, protagonista del suo La ricerca della felicità. "Lui sa sempre come uscire da ogni situazione. Il fatto che ieri sia inciampato mi addolora", conclude il regista.

Will Smith balla alla festa di Vanity Fair

Dopo la cerimonia sembra che sia tutto passato. Will Smith viene accolto alla festa di Vanity Fair sulle note della sua vecchia hit Gettin Jiggy with It e ci mette un istante a lasciarsi andare, ballando e cantando la sua canzone stringendo tra le mani il suo Oscar, come testimonia il video postato da Ramin Setoodeh, executive Editor di Variety

Oscar 2022: chi è Chris Rock, l'attore comico schiaffeggiato da Will Smith. La Repubblica il 28 Marzo 2022.

Film, serie tv, show e tanti premi. Chris Rock, attore statunitense, ha ricevuto uno schiaffo da Will Smith durante la serata degli Oscar. Rock è considerato uno dei comici più noti e influenti degli Stati Uniti e le sue battute irriverenti non sono una novità. La carriera di Rock è iniziata recitando al fianco di Eddie Murphy e il suo successo è arrivato grazie al Saturday Night Live e a The Chris Rock Show. L'attore ha avuto esperienze anche con ruoli drammatici, serie tv, doppiaggi e come regista. A cura di Sofia Gadici

Beverly Hills Cop II: chi è Chris Rock, il comico schiaffeggiato da Will Smith. Erika Pomella il 16 Aprile 2022 su Il Giornale.

Beverly Hills Cop II è uno dei film più iconici e divertenti con Eddie Murphy, che ha avuto il merito di lanciare anche la carriera di Chris Rock, il comico colpito da Will Smith ai premi Oscar.

Beverly Hills Cop II è il secondo capitolo della saga cinematografica dedicata al personaggio di Axel Foley. Si tratta di un film diretto da Tony Scott e che vede come protagonista Eddie Murphy. La pellicola andrà in onda questa sera alle 21.25 su Nove e vede, tra i protagonisti, il comico Chris Rock che, in queste ultime settimane, ha fatto parlare molto di sé per quello che è accaduto durante l'ultima consegna dei premi Oscar.

Beverly Hills Cop II, la trama

Uscito in sala nel 1987, Beverly Hills Cop II riprende le indagini di Axel Foley (Eddie Murphy), un poliziotto di Detroit che si è trasferito a Los Angeles - e, nello specifico, a Beverly Hills - per aiutare alcuni suoi amici nella risoluzione di un caso che sembra difficilissimo e che potrebbe aver bisogno proprio del carattere impulsivo e intuitivo di Axel. Così il poliziotto si mette al servizio del capitano Andrew Bogomil (Ronny Cox), del detective Billy Rosewood (Judge Reinhold) e del sergente John Taggart (John Ashton). Il caso su cui è chiamato a investigare riguarda alcune rapine in negozi di lusso: rapine che sono caratterizzate da buste sulle quali gli artefici del crimine lasciano delle lettere dell'alfabeto, apparentemente senza senso.

Axel, così come i suoi amici, si vedrà ostacolato dal nuovo capo della polizia della città degli angeli (Allen Garfield), che sembra non avere nessuna qualità adatta a ricoprire il suo ruolo. Intanto, all'orizzonte, si affaccia anche la minaccia della misteriosa Karla Fry (Brigitte Nielsen), che lavora per l'uomo d'affari Maxwell Dent (Jurgen Prochnow). Riuscirà Axel a riportare la giustizia in città?

Ecco chi è Chris Rock

Beverly Hills Cop II è un film che ha il merito di sottolineare ancora una volta il grande talento comico di Eddie Murphy, capace di "nascondersi" dietro grandi personaggi diventati iconici, come quelli di Una poltrona per due e Il principe cerca moglie. La pellicola, però, è stata anche quella che ha fatto partire la carriera del comico Chris Rock, che in queste settimane è stato nell'occhio del ciclone a causa dello schiaffo ricevuto da Will Smith durante l'ultima cerimonia dei premi Oscar.

Tutto è accaduto poco prima che Smith ritirasse il suo premio come miglior attore per il film King Richard - Una famiglia vincente, a causa di una battuta infelice che il comico ha fatto ai danni di Jada Pickett-Smith, moglie dell'attore affetta da alopecia. Uno schiaffo che è costato a Will Smith l'esilio dagli eventi dell'Academy of Motion Picture per dieci anni e che ha fatto impennare le vendite dei biglietti dello spettacolo comico di Chris Rock, Ego Death Tour. Proprio in questa occasione, secondo quanto riportato dalla CNN, Chris Rock ha parlato dell'affaire Will Smith, dicendo: "Non ho un mucchio di stronzate da dire su quello che è successo. Perciò se siete venuti qui per sentirmene parlare, sappiate che ho uno show intero che ho scritto prima di questo weekend. E sto ancora processando quello che è successo, perciò a un certo punto parlerò di tutta questa merda. E sarà serio e divertente, ma per il momento farò solo qualche battuta."

Prima di Beverly Hills Cop II, Chris Rock aveva avuto solo una minuscola parte nel film Krush Groove: una parte talmente microscopica da non risultare nemmeno nei titoli di coda. Nel film di Tony Scott, invece, il comico interpretava il valletto di un parcheggio: si trattava di una parte comunque piccola, ma che gli ha aperto le porte del cinema, dal momento che nel 1992 tornò a recitare al fianco di Eddie Murphy in Il principe delle donne. Fu proprio Murphy a scoprirlo durante uno dei suoi spettacoli e, secondo il sito dell'Internet Movie Data Base, Chris Rock ha sempre riconosciuto nell'attore il modello a cui aspirare. Classe 1965, Chris Rock - secondo Il riformista - ha cominciato a muoversi nella scena comica statunitense facendo degli spettacoli di cabaret al Rising Star di New York prima di cominciare a muoversi nel mondo del cinema. Nei primi anni '90, invece, fu un volto fisso del noto Saturday Night Live, spettacolo incentrato proprio sui talenti comici e sui cosiddetti stand-up comedian. Il suo stile comico è caratterizzato dalla voglia di affrontare temi a lungo considerati dei veri e propri tabù, come il razzismo, l'abuso di droghe e la povertà tra i cittadini afroamericani. Il suo "impegno" da questo punto di vista spinse l'Academy Awards, secondo Britannica, a insistere affinché Chris Rock, scelto come presentatore agli Oscar del 2016, parlasse della controversia in atto a Hollywood, quando in molti chiedevano di boicottare la cerimonia per l'assenza di attori afroamericani.

Agli Oscar, Will Smith ha perso un’occasione per dare l’esempio solo per mostrarsi maschio alfa. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 28 marzo 2022

Will Smith poteva dire che la satira è sempre legittima ma che non si dovrebbe perdere l’empatia neppure quando si è pagati per infilzare il prossimo con battute feroci, che la battuta non era un granché, che Chris Rock era un cretino, perfino. Lo avrebbe umiliato con classe, lasciandolo tramortito. Insegnando qualcosa a milioni di spettatori. E invece no

Immaginate la scena. David di Donatello, Luciana Littizzetto o Maurizio Crozza conducono la serata. Uno dei due fa una battuta a un’attrice, compagna di un attore presente in sala. Una battuta su un problema di varia natura, un’acne deturpante, un lutto recente, un licenziamento, quello che vi pare. Lei abbozza.

Quell’attore - che so, Alessandro Haber - si alza, attraversa la scena, ha quei 10 secondi per riflettere su quello che sta facendo e così, senza tanti complimenti, sferra un pugno in faccia a Maurizio Crozza. O a Luciana Littizzetto. E il pubblico, gli organizzatori, tutti muti, immobili, come se niente fosse. Ma non finisce qui. Quell’attore dopo pochi minuti è di nuovo sul palco a ritirare un premio - il premio più importante della sua carriera - e a fare il suo discorsetto strappalacrime, mentre Luciana Littizzetto si passa il ghiaccio sull’occhio e gli organizzatori dietro le quinte: «Beh dai pure te però Luciana te le cerchi eh!».

Nel frattempo Haber non si giustifica né si scusa con la conduttrice ma dice al pubblico adorante cose da investito dal Signore, tipo: «Richard Williams era un difensore accanito della SUA famiglia, in questo momento della mia vita sono sopraffatto da quello che Dio mi chiede di fare su questa terra. Sono stato chiamato nella mia vita ad amare le persone, a proteggere le persone ed essere un fiume per la mia gente. Ho dovuto proteggere Jada. Io voglio essere un ambasciatore di questo tipo di amore, cura, attenzione».

Cioè, ha appena dato un pugno a un comico in mondovisione perché la battuta su sua moglie era cattiva, e parla da predicatore dell’amore, da protettore del genere femminile che evidentemente lui ritiene così fragile indifeso da aver bisogno di quella sua mano che oggi po’ esse ferro e domani piuma.

Poi, siccome non può fare proprio finta di niente, aggiunge: «Quando sei nel momento più alto, il diavolo viene a prenderti» e «L'amore ti farà fare cose pazze», scusandosi con i colleghi (non con Chris Rock). Insomma, quel pugno non è colpa sua che è un truzzo incapace di gestire la rabbia, è colpa del diavolo. E in effetti, vista la maturità emotiva di Will che a quanto pare è quella di un bambino di 8 anni, «mannaggia al diavoletto che ci ha fatto litigar» è un buon argomento.

LA LEGITTIMAZIONE

Lo è un po’ meno «l’amore fa fare cose folli», ovvero lo scomodare l’amore per costruirsi alibi e attenuante per un gesto violento. Anche perché chi si occupa di violenza di genere lo sa (ma pure chi non se ne occupa e vive su questo mondo), il legittimare la violenza del maschio che deve riparare a qualche torto subito passa sempre attraverso la storiella della follia, della pazzia che obnubila, che “poverino, non ci ha visto più”.

Non poteva rispondere, replicare, zittire il comico, no, doveva picchiarlo.

Eppure parliamo di un attore di 53 anni a cui non sarebbero mancati gli strumenti per dare quel buon esempio da unto del Signore che dice di essere e spiegare in mondovisione che l’alopecia non è un tumore e sua moglie Jada sopravviverà, ma che sta affrontando un profondo disagio psicologico e che quel disagio avrebbe meritato maggiore delicatezza.

Poteva dire che la satira è sempre legittima ma che non si dovrebbe perdere l’empatia neppure quando si è pagati per infilzare il prossimo con battute feroci, che la battuta non era un granché, che Chris Rock era un cretino, perfino. Lo avrebbe umiliato con classe, lasciandolo tramortito. Insegnando qualcosa a milioni di spettatori.

Ha perso una buona occasione Will Smith e ne ha colta una orrenda per mostrare al mondo che a una battuta sgradevole o indelicata si risponde con un pugno, menando le mani, continuando pure da seduto a urlare come un Alex Belli qualunque che «SUA moglie» «la SUA famiglia» blabla, mentre Jada Pinkett taceva nel ruolo della donzella il cui onore veniva difeso dal maschio alfa.

O forse - lo spero - si vergognava e basta. Il tutto, e qui viene da ridere, accadeva dopo il minuto di silenzio per la pace in Ucraina. E dopo la sfilza di premi al politicamente corretto che a un certo punto non si capiva più se erano gli Oscar o Sanremo.

«Beh ma la battuta era pessima, la moglie è malata, ci sta che uno ti dia uno schiaffo» è l’argomento più in voga tra la corrente di quelli che «no alla violenza ma solo se non ti provocano». Una corrente molto frequentata anche dalle donne, leggo tra i commenti ai miei post, inconsapevolmente rapite dall’idea del maschio così erotico quando mena per sancire la sua superiorità su un altro maschio, così figo quando marca il territorio della fragilità femminile a suon di schiaffi, visto che la donna, povera cucciola, è indifesa e così irrimediabilmente incapace di difendersi da sola.

L’ESPERIENZA

Qualche mese fa ho scritto un podcast su quanto io abbia sofferto per una dipendenza affettiva, un libro in cui raccontavo che tra gli effetti psicosomatici della mia sofferenza ci fu la perdita dei capelli. Alopecia, defluvium capillorum, chiamatela come vi pare.

Un mio collega ci scrisse su una recensione sbeffeggiandomi, scrivendo che visto che non ero stata picchiata potevo pure lagnarmi un po’ meno.

Gli risposi che era un cretino perché ignorava cosa fosse la sofferenza psicologica e ne ho approfittato per ribadire il concetto.

Il mio fidanzato, ai tempi, ha scelto saggiamente di non aspettare il giornalista sotto casa con una mazza chiodata.

A dire il vero, si è limitato anche lui a «è un cretino» tra le mura di casa, perché è una persona civile e non violenta. E perché io, in ogni caso, non gli avrei permesso di arrogarsi il diritto di difendere la mia fragilità con un gesto autoritario e violento, né tantomeno di auto-assolversi con le frasette diseducative della serie «l’amore fa fare cose folli», «tutti reggerebbero così».

Questi sono i temi di chi ha interiorizzato quel registro, di chi legittima la violenza entro confini che hanno a che fare con la retorica della famiglia intoccabile perché SUA, di chi pensa che in nome dell’amore tutto vada perdonato. E infine, fatemelo dire, bisognerebbe smetterla di parlare in modo paternalistico e retorico anche della malattia.

Lasciate che sia il malato a decidere i limiti del disagio che prova rispetto a una battuta. Qui abbiamo deciso arbitrariamente che c’era una moglie di, malata, debole, che andava protetta a suon di pugni.

Io ho visto un’attrice con una bella testa rasata che rispondeva a una battuta indelicata col silenzio, seduta accanto a un maschio convinto di dover pisciare sul SUO territorio, di dover riparare all’offesa con la violenza, di poter poi ritirare un premio come se niente fosse. Cosa avvenuta, per giunta, perché le statuine erano quelle sedute in platea, mica quelle che davano agli attori.

E ritorno all’inizio: immaginate se l’attore avesse picchiato Luciana Littizzetto.

Ah no, giusto, se avesse picchiato lei gli avrebbero tolto la statuina. Perché una donna non si tocca. Al massimo si lascia lì, muta sulla sedia e si mena al posto suo.

Ah, quanti tasselli vi mancano per completare il mosaico del maschilismo paternalistico.

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

And the smataflone goes to. Will Smith, Chris Rock e lo schiaffo che ha mandato in cortocircuito i suscettibili. Guia Soncini su L'Inkiesta il 29 Marzo 2022.

Per i parametri contemporanei fare battute su una donna malata è inaccettabile, ma più o meno di una manata? Come posizionarsi?

Quelli scarsi come prima cosa pensano a come trarre dei punti dolenza da ogni inciampo, come uscirne vittime, come lagnarsene; quelli bravi pensano a come trasformare il tutto in materiale narrativo. E infatti, tre secondi dopo aver preso quel che a Bologna si chiamerebbe «uno smataflone» da Will Smith, il non a caso più capace comico vivente, Chris Rock, già diceva «è il più gran momento della storia della televisione». Se penso a cosa diventerà quel momento nel suo imminente tour, mi pento di non aver comprato un biglietto.

I fatti, se per caso aveste passato le ultime trenta ore a fare un pisolino (beati voi). Sul palco degli Oscar, Chris Rock dice che non vede l’ora di vedere Jada Pinkett Smith nel seguito di “Soldato Jane”, il film in cui Demi Moore era una soldatessa rapata a zero. Jada è rapata perché ha l’alopecia; cioè le cadono i capelli, il che da quando abbiamo abolito le gerarchie delle dolenze vale quanto cancro, tetraplegia, bancarotta, figli morti.

Quando Rock fa la battuta, i coniugi Smith sono inquadrati: Jada alza gli occhi al cielo, Will ride forte. Pochi secondi dopo, Smith va verso Rock e gli dà appunto lo smataflone. Rock reagisce con tale aplomb che i più illusi di noi – quelli che credono che nelle produzioni hollywoodiane regni ancora un qualche ordine – pensano sia un siparietto.

Poi Smith torna a sedersi, e a quel punto per il pubblico americano va via l’audio: l’America è quella perpetua terza elementare dove il pubblico può vedere un tizio schiaffeggiato ma guai a fargli sentire le parolacce. Per fortuna c’è la globalizzazione, e quindi entro pochi minuti sentiamo tutti registrazioni delle dirette giapponesi e australiane, con Smith che tornato in platea urla a Rock «tieni fuori mia moglie dalla tua cazzo di bocca» (come omaggio al cinquantennale del Padrino era un po’ esagitato).

Un amico saggio dice che lui a quel punto ha capito che non era un siparietto preparato: figurati se gli autori televisivi americani facevano dire «fucking» a Smith. Io, che sono di coccio, ho voluto credere fortissimo all’esistenza di produzioni televisive che hanno il controllo della situazione. Ho ceduto alla perdita delle illusioni solo quando, poco dopo, Smith ha vinto l’Oscar come migliore attore, e ha fatto un discorso di ringraziamento in cui, un po’ Benigni un po’ Gianni Morandi con Barbara Cola, diceva che aveva fatto tutto quel che aveva fatto per amore, e che si scusava.

Adesso che abbiamo riassunto i fatti, possiamo passare alle considerazioni, in ordine di mio interesse.

La serata era condotta da tre comiche donne, di nessuna delle quali ci ricordiamo una battuta, un’uscita, un niente, perché tutta l’attenzione è stata monopolizzata da Chris Rock e dall’unica battuta della serata che abbia provocato una qualche reazione (una battuta che non offende nessuno è una battuta inutile). È quel che accade quando pensi di poter forzare la mano al mercato e metti tre comiche irrilevanti a condurre: che poi arriva il più gran comico vivente a presentare un premio ai documentari, fa una battuta, e vien giù il cielo.

La ragione per cui Chris Rock presentava quel premio è che in passato ha prodotto un documentario. E il documentario – se questa cosa la sceneggi, il produttore te la cassa per inverosimiglianza della coincidenza – parlava del complesso delle donne nere rispetto ai capelli. S’intitolava “Good Hair”, chissà se qualcuno avrà la prontezza di mandarlo in onda sulla scia promozionale della rissa della settimana.

Per i suscettibili è stato un cortocircuito letale. Anni che ci dicono che le parole sono una forma di violenza, e figuriamoci fare una battuta su una donna malata. Ma uno smataflone è uno smataflone: rappresentazione plastica di come no, le parole non siano violente quanto le azioni. Epperò, è stato il rifugio delle polemiste, è colpa dei due patriarchi che ne fanno una rissa tra di loro, privando la povera Jada (donna, ergo vittima) della possibilità di difendersi da sola.

Trovo molto interessante che nessuna abbia preso in considerazione l’ipotesi che, nei due secondi in cui non era inquadrato dopo aver riso, Will si sia voltato verso Jada, lei gli abbia fatto lo sguardo della morte, e lui abbia saputo ciò che sanno i mariti da secoli: se non mi difendi con me hai chiuso, se non lo prendi a smatafloni non sei un uomo.

Certo, la mia è un’ipotesi di fantasia (non sappiamo cosa succede nei nostri matrimoni, figuriamoci in quelli degli attori), ma serve ancora più fantasia per pensare che Smith, senza ingerenze muliebri, sia passato dal ridere della battuta ad aggredire Rock al grido di «tu mia moglie la lasci stare capitoooo».

È altresì interessante il modo in cui, quando agli Oscar succede una cosa di cui tutti vorranno parlare per giorni (voglio dire: l’ultima volta che agli Oscar era successo qualcosa era quando Warren Beatty e Faye Dunaway avevano fatto casino con le buste), i giornali patinati fanno finta di niente. Mentre il resto delle piattaforme social esplodeva, l’account Instagram di Vogue America continuava bello sereno a fare post su com’erano vestiti Will e Jada. Direte voi: è normale, si occupano di moda. Si vede che son vent’anni che non li seguite, perché nel frattempo i giornali patinati sono passati dal tenersi alla larghissima dall’attualità al buttarcisi a capofitto. Solo che come la racconti, una dinamica così scivolosa? Con chi stai? Con la donna malata e irrisa? O con la vittima del tizio venuto alle mani, persino se la vittima è maschio (ma nero, però è nero anche il carnefice e insomma il conteggio dei punti dolenza è complesso)? Che posizione ti fa perdere meno lettrici offese e meno interviste future a qualche star?

Perché, alla fine, nel grande bazaar dei prosciutti, vince o perde non chi ha ragione ma chi fattura. A fine serata Amy Schumer – una delle tre irrilevanti conduttrici – ha postato su Instagram foto con decine di tag, dicendo sì, lo so che stiamo tutti pensando ad altro, ma volevo parlarvi dello stilista del mio vestito, di chi mi ha prestato i gioielli, e altri piazzismi. Prosciutto must go on, e non è che la cronaca quasi nera (la polizia di Los Angeles ha informato che Rock non ha sporto denuncia) possa distoglierci dai nostri doveri, sennò poi la prossima volta non riusciamo a scroccare vestiti.

Da questo punto di vista, non si può che dichiarare vincitore Rock, che fatturerà istantaneamente facendo della volta che le prese in mondovisione dall’attore che aveva interpretato Mohammed Alì materiale comico. Jada probabilmente fatturerà le sue fragilità di donna che viene difesa dal marito nella sua serie su YouTube. L’unico a non fatturare, ma anzi a dover stare schiscio finché non si dimenticano tutti che ha fatto la figura del violento, è il povero Will. E povero pure il suo commercialista.

Will Smith, lo schiaffo a Chris Rock agli Oscar? "Sesso a tre davanti alla figlia", un clamoroso sospetto. Libero Quotidiano il 28 marzo 2022.

Lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock durante la 94esima edizione degli Oscar fa ancora discutere. C'è anche chi si chiede il perché di tutta quella rabbia. È il caso di Ottavio Cappellani, che maliziosamente si chiede: "L’alopecia di Jada Pinkett Smith è solo di Jada Pinkett Smith? Anche se Jada Pinkett Smith ha fatto un video, pochi mesi fa, per mostrare al mondo la sua alopecia e, quindi, farne discutere? È una questione di diritti dell’immagine calva? O si possono prendere in giro solo gli uomini calvi?". Su mowmag.com lo scrittore ricorda che in altre circostanze ben più gravi l'atteggiamento dell'attore sia stato alquanto benevolo. 

Proprio come quando August Alsina ha parlato della relazione avuta con la moglie di Smith, confermando inelegantemente quello che, in quel momento, era solo un gossip senza fondamento. "Insomma - è il commento di Cappellani - a Will Smith puoi dargli del cornuto (lo ha fatto prima Alsina e poi sua moglie stessa svelandogli, in diretta, il suo tradimento), ma non puoi dire che sua moglie ha un taglio di capelli alla 'Soldato Jane'".

Ma non è tutto, perché la Pinkett Smith è andata ben oltre, dimostrando di non essere una che bada troppo a cosa pensi la gente. Basta pensare a quando ammise "di aver fatto sesso a tre con Smith dinanzi alla loro figlia, rigorosamente in diretta". Dunque - conclude lo scrittore - si può mettere in pericolo l’Oscar per salvare la moglie, da cosa? Da una battuta?

Will Smith, ecco cosa è stato censurato dopo lo schiaffo: completamente fuori controllo agli Oscar. Libero Quotidiano il 28 marzo 2022.

C'è una frase pronunciata da Will Smith che è stata censurata dalla diretta dagli Oscar. "Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua fottu*** bocca", avrebbe detto l'attore a Chris Rock una volta tornato al suo posto dopo avergli tirato uno schiaffo in faccia. A raccontarlo è la giornalista della Cnn, Stephanie Elam, che era presente alla cerimonia. Rock aveva fatto una battuta sulla testa rasata di Jada Pinkett, moglie di Smith, che non è piaciuta affatto all'attore. 

Secondo il racconto della giornalista della Cnn, durante la presentazione del premio per il miglior documentario, Rock ha scherzato sull'acconciatura di Jada Pinkett, che da anni combatte contro l'alopecia, una malattia autoimmune che causa la caduta dei capelli. La telecamera ha inquadrato la donna, seduta accanto al marito, la quale alla battuta ha alzato gli occhi verso il cielo. Rock poi ha continuato a ridere mentre Smith si è alzato dal suo posto ed è andato verso di lui, sul palco, colpendolo in faccia. Poi è tornato al suo posto e, secondo il racconto della Elam, avrebbe ripetuto due volte la frase: "Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua fottuta bocca".

Quaranta minuti dopo la rissa Smith è tornato sul palco per ricevere l'Oscar come miglior attore e si è scusato con l'Academy e i suoi colleghi candidati per l'incidente, ma non ha menzionato Rock. Ha accettato in lacrime il premio per il ruolo di Richard Williams, il padre di Venus e Serena Williams, nel film King Richard - Una famiglia vincente. Smith ha detto che Richard Williams "è stato un feroce difensore della sua famiglia". E ha aggiunto: "So che per fare quello che facciamo, dobbiamo essere in grado di sopportare gli abusi e fare in modo che le persone parlino di noi. In questo settore, bisogna avere persone che ti mancano di rispetto. E bisogna sorridere e fingere che vada tutto bene".  

Will Smith, sfregio di Luca Bizzarri a Guido Crosetto: "La frase più fascista che abbia mai sentito". Libero Quotidiano il 28 marzo 2022.

Quanto accaduto nella notte degli Oscar tra Will Smith e Chris Rock è stato argomento di grande discussione sui social, anche da parte di chi di solito si occupa di ben altre faccende. È il caso di Luca Bizzarri e Guido Crosetto, che hanno avuto uno scambio piuttosto forte sulla vicenda, soprattutto per un commento del primo all’indirizzo del secondo.  

Ma andiamo con ordine. Il primo tweet sul caso Smith-Rock è stato di Bizzarri: “Probabilmente era concordato, ma il momento ‘a battuta (orrenda) rispondo con ceffone’ non fa altro che legittimare il ceffone come risposta alla parola. Ed è di una gravità impressionante, perché dà ragione a quelli che poi chiamate ‘mostri’ quando lo schiaffone lo danno a voi”. Crosetto evidentemente non è dello stesso avviso: “Magari diminuiscono le battute orrende e le parole che fanno molto peggio di uno schiaffo. Non sono certo che sia una cosa negativa”. 

A questo punto, però, la replica di Bizzarri è stata dura ed è andata anche sul personale: “Ma no infatti, bisognerebbe sparargli, a quelli che dicono cose che non ci piacciono. A volte sono d’accordo con Crosetto e non penso sia un fascista. Ma ‘con gli schiaffi magari diminuiscono le battute orrende’ è una delle frasi più fasciste che io abbia sentito in vita mia. Proprio tecnicamente fascista. Mi dispiace”. Crosetto ha deciso di non rispondere per il momento: le parole di Bizzarri sono state piuttosto pesanti.

Oscar, lo schiaffo di Will Smith squarcia il velo sui “buoni” di Hollywood. Perché il ceffone alla cerimonia degli Oscar schiaffeggia i benpensanti del politicamente corretto. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 28 Marzo 2022.

Black lives smatter. Proprio una bella spolverata, gli ha dato Will Smith all’intrattenitore Chris Rock, e tutto per una faccenda in fin dei conti banale. Ma si sa come sono queste star, sempre molto sensibili, attente ai mali del mondo ma poi ci mettono un attimo ad esaltarsi, a finire sopra le righe. Di cosa, meglio non dire. È andata così, che alla cerimonia degli Oscar, a Los Angeles, il non troppo bravo presentatore Rock non trova di meglio che sparare una battuta sulla moglie di Will, Jade Pinkett, invitata a girare il seguito di Soldato Jane. Che nel film è rasata a zero, ovviamente: come la Pinkett, la quale tuttavia soffre di alopecia: tanto è bastato perché il marito, in modalità Muhammad Ali, piombasse sul palco mollando un manrovescio all’esterrefatto Chris, che, per sovrappiù, si è sentito ringhiare dall’attore, subito tornato a sedersi a fianco alla consorte: “Che il nome di mia moglie non esca più dalla tua fottuta bocca!”. Il Dolby Theatre basito. Ghiacciato. Nicole Kidman a bocca spalancata, del genere “one size fits all”. Poi il monologo del Rock è proseguito, la cerimonia pure e a Will Smith gli hanno ammollato pure un Oscar.

E qui, se possiamo dirlo, fuori da gesuitiche formule, ci girano un po’ i coglioni. Perché l’America sensibile ci impone linguaggi, comportamenti, liturgie del politicamente corretto usque ad dementiam, però poi è la prima a tradirli. Perché quello che va bene per il mondo, per loro va bene fino a quando. Le due stelle colorate si sono comportate, se ne siano accorte o meno, come due che pensano: sì, va bene, il politically correct, la woke, la cancel culture, il BLM; tutte stronzate, appena mi toccano nel vivo, appena escono dai canoni, torna fuori il senso dell’onore, la gang culture, la voglia di machismo.

Intendiamoci, qui nessuno si sente di far la morale a Will Smith perché ha difeso la moglie, al contrario alzi la mano chi non si sarebbe grossomodo comportato così; il punto è un altro, è che, se vale per loro, perché non dovrebbe valere pure per noi comuni mortali? Perché se una superstar di Hollywood perde le staffe come un bullo da strada gli danno un Oscar, e se capita a qualsiasi povero cristo viene denunciato, sommerso di fango, dannato nella memoria? E se fosse stato un viso pallido a reagire così contro un abbronzato? Apritevi tutti i cieli, a quest’ora non si parlerebbe d’altra e qualsiasi guerra o pandemia sarebbe uscita a calci dall’agenda globale.

Allora? Che dobbiamo fare? Il conduttore ha fatto una battuta (scarsa, squallida, telefonata) e l’attore ha reagito da marito italico, ma senza un minimo di eleganza, di ironia, come uno che non ha le parole in bocca per rispondere a tono: possiamo liquidare tutto come una delle solite bizzarrie dell’iperuranio cinematografico oppure possiamo scendere un po’ più in profondità e preoccuparci. Perché l’America dei veti e degli obblighi, dell’esportazione di cultura strampalata, del processo alla storia e alle statue, l’America patinata e stupida che non sa più chiamare uomo un uomo e donna una donna, che premia come femmina dell’anno e nuotatrice dell’anno due maschi, in realtà patisce una recrudescenza degli istinti primitivi, una violenza di ritorno carsica, come di rigetto per l’eccesso di ipocrisia: dai suoi presidenti, da Trump a Biden, alle sue celebrità, basta poco per sclerare. Però con l’aria di dire: beh, noi possiamo.

Invece appena è un qualsiasi altro abitante del pianeta a riscoprirsi umano, troppo umano, alzano il ditino e sparano la morale. Una morale insostenibile, visionaria, imbecille. E ipocrita, troppo ipocrita. Eh no, cari, prima dovete curarvi voi e il vostro Black Lives Slapper. E lasciateci anche un po’ vivere, che da due anni abbiamo i giorni tutti uguali e la colpa certo è nostra, che non sappiamo resistere a un greenpass e critichiamo gli ucraini che resistono ai carrarmati, ma forse un po’ di responsabilità, magari indiretta, magari riflessa, ce l’avete pure voialtri, o no? Max Del Papa, 28 marzo 2022

Lo schiaffo, Scientology, la coppia aperta: tutto su Will Smith e la moglie. Novella Toloni il 28 Marzo 2022 su Il Giornale.

La coppia, una delle più longeve di Hollywood, è anche la più chiacchierata per la relazione aperta che conduce (mai nascosta) e per i presunti legami con Scientology. 

"L'amore fa fare cose folli", ha dichiarato Will Smith mentre ringraziava il pubblico e la giuria per l'Oscar ottenuto per l'interpretazione in "Una famiglia vincente- King Richard". Lo ha detto per scusarsi dello schiaffo rifilato pochi minuti prima al conduttore della serata dedicata alle statuette d'oro del cinema, Chris Rock, per una battuta infelice fatta su sua moglie, che da anni soffre di alopecia.

Ma il gesto violento mostrato sul palco non è l'unica "follia" della coppia, da sempre una delle più chiacchierate di Hollywood. Will Smith e Jada Pinkett, sposati dal 1997, non hanno fatto mai mistero - ad esempio - di essere una coppia aperta. "Non sono monogamo, il matrimonio non deve essere una prigione e Jada non ha mai creduto nel matrimonio convenzionale", ha detto tranquillamente Smith al magazine GQ qualche mese fa. L'attore ha ammesso di sentirsi libero di frequentare altre persone, anche sessualmente, senza intaccare il legame con la moglie: "Le esperienze, le libertà che ci siamo dati l'un l’altro e il sostegno incondizionato, per me, sono la più alta definizione di amore".

La moglie di Smith: "Ho provato il sesso a 3  ma non mi è piaciuto"

La conferma, che il loro è matrimonio aperto, è arrivata quando Jada Pinkett Smith ha ammesso di avere avuto una relazione extraconiugale con il rapper August Alsina di vent'anni più giovane di lei. Era l'autunno del 2020 e l'attrice aveva svelato di avere attraversato un momento di crisi personale. Le stranezze della coppia riguardano, però, anche la sfera religiosa con la presunte vicinanza degli Smith al movimento di Scientology. L'attore e la compagna hanno smentito i legami con la "setta" tanto cara a Tom Cruise, ma negli Stati Uniti ha fatto molto discutere l'ingente donazione fatta dai coniugi Smith a una scuola, il cui sistema educativo sarebbe stato collegato in parte ai precetti del movimento.

Le voci sulla simpatia verso Scientology sono state alimentate anche dall'amicizia dell'attore con Tom Cruise, considerato uno degli esponenti di spicco dell'organizzazione dopo il fondato Ron Hubbard. A complicare il tutto sono state le dichiarazioni rilasciate dall'ex scientologist Leah Remini, che aveva dichiarato di avere visto spesso Jada Pinkett Smith al Celebrity Center, uno dei luoghi di culto del movimento. Una notizia smentita (in parte) dalla moglie di Will Smith, che su Twitter aveva dichiarato di avere pregato ogni culto nel corso della sua vita.

Caro Will Smith, l’amore non c’entra con la violenza. “L’amore fa fare cose folli”, ha detto l'attore dopo il ceffone a Chris Rock. Ma amare vuol dire arrogarsi il diritto di sapere cosa è meglio per l'altro? Il Dubbio il 29 marzo 2022.

Chi avrebbe mai potuto biasimare Jada Pinkett, se fosse stata lei a salire sul palco degli Oscar per consegnare un ceffone a Chris Rock che l’aveva appena offesa con una battuta da prima liceo? Per fortuna non l’ha fatto. E il resto è già storia: sul palco del Dolby Theatre ci è salito Will Smith, come sospinto dal bisogno irrefrenabile di riscattare l’onore della moglie. Il risultato è che, una volta intascata la statuetta, l’attore dovrà dire più dell’interprete che del personaggio.

Ma per quanto noi altri ci arrovelliamo per segnare il giusto limite oltre il quale è lecito offendersi (e quindi reagire), ciò che proprio non torna in questa faccenda sta nelle parole che ne sono seguite allo schiaffo. “L’amore fa fare cose folli”, si è giustificato Will. E noi lo perdoniamo, però crediamo il contrario: l’amore fa dire cose stupide, soprattutto quando lui, l’amore, c’entra poco. Will è caduto nel vecchio trabocchetto maschile e un po’ maschilista di sapere cosa è meglio per l’altro. Anzi, per l’altra. E a mischiare le due cose ci vuole davvero poco.

Altro che gag. Will Smith e Chris Rock, i ‘precedenti’ dietro lo schiaffo agli Oscar: le vecchie battute del comico su Jada Pinkett. Redazione su Il Riformista il 28 Marzo 2022. 

Altro che gag, un piano costruito ad arte per risollevare gli ascolti sempre più in crisi dei premi Oscar. Dietro il sonoro ceffone rifilato da Will Smith a Chris Rock per la pesante battuta del comico nei confronti di Jada Pinkett Smith, la moglie dell’attore poi premiato con la statuetta, c’è della vecchia ruggine.

Bisogna tornare al 2016 ma lo scenario è lo stesso, la serata di premiazione degli Oscar. Sul palco c’ ancora una volta lui, il comico Chris Rock, ma questa volta in platea non ci sono Will Smith e la moglie. Nel monologo di apertura l’attore fa riferimento proprio a Jada Pinkett, che aveva annunciato e poi deciso di boicottare la serata degli Oscar dopo la scelta da parte della Academy di escludere dalle nomination il marito per la sua interpretazione in ‘Concussion’, pellicola in cui Will Smith interpreta il dottor Bennet Omalu, neuropatologo nigeriano che scoprì la CTE, una malattia degenerativa che colpisce il cervello, avviando una feroce battaglia contro i dirigenti della NFL (National Football League, la lega americana di football)per la scarsa attenzione nei confronti degli atleti.

“Jada che boicotta gli Oscar è come se io boicottassi le mutandine di Rihanna: non sono stato invitato”, è la battuta al vetriolo di Chris Rock, che nel monologo di apertura non risparmia lo stesso Will. “Non è giusto che Will, così bravo, non sia stato inserito in nomination. Ma è anche ingiusto che Will sia stato pagato 20 milioni per Wild Wild West”, in riferimento al film flop del 1999 ispirato all’omonima serie tv.

Ma non basta. Due anni dopo l’ennesima frecciatina di Chris Rock ai due arriva dopo gli auguri di compleanno che Will Smith fa su Instagram all’ex moglie Sheree Zampino: “Wow. Hai una moglie molto comprensiva”, è il commento del comico. Il riferimento in questo caso allo status di “coppia aperta” di Will Smith e della moglie Jada Pinkett. Nel luglio 2020 quest’ultima aveva ammesso di aver tradito il marito col cantante August Alsina, all’epoca 27enne, conosciuto tramite il figlio Jaden.

Quello di ieri sera è stato dunque solo l’ultimo degli screzi tra la coppia e il comico.  Tutto, come ormai noto, è iniziato mentre Chris Rock era sul palco per premiare il vincitore del miglior documentario. Durante il suo monologo il comico ha fatto una battuta su Jada Pinkett: “Jada, ti voglio bene. Soldato Jane 2, non vedo l’ora di vederlo!”. Il riferimento della battuta era un ipotetico sequel di Soldato Jane (G.I. Jane, il titolo in inglese), film del 1997 in cui una soldatessa interpretata da Demi Moore tagliava i suoi capelli rasati a zero. Alla battuta il pubblico ha rumoreggiato, Jada Pinkett Smith ha alzato gli occhi al cielo. Aveva rivelato pubblicamente nel 2018 di soffrire di alopecia, una malattia che può provocare la perdita dei capelli.

Smith prima ha sorriso, quando le telecamere sono tornate sul palco è salito, si è avvicinato a Rock e gli ha tirato un fortissimo schiaffo. “È stata la più grande notte nella storia della televisione”, ha commentato il comico. Il gelo è piombato negli studi. “Era solo una battuta”, ha detto Rock. “Tieni fuori mia moglie da quella f*****a bocca”, ha gridato due volte Smith. “Lo farò”, ha replicato il presentatore”.

Un gesto che ha fatto il giro del mondo. Per Gabriele Muccino, il regista italiano che ha diretto Will Smith in “Alla ricerca della felicità” e “Sette anime”, con quel gesto dell’attore “è riuscito a rovinare la serata più importante della sua vita. Nessuno sa i pregressi di quel nervo tanto scoperto da fargli perdere così controllo. Lui sa sempre come uscire da ogni situazione. Il fatto che ieri sia inciampato mi addolora“.

Altri, come l’attore e regista Rob Reiner, chiedono invece all’Academy di ritirare l’Oscar a Smith: “Le scuse all’Academy e le lacrime nel suo discorso di ringraziamento non valgono nulla, dovrebbe chiedere scusa a Chris Rock. Abbiamo assistito al momento Oscar più brutto di sempre”.

Il commento lapidario dell'Academy: "Nessuna violenza in qualsiasi forma". Will Smith rischia di perdere l’oscar? L’ipotesi dopo lo schiaffo a Chris Rock per la battuta sulla moglie. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Marzo 2022.

L’edizione 2022 della notte degli Oscar resterà senza dubbio nella storia. E Will Smith e il suo sonoro schiaffo al comico Chris Rock ne sono diventati indiscussi protagonisti. La battuta sui capelli della moglie Jada Pinkett Smith ha mosso la reazione dell’attore in diretta mondiale che pochi minuti dopo è risalito sul palco per ritirare l’Oscar. Momenti di emozioni contrastanti all’interno del Dolby Theatre di Los Angeles.

Dall’Academy una risposta ferma sull’accaduto: “L’Academy non perdona la violenza in nessuna forma – si legge in un tweet – Stasera siamo lieti di celebrare i nostri 94° Permio Oscar che meritano questo momento di riconoscimento da parte dei loro coetanei e amanti del cinema da tutto il mondo”. Una frase lapidaria e per ora nulla più. Ma che può essere l’annuncio di una sanzione nei confronti dell’attore? Potrebbe addirittura perdere l’Oscar?

Certo è che tutta la vicenda è successa in un lasso di tempo molto breve. La battuta, Smith che scatta dalla poltrona e sale sul palco, lo schiaffo, quel “Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua fottuta bocca!”, e poi torna a sedere in platea. All’inizio lo spaesamento dei presenti che in un primo momento hanno creduto che fosse una sorta di gag organizzata. Poi dai toni hanno capito che non era così. E intanto i produttori erano consapevoli che Smith poco dopo avrebbe dovuto ricevere la statuetta più prestigiosa del cinema.

In circostanze normali, Smith sarebbe stato quasi certamente portato via dalle guardie di sicurezza e scortato fuori dall’auditorium, ma lo schiaffo è arrivato pochi istanti prima dell’annuncio del premio per il miglior attore. Come riporta l’analisi fatta dal Mattino, solo tre persone nell’edificio sapevano che Smith avrebbe ricevuto l’ambito premio, incluso il produttore dello spettacolo Will Packer e due contabili della Price Waterhouse Coopers che sovrintendevano alla tabulazione dei risultati degli Oscar prima che le buste vincenti venissero distribuite e aperte sul palco. I produttori sono stati quindi messi in una situazione impossibile su come affrontare l’assalto.

Durante la pausa pubblicitaria pare che i produttori siano stati visti correre al tavolo di Smith per dirgli qualcosa. Will Smith è stato messo da parte e confortato da Denzel Washington e Tyler Perry. Intanto la polizia di Los Angeles era stata allertata dell’accaduto ma tuttavia il comico non sembra aver sporto denuncia, almeno per il momento. Se lo avesse fatto l’attore avrebbe potuto essere condannato fino fino a 6 mesi di prigione e una multa fino a 100mila dollari.

L’Accademia ha ristabilito il suo Codice di Condotta nel 2017 durante il Movimento Me Too. “L’appartenenza all’Accademia è un privilegio offerto solo a pochi eletti all’interno della comunità globale di registi”, ha scritto l’amministratore delegato di AMPAS Dawn Hudson ai membri a seguito di vari scandali nel settore. L’Accademia ha preso provvedimenti contro alcuni membri in passato. Il magnate caduto in disgrazia Harvey Weinstein è stato privato della sua appartenenza all’organizzazione dopo essere stato dichiarato colpevole di decenni di comportamento sessuale scorretto, comprese le accuse di stupro.

Nel 2017, Greg P. Russell, un mixer audio di 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi, è stato privato della sua nomination all’Oscar dopo essere stato sorpreso a telefonare ai suoi colleghi membri dell’Academy’s Sound Branch “per informarli del suo lavoro su la pellicola. Le chiamate sono state una “violazione diretta di un regolamento della campagna che vieta il lobbying telefonico”, afferma una dichiarazione dell’Accademia. Nel 2014, la canzone Alone Yet Not Alone del film poco conosciuto con lo stesso nome ha ricevuto la revoca della nomination per la migliore canzone originale dopo che il compositore Bruce Broughton, membro dell’Accademia ed ex governatore, ha contattato via e-mail gli altri membri del ramo, infrangendo le regole dell’Accademia.

Dopo lo schiaffone, Smith ha ritirato il premio Oscar come attore protagonista nel film King Richard, una famiglia vincente. E nel suo discorso di accettazione si è scusato tra le lacrime: “l’amore fa fare cose folli”, ha detto. Poi le scuse all’Academy: “Voglio scusarmi con tutti i miei amici nominati”, ha aggiunto. “Questo è un bellissimo momento e io non sto piangendo per aver vinto il premio. Non è una questione di vincere un premio. È questione di essere in grado di irradiare una luce su tutte le persone”. Smith ha ringraziato l’intero cast ma anche Venus e Serena e l’intera famiglia Williams. “L’arte – ha aggiunto – imita la vita. Io sembro adesso il padre pazzo. Ma l’amore fa fare cose pazze”.

E in quelle lacrime, forse, c’era molto di più. Quegli insulti a sua moglie forse nella sua mente sono riecheggiati come le botte che che da ragazzo assisteva sulla madre da parte del padre. Quel “nervo scoperto” di cui parla Gabriele Muccino nel tweet sulla vicenda. Una volta, è stato lo stesso attore a raccontarlo nel passato, sua madre fu colpita così violentemente da perdere sangue dalla bocca. “Richard Williams – ha commentato l’attore – è stato un fiero difensore della famiglia”.

“In questo momento della mia vita sono sopraffatto da ciò che Dio ha voluto che io facessi e rappresentassi in questo mondo. Nel fare questo film, io ho dovuto proteggere Aunjanue Ellis (che nel film fa la parte della madre delle tenniste, ndr), una delle più forti, delicate persone che abbia mai incontrato. Ho dovuto proteggere Saniyya e Demi, le due attrici che hanno interpretato Venus e Serena”.

“Io – ha aggiunto – ho avuto il compito in questa vita di amare la gente, di proteggere la gente e di essere un fiume per la mia gente. So quello che devo fare. In questo mondo devi essere capace di sopportare persone che ti mancano di rispetto. E devi sorridere e far finta che tutto è okay”. Smith ha ricordato un consiglio che gli ha dato un altro grande attore, Denzel Washington: “Ora che sei nel momento più alto, stai attento, perchè è quando il diavolo ti verrà a cercare”, come a preannunciare l’inizio delle vere difficoltà dopo aver vinto, a 53 anni, il premio più ambito per un attore. Difficoltà che potrebbero essere dietro l’angolo.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Una relazione travagliata ma tra le più longeve di Hollywood. Will Smith e la moglie Jada Pinkett, un matrimonio lungo 25 anni e 3 figli: tra rivelazioni e colpi di scena agli Oscar 2022. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Marzo 2022.

Si è aggiudicato l’Oscar 2022 come migliore attore ma più che dell’importante trofeo di Will Smith si continua a parlare dello schiaffo che ha dato a Chris Rock sul palco in diretta mondiale. Il comico aveva pesantemente scherzato sui capelli di sua moglie Jada Pinkett Smith che soffre di alopecia. E così lo scatto d’ira e poi la consegna del trofeo tra le lacrime e le scuse di Smith. “Per amore si fanno cose folli”, ha detto scusandosi.

I due, entrambi attori, sono sposati da 25 anni e sono una delle coppie più longeve di Hollywood. Lui 53 anni, lei 50. Hanno due figli: Jaden, 23 anni e Willow, 21 anni. Si sono sposati nel 1997. Will e Jada si sono conosciuti nel 1994 sul set di “Willy, il principe di Bel-Air”: l’attrice aveva fatto il provino per il ruolo della fidanzata di Willy, Lisa Wilkes, ma non era stata presa perché considerata troppo bassa (è alta 1 metro e 52, contro 1 metro e 88 di lui). I due hanno iniziato a frequentarsi qualche anno dopo e, quando si sono sposati, il 31 dicembre 1997, lei era in attesa del loro primo figlio Jaden, nato nel 1998. La coppia ha poi avuto la figlia Willow nel 2000 e Pinkett Smith è anche diventata madre adottiva di Trey Smith, primogenito di Will nato dal precedente matrimonio.

Sebbene la coppia duri da tanto tempo non è tuttavia la prima volta che i due fanno parlare di loro. Durante la trasmissione Red Table che Jada conduce dal 2020, dichiarò di avere con Will una relazione aperta. Alla puntata c’erano come ospiti anche la figlia Willow Smith e la madre di Jada, Adrienne Banfield-Norris. La confessione arrivò dopo quella di August Alsina, cantante, grande amico di Jada. “Poi, sono entrata in diversi tipi di coinvolgimento con August – ha detto, come riportato da Repubblica – Era una relazione a tutti gli effetti” ha ammesso Pinkett Smith, chiarendo che non si trattasse di un tradimento perché all’epoca si era momentaneamente separata dal divo di Men in Black.

Dal canto suo Will Smith ha parlato di diverse relazioni extraconiugali, precisando però che l’allontanamento temporaneo della moglie è sempre stato un mezzo per ritrovarsi più forti di prima e non lasciarsi mai. “Jada non ha mai creduto nel matrimonio convenzionale perché è cresciuta in una famiglia aperta, al contrario di me” ha dichiarato Smith. “Abbiamo avuto infinite discussioni su cosa significhi avere una relazione perfetta ed interagire come una coppia. Per la maggior parte del nostro percorso abbiamo scelto la monogamia, ma non pensiamo che sia l’unica relazione perfetta. Il matrimonio, per noi, non può essere una prigione”.

Jada non ha mai nascosto i suoi problemi giovanili con alcol e droga. All’epoca era solo fidanzata con il divo di Hollywood. Lui nel salotto di Ophra Winfrey ha rivelato anche un altro dettaglio della loro relazione: l’importanza del sesso. “Facevamo sesso più volte al giorno, ho cominciato a pensare che fosse una competizione e mi sono detto, ci sono due possibilità: ‘o riuscirò a soddisfare questa donna o morirò provandoci'”. Nelle fasi di minore intesa, invece, l’attore si sarebbe rivolto ad una specialista di sesso tantrico (con tecniche basate sulla spiritualità, che promettono tempi di durata dell’amplesso più lunghi) per recuperare l’intimità persa.

Il programma Red Tablet è stata anche la situazione in cui Jada ha deciso di esternare la sua attrazione per le donne. “Mi piace essere circondata da donne ma non credo di poter costruire con loro una relazione d’amore. Poi, mai dire mai” ha dichiarato Jada. Pinkett Smith ha poi raccontato di essersi infatuata di una persona dello stesso sesso almeno due volte in giovinezza, quando aveva vent’anni per poi definire molto affascinante “quel sentimento unico di comprensione e condivisione che si può avere con una sorella o un’altra donna”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Oscar, Jada Pinkett, la moglie di Will Smith, scrive: «E’ la stagione della guarigione».  Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.

L’attrice scrive su Instagram un commento dopo la serata turbolenta: il marito ha dato uno schiaffo a Chris Rock che ha fatto una battuta sulla testa rasata di Jada. 

Dopo 24 ore di silenzio, Jada Pinkett, moglie di Will Smith, ha scritto il suo commento: «Questa è la stagione della guarigione. E io sono qui per questo». Non che il messaggio sia molto chiaro, ma almeno i suoi quasi 12 milioni di follower hanno avuto un cenno dopo la notte turbolenta degli Oscar. Will Smith, il marito, ha dato un potente schiaffo al comico, conduttore della serata, Chris Rock che aveva fatto una battuta (infelice) rivolgendosi proprio a Jada: «Jada, ti voglio bene. Soldato Jane 2, non vedo l’ora di vederlo!», riferendosi alla testa rasata di Demi Moore nel citato film, proprio come rasata è la testa della signora Smith. Peccato che la sua non sia stata una scelta, ma una malattia per cui cadono i capelli: l’alopecia. La sera degli Oscar Jada appariva bellissima: 50 anni, affascinante, elegantissima in un abito verde aderente e vaporoso con strascico, trucco perfetto, testa priva di capelli e grande fastidio per quella battuta.

Jada tuttavia sembra una donna risolta: nel 2021 si è fatta tagliare via tutti i capelli e sull’argomento si è già pronunciata abbondantemente. Ai tempi disse, riferendosi al suo taglio netto: «E’ stato un salto nel vuoto, ma ho scoperto molte cose di me stessa. E’ stato liberatorio. Venivo da anni in cui mi valutavo su come piacessi agli altri, mi taravo su come gli altri volessero vedermi, non per come pensavo volessi essere io stessa. Ero immersa in questo mondo, ho deciso perciò di essere me stessa e mi sono liberata, finalmente. Avrei voluto farlo da tanto tempo. Ho lasciato andare via tante cose insieme alle chiome, è stata perciò anche una esperienza quasi mistica, sicuramente di riscoperta».

Qualche ora prima del suo stringato messaggio su Instagram, il marito aveva postato le sue scuse a tutti, compreso Chris. «La violenza in tutte le sue forme è velenosa e distruttiva. Il mio comportamento agli Oscar è stato inaccettabile e imperdonabile. Le battute a mie spese fanno parte del lavoro, ma una battuta sulle condizioni mediche di Jada era troppo da sopportare e ho reagito emotivamente». 

Jada Pinkett e la malattia, il post dopo il gesto di Will Smith agli Oscar. La Repubblica il 29 Marzo 2022.

L'attrice su Instagram: "Questa è la stagione per guarire". In precedenza sui social il marito si era scusato con il comico Chris Rock per averlo schiaffeggiato in diretta. La madre: "È la prima volta in tutta la vita che lo vedo scattare". 

 "Questa è la stagione per guarire. E io sono qui per questo": lo ha detto Jada Pinkett, la moglie di Will Smith, in un post su Instagram dopo la bufera che ha investito l'attore per lo schiaffo in diretta al comico Chris Rock durante la notte degli Oscar.

Il post dell'attrice arriva dopo le scuse che il marito ha rivolto pubblicamente a Chris Rock. "Scherzi a mie spese sono parte del lavoro, ma lo scherzo su un problema medico di Jada è stato troppo da sopportare e ho reagito emotivamente", ha detto il neo-premio Oscar per King Richard, definendo "inaccettabile e senza scuse" il suo comportamento. Un giudizio che era stato già espresso dalla stessa Academy, che aveva subito condannato il gesto ricordando che "non perdona la violenza in nessuna forma".

"Voglio farti le mie pubbliche scuse Chris - ha aggiunto l'attore - Ho sbagliato e mi sento imbarazzato. Le mie azioni non sono indicative dell'uomo che vorrei essere". 

Ha parlato dell'accaduto anche la madre di Will Smith, Carolyn, in una intervista a una affiliata della Abc di Filadelfia. La donna non ha nascosto il suo stupore affermando che è la prima volta che ha visto perdere le staffe a suo figlio. "È una persona molto calma. Uno che sta bene con la gente. È la prima volta che lo vedo scattare. La prima volta in tutta la vita", ha detto Carolyn Smith, orgogliosa del premio Oscar del figlio: "So quanto lavora. Ho aspettato tanto per questo momento".

Will Smith e Jada Pinkett, quando lei lo tradì con l'amichetto del figlio. Libero Quotidiano il 29 marzo 2022.

Lo schiaffo tirato da Will Smith a Chris Rock nella notte degli Oscar ha attirato non poche attenzioni sull'attore e soprattutto sul suo matrimonio con Jada Pinkett. L'aggressione sul palco, infatti, è avvenuta proprio dopo una battuta del comico sulla testa rasata della moglie di Will, che da tempo soffre di alopecia. Smith e Pinkett si sono sposati nel 1997 e hanno avuto due figli. Ma la loro unione è stata tutt'altro che convenzionale: tra di loro ci sarebbero stati tradimenti reciproci, trasgressioni, libertà incondizionata, grandi liti ma anche riappacificazioni.

In una recente intervista è stato l'attore stesso a dire: "Il matrimonio non può essere una prigione. Jada e io siamo una coppia aperta, la monogamia non può essere la perfezione, il nostro segreto è la libertà". Proprio questa libertà ha fatto sì che la Pinkett intrattenesse una relazione col rapper August Alsina, di 21 anni più giovane, conosciuto grazie al figlio Jaden. Il tutto in un periodo piuttosto complicato, mentre viveva da separata in casa con Will. Jada confessò il tradimento al marito pubblicamente, durante una diretta Facebook. Allo stesso tempo il rapper scrisse una canzone, "Entanglement" ossia "intreccio", che rese tutto ancora più chiaro. Il brano recita: "Ragazza, so che non la chiamiamo relazione / Ma stai sempre sco***ndo con me".

Secondo alcune indiscrezioni, tra l'altro, la Pinkett e Alsina avrebbero fatto sesso davanti a Willow, la secondogenita di Jada e Will. In ogni caso anche Smith ha ammesso di aver avuto delle storie. E non solo. Ha raccontato pure che il suo matrimonio è arrivato diverse volte al punto di rottura: "Abbiamo fatto tutto il possibile per separarci ma non ci siamo riusciti, è impossibile". 

Dagotraduzione dal Sun il 29 marzo 2022.

Dopo lo schiaffo assestato da Will Smith a Chris Rock durante la cerimonia degli Oscar, un giornalista ucraino, Vitalii Sediuk, ha ricordato un episodio simile avvenuto una decina di anni fa. Allora Will Smith lo aveva spinto e poi lo avevo schiaffeggiato perché lui aveva provato ad abbracciarlo e a baciarlo. «Mi sono appena ricordato dell’incidente dello schiaffo a Mosca». 

L’incidente è avvenuto alla premiere di Men in Black 3 a Mosca, nel maggiore 2012. Allora Sediuk, che oggi ha 33 anni, era un giovane giornalista che lavorava per una tv ucraina. 

«Penso che la battuta su Jada Pinkett fosse inappropriata perché parlava della salute di qualcuno, ma la reazione di Will non era necessaria e ha inviato il messaggio sbagliato ai comici: che potrebbero essere picchiati per uno scherzo». 

«Il pubblico di Will Smith [è] principalmente composto da uomini duri e lui stava cercando di essere super protettivo. dimostrare di essere un "vero uomo" che difende la sua famiglia e ha picchiato il ragazzo per una brutta battuta».

«Non voglio definire Will Smith incontrollabile. (Ha un) carattere violento, sì, ma sono sicuro che si rende conto di quello che sta facendo. Ma possiamo anche affermare che la sua famiglia è più importante per lui degli Oscar, il che non è male». 

«Ha difeso sua moglie dopo una brutta battuta. Il problema è come lo ha fatto. Sono sicuro che avrebbe potuto trovare un modo più elegante. Inoltre, non dimenticare che è un A-list ed essere A-list a Hollywood significa che puoi farla franca con un sacco di cose. Gli A-listers possono farla franca con tutto».

Smith si è scusato con l'Academy in lacrime nel suo discorso di accettazione dopo aver vinto il premio come miglior attore domenica, ma non ha chiesto pubblicamente scusa a Rock. 

Sediuk afferma che la star di King Richard Smith non lo ha mai contattato da quando l'incidente è avvenuto nel 2012. L'ucraino si è scusato pubblicamente all'epoca, ma dice che non lo farebbe ora. 

Smith può essere visto nel filmato mentre dice "Ehi! Dai!" e spinge via Sediuk. Poi dice "Qual è il tuo problema, amico?" prima di schiaffeggiare il giornalista. Smith ha rivelato nel 2018 di aver parlato con la superstar del rap Jay-Z dell'incidente poco dopo che era accaduto. In un'intervista con il podcast Rap Radar, ha affermato che Jay-Z gli ha detto: «È stata una tale boccata d'aria fresca vederti essere autentico». 

Parlando dalla capitale ucraina assediata di Kiev, Sediuk ha detto a The Sun: «Ho scherzato sul fatto che Will si stesse esercitando con me allora perché a Chris Rock ha dato uno schiaffo molto più forte di quello che ha assestato a me». 

«Ma anche con me è stata comunque dura. Non si vede bene nel video, ma era già abbastanza difficile. Mi ha fatto male ma stavo bene. Non c'era alcuna idea (dietro l'abbraccio e il bacio) in quel momento, ero solo un giornalista e non un burlone». 

«Volevo una domanda esclusiva e non solo banalità sul film, quindi sono andato per un abbraccio e un bacio sulla guancia. Abbracciarsi e baciarsi è una pratica comune nei paesi slavi e ho chiesto a Will un abbraccio in quella clip, quindi non è stato spontaneo». 

«Era solo la riluttanza di Will Smith a baciare la guancia. Non c'è niente di sbagliato in questo, non a tutte le persone piace».

Dopo l'incidente con Smith, Sediuk è passato a veri e propri scherzi alle cerimonie di premiazione e agli eventi sul tappeto rosso. Nel 2013, è stato incarcerato per aver preso d'assalto il palco ai Grammy Awards mentre Adele stava accettando un premio per la migliore performance da solista pop. 

Poi, nel 2014, ha afferrato Bradley Cooper per le gambe agli Screen Actors Guild Awards e ha seppellito brevemente la sua faccia nell'inguine di Leo DiCaprio al Santa Barbara International Film Festival. È stato licenziato dalla stazione televisiva 1+1 dopo essere strisciato sotto l'abito di America Ferrera mentre posava per le foto alla premiere di How to Train Your Dragon 2. 

E nel maggio di quell'anno è stato arrestato dopo essere entrato in contatto con Brad Pitt e essersi rotto gli occhiali alla premiere di un film a Hollywood. 

Lo scherzo più recente di Sediuk è avvenuto alla settimana della moda di Parigi nel 2019 quando ha afferrato la gamba di Justin Timberlake.

Will Smith, "una malattia mentale": cosa c'è dietro lo schiaffo a Chris Rock agli Oscar. Libero Quotidiano il 29 marzo 2022.

"Quando non riesci a controllare i tuoi impulsi, è un segno di grande malattia mentale": il conduttore radiofonico Howard Stern ha parlato in questi termini di Will Smith dopo lo schiaffo tirato a Chris Rock sul palco degli Oscar. A scatenare l'attore, che nel corso della cerimonia è stato pure premiato come Miglior attore protagonista, è stata una battuta del comico sulla testa rasata della moglie Jada Pinkett. Quest'ultima infatti soffre di alopecia e per questo preferisce rasarsi i capelli.

"Non era certo uno scherzo offensivo. Non era nemmeno una bella battuta", ha continuato Stern, 68 anni, durante il suo SiriusXM Show. Secondo lui, l'unica cosa emersa è che Will ha "problemi reali. Non ci ha pensato due volte a quello che stava per fare. È pazzesco, quando non riesci a contenerti in quel modo". Il conduttore, poi, ha definito il comico "un'anima gentile" che stava solo cercando di fare il suo lavoro, mentre Smith è "chiaramente un pazzo".

Stern, come riporta PageSix citato da Dagospia, ha lodato Rock per il modo in cui ha reagito allo schiaffo ed è andato avanti come se nulla fosse. E poi ha giudicato inaccettabile il fatto che nessuno dei presenti abbia fatto nulla per evitare quella situazione: "Hollywood si indigna per ogni piccola cosa. Ma nessuna persona si è alzata e ha detto: 'Aspetta, abbiamo una situazione fuori controllo qui'". Il conduttore radiofonico infine si è posto una domanda: "Come è possibile che gli sia stato permesso di restare seduto lì per il resto della cerimonia, a continuare a ridere e divertirsi con sua moglie?".

Dagotraduzione da Pagesix il 29 marzo 2022.

Il presentatore Howard Stern è stato "disturbato" dall'assalto di Will Smith a Chris Rock agli Oscar del 2022 e sostiene che l'attore di "Re Riccardo" deve soffrire di malattie mentali. 

«Quando non riesci a controllare il tuo impulso è un segno di grande malattia mentale. Non era certo uno scherzo offensivo. Non era nemmeno una bella battuta», ha detto Stern, 68 anni, al suo SiriusXM Show lunedì, riferendosi alla battuta di di Rock sulla testa pelata di Jada Pinkett Smith.

«Lo scherzo, francamente, era al di sotto di Chris Rock. Era un usa e getta. “Sembri il Soldato Jane”». 

Stern sostiene che in tv i fan hanno visto «un ragazzo che ha problemi reali». «Non ci ha pensato due volte a quello che stava per fare», ha detto. «È pazzesco, quando non riesci a contenerti in quel modo». 

Il conduttore radiofonico ha affermato che Rock - che ha descritto come «un'anima gentile» e «non un combattente» - stava solo cercando di fare il suo lavoro e Smith è «chiaramente pazzo». 

«Il povero Chris Rock è un comico e sta solo cercando di superare la giornata per far ridere la gente del cazzo in quell'orribile cerimonia», ha detto Stern. «[Rock è] così veloce per quanto riguarda la commedia, dopo in realtà ha fatto una battuta e ha detto: “Accidenti, i migliori Oscar di sempre”».

Ha aggiunto: «È stato in grado di commentare al di fuori di ciò che gli era appena successo e poi si è agitato. Si è fottuto». 

Stern ha continuato a difendere i commenti di Rock, dicendo che la battuta non era nemmeno così offensiva. «Si è alzato e ha paragonato Jada Pinkett Smith a una delle donne più belle del mondo, Demi Moore», ha detto Stern. «Non colpisci le persone per il discorso, di certo non agli Academy Awards, e Will Smith deve contenersi». 

Stern ha anche affermato che era inaccettabile che nessuno avesse fatto nulla per contenere la situazione e avesse semplicemente permesso a Smith di continuare a sedersi tra il pubblico. «Hollywood si indigna per ogni piccola cosa. Ma nessuna persona si è alzata e ha detto: “Aspetta, abbiamo una situazione fuori controllo qui”», ha detto.

«Come è possibile che a questo ragazzo sia stato permesso di restare seduto lì per il resto della cerimonia, a continuare a ridere e divertirsi con sua moglie. Quello che ha fatto è stato aggredire Chris Rock». 

Stern ha detto che all'inizio pensava che l'assalto fosse stato messo in scena, ma si è reso conto che l'attacco era solo Smith che agiva d'impulso. 

«La prima cosa che ho detto a mia moglie, “Che cazzo sta succedendo? Questo è un po' troppo? Perché, dov'è la sicurezza?”», ha ricordato. «Questo è un evento televisivo in diretta. Non una persona ha fatto coming out, perché si tratta di Will Smith».

«È così che [Donald] Trump se la cava con la sua merda... Will Smith e Trump sono la stessa persona. Ha deciso di prendere in mano la situazione, in un momento in cui il mondo è in guerra. Cattivo tempismo, amico, calma il tuo fottuto culo». 

Il conduttore radiofonico ha scherzato sul fatto che Smith, 53 anni, si è alzato per combattere Rock, 57 anni, solo perché è molto più grande del comico. 

«Se a fare quella battuta fosse stato Jason Momoa, Smith, come un cane, si sarebbe rimasto seduto lì al suo posto. E avrebbe detto: “Grazie per aver riconosciuto mia moglie, signor Momoa”», ha scherzato Stern. 

Stern ha anche sottolineato quanto sia strano che Smith non sia stato arrestato per il suo chiaro assalto a Rock, anche se che Rock non ha sporto denuncia. «Perché deve sporgere denuncia? L'abbiamo visto in diretta TV con i nostri occhi», ha detto Stern.

Come riportato da Page Six domenica, Smith ha colpito Rock in faccia con una mano aperta per aver fatto una battuta sulla testa calva di sua moglie alla 94a edizione degli Academy Awards. 

Pinkett Smith, 50 anni, si è recentemente rasata la testa ed è stata aperta sulla sua lotta con l'alopecia, che causa la caduta dei capelli. «Jada, ti amo, “Soldato Jane 2”, non vedo l'ora di vederlo», ha detto Rock sul palco. Pinkett Smith si è arrabbiata visibilmente e Smith si è avvicinato rapidamente a Rock per aggredirlo. 

«Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua fottuta bocca», ha gridato più volte Smith dopo essere sceso dal palco. Pochi minuti dopo, pur accettando il premio come miglior attore per il suo ruolo in "King Richard", Smith si è scusato, anche se non ha menzionato Rock. «Voglio scusarmi con tutti i miei colleghi candidati. Questo è un momento bellissimo e non sto piangendo per aver vinto un premio»”, ha detto mentre soffocava le lacrime. «L'amore ti farà fare cose pazze».

Page Six ha anche riferito che Rock e Smith avevano in programma di fare ammenda all'afterparty di Vanity Fair, cosa che Sean "Diddy" Combs  ha successivamente confermato. 

«Non è un problema. È finita. Posso confermarlo», ci ha detto Diddy, 52 anni, aggiungendo: «È tutto amore. Sono fratelli».

Nella testa di Will Smith: dietro lo schiaffo a Chris Rock, l’infanzia, il padre violento e quel senso di colpa per non aver difeso sua madre. Elisa Messina su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.

«È tutta la vita che lotto per non essere un codardo», «Ho scelto la comicità per disinnescare le negatività» raccontava l’attore nella sua autobiografia uscita pochi mesi fa. Leggerla oggi getta una luce nuova sul suo gesto violento nella notte degli Oscar. 

«Quando avevo nove anni vidi mio padre colpire mia madre alla testa con tanta forza da farla svenire e sputare sangue. (...) Insita in tutto quello che ho fatto da allora - i premi e i riconoscimenti, i riflettori e l’attenzione, i personaggi e le risate - c’è sempre stata una sottile sequela di scuse a mia madre per l’inerzia mostrata quel giorno. Per averla delusa in quell’istante. Per non aver tenuto testa a mio padre. Per essere stato un codardo». Per capire (attenzione, non giustificare) lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock durante la notte degli Oscar, bisogna andare a leggere attentamente la sua autobiografia «Will» pubblicata a fine 2021 (in italiano è edito da Longanesi). L’infanzia con il padre autoritario e violento, la tensione costante in famiglia, la comicità come scelta di vita per disinnescare le negatività, esorcizzare la paura e scacciare i propri sensi di colpa: lì Will Smith racconta la storia che lo ha reso ciò che è. E che lo ha portato, 45 anni dopo quella notte in cui sua madre è stata picchiata a sangue, a salire sul palco per picchiare il conduttore della serata in diretta tv: doveva difendere sua moglie. Perché non aveva difeso sua madre. E perché è tutta la vita che lotta per non essere un codardo.

Lo schiaffo in diretta per la brutta battuta sull’alopecia di Jada Pinkett va letto alla luce della vita di Will. Certo, è stato un brutto scivolone di educazione e di stile, un’esibizione di mascolinità tossica che fa passare in secondo piano l’intenzione di difendere una donna (che per altro sa difendersi bene da sola). Ma dietro lo schiaffo e le parole «Togli il nome di mia moglie dalla tua fottuta bocca» c’è la storia di un ragazzo il cui rapporto con il padre era un mix di ammirazione e paura, la storia del figlio che ha scelto di non combattere, come invece facevano i suoi fratelli, ma di compiacere: «A casa mia tutti erano pronti a combattere, tutti tranne me» racconta l’attore.

Nel discorso di ringraziamento pronunciato tra le lacrime dopo aver ricevuto l’Oscar Will Smith ha cercato, come si dice, di metterci una pezza: ha citato il personaggio del film, «King Richard» , padre di Serena e Venus Williams, definendolo «Un difensore accanito della famiglia» per paragonarlo a se stesso e spiegare il suo personale e profondo desiderio di difendere sua moglie, la sua famiglia: «In questo momento della mia vita sono sopraffatto da quello che Dio mi chiede di fare su questa terra. Sono stato chiamato nella mia vita ad amare le persone, a proteggere le persone ed essere un fiume per la mia gente. Ho dovuto proteggere Jade. Io voglio essere un ambasciatore di questo tipo di amore, cura, attenzione». Ma ancora una volta ha tirato fuori il suo «personaggio», quello che il pubblico conosce da sempre, lo spaccone buono e generoso, come il pilota di «Indipendence Day» che prende a cazzotti un alieno appena uscito dalla sua astronave. Quel personaggio di sé che lui ha costruito fin da bambino: «Ero l’intrattenitore della famiglia, volevo mitigare la tensione e portare gioia e divertimento (...). Avrei dovuto essere capace di fare contento mio padre. Avrei dovuto essere capace di proteggere mia madre. Avrei dovuto essere capace di dare gioia e stabilità alla famiglia. Avrei dovuto essere capace di sistemare tutto»: il comico ma anche l’eroe. il buffone ma anche il lavoratore instancabile. Così il ragazzino Will è diventato Will Smith. Ma ogni tanto capita che il passato ritorna e, in un attimo, fa crollare le impalcature di perfezione che negli anni si sono costruite. Un attimo che rovina un grande momento personale come può esserlo la vittoria di un Oscar.

«L’amore ti fa fare cose folli» ha detto nel discorso. «L’amore divenne nella mia testa qualcosa che si guadagna dicendo e facendo le cose giuste» racconta nel libro. Ma quello si chiama consenso. L’uomo e il personaggio. La dicotomia che lo tormenta. 

Leggere adesso la storia della vita di Smith fa intendere meglio anche le parole pronunciate molte ore dopo quello schiaffo, quelle usate per scusarsi, finalmente, con Chris Rock: «Voglio farti le mie pubbliche scuse, Chris. Ho sbagliato e mi sento imbarazzato... Le mie azioni non sono indicative dell’uomo che vorrei essere». Che tradotto significa: non voglio essere come mio padre. Un violento.

Da adnkronos.com il 29 marzo 2022.

''Lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock e quello che mi diede Roberto D'Agostino nel '91? Non sono paragonabili! Se tu durante la cerimonia degli Oscar hai di fronte un cretino che prende in giro tua moglie che è malata fai bene a dargli uno schiaffo. Smith non è stato violento, ha difeso sua moglie e ha fatto bene. Mentre D’Agostino con me è stato violento perché la nostra discussione poteva finire nel gioco". Così Vittorio Sgarbi all'Adnkronos.

"Nel caso di D’Agostino a naso avevo ragione io - dice il critico d'arte - c'era stato Cossiga che aveva fatto una lode mia di otto minuti e lui (D'Agostino, ndr), che aveva un'insofferenza, iniziò a dire cose sgradevoli e io gli buttai addosso un po’ d’acqua come a dirgli metaforicamente: 'spegniti'.

Lui rispose con uno schiaffo. Ora - continua ironico - non so se un po' d'acqua addosso e uno schiaffo siano equivalenti ma certo la sua violenza è stata superiore alla mia. E siccome io sono notoriamente polemico molti sono convinti che lo schiaffo lo abbia dato io. 

Per quanto riguarda invece quello che è accaduto agli Oscar - sottolinea Sgarbi - c’era il dramma di una donna malata e di uno stronzo che si permetteva di prenderla in giro. Lo schiaffo di Smith ha sanzionato una cosa inaccettabile. Quindi, mentre nel caso mio e di D’Agostino lo schiaffo era sproporzionato, nel caso di Smith era proporzionato'', conclude.

Da ilnapolista.it il 29 marzo 2022.  

È l’apertura della sezione sport del New York Times. L’articolo in cui è messo nero su bianco, nel titolo, che Will Smith ha rubato la serata di gloria (e del riscatto) delle sorelle Williams. Una serata che Venus e Serena attendevano da tempo. Hanno prodotto “King Richard” proprio per riscattare decenni di narrazione bianca che hanno infangato loro padre di fatto paragonandolo a una padre padrone. E quando erano lì, pronte a godersi il momento, Will Smith ha rovinato tutto col suo schiaffo che si è preso la scena.

Scrive il Nyt: La tavola era apparecchiata per un momento di trionfo familiare. Venus e Serena Williams erano vestite di tutto punto per la grande occasione e Will Smith, che aveva interpretato il loro padre Richard con verosimiglianza inquietante, era pronto a vincere l’Oscar come miglior attore. Ma poi, come spesso accade con la famiglia Williams, le cose si sono complicate e, senza alcun responsabilità delle due sorelle, la serata che avrebbe dovuto consegnarle alla celebrità è diventata la serata dello schiaffo di Will Smith al comico Chris Rock.

Non solo.

Quando Smith ha accettato l’Oscar, ha pronunciato un discorso in lacrime in cui ha detto che “l’arte imita la vita” e  ha aggiunto: “Sembro il padre pazzo, proprio come hanno sempre definito Richard Williams.” Serena, guardando il discorso da un posto in prima fila, si è coperta il viso con la mano. 

L’incapacità di Smith di controllare il suo temperamento ha trasformato la serata in una notte che le sorelle Williams non dimenticheranno mai, e per i motivi che si aspettavano.

Il papà Richard, attraverso suo figlio, ha commentato a NBC News. «Non sappiamo bene cosa sia successo ma non possiamo giustificare nessuno per la violenza, a meno che non sia per legittima difesa». Domenica era tutto pronto a casa Williams per godersi una serata indimenticabile per godersi la lunghezza del loro viaggio, la profondità dei loro successi e l’eredità di Richard. Invece, si è trasformata in una notte in cui Serena ha dovuto coprire i suoi occhi.

Chi è Richard Williams interpretato da Will Smith: il papà di Venus e Serena da Oscar. Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.

Americano della Louisiana, ispirato dalla vittoria di Virginia Ruzici a Parigi nel ‘78, prima ancora della nascita delle figlie aveva deciso che sarebbero diventate campionesse. E sul pugno dell’attore dice: «Condanno la violenza, tranne l’autodifesa».

Se ha avuto più idee geniali o mogli (tre, per la cronaca: Betty Johnson, da cui ha avuto cinque figli, Oracene Price, con cui ha generato Venus e Serena, e Lakeisha Graham, un figlio insieme a lei) è una questione ampiamente dibattuta nella spericolata vita di Richard Dove Williams Junior, 80 anni, americano della Louisiana, il self made man allenatore di tennis che ha ispirato il personaggio di «King Richard» grazie al quale Will Smith ha conquistato il premio più ambito di Hollywood nella notte degli Oscar più controversa della storia recente.

Il pugno di Smith al presentatore Chris Rock per un commento sgradito sulla moglie Jada è stato censurato da Richard Williams sulla Nbc per bocca di una delle figlie, Chavoita LeSane: «Papà dice che, pur non essendo al corrente dei dettagli di ciò che è accaduto, condanna ogni forma di violenza a meno che non sia autodifesa personale». Commento perfettamente in linea con la personalità di un uomo ingombrante e rumoroso (ai tornei veniva annunciato da un vocione da baritono che lo precedeva nei vialetti del club), mai passato inosservato (ricordate il cartello «benvenuti al Williams Party anche se nessuno vi ha invitati!» che portò nel Royal Box in occasione della vittoria a Wimbledon di Venus sulla campionessa in carica Lindsey Davenport, correva il 2000, era il primo dei sette titoli Slam della figlia maggiore avuta da Oracene), ma certamente dotato di una visione: prima ancora che nascessero, aveva deciso che Venus e Serena avrebbero giocato a tennis diventando, possibilmente, due delle più grandi campionesse della storia dello sport. Detto, fatto.

A sua volta primo di cinque figli, carattere irrequieto, Richard dopo il liceo si è trasferito in Michigan e poi in California. Nel Sunshine State, precisamente a Compton, ghetto di Los Angeles, sono nate Venus (classe 1980) e Serena (quindici mesi più giovane), cresciute schivando le pallottole dei Crips e dei Bloods, le gang locali, le figlie predilette cui lui stesso aveva deciso di insegnare a giocare a tennis (Richard aveva preso qualche lezione in gioventù da un uomo noto come «Old Whiskey»...), non essendoci al mondo un coach all’altezza delle sue talentuose ragazze. Dopo aver visto Virginia Ruzici vincere il Roland Garros nel 1978, Williams Senior aveva scritto un piano di lavoro di 85 pagine: così trasformerò le mie bambine in campionesse. La dedizione al padre, l’etica del lavoro, le doti atletiche e tecniche delle Williams Sister hanno compiuto il miracolo: sette Slam in carriera Venus, addirittura 23 Serena, a un passo dal record assoluto di Margaret Court, più tutto il resto.

A quattro anni, le eredi di Richard sono giù sul campo da tennis, debuttano nel circuito professionistico giovanissime, senza alcuna gavetta nei tornei di categoria: questa è la strada tracciata da Richard e Venus e Serena eseguono il piano di battaglia senza battere ciglio. Serena rompe il ghiaccio con lo Slam prima di Venus: nel 1999, prima ancora di compiere la maggiore età, sbrana Martina Hingis nella finale dell’Open Usa, primo di 23 Major. Il resto è storia.

Benché nel mondo del tennis Richard Williams non si sia fatto solo amici, benché si ricordi in tribunale più di una causa per violazione di contratti in cui le sorelle sono dovute comparire come testimoni, mai una parola di critica nei confronti dei modi bruschi e autoritari del padre è uscita dalla bocca delle Williams, perennemente grate, rispettose, quasi devote. «Dobbiamo a lui tutto quello che abbiamo» dicono, inclusi i conti in banca miliardari . La preoccupazione che il film non restituisse l’immagine giusta del padre era molta: Venus e Serena non hanno dato l’approvazione al film fino a quando non l’hanno visto finito e montato. C’era il rischio che il lavoro finisse al macero. Invece l’interpretazione di Will Smith è piaciuta, Oscar compreso.

Richard Williams oggi è un signore ultraottantenne, colpito negli anni da vari ictus. Non si fa vedere più in giro ai tornei, parla pochissimo ma ogni giorno risponde alle telefonate di Venus e Serena, i suoi adorati strumenti di riscatto sociale, le bandierine che ha piazzato sul mappamondo dello sport mondiale. E che nessuno, mai, potrà spostare da lì.

"Ne ho abbastanza...". E Jim Carrey si ritira. Novella Toloni il 2 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'attore americano ha manifestato la volontà di lasciare la carriera cinematografica. L'inattesa notizia è arrivata nel corso della presentazione del suo ultimo film.

Nessuno scherzo, nessuna goliardata in stile Jim Carrey. L'attore di Hollywood ha annunciato di volersi ritirare dalla scena cinematografica. A 60 anni l'indimenticabile interprete di The truman show, Yes man e Una settimana da Dio ha ammesso di averne abbastanza dei set e delle telecamere e di preferire la sua vita tranquilla tra famiglia e pittura, hobby al quale si è avvicinato da alcuni anni.

"Mi piace la mia vita tranquilla e amo dipingere su tela. Amo la mia vita spirituale e mi sento come se ne avessi abbastanza. Ho fatto abbastanza. Io sono abbastanza", ha confessato Jim Carrey durante l'intervista rilasciata a Access Hollywood - e riportata da People - in occasione dell'uscita del suo ultimo film, Sonic the Hedgehog 2, il sequel della fortunata pellicola del 2020.

La notizia del suo ritiro arriva a pochi giorni da un altro annuncio sconvolgente, quello dell'addio al cinema di Bruce Willis. Quest'ultimo è stato costretto ad abbandonare per colpa dell'afasia, un disturbo cognitivo che lo ha colpito nell'ultimo periodo e del quale la famiglia ha dato notizia pochi giorni fa. La scelta di Jim Carrey è invece personale e dettata dalla volontà di dedicarsi di più alla famiglia e ai suoi passatempi preferiti. "Sono decisamente serio", ha ribadito l'attore alla conduttrice che, sorpreso, chiedeva spiegazioni sulla sua decisione.

L'attore ha fatto sapere di non essere interessato a interpretare altri ruoli, neppure se ad offrirglieli fossero grandissimi registi e ha scherzato: "Solo se gli angeli portano una sorta di sceneggiatura scritta con inchiostro dorato, che mi dice che sarà davvero importante che le persone lo vedano, potrei continuare lungo la strada. Per ora mi prendo una pausa".

Nonostante i suoi 60 anni, Jim Carrey ha alle spalle una lunghissima carriera cinematografia. Il suo debutto risale al 1985 con un ruolo nella pellicola di Howard Storm Se ti mordo...sei mio. Quel film è stato l'inizio di una carriera folgorante, che lo ha visto interpretare decine di ruoli trai più disparati, da quelli comici a quelli più complessi. E la notizia del suo ritiro segna un'altra grande perdita nel mondo del cinema.

DAGONEWS il 2 aprile 2022.

Jim Carrey è stato accusato di essere un "ipocrita" dopo aver detto che Will Smith "avrebbe dovuto essere" arrestato per aver colpito Chris Rock agli Oscar: «Io gli avrei fatto causa per 200 milioni di dollari. È un frustrato e un egoista». 

Ma dopo i commenti di Carrey è iniziato a circolare prepotentemente un video che mostra l'attore che accetta un premio agli MTV Movie Awards nel giugno 1997: si vede lui che sale sul palco e bacia Alicia Silverstone, che stava presentando il premio. Carrey aveva 35 anni all'epoca, mentre Silverstone ne aveva 20. È bastato questo per scatenare i social

«Jim Carrey dice che Will Smith" avrebbe dovuto essere" arrestato per aver colpito Chris Rock. Che ne dite di quando Jim Carrey ha baciato con la forza Alicia Silverstone mentre stava salendo sul palco per ritirare un premio?». Un altro utente ha scritto: «Immagina di essere Jim Carrey disgustato da uno schiaffo e allo stesso tempo essere lo stesso Jim Carrey che ha baciato con forza Alicia Silverstone».

Jim Carrey attacca Will Smith per lo schiaffo da Oscar a Chris Rock. Il Tempo il 30 marzo 2022.

Non si placano le critiche sullo schiaffo di Will Smith a Chris Rock durante la cerimonia degli Oscar 2022. Secondo quanto riporta la rivista statunitense "The Hollywood Reporter", Jim Carrey si scaglia contro il collega Smith dicendo che quanto accaduto «ha danneggiato irreparabilmente non solo l’immagine di Smith ma anche l’intera industria di Hollywood». E attacca duramente i colleghi per la standing ovation riservata all’attore per la vittoria agli Oscar 2022 a nemmeno un’ora di distanza dal ceffone di Smith a Rock.

Per il protagonista di "The Mask", intervistato dalla "Cbs Mornings", Smith non doveva essere applaudito ma espulso: «Ero disgustato - ha detto - dalla standing ovation. Ho pensato che Hollywood fosse senza spina dorsale. Mi è sembrato un chiaro indizio che non siamo più il club più cool». Carrey non approva il fatto che Rock non abbia sporto denuncia: «Io avrei citato in giudizio Will per 200 milioni di dollari - ha detto - perché quel video sarà lì per sempre. Sarà onnipresente. Quell’insulto durerà a lungo». «Se vuoi gridare e mostrare disappunto o dire qualcosa su Twitter va bene - ha continuato Carrey nel corso dell’intervista - ma non hai il diritto di salire sul palco e colpire qualcuno in faccia perché ha detto delle parole. Will è frustrato da qualcosa che gli succede dentro e per questo gli auguro il meglio - conclude Carrey - Non ho niente contro di lui. Ha fatto grandi cose ma quello che è avvenuto è stata una mancanza di rispetto anche verso chi ha lavorato duramente per quel momento. Si è comportato da egoista».

Fulvia Caprara per “La Stampa” il 30 marzo 2022.

Tutti ne parlano, e Giovanni Veronesi si fa una bella risata: «La differenza tra me e Will Smith - scherza - è questa. Lui ha fatto una cosa che io tante volte ho pensato di voler fare, cioè prendere a schiaffi i comici. Con quelli con cui ho lavorato, sa quante volte mi sarebbe venuto in mente di pigliarli a schiaffi perché non facevano ridere?

Non l'ho fatto solo perché io sono più educato di Will Smith». 

Che cosa pensa della reazione di Will Smith alla battuta di Chris Rock?

«È chiaro che non sia stata una reazione giusta, trovo che non sia tanto assurda, anzi, magari è anche abbastanza comprensibile, però se uno si mette a tirare schiaffi ogni volta che gli viene in mente che uno se lo meriterebbe bé, buonanotte, la vita diventerebbe tutta uno schiaffo. Al parcheggio, sull'autobus, in fila alle Poste, sa quanti schiaffi partirebbero davanti a certi soprusi, a certe battute Penso a tutte quelle che ho sentito in questi anni, sui migranti, sugli omosessuali, ho ascoltato delle robe che, se avessi dovuto seguire l'istinto, sarei stato a tirare schiaffi tutti i giorni. È chiaro che bisogna contenere la rabbia e trasformarla in qualcosa di più intelligente di uno schiaffo, magari in una battuta». 

Quale poteva essere secondo lei un modo migliore per reagire alle parole di Chris Rock?

«Smith avrebbe potuto fare una battuta. Ha vinto l'Oscar, poteva usare quel discorso in modo meno banale, anzi direi che il discorso è stato quasi più banale dello schiaffo che aveva dato. 

Se si fosse contenuto e poi avesse replicato durante il ringraziamento, sarebbe diventato il vero vincitore della serata. Poteva ribattere in modo serio e avrebbe fatto precipitare Rock in un abisso di figura di m certo, visto che è Will Smith, non gli sarebbero certo mancati gli argomenti, i modi, l'ironia». 

Insomma, rovinato dall'impulsività.

«Il mondo si divide tra quelli che agiscono d'istinto e quelli che sulle cose ci ragionano, è così. In giro ho sentito anche un sacco di signore indignate che dicono "ma come? Tu non difenderesti la tua donna nello stesso modo?"».

E lei lo farebbe, le è capitato di dover proteggere la sua compagna Valeria Solarino?

«Non lo so, se per la strada ricevi un'aggressione verbale puoi anche rispondere, ma è sempre meglio mollare il colpo e andare via, perché sennò alla fine devi dare gli schiaffi. È successo tante volte di ascoltare apprezzamenti, ma lì bisogna capire che cosa si vuol fare della propria esistenza, se si vogliono fare risse tutti i giorni, la vita ti offre tutte le occasioni adatte Io però, nella mia vita, ho deciso di fare altro, sennò da ragazzo avrei scelto pugilato invece che cinema. Non sono mai stato uno che faceva a pugni». 

Le è capitato di riceverli?

«Una volta ho preso un pugno in faccia da un maestro di sci perché l'avevo criticato e lui, ubriaco, ha risposto dandomi un cazzotto. Però pare che si sia fatto male più lui alla mano che io alla faccia. In effetti sembra che Will Smith sia partito con l'intenzione di dare un pugno, poi ha capito che, se glielo dava, si sarebbe fatto malissimo e non sarebbe più riuscito a tenere in mano l'Oscar, una scena ridicola, allora, all'ultimo momento, ha aperto la mano e ha optato per lo schiaffo. Insomma, per vanità, per non correre il rischio di non poter stringere la statuetta, ha rinunciato al cazzotto, è stato vanesio anche in quello». 

Le piace come attore?

«Sì mi piace, è sempre stato un personaggio stravagante, eclettico, un artista vero, lo seguivo quando faceva Willy, il Principe di Bel Air e poi l'altra sera, proprio nella serata clou della sua vita, ha esagerato». 

Potrebbe succedere che gli revochino l'Oscar?

«Se glielo tolgono, ci sarà sicuramente un altro riconoscimento già pronto, un trofeo da parte di una congrega di persone decise a dargli un altro premio perché gliene hanno tolto uno. Sa perché io non ho mai dato schiaffi? Perché non volevo che mi togliessero l'unico David di Donatello che ho vinto finora».

Maurizio Acerbi per “il Giornale” il 30 marzo 2022.

Nulla nasce per caso e la reazione, agli Oscar, di Will Smith contro Chris Rock, con tanto di sberlone rifilato in diretta sul viso dell'uomo che aveva osato offendere sua moglie (pur con una battuta pessima, per non dire cretina), potrebbe non essere solo figlia di un attacco improvviso di rabbia. Gag, tra l'altro, che pare non fosse prevista nel copione, a dimostrazione che non c'era nulla di preparato.

Tra i due c'erano dei trascorsi e non era la prima volta che il «comico» Chris Rock infieriva su Jada Pinkett Smith. Non solo l'alopecia, insomma, ma bisogna risalire alla notte del 2016, stesso palcoscenico, per ricordare un episodio che, probabilmente, la coppia non aveva mai digerito.

Era l'anno del cosiddetto So White, con il boicottaggio alla manifestazione «troppo bianca» lanciato dalla stessa Jada Pinkett Smith, infuriata per la mancata Nomination, di quell'anno, del marito: «Agli Oscar, le persone di colore sono sempre le benvenute per consegnare i premi, al massimo per far divertire (con riferimento proprio a Chris Rock, presentatore della cerimonia - ndr), ma raramente siamo riconosciuti per i nostri risultati artistici».

Durante la serata, Rock aveva risposto per le rime: «Jada ha boicottato gli Oscar? È come se io boicottassi le mutandine di Rihanna. Non sono mai stato invitato». Con frecciatina anche a Smith: «Non è mica giusto che Will non sia tra le nomination. Vero. Ma non è neanche giusto che sia stato pagato 20 milioni per Wild Wild West». Film che fu un flop.

Nel 2018, poi, Smith aveva pubblicato una frase di auguri alla ex moglie Sheree Zampino per il suo compleanno, con la chiusa «Ti amo, Ree-Ree». Con Rock che aveva punzecchiato l'armonia della coppia scrivendo: «Wow. Hai una moglie molto comprensiva».

Domenica notte, durante il discorso per l'Oscar vinto, Smith si era scusato con l'Academy, ma non con il rivale. Cosa strana perché se Chris Rock avesse sporto denuncia, Smith avrebbe rischiato fino a 6 mesi carcere. Sean Combs, amico di entrambi, aveva svelato che i due «hanno fatto pace al party di Vanity Fair», dove, però, il comico non si era presentato.

Ieri, però, in un lungo post pubblicato su Instagram, sono arrivate le scuse ufficiali di Smith al rivale. «Scherzi a mie spese sono parte del lavoro, ma quello su un problema medico di Jada è stato troppo da sopportare e ho reagito emotivamente», ha ammesso il premio Oscar per King Richard, definendo «inaccettabile e senza scuse» il suo comportamento. 

«Voglio farti le mie pubbliche scuse Chris. Ho sbagliato e mi sento imbarazzato. Le mie azioni non sono indicative dell'uomo che vorrei essere». Anche se i due, si dice, non si siano ancora parlati di persona.

Scuse (forse) non casuali visto che l'Academy of Motion Pictures non ha preso bene lo sberlone (con insulto) in diretta tv, affermando che «condanna l'azione di Will Smith e sta analizzando l'incidente con l'ipotesi di adottare ulteriori misure». Addirittura, secondo l'Hollywood Reporter, Smith potrebbe non solo essere sanzionato, ma addirittura sospeso dall'Academy. Si vocifera anche di punirlo con il ritiro della statuetta vinta come Miglior Attore, ma questo è molto improbabile. Smith rischia, comunque, con il suo sindacato, la Screen Actors Guild, con conseguenze sui film in lavorazione. E teme per i futuri incassi.

Will Smith si è rifiutato di lasciare la cerimonia degli Oscar, l'Academy voleva allontanarlo. La Repubblica il 31 Marzo 2022.

E' partito il procedimento disciplinare nei confronti dell'attore. Quella sera si sarebbe rifiutato di andarsene dopo aver schiaffeggiato Chris Rock sul palco della cerimonia. Il comico torna ad esibirsi, ma dice solo: "Sto ancora elaborando quello che è successo, a un certo punto ne parlerò". 

Ed è partito il procedimento disciplinare dell'Academy contro l'attore Will Smith, che ha schiaffeggiato il comico Chris Rock durante la cerimonia degli Oscar di domenica. I vertici dell'Academy hanno preso in mano la questione, facendo sapere che quella sera volevano allontanare Smith, ma l'attore si è rifiutato di andarsene, restando lì seduto in prima fila.

Smith potrà difendersi con una risposta scritta prima che il consiglio si riunisca di nuovo il 18 aprile. L'azione disciplinare nei confronti dell'attore potrebbe includere la sospensione, l'espulsione o altre sanzioni. Per l'Academy ha violato codice di condotta.

Molti si sono chiesti come mai all'attore è stato permesso di restare e partecipare alla cerimonia dopo l'aggressione a Rock. "Le cose si sono svolte in un modo che non avremmo potuto prevedere", ha dichiarato l'Academy. "Anche se vogliamo chiarire che al signor Smith è stato chiesto di lasciare la cerimonia e lui ha rifiutato, riconosciamo anche che avremmo potuto gestire la situazione in modo diverso".

Non è chiaro se la richiesta di uscire dal teatro sia stata ordinata direttamente all'attore o al suo entourage, ma a farla, secondo Deadline Hollywood, sarebbe stato Will Packer, il produttore dello show. Alla riunione del Board dell'Academy convocato per esaminare il caso, molti vip, tra cui Steven Spielberg e Whoopi Goldberg, hanno detto di esser rimasti all'oscuro della richiesta dell'Academy a Smith di lasciare il teatro.

Così la nota dell'Academy: "Il Consiglio dei Governatori ha avviato un procedimento disciplinare contro l'attore (che ha ricevuto quella sera stessa la statuetta come miglior attore, ndr) per violazioni degli standard di condotta dell'Accademia, tra cui contatto fisico inappropriato, comportamento non opportuno o minaccioso e compromissione dell'integrità dell'Accademia. A Smith è stato fornito un preavviso di almeno 15 giorni circa un voto riguardante le sue violazioni e le sanzioni, ed è stata data l'opportunità di essere ascoltato in anticipo tramite una risposta scritta. Alla prossima riunione del consiglio il 18 aprile, l'Accademia può prendere qualsiasi azione disciplinare, che può includere la sospensione, l'espulsione o altre sanzioni consentite dal regolamento e dagli standard di condotta".

Tutto mentre Rock torna ad esibirsi e rompe il silenzio su quanto accaduto. Durante uno spettacolo a Boston, ha detto però di non avere battute da fare sullo schiaffo perché sta "ancora elaborando quello che è successo - racconta Variety - a un certo punto ne parlerò, e sarà serio e divertente".

Eleonora Giovinazzo per iodonna.it il 31 marzo 2022.

Le polemiche per il ceffone di Will Smith a Chris Rock non accennano a placarsi. Sulla questione si è espresso anche Jim Carrey.

Intervistato dalla giornalista Gayle King nel programma CBS Mornings, il comico ha criticato il pubblico che ha dedicato una standing ovation a Smith, premiato con l’Oscar per Una famiglia vincente – King Richard. «Sono disgustato dalla standing ovation – ha commentato Carrey –, ho provato la sensazione che Hollywood abbia perso in massa la spina dorsale. Ho pensato fosse un chiaro segnale che non siamo più il club più in città», 

Il ceffone di Smith a Chris Rock

Chris Rock ha fatto una battuta infelice sulla testa rasata di Jada Pinkett Smith, dicendo che non vedeva l’ora di vedere il sequel di Soldato Jane, film del 1997 con Demi Moore rasata a zero in quanto cadetta della US Navy. Jada si era limitata ad alzare gli occhi al cielo. Will, dopo una risata iniziale, ha invece reagito alzandosi e colpendo violentemente Rock. Una volta seduto, con linguaggio colorito, ha poi invitato il comico a togliersi dalla bocca il nome della moglie. Un’ora dopo è tornato sul palco per ritirare l’Oscar come migliore attore.

Jim Carrey: «Io avrei fatto causa a Will Smith»

«Avrebbe dovuto essere accompagnato fuori dalla sala – ha continuato Carrey –, io avrei annunciato che avrei fatto causa a Will Smith per 200 milioni di dollari. Quel video esisterà per sempre. Sarà ovunque. Quell’insulto proseguirà davvero a lungo».

Secondo l’attore non sono sufficienti il discorso di ringraziamento per l’Oscar e le scuse per il gesto violento, comprese le scuse scritte nei confronti di Rock su Instagram. «Puoi urlare la tua disapprovazione dal pubblico, mostrare il tuo dissenso, dire qualcosa su Twitter. Non hai il diritto di salire sul palco e prendere a sberle qualcuno in faccia perché ha pronunciato delle parole». Intanto l’Academy ha aperto un’inchiesta, che pare durerà settimane.

Jim Carrey: «Will ha qualcosa dentro che gli causa frustrazione»

Carrey ha sottolineato inoltre quanto il gesto di Will Smith non sia dipeso da un’escalation. «La reazione è venuta fuori dal nulla perché Will ha qualcosa dentro di sé che gli causa frustrazione e gli auguro il meglio, davvero. Non ho nulla contro Will Smith, ma ha rovinato il momento importante di tutte le persone presenti l’altra sera. Persone che hanno lavorato duramente per arrivare in quel posto e avere quel momento sotto i riflettori, per avere il premio per il lavoro che hanno compiuto così duramente. Si deve affrontare molto quando si è nominati agli Oscar ed è stato davvero egoista rovinare quel momento a tutti». 

Nel frattempo, Jada Pinkett Smith ha parlato di guarigione su Instagram. «Questa è la stagione della guarigione e io sono qui per questo», così il post criptico indirizzato ai suoi 11,8 milioni di follower.

Simonetta Sciandivasci per “la Stampa” il 31 marzo 2022.

Da questa parte dell'oceano, di Will Smith si parla da diverse prospettive, la più trascurata delle quali è quella dell'America non bianca. Ed è importante, invece, perché serve ad allargare lo sguardo, a inquadrare meglio la questione, consentendo forse di allentare le polarizzazioni e le conseguenti indignazioni, legittime o coatte che siano.

«Bianchi e neri non stanno parlando dello schiaffo agli Oscar nello stesso modo», ha scritto l'Atlantic in un articolo che s' intitola Le due Americhe parlano di Will Smith e Chris Rock, e che dà conto di un dibattito che, inevitabilmente, per conformazione del nostro tessuto sociale, da noi è immaginabile, sì, ma in modo superficiale, residuale. Invece, lì c'è uno snodo che, forse, potrebbe trasformarsi in un cortocircuito.

Questo cortocircuito: si dà addosso a un uomo di colore, e si potrebbe a un certo punto arrivare a dire che tanto accanimento è dovuto al fatto che Will Smith è un attore di colore, e poiché è un accanimento che mostrano e rinfocolano soprattutto i bianchi, primi fra tutti gli accorti bianchi pentiti dello star system, potrebbe essere che la sua matrice più profonda sia da rintracciare in un automatismo razzista. Molti neri già si dicono preoccupati: condannano lo schiaffo con toni laschi, ma chiedono che s' insista a specificare che Will Smith ha agito da Will Smith, chiedono che non si generalizzi, sanno perfettamente che vivono in un Paese dove è facile che quello che fa un bianco sia considerato responsabilità sua, e quello che fa un nero sia responsabilità di una comunità intera. 

In sostanza, scrive l'Atlantic, temono che «venga alimentato lo stereotipo disumanizzante secondo cui la condotta di Smith è tipica delle persone di colore». E sarebbe un bel paradosso se a dare manforte a quello stereotipo, nel tempo della decostruzione e distruzione di ogni attributo culturale, fosse la serata degli Oscar nel cui team di produzione c'erano, per la prima volta, solo neri. Un paradosso che molto direbbe di quanto incidono poco (e male?) i cambiamenti indotti quasi esclusivamente con le quote (pur necessarie), le spartizioni, i calcoli al millesimo degli spazi di modo che le pari opportunità coincidano con le pari rappresentazioni.

A mettere in chiaro la discrepanza tra le due Americhe e i suoi riverberi più drammatici, del resto, ci ha pensato il BlackLivesMatter, al quale sono stati i bianchi a pensare, in questi due giorni di feroci condanne e lunari proposte giustizialiste (levategli l'Oscar!).

«Will Smith e Donald Trumo sono la stessa persona», ha scritto Howard Stern, conduttore radiofonico. Bianco.

«Avrebbe potuto uccidere Rock!», ha scritto (e poi cancellato) Judd Apatow, regista. Bianco. 

«Vedere un uomo di colore che difende sua moglie ha significato molto per me, è stato bellissimo», ha detto a People Tiffany Haddish, attrice e comica statunitense. Nera. Will Packer, produttore televisivo, che mentre tutto accadeva ha scritto «beh, avevo detto che non sarebbe stato noioso», ha poi aggiustato il tiro, ancora su Twitter, dicendo che quello spettacolo lo aveva ferito, ma in fondo «i neri hanno uno spirito di sfida e di risata quando si tratta di affrontare il dolore, perché ce n'è stato così tanto. Non sento il bisogno di spiegarvelo». Will Packer è il produttore che, nei titoli dei giorni prima della cerimonia, era colui che «ha fatto la storia nominando un all black production team». Naturalmente, Will Paker è nero.

Se la condanna del ceffone, in America, è pressoché unanime, almeno secondo quanto rilevano i sondaggisti, cambia, e di molto, la percezione della portata del gesto. L'America bianca non transige: vergogna, cavernicolo patriarchista violento misogino. E non s' accorge che, la sua altisonante condanna della violenza, se pure nell'immediato la pone dalla parte dei buoni, rischia di perpetrare una discriminazione (introiettata e non volontaria, esattamente come la forza che ha mosso Smith verso quel palco). L'America nera, invece, sorride timidamente, e da una parte dice che sarebbe stato meglio evitare (ma come non capire?) e dall'altra teme di andarci di mezzo. E questo ci dice non tanto come si sente quell'America, ma come vive, che prospettive ha, quanto poco è libera, se la libertà, prima che partecipazione e accesso, è responsabilità.

Dal corriere.it il 31 marzo 2022.

«Come è stato il vostro fine settimana? So che volete sapere del mio, ma per adesso non ho troppo da dire su quello che è successo domenica sera, non ci sono ancora battute in merito a quello». Chris Rock ha parlato per la prima volta di quello che è successo agli Oscar, lo schiaffone di Will Smith, che di fatto ha oscurato tutto il resto della cerimonia ed è diventato argomento di conversazione virale in tutto il mondo. 

Per rompere il silenzio sull’accaduto Rock ha scelto Boston dove era atteso per il suo spettacolo (sono tre le date in programma nella città americana). Nel suo breve intervento - extra show - il comico non ha mai menzionato Will Smith né sua moglie Jada Pinkett Smith per nome. «Quindi ve la faccio breve - ha proseguito Rock -, per stasera ho un intero spettacolo da portare in scena e l’ho scritto prima di questo fine settimana. Riguardo agli Oscar, sto ancora elaborando cosa è accaduto. Quindi ad un certo punto parlerò di questa merda e sarà serio, sarà divertente».

Durante il suo spettacolo Chris Rock - in elegante smoking bianco - anche se non ha mai toccato il confronto con gli Smith agli Academy Awards, ha passato gran parte della notte a prendere in giro celebrità e politici. Non ha fatto sconti alla duchessa di Sussex, ai Kardashian, così come al presidente Joe Biden, Hillary Clinton e all’ex presidente Donald Trump. 

Risultato: grandi applausi, parecchie standing ovation e un sostegno continuo (c’è anche chi ha urlato che Rock dovrebbe fare causa a Smith). Fuori dal locale un fan ha mostrato una maglietta con il logo «G.I. Jane» (Soldato Jane, il riferimento al film che ha causato la reazione di Will Smith) e la faccia della Pinkett Smith.

Produttore Oscar, polizia era pronta ad arrestare Will Smith. ANSA il 31 marzo 2022.

La polizia di Los Angeles era pronta ad arrestare Will Smith per percosse durante la notte degli Oscar. Gli agenti si sono presentati dietro le quinte mentre il comico Chris Rock era nell'ufficio del produttore degli Oscar Will Packer. Lo racconta lo stesso Packer in un'intervista a ABC, sottolineando che Rock non ha visto di buon occhio la disponibilità della polizia e non ha voluto presentare denuncia. (ANSA).

Il retroscena. “Polizia era pronta ad arrestare Will Smith”, il retroscena sulla folle notte degli Oscar e sullo schiaffo a Chris Rock. Fabio Calcagni su Il Riformista l'1 Aprile 2022. 

L’attore Will Smith ha rischiato l’arresto per il sonoro ceffone rifilato domenica a Chris Rock durante la notte degli Oscar. A rivelarlo è stato il produttore degli Oscar, Will Packer, in un’intervista esclusiva alla trasmissione ‘Good Morning America‘ dell’emittente Abc.

La polizia di Los Angeles era infatti pronta ad ammanettare Smith, vincitore della sua prima statuetta dell’Academy proprio domenica per la sua interpretazione in ‘Una famiglia vincente – King Richard’, dopo lo schiaffo al comico Chris Rock che sul palco aveva fatto una battuta sulla moglie dell’attore, Jada Pinkett Smith, e sulla sua alopecia.

Un arrestato che non è avvenuto, ha rivelato Packer, perché Chris Rock non ha voluto sporgere denuncia sul momento. “Gli agenti gli dicevano: “‘Siamo preparati, siamo pronti a prenderlo in questo momento'”, ha raccontato Packer svelando i retroscena della serata. “‘Puoi sporgere denuncia. Possiamo arrestarlo’. Gli esponevano le opzioni e mentre parlavano, Chris diceva ‘No, sto bene’”.

Packer nell’intervista all’Abc ha spiegato che era seduto con Chris Rock quando si sono presentati alcuni agenti della polizia di LA per parlargli di quanto accaduto sul palco. Quando gli hanno chiesto se voleva che agissero, il comico ha risposto di no. La polizia di Los Angeles ha poi dichiarato che Rock aveva deciso di non sporgere denuncia contro Smith.

L’Academy aveva già dichiarato mercoledì che era stato chiesto Will Smith di lasciare la cerimonia dopo l’aggressione a Chris Rock, schiaffeggiato mentre presentava il vincitore del premio come miglior documentario, ma che l’attore si era rifiutato. Nei confronti del neo premio Oscar è stato avviato un procedimento disciplinare per violazione degli standard di condotta dell’Academy, che potrebbe comportare la sospensione, l’espulsione o altre sanzioni.

Nei giorni scorsi Will Smith aveva quindi pubblicamente chiesto scusa anche a Chris Rock, dopo aver chiesto perdono ai presenti alla cerimonia degli Oscar già dal palco dove ha ricevuto la sua statuetta. “Vorrei scusarmi pubblicamente con te, Chris. Sono stato fuori luogo e ho sbagliato. Sono imbarazzato e il mio gesto non è proprio indicativo dell’uomo che voglio essere – aveva scritto su Instagram il vincitore dell’Oscar come miglior attore -. La violenza in tutte le sue forme è velenosa e distruttiva. Il mio comportamento agli Academy Awards di ieri sera è stato inaccettabile e imperdonabile”. 

Sulla vicenda era poi tornato anche Chris Rock. Il comico da Boston, dove era impegnato per uno spettacolo del suo tour, rivolgendosi al suo pubblico col solito sarcasmo aveva commentato così quanto accaduto agli Oscar: “Come è stato il vostro fine settimana? So che volete sapere del mio, ma per adesso non ho troppo da dire su quello che è successo domenica sera, non ci sono ancora battute in merito a quello“.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Lo schiaffo da Oscar e le polemiche social: botta e risposta Cribari-Lucarelli. Il Quotidiano del Sud il 29 marzo 2022.

Grande curiosità sull’alopecia, (mai attenzionata prima), or si aspetta il verdetto dell’Academy che potrebbe anche ritirare la statuetta al miglior attore protagonista del 2022 e il suo schiaffo continua a far discutere (LEGGI).

Intanto tutti ne parlano e ne scrivono sui social.

Non si è sottratto il nostro collega, Marco Cribari, che sulla sua pagina Facebook ha attirato decine di like e commenti schierandosi per una tesi favorevole all’attore nero così argomentata: “Schiaffeggiare un villano che insolentisce una donna è sempre stata una prerogativa dei gentiluomini. C’è stato un tempo, neanche troppo lontano, in cui il mondo girava così. Non è violenza, è stile, e ringrazio Will Smith per quel gesto nobile, elegante, antico e visionarlo, da estendere idealmente agli sconcludenti della rete, ai professoroni, ai violenti (quelli veri) e a tutta quella gente “che parla, parla, parla sempre. Che pretende di farsi sentire. E non ha niente da dire”.

Insomma una visione particolare e personale sul politicamente corretto che oltre lo schiaffo ha condizionato tutta la kermesse cinematografica.

Tra i numerosi commenti alla tesi di Marco Cribari, si è fatta notare quello di Selvaggia Lucarelli, giornalista e blogger che in queste in queste ore campeggia su siti e quotidiani per come ha condannato lo schiaffo di Will. ormai più celebre di quello di Anagni dato al Papa Bonifacio VIII.

Ed ecco Selvaggia verso Cribari tuonare: “Marco, ti stai battendo per una causa il cui sottotesto dell’accusa è “il disonore andava lavato col sangue”, in un tempo non troppo lontano in cui i maschi ragionavano così. Guardi mia moglie, ti meno. Dici una parola di troppo a mia sorella, ti meno. Lasci mia cugina, me la paghi. Ecco, siccome con questi ragionamenti da gentiluomini si legittima la violenza e in qualche caso si costruiscono tesi accusatorie che purtroppo si fondano su mentalità retrograde e violente, ti suggerisco di riflettere”.

La discussione tra Lucarelli e Cribari prosegue con ulteriori sostenitori delle due tesi. Il dibattito continua e resterà nel sentire comune per lungo tempo.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 29 marzo 2022.

Domenica notte, durante la cerimonia degli Oscar, Will Smith ha assestato uno schiaffone a Chris Rock, che dal palco aveva fatto una battuta sulla testa calva della moglie dell’attore, Jada Smith. Ma non è la prima volta che gli spettatori rimangono scioccati dal comportamento di un ospite della premiazione. 

Tra le controversie più recenti c’è stata quella del 2017, quando fu annunciato come miglior film il titolo sbagliato, La La Land al posto di Moonlight, e l’intervento di Sacha Baron Cohen nel 2012 che si presentò sul palco con quelle che secondo lui erano le ceneri del leader nordcoreano Kin Jong-Il.

Ecco i momenti più scioccanti e controversi nella storia degli Oscar. 

2000 – Angelina Jolie bacia il fratello

Nel 2000, gli spettatori sono rimasti sconcertati quando Angelina Jolie ha baciato appassionatamente il fratello James Haven dopo aver vinto il premio come migliore attrice non protagonista per il suo ruolo nel film “Ragazze interrotte”. Durante il suo discorso, l’attrice confessò di essere «così innamorata di mio fratello in questo momento». Alla festa che seguì la cerimonia organizzata da Vanity Fair, lei e James si fecero fotografare mentre si baciavano appassionatamente, suscitando in tutto il mondo battute sull’incesto che lei definì «patetiche». 

«Siamo migliori amici. E non era uno strano bacio a bocca aperta. È stato delundente che qualcosa di così bello e puro potesse essere trasformato in un circo».

1974 – La tempesta dello streaker

Nel 1974, il fotografo americano e attivista per i diritti dei gay Robert Opel salì sul palco degli Oscar completamente nudo. L’artista si era intrufolato nel backstage fingendosi un giornalista, poi si era spogliato e aveva fatto la sua corsa senza vestiti davanti a David Niven, sul palco per presentare Elizabeth Taylor. Niven è scoppiato a ridere mentre Opel mostrava al pubblico un segno di pace. «Bene, signore e signori, era quasi destino che succedesse. Ma non è affascinante pensare che l’unica risata che potrà mai ottenere nella sua vita è quella provocato dall’essersi spogliato mostrando i suoi difetti?».

2017 – Il pasticcio di Moonlight

Durante la premiazione come miglior film, Warren Beatty e Faye Dunaway hanno erroneamente annunciato la vittoria del film “La La Land”. Mentre il cast e i produttori erano a metà del loro discorso di ringraziamento, sono stati interrotti e costretti a consegnare i loro trofei ai colleghi di Moonlight. Un macchinista se n’era accorto subito, e aveva esclamato: “Oh mio dio, ha sbagliato busta”. Secondo Warren Beatty, gli organizzatori della serata gli avevano consegnato la busta sbagliata.

2003 – Adrian Brody bacia Halle Berry

Agli Oscar del 2003 Adrien Brody, appena premiato da Halle Berry per il suo ruolo ne “Il pianista”, attirò a sé l’attrice le appioppò un bacio appassionato. «Scommetto che non ti hanno detto che il bacio era nel pacchetto regalo» le ha detto poi l’attore. 

Berry è sembrata un po’ stordita dal gesto, si è asciugata le labbra e ha descritto il bacio come «bagnato». Anni dopo, intervistata in tv, ha raccontato che il bacio non era stato pianificato e che quando lui l’aveva afferrata il suo primo pensiero era stato: «Che cazzo sta succedendo adesso!». Alla domanda se il bacio fosse stato buono, ha risposto: «Non lo so. Ero troppo concentrata su “Che cazzo sta succedendo adesso?”».

2012 – Sacha Baron Cohen e le ceneri di Kim Jong-Il

Nel 2012 l’attore e comico Sacha Baron Cohen fu scortato fuori dalla cerimonia degli Oscar perché si presentò alla cerimonia vestito come il dittatore generale Aladeen affermando di portare con sé un’urna con le ceneri dell’ex leader nordcoreano Kim Jong-Il. 

Inizialmente gli è stato permesso di partecipare alla cerimonia travestito, ma le cose hanno preso una brutta piega durante la cerimonia. Il conduttore televisivo Ryan Seacrest, infatti, gli chiese: «Cosa indossi?». E lui: «Indosso John Galliano, ma i calzini sono di K-Mart! Come mi disse una volta Saddam Hussein, i calzini sono calzini, non sprecare soldi». E ha aggiunto: «Mi piace qui perché mi ha dato l’opportunità di portare il mio caro amico e compagno di tennis, Kim Jong-Il». Poi Cohen è sembrato inciampare e ha versato il contenuto dell’urna (composto per pancake, si seppe in seguito) sul presentatore Seacrest. «Ora quando le persone ti chiederanno cosa indossi – gli ha detto infine – dirai Kim Jong-Il».

1973 – Marlon Brando rifiuta l’Oscar

La premiazione al miglior attore del 1973 non andò come previsto: doveva salire sul palco Marlon Brando, vincitore per il suo ruolo ne “Il Padrino”, ma l’attore non si presentò. Inviò invece Sacheen Littlefeather, attivista per i diritti civili dei nativi americani, che vestita come una Apache, salì sul palco per leggere una lettera dell’attore in cui annunciava che non avrebbe accettato il premio come segno di protesta per la rappresentazione dei nativi americani da parte di Hollywood. 

Il discorso, che durò solo 60 secondi, fu accolta da un misto di fischi e applausi. Brando è stato il secondo attore a rifiutare un Oscar, dopo George C. Scott, che nel 1970 declinò con mesi di anticipo per «motivi filosofici». 

2014 – John Travolta pronuncia male il nome di Idina Menzel

Quando dal palco degli Oscar John Travolta chiamò l’attrice di musical Idina Menzel, disse più o mano così: «Per favore, dai il benvenuto alla straordinariamente talentuosa, l’unica e sola Adele Dazeem». L’attrice ha poi ammesso che inizialmente è rimasta confusa, convinta che quell’annuncio avesse rovinato la sua «grande occasione».

Ma poi, parlando con James Corden al Carpool Karaoke per il suo Late Late Show, ha raccontato: «Prima mi sentivo davvero dispiaciuta per me stessa, come se Meryl Streep fosse stata là fuori e questa fosse stata la mia più grande occasione, e lui aveva sbagliato il mio nome». Ma poi ha visto il lato divertente dell’errore. «È stata la cosa più grande che mi sia mai capitata. John mi ha scritto così tante mail di scuse, inviato fiori, è stato così gentile, per compensare sarebbe voluto ovunque. E io gli dico sempre: “Non preoccuparti, perché è stata la cosa migliore che mi sia mai capitata!». Travolta ha poi spiegato di aver sbagliato il nome di Idina perché lo staff degli Oscar lo aveva scritto con un’ortografia fonetica.

1995 – Lo scherzo di David Letterman

Nel 1995 la conduzione dello show fu affidata al conduttore del talk show David Letterman. La sua performance fu poi definita da The Atlantic come «Il gold standard dell’attentato agli Oscar». La gag sui nomi di battesimo di Uma Thurman e Oprah Winfrey ha lasciato infatti il pubblico ammutolito. Ha iniziato così: «Da tutto il giorno non vedo l’ora di fare una cosa e penso che potremmo occuparcene». E poi, presentando le star: «Oprah? Uma. Uma? Oprah. Mi sento molto meglio. Ragazzi avete incontrato Keanu?». 

Il New York Times, il giorno dopo: «Il signor Letterman ha la discutibile abitudine di ridicolizzare i nomi, quelli di tutti, compresi i tassisti immigrati e i proprietari di negozi chiamati Mujibur e Sirajul. Aprendo la cerimonia di premiazione si è concentrato su Oprah e Uma, ma ha subito scoperto che il pubblico ha trovato la routine un po’ meno che divertente, anche quando ha aggiunto freneticamente Keanu».

2019 – Il duetto tra Lady Gaga e Bradley Cooper

L'elettrizzante chimica tra Lady Gaga e Bradley Cooper durante la loro esibizione di Shallow agli Academy Awards 2019 ha mandato gli spettatori in delirio. Alla coppia – insieme nel film “A Star Is Born” - gli utenti dei social media hanno suggerito di «prendere una stanza» dopo il duetto che li ha visti guardarsi negli occhi in una performance calda e pesante. 

Mentre Lady Gaga era da poco single all'epoca, l'allora fidanzata di Bradley, Irina Shayk - dalla quale poi si separò - rimase a guardare tra il pubblico. Quando il comico David Spade scrisse su Instagram «C'è qualche possibilità che questi 2 non stiano fottendo?", l'ex moglie di Cooper, Jennifer, commentò: «Ah!».

2013 – Jennifer Lawrence cade ritirando il premio

Jennifer Lawrence è diventata una delle attrici più giovani in assoluto a ricevere il premio. Ma la sua vittoria è stata oscurata dalla rovinosa caduta che ha fatto salendo sul palco per ritirare la statuetta per il suo ruolo ne “Il lato positivo”, complice anche il voluminoso vestito Dior Haute Couture senza spalline che le intralciava il passo. 

Ad aiutare l’attrice sono arrivati subito Bradley Cooper e Hugh Jackman, ma Jennifer ha rifiutato ed è salita sul palco da sola.

1969 – Barbra Streisand e Katharine Hepburn insieme?

Nel 1969, Barbra Streisand e Katharine Hepburn ricevettero entrambe esattamente 3.030 voti, e si aggiudicarono il titolo come miglior attrice a pari merito. L'Academy decise di dividere il premio tra le due attrici, Hepburn per il film “Il leone d’inverno”, mentre Streisand per “Funny Girl”. Ma Hepburn non partecipò alla cerimonia, quindi Barbara accettò da sola.  

1971 – George C. Scott rifiuta il premio

Il leggendario attore George C. Scott comunicò all'Accademia mese prima che avrebbe rifiutato qualsiasi nomination per il suo ruolo in “Patton” del 1971, perché non gli piaceva che le idee sulle performance creative venissero confrontate. 

In precedenza era stato nominato due volte come miglior attore non protagonista, in "Anatomy of a Murder" del 1959 e "The Hustler" nel 1961. Entrambe le volte aveva detto all'Accademia che avrebbe rifiutato il premio.

Tuttavia, è stato nominato e ha vinto il premio. Quando ha deciso di saltare la cerimonia e rimanere a casa a New York, il produttore Frank McCarthy è salito sul palco per ritirare il premio.

La prima persona in assoluto a rifiutare un Oscar è stata Dudley Nichols, che vinse il premio come miglior sceneggiatore per aver scritto The Informant. Rifiutò il premio in segno di solidarietà con la Writers Guild, che all'epoca stava scioperando. 

In due occasioni, l'Accademia gli inviò il premio, ma lui lo rispedì indietro entrambe le volte. 

2016: NESSUNA NOMINATION PER ATTORI NERI PORTA AL BOICOTTAGGIO E ALLA CAMPAGNA #OSCARSSOWHITE

La battuta di Chris Rock su Jada Pinkett Smith non è la sua prima controversia agli Oscar. Nel 2015 non fu nominato neanche un attore nero, il che portò al movimento nato sui social media sotto l’hashtag #OscarsSoWhite.

Quando la storia si ripeté nel 2016, molti attori si arrabbiarono, e Will Smith e Jada furono tra le figure del settore che boicottarono i premi. Chris Rock, che era l'ospite quell'anno, fece un discorso di 10 minuti sfogando le frustrazioni delle persone. 

Scherzando disse: «Ti rendi conto che se anche l’ospite fosse in nomination, non avrei ottenuto neanche questo lavoro». 

2019: NESSUN CONDUTTORE DOPO I TWEET OMOFOBI DI KEVIN HART

Nel 2019 non ci furono presentatori per la cerimonia per la prima volta in 30 anni. Kevin Hart era stato costretto a dimettersi in seguito alla ricomparsa di una serie di tweet omofobi che aveva scritto tra il 2009 e il 2011. In uno di questi aveva scritto: «Yo, se mio figlio torna a casa e prova a giocare con la casa delle bambole di mia figlia, glielo romperò sopra la testa e dirò con la mia voce “basta con i gay”».

La serata fu condotta da 13 star diverse tra cui Tina Fey, Whoopi Goldberg, Brie Larson, Daniel Craig e Jennifer Lopez.

Will Smith si dimette dall’Accademia degli Oscar: accetterò le conseguenze del mio gesto. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2022.

La decisione dell’attore che ha vinto la prestigiosa statuetta dopo aver schiaffeggiato il presentatore della serata Chris Rock. 

Will Smith ha deciso di dimettersi dall’Academy of Oscar dopo aver schiaffeggiato il comico Chris Rock nel mezzo della cerimonia di premiazione. Lo ha annunciato lui stesso in un comunicato stampa diffuso nella serata del primo aprile.

«L’elenco di coloro che ho ferito è lungo e include Chris, la sua famiglia, molti dei miei cari amici e persone care, tutti quelli che erano tra il pubblico o a casa», ha scritto Will Smith in questo testo trasmesso dalla rivista di settore Variety. «Mi dimetto da membro dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences e accetterò tutte le conseguenze che il Consiglio di amministrazione ritenga appropriate», ha detto l’attore 53enne.

Mercoledì scorso, l’Academy ha reso noto o che sono stati avviati «procedimenti disciplinari» contro Smith, che potrebbero portare a «sospensione, espulsione o altre sanzioni consentite dallo Statuto e dagli standard di condotta». Non è esclusa quindi la revoca del Premio Oscar che gli è stato attribuito, la decisione è attesa entro il 18 aprile. L’Academy ha anche affermato che a Smith era stato chiesto di lasciare la cerimonia ma l’attore ha rifiutato. Tuttavia, fonti vicine allo svolgimento dei fatti hanno riferito alla rivista « The Hollywood Reporter» che a Smith non è stato formalmente chiesto di andarsene. L’attore americano avrebbe anche rischiato l’arresto. La polizia di Los Angeles era pronta infatti a intervenire, secondo quanto dichiarato dal produttore degli Oscar, Will Packer, in un’intervista esclusiva alla trasmissione «Good Morning America» dell’emittente Abc. Chris Rock, però, era restio a sporgere denuncia. 

L.Jatt. per il Messaggero l'1 aprile 2022.

Dopo quanto accaduto durante l’ultima cerimonia di consegna degli Oscar, Will Smith dovrà affrontare ora una lotta di due settimane per salvare la sua carriera mentre l’Academy pensa di portargli via la statuetta. Intanto la star sta pensando di “chiedere perdono” all’Academy in una lettera ai capi dei premi. Il vincitore come miglior attore aveva sferrato in diretta mondiale un ceffone al presentatore della serata, Chris Rock, reo di aver preso in giro la moglie di Smith, Jada Pinkett Smith, per via della sua alopecia.

Il 18 aprile è dunque fissata un’audizione con l’Academy, e lì si scoprirà «se l’attore manterrà il suo Oscar - e una carriera», ha detto una persona vicina all’Academy stessa. 

Smith chiamerà anche i capi degli Oscar “nelle prossime 24 ore” per perorare il suo caso, prima della resa dei conti alla fine di questo mese. «La situazione è in bilico. Smith scriverà una lettera ufficiale per scusarsi e implorare il perdono dei giurati», ha detto a The Sun una fonte vicina all’attore. Gli altri progetti della star, tra cui Bad Boys 4 e il dramma sulla schiavitù di Apple Emancipation, sono ora in sospeso poiché i capi degli studi si rifiutano di «prendere posizione troppo presto».

Un partecipante all’Oscar ha detto al giornale: «Smith non dice esattamente: “Mi dispiace per quello che ho fatto e mi vergogno” ma più che altro “Non mi interessa”». Da parte sua, il produttore degli Oscar, Will Packer, ha detto che a Rock è stato chiesto se voleva che Smith fosse rimosso: «Siamo pronti a prenderlo in questo momento. Puoi sporgere denuncia. Possiamo arrestarlo» avrebbe detto secondo il Good Morning America. 

Ma Rock ha respinto l’offerta e ha risposto: «No, sto bene». Il governatore dell’Accademia, Whoopi Goldberg ha insistito sul fatto che a Smith fosse stato chiesto di andarsene, ma si temeva che avrebbe fatto una scenata se la sicurezza avesse cercato di scortarlo fisicamente fuori. Ha aggiunto che i produttori e gli organizzatori degli Oscar hanno persino considerato la possibilità che Smith stesse vivendo «un momento maniacale, perché non è quello per cui è noto, prendere a schiaffi persone e cose del genere».

Goldberg non era presente agli Oscar e ha sottolineato che non stava parlando a nome del consiglio di amministrazione dell’Accademia. Chris Rock ha rifiutato di sporgere denuncia, ma domenica la polizia di Los Angeles ha confermato che potrebbe ancora chiedere che si svolga un’indagine completa della polizia. 

Nel frattempo Smith ora potrebbe essere soggetto a «sospensione, espulsione o altre sanzioni» da parte dell’AMPAS, incluso il ritiro del suo Oscar. 

L’Accademia ha scritto mercoledì: «Coerentemente con gli standard di condotta dell’Accademia, così come con la legge della California, al signor Smith viene fornito un preavviso di almeno 15 giorni per parlare in merito alle sue violazioni e sanzioni e l’opportunità di essere ascoltato in anticipo per mezzo di una risposta scritta». 

L’intervista di Packer, che andrà in onda oggi alle 7 su ABC, arriva quando gli addetti ai lavori hanno affermato che a Rock, 57 anni, non è mai stato chiesto se Smith dovesse essere rimosso dalla cerimonia dopo l’attacco: «Nessuno ha mai chiesto a Chris se Will dovesse andarsene. Non lo hanno mai consultato. È stato il produttore degli Oscar Will Packer a prendere la decisione finale di lasciare che Will rimanesse».

Alcune persone hanno anche affermato che il presidente degli Oscar, David Rubin e il CEO Dawn Hudson avevano chiesto all’attore di Men in Black di lasciare la cerimonia dopo lo sfogo emotivo.

Ma fonti che avrebbero assistito alle discussioni tra i leader dell’Accademia affermano che non c’è mai stato alcun tentativo di rimuovere Smith dalla cerimonia.

Smith da parte sua ha incontrato i capi degli Oscar martedì scorso per discutere delle ricadute dell’attacco, ha riferito Variety e alcune persone dicono che Rubin e Hudson abbiano parlato con Smith su Zoom per circa 30 minuti. Una fonte bene informata ha detto che Smith si è scusato con i leader dell’Accademia per le sue azioni e ha affermato di essere consapevole che ci sarebbero state delle conseguenze.

Tuttavia, i partecipanti alla riunione di emergenza di mercoledì scorso del Consiglio dei governatori dell’Accademia hanno detto alla rivista di non ricordare che Rubin o Hudson avessero menzionato la presunta discussione con Smith. Le azioni disciplinari potrebbero includere un possibile divieto per un anno dagli Oscar, che impedirebbe anche a Smith di essere nominato per i premi. 

La battuta di Rock, come detto, aveva preso di mira il taglio alla moda di Pinkett Smith, uno stile che ha "abbracciato" in seguito alla diagnosi di alopecia. «Jada, ti amo. “GI Jane 2”, non vedo l’ora di vederlo»,aveva detto Rock a Pinkett Smith, la cui testa ben rasata sembrava simile a quella di Demi Moore nel film del 1997.

Non è ancora sicuro se Rock fosse consapevole del fatto che Pinkett Smith soffrisse di una condizione di caduta dei capelli quando Smith ha reagito con uno schiaffo e un avvertimento rabbioso: «Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua fottuta bocca!». Poco dopo, Smith è stato annunciato come il vincitore del premio come miglior attore ed è andato a ritirare la sua statuetta con una standing ovation da parte di molti suoi colleghi. 

Nel suo discorso di accettazione, Smith si è poi scusato con l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences - i cui membri votano per i premi - e quando la gravità della situazione è diventata chiara, Smith ha pubblicato scuse pubbliche su Instagram 24 ore dopo la cerimonia, dicendo che gli dispiaceva per Rock. 

 Ha detto che il suo comportamento era stato «inaccettabile e imperdonabile» e che lo ha lasciato «imbarazzato». «Vorrei scusarmi pubblicamente con te, Chris» ha scritto. «Ero fuori di me e le mie azioni non erano proprie dell’uomo che voglio essere. Non c’è posto per la violenza in un mondo di amore e gentilezza».

Intanto Chris Rock ha fatto la sua prima apparizione pubblica da quando Will Smith lo ha schiaffeggiato durante la cerimonia degli Oscar. Presentando l’ultima tappa del suo tour negli Stati Uniti, a Boston, il comico ha detto: «Sto ancora elaborando quello che è successo, quindi a un certo punto ne parlerò. E sarà serio e divertente, ma adesso racconterò alcune barzellette».

Rock, che è stato accolto da una standing ovation dei fan, ha anche smentito alcune notizie dei media statunitensi secondo le quali aveva parlato con Smith dopo l’incidente. Le parole di Rock arrivano poco dopo che l’Academy ha rivelato che a Smith era stato chiesto di lasciare la cerimonia degli Oscar dopo l’incidente. «A Smith è stato chiesto di lasciare la cerimonia e ha rifiutato, riconosciamo anche che avremmo potuto gestire la situazione in modo diverso», si legge nella nota dell’Academy.

Dagotraduzione dal Radaronline l'1 aprile 2022.

Che fine hanno fatto i tre secondi di registrazione della serata che solo i responsabili dell’Academy hanno visto? Stiamo parlando del video cruciale e fino ad ora inedito che mostra quello che è successo tra Jada Pinckett Smith e il marito Will subito dopo la battuta di Chris Rock e prima che lui salisse sul palco e gli rifilasse lo schiaffo. 

Radar è venuta a sapere che il filmato è al centro delle indgini dell’Academy, ma deve ancora essere rilasciato pubblicamente. Secondo un ben piazzata fonte del settore, è quasi certo che l’Academy ha in mano più angolazioni inedite dello schiaffo.

Il filmato trasmesso dalle ABC è stato tagliato “live to air” dal regista: anche se trasmesse in diretta, la messa a video ha un ritardo di circa 7 secondi proprio per permettere ai tecnici di “aggiustare” o “tagliare” situazioni complicate. Solo i video delle emittenti australiane e giapponesi hanno mostrato il filmato senza censure, perché hanno preso il feed dal vivo e senza il tipo di buffer che aveva la ABC. 

Will Smith, che ha vinto il premio come miglior attore, inizialmente aveva trovato la battuta divertente, tanto da aver riso, e anche applaudito. Jada, che soffre di alopecia, invece aveva alzato gli occhi al cielo.

La telecamera principale è rimasta su Rock per almeno tre secondi prima che Will prendesse d’assalto il palco, ha detto una fonte di Hollywood a Rada. «Sappiamo che c’era una telecamera proprio di fronte a Will e Jada» ha detto l’insider. 

«Qualcuno deve forzare la mano all’Academy perché rilasci il video mancante dopo lo spaccato (in gergo televisivo, la ripresa con cui si passa da un’azione principale a una secondaria, o separata). Un’analisi del video al rallentatore mostra che Will non solo ride della battuta di Rock, ma applaudisce. Il video di quello che è successo nei tre secondi successivi deve essere rilasciato: la configurazione era multi-camera». 

«Jada ha fatto qualcosa di importante che lo ha strappato da una risata genuina. Will non la stava guardando, come puoi vedere nel video, prima che il regista tornasse a Rock». 

Radar ha confermato che tutte le 55 fotocamere sono state utilizzate durante gli Oscar, il pre-show, lo spettacolo digitale e i feed internazionali. Nella produzione vengono utilizzati dodici unità mobili di trasmissione e più di 20 supporti tecnici e rimorchi per ufficio. 

La nostra fonte ha detto: «Questi equipaggi e feed saranno in grado di mostrare al mondo cosa è realmente accaduto. Cosa ha spinto Will ad attaccare Chris dopo che la battuta di GI Jane? Cosa ha fatto Jada in quei secondi critici?»

«Questo è il più grande mistero di prove mancanti dai 18 minuti di pausa sui nastri del Watergate!». 

Dagotraduzione dal Daily Mail l'1 aprile 2022.

È emerso un nuovo video della cerimonia degli Oscar durante il quale si vede Jada Pinkett Smith, la moglie di Will Smith, ridere guardando Chris Rock pochi istanti dopo che il marito gli ha rifilato il ceffone. 

Il video, pubblicato su TikTok, è stato girato dalle spalle degli Smith e fa ancora più luce sull’assalto che ha lasciato esterrefatto gli spettatori. Anche se il suo viso non si vede chiaramente, Pinkett Smith sembra ridere subito dopo lo schiaffo mentre Rock reagisce dicendo: «Wow, Will Smith mi ha appena preso a schiaffi». 

L'attrice, 50 anni, lancia una rapida occhiata a suo marito mentre lui grida per la prima volta: «Tieni fuori il nome di mia moglie dalla tua fottuta bocca».

Mentre Smith ripete la frase, lei tiene gli occhi fissi su Rock e sembra ridacchiare di nuovo mentre Rock dice: «La più grande notte nella storia della televisione». 

Il nuovo video arriva quando Rock ha parlato per la prima volta dal famigerato incidente, affrontando brevemente la questione nel suo primo atto di cabaret dagli Oscar a Boston mercoledì sera. Ieri è emerso anche che la polizia di Los Angeles era pronta ad arrestare Will Smith dopo che aveva schiaffeggiato Chris Rock, domenica sera, ma non lo ha fatto su richiesta del comico. Lo ha raccontato il produttore degli Oscar Will Packer durante un’intervista con Good Morning America. 

Parker ha raccontato che Rock era stato sprezzante nei confronti della polizia. «Stavano delineando le opzioni mentre parlavano, Chris era molto sprezzante. Diceva: “No, sto bene”. E ancora: “No, no, no”». Alla fine il comico ha rifiutato di sporgere denuncia, ma la polizia ha dichiarato che «se la parte coinvolta desidera un rapporto della polizia in un secondo momento, la polizia di Los Angeles sarà disponibile per completare un rapporto investigativo».

Tuttavia, Smith - a cui è stato consegnato il suo primo Oscar dopo l'attacco sul palco - dovrà affrontare "procedimenti disciplinari" con i funzionari dell’Academy che potrebbero comportare la sospensione, l'espulsione o altre sanzioni.

Netflix e Sony fermano prossimi film con protagonista Will Smith. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 3 aprile 2022.

Dopo che l’attore ha dato uno schiaffo a Chris Rock la notte degli Oscar, diverse major stanno valutando se e come procedere con i progetti che lo vedono coinvolto. 

Come previsto, non è ancora finita la scia dello «slapgate», ovvero il caos nato dallo schiaffo dato da Will Smith a Chris Rock la sera della cerimonia degli Oscar. Dopo le dimissioni dall’Academy dell’attore, i media americani hanno fatto sapere che per via dello scandalo potrebbero saltare alcuni dei suoi prossimi progetti di alto profilo. In particolare Netflix — ha appreso Variety —sta frenando sul prossimo film di azione «Fast and Loose» in cui Smith dovrebbe essere il protagonista. «La ricerca di un nuovo regista è stata fermata. Non è chiaro se Netflix andrà avanti e, nel caso, se cercherà anche un nuovo protagonista», ha fatto sapere la testata.

Progetti a rischio

Ma c’è anche un altro progetto importante, in programma nei prossimi mesi ma adesso improvvisamente in bilico per Smith: si tratta del dramma sulla schiavitù «Emancipation» che Apple + ha comprato per 120 milioni. Doveva uscire quest’anno, facendo di Smith un potenziale candidato a un nuovo Oscar, ma gli studi non hanno fissato una data per la prima e per il momento hanno rifiutato di commentare. Non solo. Anche la Sony, scrive l’Hollywood Reporter, ha fermato lo sviluppo, già in fase avanzata prima degli Oscar, di «Bad Boys 4». Smith si è dimesso la scorsa settimana dell’Academy dicendosi pronto ad accettare ulteriori conseguenze. La vicenda è sotto esame del Board dei Governatori che potrebbe pronunciarsi già nella prossima riunione, prevista il 18 aprile.

La madre di Chris Rock sullo schiaffo di Will Smith: “Ha accontentato la moglie”. Giampiero Casoni il 24/04/2022 su Notizie.it.

Secondo la madre di Chris Rock Will Smith avrebbe dato lo schiaffo a suo figlio perché "istigato" da uno sguardo di Jada: “Ha accontentato la moglie”. 

Sullo schiaffo dato da Will Smith a Chris Rock durante la cerimonia degli Oscar 2022 la madre dell’attore e comico colpito è stata implacabile contro l’ex “Principe di Bel Air”: “Ha accontentato la moglie”. La signora Rose ha concesso un’intervista al veleno a Wis-Tv ed ha spiegato perché a suo parere l’attore che è stato bandito dagli Oscar per 10 anni sia scattato in quel modo ed abbia segnato la sua carriera ed il volto si suo figlio con quel ceffone. 

La madre di Chris Rock interviene sullo schiaffo 

Rose Rock è autrice e oratrice motivazionale ed ha deciso di mettere le sue doti oratorie a servizio della causa di suo figlio, colpito da Smith nel corso di una cerimonia degli Oscar che resterà amaramente nella storia. Lo ha fatto ripercorrendo i momenti in cui Smith era salito sul palco e aveva schiaffeggiato Rock dopo che quest’ultimo aveva fatto una battuta sulla moglie di Smith Jada Pinkett Smith, e sulla sua testa rasata per colpa dell’alopecia. 

L’accusa terribile di Rose Rock a Jada

L’accusa di Rose è senza appello: “Lui ha reagito al fatto che sua moglie a quella battuta gli ha dato un’occhiataccia di sbieco, perciò è andato a farla felice perché si era adombrata dopo le risate su quando è successo”. Rose Rock ha spiegato di aver guardato da casa e inizialmente pensava che l’incidente fosse stato messo in scena. Almeno fino a quando Smith ha iniziato a dire “tira il nome di mia moglie fuori dalla tua fottuta bocca”.

Ha chiosato la donna: “Quando ha schiaffeggiato Chris, ha schiaffeggiato tutti noi, ha schiaffeggiato me”.

Will Smith al bando. Stop di Netflix e Sony ai suoi nuovi film. Redazione il 4 Aprile 2022 su Il Giornale.

Le dimissioni dall'Academy non hanno chiuso lo "slapgate" per Will Smith.

Le dimissioni dall'Academy non hanno chiuso lo «slapgate» per Will Smith. I media americani riportano che lo scandalo scaturito dallo schiaffo in diretta a Chris Rock nella notte degli Oscar sta per costare all'attore alcuni dei suoi prossimi progetti di alto profilo. «Netflix - spiega Variety - sta frenando sul prossimo film di azione «Fast and Loose» in cui Smith era il protagonista. «La ricerca di un nuovo regista è stata fermata. Non è chiaro se Netflix andrà avanti e, nel caso, se cercherà anche un nuovo protagonista», scrive il giornale. Un altro progetto importante per Smith nei prossimi mesi è il dramma sulla schiavitù «Emancipation» che Apple + ha comprato per 120 milioni. Doveva uscire quest'anno facendo di Smith un potenziale candidato a un nuovo Oscar, ma gli studi non hanno fissato una data per la prima e rifiutato di commentare altrimenti. E anche la Sony, scrive l'Hollywood Reporter, ha fermato lo sviluppo, già in fase avanzata prima degli Oscar, di «Bad Boys 4». Smith si è dimesso la scorsa settimana dell'Academy dicendosi pronto ad accettare ulteriori conseguenze. La vicenda è sotto esame del Board dei Governatori che potrebbe pronunciarsi già nella prossima riunione del 18 aprile. Nei giorni scorsi Smith aveva dichiarato: «La lista delle persone a cui ho fatto male è lunga e include Chris, la sua famiglia, molti dei miei amici e dei mei cari, tutto il pubblico del Dolby e gli spettatori mondiali a casa. Ho il cuore spezzato». Un mea culpa che però non lo ha salvato dalle polemiche che lo hanno travolto e rischiano ora di compromettere seriamente il suo futuro professionale. Secondo alcune fonti giornalistica l'attore, dopo aver colpito Rock, avrebbe rischiato anche l'arresto immediato. Manette che non sarebbero scattate solo grazie ai buoni uffici dello stesso Rock.

Che ipocrisia le dimissioni di Will Smith. Massimiliano Parente il 3 Aprile 2022 su Il Giornale.

Will Smith si è dimesso dall'Academy degli Oscar, e vissero tutti felici e contenti, anche perché sono tutti felici e ipocriti: quello che è successo mi ricorda troppo le epurazioni del metoo, maccartismo e purghe staliniane nel campo di concentramento hollywoodiano. Anche perché quello schiaffo ha dimostrato tutta la falsità del politicamente corretto: da una parte c'è chi lo ha giustificato (anche a destra, senza rendersi conto di portare avanti inconsapevolmente l'idea della cancel culture), siccome il comico ha offeso la moglie malata, cosa che fanno e hanno fatto tutti i grandi stand up comedian, da Louis CK a Ricky Gervais a Dave Chappelle a Jimmy Carr (potete vederli tutti su Netflix, Kevin Spacey no a vita, perché ha palpato qualche sedere), facendo battute su qualsiasi cosa: handicappati, omosessuali, trans, lesbiche, ebrei, neri, zingari, sordi, muti, ciechi, obesi, e chi ci scherzi, perché questo è il bello della satira.

D'altra parte c'è chi lo ha condannato, cominciando dall'Academy stessa, ma va da sé dopo, perché al momento dopo essere salito sul palco e aver menato Chris Rock è tornato a sedere fino alla fine tenendo pure il discorso, se lo avesse fatto uno di noi seduto tra il pubblico la sicurezza ci avrebbe cacciato a pedate.

Però c'erano un sacco di però, i però del politicamente corretto quando casca dal pero: Will Smith è nero, ha picchiato un altro nero, che si fa? Pensiamoci. E Rock ha fatto una battuta sulla moglie pelata perché malata, noi siamo quelli del metoo, ha difeso una donna, che si fa? Magari era giusto? Pensiamoci. Donna, Jada Pinkett, che tra l'altro sarà malata ma mica è stata aggredita fisicamente da un violentatore e neppure è sordomuta, poteva benissimo difendersi da sola a parole, questo avrebbero dovuto dire le femministe, l'aggressione fisica del marito non sarà patriarcato? Le donne chiedono la parità ma hanno bisogno di un macho che le difenda da una battuta? Dunque, che si fa? Pensiamoci. Insomma, alla fine la vicenda ha smascherato le contraddizioni di tutta un'ideologia perbenista falsa e su ogni fronte, oltretutto andando in tendenza sui social per una settimana, facendo dimenticare che c'è un fronte vero in corso, la tragedia di una guerra. È diventato più importante lo schiaffo di Will Smith che lo schiaffo di Putin alle vite umane. Intanto, mentre l'Academy pensava e ripensava per far quadrare il cerchio delle ipocrisie, ci ha pensato lo stesso Will Smith, dimettendosi. Io mi sarei dimesso prima a prescindere, ma non faccio l'attore. Però devo dire che tutta la faccenda, dallo schiaffo alle dimissioni, è stata l'unica cosa vera di quel mondo finto e bigotto, dovrebbero farci un film, magari con Will Smith e Chris Rock, quello sì sarebbe da Oscar.

 Will Smith punito dall'Academy dopo lo schiaffo a Chris Rock: bandito dagli Oscar per i prossimi dieci anni.

Francesco Puglisi su Il Tempo l'8 aprile 2022.

La serata degli Oscar è costata cara all’attore Will Smith per aver colpito Chris Rock sul palco, nel corso della cerimonia di consegna deli Oscar del cinema 2022. L’attore è stato bandito dagli Oscar e da tutti gli eventi dell’Academy per i prossimi 10 anni. La decisione è stata presa ieri, dopo una riunione del Consiglio dei Governatori dell’Academy, il quale ha ritenuto le azioni di Will Smith inaccettabili e dannose. L’attore aveva appena ritirato il massimo riconoscimento di Hollywood come miglior attore protagonista per l’interpretazione del padre delle sorelle Williams nel film «King Richard - Una famiglia vincente».

L’Academy ha manifestato un grande disappunto per non aver potuto affrontare la situazione nel corso della serata, in diretta televisiva mondiale, poiché impreparata ad un evento senza precedenti. Nonostante sia stato bandito, l’Oscar di Smith non è stato revocato e l’attore ha dichiarato di essere pronto ad accettare qualsiasi punizione, rispettando le decisioni dell’Academy.

Il Consiglio inoltre si è scusato di quanto accaduto con Chris Rock e ha espresso la propria gratitudine al comico per aver mantenuto la calma dopo lo schiaffo dato in diretta. In questo modo la cerimonia degli Oscar e lo spettacolo televisivo, nonostante il fuori programma, è potuto arrivare al termine della serata. Will Smith si era già dimesso dall’Academy preventivamente la scorsa settimana in attesa di una decisione.

L’attore poco dopo aver dato lo schiaffo in diretta tv al volto di Rock, per una battuta di pessimo gusto sul taglio di capelli della moglie, si era scusato con il comico, ma ormai era troppo tardi. Inevitabili le conseguenze del suo gesto, che ha suscitato scandalo e creato non poche polemiche nel tempio del cinema. La carriera dell’attore rischia di disgregarsi ulteriormente in quanto, per via dello scandalo, potrebbero saltare alcuni dei suoi prossimi progetti di altro profilo.

Chiara Maffioletti Per corriere.it il 9 aprile 2022.

Will Smith non potrà partecipare agli Oscar per 10 anni. L’Academy Award ha messo al bando l’attore dopo l’episodio dello schiaffo, dato in diretta tv la notte della cerimonia degli Oscar. L’attore però non perde l’Oscar: il Board ha deciso di non revocare l’Oscar vinto dall’attore il 27 marzo, neanche un’ora dopo lo schiaffo in diretta al comico Chris Rock, per il ruolo del padre delle sorelle Williams nel film «King Richard - Una famiglia vincente».

Ma questo rappresenta un nuovo tassello — clamoroso — che rischia di completare la disgregazione della carriera dell’attore, dopo il fuori programma che ha sconvolto mezzo mondo, durante la cerimonia. Ora Will Smith è stato bandito dagli Oscar, e da tutti gli altri eventi dell’Academy, per 10 anni. La decisione arriva dopo una riunione del Consiglio dei governatori dell’Academy per discutere una reazione alle azioni di Smith. L’Academy, in una dichiarazione, le ha definite «inaccettabili e dannose». Smith si era già dimesso preventivamente dall’Academy la scorsa settimana, e aveva detto che avrebbe accettato qualsiasi punizione.

L’episodio

L’episodio che ha sconvolto per sempre la carriera dell’attore è noto. La sera della cerimonia Smith si era alzato dalla sua poltrona e aveva colpito con uno schiaffo al volto il presentatore Chris Rock. A scatenare la sua furia, una battuta di pessimo gusto sulla testa rasata della moglie dell’attore, Jada Pinkett Smith: «Sei pronta per il Soldato Jane 2». In realtà l’attrice, come aveva più volte spiegato, soffre di alopecia. 

Una volta tornato al suo posto Smith aveva urlato: «Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua bocca del ca…». «Uao. Ok, lo farò», aveva detto il presentatore. Will Smith poco dopo si era scusato, ma troppo tardi per evitare le conseguenze del suo gesto. Quello schiaffo è stato la profanazione del tempio di Hollywood che, quella sera, aveva scelto di celebrarlo. 

Progetti in bilico

Non è tutto. Per via dello scandalo potrebbero saltare alcuni dei suoi prossimi progetti di alto profilo. In particolare Netflix — ha appreso Variety —sta frenando sul prossimo film di azione «Fast and Loose» in cui Smith dovrebbe essere il protagonista. «La ricerca di un nuovo regista è stata fermata. Non è chiaro se Netflix andrà avanti e, nel caso, se cercherà anche un nuovo protagonista», ha fatto sapere la testata.

Ma c’è anche un altro progetto importante, in programma nei prossimi mesi ma adesso improvvisamente in bilico per Smith: si tratta del dramma sulla schiavitù «Emancipation» che Apple + ha comprato per 120 milioni. Doveva uscire quest’anno, facendo di Smith un potenziale candidato a un nuovo Oscar, ma gli studi non hanno fissato una data per la prima e per il momento hanno rifiutato di commentare. Non solo. Anche la Sony, scrive l’Hollywood Reporter, ha fermato lo sviluppo, già in fase avanzata prima degli Oscar, di «Bad Boys 4».

Le scuse dell’Academy

Nel comunicare la sua decisione, l’Academy si è anche scusata pubblicamente: «Durante la diretta non abbiamo affrontato la situazione come avremmo dovuto. Per questo ci scusiamo. Sarebbe stata l’opportunità per dare un esempio ai nostri ospiti e ai nostri spettatori, ma abbiamo fallito, rimanendo impreparati di fronte a un fatto senza precedenti».

Andrea Carugati per "La Stampa" il 10 aprile 2022.

Una cosa è certa. A Hollywood di questi tempi è impossibile accontentare tutti. Qualcuno ne voleva la testa, e l'Oscar appena vinto, qualcuno voleva che se la cavasse con una ramanzina per lo schiaffo a Chris Rock durante la cerimonia, l'Academy ha deciso per una via di mezzo. 

Will Smith potrà tenersi la statuetta guadagnata con la performance in King Richard, ma per i prossimi dieci anni non potrà partecipare a nessuno degli eventi dell'Academy, Oscar inclusi. Potrà però, essere nominato.

In molti avrebbero voluto la revoca dell'Oscar, un'opzione impraticabile per l'Academy che non ha strumenti legali per ritirare i premi. E infatti accaduto una sola volta, nel 1969, quando l'Oscar per Young Americans, migliore documentario, venne annullato perché il film era uscito fuori dalla finestra temporale prevista. Fu dunque una questione formale e non una punizione. 

Molti fan, dall'altra parte, si sono scatenati sui social, contro Hollywood e l'Academy, rei a loro parere di ipocrisia. «Una punizione esagerata» e per alcuni anche «razzista». In molti si chiedono come mai non siano state prese misure simili nei confronti di personaggi molto più controversi come Harvey Weinstein, condannato a 23 anni di prigione dopo aver stuprato una ottantina di donne, o Roman Polansky, condannato per avere stuprato una sedicenne o Bill Cosby, che si è rivelato uno stupratore seriale. La risposta è semplice, tutti loro sono stati espulsi dall'Academy in quella che è la massima punizione prevista dai regolamenti interni.

Una sorte che Will Smith si è risparmiato dimettendosi e cospargendosi il capo di cenere.

Alcuni si sono poi chiesti come mai tanti altri attori accusati di violenze non siano stati puniti. L'elenco è lunghissimo: Kevin Spacey, Casey Affleck, Woody Allen, James Franco, James Toback, Dustin Hoffman, Mel Gibson. Vero, ma anche vero che una cosa è essere accusati di violenza, un'altra esercitarla davanti a centinaia di milioni di testimoni. 

Ottavio Cappellani per la Sicilia il 10 aprile 2022.

Will Smith non potrà partecipare all’Oscar per dieci anni, la statuetta vinta però se la può tenere: è stata questa la decisione dell’Academy la quale aggiunge che non si escludono ulteriori provvedimenti, probabilmente lo raperanno a zero. 

Mi sembra che quella che a uscirne peggio, dallo schiaffo, sia stata proprio l’Academy, che dopo anni di inclusive, politically correct, meetoo, cancel culture, cultural appropriation, breaking balls, appena gli è successa qualcosa in casa è andata nel pallone e si è freezata. 

L’Academy ha riconosciuto le proprie colpe ammettendo che “non ha saputo reagire prontamente a qualcosa di inaspettato” e ci sono state anche montagne di fake news sulla faccenda: c’è chi dice che Will Smith sia stato invitato ad allontanarsi e che Smith si sia rifiutato, c’è chi dice “ma quando mai”.

Ma d’altronde che avrebbero potuto fare? Sparare a Smith col taser? Impossibile, meglio che gli affari tra gli afroamericani se la sbrighino tra loro. Chiedere a Denzel Washington di sparare a Smith col taser? Impossibile, Denzel Washington ha dichiarato che non è stato Will Smith a dare lo schiaffo ma il diavolo, e ha cercato di risolvere la cosa pregando con Smith. Picchiare Don Jada Pinkett Smith, la vera mandante dello schiaffo? Impossibile: tutti si spaventano di Jada Pinkett Smith. 

Come nella legislatura italiana, anche quella americana prevede che lo schiaffo, se non ha conseguenze fisiche, sia perseguibile a querela di parte entro dati termini, Chris Rock non ha voluto sporgere denuncia -  e ci credo, con questo schiaffo ha il prossimo spettacolo pronto e sarà un successone -, Will Smith avrebbe evitato, come ha evitato, che Jada, una volta a casa gli lanciasse contro tutti le confezioni di prodotti contro l’alopecia (fanno male i vasetti, i prodotti di lusso non te li danno nei flaconi di plastica ma dentro vasetti pesantissimi), si sarebbe aperto – come si è aperto – un interessante dibattito sulla libertà della comicità dagli stringenti lacciuoli del bdsm delle direttive politicamente corrette che, ammettiamolo, ricordano il codice Hayes, contro il quale la “nuova hollywood” insorse negli anni Settanta regalandoci capolavori scorrettissimi. Nessuno avrebbe impedito a Denzel Washington di pregare ugualmente. E insomma alla fine tutti avrebbero portato la pagnotta a casa. 

Adesso, invece, la voglio vedere l’Academy obbligata a pontificare su tutti gli schiaffi mollati sul grande schermo: non quelli, ovviamente, dati dai cattivi ai buoni, ché quelli passano. No, stiamo parlando degli schiaffoni dei buoni verso i cattivi, quelli che fanno ridere, quelli liberatori, quelli che il pubblico pensa “minchia, finalmente!”. Gli schiaffoni dati alla tipa in attacco di panico ne “L’aereo più pazzo del mondo”. Sean Connery che dà uno schiaffo a suo figlio Harrison Ford perché ha detto una parolaccia in “Indiana Jones”. 

Mai più zingarate come gli schiaffi a quelli affacciati dai finestrini del treno in partenza in “Amici miei”. Né l’imitazione Fantozziana in cui Fantozzi si sbaglia e schiaffeggia i passeggeri di un treno in arrivo. Mai più Tomas Milian di “Er Monnezza” e gli schiaffi a Bombolo. O il politicamente potentissimo schiaffone di ritorno che Sidney Poitier molla a un riccastro bianco ne “La calda notte dell’ispettore Tibbs”. E i calci nelle palle? Wolverine che di fronte alla sua nemesi alla quale ricrescono continuamente le unghia gli spara un calcione all’inguine: “Fatti ricrescere queste”. E il calcio nelle palle inizia-rissa di Begbie in “Trainspotting”?

Mentre l’Academy fa i conti con se stessa mi sa che mi rivedo “Altrimenti ci arrabbiamo”, l’originale.

Chi è davvero Will Smith: cosa si nasconde dietro la "g". Evi Crotti il 10 Aprile 2022 su Il Giornale.

L’originalità delle lettere e la chiarezza mettono in luce un buon equilibrio a livello intellettivo coadiuvato anche da un’energia notevole che gli dona vigore rendendolo infaticabile.

Dalla scrittura e dalla firma (Clicca qui) di Will Smith emerge una personalità ricca e dotata di senso estetico (grafia chiara, lettera “g” tracciata in modo originale); ciò è anche dimostrato dalla sua carriera cinematografica. L’originalità delle lettere e la chiarezza mettono in luce un buon equilibrio a livello intellettivo coadiuvato anche da un’energia notevole che gli dona vigore rendendolo infaticabile. Tale caratteristica, oltre a essere investita nella professione, rimane un marchio che caratterizza Will Smith, un dono che nel soggetto in questione è fonte anche di salute psicofisica. Il fatto successo e raccontato su TV, giornali e riviste, non è dovuto ad un deterioramento psichico, bensì al suo carattere sanguigno, un po’ “bollente” che lo ha trascinato in un gesto senza dubbio deplorevole, ma privo di effettiva violenza. Il temperamento di tipo collerico-sanguigno (vedi grafia marcata e ascendente) gli ha permesso nella vita di essere iperattivo e di conseguenza infaticabile.

Senza dubbio ciò non lascia impassibile la sfera emotiva per cui, come si suole dire, egli è persona cui “salta la mosca al naso” quando in qualche modo venga toccato personalmente nell’orgoglio oppure, ancora di più, se si tocca sua moglie o qualche persona a lui cara. Il controllo sulle emozioni è senza dubbio difficile da contenere. Nella grafia, come anche nella firma preceduta da un cuore, si nota una notevole forza fisica che può dar luogo a momenti di aggressività; ma non ci sono effettivi segnali di violenza. L’aggressione, secondo vari conoscitori dell’umano come Freud e Fromm, si distingue decisamente in aggressività da un lato e violenza dall’altro. Quest’ultima è quella che porta gli uomini a uccidere mentre l’aggressività è un atto, quasi infantile, dove le pulsioni emotive lasciano spazio ad atteggiamenti deplorevoli e offensivi, ma mai distruttivi e brutali.

B. V. per il “Corriere della Sera” il 25 aprile 2022.  

È passato quasi un mese dallo schiaffo a Chris Rock con cui Will Smith, durante la notte degli Oscar, ha compromesso la sua carriera a Hollywood, offuscando anche la sua vittoria come migliore attore. E mentre negli Stati Uniti è stato bandito dall'Academy per dieci anni e alcuni dei suoi lavori sono stati messi in pausa, l'attore americano è ricomparso per la prima volta in pubblico. 

Dopo un periodo lontano dai riflettori, Smith è stato infatti fotografato in un aeroporto privato di Mumbai, in India, mentre sorrideva ai fan e li salutava. 

I motivi del viaggio non sono certi, ma secondo i media locali si tratterebbe di un soggiorno spirituale, con una visita al tempio Iskcon a Khargar, luogo di meditazione e pratiche induiste verso cui già in passato la star aveva manifestato interesse.

 Il dettaglio che non è sfuggito ai paparazzi, però, è che Smith, 53 anni, è arrivato in India da solo, circostanza che avvalorerebbe l'ipotesi di una crisi matrimoniale con la moglie Jada Pinkett. I bene informati negli States sostengono che la coppia sia ai ferri corti e che, dopo anni di crisi, sia prossima al divorzio.

L'alterco con Chris Rock, avvenuto il 27 marzo in diretta tv, era stato causato da una battuta del comico americano rivolta proprio alla testa rasata di Pinkett (che ha l'alopecia). L'attrice, 50 anni, sposata con Smith dal 1997, è intervenuta solo vagamente sulla vicenda, scrivendo una frase su Instagram, «questa è una stagione di guarigione e io sono qui per questo», aperta alle interpretazioni.

Qualche giorno fa Pinkett ha poi ripreso a condurre «Red Table Talk», talk show che porta avanti su Facebook Watch, e ha aggirato l'argomento spinoso con un messaggio proiettato su uno schermo a inizio puntata: «Considerato quel che è accaduto nelle ultime settimane, la famiglia Smith si sta concentrando su una profonda guarigione. Alcuni dei risultati verranno condivisi durante il programma quando sarà ritenuto il momento».

Marco Leardi per ilgiornale.it il 23 aprile 2022.

Dopo lo schiaffone, arriva la scoppola. Per Will Smith e la moglie Jada Pinkett Smith non c'è pace: secondo i tabloid americani, attentissimi alle vicissitudini della coppia, i due sarebbero a un passo dal divorzio. Il loro legame coniugale, iniziato con il matrimonio nel 1997, sarebbe ormai imminente e il colmo è che ad amplificare i dissapori sarebbe stata proprio la recentissima notte degli Oscar. In quell'occasione, l'attore afroamericano aveva rifilato un ceffone al collega Chris Rock per una sua battuta di troppo sulla calvizie della consorte. Il successivo scandalo, avrebbe insomma deteriorato non solo l'immagine pubblica di Smith ma anche la sua vita privata.

"Dallo scandalo degli Oscar, la tensione tra i due coniugi è palpabile", ha rivelato una fonte a Heat Magazine. Secondo i gossip di Hollywood, le conseguenze di quella movimentata serata avrebbero scombussolato gli equilibri già precari della coppia, al punto che la signora Smith avrebbe ammesso ad alcuni confidenti: "Stiamo vivendo un incubo". Dopo lo schiaffone sul palco degli Oscar, infatti, l'attore di Men in black e Io sono leggenda era stato bandito per 10 anni dalla prestigiosa manifestazione. Uno smacco non indifferente.

In realtà, riferiscono sempre i ben informati, ben prima del ceffone da Oscar la coppia era ai ferri corti. A differenza di quanto appariva in pubblico. "Hanno problemi da anni, ma ora sono arrivati a parlarsi a malapena", ha riferito una fonte. Qualora si arrivasse effettivamente al divorzio, la conseguenza sarebbe quella di una separazione milionaria, destinata a entrare nella storia delle coppie naufragate di Hollywood. Will Smith, grazie alla lunga carriera davanti alla macchina da presa, ha infatti accumulato un patrimonio di tutto rispetto, stimato attorno ai 350 milioni di dollari. Un "gruzzolo" che andrebbe equamente spartito con la signora Jada Pinkett, secondo quanto stabilito dalla legge in California.

"Will ovviamente non vorrebbe che accadesse, ma ormai non avrebbe più molto da perdere", ha rivelato la medesima gola profonda informata sulle vicende private dell'attore. Al momento né i diretti interessati né i loro rispettivi staff hanno fatto trapelare conferme o smentite alle indiscrezioni sull'imminente divorzio. Ancora deve placarsi la bufera per il pugno agli Oscar: tempo al tempo. Questo è un altro "film".

Maria Francesca Troisi per mowmag.com il 22 aprile 2022.

Altre grane in vista per Will Smith, che si gioca con lo schiaffo rifilato sul palco degli Oscar (per "difendere" la moglie) non solo la carriera (annessa interdizione dall'Academy per i prossimi dieci anni), ma pure il matrimonio. Insomma, oltre il danno, anche la beffa. Una beffa diffusa da voci ben informate, e messa in circolazione con insistenza negli ultimi giorni sui media americani. "Hanno problemi da anni (tradimenti reciproci allegati ndr), ma ora sono arrivati a parlarsi a malapena".

Intanto il divorzio, se confermato, costerebbe all'attore svariati milioni di dollari, considerato il suo cospicuo patrimonio, alias 350 milioni di dollari, da dividere a metà con la "cara moglie" (come stabilito dalla legge della California). Ma la coppietta, in verità, già in altre occasioni si era resa protagonista del gossip più succoso.

Come nel 2020, quando la Pinkett rivelò al marito di averlo tradito in diretta Tv, con replica un anno dopo, da parte di lui, di scappatelle ammesse. Dunque, una relazione tutt'altro che serena. Così, per meglio addentrarci nelle dinamiche di coppia, abbiamo esaminato la questione con lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet, che non ha usato mezzi termini, e definito i due attori dei "poveracci, miliardari maleducati". E liquidato la presunta separazione conseguente allo schiaffo in mondovisione come puro show business. A tal proposito, l'esperto ha anche attaccato tutte le altre star che espongono in maniera significativa la propria intimità, Fedez compreso.

Dunque Crepet, a dare il colpo di grazia al matrimonio degli Smith sembra sia stato proprio lo schiaffo che Will ha rifilato a Chris Rock nella notte degli Oscar. Ma lei condanna il gesto?

In un momento in cui imperversa l'odio, poteva almeno risparmiarsi la scenetta da bulletto. Se hanno offeso la moglie lei è ben capace, e in prima persona, di replicare. Le donne possono vantare la parità o no? Se non c'è nemmeno a Hollywood... vuol dire che sono dei dromedari. 

E non può essere interpretato come un atto di rabbia repressa? Data la tensione mai sopita tra i due...

In ogni caso non picchi una persona in mondovisione. Non lo giustifico. Piuttosto devi capire, caro miliardario, che c'è una guerra in corso, e quindi ai ragazzi va insegnato ben altro che ulteriore violenza. Quando una star fa questo vuol dire che Hollywood è precipitata negli abissi. Se l'anno in cui Marlon Brando rifiutò l'Oscar per il trattamento degli indiani d'America (1973) rappresenta uno dei momenti più alti degli Oscar, lo schiaffo in pubblico invece è il più misero in assoluto. 

Della battuta che ne pensa?

I comici vivono di battute. Se queste diventano delle offese, in questo caso per la Pinkett, come già detto, si regolava lei di conseguenza. Non siamo nel Medioevo, in cui i mariti devono difendere le donne. 

Ma lo schiaffo giustifica una richiesta di separazione?

Ma quello è showbiz. Lei pensa che ci creda? 

E la confessione pubblica di tradimento, da parte di lei, come la legge?

Penso fermamente che se esistono dei problemi intimi tra due persone vanno affrontati in privato, e non "sciacquati" in piazza. E lo sostengo pure di Fedez, come di tutte quelle star che appena hanno una grana, montano sopra una conferenza stampa. Vorrei spiegare a questi signori il significato di intimità. Se vuoi istituire una fondazione per aiutare le persone in difficoltà lo fai senza un comunicato. Altrimenti puzza! 

Parla ancora di Fedez, immagino.

Eh bè... io posso giustificare la rivelazione in alcuni casi, tra l'altro me ne sono anche occupato nella mia carriera. Uno di questi, per esempio, è l'anoressia annessa alla famosa foto di Oliviero Toscani con l'ex modella anoressica che poi morì, un modo nudo e crudo di comunicare a milioni di ragazze il destino cinico a cui si può arrivare. Tutto il resto, invece, è volgare. Una volta lo show business era eleganza, adesso è far west. Si vede che le star sono tutte ansiose e nervose, forse perché non c'è più niente di considerevole su Netflix. È in crisi, no? 

Ma Fedez non l'ha apprezzato nemmeno per aver reso pubblica la sua malattia, come a sostenere chi si trova nella medesima condizione?

Ma non scherziamo, non è così, se vogliamo sensibilizzare, investiamo soldi in una campagna d'informazione, piuttosto. Fedez parla della malattia per puro narcisismo. Siccome ce l'ho io, allora dovete stare attenti? Ma che significa? Patologia narcisista del cavolo, nient'altro. 

Tornando a Smith, peggio lo schiaffo in pubblico o la pubblica confessione di tradimento?

Sono sulla stessa linea, evidentemente sono solamente due poveracci. Nient'altro che dei miliardari maleducati.

Alla fine lui si è quasi giocato la carriera, mentre la moglie pare abbandonare la nave, "consolata" però nel ricevere metà del patrimonio.

Questi signori non mi fanno mica pena... Quello che è successo è solo l'ulteriore riprova che la ricchezza non significa nulla se non è accompagnata pure da sostanza. Puoi essere un gran cafone ed essere straricco. E Hollywood è piena, basta scorrere il red carpet. 

Reciproci tradimenti rivelati, relazione "aperta", insomma un legame tossico?

Ma questi due non hanno un salotto buono per parlare dei loro tradimenti? E del perché e del per come la loro storia è giunta al termine? A noi cittadini non ce ne fotte niente. Io capisco che voi giornalisti lo dovete chiedere... 

Bè, sono confidenze rivelate da loro stessi, non nostre fantasie...

È per questo che io detesto il gossip, Dagospia, e tutti quei suoi colleghi che campano sul privato degli altri.

Ma se il privato ce lo forniscono sul piatto d'argento...

Ma questo è un problema loro. Se Smith ha problemi con la moglie, si separa, a noi cosa ci frega? Che poi, diciamolo, non è neppure un grande attore. Gli è servito uno schiaffo in mondovisione per far parlare di sé, altrimenti chi se lo calcolava, nonostante l'Oscar?

Lo schiaffo di Will Smith il gesto più vero delle ipocrisie degli Oscar: il commento di Natalia Aspesi. Natalia Aspesi su La Repubblica il 29 Marzo 2022.

Con l'aggressione nei confronti di Chris Rock l'attore ha restituito verità alla più soporifera e maldestra notte degli Oscar. 

Non ci fosse stato Will Smith a ridare verità (anche se finta come si sospetta) alla più soporifera e maldestra notte degli Oscar (la novantaquattresima!), avremmo potuto dedicare una prece al cinema morituro per sua stessa volontà. In una scenografia da teatrino oratoriale un maschio nero, dimentico di #BlackLivesMatter, ha dato uno sganassone a un altro maschio nero, celeberrimo comico, ritenendosi lui insultato da una battuta.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 30 marzo 2022.

Non ci fosse stato Will Smith a ridare verità (anche se finta come si sospetta) alla più soporifera e maldestra notte degli Oscar (la novantaquattresima!), avremmo potuto dedicare una prece al cinema morituro per sua stessa volontà. 

In una scenografia da teatrino oratoriale un maschio nero, dimentico di #BlackLivesMatter, ha dato uno sganassone a un altro maschio nero, celeberrimo comico, ritenendosi lui insultato da una battuta forse non elegante riferita alla moglie, che solo un paio di anni fa avrebbe fatto sorridere (infatti prima di indossare l'armatura di cavalier cortese anche Smith aveva riso).

Ma quando mai si ride oggi (forse alle gare di flatulenze o ai gatti che baciano galline su TikTok?) se siamo tutti lì frementi in attesa di offenderci? Infatti si è offesa l'Academy, perché nel mondo finto di oggi (in quello vero c'è la guerra) il nero non picchia né neri né bianchi, e noi signore cui nulla sfugge abbiamo subito accusato lo schiaffeggiatore di essere alfiere del patriarcato, in quanto doveva lasciare che fosse la sua magnifica signora a salire sul palco a difendere manescamente la sua bella testolina nuda (alopecia) che se non la riteneva adatta alla serata poteva banalizzare con una parrucca. Poi, si sa, il peccatore Smith ha chiesto scusa perché la violenza è una brutta cosa e tutti, tranne i russi, siam tornati buoni.

Nella sua lunga storia l'Academy ha assegnato molti Oscar a vanvera, questa volta però con una sottomissione ideologica che travalica l'idea del valore cinematografico. Va bene l'inclusione, ovvio, che dovrebbe essere soprattutto un problema politico, economico e sociale: ma l'arte, e il cinema talvolta lo è, dovrebbe fuggire da conformismo, buonismo, ed essere sorprendente, persino trasgressiva, soprattutto mai ipocrita; almeno così era sino al più recente passato.

Già quest' anno la scelta dei candidati era blanda, rassicurante, un po' noiosa, impegnata a evitare sviste di genere o di diversità nel terrore di conseguenti ammutinamenti di massa. 

Negli ultimi anni i premi avevano già rispettato i codici dell'inclusione detta un tempo democrazia: le disuguaglianze di classe ( Parasite , 2020), il passato razzista (Green Book , 2019), la muta e il mostro ( La forma dell'acqua , 2018), l'omosessualità ( Moonlight , 2017), la pedofilia nascosta ( Spotlight , 2016). 

Ma questa volta si è esagerato nel privilegiare la mediocrità purché buona, miglior film ovviamente diretto da una donna, con la famigliola di sordi, migliori attori nei biopic sul babbo delle sorelle Williams tenniste nere, e su una predicatrice evangelica e un po' peccatrice ma che si dice femminista; attori non protagonisti una nera lesbica e un vero sordo.

Tanto per includere oltre ogni limite, sul palcoscenico il trans operato e pure una signora grassa ma non so in quale veste. Proprio non si poteva escludere Il potere del cane con le sue 12 candidature, premiato per la regia (una donna ovvio) e Belfast per la sceneggiatura originale, forse - con il giapponese Drive my car - i soli tre film che non saranno dimenticati. 

Oltre all'atomica, mi fa molta paura un mondo chiuso nella tirannia di una uguaglianza impossibile, bigotta e disonesta perché le inclusioni vere sono altre. Di cosa si ha paura, del linciaggio se non si aderisce al pensiero unico? Si vuole piacere a tutti a tutti i costi? Oppure ci stiamo abituando alla sottomissione al più forte?

Lo schiaffo di Will Smith stordisce i nostri radical chic: Concita e compagni non sanno da che parte stare. Giulia Melodia mercoledì 30 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.

Lo schiaffo di Will Smith manda in tilt la sinistra al caviale di casa nostra. A giudicare dai commenti del mainstream che Repubblica ha raccolto in un dotto paginone doppio, e da quelli arrivati da social e tv, i sapienti guru radical chic stavolta sono proprio in confusione. Incerti se propendere per la donna, di colore, offesa in diretta planetaria da un artista suo connazionale per il suo problema fisico. O con il conduttore nero della serata, picchiato per l’affronto dal marito divo, intemperante, scivolato sulla buccia di banana del machismo duro e puro. E così, dopo i beniamini hollywoodiani del politicamente corretto, anche i “compagni” di casa di nostra – quelli che non stanno “né con Putin né con la Nato” – ora devono schierarsi. Ma nel blackout più nero sembrano prediligere la non posizione: “Né con Will Smith, né con Chris Rock”. E tutto sommato, neppure con la donna presa in giro che, tra sessismo e body shaming, in fondo per i radical chic buonisti a corrente alternata avrebbe dovuto difendersi da sola.

Lo schiaffo di Will Smith manda in tilt il mainstream

Così ieri, Repubblica riportava i commenti e le sentenze dei soliti Soloni di sinistra alle prese con l’ardua impresa di leggere lo schiaffo e dargli un significato il più possibile politicamente scorretto. Come Francesco Merlo, che replicando ai rilievi di un lettore ha dichiarato: «Non sono un femminista, ma la logica d’onore del marito Will Smith, brutale ma virile, offende Jada Pinkett più della volgarità di Chris Rock. È stato uno scontro tra due caproni: uno ha straparlato e l’altro ha usato le mani». Zero a zero e palla al centro? Mah, forse più tutti giù per terra a rotolarsi – e a crogiolarsi – nel magma indistinto della condanna tout court che salva e accusa capra e cavoli.

La sinistra radical chic non sa con chi schierarsi: da Merlo alla De Gregorio…

Stessa linea qualunquista adottata da Concita De Gregorio. La quale, prima passa al microscopio, con entomologica precisione, tutte le malefatte di Will Smith che cede all’ira: «Non ti alzi a dare un colpo al tipo, per nessuna ragione. Non inveisci contro di lui dopo averlo colpito. E non usi pronomi di possesso a proposito della donna che ti siede accanto, perché nessuno è tuo». Soprattutto, sembra sottinteso, «non reagisci al posto suo», sentenzia la giornalista puntando l’accento sul sessismo tra le righe del gesto e delle parole della scazzottata hollywoodiana. Poi, dopo essersela presa fugacemente con il conduttore-autore dell’offesa indirizzata a una donna che porta i capelli rasati a zero a causa di un problema di salute (“sapendolo perfettamente” sottolinea in rosso in un inciso la De Gregorio), liquida Chris Rock con una battuta da bar dello sport.

Difendere la donna derisa o il nero aggredito? Sessismo o razzismo?

E sfoderando il cartellino rosso decreta: «Dovrebbe ripartire dai pub di provincia, se ancora gli danno un microfono»… Così, con i duellanti sistemati, è con la donna che Concita se la prende maggiormente. È lei, Jada Pinkett in Smith, offesa due volte e incapace di difendersi da sola. Messa ko, secondo la conduttrice di In onda, «prima dal maschio-comico che ha ironizzato sulla sua alopecia». E poi dal «maschio-marito, sceso in campo per difenderla». Insomma, il solo dire «mia moglie» e il farlo passare, per Concità è un affronto che grida vendetta. Ma che non deve scatenare reazioni…

Tutti appesi al gancio sessista, ma…

Tutto sempre più confuso e contradditorio. Talmente nebuloso e cerchiobottista che neppure l’intervista a Cristina Comencini, pubblicata nella seconda pagina che Repubblica dedica alla vexata quaestio, riesce a fare chiarezza. Una cosa è certo, nel profluvio di se e di ma, la sinistra radical chic in cortocircuito tenta disperatamente di aggrapparsi al gancio anti-sessista. E la scrittrice, sceneggiatrice e regista interpellata dal quotidiano diretto da Molinari ci si avvinghia a doppio giro. Prima dicendo: «Nel fare questa operazione da macho, Smith non mette in luce il fatto che lei è attaccata non in quanto sua moglie, ma come donna, con una frase sessista». Poi aggiungendo: «Come donna aveva diritto di reagire. Se si fosse alzata e avesse dato lei lo schiaffo, la reazione sarebbe stata diversa». Insomma, un duello al femminile è preferibile a un match ad alto tasso di testosterone? O è tutto sempre “tossico” comunque?

Gabriele Muccino, l’unico giudizio netto: «Ha creato un danno alla comunità afroamericana»

Tra tutti, alla fine chi se l’è cavata meglio è il regista Gabriele Muccino che, sulla vicenda che ha travolto l’amico americano, a Repubblica ha detto: «Will è un uomo d’onore quasi all’antica, difende i suoi affetti e chi lavora con lui. Mi ha sempre protetto dalle ingerenze dei produttori. È una delle persone più leali che abbia conosciuto a Hollywood, piena di gente ipocrita e inaffidabile». Poi, alla domanda: «Ha creato un danno alla comunità afroamericana, in un bellissimo momento?», il cineasta romano risponde tranchant, senza se e ma che assolvano: «Non poteva fare di peggio, nella serata più importante. È un dispiacere umano forte perché non meritava di inciampare così». Amen: la liturgia politically correct è terminata. Almeno un giudizio netto c’è stato. Ma che fatica…

Ma lo schiaffo di Will Smith spezza la liturgia buonista. Alessandro Gnocchi il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'attore colpisce il presentatore Rock che fa una battuta infelice su sua moglie. L'Academy apre l'indagine interna.

La notte degli Oscar, da molto tempo, è la cerimonia per eccellenza della nostra epoca. Il tappeto rosso, i premi, le dichiarazioni, le lacrime, perfino le finte polemiche, sono arredi sacri della messa in onore del politicamente corretto, il pensiero unico della tribù hollywoodiana, e non solo. I milionari fanno a gara per dichiararsi vicini a tutte le minoranze, a tutti i diritti civili, a tutte le buone cause. Molto bello, davvero, una grande commozione per le brave persone del mondo intero, quelle abituate a stare dalla parte giusta perché si rischia sempre di meno e si guadagna spesso di più. Anche quest'anno, il party sembrava indirizzato nella giusta direzione, quella «inclusiva», come dice chi non sa parlare, dal Black Lives Matter passando per le tematiche LGBT.

Domenica notte però la realtà ha fatto irruzione in questo mondo all'apparenza fatato e ha imbrattato la cerimonia con qualche schizzo di vera passione. Il presentatore Chris Rock ha fatto una infelice battuta sul taglio di capelli «militare» della moglie di Will Smith, Jada, quasi calva a causa di una malattia. «Jada ti voglio bene, ti prepari per Soldato Jane 2?» ha detto Chris Rock, facendo riferimento al film sull'esercito americano con Demi Moore (un cult movie del 1997). Sulle prime, Will Smith si è fatto una risata, poi ci ha ripensato, è salito sul palco, non invitato, e ha tirato uno schiaffo in faccia al (presunto) comico Rock. Poi è tornato al suo posto, con passo da bullo, gridando più volte: «Tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua fottuta bocca». Chris Rock ha incassato il colpo e l'ha buttata sul ridere: «Will Smith mi ha appena picchiato. È la più grande notte nella storia della televisione». Hai voglia a portare avanti i modelli di famiglia «alternativa». Quando la teoria cede il passo alla pratica, tu mi tocchi la moglie e io ti mando al tappeto, come ai vecchissimi tempi. L'attore ha poi vinto la statuetta come migliore attore protagonista per il film Una famiglia vincente. Smith ha battuto una concorrenza dove spiccava l'Andrew Garfield di tick, tick... Boom!. Era comunque il favorito non solo per la buona prestazione ma anche perché la giuria voleva rimediare ai mancati successi del 2002 (Ali, dove interpretava il grande pugile) e del 2007 (La ricerca della felicità). Risalito sul palco, questa volta senza picchiare nessuno, Smith ha agguantato l'Oscar e si è scusato con l'Academy (non con Chris Rock). «Richard Williams - ha detto ricordando il padre delle sorelle Venus e Serena Williams, a cui è dedicato il film Una famiglia vincente - era un difensore accanito della sua famiglia». Poi è stato un crescendo di lacrime e ispirazione divina: «L'amore spinge a fare cose pazze. In questo momento della mia vita sono sopraffatto da quello che Dio mi chiede di fare su questa Terra». Mani in faccia incluse?

Fino a qui, copione brutto ma interessante. Adesso si recita a braccio: l'Academy condanna e annuncia la volontà di esaminare l'episodio «in conformità con il nostro statuto, gli standard di condotta e la legge della California». Cosa significhi, e quali sanzioni comporti, per ora non lo sa nessuno. La rivista Variety esclude che si possa procedere alla revoca del Premio. Hollywood Reporter non si sbilancia e rimanda il discorso alla prossima riunione dell'Academy. Chris Rock non pare intenzionato a denunciare il collega, ma ha comunque sei mesi di tempo per pensarci.

Questa brusca interruzione della liturgia dell'Oscar dimostra che il politicamente corretto è un gioco di parole inconcludente ma non innocente perché ipocrita. Se va a sbattere contro i sentimenti autentici, non c'è tolleranza che tenga, il sangue va alla testa, parte il cazzotto, e così sia.

Oscar 2022, per non scontentare nessuno scontentano tutti. Fabio Ferzetti su La Repubblica il 28 Marzo 2022.

Alla resa dei conti Hollywood sta attenta a bilanciare i suoi premi: minoranze, donne, aperture verso il resto del mondo. Ma alla fine dimentica i migliori. Compresa Monica Vitti.

Dovevano premiare le minoranze e hanno premiato I segni del cuore - CODA, remake americano di un bellissimo film francese (La famiglia Bélier) centrato su una famiglia di sordi che ha una figlia udente con un gran talento musicale. Dovevano premiare le donne e hanno premiato Jane Campion (ma un Oscar solo eh, per carità), miglior regista per Il potere del cane, che però curiosamente non è anche il miglior film. Dovevano dimostrare che gli Oscar non sono più americani, sono diventati “globali”; così sono stati di manica larga nelle nominations, con candidature doppie, triple e quadruple per film danesi (Flee), norvegesi (La persona peggiore del mondo) giapponesi (Drive My Car, che per fortuna ha portato a casa almeno la statuetta come miglior film internazionale).

Ma alla resa dei conti tutto resta come prima, non disturbiamo troppo i manovratori, cioè Hollywood, anche se non si capisce più bene cosa sia Hollywood ai tempi delle piattaforme e dei sensi di colpa, per cui ancor prima dei film, dunque del lavoro e del talento, si premiano le persone e le cause (spesso buone cause, per carità).

Naturalmente è importantissimo che Jane Campion abbia vinto, terza donna dopo Kathryn Bigelow e Chloe Zhao, il suo secondo Oscar (ne aveva vinto uno per la sceneggiatura di Lezioni di piano). Ma chiunque ami il cinema troverà perlomeno curioso (eufemismo) che un film libero, geniale, inventivo e pieno di gioia come Licorice Pizza di P. T. Anderson torni a casa a mani vuote.

Quindi rassegniamoci a questi premi dati a pioggia, un po’ per uno non fa male a nessuno, dimenticando molti dei migliori per spingere i titoli che hanno più chances di avere un grande successo nel mondo come appunto CODA. O lo hanno già avuto come il Dune di Villeneuve, ricoperto di statuette ai valori tecnici anche se quei premi, ironia della sorte, sono stati consegnati al di fuori della cerimonia per accorciare i tempi e frenare l’emorragia di spettatori tv (e che tra le categorie escluse ci fosse perfino il montaggio, pietra angolare del cinema dai tempi del muto, la dice lunga. Ma in fondo i massimi teorici del montaggio, un secolo fa, furono due russi, S.M.Eisenstein e Dziga Vertov, qualche complottista potrebbe trovare nella scelta di svilire l’arte dell’editing una certa logica…).

La perdita di memoria storica del resto fa parte del piano. In una industria sempre più appiattita sul presente, per ragioni economiche ancor prima che culturali, cancellare o almeno minimizzare il passato diventa quasi automatico. Così può perfino succedere che il momento dedicato al ricordo degli illustri scomparsi, In Memoriam, dimentichi una stella di prima grandezza come Monica Vitti, certo non ignota anche al pubblico internazionale quanto meno per i film fatti con Antonioni (e con lei sono stati “dimenticati” Anne Rice, Joan Didion, Gaspard Ulliel e molti altri). Il nuovo regolamento degli Oscar doveva aprirli al nuovo, al diverso, all’internazionale (i votanti vivono ormai in 80 paesi diversi). Evidentemente qualcosa non sta funzionando.

Il politicamente corretto ci ha messo la "Coda". Maurizio Acerbi il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.

È stata, con ogni probabilità, la peggior edizione degli Oscar.

È stata, con ogni probabilità, la peggior edizione degli Oscar. E non solo per la scena da bullo di strada di Will Smith contro l'infelice battuta del (presunto) comico Chris Rock o per l'Italia rimasta a mani vuote, a partire dal nostro Sorrentino, ingiustamente sconfitto dal pomposo (e noioso) Drive my car. A spedirla di diritto sul gradino più alto del podio per la più brutta notte delle stelle è stata la vittoria assegnata, come miglior film (e non solo) a Coda - I segni del cuore. Un titolo, per carità, carino, ma giusto per una visione distratta, da domenica pomeriggio, sgranocchiando popcorn (dal 31 marzo torna nelle sale), oltretutto remake non esaltante di un film francese, La famiglia Blier, quello sì meglio riuscito. Diciamo che Hollywood sente sempre più il peso di doversi far perdonare (presunti) torti fatti nel passato e ora è incapace di prendere decisioni razionali, regalando statuette a destra e a manca, non perché meritate, ma nel rispetto del perfetto manuale Cencelli del politicamente corretto. Sancendo ufficialmente il trionfo della mediocrità.

Coda è l'acronimo di Children of deaf adults (Figli di adulti sordi) e così, questa volta, ha vinto la storia di una famiglia di sordomuti, con l'eccezione della figlia sedicenne che vuole studiare canto. Un trionfo difficilmente spiegabile per il suo valore artistico. Eppure, non contenti del premio, già fuori da ogni logica, del miglior film, gli hanno assegnato anche quello di miglior sceneggiatura non originale (alla regista Sian Heider, ma è in tutto simile a quella francese) e l'Oscar, a Troy Kostur (per il non protagonista), primo attore sordo a vincere la statuetta più ambita, trentacinque anni dopo la statuetta consegnata a Marlee Maltin, che fu la prima attrice non udente a vincere, per Figli di un Dio minore. Almeno, su questo premio non bisogna gridare allo scandalo, con tutta la sala in piedi che ha alzato le mani nell'applauso da non udente.

Probabilmente, Coda ha sfruttato un regolamento assurdo che obbliga i votanti a fare una classifica dei film candidati, dal migliore al peggiore. Da qualche anno, infatti, si vota con il sistema preferenziale che finisce per premiare titoli che finiscono costantemente tra i primi posti in molte di queste graduatorie. E, secondo un meccanismo astruso, a ritrovarsi incredibilmente vincitore, come è probabilmente capitato al non divisivo Coda. Per la gioia di Apple, distributore del film, che ha sconfitto i giganti dello streaming come Netflix e Amazon Prime Video.

Con tanti saluti alla super favorita Jane Campion e alle dodici beffarde Nomination per Il potere del cane. Le hanno dato un solo Oscar, quello per la regia (terza donna a vincerlo), che sa di risarcimento, ma fino a un certo punto, visto che il film non era certamente il suo migliore. Con Netflix che si stava fregando le mani, ma che esce dalla serata con le pive nel sacco. Oltre a Coda, l'altro trionfatore della nottata è stato Dune, con ben sei statuette, tutte tecniche, lasciando a bocca asciutta la Marvel. Resta il mistero, però, di come abbiano potuto dimenticarsi, per la regia, di Villeneuve, che aveva confezionato un signor film, ma, evidentemente, non abbastanza inclusivo per i gusti dei giurati.

Per il resto, è andato tutto come da copione. L'imbarazzato Will Smith ha vinto meritatamente come miglior attore per Una famiglia vincente, in cui interpreta Richard Williams, il papà delle sorelle tenniste Serena e Venus. Jessica Chastain è stata la miglior attrice grazie al non eccelso Gli occhi di Tammy Faye (film che ha vinto anche come miglior trucco). Nel lungometraggio, veste i panni dell'omonima telepredicatrice evangelica degli anni '70, icona della comunità Lgbt. Su Ariana de Bose, la prima donna di colore apertamente omosessuale, miglior non protagonista per West Side Story (Spielberg, altro grande sconfitto della serata), non si accettavano scommesse. Trionfando nel ruolo di Anita ed è la prima volta che due attrici (Rita Moreno nel 1962) vincono un Oscar per la stessa parte.

Che per il nostro Paolo Sorrentino non ci fossero molte speranze, non erano soltanto i bookmaker a dirlo. Troppo pompato il giapponese Drive My Car, di Ryusuke Hamaguchi, per non finire premiato come miglior film straniero, considerando anche le Nomination più importanti in cui era presente. Male è andata anche agli altri italiani in gara, ovvero Massimo Cantini Parrini per i costumi di Cyrano (ha vinto Jenny Beavan di Crudelia) ed Enrico Casarosa per Luca. Quest'ultimo è stato battuto dal super favorito film d'animazione Encanto, come da facile pronostico. E, a proposito di film autobiografici, quello in bianco e nero di Kenneth Branagh, ovvero Belfast, ha vinto l'Oscar come miglior sceneggiatura. Magra consolazione anche per lui.

Si attendeva il collegamento del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ma la guerra ha trovato giusto lo spazio di un minuto di silenzio e dei nastrini azzurro-gialli indossati dalle star. Alla faccia della dichiarazione di Sean Penn, il quale alla vigilia aveva minacciato di fondere in diretta le sue due statuette se Zelensky non fosse intervenuto. Nell'In Memoriam ha trovato posto un ricordo per la grande Lina Wertmuller, mentre a Robert De Niro e Al Pacino, invitati con Francis Ford Coppola per festeggiare i cinquant'anni del Padrino, non hanno fatto dire una parola. Così è se vi pare.

Da corriere.it il 4 aprile 2022.

Non si placa la bufera innescata dallo «slapgate», lo schiaffone assestato da Will Smith a Chris Rock nel corso della notte degli Oscar , dopo una battuta sulla alopecia della moglie di Smith, l’attrice Jada Pinkett . L’ultimo in ordine di tempo a rinfocolare le polemiche è stato Bill Maher, comico e presentatore tra i più famosi d’America.

Venerdì 1 aprile, durante una puntata del suo show «Real Time with Bill Maher», il conduttore è tornato sulla battuta di Rock con riferimento a Soldato Jane per la testa rasata di Jada Pinkett: «È alopecia non leucemia, okay? — ha detto —. L’alopecia è quando ti cadono i capelli, ci sono cose ben peggiori».

«Se sei così fortunato nella vita da avere questo problema medico — ha proseguito Maher —, dì semplicemente “Grazie Dio”. Non rappresenta un pericolo di vita. Fa parte – per la maggior parte delle persone, l’80% degli uomini, il 50% delle donne – dell’invecchiamento. L’invecchiamento è – credetemi lo so – il degrado della carne. Succede a tutti noi. E quindi, mettiti una fottuta parrucca se ti dà così tanto fastidio». 

«Tutti in America hanno passato l’intera settimana a parlare di questo schiaffo, quindi quel “tieni il nome di mia moglie fuori dalla tua fot*uta bocca” non ha funzionato granché» ha infine ironizzato il conduttore riferendosi alla frase pronunciata da Smith una volta tornato al suo posto dopo lo schiaffo a Rock.

Chi è Ariana DeBose, “la prima donna di colore apertamente omosessuale” a vincere l’Oscar. Redazione su Il Riformista il 28 Marzo 2022. 

“Sono la prima donna di colore apertamente omosessuale” a vincere l‘Oscar. Così Ariana DeBose commenta il trionfo alla 94esima edizione degli Academy Awardsche, che si è svolta al Dolby Theatre di Los Angeles, come migliore attrice non protagonista. La sua interpretazione nel film “West Side Story” di Steven Spielberg.

L’attrice afro-latina di 31 anni è la prima donna apertamente Lgbtq a vincere un Oscar per la recitazione. “Anche in questo mondo folle che stiamo vivendo si possono realizzare i sogni, è il massimo della vita. A chiunque abbia messo in dubbio la propria identità, vi prometto che c’è un posto anche per voi”.

Una statuetta che completa un anno da favola dopo il trionfo, sempre come migliore attrice non protagonista, al Golden Globe, lo Screen Actors Guild Award, il Critics’ Choice Award e il BAFTA.

Nel film Ariana veste i panni di Anita nella rivisitazione del musical classico vincitore dell’Oscar del 1961. La 31enne del North Carolina recita, canta e balla e ottiene la prima, pesante, affermazione nel mondo del cinema. Ha battuto le altre candidate Jessie Buckley, Judi Dench, Kirsten Dunst e Aunjanue Ellis.

In gran parte sconosciuta nei circoli cinematografici, Ariana DeBose viene dal mondo del mondo del teatro. E’ stata scoperta e lanciata dallo stesso Spielberg che vedendola recitare decise di proporle il ruolo di Anita. 

Ariana è una stella di Broadway. Debutta giovanissima e si fa notare in ruoli che anno dopo anno la votano definitivamente al teatro e nel mondo dei musical: Motown,Pippin, A Bronx Tale sono solo alcuni dei suoi spettacoli di successo. La consacrazione definitiva arriva però con Summer: The Donna Summer Musical, il musical per il quale si aggiudica una nomination al Drama League Award e al Tony Award come Migliore Attrice Non Protagonista.

In occasione della premiazione dei Sag Award, raccontò come “ho osservato così tanti di voi per molto tempo. Mi avete ispirata e continuate a farlo. Sono entusiasta di essere tra voi. Anita che vedete sullo schermo ha preso ogni parte di me. Ci sono voluti anni per darle vita e sono orgogliosa di lei”.

Francesca D'Angelo per "Libero Quotidiano" l'8 maggio 2022.

Una risata li seppellirà. Esatto: "li" ossia loro, gli stand up comedians, o come diciamo noi italiani i cabarettisti (più figo all'americana, ne converrete). A quanto pare in America fare il comico è diventato pericoloso quanto nascere qui da noi in casa Savastano. Il destino infame è più o meno il medesimo: nel migliore di casi, sei considerato un poco di buono che non rispetta donne, anziani, bambini, gay, extracomunitari e via dicendo. Nel peggiore, ti menano. La differenza è che con i comici non sprecano nemmeno tempo a progettare un'imboscata sotto casa: salgono direttamente "on stage" (sempre per dirla alla "wanna-be-american"), sul palco.

Il riferimento non è solo al celebre SlapGate ossia allo schiaffo che Will Smith ha tirato, in mondovisione, al comico Chris Rock durante la notte degli Oscar 2022. Tra i nostri pensieri - soprattutto tra quelli americani- c'è la versione nip della vicenda, ossia con un comune mortale nei panni del picchiatore di comici. Com'è noto alcuni giorni fa, durante uno spettacolo di cabaret organizzato da Netflix all'Hollywood Bowl, uno spettatore si è alzato, è salito sul palco e ha aggredito il comico Dave Chappelle. Per inciso, oltreoceano il nostro è molto famoso, per capirci è una sorta di Alessandro Siani che però fa ridere.

Ebbene, Chappelle si è trovato di fronte uno sconosciuto, poi identificato come il 23enne Isaiah Lee, che gli si è scagliato contro, nel bel mezzo del suo monologo. In mano, come poi è stato ricostruito, Lee aveva una finta pistola che, a sua volta, conteneva una lama tagliente. Il gesto insomma era premeditato. Da quel momento, a Hollywood è scattata la psicosi. Secondo fonti autorevoli come Variety e The Hollywood Reporter, i comici americani si starebbero facendo una sola domanda, ossia: «Chi è il prossimo?». Quindi non «se» o «quando» ricapiterà ma «a chi»: saremmo insomma davanti a una nuova forma di violenza.

RISATE PERICOLOSE Nel mirino degli odiatori seriali non ci sono più i politici, o i virologi, ma i comedians: quelli che dovrebbero semplicemente farci ridere, mica trasformarci in bestie assetate di cazzotti. Invece eccoci qua a scrivere che oggi fare il comico è un mestiere pericoloso. La riprova? Secondo molti i due fatti sarebbero tutt'altro che degli incidenti isolati: il gesto di Will Smith avrebbe fatto da apripista e sarebbe solo l'inizio di una lunga serie tanto che è necessario rivedere le misure di sicurezza.

A farlo per prima è la Los Angeles Philharmonic Association. «La sicurezza dei nostri artisti, visitatori e personale è la nostra massima priorità», ha comunicato l'organizzazione. «Stiamo rivedendo le nostre procedure esistenti sia internamente che con l'assistenza di esperti esterni in modo da poter continuare a fornire un ambiente sicuro all'Hollywood Bowl. Abbiamo implementato ulteriori misure di sorveglianza, incluso un numero maggiore di personale in loco per il controllo dei bagagli e altre procedure di sicurezza». 

Addirittura c'è chi ha proposto di introdurre (sempre, non solo all'Hollywood Bowl) gli sketch specificando che quanto si ascolterà da lì a poco non va preso sul piano personale. Ma non è ovvio? La stessa Netflix ha dovuto specificare, in un comunicato: «Ci prendiamo cura della sicurezza dei creators e difendiamo fermamente il diritto dei cabarettisti di potersi esibire sul palco senza temere atti di violenza».

PIÙ GUARDIE DEL CORPO Di nuovo: una cosa che dovrebbe essere ovvia ma tale non è se, per garantire il clima sereno, bisogna aumentare il numero dei bodyguard e controllare le borse manco fossimo in aeroporto. Il comico americano Kevin Hart ha inoltre commentato: «Non so se l'episodio accaduto a Chappelle sia inquietante ma sono felice che sia intervenuta la sicurezza: far vedere qualcuno preso a calci nel sedere fa passare la voglia alla gente di fare altrettanto». Speriamo perché altrimenti saremmo davanti a qualcosa di ben peggiore della censura: la morte stessa della libertà di espressione.

·        Lo Streaming.

Lo streaming su Internet ha cambiato il cinema e la televisione. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'11 Febbraio 2022.

La pandemia ha accelerato la svolta: regna Netflix con molti concorrenti, da Amazon Prime ad Apple tv e alla major cinematografiche. E' un fatto oramai acclarato che le grandi piattaforme di streaming siano diventate anche produttrici di film e serie di successo . Se questo genere di servizi rappresentava una nicchia fino a dieci anni fa, oggi i numeri raccontano una realtà diversa

di Redazione Spettacoli

Anno 2007: l’azienda, fondata 10 anni prima da Reed Hastings, decise allora di smantellare il servizio vendita di dvd, il proprio core business, per passare allo streaming online. Un momento nella storia di Netflix che ha segnato in qualche modo l’inizio di una rivoluzione nel mondo del cinema. Una strategia che l’avrebbe portata a diventare da distributore a produttore di film da Oscar.

Netflix da lì a poco intuì che nelle abitudini dei consumatori vi sarebbe stata una grande mutazione, destinati a spostarsi sempre più online, di pari passo con il miglioramento dei servizi di streaming e delle connessioni alla rete. In qualche modo, quella data, è stata l’inizio di un cambiamento epocale, che ha ridisegnato sia il consumo di show, film e spettacoli televisivi, sia l’industria stessa della produzione cinematografica, di serie tv e di documentari. 

La pandemia ha accelerato il processo

La pandemia ha accelerato un processo in atto, “È stata la mano di Dio” è stata distribuita quasi in contemporanea nei cinema e online, così come “Dune”, altro candidato come miglior film, e “Il potere del Cane”. Con un maggior numero di film originali che bypassano il grande schermo, il confine tra tv e film, e di conseguenza quelli delle rispettive industrie, si sta confondendo, spingendo a velocità di consumo un tempo impensabili. Gli studios delle grandi major, per esempio, impiegano team esecutivi diversi per supervisionare lo sviluppo e la produzione di film e serie televisive. Una strategia obsoleta ai tempi di Internet, che per molti oggi è anacronistica, troppo lenta e impastata. 

Il trionfo di Netflix agli Oscar

Il successo planetario di “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino, candidato agli Oscar come migliore film, ha Netflix nel doppio ruolo di produttore e distributore. Ma tra le nomination c’è anche “Don’t Look Up” di Adam McKay, anche questo prodotto e distribuito da Netflix che ha comprato i diritti nel 2019 da una major, la Paramount, mentre di “Il potere del cane” di Jane Campion, che ha ricevuto 12 nomination, è stato distribuito a livello globale sempre dalla società americana. Agli Oscar 2022 nessuno ha avuto il successo della compagnia di streaming Netflix . Un successo ormai difficilmente raggiungibile dalle altre major. Soltanto una della major hollywoodiane è riuscita a piazzarsi tra i produttori di film candidati all’Oscar come miglior pellicola dell’anno, la Universal Picture, che ha prodotto “Belfast” di Kenneth Branagh.  

Il successo dello streaming 

E’ un fatto oramai acclarato che le grandi piattaforme di streaming siano diventate anche produttrici di film e serie di successo . Se questo genere di servizi rappresentava una nicchia fino a dieci anni fa, oggi i numeri raccontano una realtà diversa. Nel 2021 Netflix ha raggiunto 222 milioni di abbonati in tutto il mondo, con una “library” di oltre 6.000 tra show e film. Il suo fatturato nel 2021 è stato di 29,7 miliardi di dollari.

Il predominio dello streaming è stabilmente nelle mani della società americana, ma le concorrenti non sono da meno. Le più importanti sono Amazon Prime (172 milioni di abbonati), Disney Plus (118 milioni), Hbo Max (72,8 milioni) e Apple TV Plus (40 milioni stimati). Numeri che si traducono in miliardi di dollari di abbonamenti e miliardi di dollari di capitale ottenuti sui mercati. Parte di questi utili vengono immediatamente reinvestiti in produzioni originali. 

Nel 2022 investiti 115 miliardi in produzioni originali

Nello scorso dicembre 2021 il Financial Times ha calcolato come solo le grandi società americane di streaming abbiano in programma di investire circa 115 miliardi di dollari in produzioni cinematografiche originali. Una cifra record, mai raggiunta prima. E per gli analisti il motivo è molto chiaro ed unico: in questa industria si è raggiunto un punto di non ritorno, ora non si può che investire sempre più soldi per cercare di attrarre quanti più clienti possibili perché sopravviverà solo chi avrà raggiunto le più ampie fette di pubblico possibile. 

Le nuove abitudini del pubblico

Secondo la Media Nations dell’osservatore americano Ofcom, la pandemia ha segnato un cambio netto nel consumo dell’industria cinematografica. Il pubblico d’altra parte ha già fatto la propria scelta. La fruizione di programmi via tv è sceso dal 67% nel 2019 al 56% nel 2021. Mentre i giovani americani dai 16 ai 34 anni praticamente non guardano quasi più la tv dal vivo. Il tempo passato ogni giogo sul media tradizionale (58 minuti) è poco più della metà di quello speso sui servizi di streaming (97 minuti) e YouTube (82 minuti) che a guardare la TV dal vivo (58 minuti). Effetto della rivoluzione arrivata con il digitale. Invece di fare affidamento esclusivamente su intermediari (come operatori, sistemi via cavo) per far arrivare spettacoli e film agli spettatori, le compagnie di intrattenimento vendono contenuti direttamente ai consumatori. L’effetto è che gli studios stanno rilasciando sempre meno film nei cinema.

La “guerra” è appena iniziata

Se la partita tra servizi di streaming e major sembra segnata, diversa è quella tra le stesse piattaforme di streaming. Nell’ultima trimestrale Netflix ha registrato come oramai la concorrenza nel settore sia uno dei problemi principali per il prossimo futuro. A fronte di costi in crescita, proprio per sfornare produzioni in grado di reggere quel mercato che nel frattempo diventa sempre più agguerrito. E qui tra colossi come la società di Hastings, Apple, Amazon e Disney, il risultato finale sarà ancora scritto dai grandi numeri sviluppati dagli abbonati. Ed ancora una volta a decidere sarà il “mercato”.

Redazione CdG 1947