Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA CULTURA

ED I MEDIA

QUINTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

      

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scienza è un’opinione.

L’Anti-Scienza.

Alle origini della Vita.

L’Intelligenza Artificiale.

I Benefattori dell’Umanità.

Al di là della Luna.

Viaggiare nello Spazio.

Gli Ufo.

La Rivoluzione Digitale.

I Radioamatori.

Gli Hackers.

Catfishing: la Truffa.

La Matematica.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Libero Arbitrio.

Il Cervello Allenato.

Il Cervello Malato.

La Sindrome dell'Avana.

Le Onde Celebrali.

Gli impianti.

La disnomia.

La nomofobia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Geni.

Il Merito.

Ignoranti e Disoccupati.

Laureate e Disoccupate.

Il Docente Lavoratore.

Decenza e Decoro a Scuola.

Una scuola “sgarrupata”.

Gli speculatori: il caro-locazione.

Discriminazione di genere.

La Scuola Comunista.

La scuola di Maria Montessori.

Concorso scuola truccato.

Concorsi truccati all’università.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutti figli di…Neanderthal (nord) e Sapiens (Sud).

Come si usano.

Sapete che…?

Epifania e Befana.

Il Carnevale.

Gioventù del cazzo.

Gli Hikikomori. 

La Vecchiaia è una carogna…

Gemelli diversi.

L’Ignoranza.

La Rimembranza.

La Nostalgia.

Gli Amici.

La Fiducia.

Il Sesso.

Il Nome.

Le Icone.

Il Linguaggio.

La Fobia.

Il Tatuaggio.

Il Limbo.

Il Potere nel Telecomando.

Gli incontri casuali di svolta.

I Fantozzi.

Ho sempre ragione.

Il Narcisismo.

I Sosia.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Ghosting: interruzione dei rapporti.

Gli Insulti.

La Speranza.

Il Dialogo.

Il Silenzio.

I Bugiardi.

Gli stolti.

I Tirchi.

Altruismo.

I Neologismi.

Gli Snob.

I Radical Chic.

Il Pensiero Unico.

La Cancel Culture.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La P2 Culturale.

L’Utopia.

Il Cinema di Sinistra prezzolato.

Il Consenso.

I Negazionismi.

I Ribelli.

Geni incompresi.

Il Podcast.

Il Plagio.

Ladri di Cultura.

Il Mecenatismo.

I Beni culturali.

Il Futurismo.

I Bronzi di Riace e di San Casciano dei Bagni.

I Faraoni.

La Pittura.

Il Restauro.

Il Collezionismo.

La Moda.

Il Cappello.

Gli Orologi.

Le Case.

La Moto.

L’Auto.

L’emoticon.

I Fumetti.

I Manga.

I Giochi da Tavolo.

I Teatri.

Il direttore d’orchestra.

L’Arte in tv.

La Cultura Digitale.

Dalla cabina al selfie.

I Social.

La scienza, la cultura ed i social. I Divulgatori.

La Capitale della Cultura.

Oscar made in Italy.

I Balbuzienti.

Cultura Stupefacente.

I pseudo intellettuali.

Le lettere intellettuali.

L’Artistocrazia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Alberto Angela.

Aldo Busi.

Aldo Nove.

Alessandro Baricco.

Alessandro Manzoni.

Alfred Hitchcock.

Amy Sherald.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea G. Pinketts.

Andrea Palladio.

Andrea Pazienza.

Annie Ernaux.

Antonella Boralevi.

Antonio Canova.

Antonio de Curtis in arte Totò.

Antonio Pennacchi.

Arturo Toscanini.

Banksy.

Barbara Alberti.

Billy Wilder.

Carlo Emilio Gadda.

Carlo Levi.

Carlo Linati.

Carmen Llera e Alberto Moravia.

Cesare Pavese.

Charles Baudelaire.

Charles Bokowski.

Charles M. Schulz.

Chiara Valerio.

Crocifisso Dentello.

Dacia Maraini.

David LaChapelle.

Dino Buzzati.

Donatello.

Elisa De Marco.

Emil Cioran.

Emilio Giannelli.

Emilio Lari.

Ennio Flaiano.

Ernest Hemingway.

Espérance Hakuzwimana. 

Eugenio Montale.

Eva Cantarella.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli. 

Fernanda Pivano.

Francesca Alinovi.

Francesco Guicciardini.

Francesco Tullio Altan.

Francisco Umbral.

Franco Branciaroli.

Franco Cordelli.

Franz Peter Schubert.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriel Garcia Marquez.

Gabriele d'Annunzio.

Georges Bataille.

George Orwell.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel.

Giacomo Leopardi.

Gian Paolo Serino.

Gian Piero Brunetta.

Giampiero Mughini.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Ansaldo.

Giovanni Verga.

Giuseppe Pino.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Ungaretti.

Giuseppe Verdi.

Grazia Deledda.

Guido Gozzano.

Guido Harari.

Ian Fleming.

Ignazio Silone.

Indro Montanelli.

Italo Calvino.

Jane Austin.

John Le Carré.

John Williams.

José Saramago.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lawrence d'Arabia.

Leonardo da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Leopoldo (Leo) Longanesi.

Luciano Bianciardi. 

Luchino Visconti.

Louis-Ferdinand Céline.

Marcel Proust.

Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis.

Marcello Marchesi.

Marco Giusti.

Mario Picchi e Aldo Palazzeschi.

Mario Praz.

Massimiliano Fuksas.

Maurizio Cattelan.

Maurizio de Giovanni.

Melissa P.: Melissa Panarello.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michele Rech, in arte Zerocalcare.

Nietzsche.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Orson Welles.

Pablo Picasso.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Scarpa.

Renzo Piano.

Riccardo Muti. 

Richard Wagner.

Roberto Benigni.

Robert Byron.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Sacha Guitry.

Saint-John Perse.

Salvatore Quasimodo.

Sebastián Matta.

Sergio Leone.

Staino.

Stephen King.

Susanna Tamaro.

Sveva Casati Modignani.

Tiziano.

Truman Capote.

Umberto Boccioni.

Umberto Eco.

Valentino Garavani.

Vincent Van Gogh.

Virginia Woolf.

Vittorio Sgarbi.

Walt Disney.

Walt Whitman.

William Burroughs.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

La Sociologia Storica.

Il giornalismo d’inchiesta.

I Martiri.

Se questi son giornalisti...

Il Web e la Legione di Imbecilli.

Gli influencer.

Le Fallacie.

Le Fake News.

Il Nefasto Amazon.

I Censori.

Quello che c’è da sapere su Wikipedia.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Gli Oscar comunisti.

Lo Streaming.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Pizzo di Stato.

Mediaset.

Il Corriere della Sera.

Il Gruppo Editoriale Gedi.

Primo: la Verità del Il Giornale.

Alberto Matano.

Alda D'Eusanio.

Aldo Cazzullo.

Alessandra De Stefano.

Alessandra Sardoni. 

Alessandro Giuli.

Andrea Scanzi.

Andrea Vianello.

Beppe Severgnini.

Bernardo Valli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Longhi.

Bruno Vespa.

Camillo Langone.

Carlo De Benedetti.

Cecilia Sala.

Cesara Buonamici.

Claudio Cerasa.

Corrado Formigli.

Davìd Parenzo.

Diego Bianchi in arte Zoro.

Elisa Anzaldo.

Emilio Fede.

Ennio Simeone.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Biagi.

Ettore Mo.

Fabio Caressa.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Fiorenza Sarzanini.

Franca Leosini.

Francesca Fagnani.

Francesco Giorgino.

Gennaro Sangiuliano.

Giacinto Pinto.

Gian Paolo Ormezzano.

Gianluigi Nuzzi.

Gianni Minà.

Giorgia Cardinaletti.

Giovanna Botteri.

Giovanni Floris.

Giovanni Minoli.

Giovanni Tizian.

Giuliano Ferrara.

Giuseppe Cruciani.

Guido Meda.

Ivan Zazzaroni.

Julian Assange.

Hoara Borselli.

Lamberto Sposini.

Laura Laurenzi.

Lilli Gruber.

Lina Sotis.

Lucio Caracciolo.

Luigi Contu.

Luisella Costamagna.

Marcello Foa.

Marco Damilano.

Marco Travaglio.

Maria Giovanna Maglie.

Marino Bartoletti.

Mario Calabresi.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.  

Maurizio Costanzo.

Michele Mirabella.

Michele Santoro.

Michele Serra.

Milo Infante.

Mimosa Martini.

Monica Setta.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo del Debbio.

Paolo Zaccagnini.

Pierluigi Pardo.

Roberto D'Agostino.

Roberto Napoletano.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Alla.

Tiziana Panella.

Vincenzo Mollica.

Vincenzo Palmesano.

Vittorio Feltri.

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

QUINTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Lawrence d'Arabia.

L'Odissea di Lawrence d'Arabia. Fuggì dalla gloria (con Omero). Davide Brullo il 3 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il guerriero scrittore, ormai stanco di intrighi e compromessi politici, scappò in India. Per tradurre le avventure di Ulisse.

Nell'agosto del 1928, Charlotte Shaw, ricca, irlandese, consorte del Nobel per la letteratura George Bernard Shaw, femminista, socialista radicale, per lo più anarchica, gli regalò un grammofono, per sollevarlo dal tedio orientale. Lo spedì da Londra, con una manciata di dischi per lo più Brahms e Schubert, insieme alla quinta di Mahler. La scena è icastica: Thomas Edward Lawrence, nei recessi dell'Impero britannico, a Miranshah, al confine con l'Afghanistan, che ascolta musica da un grammofono, in quel luogo lunare, crudele, dominato dal marrone, dove il sole è un predatore in agonia, un leone senza denti.

Esattamente dieci anni prima uno scaltro giornalista americano, Lowell Thomas, grazie a qualche fotografia carismatica e un reportage sensazionalistico, aveva creato il mito di Lawrence d'Arabia. Su Lawrence, tra l'altro, scrisse diversi libri, il più noto s'intitola With Lawrence in Arabia (1924), ma non va oltre una vasta cioccolateria di aneddoti.

Da allora, disgustato dagli esiti della conferenza di pace di Parigi e dalla politica europea e, in generale, dagli uomini, Lawrence, ostaggio della stampa patria, farà di tutto per distruggere il proprio mito, per annientare il proprio nome.

Nel 1922 si era arruolato nella RAF come John Hume Ross; quando scriveva sui giornali si firmava Colin Dale, a volte si faceva chiamare T.E. Smith, per gli amici era semplicemente T.E. Violento e aggraziato, come gli animi lunari, sprezzante, generoso, ingenuo, odiava essere diventato una leggenda, sulla bocca di tutti; più che altro, quel cognome, Lawrence, simboleggiava un'infamia, un esilio, lo stigma tarlato dal tradimento. Figlio della relazione extraconiugale di Sir Thomas Robert Tighe Chapman, barone angloirlandese, con la governante Sarah Junner, Lawrence era un cognome fittizio, per proteggere i parenti dagli scandali. Era partito per l'India l'8 dicembre del 1926, diretto a Karachi; il 26 maggio del 1927 viene mobilitato a Peshawar. Lavora, con acribia, a The Mint, arcano e grigio resoconto del servizio nella Royal Air Force, e a una edizione ridotta dei Sette pilastri della saggezza, che esce come Revolt in the Desert. Nella biografia pubblicata nel 1927, Lawrence and Arabian Adventure, Robert Graves, il grande poeta-sciamano, scrive che T.E. è «una personalità complessa fino all'esasperazione». Lawrence, che ambiva alla fama per fuggirla, la prese male: «Se qualcun altro scriverà un libro su di me, lo ucciderò senza dolore, ma molto velocemente» (così a Ralph David Blumenfeld, editore del Daily Express). In realtà, le biografie di Lawrence, irriverenti quella di Richard Aldington, amico di Pound, poeta difforme, Lawrence of Arabia: a Biographical Enquiry, ne ridimensiona il mito svelandone mitomania e omosessualità radicale o devote la più bella? Démon de l'absolu, il capolavoro postumo di André Malraux , diventarono un genere.

Il viaggio nel cuore di tenebra dell'Asia, nei gangli dell'attuale Pakistan, travolge Lawrence, che si fa chiamare in omaggio all'audace amica, Charlotte T.E. Shaw. Lo affascinano i lupi della sera, i deserti, le notti esangui, l'atmosfera da rivelazione improvvisa, da rivoluzione dietro l'angolo, l'Apocalisse nel cassetto. «Intorno a noi, colline basse, nude, ad anello, color porcellana, dai bordi scheggiati simili a bottiglie rotte. L'Afghanistan è a dieci miglia di distanza. La quiete del luogo è inquietante stavo per dire, minacciosa, dacché tra soldati viviamo come sonnambuli. Quindi: non c'è rumore di uomini né di bestie o di uccelli tranne il concerto degli sciacalli, ogni notte, intorno alle 22, quando si accendono i riflettori. Le sentinelle indiane fanno lampeggiare i raggi per la pianura, finché non incendiano gli occhi di una bestia. Spesso la vedo incrocio il suo sguardo» (così, il 30 giugno 1928, a H.S. Ede, collezionista d'arte, amico).

Da tempo, la sua unica compagnia è l'edizione Oxford dell'Odissea di Omero; la traduce di sera, quando la luce agonizza in un incendio di insetti e la mente arretra nel mito. Bruce Rogers, leggendario tipografo americano, era riuscito a contattarlo l'anno prima, facendogli la proposta, folle: l'Odissea tradotta da Lawrence d'Arabia. Il colonnello tentenna «Non sono un traduttore... il mio consiglio è che troviate un altro» , accetta, chiede due anni di tempo, pone una condizione ineffabile: «Non posso firmare con il mio nome. Il libro sarà pubblicato senza il nome del traduttore, o con uno pseudonimo». L'opera finora inedita in Italia, è pubblicata, secondo un'antologia di brani memorabili, dalle neonate edizioni Magog, in formato digitale e in cento copie cartacee numerate, pagg. 90, euro 12; info@gruppomagog.it ha il carisma della confessione; la traduzione è solenne, arcana, imperiale.

A ottobre, Lawrence ha terminato i primi quattro libri dell'Odissea; i fatti, improvvisamente, precipitano. Habibullah Kalakani, guerriero tagiko che aveva servito nell'esercito afgano, guida una ribellione contro Amanullah Khan, emiro dell'Afghanistan, progressista, amico dei sovietici: nel 1919 aveva osato dichiarare guerra al British Raj. I giornalisti si scatenano. Pare che T.E. Lawrence, oltre a tradurre l'Odissea, si sia impegnato a studiare la lingua pashtu; alcuni giurano di averlo visto aggirarsi a Kabul, travestito da maestro spirituale musulmano. La stampa francese e quella sovietica lo accusano di avere ordito la rivolta contro l'emiro; il 5 gennaio del 1929 i quotidiani inglesi escono con una «notizia straordinaria», riassunta così dal Daily Herald: «Le autorità afgane hanno ordinato l'arresto del Colonnello Lawrence, accusato di aiutare i ribelli a passare la frontiera. Descrivono Lawrence come l'arci-spia del mondo». Per il governo britannico la situazione si fa ingestibile: Amanullah Khan abdica il 14 gennaio; Lawrence è imbarcato a Lahore, l'8 gennaio, sul «SS Rajputana», direzione Londra. In nave, traduce tre libri dell'Odissea, compreso quello che narra l'incontro di Odisseo con lo spirito Achille: «Vorrei essere servo sulla terra, schiavo di un uomo inconsistente, costretto a rubare e a raspare per vivere! Ma vivo, vivo, e non il Re dei Re per queste mute di morti, che hanno ormai perduto i loro giorni». L'Odissea secondo Lawrence esce nel 1932: si rivelerà un successo; nel primo anno vende oltre 12mila copie. Lawrence la firma come T.E. Shaw.

L'attività letteraria di Lawrence, di fatto, termina con Omero. Il 4 febbraio del 1935, da un albergo nello Yorkshire, il colonnello scrive l'ultima lettera a Robert Graves, «La mia testa mirava a creare cose immateriali, inattingibili... Forse potrei essere un artista, ma un gorgo mi blocca, un freno. Per questo, ho cambiato direzione e sono entrato nella RAF, a sciogliere il groviglio orientale, un dovere che toccava a me solo, essendo in parte la causa di quel groviglio». Morì tre mesi dopo, in motocicletta, guidava una Brough Superior. Amava la velocità, la mistica meridiana della luce, il rischio, la danza con la morte, Dioniso e l'androgino. Lasciò agli eroi morire da eroi. Lui era T.E.

·        Leonardo da Vinci.

Il telescopio? Fu inventato da Leonardo da Vinci e non da Galileo Galilei. Roberto Vacca su La Repubblica il 14 Settembre 2022. 

Fu il genio toscano, nel 1492, a inventare e costruire il primo telescopio al mondo

La maggioranza delle persone colte non sa chi inventò il telescopio. Ho interrogato numerosi laureati in ingegneria, medicina ed economia di età compresa fra 25 e 80 anni. Alcuni non ne avevano idea. Molti hanno risposto che l’inventore era Galileo Galilei. La risposta è errata come dimostrò ben 84 anni fa il fisico sperimentale Prof. Domenico Argentieri, che era fra l’altro direttore della Salmoiraghi.(1)

Fu Leonardo da Vinci nel 1492 a inventare e costruire il primo telescopio. Leonardo aveva dedotto (per analogia con le onde prodotte dalla caduta di un oggetto su una superficie di acqua  orizzontale calma e indisturbata) che anche suoni e luci sono trasmessi da onde. Queste non implicano moto orizzontale, ma un tremore trasversale – cioè perpendicolare alla superficie orizzontale.

Leonardo costruiva anche lui lenti piano convesse  (per correggere la presbiopia “dei sessantenni”); nel 1492 costruì un primo cannocchiale senza oculare. Lo perfezionò e nel 1508 montò una lente piano-convessa (obiettivo) in un tubo all’altra estremità del quale (a distanza di 72 millimetri) aveva allineato una lente biconcava divergente (oculare) del diametro di 46 millimetri e dello spessore ai bordi di 4 millimetri. Ingrandiva di circa il 40%, poi migliorò fino  ad alcune volte.

La descrizione della struttura del telescopio e degli attrezzi con cui molava e rettificava le lenti, è riportata – corredata da ottimi disegni – nel Codice Atlantico (2) (ora alla Biblioteca Ambrosiana) e nei manoscritti leonardeschi A, E, F conservati all’Accademia di Francia.

Questi ultimi erano andati smarriti e li ritrovò nel 1889 Félix Ravaisson Mollien (1813-1900), che, però, non riuscì a interpretarli correttamente. Ravaisson Mollien  fu ispettore delle biblioteche francesi – nel 1870 fu nominato da Napoleone III conservatore della sezione classica del Louvre. Letterato e filosofo, è noto per un suo  saggio sull’abitudine, che definiva un fattore importante per comprendere la natura mana -  rilevante anche per le discussioni su questioni morali. Ravaisson ebbe notevole influenza sulla cultura francese; secondo alcuni, in particolare su Proust, Bergson, Merleau-Ponty, Derrida e Deleuze (questi ultimi due notori esponenti della così detta nuova filosofia francese, analizzata nella sua trasparente nullità da Alan Sokal e Jean Bricmont) e anche su Heidegger. 

I disegni di Leonardo da Vinci Raccolte da Pompeo Leoni

Il foglio 53 (verso) del manoscritto F (scritto nel 1508) mostra il disegno del telescopio con due lenti, ma Ravaisson lo interpretò erroneamente come relativo a due lenti separate da usare una all’aperto e l’altra “nello studio”.

La priorità dell’invenzione di Leonardo è stata dimostrata da D. Argentieri nelle opere citate. Una copia del telescopio di Leonardo, recante la scritta “Anno 1590” fu portata in Olanda. Ispirò, forse l’ottico Hans Lipperhey che  presentò il suo telescopio che aveva realizzato prima di quello che Galileo mostrò nel 1609.

Non sembra che la copia citata possa esser stata ispirata dallo specchio parabolico e dall’occhiale realizzati a Napoli nel 1580 da Giambattista Della Porta, che inventò la camera oscura, confutò l’astrologia, fu accusato di stregoneria, fondò la fisiognomica, scrisse “De telescopio” e altri trattati su fenomeni naturali sorprendenti, sulla  rifrazione, sulla forza elastica del vapore  oltre a numerose commedie. Era in corrispondenza con Galileo  e sostenne di aver inventato lui il telescopio pur ammettendo di non aver compiuto osservazioni astronomiche significative. Curiosamente la sua priorità fu accettata da Keplero, il quale ebbe nel 1610 un’interessante corrispondenza con Galileo.

Leonardo nei tre anni passati a Roma (1513-1515)  studiò la geometria di grandi specchi concavi parabolici da sostituire alle lenti per ottenere ottimi  ingrandimenti. Li costruì  in bronzo e due secoli prima di Newton trovò che l’aggiunta di arsenico nella lega oltre a rendere il bronzo più fragile ne aumentava molto la durezza. Il materiale, così reso compatto e a grana fine, era molto più adatto ad essere levigato come il vetro con buone proprietà ottiche.

Nel Codice Atlantico (Folio 396 retto e verso) Leonardo  riportò il disegno della sua macchina lunga 12 metri per molare specchi parabolici con distanza focale di 6 metri che è rappresentata nella figura seguente.

Leonardo: macchina lunga 12 m per molare specchi parabolici con distanza focale di 6m (Codice Atlantico Foglio  396) 

Non sono arrivate fino a noi queste macchine, né parti di esse – come è anche il caso di tante altre macchine disegnate da Leonardo, di cui modernamente sono stati ricostruiti modelli di legno. Leonardo ne costruì segretamente vari esemplari con l’aiuto di due artigiani tedeschi noti come Mastro Giorgio e Mastro Giovanni degli Specchi. Quest’ultimo collaborò alla costruzione del citato grande specchio parabolico concavo con cui Leonardo riuscì a vedere notevoli ingrandimenti della luna di cui ha scritto e forse anche i 4 satelliti di Giove – un secolo prima di Galileo.

Nel foglio 247 del Codice Atlantico Leonardo narra come Giovanni degli Specchi volesse costruire una copia del grande specchio parabolico che voleva portare con sé in Germania. Leonardo non gli permise di costruirla e scrisse che gli diede solo disegni parziali di ciascuna  delle parti componenti con indicazione di larghezza, lunghezza, altezza e forma di ciascuna.

Se Leonardo avesse visto i quattro satelliti di Giove (che un secolo più tardi Galileo chiamò “Medicei”), avrebbe mantenuto il segreto per non essere perseguitato dall’Inquisizione che avrebbe potuto metterlo al rogo malgrado la protezione di papi e cardinali, i suoi meriti agiografici (quadri e affreschi di Cristo, santi e martiri.) e numerose invocazioni formali di stampo cattolico nei suoi scritti.

La ricostruzione di Argentieri dei dati sul telescopio vinciano non convinse tutti (vedi il Giornale di Astronomia, N°45, 4 Dicembre 2019) Alcuni astronomi negarono che Leonardo avesse mai costruito telescopi. Fra questi: Pio Emanuelli e Vasco Ronchi, che ebbe una polemica lunga e infocata con Argentieri, il quale conclude le sue violente critiche a Ronchi (nel terzo libro citato sopra nella nota [1]) copiando la seguente volgare riflessione dello stesso Leonardo (Codice Trivulziano, Foglio 14):

“Demetrio solea dire non essere differentia dalle parole e voce dell’imperiti ignoranti che sia da soni e strepidi causati dal ventre ripieno di superfluo vento. E questo non senza cagion dicea: imperochè lui non reputava  esser diferentia da qual parte costoro mandassimo fuora la voce o dall part ineferiori o dalla bocha chè l’una e l’altra era di pari valimento e sustanzia.”

_______________________________________________.

[1] Argentieri, D. – Leonardo’s Optics, pp. 405-435- Atti Mostra Leonardesca di Milano 1939

Argentieri, D. – L’ottica di Leonardo, Studio Tipografico del Genio Civile, 1939

Argentieri, D. – Ritrovamento delle curvature delle lenti del cannocchiale vinciano, ed. Macciachini, Milano 1939

[2] sono 399 fogli (di 65 x 47,5 cm – formato usato per gli atlanti, da cui il nome) di scritti, appunti e disegni rilegati con titolo in oro

Quando Leonardo provò a deviare l'Arno. Niccolò Machiavelli e Leonardo da Vinci unirono le proprie forze per provare a realizzare un sogno impossibile: cambiare il corso del fiume madre della Toscana, l'Arno, per sconfiggere una volta per tutte Pisa. Luca Bocci il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

Alle volte capita che anche personaggi estremamente famosi nascondano pagine sorprendenti nelle loro biografie, sconosciute anche a chi pensa di conoscerli come le sue tasche. Due dei geni più conosciuti di Toscana, ad esempio, hanno nel proprio armadio uno scheletro mica da ridere: all'inizio del Cinquecento misero assieme i loro notevoli talenti per compiere un'impresa apparentemente impossibile dalle conseguenze potenzialmente devastanti.

Su Leonardo da Vinci e Niccolò Machiavelli i libri si sprecano, con fior di dettagli sulle rispettive carriere di pittore, scienziato e inventore o di politico col vizio della filosofia e dell'intrigo. Non molti, invece, quelli su quella che sarebbe potuta rivelarsi l'impresa più grande delle loro carriere: deviare il corso del fiume madre della Toscana, l'Arno, per privare l'eterna nemica di Firenze, Pisa, del bene più prezioso, l'acqua potabile. ASCOLTA LA STORIA

Il genio di Vinci, a dire il vero, aveva provato per anni a far realizzare un progetto ben più ambizioso, un colossale canale artificiale che, passando per Prato e Pistoia, avrebbe reso le disastrose alluvioni dell'Arno un ricordo del passato. Purtroppo, come per molte altre idee leonardiane, il cartellino del prezzo avrebbe fatto impallidire anche Paperon de' Paperoni. Proprio quando sembrava che il sogno della vita di Leonardo fosse destinato a rimanere nel cassetto, Machiavelli si ricordò del progetto e pensò di usarlo per ridurre alla resa la Repubblica Pisana, impegnata da dieci anni in una sanguinosa guerra per liberarsi dal giogo fiorentino.

La storia di come questo progetto fu approvato, di come fu proprio lo scorbutico Arno a spazzarlo via e come questo fallimento influenzò le carriere dei due grandi toscani è davvero affascinante. Alla fine Pisa fu costretta lo stesso alla capitolazione e del fattaccio si dimenticarono quasi tutti, tranne i pisani, che ancora ricordano con rabbia e disgusto come i due geni cospirarono per prendere un'intera città per sete.

Marco Ascione per il “Corriere della Sera” il 13 giugno 2022.  

Leonardo che sembra plasmato della «stessa sostanza delle nubi». Ed è già sempre altrove. Inafferrabile come i contorni del suo autoritratto. Leonardo inconcludente che, mentre abbozza gli schizzi per il monumento equestre voluto da Ludovico il Moro, si perde cercando prima un cavallo a cui ispirarsi e poi un metodo per mantenere pulite le stalle del Castello Sforzesco.

Leonardo vanitoso, che sa vestire (e non disdegna il rosa), uomo di corte, capace di allietare persino con il canto, amabile intrattenitore di Papi, mecenati e nobildonne. Che conduce una vita agiata pur non curandosi dei conti della sua impresa. Leonardo che dice a tutti di sì per dire in realtà quasi solo dei no. Leonardo estremista della sperimentazione, apprendista curioso di ogni minimo segmento del creato, dal sistema solare al volo degli uccelli fino alla composizione delle vernici trasparenti, e mai maestro.

Determinato nell'essere sé stesso. Leonardo che rifiuta la tecnica dell'affresco quando dipinge l'Ultima cena, capolavoro che subito rischia di svanire come un sogno al mattino. Leonardo dalla sessualità incerta, fluida forse: omosessuale? Bisessuale? Leonardo che ritocca la Gioconda per anni senza mai consegnarla al suo committente. E invece Michelangelo. Che lavora notte e giorno. Che accetta ogni incarico e lo porta quasi sempre a compimento. 

Che scolpisce il David commissionato dal Duomo di Firenze, ma anche, in gran segreto, per non apparire distratto, una Madonna con Bambino su richiesta di un ricco mercante di tessuti fiammingo. Michelangelo che è benestante, ma vive da povero. Che non si cura dell'aspetto. Che ha il naso schiacciato per un pugno sferratogli da Pietro Torrigiano all'ennesima provocazione. Michelangelo che non si cambia mai d'abito ed è scontroso. Michelangelo che si interroga su Dio.

Burbero e tormentato sul senso delle cose. Michelangelo che ha una vera ossessione per i nudi maschili. Muscolosi e «scolpiti» anche quando dipinge. Michelangelo che nella Cappella Sistina ribalta i canoni della rappresentazione con la creazione di Adamo non più reso vivo dal soffio nelle narici, sulla linea del racconto biblico, ma dall'indice di Dio che si alza in volo. E da allora, così è.

Ma soprattutto Leonardo e Michelangelo insieme. Coevi. Rivali.

Toscani che insistono, da geni forse mai più eguagliati nella storia dell'uomo, sullo stesso palcoscenico del Rinascimento. Con un corollario di altri artisti strepitosi e in parte dimenticati. Ebbene: si sono incontrati? Hanno parlato? Forse. Ma piace pensare di sì. E che non sia stato un confronto in punta di fioretto. Geni «che hanno parlato male l'uno dell'altro». Serviva coraggio, va detto, per scrivere un libro dedicato non solo a uno, ma addirittura a tutti e due. Che cosa mai si può aggiungere?

 Eppure: sempre si possono osservare le cose da un altro angolo. Solcando territori meno battuti e offrendo con passione un racconto capace di restituire i contorni degli uomini ancor prima che degli artisti. O meglio: le debolezze dell'uomo che si riflettono sulla grandezza del genio. Lo splendore dei gesti perfetti che convive «con le tenebre dell'ossessione». L'ingegno e le tenebre (pubblicato da Rizzoli) di Roberto Mercadini è una conferma. 

Bomba atomica, il suo precedente libro, non è quindi un fatto isolato. Ci si può perdere nello stupore, una tentazione irresistibile: «La cosa che mi affascinava di più è che questi due maestri, questi due mostri sacri si sono conosciuti e non si sono piaciuti. Questo è così spiazzante da un punto di vista narrativo. Leonardo da Vinci (1452-1519, ndr) e Michelangelo Buonarroti (1475-1564, ndr ) non solo sono totalmente diversi tra di loro, come grida ogni dettaglio della loro autobiografia, ma ognuno dei due è diverso dal resto dei suoi contemporanei.

 Sono corpi estranei, squarci nella parete uniforme della norma, che lasciano intravedere un orizzonte più ampio. Insieme, sebbene opposti, anzi proprio perché opposti, sembrano voler istigare ciascuno di noi alla diversità, vale a dire a essere ciò che davvero siamo, fino all'unicità più irreparabile». Ecco perché questo non è, semplicemente, un libro su Leonardo e Michelangelo. La lettura scorre. Galoppa a tratti tra le botteghe d'arte, gli splendori delle opere e la fallacia, a volte, dei comportamenti. L'umanità di due geni. 

Bruna Magi per “Libero quotidiano” il 28 maggio 2022. 

Incarnano il top della genialità del nostro Rinascimento, Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti, e in vita furono agli antipodi. Il primo era bello, seducente, elegante, tutto damaschi e pellicce, amava stare in mezzo alla gente, persino quando dipingeva il Cenacolo nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie non disdegnava di scendere dall'impalcatura per chiacchierare con gli ammiratori, a partire da Lodovico il Moro, signore di Milano, del quale era anche intrattenitore di corte. 

Michelangelo era brutto, sporco e cattivo, girava per le strade ricoperto dalla polvere del marmo e, mentre stava realizzando il David, aveva addirittura eretto un muro per stoppare l'accesso a chiunque, classificando come rompiscatole l'umanità intera. 

Leonardo diceva che le figure scolpite dal rivale esibivano muscoli somiglianti a sacchi riempiti di noci o di ravanelli, insensibile all'altissima poesia dei suoi raffinati sonetti. Michelangelo ribatteva che Leonardo si faceva condizionare da "quei caponi di milanesi", lombardi teste dure. E in occasione di un raro incontro nelle strade di Firenze erano volati insulti reciproci.

Erano due opposti che si detestavano ma si compensavano, come racconta con magistrali sfumature Roberto Mercadini, autore di un volume tanto barocco quanto capillare, L'ingegno e le tenebre (Rizzoli, pag.333, euro 18,50). Affollato di molti altri personaggi che fluttuano nell'etere dell'arte e della letteratura (Machiavelli con la sue radiografie del potere e il Vasari narratore di uomini eccelsi), intelletti chiamati a raccolta, scultori e pittori (Botticelli, Raffaello, Mantegna, Pietro Vannucci detto il Perugino), mecenati (i Medici e gli Sforza), principi e papi (i Borgia e i Della Rovere, che scontro epocale) ognuno ambasciatore di un "proprio" Rinascimento, tutti ingaggiati per fungere da luminescente corollario ai due titanici protagonisti. 

Raccontare Leonardo e Michelangelo significa anche scavare nell'invidia e nel senso di competizione, ineluttabili cardini del mondo creativo: anzi, da fattori negativi, in questo ambito si trasformano in trampolini di lancio verso la bellezza dell'assoluto, diventando elementi positivi. Perché, si legge nella quarta di copertina «Erano un tempo e un luogo, quelli, in cui il destino di un individuo sapeva disegnare traiettorie serpeggianti, estrose e del tutto imprevedibili. Era l'Italia del Rinascimento». 

Uno scontro significativo fra i due geni ebbe luogo a Firenze, nel 1503, quando a Leonardo venne proposto di affrescare una parete della Camera del Consiglio, a Palazzo della Signoria, con la battaglia di Anghiari, vinta da Firenze contro Milano nel 1440, mentre a Michelangelo proposero di fare la stessa cosa proprio su quella di fronte, con la battaglia di Cascina, vinta contro Pisa nel 1364. Michelangelo disprezzava Leonardo per la sua mondanità, e perché non terminava mai le opere. 

Secondo lui era poco professionale, inaffidabile, perché si occupava di troppe cose, non solo di pittura, passava dall'utopia di volare ai canali navigabili, dalle macchine da guerra agli studi sul corpo umano, e persino al giardinaggio. Come se Michelangelo non si rendesse conto, accecato dall'invidia, della stupefacente genialità del rivale (riducendolo a un confusionario), in realtà precursore dei nostri tempi: ingegnere idraulico, meccanico e bellico, geologo, botanico, studioso di ottica, il primo a capire, da anatomista, che il centro del sistema sanguigno non era il fegato, come credevano allora, ma il cuore. E per descriverlo, dice Mercadini, usa una metafora "vegetale" che è poesia e scienza insieme: "il core è i' nocciolo che genera l'albero delle vene".

Ma Leonardo non era da meno nel rilanciare la palla come nel gioco del tennis (allora si chiamava pallacorda), lui era invidioso della gioventù di Michelangelo (oltre vent' anni di meno) e già famoso. E pure seccato della sua cultura, anche religiosa. La gelosia di Leonardo si era manifestata alla grande quando, facendo parte della commissione di artisti che doveva decidere la collocazione del David, anziché condividere il parere di molti che indicavano piazza della Signoria come sfondo ideale per tale prorompente bellezza, suggerì la Loggia, e dentro una nicchia con la scusa di proteggere un marmo particolarmente fragile. Non riuscì nel suo intento. La spuntò soltanto con una richiesta di ipocrita pudicizia, indegna di un genio: far coprire genitali e e natiche con un gonnellino di ventotto foglie in rame e oro. 

Davide Maniaci per milano.corriere.it il 19 luglio 2022.

Le teorie sulla vera identità della misteriosa Gioconda di Leonardo sono numerosissime: va avanti da secoli il dibattito su chi fosse la donna più famosa del mondo dell’arte e su quale sia il luogo dove il genio da Vinci decise di ritrarla. 

Secondo Carla Glori - ricercatrice indipendente in arte e critica letteraria - il ponte che si vede a sinistra della spalla della Gioconda è il «ponte Gobbo» di Bobbio, il simbolo della cittadina nell’entroterra piacentino. E la donna è Bianca Giovanna Sforza, figlia illegittima e poi legittimata di Ludovico il Moro, promessa in sposa ancora bambina a Galeazzo Sanseverino e morta in giovanissima età (1482-1496) solo sei mesi dopo la celebrazione del matrimonio. Il quadro doveva essere il suo ritratto nuziale. 

Il numero 72

Carla Glori ha dedicato allo studio dell’opera pittorica di Leonardo gran parte della sua vita. Autrice di libri e articoli, ha divulgato anche online molti suoi scritti, consultabili su piattaforme di ricerca. «La notizia dell’esistenza del numero “72” sotto il ponte della Gioconda (scoperto da Silvano Vinceti nel 2010), venne allora da me rilanciata associandola al ponte Gobbo, che avevo identificato come quello del ritratto. La cosa incontrò all’epoca contestazioni. 

Il fatto che il numero esista o meno non è indispensabile all’identificazione del ponte di Bobbio da me fatta, che si basa su elementi storici e architettonici e su disegni tecnici per il suo allungamento. Allora aveva cinque archi irregolari e caratteristiche strutturali del tutto simili al ponte dipinto da Leonardo». 

La prova della riflettografia 

«All’epoca - continua Glori - avevo osservato che sussisteva per il ponte Gobbo una connessione storica documentata con il numero “72”: infatti il ponte era stato travolto da una piena del Trebbia giusto nel 1472 e l’arco grande – corrispondente a quello sotto cui vedevo il numero nel dipinto – nella realtà presentava un ammasso di rocce proprio in quel punto: non fu riparato fino al 1509. 

Ne avevo concluso che si trattasse di una data posta dal pittore in memoria di quell’esondazione, o magari per far sì che qualcuno identificasse quel ponte così famoso. Mi ha convinto il fatto che quel numero si vede anche in riflettografia, ma non saprei ancora oggi dire in tutta certezza se esista o meno, perché potrebbe essere un tiro mancino del destino, imputabile alle “craquelures” di cui quel quadro abbonda». 

Il disegno dell’arco «nascosto»

La prova che invece l’esperta definisce «inattaccabile» riguardo al ponte consiste nel disegno di un arco, visibile solo in riflettografia, in quanto è stato coperto da Leonardo con uno strato di colore. «Si tratta di una scoperta comunicata al Louvre nel 2012.

L’arco è tracciato nel punto esatto in cui si vede il ponte Gobbo dalla finestra del castello, individuata dalla ricerca come “il punto di vista sul paesaggio” della Gioconda. Leonardo ha poi raffigurato il ponte un po’ più avanti e lo ha “raddrizzato” per dipingerlo al meglio e per intero, poiché (come si può constatare in loco) gli appariva in obliquo e troppo angolato. 

È comprensibile che l’identificazione del ponte Gobbo all’epoca sollevasse contestazioni e scetticismo, perché nessuno prima di allora aveva collegato Leonardo alla Val Trebbia, un territorio strategico, a ben vedere niente affatto marginale per la storia degli Sforza e per le connessioni che via via sono emerse con Leonardo nel suo primo soggiorno milanese. Va sottolineato che al ponte Gobbo si aggiungono altri tredici punti di riferimento paesaggistici rispettivamente coincidenti nello sfondo dipinto e nel panorama reale inquadrato dal “punto di vista” fissato presso la finestra del castello». 

La scoperta dei paleontologi

Quest’anno inoltre un team internazionale di paleontologi ha scoperto sul territorio bobbiese gli icnofossili che compaiono nel codice Leicester: una ulteriore conferma della tesi sulla localizzazione del paesaggio, in quanto viene comprovata la presenza di Leonardo in loco. 

Bianca, la figlia del Moro, e la sua morte misteriosa

«Sia sulla localizzazione bobbiese del paesaggio che sulla ricostruzione storica, che riconduce alla faida sforzesca con la famiglia di Pietro Dal Verme (il signore di Bobbio avvelenato per ordine del Moro nel 1485, ndr), ho in previsione la pubblicazione di un libro con molte novità entro quest’anno.

Quel luogo, fino ad allora posto in margine alla storia sforzesca, si lega alla biografia di Bianca, la primogenita del Moro, e a quella di suo marito Galeazzo Sanseverino, che fu mecenate di Leonardo durante il primo soggiorno milanese. 

Entrambi ebbero in dote i possedimenti espropriati dal Moro ai Dal Verme e la giovane morì di morte misteriosa sei mesi dopo le nozze, forse per l’oscuro intrigo cortigiano a cui accenna il Muratori nelle Antichità Estensi, chiamando in causa Francesca Dal Verme (figlia del conte Pietro). Le carte d’archivio disponibili non hanno dato finora risposte su questo intricato “giallo sforzesco”, e probabilmente non si riuscirà mai a venirne a capo». 

L’«invecchiamento» della Gioconda

E sarebbe proprio Bianca la donna del quadro. Lo scienziato Pascal Cotte nel 2014 aveva annunciato la scoperta del ritratto di una donna più giovane sotto la Gioconda, una scoperta che attende conferma ufficiale dal Louvre: in tal caso verrebbe convalidata l’ipotesi del 2010 di Carla Glori circa l’«invecchiamento» e la trasformazione operata da Leonardo sulla modella, la non ancora quindicenne Bianca Giovanna Sforza. 

Dopo la sua fuga da Milano, Leonardo doveva infatti nasconderne l’identità, in quanto figlia del Moro, ormai sconfitto e messo al bando. 

Le origini milanesi

Una Gioconda milanese, dunque, secondo Carla Glori. «Va premesso – prosegue – che il ritratto di “una certa signura di Lombardia” (con correzione in rosso “milanese”) viene documentata da Antonio de Beatis durante la sua visita nel castello di Blois, il giorno dopo l’incontro con Leonardo in Amboise nel 1517. 

Ho ipotizzato al proposito che potrebbe trattarsi del ritratto detto la Gioconda. A partire dalla localizzazione del paesaggio in Bobbio, ho identificato la giovane Bianca signora di Voghera in base a fatti storici documentati, dato che lei e Galeazzo Sanseverino furono investiti delle terre vermesche della Val Trebbia dopo gli sponsali del 1489». 

I ricami sulla scollatura

Leonardo conosceva la figlia del Moro fin da bambina e sono documentati i rapporti di amicizia che legavano il Pittore a Galeazzo, suo mecenate. «Una evidenza sforzesca sono i ricami sulla scollatura dell’abito della Gioconda, in quanto riconducono alla moda lanciata a corte da Beatrice d’Este nei primi anni del 1490 e le minute spirali del ricamo sono identiche a quelle dell’abito della Dama con l’ermellino (1490 circa). 

Sono le stesse spirali che si ritrovano nei nodi vinciani del 1497 circa, dai quali sono state tratte incisioni. Un esperimento grafico ha permesso di provare che il ricamo della scollatura “assembla” tre motivi dell’incisione del nodo Academia Vinci 9596 della biblioteca Ambrosiana, ma l’esperimento è ripetibile sulle altre incisioni con analoghi nodi vinciani». 

La lavorazione sul bordo del parapetto

«Inoltre - spiega Glori - la lavorazione sul bordo del parapetto della Gioconda, eseguito anteriormente al ritratto, è del tutto simile a quella del parapetto della Belle Ferronnière, la milanese Lucrezia Crivelli, l’ultima amante del Moro ritratta nel 1497, un dipinto il cui sfumato presenta significative analogie con quello della Gioconda. La similitudine dei parapetti rimanda a un contesto culturale-architettonico omogeneo». 

«Molti elementi – prosegue la ricercatrice – dimostrano che il ritratto del Louvre, anziché al 1503 in Firenze o ancor più improbabilmente nel periodo romano 1513-1516, può datarsi nel triennio 1496-99 (tra le nozze di Bianca e la sua morte, prima della fuga di Leonardo da Milano per la caduta dello Sforza)».

Il ritratto nuziale mai consegnato

La Gioconda, secondo Glori, doveva essere il ritratto nuziale della primogenita del Moro, non consegnato a causa della sua morte al padre-committente, e poi «trasfigurato» nel tempo. 

«In questi ultimi anni si è diffusa l’idea di una esecuzione tarda di quel quadro, tra il 1513 e il 1516 circa. Ma, a parte le similitudini sopra evidenziate, è noto che Leonardo nel 1517 subiva gli effetti di una paralisi, per cui Antonio de Beatis scrisse che “per essergli venuta certa paralisi su la destra non ci si può più aspettare cosa buona”, aggiungendo che poteva solo “fare disegni ed insegnare ad altri”. È vero che cita la mano destra, ma il giudizio è quello di una sua invalidità diffusa per cui doveva ricorrere ai suoi allievi, rendendo inverosimile l’esecuzione del capolavoro negli ultimi anni». 

Il mito di massa

Nessuna conclusione certa, ovviamente, ma Carla Glori lo chiarisce: «I risultati finora mi confermano l’identità di Bianca Giovanna Sforza ritratta sullo sfondo di Bobbio». 

Quel quadro del resto ha attraversato epoche e ciascuna epoca lo ha reinterpretato e anche travisato. La trasformazione dell’opera nel «mito di massa» avvenne con il furto di Vincenzo Peruggia nel 1911, che la proiettò sulle prime pagine di tutti i giornali. 

«In ultima analisi, è nella società dell’immagine e dello spettacolo che quell’opera si è trasformata in un feticcio: una parola che comprende sia l’idea di “oggetto magico” e di idolo, capace di attrarre con una forza invisibile, sia quella di “brand simbolico universale” assimilato alla merce. La nascita della rete e del digitale hanno amplificato a livello planetario, nel bene e nel male, la trasformazione della musa di Leonardo in un oggetto di culto massmediatico».

È difficile prevedere se la Gioconda riuscirà infine a sottrarsi al destino della “dissoluzione dell’aura” teorizzato da Benjamin, ma, per le sue peculiarità, Carla Glori crede che sia destinata più di ogni altra opera d’arte a sottrarsi a quello della riproducibilità tecnica. Nessuna macchina potrà mai approssimarsi all’originale.

La nuova verità sulla Gioconda di Leonardo: ecco qual è il paesaggio ritratto sullo sfondo. Orlando Sacchelli su L'Arno-Il Giornale il 4 giugno 2022.

Un ingegnere francese ha presentato uno studio che identificherebbe il paesaggio ritratto da Leonardo da Vinci nello sfondo del suo più celebre dipinto, la Gioconda. Si tratterebbe di Caprona, in provincia di Pisa, luogo che vide anche Dante Alighieri partecipare ad un assedio che vide poi la vittoria dei fiorentini sui pisani.

È affascinante la tesi formulata da Pascal Cotte, ricercatore scientifico e direttore della Lumiere Technology, che collabora con l’Università di Bologna, Chiara Matteucci, del dipartimento dei beni culturali dell’Università di Bologna, Sylvain Thieurmel, esperto scientifico e ricercatore specializzato nella pittura di Leonardo da Vinci e Nicola Baronti presidente dell’associazione Vinci nel cuore

Ha presentato l’esito delle sue ricerche a Vinci, durante la conferenza “La Gioconda svelata dalla scienza. Una nuova scoperta mondiale”. Il paesaggio sarebbe stato “riconosciuto” grazie alla digitalizzazione del dipinto, richiesta del Louvre di Parigi. Ma ci sarebbero anche altri elementi frutto di uno studio più approfondito.

“Studiare Leonardo è stimolante, ci offre sempre uno spunto in più di ricerca – ha detto Giuseppe Torchia, sindaco di Vinci -. Ed è anche l’occasione per scoprire aspetti nuovi della vita del genio rinascimentale. Ed è bellissimo vedere come arte e scienza, che sembrano due mondi diversi, siano in realtà collegate tra di loro. Come Comune la nostra volontà è esaltare Leonardo a 360 gradi, andando ad analizzare ogni singolo dettaglio di una figura che ha cambiato il mondo”. La tecnica digitale utilizzata ha permesso di analizzare gli strati nascosti sotto la superficie del dipinto, con immagini multispettrali in altissima risoluzione, ricostruendo l’esatta cronologia della creazione dei vari strati dipinti dall’artista.

Leonardo sarebbe intervenuto sulla tela in tre momenti diversi. La prima nel 1501, con il primo soggetto che non sarebbe stato una donna (la Monna Lisa), ma la Madonna, come si evincerebbe da alcuni dettagli riconducibili a figure sacre. La seconda modifica, invece, risalirebbe al 1503, quando Leonardo avrebbe in effetti iniziato a ritrarre Lisa Gherardini, la sua musa ispiratrice. L’ultimo intervento sarebbe arrivato tra il 1513 e il 1515, stavolta per venire incontro alle richieste del committente del dipinto, Giuliano de’ Medici, che voleva raffigurare la madre di suo figlio, Ippolito, rimasto orfano. Leonardo aveva molti lavori a cui stare dietro e, non avendo molto tempo, riprese in mano il ritratto fatto alla Gherardini. Ma dove sarebbero le tracce del paesaggio di Caprona e dintorni, con la famosa torre (torretta) e la fortezza della Verruca? Nel secondo intervento, quello datato 1503, Leonardo aveva in mano le carte e i disegni per la deviazione dell’Arno. Leonardo si sarebbe recato nella zona di Caprona accompagnato dal suo giovane collaboratore, Gian Giacomo Caprotti (detto Salai). Il genio di Vinci stava studiando, per i fiorentini, il modo con cui deviare il corso del fiume al fine di piegare, una volta per tutte, la città nemica di Pisa. Progetto che poi non fu mai messo in pratica. I profili dei monti e alcune strutture ritratte nello sfondo del quadro descriverebbero proprio quella zona, secondo le analisi scientifiche effettuate. Tracce poi coperte da altri strati nella successiva modifica fatta dall’artista.

Per risalire al luogo esatto tratteggiato nello sfondo della Gioconda sarebbe stato determinante anche lo studio delle carte geografiche disegnate proprio da Leonardo, oltre a due schizzi con la sanguigna. Il passaggio raffigurato da Leonardo, quindi, sarebbe proprio quello dei Monti pisani, tra i comuni di Vicopisano, Cascina e Calci.

Un altro luogo vicino a Caprona, una grotta che si trova a Uliveto Terme, ai piedi del monte Verruca, assomiglierebbe ad una roccia ritratta, sempre da Leonardo, nel dipinto “Vergine delle Rocce“, custodito sempre al Louvre. Del caso si era occupato, alcune settimane fa, un reportage della tv francese Tf1 (guarda).

Orlando Sacchelli su L'Arno-Il Giornale.

“Lo sfondo della Gioconda? I monti pisani”. Presentati ieri al centro Leo Lev di Vinci i risultati dell’analisi condotta sul più celebre dipinto di Leonardo con il sistema Lam. Francesca Cavini su lanazione.it il 4 giugno 2022.

Una scoperta destinata a sollevare il velo di mistero che spesso circonda i paesaggi sfondo dei celebri dipinti di Leonardo. La conferenza di ieri, “La Gioconda svelata dalla scienza. Una nuova scoperta mondiale”, al Centro espositivo Leo-Lev ha visto riuniti l’ingegnere Pascal Cotte, ricercatore scientifico, direttore della Lumiere Technology, collaboratore dell’Università di Bologna, la dottoressa Chiara Matteucci, del dipartimento dei beni culturali dell’Università di Bologna, Sylvain Thieurmel, esperto scientifico e ricercatore specializzato nella pittura di Leonardo da Vinci e Nicola Baronti del Comitato FAI “Noi per San Pantaleo“ nonché presidente dell’associazione Vinci nel cuore. Ospite a sorpresa, il governatore della Toscana, Eugenio Giani, che si è trattenuto per ascoltare i dettagli della rivelazione annunciata in apertura: quale paesaggio è ritratto nello sfondo della Gioconda. Nell’introdurre gli ospiti, la responsabile di Leo Lev ha ricordato come "il nostro centro è e rimane un luogo aperto per il confronto e la discussione per la valorizzazione e promozione di Leonardo da Vinci, nel segno dell’indimenticato Carlo Pedretti, che è nel nostro pensiero sempre e nelle nostre azioni".

Pascal Cotte ha quindi illustrato come ha fatto a ricostruire che il paesaggio dietro la Monna Lisa è quello dei monti pisani e della torre di Caprona. L’analisi delle carte geografiche disegnate da Leonardo e due schizzi con la sanguigna, pubblicati da Carlo Pedretti, hanno permesso di confermare questa identificazione paesaggistica e di ripercorrere il passaggio di Leonardo sui monti pisani, da Vicopisano, Cascina, Calci. Sylvain Thieurmel ha illustrato, quindi, tutte le fasi della sua verifica sul campo fatta in Toscana partendo proprio dai risultati delle analisi eseguite da Pascal Cotte utilizzando la tecnica scientifica Layer Amplification Method. Un sistema di indagine grazie al quale sono stati scandagliati in maniera non invasiva gli strati nascosti sotto la superficie della Gioconda, scattando anche immagini multispettrali in alta risoluzione, e ricostruendo l’esatta cronologia della creazione dei vari strati dipinti. E’ da questo che si è risaliti all’identificazione dei monti pisani, identificazione verificata , appunto, da Thieurmel. Che ha ipotizzato come Leonardo sia stato accompagnato dal suo allievo e amante Salai alla torre di Caprona e alla Verruca nel 1503 quando studiava la deviazione del corso dell’Arno per conto dei fiorentini in guerra contro i pisani. La ricerca ha poi portato Thiermeul alla scoperta anche di una grotta situata a Uliveto Terme, ai piedi del monte Verruca, dove c’è una roccia che somiglia al paesaggio che Leonardo dipinse nella “Vergine delle Rocce“ che si trova al Louvre. Ma questa è un’altra scoperta. Francesca Cavini

La Gioconda: storia, descrizione e significato del dipinto di Leonardo. A cura di Sonia Cappellini su studenti.it.

Frase celebre

«Et in questo di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti» Giorgio Vasari

1. La Gioconda di Leonardo

Un dipinto ricco di misteri. La Gioconda è un dipinto a olio su tavola eseguito da Leonardo da Vinci intorno al 1503. Misura 77 cm per 53 ed è oggi conservato al Musée du Louvre.

Il mistero della Gioconda sull’identità della donna ritratta nel dipinto è in realtà un infondato luogo comune, alimentato dalla recente letteratura su Leonardo, che vede segreti nascosti praticamente ogni attività del maestro toscano. La soluzione è in realtà piuttosto semplice.     

Committente e soggetto. Giorgio Vasari espone con chiarezza e sicurezza che Francesco del Giocondo, ricco mercante fiorentino, commissiona a Leonardo il ritratto di sua moglie Lisa Gherardini. Non illustra nei dettagli il motivo per cui l’opera non arriverà mai nella casa del suo committente ma lo lascia intuire spiegando che il pittore ci lavora per ben quattro anni e non lo porta a compimento.

L’identificazione è confermata anche da una annotazione del cancelliere Agostino Vespucci risalente al mese di ottobre del 1503: «Come il pittore Apelle, così fa Leonardo da Vinci in tutti i suoi dipinti, ad esempio per la testa di Lisa del Giocondo e di Anna, la madre della Vergine. Vedremo cosa ha intenzione di fare per quanto riguarda la grande sala del Consiglio, di cui ha appena siglato un accordo con il gonfaloniere».  

Leonardo lavora all'opera per anni. Il quadro resta quindi al suo creatore e diventa per lui un esercizio di stile, tanto che continuerà a lavorarci e ad apportarvi modifiche per almeno dieci anni. Lo seguirà in tutti i suoi viaggi e sarà con lui fino alla fine, nella sua ultima dimora ad Amboise, dove, con ogni probabilità il re Francesco I lo acquista dall’allievo e erede Gian Giacomo Caprotti.  

Curiosità

Se dividi esattamente a metà il volto della Gioconda otterrai due differenti espressioni. A sinistra vedrai una donna più matura e seria, a destra una donna più giovane e sorridente.

2. Analisi della Gioconda

La Gioconda ritrae a metà figura una giovane donna con lunghi capelli scuri. È inquadrata di tre quarti, il busto è rivolto alla sua destra, il volto verso l’osservatore. Le mani sono incrociate in primo piano e con le braccia si appoggia a quello che sembra il bracciolo di una sedia. Indossa un sottile abito scuro che si apre sul petto in un’ampia scollatura. Il capo è coperto da un velo trasparente e delicatissimo che ricade sulle spalle in un drappeggio. I capelli sono sciolti e pettinati con una scriminatura centrale, i riccioli delicati ricadono sul collo e sulle spalle.  

Il volto. Gli occhi grandi e profondi ricambiano lo sguardo dello spettatore con una espressione dolce e serena. Le labbra accennano un sorriso.

Non indossa alcun gioiello, sulle vesti non appare nessun ricamo prezioso. La semplicità con cui si presenta esalta la sua bellezza naturale a cui, evidentemente, non necessita alcun orpello. 

Lo sfondo a sinistra. Alle sue spalle è visibile la linea retta di una balaustra. Il balcone si affaccia su un paesaggio limpido e lontanissimo.

Sulla sinistra del quadro si scorge una strada che si snoda attraverso una valle, fiancheggiata da ripide montagne, quindi uno specchio d’acqua, probabilmente un lago a giudicare dall’andamento dei riflessi, quindi ancora formazioni montuose sullo sfondo. 

Lo sfondo sul lato destro. Sul lato destro della Gioconda ancora una linea serpentinata descrive il corso di un fiume impetuoso, sono visibili rapide e cascate e un ponte su tre arcate. Il corso del fiume si perde in un altopiano aldilà del quale si scorge un altro lago, posto ad una quota più elevata rispetto al primo. Quindi ancora montagne che in modo graduale si innalzano fino a raggiungere altissimi ghiacciai.

La linea dell’orizzonte taglia la figura all’incirca all’altezza della fronte, che risulta quindi essere quasi del tutto immersa nel paesaggio.    

L'attenzione ai dettagli. Nell’esecuzione di questo ritratto Leonardo ha posto un’attenzione maniacale nello studio di ogni dettaglio: nella trasparenza del velo come nella terra rossa che ricopre la strada; nell’incarnato delle mani e del collo come nei riflessi dell’acqua; nello studio delle ombre sul volto come nella resa atmosferica. Lo studio dell’anatomia e dell’espressione umana si sposa perfettamente con l’indagine paesaggistica e geologica.   

L'illusione di movimento. Alla perfezione tecnica si unisce poi quell’elemento di moto che costituisce la vera e propria magia del dipinto: la figura è stante ma non immobile. La morbidezza delle carni lascia percepire il leggero movimento del respiro. Il volto, non in asse con le spalle, lascia intendere una delicata rotazione della testa. Una rotazione che ancora non si è conclusa, come suggerisce lo sguardo che compie un passo ulteriore rispetto alle spalle e al viso. Il sorriso e l’ovale dai contorni sfumati suggeriscono che le labbra e le guance stanno delicatamente cambiando espressione. Il moto è anche nella natura che la avvolge e accoglie: le rocce sono ora aspre ora erose, l’apparente immobilità dei ghiacciai si scioglie nelle acque tranquille dei laghi e in quelle rapide del fiume.

È la vita stessa Il miracolo che si rivela in questo dipinto.   

3. La tecnica di Leonardo da Vinci

3.1. Il contrapposto

Il miracolo della vita o della natura naturans, si esprime nell’opera di Leonardo attraverso sofisticate elaborazioni tecniche.

Il contrapposto, introdotto da Leonardo e Michelangelo, e largamente usato da tutti i pittori del ‘500, consiste nella rotazione in direzioni opposte delle gambe, del busto e della testa. Questa torsione, che può essere più o meno evidente, infonde movimento alla figura seduta e consente al pittore di ricavare dal corpo umano la massima potenza espressiva. 

3.2. Lo sfumato

Uso di contorni non nettiLo sfumato, di cui si fa largo uso nella Gioconda, consiste in un passaggio soffuso e graduale dalle superfici che descrivono i volti e gli incarnati a ciò che li circonda. Nel suo Trattato della Pittura Leonardo raccomanda di non tracciare il viso con contorni netti, perché questo li renderebbe rigidi e spigolosi. Nel viso di Monna Lisa, l’impossibilità di individuare una precisa linea di contorno delle gote, del mento e delle labbra fa sì che l’espressione appaia cangiante, in divenire. 

3.3. La prospettiva aerea 

Luce e colore contribuiscono alla prospettiva. Per i pittori del ‘400 la prospettiva è una rigida questione matematica. Si fissa un punto di fuga coerente con il punto di vista e si fanno convergere verso questo punto tutte le linee che nella visione geometrica della realtà sono tra loro parallele. Questo determina il rimpicciolimento proporzionale degli oggetti, dei corpi, delle architetture e dà all’occhio l’illusione della profondità. Leonardo, da investigatore qual è della natura, non può accontentarsi di questa visione tutta teorica. Il senso della distanza e della lontananza passano anche attraverso il colore e la luce. L’aria, che ha una sua consistenza, frapponendosi tra l’occhio e l’oggetto sbiadisce il primo e aumenta il tono della seconda. Ecco dunque che le rocce scure di cui si compongono le montagne in primo piano diventano in lontananza sempre più chiare arrivando quasi a confondersi con il cielo.  

Curiosità

Nel 1911 Vincenzo Peruggia, artigiano italiano impiegato al Louvre, nascondendosi di notte in uno stanzino del museo, ruba il celebre dipinto, nella convinzione (peraltro ancora molto diffusa) che esso sia stato indebitamente sottratto da Napoleone durante la campagna d’Italia. Del reato vengono sospettati persino Picasso e Apollinaire che, di concerto con i futuristi, inneggiano in quegli anni alla distruzione delle opere del passato, dei musei e delle biblioteche. Il ladro riesce non solo a sottrarre il dipinto con estrema facilità ma anche a portarlo in Italia senza destare il minimo sospetto e a tenerlo appeso nella sua cucina per oltre due anni. L’opera viene recuperata nel 1913 quando il Peruggia cerca di venderla ad un antiquario fiorentino. Arrestato e processato sconterà solo pochi mesi di carcere perché riconosciuto mentalmente instabile. La Gioconda, ritenuta persa per sempre, vedrà invece crescere universalmente la sua fama.

4Imitazioni e citazioni

La fortuna di un’opera si misura anche dalle imitazioni e dalle parodie che può vantare. Anche in questo senso La Gioconda è senz’altro il dipinto dei record.

L'omaggio di Raffaello a Leonardo. Raffaello si trova a Firenze all’inizio del ‘500, ha la fortuna di vedere all’opera Leonardo nella sala del Consiglio a Palazzo Vecchio e senz’altro di ammirare anche i dipinti di committenza privata. È alla Gioconda che si ispira quando nel 1506 ritrae Maddalena Strozzi.

La piccola e raffinatissima tela raffigura la nobildonna nella stessa posizione di Monna Lisa. Si trova anch’essa su una terrazza, è seduta e appoggia il braccio sinistro al bracciolo della sedia, le mani appoggiate l’una sull’altra. Stessa posizione del busto e della testa. A differenza di Leonardo, il pittore urbinate sceglie di porre la figura in posizione preminente rispetto allo sfondo, la linea dell’orizzonte si trova all’altezza delle spalle e tutta la testa spicca sullo sfondo azzurro del cielo, il paesaggio inoltre è collinare e non impervio e tormentato come quello descritto sopra. La donna poi, anch’essa nobile e moglie di un ricco mercante ma decisamente meno avvenente di Lisa, indossa un abito preziosissimo e si adorna di numerosi gioielli.

Nella concezione rinascimentale l’imitazione di un maestro più anziano non è considerata un plagio ma costituisce un atto di omaggio.    

La Gioconda coi baffi. Tra le moderne dissacrazioni la più celebre è senz’altro quella di Marcel Duchamp, che nel 1916, su una riproduzione fotografica del dipinto aggiunge un paio di baffi e l’irriverente sigla L. H. O. O. Q.

I dadaisti contestano la visione elitaria dell’arte e cercano, con operazioni ironiche e giocose, di ricondurre le opere, ammantate di sacralità, nel flusso caotico della vita.

Lungi dal costituire un problema per la fama del dipinto, l’operazione di Duchamp lo consacra invece come icona moderna.  

"L. H. O. O. Q", Marcel Duchamp, Private collection — Fonte: Ansa

5. Concetti chiave

Soggetto e creazione dell'opera

La Gioconda è il ritratto di Lisa Gherardini, moglie del ricco mercante fiorentino Francesco del Giocondo, che commissionò l’opera a Leonardo da Vinci intorno al 1503. Il dipinto non arrivò mai a casa del committente; Leonardo ci lavorò per anni, perfezionandolo e facendolo diventare un esercizio di stile.

Descrizione del quadro

Nel quadro, un olio su tavola, si vede la figura di una giovane donna in abito scuro, ritratta a metà figura, con lunghi capelli scuri coperti da un velo trasparente che ricade sulle spalle.

La Mona Lisa è inquadrata di tre quarti, col busto leggermente girato verso la sua destra. Le mani sono incrociate in primo piano e con le braccia si appoggia a quello che sembra il bracciolo di una sedia.

Gli occhi osservano lo spettatore con un’espressione serena e le labbra accennano un sorriso.

Alle sue spalle si vede la linea orizzontale di una balaustra mentre sullo sfondo a sinistra si vedono delle montagne frastagliate e una strada tortuosa. Sul lato destro, invece, s'intravede un fiume con un ponte a tre arcate, un lago e altre montagne lontane.

La tecnica

In questo dipinto Leonardo utilizza diverse tecniche:

Il contrapposto: consiste nella rotazione in direzioni opposte delle gambe, del busto e della testa. Questa torsione infonde movimento alla figura seduta e consente al pittore di ricavare dal corpo umano la massima potenza espressiva.

Lo sfumato: consiste in un passaggio soffuso e graduale dalle superfici che descrivono i volti e gli incarnati a ciò che li circonda, senza l'utilizzo di contorni netti.

La prospettiva aerea: per creare la prospettiva Leonardo non si limita ad utilizzare le regole geometriche ma utilizza anche il colore e la luce, che contribuiscono al senso di lontananza.

Citazioni e imitazioni

La Gioconda è un dipinto che ha dato spunto ad innumerevoli citazioni e imitazioni. Tra le più importanti troviamo:

Il "Ritratto di Maddalena Strozzi" eseguito da Raffaello nel 1506.

"L. H. O. O. Q." conosciuta anche come "La Gioconda con i baffi", ready made eseguito dal dadaista Marcel Duchamp nel 1919.

Domande & Risposte

Chi raffigura la Gioconda?

La Gioconda è il ritratto di Lisa Gherardini, moglie di un ricco mercante fiorentino (Francesco del Giocondo) che commissionò l’opera a Leonardo da Vinci intorno al 1503.

Perché la Gioconda si chiama così?

Il nome Gioconda proviene dal nome di Francesco del Giocondo, il ricco mercante che commissionò a Leonardo il ritratto di sua moglie.

Da chi è stata rubata, in passato, la Gioconda?

Vincenzo Peruggia.

Dove si trova la Gioconda di Leonardo?

Museo del Louvre. 

Tutti i guai della Gioconda, che nel 1913 arrivò a Torino in una preziosa valigetta di legno. Rosalba Graglia su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.

Il dipinto-ossessione di Leonardo, colpito qualche giorno fa da una torta al Louvre, fece tappa alla stazione di Porta Nuova: proveniva da Milano e ripartì verso la Francia. 

Povera Monna Lisa, che si è presa una torta in faccia come in una comica di Stanlio & Ollio, per «salvare il pianeta». Per fortuna che a salvare lei ha provveduto una teca d’avanguardia, realizzata da una vetreria italiana, Goppion di Milano . E sì che quel dipinto-ossessione di Leonardo, che continuò a ritoccarlo per anni, presunto ritratto di Lisa Gherardini, commissionato dal marito Francesco del Giocondo e mai ultimato ne ha già avuti un bel po’ di guai nel corso del tempo. Il più clamoroso l’ha addirittura portata, anche se per poco, a Torino.

Siamo a Parigi, nel 1911. L’imbianchino Vincenzo Peruggia, di Dumenza, vicino a Luino lavora al Louvre. E decide di rubare la Gioconda. Che volesse farci un po’ di soldi o fosse mosso dallo spirito patriottico di restituire l’opera all’Italia, tenta l’impossibile e ci riesce. Con naturalezza degna di un audace colpo da solito ignoto. Semplicemente si chiude in uno sgabuzzino del museo di notte e al mattino esce tranquillamente con il quadro sotto il paltò. Se lo tiene per mesi sotto il letto della sua pensione a Parigi (oggi trasformata ça va sans dire in Hotel Da Vinci), lo porta a casa a Luino, poi maldestramente cerca di venderlo a Firenze all’antiquario Alfredo Geri. Appuntamento nella stanza n. 20 dell’Hotel Tripoli (poi, va da sé, Hotel Gioconda), Geri si presenta con il direttore degli Uffizi: il quadro viene così recuperato, Paruggia arrestato. Al processo gioca la carta dell’amor di patria e del capolavoro rubato, e se la cava con soli 7 mesi e 15 giorni di prigione.

La storia del capolavoro rubato è una delle fake news più dure a morire. (Ri)sfatiamo la leggenda una volta per tutte: è stato Leonardo a portare il dipinto in Francia, dove fu venduto al re Francesco I, finì al castello reale di Fontainebleau, poi Luigi XIV lo spostò a Versailles e da qui finì al Louvre. Non è stato Napoleone a portare la Gioconda in Francia, insomma: anche se l’imperatore per qualche tempo se la tenne in camera da letto, per poi farla rientrare al museo. Sarebbe ritornata poi in segreto nella Valle delle Loira (a Chambord e ad Amboise) per sfuggire ai nazisti (vicenda raccontata dal film The Monument Men) e riportata al Louvre nel 1945. Da dove si allontanò solo un paio di volte: nel 1962 per una tournée negli Stati Uniti, nel ’74 per essere esposta a Tokyo e Mosca.

E Torino? La tappa forzata di Torino, avvolta da un giusto alone di mistero, risale al 30 dicembre 1913. Quando il quadro viene ritrovato, viene esposto a Firenze, a Roma e a Milano. Ed è su un treno proveniente da Milano che arriva a Porta Nuova, in una preziosa valigetta di legno con maniglia dorata scortata da Ettore Modigliani, direttore della Pinacoteca di Brera, e Paul Leprieur, del Museo del Louvre. I due scendono e percorrono pochi passi. Un altro treno con destinazione Modane è pronto a riportare Monna Lisa a Parigi. Trasbordo alla presenza di pochi giornalisti, i funzionari della questura , e agenti in borghese. Metti mai dovesse apparire dall’ombra un qualche Diabolik pronto a riprovarci.

La Gioconda di Roma, svelato il mistero della tela nascosta (su un termosifone) a Montecitorio. Carlo Alberto Bucci La Repubblica il 19 Febbraio 2022.  

E ora la tela sarà visitabile al pubblico nel mese di marzo nell'ambito degli appuntamenti di "Camere aperte". 

Era appesa nella sala del camino quando si trovava nel palazzo degli eredi di Cassiano dal Pozzo. Ed era finita sopra al termosifone nella stanza del questore della Camera quando era occupata dal pentastellato Federico D'Incà, ora ministro dei Rapporti col Parlamento.

Ci ha pensato però il suo erede M5S Francesco D'Uva a trovare una sistemazione consona per la copia (una delle 61 note) della Gioconda di Leonardo al Louvre: togliendola dal calorifero del suo ufficio e concedendo alla Gioconda Torlonia della Galleria nazionale un deposito dorato: ossia la Sala gialla (ora Aldo Moro) di Montecitorio.

Roma scopre di avere La Gioconda, era nascosta in un deposito a Montecitorio: "Potrebbe essere di Leonardo". Carlo Alberto Bucci La Repubblica il 17 Febbraio 2022.   

Dopo le analisi è stato riscontrato che il dipinto è del ‘500, proviene dalla collezione Torlonia, e con una radiografia ai raggi infrarossi è stato scoperto che alcune correzioni sono identiche alla Gioconda del Louvre.

Anche Roma, come Parigi, ha una Gioconda. Simile, se non identica, a quella di Leonardo al Louvre. E si trova in deposito a Montecitorio, concessa nel 1925 dalla Galleria nazionale d'arte antica di palazzo Barberini.

"Si tratta di una copia del quadro del Louvre realizzata dalla bottega di Leonardo, forse addirittura con la sua stessa collaborazione", ha detto il questore della Camera Francesco D'Uva che si è privato della tela (ma il dipinto era su tavola e nel '700 è stato staccato dal suo supporto originario) per esporlo nella sala Aldo Moro di Montecitorio.

Pierluigi Panza per corriere.it il 18 febbraio 2022.

Una delle molte copie della Monna Lisa di Leonardo da Vinci, conservata dal 1927 alla Camera dei Deputati in deposito dalle Gallerie nazionali di arte antica, è al centro di un dibattito attributivo. Si tratta della cosiddetta Gioconda Torlonia, una copia non si sa quando esattamente realizzata (probabilmente nel XVI secolo), trasportata da tavola su tela nel Settecento e un tempo custodita in Francia come probabile parte della collezione del cardinale Fesch, lo zio di Napoleone. 

La troviamo inventariata dal 1814 nella collezione Torlonia di Roma e arriva alla Galleria nazionale d’arte antica nel 1892. Da qui, nel 1927, viene data in custodia a Montecitorio, dove non è certo l’unica copia di celeberrimi dipinti antichi. È alta 70 centimetri per 50 (dimensioni ridotte rispetto alla Gioconda del Louvre) e, un tempo, fu come al solito, attribuita al pittore leonardesco Bernardino Luini.

Se ne stava tranquilla nella stanza del questore di Montecitorio finché il questore Francesco D’Uva (M5S), che invita a sostenerne l’autenticità leonardesca, l’ha prima prestata e poi spostata in sala Aldo Moro per renderla più visibile. «Si tratta di una copia realizzata nella bottega di Leonardo, forse addirittura con la sua diretta collaborazione», va spiegando il questore.

La sua considerazione nasce, probabilmente, dalla riflessione di Antonio e Maria Forcellino che, nel catalogo della mostra romana del 2019 su Leonardo a Roma, influenza ed eredità, hanno speso nove pagine a raccontare la qualità della Gioconda Torlonia. Ma, al solito, non ci sono assolutamente documenti a ricostruirne le origini del dipinto (Leonardo muore nel 1519 ad Amboise, in Francia, portando la vera Gioconda) e i pareri di molti esperti sono assai scettici. 

«È un modesto dipinto di arredamento» afferma, senza appello, il critico d’arte Vittorio Sgarbi. «Non l’ombra, ma l’incubo di Leonardo», scrive il deputato in una nota. «Tutto quello che meritava di essere restituito ai musei — spiega — lo è stato nei decenni scorsi attraverso una commissione che io ho guidato». Anche Rossella Vodret, ex soprintendente di Roma, schedando il dipinto nel 2005, l’aveva definito «di qualità non molto alta». E Alessandro Cosma, nella scheda apparsa nello stesso catalogo del 2019 con il testo entusiasta dei due Forcellino, scrive che la copia, una delle molte esistenti, «riprende in maniera precisa molti dettagli» dell’originale.

Più possibilista Claudio Strinati, che definisce «plausibile» che possa essere un’opera della bottega. Ma «a parer mio — chiosa — è un dipinto di media qualità che non sembra denotare l’impronta di una mano eccelsa di Leonardo». 

La Gioconda di Montecitorio. All’onorevole piace «vanniare». Un modesto dipinto annunciato come un capolavoro ritrovato di Leonardo. VITTORIO SGARBI su Il Quotidiano del Sud il 20 Febbraio 2022.

“LEI mi piace quando vannia”, mi dice una signora incontrata sulla strada di Catania. È un concetto che conosco, ma mi piace sentirlo dire in stretta lingua siciliana. E indica lo sfogo liberatorio di chi è felice che un altro dica quello che lui vorrebbe dire. Protestando, nel suo cuore segreto, contro il mondo, contro le ingiustizie, ma costretto dalla prudenza a trattenersi per non accrescere il proprio danno. Così la mia reazione assume il senso di una delega che è propriamente quella che si dovrebbe attribuire a un “deputato” il quale, a sua volta, per opportunismo o per non farsi danni, si contiene.

Dà soddisfazione incontrare qualcuno che, a suo rischio e pericolo, ti rappresenta. Ma non è propriamente nella mia indole, che sarebbe socievole e persino mite se non dovessi misurarmi con la quotidiana e diffusa imbecillità, alla quale non mi sembra giusto rimediare con il distacco e con l’indifferenza. Io, la mattina, mi alzo contento. Poi sono costretto a soffrire per il disordine del mondo. Da questa sofferenza, o contrarietà, deriva il mio comportamento irruente, e talvolta iroso. Forse una difesa irrazionale della ragione. E se il destinatario del mio “vanniare” non migliora o non si corregge, e quindi la mia reazione violenta non è una soluzione utile, quelli che assistono, però, si sentono sollevati, vengono presi dall’euforia di quella signora catanese.

È quindi utile agli spettatori che fanno il tifo la mia incazzatura (traduzione volgare dello stimolo a “vanniare”) : un effetto consolatorio intrinsecamente democratico, secondo il precetto: “colpirne uno per punirne cento”. Ed è un doppio risultato: perché, in tal modo, i puniti, illesi, invece di soffrire, godono, e cercheranno di risparmiarsi di essere colpiti anche loro. Alla fine della giornata mi addormento tranquillo.

Il caso di questi giorni, su cui sono stato tormentato, e costretto a reagire, per l’incompetenza, la vanità, e il vaniloquio di chi pensa insensatamente che lo Stato ignori o trascuri i suoi tesori artistici, è quello di un modestissimo dipinto che, in deposito da quasi un secolo alla Camera dei Deputati, è stato annunciato come un capolavoro ritrovato di Leonardo.

Con bufale come queste: “Dopo le analisi è stato riscontrato che il dipinto è del ‘500, proviene dalla collezione Torlonia, e con una radiografia ai raggi infrarossi è stato scoperto che alcune correzioni sono identiche alla Gioconda del Louvre”. Non l’apparizione e neppure l’ombra, ma l’incubo di Leonardo, come per chiunque ne abbia una copia.

In realtà una modesta tela esposta in un palazzo pubblico, nell’Ufficio di uno dei Questori di Montecitorio, è stata fatta passare, con la complicità di giornali e televisioni, come una seconda Gioconda di Leonardo, che, per inciso, ha fatto fatica (ci ha messo 5 anni) a dipingerne una.

L’eccitazione di menti ottenebrate ha evocato con grande suggestione magazzini, depositi, polvere, evitando l’unica parola pertinente: arredamento! E cioè quello che solitamente, prelevandolo dai depositi di un museo (in questo caso dalla Galleria Nazionale di Roma ), viene chiesto, a partire dalla Camera e dal Senato, e poi da ambasciate e prefetture, per arredare sale aperte al pubblico, come da anni è Montecitorio. Tutto quello che meritava di essere restituito ai musei lo è stato nei decenni scorsi attraverso una commissione che io ho guidato.

Il dipinto più notevole rimasto alla Camera dei deputati è un “Ratto d’Europa” di Giandomenico Ferretti, di troppo grandi dimensioni, che non è stato restituito ai musei fiorentini per la difficoltà di farlo uscire.

La copia di Leonardo, dipinta almeno 70 anni dopo la morte del pittore, non ha alcun valore artistico e indica soltanto la fortuna dell’opera, come le innumerevoli copie di grandi maestri. Tanto rumore per nulla. Ma bisogna farne altro, per perdere tempo: “Da quando è emersa la possibilità che la ‘Gioconda di Montecitorio’ possa essere la ‘sorella’ di quella conservata al Louvre di Parigi, anche l’amministrazione della Camera ha preso l’iniziativa, tanto che l’attuale questore Francesco D’Uva ha annunciato che presto sarà organizzato un grande convegno di studio proprio su questo dipinto”.

Per me, sarà un’altra occasione di “vanniare”. Come resistere?

Da blitzquotidiano.it il 27 aprile 2022.

Dan Brown l’ha azzeccata quando ha scritto che appartiene a una donna il volto di San Giovanni ritratto nella Ultima cena di Leonardo da Vinci. Il volto, sostiene Carla Glori, critica d’arte, è quello di Bianca Giovanna Sforza e è lo stesso della Gioconda. 

Il mistero della Gioconda di Leonardo da Vinci sarebbe stato definitivamente svelato dalla studiosa italiana e con quello altri interrogativi che hanno agitato per secolo critici e storici d’arte. Forse. 

La Gioconda sarebbe Bianca Giovanna Sforza, che ha fatto da modella a Leonardo anche per il volto del San Giovanni dell’Ultima Cena. E il ponte che Leonardo ha riprodotto nello sfondo della Gioconda, sarebbe il Ponte del Diavolo di Bobbio, in provincia di Piacenza, a pochi chilometri dal paese di Pierluigi Bersani, dal quale lo dividono non solo un po’ di strada ma anche il senso di superiorità dei bobbiesi, non solo per questioni di altitudine ma anche di intelletto.

Bianca Sforza morì il 23 novembre del 1496, a 14 anni di età: era stata sposata per pochi mesi con Gian Galeazzo Sanseverino, signore di Bobbio. Giocondo fu colui che indicò a San Colombano la location del possibile monastero che poi San Colombano fondò a Bobbio. Il suo nome sarebbe anche legato alle origini del castello che Ludovico il Moro donò agli sposi. 

Quando Leonardo iniziò la Gioconda, non era ancora sposata (la Gioconda è senza anelli) e le era morto da poco un fratello o fratellastro e questo, nella ricostruzione di Carla Glori, giustificherebbe il velo e l’abito neri e l’assenza di ogni monile.

Ci sono elementi attendibili e scientifici a sostegno delle tesi di Carla Glori sull’identità Bianca Giovanna Sforza – Gioconda – San Giovanni. Poi Dan Brown forse è andato per la tangente verso le ardimentose teorie di Gesù Cristo sposato alla Maddalena con prole a cascata. 

C’è poi un’altra scoperta fatta da Carla Glori, meno eccitante ma più intrigante: il ponte che fa da sfondo al ritratto della Gioconda. Sarebbe il Ponte del Diavolo di Bobbio (Pc) e questo sembra certo; il mistero però è perché, di tutti i ponti che Leonardo deve avere visto nella sua vita, proprio quello di Bobbio ha scelto. 

Ha riportato il sito Insideart che secondo Carla Glori il volto della Gioconda “sarebbe” altamente compatibile” con quello del San Giovanni dell’Ultima Cena, [secondo i suoi studi] sul celebre dipinto, di cui già aveva identificato la modella in Bianca Sforza, ritratta sullo sfondo di Bobbio. A conforto della sua tesi, Glori cita la testimonianza diAntonio de Beatis, datata 1517, in cui si spiega che i personaggi dell”Ultima cena’ “son de naturale retracti de piu’ persone de la corte e de Milanesi di quel tempo, di vera statura”.

Oltre al confronto “fatto al computer tra le proporzioni dei volti della Gioconda e del San Giovanni (raddrizzato per evidenziare la somiglianza dei lineamenti nei loro punti),  secondo l’agenzia di stampa Ansa, conforta la tesi di Carla Glori “l’intreccio biografico tra la storia personale della giovane Sforza e quella di Leonardo nel suo primo soggiorno milanese. Leonardo conosceva bene la giovane primogenita del Duca di Milano Ludovico il Moro, morta misteriosamente il 23 novembre 1496, poco dopo il matrimonio con Galeazzo Sanseverino.

“La morte di Bianca Giovanna avviene proprio mentre Leonardo sta lavorando all’Ultima Cena, nel periodo in cui, secondo la mia tesi, egli era ancora impegnato nel suo ritratto nuziale intitolato poi La Gioconda. “L’identificazione della Gioconda in Bianca – ovvero Giovanna detta Bianca – Sforza rafforza con un apporto storico biografico significativo l’ipotesi che la somiglianza tra il volto della Gioconda e quello dell’apostolo Giovanni non sia affatto casuale o comunque scientemente formale, bensì profondamente radicata nella storia della famiglia Sforza e della Chiesa di Santa Maria delle Grazie (prediletta dal Moro) nel periodo in cui Leonardo eseguì l’Ultima Cena. Bianca, mentre Leonardo dipingeva il Cenacolo, era da poco sepolta in Santa Maria delle Grazie”.

Qui però siamo tra studiosi e professori, non scrittori di thriller e quindi “convenire sul fatto che il volto di Giovanni sia femminile non sottende risvolti esoterici né tantomeno implicazioni religiose (come ad esempio avviene nel romanzo di Dan Brown), ma sottolinea esclusivamente la scelta operata da Leonardo di dare il volto della pura e virginale Giovanna Bianca all’apostolo Giovanni prediletto di Cristo e tramandato anch’egli con caratteri di purezza”.

La Gioconda sarebbe il ritratto nuziale della ragazza, poi sospeso per la morte della modella, portato via da Leonardo nella fuga da Milano nel 1499 per poi essere terminato in un momento successivo. Al ritratto, Leonardo avrebbe lavorato nello stesso periodo in cui tratteggiava ‘L’ultima cena’. Raffaele Castagno, sull’edizione di Parma di Repubblica.it, basandosi su un libro di Carla Glori (“Enigma Leonardo: la Gioconda, in memoria di Bianca”) ha paragonato la Gioconda di Leonardo a “una sorta di cartina geografica che permette di arrivare fino all’identità della misteriosa donna ritratta. Si perché il paesaggio altro non sarebbe che la valle di Bobbio, e il ponte il cosiddetto Ponte del Diavolo o Ponte Gobbo sul Trebbia” in quella che Ernest Hemingway definì la “valle più bella del mondo”.

Prosegue Raffaele Castagno: “Il mistero è nel Dna del ponte. Leggenda vuole che esso sia stato costruito dal demonio (da qui il nome): Satana lo realizzò in una sola notte, dopo avere stipulato un patto con San Colombano, che gli promise in cambio l’anima del primo viaggiatore che lo avrebbe percorso. Ma il santo si beffò del diavolo, facendo passare sopra un cagnolino”. 

San Colombano è un personaggio dominante nella storia della Chiesa cattolica. Irlandese di nascita, attraversò l’Europa da nord a sud, trascorse del tempo alla corte di re e regine franchi, istituì una regola monastica e il monastero di San Colombano a Bobbio, dove morì a 75 anni di età il 23 novembre 615, esattamente 1499 anni fa.

Il ponte della Gioconda, sostiene Carla Glori “è quello sul Trebbia e il paesaggio quello della campagna intorno a Bobbio”. Carla Glori, riporta Raffaele Castagno, “ritiene che la struttura arcuata del ponte nel dipinto corrisponda in tutto per tutto al Ponte del Diavolo. Nel quadro ci sarebbe anche una strada serpentina tuttora visibile a Bobbio. Ma Leonardo passò mai per queste contrade? Glori pensa di sì. La città era un importante centro culturale, famosa per la sua biblioteca, un’attrazione che avrebbe spinto Leonardo a visitare i luoghi, che poi, qualche anno dopo, magari in Francia, avrebbe messo su tela, rievocando ricordi e particolari dalla sua memoria”.

Non tutti sono d’accordo. Tra le voci critiche, “a più autorevole è quella di Martin Kemp, professore di Oxford (ora in pensione) e tra i massimi esperti di Leonardo: “Il ritratto è quasi certamente di Lisa del Giocondo, per quanto poco romantica e poco misteriosa l’idea possa essere. Ci sono stati molti tentativi di individuare il luogo specifico del paesaggio e la somiglianza con il ponte di Bobbio non mi sembra così vicina. Ho grandi riserve su tutti i tentativi di trovare significati nascosti nei lavori d’arte del Rinascimento”.

Qualche dubbio avanza anche il giornalista Massimo Polidoro, tra i massimi esperti nel campo del mistero. In sostanza Polidori fa notare come manchi qualsiasi elemento documentario sulla visita di Leonardo a Bobbio, che sarebbe dovuta avvenire prima del 1472 (anno della distruzione del ponte), fatto ritenuto improbabile (prima di quella data Leonardo era un ragazzo apprendista nella bottega del Verrocchio). Per quanto riguarda poi gli indizi disseminati nel quadro il giornalista ricorda che precedentemente la famose iniziali negli occhi della Gioconda erano state lette come C E o C B.”. 

Leonardo può essere passato da Bobbio nei suoi spostamenti fra Milano, Firenze, Roma. Oppure essercisi recato come ospite della stessa Bianca Sforza, la cui vita breve e la cui fine circondata dal mistero sono un punto appassionante del racconto di Carla Glori sul blog.

·        Leonardo Sciascia.

La piccola patria di Leonardo e dei suoi allievi. Il teatro fatto rinascere, contrada Noce e la scuola elementare dove insegnava. Alessandro Gnocchi il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Racalmuto. Ogni passo un ricordo di Leonardo Sciascia, il maestro di Racalmuto, cittadina in provincia di Agrigento. C'è la sua statua, a grandezza naturale, sul marciapiede del corso dove passeggiava dopo essere stato al circolo. C'è il prestigioso teatro Regina Margherita, un gioiello tornato a splendere grazie al suo aiuto. Lo scrittore ne era un frequentatore, anche nell'epoca in cui la sala era diventata cinematografica. C'è una pagina della novella La zia d'America dove si raccontano le due ore del film trascorse a sputare «a ondate» dal loggione alla platea, con altri ragazzacci, pronti anche a sottolineare le scene d'amore con «quel rumore di succhiare lumache» a imitazione dei baci. Il teatro ebbe un momento di crisi, durante la quale il palco era occupato dalle galline. Si dice che Giuseppe Tornatore, nel capolavoro Nuovo Cinema Paradiso, abbia attinto in pari misura ai propri ricordi e a quelli di Sciascia. Fu comunque Sciascia a rimettere il Regina Margherita al centro dell'attenzione scegliendo il teatro per presentare un libro negli anni Ottanta.

Appena fuori Racalmuto, settemila abitanti, uno dei tanti paesi italiani in doloroso calo demografico, c'è la campagna di Sciascia, in contrada Noce. In cima a una collina ci sono tre edifici. Uno, antico e modesto, in cui fu scritto Il giorno della civetta. Uno, antico e utile, occupato dal forno. Uno, risalente agli anni Settanta, costruito per volontà di Sciascia. Non aveva avuto richieste particolari da rivolgere all'architetto. D'altronde, ovunque lo si giri, lo sguardo incontra campi e colline di struggente bellezza. Non è difficile innamorarsi di un luogo simile, soprattutto se ci nasci. Però Sciascia volle lo studio con le finestre affacciate in direzione del mare. Forse per godere al massimo della luce che proviene da quella parte: il cielo di Sicilia è speciale. Sul retro, c'è una terrazza da cui si domina la valle. Il marrone, in ogni sua sfumatura, il grigio e il verde riempiono gli occhi. La sabbia, la pietra, le vigne.

Sciascia scriveva dalle sette alle dieci e mezzo di mattina. Poi riceveva. A Racalmuto capitava di incontrare Marco Pannella o editori o artisti. Andavano a udienza da Sciascia. Sotto la proprietà dello scrittore, c'erano (e ci sono ancora) le case degli amici: il giornalista Aldo Scimè e Nico Patito, «contadino filosofo». Più giù ancora, l'unico edificio dove ci fosse il telefono. Alle 17 suonava, spesso era la redazione di un giornale a cui il maestro dettava l'articolo dopo aver preso accordi in mattinata.

Nella scuola di Racalmuto hanno ricostruito la classe delle elementari dove Sciascia insegnò negli anni Cinquanta. Oggi l'istituto è intitolato proprio allo scrittore. Gaspare Spalanca, allievo del maestro, ci accompagna nella visita e si siede nel banco che occupava all'epoca. Tutto è stato conservato. Lavagna, cattedra, libri. Ci sono i quaderni. I registri di classe compilati da Sciascia. Le pagelle dello Sciascia studente. Spalanca racconta al Giornale: «Era una persona riservata, mai severa, in anni dove la benevolenza del professore non era scontata. Era di una sensibilità rara e contagiosa». Come la dimostrava? «C'era tanta povertà a Racalmuto. Prima di iniziare la lezione chiedeva a tutti se avessero fatto colazione. Poi ordinava il caffè, latte e qualcosa da mangiare per chi a casa non aveva avuto nulla. Senza fare scene, come fosse normale, un dato di fatto a cui non si doveva dare peso. Ma ce l'aveva un peso, dopo lo abbiamo capito». Trattava tutti allo stesso modo? «Certamente. Era sempre attento a dare un regalino a ogni allievo, una caramella, un giocattolino, un complimento... Nessuno era dimenticato». Insegnava anche religione? «Sì. Io non so se sia vero che Sciascia era ateo. Forse conveniva dipingerlo così o si dava per scontato per via delle sue idee politiche. Ma io ricordo un insegnante rigoroso e capace di trasmettere il senso del sacro». Siete rimasti amici, dopo gli anni scolastici? «Quando era a Racalmuto si fermava volentieri a chiacchierare con me e con gli altri ex alunni». Come vi rivolgevate a Sciascia? «A scuola, lo chiamavamo professore. Dopo, io ho preso a chiamarlo maestro. Lo considero un maestro di vita, al di là dell'insegnamento. L'attenzione verso il prossimo andava di pari passo con un'estrema curiosità verso ogni aspetto della cultura e della società. Questa è la sua lezione, per me, per tutti, credo».

La tomba di Sciascia, nel cimitero di Racalmuto, è una sepoltura laica, semplice, pulita, una lastra bianca in mezzo a un piccolo prato. A volte la grandezza si intuisce dalla umiltà.

Passione civile. Così Leonardo Sciascia ha dato un senso alla vita sociale del nostro paese. Alfonso Amendola, Fabrizio Catalano, Ercole Giap Parini su L'Inkiesta il 24 Agosto 2022.

Lo scrittore siciliano scrive secondo schemi ben precisi: se si trattano le principali caratteristiche del proprio popolo necessariamente si analizzano anche i moti di una società più in generale. Tramite l'esegesi delle sue opere, “Il tenace concetto” (Rogas editore) ripercorre tutti i pensieri formulati dall'autore e le sue opinioni i sulla nostra nazione 

Ci sono scrittori per i quali la letteratura è sorta di gioco di sponda con la vita, dove questa vi è rappresentata attraverso l’onirico e il simbolico, e dove l’immaginazione lascia soltanto trasparire barlumi di realtà e per di più chiamando in causa il lettore, che ha davanti una intera tavolozza per ricreare quelle immagini appena tratteggiate.

Dall’altra parte vi sono quelli che nelle lettere impongono un cambiamento di ritmo nella lettura di una realtà documentata o documentabile.

Poi vi è Sciascia, che sembra unire questi due mondi, tenendo insieme, le sue lettere, l’attenzione informata alla cronaca e alla storia con quella possibilità di renderle simboli, di astrarle dalla contingenza con la forza dell’onirico.

Abbiamo visto come Sciascia tenesse in grande considerazione Borges, rappresentandolo come sorta di paradigma degli scrittori del primo tipo poc’anzi evocati. Uno scrittore che attraverso i labirinti evocava l’impossibilità di comprendere il mondo, lo spiazzamento umano di fronte al mistero dell’esistente.

Arrivò a definirlo – summa delle contraddizioni di quel secolo – teologo ateo perché «ha fatto diventare il ‘discorso su Dio’ un ‘discorso sulla letteratura’. Non Dio ha creato il mondo, ma sono i libri che lo creano. E la creazione è in atto: in magma, in caos». E Sciascia riconosceva la differenza con questo scrittore così amato e studiato. Sciascia, così attento alla storia e alla cronaca del suo tempo, e che in questa si immergeva con la passione civile che ho messo in evidenza, vedeva Borges sfuggire alla storia nei suoi labirintici giochi di specchi:

I nomi che facevo posso ora, in una migliore e più assidua conoscenza dello scrittore, considerarli più approssimativi che approssimati: possono avvicinarsi a Borges e avvicinarcelo, ma non intrinsecamente. L’errore era però un altro: l’avere usato la parola storia invece che la parola tempo. Poiché non dalla storia è ossessionato Borges, ma dal tempo. Per lui la storia non è che l’assurdo corollario di quella più vasta e spaventosa assurdità che è il tempo. E arriva al punto da desiderare che si sperda o si consumi, il tempo, almeno sul suo nome, sul suo ricordo, sulle sue pagine: una volta scontatolo nella vita, con la vita.

Sono come speculari, questi due autori. Da un lato lo scrittore Borges, che trova i labirinti della vita nell’onirico, dall’altro un autore che li trova nella cronaca, dove il sogno è, semmai, approdo confondente di storie fondate nella realtà contingente o storica. Sorta di giocatore di biliardo, Borges, con la vita e con il mondo, sempre attento alle sponde dell’onirico; poi c’è Sciascia che nella vita si immerge, quasi fosse uno sport di lotta, di contatto, un corpo a corpo, dal quale sapeva di uscire comunque sconfitto ma anche che quella lotta, quella resistenza della ragione, era l’unica vittoria dell’umano che l’umano avesse a disposizione. Così la sua tormentata relazione con la politica, dalla simpatia per il Partito Comunista fino alla rottura con questo, che percepisce essere troppo attento alle alleanze, mettendo in ombra i contenuti emancipativi del suo ruolo politico; cosa che si acuisce durante il periodo della solidarietà nazionale e del miglioramento dei rapporti tra quel partito e la Democrazia Cristiana. E poi l’approdo al Partito Radicale e le sue battaglie parlamentari orientate nel senso di una laicità militante e attenta ai diritti delle persone umane (come le avrebbe chiamate lui); le controversie, anche ruvide, contro l’antimafia e quelli che considerava i suoi professionisti, che gli valse mille polemiche, fraintendimenti e necessità di chiarire.

Per Sciascia la letteratura è parte della vita vissuta e sale all’onirico, al simbolico quasi sgravandosene come esito di un percorso di un attraversamento al termine del quale troviamo un tenace concetto che consiste nell’umanità.

Per altri scrittori le lettere sono sì parte della contingenza e della vita; il flusso delle loro parole si dipana nella cronaca ed è pure animato da simile passione civile. Ma quelle parole hanno una immediata spendibilità che si deprezza nel momento in cui il contingente si trasforma, e quella semantica, così incapace ‒ a differenza di quella di Sciascia ‒ di levarvisi, evapora con il passare del tempo.

Impegnarsi nella ricostruzione della vicenda di Moro significa quindi per Sciascia affondare la penna dello scrittore nella carne viva della sua epoca, dopo averla intinta nell’inchiostro della passione civile alla ricerca di una reazione rispetto all’assopimento collettivo di fronte alle ragioni del potere.

Parimenti fa Sciascia quando affronta la questione della mafia, entrando nella carne viva di un contesto di trame oscure che lega la Sicilia all’Italia; e con la stessa passione cerca di districare la matassa del caso Majorana che, pur partendo dalla sua Isola, tende un filo immaginifico che arriva alle bombe di Hiroshima e Nagasaki.

Per di più, le circostanze, assolutamente contingenti, duramente e drammaticamente reali, si aprono a un’indagine meticolosamente documentaria ma supremamente letteraria, con quel suo chiamare a raccolta la letteratura per districare le trame più complesse, nel convincimento, che è anche un obiettivo, di giungere a «una ‘verità romanzesca’ più vera di quella ufficiale» (Di Grado 2014: 35)[1]. Come forma di sincerità verso quel carattere utopico di imprese di questo tipo. José Ortega y Gasset, il grande filosofo spagnolo che aveva sviluppato la propria filosofia proprio a partire dalla lettura del romanzo che dei romanzi è considerato l’archetipo, il Don Chisciotte[2], considerava l’utopia come il darsi un obiettivo che non può essere perseguito. Nel nostro caso, dipanare tutti quei garbugli del reale con le lettere. Ma così facendo si aprono nuove e impreviste possibilità creative che permettono proprio quel­l’elevazione di cui scrivevo prima, che permette di concepire l’umano e la sua vita relazionale come summa di tutte quelle esperienze.

Tzvetan Todorov mette in evidenza un rapporto stretto, sorta di parentela, tra la letteratura e le scienze umane e la filosofia, in quanto tutte mosse dalla curiosità sulla società. E scrive: «Come la filosofia e le scienze umane, la letteratura è pensiero e conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La realtà che la letteratura vuole conoscere è semplicemente (…) l’esperienza umana» (Todorov 2008: 66). Senza disconoscerne le differenze, dato che «l’una [la letteratura, n.d.a.] preserva la ricchezza e la diversità del vissuto, l’altra favorisce l’astrazione, che le consente di formulare leggi generali» (Todorov 2008: 66-67). Così simili e così dissimili, quindi, la letteratura e le altre scienze; la diversità sta proprio in quella capacità letteraria di preservare ricchezza e varietà del vissuto.

Questa contiguità dello sguardo gettato sullo stesso oggetto, a partire da differenti prospettive, era già stata messa in evidenza da Robert Nisbet: «Che uomini come Weber, Durkheim e Simmel siano parte nella tradizione della scienza è fuor di dubbio. I loro lavori, nonostante la profonda sensibilità e intuizione artistica, non appartengono alla storia dell’arte più di quanto i lavori di Balzac e Dickens non appartengano alla storia della scienza sociale».

Ma mentre Sciascia riflette sulla letteratura sembra fare intravvedere qualcosa di più. La letteratura non solo come rispecchiamento, ma come fare e farsi della storia. Lo fa, per esempio, in alcune pagine del suo Nero su nero: «Forse è un sistema di oggetti eterni che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono si eclissano tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità». Sta forse qui, in questa definizione, che mette in gioco la capacità di splendere e il destino di eclissarsi, la ragione sociale della letteratura, il suo essere intrecciata con quanto accade di volta in volta. E la sua capacità di dare risposte, anche nella forma di domanda, senza la possibilità di giungere a una definitezza. E proprio Nero su nero è un libro dedicato alla verità, all’ansia di intravvederla insieme alla difficoltà di contenerla, di raggiungerla.

Un ruolo, quello della letteratura, quindi, di leggere nella venatura della cronaca il farsi dei vasi che irrorano la vita; vedere, a partire da una dotazione particolare, tipica dello scrittore, quello che altri non vedono, insieme, però, alla possibilità di fissare degli schemi che permettono di dare un senso ai fatti, di darvi ordine forse anche facendoli accadere: «Le sintesi non potevano apparire che anticipazioni, che profezie; se non addirittura istigazioni». I fatti, insomma, accadono se sono narrati, se hanno una loro possibilità di interpretazione. In questo doppio movimento è visibile l’orientamento alla verità della letteratura: nel mentre fa radiografie, utilizzando elementi che non sono necessariamente quelli piegati al realismo o alla verosimiglianza, lascia schemi capaci di dare ordine alle cose. E in qualche modo diventa essa stessa tenace concetto, impadronendosi della storia. 

“Il tenace concetto. Leonardo Sciascia: la letteratura, la conoscenza, l’impegno civile”, di Fabrizio Catalano, Alfonso Amendola, Ercole Giap Parini, Rogas editore, pagine 120, euro 11

La bellezza e la politica. Le ultime conversazioni di Leonardo Sciascia. Leonardo Sciascia su L'Inkiesta il 3 Gennaio 2022. L'Espresso il 4 Gennaio 2022. Sono i colloqui con Domenico Porzio, raccolti e pubblicati da Adelphi. Uno sguardo sulle passioni del grande scrittore, dalla storia della Sicilia a considerazioni su collezionismo, autori e servizio pubblico di archivio Lapresse, particolare.  

Nel “Cavaliere e la morte” dici una cosa che mi è piaciuta molto: che il tuo alter ego, il Vice, leggendo “L’isola del tesoro” di Stevenson, conosce una delle sue forme di suprema felicità.

È un’idea che ho preso da Borges.

È così anche per lui?

Anche per lui e anche per me.

Per Borges, in effetti, la felicità sta nell’infanzia, nell’avventura. Penso che Borges abbia letto Stevenson in una di quelle edizioni illustrate ancora in uso ai suoi tempi. Forse non sarà la felicità suprema come lui sosteneva, perché non credo che qualcuno possa possedere la felicità nella sua totalità, però le si avvicina.

Sono delle forme di approssimazione. Forme di approssimazione alla felicità. Per me la felicità è in gran parte legata ai libri. I libri letti, i libri da rileggere, i libri che rileggo, i libri che scopro e anche le stampe, la scoperta di una certa acquaforte…

Allora anche il collezionismo.

Sì. Il collezionismo è una cosa che mi aiuta a vivere. Non direi che sia proprio la felicità, ma aiuta.

In che senso aiuta a vivere?

Ti crea una aspettativa, perché speri sempre di trovare qualcosa, qualcosa da aggiungere.

E il collezionismo è di tutte le età.

Sì, credo che come istinto esista in tutti. 

Ci sono anche luoghi, per te, che sono forme di felicità. Racalmuto.

Sì, ma anche altri. Parigi è una forma di felicità. La amo per la sovrapposizione della città letteraria alla città reale.

E non ti disturba il contrasto?

Le cose sono secondo letteratura, insomma. Ma anche altre città che non risvegliano riferimenti letterari speciali come Barcellona, Siviglia, Salamanca si avvicinano all’idea di felicità, quando ci vai o ci torni.

Parli solo di città europee.

Non ne conosco altre.

Non hai mai viaggiato nelle Americhe, in Africa?

No, mai.

Quindi i tuoi amori di viaggiatore sono Parigi e la Spagna. Anch’io mi sento molto legato alla Spagna. C’è un legame che nasce anche dalla letteratura, dalle affinità di lingua.

Be’, per un siciliano più che letteratura è storia. I nomi dei nostri viceré sono nomi di paesi della Spagna: Toledo, Ossuna…

Eppure la memoria storica della presenza spagnola in Sicilia non è delle più esaltanti.

No, no. La Spagna in Sicilia è terribile. Coincide con l’Inquisizione, piena di atrocità.

Però mi dicevi che era anche governata secondo un ammirevole concetto di giustizia.

Sì, secondo una certa idea della giustizia. In effetti quando occorreva dare un esempio eclatante, che impressionasse la fantasia popolare, i viceré lo davano. Come Giron, il nipote del viceré de Ossuna, che fu decapitato. Ma per il resto era un mondo di ingiustizie, di privilegi.

La Sicilia interessava alla Spagna per ragioni strategiche mediterranee? O forse come granaio, come semplice terra di sfruttamento?

Sì, come terra di sfruttamento. La Sicilia è stata disboscata per costruire l’«Invincibile Armata», in gran parte nei cantieri siciliani di Messina.

Ma in Spagna non avevano legname a sufficienza?

L’avranno anche avuto, ma era più comodo disboscare la Sicilia.

In Sicilia gli spagnoli hanno lasciato un’impronta letteraria, artistica come l’hanno lasciata gli arabi?

No. C’era molta gente bilingue, ma letterariamente parlando, niente.

Nemmeno nelle relazioni storiche, descrittive?

C’è qualcosa in Quevedo, in Góngora, una certa memoria della Sicilia, e in Cervantes, nelle Novelle esemplari. C’è un racconto che ha per protagonista un ragazzo di Trapani. Cervantes è stato a lungo a Messina e a Palermo, per la preparazione della battaglia di Lepanto; la flotta mosse verso Lepanto da Messina. Cervantes entrò poi in amicizia con un poeta siciliano, Antonio Veneziano; si erano conosciuti in prigionia. Cervantes gli dedicò una poesia.

Ancora sulle forme di felicità: fa effetto notare quanto cambino a seconda dei temperamenti umani. Pensa alla felicità dell’intrigo, coltivata dagli uomini politici. Sembra che ci sia un vero e proprio gusto dell’intrigo, anche per statisti come Mazzarino.

Per i mediocri sì, c’è questo gusto.

Per i mediocri? Ma io ho fatto il nome di Mazzarino; allora lo consideri un mediocre?

Non so quanta soddisfazione traesse Mazzarino dal suo potere, comunque io sto con Guicciardini, l’animale politico più intelligente a mia conoscenza. Guicciardini dice che tante cose, una volta raggiunte, dovrebbero dare una grande soddisfazione e invece non la danno affatto.

Ciò vuol dire che la politica non dovrebbe essere una delle forme della felicità. Eppure…

Dovrebbe essere un servizio.

Dovrebbe essere lasciata a gente che ha un grande amore per il prossimo.

Savinio diceva che la politica espelle l’uomo intelligente come un corpo estraneo. Credo che avesse ragione.

da “Fuoco all’anima. Conversazioni con Domenico Porzio”, di Leonardo Sciascia (a cura di Michele Porzio), Adelphi, 2021, pagine 169, euro 13

 Il carteggio. Leonardo Sciascia e Enzo Tortora, storia di un’amicizia contro il giustizialismo. Lucio D'Alessandro su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. “Sciascia, un maestro oltre la letteratura”. Questo è il titolo con cui Roberto Andò ha scelto di ricordare nei giorni scorsi all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli l’amico Leonardo Sciascia in occasione delle celebrazioni per il centenario della sua nascita. L’intendimento è stato chiaro da subito: guardare allo scrittore puntando all’intellettuale nel senso che lo stesso Sciascia volle dare al termine già in un articolo uscito su La Stampa il 25 novembre 1977: «L’intellettuale è uno che esercita nella società civile […] la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze sociali».

Tra i molti fatti a cui lo scrittore diede spazio e interpretazione mi piace ricordare (anche per la rimbombante attualità del tema tutto italiano della calpestatissima presunzione costituzionale di innocenza in rapporto al comportamento dei media) quello che coinvolse Enzo Tortora. Quando il 17 giugno 1983 Tortora viene arrestato (sarà poi condannato in primo grado senza prove) come spacciatore e sodale di Cutolo con quello che fu definito da Giorgio Bocca «il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese», Sciascia pubblica a poche settimane di distanza (7 agosto 1983) un articolo sul Corriere della sera su quel caso eclatante di alterazione della verità. Lo scrittore prende subito posizione in termini difensivi, senza tentennamenti: «E se Tortora fosse innocente? Sono certo che lo è». Già chiuso in un «tunnel assurdo, demenziale, basato sul niente», Tortora commosso gli indirizzerà un telegramma, ringraziandolo per aver visto con «occhi profetici la tremenda realtà che lo imprigiona».

Da quel momento i rapporti tra i due si consolidano e Tortora affida allo scrittore i suoi tormenti di detenuto. Le sue riflessioni, registrate con precisione nelle lettere a lui indirizzate dove la descrizione puntuale dei fatti e dei movimenti a Regina Coeli prima, poi agli arresti domiciliari nell’appartamento di via Piatti 8 a Milano, fa da sfondo a una lucida, disincantata e amara constatazione dell’uso alterato della legge in un Paese che non solo ha perso il senso della Giustizia ma ha distrutto con la vita di un uomo la sua stessa civiltà. Per Sciascia sono quegli gli anni di composizione di Porte aperte (1987), in cui affronta proprio il tema della giustizia e della libertà sopraffatte da un giustizialismo che rende la pressione dell’opinione pubblica più efficace dell’azione di un giudice onesto. Protagonista ne è un giudice limpido servitore della giustizia, in questo caso, a mettere a repentaglio la sua carriera, pur di difendere, seppur invano, l’imputato dalla pena capitale. Il suo punto di vista è che opporsi alla pena di morte – invocata a gran voce, dalle autorità così come da una città che ha aperto le porte della follia ­ «è un principio di tal forza che si può essere certi di essere nel giusto anche se si resta soli a sostenerlo». «L’ho visto come il punto d’onore della mia vita, dell’onore di vivere» dichiarerà con fermezza il “piccolo giudice”. Si tratta di difendere la propria visione dei fatti nella convinzione di perseguire la giustizia, anche quando si è soli contro l’opinione più diffusa.

Frattanto Tortora era stato assolto dalla Corte d’appello di Napoli nel 1986, proprio in quella città che era stata palcoscenico e punto di inizio dell’irrisolta scomparsa di Majorana a cui Sciascia dieci anni prima aveva voluto offrire una possibile, sebbene artificiosa, soluzione. La relazione intrecciata con solidità e rafforzata dalla comune militanza nel partito radicale non durerà che qualche anno stroncata dalla morte prematura di entrambi (Tortora nel 1988, l’anno seguente lo scrittore). Ne resta però traccia nelle disposizioni testamentarie di Tortora che volle che le sue ceneri fossero riposte accanto a una copia della Storia della colonna infame nell’edizione con prefazione per l’appunto di Leonardo Sciascia, pubblicata nel 1981 dalla casa editrice Sellerio.

Se la Storia manzoniana ha un senso nella nostra storia attuale, nelle parole di Sciascia, questo risiede proprio nel suo continuo ammonimento rivolto alle generazioni future. La responsabilità personale per i gesti di ciascuno non può mai essere obliterata dal comodo riparo delle circostanze, dall’oscuro rifugio dei contesti. Ciascuno di noi è chiamato in ogni momento a rispondere di fronte al più severo dei tribunali, quello della propria coscienza. E la coscienza va oltre la Storia. Certamente in questa battaglia di responsabilità Sciascia e Tortora s’incontrano, così come pure condividono un medesimo disincanto rispetto a una realtà che appare ostile al vero e al giusto. Un disincanto segnato dall’epitaffio scritto da Sciascia per l’amico che recita quasi a memento o forse ad augurio per le battaglie di giustizia «che non sia un’illusione». Lucio D'Alessandro

·        Leopoldo (Leo) Longanesi.

Longanesi il borghese, un genio dell’aforisma disgustato dall’Italia. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 19 settembre 2022.

La sua ironia colpiva un Paese che «alla manutenzione preferisce l’inaugurazione» e dove «funziona solo il disordine»

«Soltanto sotto una dittatura riesco a credere nella democrazia». «Se c’è una cosa che in Italia funziona è il disordine». «Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola». «Libertà di opinioni in un Paese senza opinioni». «La mediocrità ha un solo vantaggio, quello di credere a sé stessa». «Tutto quello che non so l’ho imparato a scuola». E via continuando, in cui un crescendo di frasi/dettaglio che illuminano la realtà. Leo Longanesi resta come esempio della multiforme genialità italica per le molte qualità - pittore, editore fondatore della Longanesi, giornalista, scrittore, pubblicitario, grafico - ma soprattutto per la capacità di sintesi fulminea, altro che tweet! Nei suoi aforismi raccoglieva nel particolare breve e folgorante più lunghe meditazioni su vita e storia. «Dell’Italia ufficiale egli, con l’ingrandimento di un particolare dava immediatamente una figurazione storica. Gli accadeva quasi inavvertitamente, come se non se ne rendesse conto» ha scritto su La Stampa Arrigo Benedetti, uno dei tanti talenti giornalistici individuati da Longanesi, nel necrologio alla sua morte il 27 settembre 1957.

Di quell’Italia che «alla manutenzione preferisce l’inaugurazione» fu sempre critico implacabile. Nato in «una famiglia per metà rossa e per metà nera, sentimentale e rissosa, laboriosa e ambiziosa, scettica e religiosa; una delle tante famiglie romagnole che, in 80 anni, riuscirono ad acquistare una casa, a conquistarsi un gradino», era un uomo «inquieto uscito da una famiglia quietissima» e benestante, e il giovane Leo viene coltivato come un fiore nelle sue passioni culturali, studia nelle migliori scuole bolognesi, frequenta scrittori e poeti invitati nel salotto casalingo. «Si è portato dentro più che dietro l’800 ed è un 800 dove le maniere, la forma, la composta educazione di un secolo si riversa su di lui attraverso un sentimento che è quello di gratitudine» ha detto Pietrangelo Buttafuoco parlando dell’antologia che ha dedicato a Longanesi, nel 2016, Il Mio Leo Longanesi. «E quando dico che sono cresciuto a pane e Longanesi voglio dire che quell’educazione me la sono ritrovata in casa quando bambino avevo vicino a me come feticci le collezioni di giornali che portavano il marchio di Longanesi. Lui è stato», concludeva Buttafuoco, «l’Artefice della nostra contemporaneità, e magari suo malgrado, perché la parola che lo terrorizzava di più era progresso». 

Di sicuro ha infuso un’accelerazione incredibile proprio all’editoria, e nei suoi giornali, dall’Italiano a Omnibus al Borghese, è nato un vivaio di giornalisti alfa, che daranno origine a filoni opposti, quello che da Benedetti confluirà in Repubblica e quello che da Montanelli darà vita a tante testate liberali di destra. Paradosso ma non tanto per un frondista d’animo, che negli anni fascisti teorizzò «starci dentro per migliorarlo»: adesione sul filo dell’ironia, ma anche esercizio di duplicità per i suoi critici. Nel dopoguerra la sua ironia si rivolse alla borghesia, criticata, come ha scritto Marcello Sorgi, «per la sua inconsistenza di fronte ai compiti che l’aspettano». Leggere Longanesi è tuttora fare un viaggio avventuroso nella mente di un fanatico del pensiero eccentrico.

·        Luciano Bianciardi. 

Dagospia il 16 maggio 2022. La prefazione di Pino Corrias al libro di Luciano Bianciardi “Non leggete i libri, fateveli raccontare” pubblicata da Tuttolibri – la Stampa.

È un Bianciardi in purezza quello che sgocciola dalle righe di questo manuale dedicato ai giovani, purché «particolarmente privi di talento», che vogliano intraprendere la bella carriera dell'intellettuale. 

Suggerendo loro i vestiti e i gesti adeguati. Le strategie sulla conversazione in casa editrice o nei salotti, «tra un whisky e l'altro». Meglio se con la pipa per fare fumo e nascondercisi dentro. Svelti nel dire e nel disdire. Capaci di stare sul vago in politica. Di non leggere libri, ne escono troppi, ma di farseli raccontare.

Di mostrarsi tolleranti sui costumi sessuali altrui, ma severi se il discorso «cade sul prossimo più immediato». Di marcare i colleghi a uomo o a zona, come nel calcio. Di presentarsi sempre fresco, riposato, scattante, sapendo che l'intellettuale di successo non va in ufficio, ci passa. Non ha la segretaria, ma usa quella degli altri. Non evita il padrone, lo cerca. Discute. Ammette di preferire «in prospettiva» l'operaio carico di valori, al ceto medio miope e grigio, sorvolando sul dettaglio che l'operaio, magari siderurgico, non vede l'ora di diventare ceto medio. 

Il manuale è uno spasso. Esce in sei puntate su Abc, settimanale di attualità eccentrico, fondato da Enrico Mattei, il patron dell'Eni e del Giorno, il quotidiano che fiancheggerà il centrosinistra. Il rotocalco è da battaglia radical-socialista. Ingaggia scrittori di grido. Pubblica inchieste sociali, cavalca scandali politici, si batte per il divorzio, predica la rivoluzione dei costumi, compresa quella di toglierli alle soubrette fotografate al mare nel paginone centrale.

Siamo nell'anno 1966. E Luciano Bianciardi ha già macinato gran parte della sua parabola. Viene da Grosseto, viene dalle Maremme agricole. È cresciuto divorando libri. È anarchico. È ironico. Ma è anche affetto da disincanto e da umor nero. Ha fatto la guerra risalendo la penisola con gli inglesi, e ha fatto il professore di filosofia. 

Per fame di ossigeno, nell'anno 1954, si è lasciato alle spalle la provincia grande dei minatori e dei braccianti e quella piccolissima degli eruditi di paese e dei bottegai per trasferirsi nella grande Milano delle banche, delle mille aziende metalmeccaniche e della nascente industria culturale che vuol dire giornali, case editrici, agenzie pubblicitarie.

Vuol dire il Piccolo Teatro di Giorgio Strehler e il cinema di Ermanno Olmi, il Design, gli Uffici studi per il marketing e le relazioni umane. Lui arriva assunto da Giangiacomo Feltrinelli per «la grossa iniziativa», la nascente casa editrice, fiore della sinistra non ortodossa. Ma la sua camminata lenta e la sua risata larga sono ingranaggi fuori misura. Detesta gli orari e i conformismi del quieto vivere. 

Si licenzia. Per scalare il fine mese diventa traduttore a cottimo, 120 libri tradotti in 18 anni, battuti a macchina di notte con la sua donna, Maria Jatosti, compagna dello scandalo, visto che Luciano si è lasciato per sempre alle spalle una moglie e due figli a Grosseto.

La loro Bohème inizia nella camera ammobiliata in Brera, dentro la «cittadella dei pittori», inseguiti dalle cambiali che scadono, dai soldi che non bastano mai, meno male che sotto casa non chiude fino all'alba il Bar Giamaica per il rifornimento di grappa gialla. 

Gli anni di stenti e rabbia diventano La vita agra che esce nel 1962, romanzo in prima persona singolare, storia della «solenne incazzatura » contro «la diseducazione sentimentale al tempo del Miracolo Economico», scritta «in lingua dotta popolare e carognona».

Invettiva contro Milano e la frenesia calvinista dei milanesi per i soldi «che ti corrono dietro e poi ti scappano davanti». Montanelli lo recensisce entusiasta sul Corriere della Sera, dirà «mai letto un libro così divertente». Il libro vola. Il primo a stupirsene è Bianciardi: «Invece di mandarmi via da Milano a calci nel culo, come meritavo, mi invitano a casa loro». L'aggettivo «agro» diventa di moda, «lo usano persino gli architetti». Scrive: «Finirà che mi daranno uno stipendio solo per fare l'arrabbiato». 

Lui quello stipendio non lo vuole, gli sembra un cedimento, un altro passo verso la definitiva integrazione piccolo-borghese in una Italia che gli piace sempre meno. Intuisce, molto prima di Pasolini, anche se più confusamente, i veleni del consumismo, il vuoto della omologazione, la solitudine dell'uomo dentro al rumore della folla.

E mentre tutti cantano le lodi del supermercato e dei grattacieli, dell'utilitaria e delle creme solari, lui scrive da guastafeste.

Il successo lo spiazza e gli fa paura: «Per me è solo il participio passato di succedere». 

Non gli piacciono le amicizie di convenienza, le piccole mafie dei premi, le virgole dei letterati da convegno, le cordate. Rifiuta un ingaggio al Corriere della Sera che gli ha offerto Montanelli. Sceglie di collaborare al Giorno, a Abc, ai settimanali sportivi. Bazzica i notturni milanesi, Jannacci, il Santa Tecla, il Derby Club. Frequenta pittori matti, fotografi squattrinati. È amico di Giancarlo Fusco e di Giovanni Arpino, gli piace Lucio Mastronardi, un altro solitario di provincia che finirà suicida. Nell'Italia bigotta scrive di rivoluzione sessuale. Elogia l'ozio. Traduce i due «Tropici» di Henry Miller, che fanno strillare la censura, e invaghire la sua fantasia fino a immaginarsi l'alter ego dello scrittore americano.

Ma quando inizia davvero la rivoluzione dei costumi, decide, sventatamente, di voltare le spalle all'esilio milanese per infilarsi in quello di Rapallo. Dove prova a smaltire la bronchite cronica e le venti Nazionali senza filtro al giorno. La solitudine si volta in malinconia. Idealizza le Maremme «che sono il posto più bello e più pulito del mondo». Ma intanto si perde nelle piogge di entroterra e nei Campari coi pensionati. 

Il mondo sta cambiando e lui non se ne accorge più. Scrive di Risorgimento e dell'esilio di Garibaldi, l'eroe della sua infanzia, per non parlarci del suo. Questo Manuale in sei stanze e in sei risate è uno degli ultimi pezzi di bravura, declinati in un presente che ancora ci riguarda. Stesso sguardo sperimentato ne Il lavoro culturale e nell'Integrazione che con La vita agra formano la sua trilogia della rabbia disarmata. Proverà a salvarsi tornando a Milano. Ma è troppo tardi. Nell'anno 1971, seduto al fondo di un bicchiere, perderà per sempre la testa. E poi la vita.

·        Luchino Visconti.

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 13 novembre 2022.

Il sodalizio tra Giovanni Testori (1923-1993) e Luchino Visconti (1906-1976) è stato tutto sommato breve ma ha portato a grandi risultati artistici. Si parte con l'Arialda, opera teatrale adattata dall'omonimo racconto di Testori per la regia di Visconti, nel cast Rina Morelli e Paolo Stoppa. È il 1960. Lo scandalo è immediato, alcune scene sono censurate preventivamente. 

Giorgio Bassani e Pier Paolo Pasolini, tra gli altri, si schierano in favore di Testori. Infine la commedia va in scena a Roma, al teatro Eliseo, per poi approdare a Milano, dove viene chiusa per ordine del prefetto dopo una sola recita nel febbraio 1961. Seguiranno altre due collaborazioni. 

Nel 1960 Visconti gira il film Rocco e i suoi fratelli con Alain Delon. Il lavoro è ispirato ai racconti del Ponte della Ghisolfa (Feltrinelli) di Testori. Lo scrittore non vede adeguatamente riconosciuto il suo contributo alla pellicola. La monaca di Monza va in scena nel 1967 e Testori non farà mistero di detestare l'allestimento di Visconti. Nel 1972 Testori scrive un ritratto di Luchino Visconti. Non è certo un panegirico, come vedremo, nonostante il costante tono elogiativo.

Il libro resta inedito fino a oggi: Giovanni Testori, Luchino (a cura di Giovanni Agosti, Feltrinelli, pagg. 416, euro 25). Si conoscono due dattiloscritti di Luchino. Il primo, in fotocopie, porta delle correzioni a pennarello rosso forse ascrivibili a Luchino Visconti. Il secondo è coperto di ripensamenti, per fortuna ben leggibili, dell'autore. Luchino è piuttosto breve, una novantina di pagine «sommerse» dagli apparati preziosi del curatore: introduzione, corpose note e saggio finale su Visconti. 

Ricco anche l'apparato fotografico, che «invade» le pagine di Testori. Insomma, Luchino gode di un'edizione esaustiva, dai criteri editoriali che, inutile nasconderlo, non metteranno tutti d'accordo. Gli apparati sono una miniera, quasi un libro (o anche due) a parte, con singole note più lunghe di un articolo scientifico, sul modello di Roberto Longhi. Un lavoro bello, utile e intelligente. Si corre però il rischio di far scivolare il racconto di Testori sullo sfondo.

Veniamo a Luchino. Poco alla volta, pagina dopo pagina, il ritratto affettuoso di un genio della regia teatrale e cinematografica, l'omaggio di un milanese a un milanese, si trasforma in una disperata approssimazione alla morte. Ogni luce di Luchino cerca di cancellare un'oscurità inquietante. 

 Le brume del lago di Como, sulle quali si apre il libro, si trasformano in una nebbia densa, che potrebbe salire dalle acque per sommergere il mondo. Cosa nasconde questa coltre minacciosa e misteriosa? I fantasmi. In particolare, il fantasma della madre, morta nel 1939, l'attimo in cui Luchino prende definitiva coscienza del suo destino: riempire il vuoto con il pieno, scambiare l'inanità del dolersi con la creazione di un mondo. Ecco perché Luchino non smette mai di lavorare, portando avanti in contemporanea progetti diversi. 

Qui entra in gioco Testori, che si chiede se questo «fanatismo lombardo, milanese e navigliesco della fatica e della costruzione a tutti i costi» non nasconda una volontà di «fuga dal proprio destino» e una forte «attrazione verso la morte». 

Visconti è in equilibrio tra mondanità e solitudine. Nelle sue meravigliose case, si svolgono interminabili giochi, quelli della Torre e della Verità. Chi buttereste giù tra Visconti e Testori? Quali difetti hanno, ora che non ci possono sentire, chiusi in un'altra stanza? Sono divertimenti crudeli ma Visconti è un solitario, anche e soprattutto quando si circonda di amici, amanti, giovani attori e marchette. 

La passione per i cavalli ha qualcosa a che fare con l'erotismo a un livello irrazionale ma commercia anche con la morte: «Insomma, la corsa come impeto, come empito e coscienza d'altri liti e, chissà, come avvampante eco della chiamata e della tentazione d'annullarsi».

Visconti è un raffinato esteta della macchina da presa. Il luogo comune vuole che sia eccessivo nel rapporto con gli attori e nella certosina accuratezza degli allestimenti. Ancora una volta, Testori cambia genialmente le carte in tavola: questo violento bisogno di «pieno» non sta «dalla parte della sicurezza, bensì da quella dell'abisso». Concetto ribadito più d'una volta: «Provate a ripercorrere i film di Visconti e vedrete che, dopo i loro eccessi, i loro unisoni e i loro clangori, quasi sempre s' aprono le crepe del vuoto; e, appunto, dell'abisso (e delle connesse vanità, oltre che dei connessi dolori)». Il gusto per l'eccesso caratterizza anche le famose abitazioni di Visconti, piene di oggetti scelti con gusto a volte bizzarro ma infallibile. 

 Eppure «a furia di essere piena e stipata, strapiena e strastipata, la casa di Luchino sembra vuota». Visconti si assume un rischio, nella vita e nelle opere: spingere tutto fino a «saturazione e nausea», e andare «a sbattere come contro un muro devastatore». È una scommessa mortale. Si accumula per spogliarsi di tutto: «Il grado zero si ottiene, è chiaro, eliminando; ma si ottiene anche eccitando una figura, una trama o una situazione a dilatarsi, a inorgoglirsi, a furoreggiare di sé, al punto da occupare tutto lo spazio». Si arriva così a «una strana fascinazione decompositiva».

Sessualmente, Luchino è presentato come un rapace predatore di giovani con i quali tuttavia finisce col ricoprire un ruolo quasi paterno. Aristocratico e comunista, raffinato e sboccato, Visconti ha qualche aspetto meno conosciuto: «Ma chi non ha visto Luchino girar di notte per Roma sulla macchina di qualche amico; girare, dicevo, nei momenti più sguaiati, quando con la sua voce nebbiosa e roca urla, getta e vomita oscenità per le strade, non saprà mai cosa ci sia di oscuramente inaccettabile e di oscuramente inaccettato nel suo blasone di conte; qualcosa di fangoso, qualcosa di ruttante e di maialesco si sprigiona allora in lui». 

Il curatore Giovanni Agosti lascia intravedere qualche possibile motivo per il quale Luchino è rimasto inedito. Forse una poco onorevole ripicca di Testori, arrabbiato perché il suo protetto Alain Toubas era stato maltrattato sul set da Visconti. Aggiungiamo un paio di ipotesi: in alcune parti Luchino è un po' troppo autobiografia testoriana per interposto Visconti. Inoltre, se i segni a pennarello della versione fotocopiata sono davvero di Visconti, possiamo supporre che il regista non fosse entusiasta.

Comunque sia, Luchino è una grande aggiunta al corpus delle opere di Giovanni Testori. Pur nella misura del ritratto di un altro artista, vediamo emergere le inquietudini, le domande di senso, le ossessioni di Testori. In fin dei conti, è possibile fare un ritratto oggettivo di Visconti come di qualunque altro? Non è la materia, in tutti i sensi, sfuggente per sua natura? Il rovello di Testori era credere nella realtà. Si legge in una lettera del 1947: «Caro Guttuso, io non credo che il problema sia di poter arrivare alla realtà, ma di poter partire dalla realtà. Di avere cioè una fede che questa partenza ammetta.

E non tanto per dipingere, credimi, quanto per vivere».

·        Louis-Ferdinand Céline.

Quel Céline impressionista e fluviale come il Tamigi. In "Londres" il tono picaresco e scanzonato viene arricchito da bozzetti poetici della capitale inglese. Andrea Lombardi il 19 ottobre 2022 su Il Giornale.  

Con i suoi millecento fogli manoscritti, Londres, uscito in Francia per Gallimard, è il testo di maggiore lunghezza dell'insieme degli inediti di Louis-Ferdinand Céline rocambolescamente riapparsi durante l'estate del 2021. Londres è il seguito immediato di Guerre, ma può essere considerato un libro a sé stante, poiché la sua trama e i suoi personaggi hanno una loro unicità, che nasce soprattutto dall'ambiente urbano di questo romanzo. L'ambientazione rimanda il lettore a un'altra opera di Céline, forse la sua più immaginifica e picaresca, ossia Guignol's Band, e lettori e critici letterari si sbizzarriranno nel trovare similitudini e differenze. Londres, scritto prima di Guignol's Band - questo secondo il curatore Régis Tettamanzi e l'équipe che sta curando per Gallimard la pubblicazione degli inediti, che include Pascal Fouché, Henri Godard e l'avvocato François Gibault - è un testo ricco di sfaccettature e di avventure, in pieno stile céliniano: il prosieguo della storia d'amore iniziata in Guerre del protagonista Ferdinand con una ondivaga prostituta, papponi e informatori, personaggi stravaganti e ancor più stravaganti parapiglia, una ballerina americana - un ispirato cameo della Elizabeth Craig amata dal dottor Destouches? - che salva dalla disperazione il protagonista Ferdinand, e ancora eccentrici aristocratici inglesi, una famiglia di lanciatori di coltelli, il Re Krogold che irrompe nel bel mezzo del romanzo, e il primo gatto nell'opera di Céline, ben prima del famoso Bébert.

La capitale britannica è uno dei personaggi principali del romanzo, ma è descritta da tocchi impressionistici, spiega Tettamanzi nella prefazione. Non vi sono le lunghe descrizioni di situazioni e luoghi tipici della topografia londinese di Guignol's Band, ma una miriade di sottili, fugaci notazioni, a volte poetiche, a volte realistiche, che costruiscono gradualmente il contesto urbano. Così il lungofiume è dove «si sentono le sirene nel Tower Bridge chiamare, passando, la gente del Tamigi. Questo è l'Embankment, il molo di tutte le pene, a filo dell'acqua tenera e fragile», e, più avanti, «il Tamigi è bello. È la notte del mondo, quella che scorre sotto i ponti. E si levano come braccia perché passi». Il protagonista Ferdinand è anche sensibile all'animazione dei rioni della città: «Le strade cambiavano veloci in quei giorni, da una settimana all'altra. Nuove abbondanze d'altre ricchezze si aggiungevano senza posa nei negozi dei quartieri, in gran sfoggio di luci e colori», e alla loro bellezza, come quella di Chelsea: «insomma un lungofiume poetico e brumoso, in blu, su fondo grigio».

Per Tettamanzi il manoscritto di Londres - suddiviso da Céline in tre insiemi, intitolati Londres I, II e III, è una prima bozza, alla pari di Guerre. Vi sono un certo numero di correzioni, ma non importanti riscritture di intere sezioni del testo: Céline rilegge, aggiunge e rimuove elementi, e in questo senso Londres ci permette anche di valutare, e di misurare in senso quasi tecnico, il tremendo lavoro che rappresenta per Céline il passaggio da una versione iniziale a una stesura che considera definitiva.

Il manoscritto è comunque un testo ampiamente sviluppato, continuo e completo, molto diverso da Viaggio al termine della notte, essendo un testo più radicale - in continuità con Guerre - in cui Céline provoca, sperimenta, apre nuove strade e riafferma l'unicità della sua voce.

È quindi necessario sottolineare più che mai, conclude Tettamanzi, il processo di creazione continua che conduce Céline da Viaggio al termine della notte fino a Rigodon, in una ricerca incessante e duplice: la riflessione sul romanzo del XX secolo e l'invenzione di un'altra lingua francese. Il lettore che confronterà il testo di Londres con Guignol's Band vedrà personaggi con lo stesso nome ma che sono talvolta diversi (Angèle, Joconde, Borokrom); altri che non hanno lo stesso nome ma alcuni tratti in comune (Cantaloup e Cascade, Aumone e Nelson, Yugenbitz e Clodovitz - c'è anche un personaggio ebreo, ma nell'economia di pazzi e allucinati del romanzo e delle successive derive pamphlettarie di Céline è tutto sommato un personaggio positivo). Vi si ritrova la città di Londra, ma in una luce e da un'angolazione diversa. Soprattutto, il lettore sarà in grado di percepire come Céline, dallo stesso materiale biografico - ricordiamo come Louis Destouches presterà servizio all'ambasciata francese a Londra nel 1915 - immagina due storie che non hanno quasi nulla a che fare l'una con l'altra - accomunate dalla seduzione e dalla potenza dell'immaginazione e della lingua céliniane.

·        Marcel Proust.

Giuseppe Conte per “il Giornale” il 3 novembre 2022. 

Anche per chi, come me, ammiratore da sempre di autori come D.H. Lawrence e Henry Miller, non ha mai dato nessuna prova di fede proustiana, questo libro di Giuseppe Scaraffia intitolato semplicemente Marcel Proust (Bompiani, pagg. 272, euro 16), che esce nel centenario della morte dell'autore della Recherche, è fonte di un piacere intellettuale che sconfina nella delizia, nel puro piacere curioso e mondano della lettura. 

Giuseppe Scaraffia sa come attrarre il lettore: francesista e saggista, mette sullo sfondo lo studioso, e lascia giganteggiare lo scrittore acuto, raffinato, indagatore della figura del dandy, e, per come lo si può essere nel Terzo Millennio, dandy lui stesso. La prima parte del libro si apre con una festa: e poi di feste, di salotti, di grandi alberghi, di grandi cene ne incontreremo a decine e decine, come se la vita si manifestasse al massimo nel suo rapporto tra verità e finzione proprio in questi riti mondani. 

Siamo negli anni Trenta, la principessa Jean-Louis de Faucigny-Lucinge dà una festa a tema sulla moda tra 1880 e 1905, e già alcuni dei suoi invitati si presentano travestiti da personaggi della Recherche. Nella sua opera colossale, Proust aveva trasferito la nobiltà in arte, ora la nobiltà trasferisce la sua arte in mondanità. Il ciclo si chiude perfettamente. Il giovane Marcel Proust, figlio di un medico e scienziato borghese e della discendente di una famiglia di agenti di cambio ebrei, entra nel giro dell'aristocrazia, facendosi apprezzare per le sue qualità di uomo di mondo, conversatore brillante, misterioso, notturno, «dolente, malaticcio, pallidissimo, traslucido, lunare», come lo descriverà Maurice Duplay.

La farfalla, sorta di arcangelo inquieto e inquietante, ha scelto gli aristocratici: il migliore si mescola a loro, gli unici la cui superiorità ha qualcosa di naturale e di immotivato. Poi la farfalla, invertendo il corso delle cose, si muterà in crisalide, nella più severa delle metamorfosi. 

Chiudendosi in sé, nel buio soffocante della sua malattia e della sua camera, consacrando la sua vita alla composizione di un'opera-mondo come Alla ricerca del tempo perduto, con i suoi sette volumi, da La strada di Swann uscito nel 1913 sino a Il tempo ritrovato, uscito postumo nel 1927. Una vita spesa tra i salotti più celebrati dell'epoca, che Scaraffia descrive con un brio e una simpatia ironica e complice, tra Madame Lemaire, Madame d'Aubernon, tra la contessa de Chevigné nata Sade, discendente della Laura petrarchesca e del Divino Marchese e il conte Robert de Montesquiou, dandy e poeta, finisce per chiudersi, avvilupparsi in se stessa...

In un appartamento borghese, anzi in una sola camera in penombra, con tappeti inchiodati al pavimento, pareti rivestite di sughero, e capsule di cotone imbevute di cera nelle orecchie perché il distacco dal mondo sia ancora più completo. Eppure tutto quel mondo, fatuo e come sopravvissuto, impresta i suoi volti ai personaggi principali della Recherche: Madame Verdurin, la duchessa di Guermantes, il conte Charlus non sarebbero nati se Proust non avesse cercato e frequentato proprio quel mondo. 

Oltre che con gli aristocratici, Proust entra in contatto con politici, musicisti, scrittori: Anatole France, Oscar Wilde, di cui ricorda solo la cravatta color tortora, D'Annunzio, che si esibisce in una battuta tagliente sul povero Fogazzaro, Gide, con cui discute di «uranismo», come allora veniva definita l'omosessualità passiva. E incontra amici come Reynaldo Hahn, musicista, con cui ha la prima relazione omoerotica: è lui che racconta il primo affiorare della cosiddetta memoria involontaria nel futuro scrittore, incantato e perduto davanti a un roseto nella casa di campagna di Madame Lemaire, o come Alfred Agostinelli, l'autista, e Albert Nahmias, il segretario, entrambi confluiti nel personaggio di Albertine.

Ma centrale nella sua vita è la madre, Jeanne Weill, che, conscia del genio del figlio, lo tratta tuttavia come un bambino ritardato: il bacio mancato di mammina a sette anni è fonte di un trauma inguaribile per lui, che alla domanda del questionario: qual è il massimo della infelicità, risponderà: essere separato da mia madre. Prima di morire accudito dalla fedele Céleste, l'ultima parola che pronunciò fu: mamma.

Proust amava dare appuntamenti all'hotel Ritz all'una di notte, dissipare tutto il denaro in mance, come la volta che, a tasche vuote si trovò a chiedere in prestito al portiere 50 franchi, e poi glieli ridiede dicendogli: «Tanto erano per voi!». Amava vestire alla moda della sua giovinezza, foderava di pelliccia i soprabiti e temeva il cilindro in testa perché aveva sempre freddo. 

Eppure quest' uomo di cui Cocteau giudicò vacillante la voce e Colette il passo di «giovanotto di cinquant' anni», divenne l'autore in cui moltissimi riconoscono il più grande romanziere del secolo scorso: tramite la metamorfosi di cui ci parla con acutezza e grazia Giuseppe Scaraffia. C'erano in lui uno squisito e estenuato uomo di mondo, e forse un uomo incalzato da un «vento furioso» come vide Colette. Un artista inquieto e inquietante, che sapeva, come scrisse nel saggio Contro l'oscurità, che «se il poeta percorre la notte, deve farlo come l'angelo delle tenebre, portandovi la luce».

Marcel Proust, una vita a cercare i ricordi dell’anima. SILVIA PERUGI su Il Quotidiano del Sud il 24 Luglio 2022.

Questo non è il ritratto di uno scrittore. E allora cos’è? Questo è il ritratto dello scrittore. La critica letteraria di tutto il mondo si spende da almeno un secolo su Marcel Proust – morto nel novembre di cento anni fa, era il 1922, all’età di 51 anni – dando di volta in volta preminenza ad aspetti diversi dei suoi scritti. Volendo citare alcuni nomi, esclusivamente italiani, di coloro che hanno ragionato su Proust e sulla sua opera, si possono nominare: Giuseppe Ungaretti, Ugo Ojetti, Benedetto Croce, Carlo Bo, Mario Praz, Giulio Carlo Argan, Gianfranco Contini, Alberto Arbasino, Franco Fortini, Alberto Moravia, Pietro Citati.

Proust è come Omero, Eschilo, Platone, Dante, Shakespeare, Cervantes, Joyce. E nessun’altro. Non ha scritto un’opera: ha scritto l’opera. Come l’Odissea, come la Divina Commedia o il Don Chisciotte della Mancia. Alla ricerca del tempo perduto – il romanzo suddiviso in sette volumi; elaborato tra il 1909 e il 1922; pubblicato nell’arco di 14 anni, tra il 1913 e il 1927; i cui ultimi tre volumi sono usciti postumi a cura del fratello dello scrittore; per un totale di 9 milioni e 609 mila caratteri contenuti in 3724 pagine (pagina più pagina meno, a seconda delle edizioni) – è un manuale su come affrontare la vita, in grado di guidare il lettore verso il raggiungimento della saggezza.

A voler mettere subito tutte le carte sul tavolo, è il caso di riferire fin da qui che l’opera di Proust è spesso tacciata di essere particolarmente ostica, complessa, prolissa, ai limiti del metafisico. In una parola: indecifrabile. E in effetti, è anche questo. È il racconto più intimo che sia mai stato scritto. È lo specchio di un’anima. È un percorso ascetico. Un’opera redentrice, per chi l’ha scritta e magari per chi la legge. È il frutto di una cultura omnicomprensiva, in cui filosofia, poesia e religione arrivano a coincidere.

Proust ha saputo dare forma organica ai frammenti dell’esperienza pubblica e privata: citando Contini, l’io proustiano è sia “il soggetto di una limitata, definita esperienza storica irripetibile” (quella di Proust stesso), sia “il soggetto trascendentale di qualsiasi avventura vitale e conoscitiva” (la nostra).

Céleste Albaret – governante dello scrittore e autrice di proprie memorie su di lui – gli attribuì le seguenti parole: “Voglio che, nella letteratura, la mia opera rappresenti una cattedrale. Ecco perché non è mai completa. Anche se già innalzata, occorre sempre ornarla d’una cosa o l’altra, una vetrata, un capitello, una piccola cappella che si apre, con la sua piccola statua in un angolo”. In effetti, il racconto di un’anima non può mai dirsi concluso. Va avanti, per ardite circonvoluzioni, finché essa è in grado di parlare.

Proust nacque nel luglio del 1871 ad Auteuil, un sobborgo parigino che oggi fa parte del XVI arrondissement. Il padre Adrien era un famoso medico e professore universitario, la madre Jeanne discendeva dalla ricca famiglia ebrea dei Weil. Frequentò il liceo, dove iniziò a nutrire la sua vocazione di scrittore collaborando a un periodico studentesco. Dopo il diploma e nonostante la cattiva salute – soffriva di violenti attacchi d’asma sin dai nove anni – prestò servizio come volontario in un reggimento di fanteria dell’esercito francese di stanza a Orléans. Studiò politica e diritto all’università, ma preferì sempre la letteratura, anche grazie all’influsso umanistico che ebbero su di lui la madre e la nonna, grandi appassionate di libri e di musica. Per accontentare il padre, accettò di lavorare come bibliotecario, ma fu congedato per malattia.

Trascorse una vita apparentemente oziosa, frequentando i salotti dell’alta borghesia. Ebbe la reputazione di uno snob, tanto per carattere, quanto per inclinazioni intellettuali. Nel 1903, perse il padre e due anni dopo anche l’amata madre. Soffrì moltissimo. Rimase a lungo in uno stato di avvilimento e di depressione. Ereditò una vera fortuna e visse nel lusso. Il suo stato fisico continuò a deteriorarsi. Praticamente si rinchiuse nel suo appartamento parigino di Boulevard Haussmann, e si dedicò all’opera della sua vita: il racconto della sua anima.

Lontano dalla mondanità, al riparo dalla società francese, Proust riflette sulla memoria, sull’arte, sul tempo, sulla poesia, sull’identità. Indaga il tempo, tracciando una contingenza tra passato e presente. Indaga il funzionamento della mente, cambiando per sempre la narrazione delle percezioni umane.

Nella Ricerca, il narratore presenta una storia intrecciata, sulla base di eventi ed episodi che ne richiamano altri il più delle volte fuori sequenza. Una qualunque esperienza sensoriale, dall’ascolto di una canzone all’assaggio di un particolare cibo, è in grado di suscitare un racconto prima incentrato sull’infanzia e subito dopo sull’età adulta. “E tutt’a un tratto il ricordo è apparso davanti a me”, si legge nel romanzo, “E quando ebbi riconosciuto il gusto del pezzetto di madeleine che la zia inzuppava per me nel tiglio, subito la vecchia casa grigia verso strada, di cui faceva parte la sua camera, venne come uno scenario di teatro a saldarsi al piccolo padiglione prospiciente il giardino e costruito sul retro per i miei genitori (cioè all’unico isolato lembo da me rivisto fino a quel momento); e, insieme alla casa, la città, da mattina a sera e con ogni sorta di tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove facevo qualche commissione, le strade percorse quando il tempo era bello”.

I ricordi, i frammenti del passato, come piccoli pezzi di un puzzle si combinano in modo progressivo fino a comporre l’intera opera. L’immenso edificio del ricordo – la cattedrale in continua costruzione – si impone come vincolo identitario, memoria extratemporale inconscia e inattesa che viene utilizzata al servizio dell’arte. Proust ricrea il labirinto della sua – della nostra – mente, in maniera disarmante e potente racconta il mondo interiore attraverso i ricordi sepolti.

C’è un saggio del 1998, dello scrittore Alain De Botton, che si intitola Come Proust può cambiarvi la vita. Si tratta di una guida esistenziale per il conseguimento di una felicità quotidiana, e si ispira al grande scrittore francese, sensibile compagno dell’anima oltre il tempo e lo spazio. Colui che è riuscito non tanto a rappresentare emozioni e persone simili a quelle della nostra vita reale, ma piuttosto a descriverle molto meglio di quanto saremmo mai in grado di fare, e addirittura, a farci scoprire nostre percezioni che non avremmo mai potuto cogliere altrimenti.

Il questionario su Proust. Cosa sapete di Madame Verdurin, del caro Swann e delle madeleine? Ilaria Gaspari su Il Corriere della Sera il 20 Luglio 2022.

Viaggio nel “romanzo montagna” dello scrittore francese, che ha indagato come nessun altro nel mistero della memoria. Un universo mitologico, che ci permette di decifrare il mondo in cui viviamo proprio attraverso le sue cosmogonie, le sue divinità e le sue leggi. Provate ad affrontare le domande, mettetevi alla prova. 

Vi è mai capitato di sognare un viaggio tanto a lungo da trasformare l’arrivo alla meta in una sorta di ritorno a casa? A me sì, quando sono stata in Normandia. C’erano cattedrali scoperchiate sotto nuvole irrequiete, che si squarciavano in un abbacinare di sole sui prati. C’erano vacche floride e steccati, e piccole strade di campagna ai cui margini le case imparruccate di paglia - che parevano catapultate fuori da un libro di fiabe - si lasciavano crescere, proprio in cima, sulla scriminatura, aiuole sospese di iris che parevano diademi: la cosa più bella fu venire a sapere che quella straordinaria idea ornamentale non nasceva da nessun proposito decorativo ma da quello, ben più prosaico, di mantenere umida l’argilla che cementa i tetti. C’era un mare nordico, tempestoso, scogliere a picco e le luci violente di sere che calavano lente; e poi ancora, altre cattedrali, altri prati, altre campagne.

E c’era un luogo che portavo nel cuore perché, senza averci mai messo piede, io c’ero già stata: ci avevo passato un’estate intera, e poi ancora un’altra. Senza che nessun cartello stradale indicasse il nome con cui lo conoscevo, io ritrovavo le curve del percorso, la luce, il sentore di sale nell’aria, via via che ci avvicinavamo.

E all’improvviso ero, secondo le mappe e la segnaletica, a Cabourg, cittadina di mare con la spiaggia bionda contro le onde lunghe, gli ombrelloni protetti da teli a righe bianche e blu per schermare il vento. Ma ero anche, malgrado Google maps non lo riconoscesse come un fatto, a Balbec, indietro di centovent’anni; a Balbec che sulle carte geografiche non esiste, ma esiste nella testa e negli occhi di chi, com’è successo a me, si è innamorato del romanzo più lungo del mondo, Alla ricerca del tempo perduto.

Nel secondo volume, All’ombra delle fanciulle in fiore, il Narratore va in villeggiatura con la nonna proprio a Balbec; e ci tornerà poi ancora, a cercare tracce di una Francia sommersa nei grandi relitti delle cattedrali, ad accostarsi per via di intermittenze del cuore al grande mistero del tempo e della morte, e del desiderio che forse, chissà, riesce in qualche modo a domarli. Soggiorna al Grand-Hotel di Balbec, che è Cabourg travestita, con elementi aggiunti piluccando la realtà di altri luoghi reali con il disinvolto sincretismo con cui questo monumentale romanzo riesce a dar vita a un mondo immaginato ma tanto simile al nostro.

Come un sogno, o forse, meglio: come un universo mitologico, che ci permette di decifrare il mondo in cui viviamo proprio attraverso le sue cosmogonie, le sue divinità e le sue leggi. Per questo motivo sostenere che la Recherche cambi la vita non è un’esagerazione, come potrebbe sembrare, né un luogo comune. Cambia la vita perché cambia la vista; offre occhiali nuovi, occhiali che non sempre correggono i difetti dei nostri occhi, anzi, che qualche volta li accentuano, ma sempre ci sfidano a guardare, a indagare. Le lenti di questi occhiali sono nascoste, come in una caccia al tesoro, fra le pagine, perché le troviamo nel dischiudersi delle metafore che i detrattori di Proust trovano oziose, ma che oziose non sono: sono altrettante chiavi che ci vengono donate per moltiplicare i livelli del reale. O nelle analisi psicologiche condotte con il rigore e l’umorismo dei grandi moralisti francesi; nei turbamenti che Proust ci fa sentire come se anche noi, con il nostro respiro sfidato dalla complessità di periodi interminabili e perfetti, stessimo vivendo le minuscole vibrazioni di una vita non nostra, che ha avuto la generosità e il coraggio di offrirsi come testimonianza dell’impresa indescrivibile a cui tutti siamo condannati - vivere, e vivere nel tempo.

Nei mesi scorsi la mia passione per l’opera di Proust, unita a una di quelle forme di incoscienza che le vere passioni sanno ispirare, mi ha portata a lavorare a un podcast sui temi principali della Recherche, ma anche sull’eredità che Proust ha lasciato. Ho parlato con chi ama il mastodontico romanzo al punto da aver deciso di dedicargli una vita di studi; con chi ha curato le edizioni con acribia, con chi l’ha letto tanti anni fa e ricorda solo le pagine che hanno risuonato nel suo cuore; con chi coltiva un vero culto per questa religione laica, letteraria, e la onora per slanci; o, in forma più ortodossa, adorando pure le minuzie biografiche, gli aspetti antiquari della storia; ma anche con chi è spaventato dalla mole impervia del romanzo e si rifiuta, quindi, di incominciare la scalata. In molti mi hanno detto che il loro sguardo era stato cambiato dalla lettura come da un’esperienza irreversibile; qualcuno addirittura se n’è quasi pentito, come avesse perso l’innocenza.

Sono passati cent’anni da quando è morto Marcel Proust, tanto amato da chi lo ama ma forse non sempre compreso quanto sarebbe auspicabile, anche semplicemente perché incute un po’ di diffidenza, se non di paura, un romanzo che entra nel Guinness dei primati come il più lungo mai scritto; o magari perché ha fama di essere un autore snob, difficile. Una fama che sarebbe bene scrollargli di dosso: come sostenne Ingeborg Bachmann in un saggio trasmesso per radio da un’emittente tedesca alla fine degli Anni 50 (una sorta di podcast ante litteram), è persino un po’ assurdo che questa nomea lo circondi. Arricchirebbe tutti, smettere di considerarlo un autore d’élite, e vedere che gigantesco scrittore rivoluzionario è stato, lui che ha saputo realizzare l’incanto delle Mille e una notte: dilatare il tempo, sconfiggere la morte. E capire che con il romanzo-montagna, forse, si può anche giocare: sfidarsi a scoprire quanto lo si conosce.

·        Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis.

Gian Paolo Serino per Dagospia il 22 marzo 2022.

Più che una “bellavitis” una vita da film: da Michele Sindona a Giulio Andreotti, dai furti a Villa D’Este a Cesare Romiti, dal figlio di Gheddafi agli industriali finiti in prigione e in associazione con l’Ndrangheta: trema la Milano che conta messa a nudo da Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis che nella sua autobiografia Aristocrap (alla lettera: “Aristocrazia di merda”, prefazione di Nicolai Linin, in uscita oggi per Santelli editore) racconta l’inferno di essere sorella di Emanuele Savoldi Bellavitis detto “Il Conte Mitra” e ex moglie di Giulio Romagnoli, imprenditore immobiliare “alcolizzato e violento”.

Non risparmia tantissimi personaggi nella Milano dei Vanzina raccontati in modo spietato come una “aristocrapzia” dove la nobiltà non ha più alcun titolo  - se non gli araldi “ormai fuori dal tempo” - ed è costretta a stringersi in matrimonio con l’alta borghesia “cinica e ambigua, senza più umanità e incapace di discernere tra il bene e il male”.      

L’autrice non risparmia nessuno in una storia che sarebbe perfetta per un film o per una serie tv (altro che “House of Gucci”!): a partire dal fratello Emanuele, ladro di opere d’arte condannato a nove anni (poi cancellati dalla prescrizione) per una serie di furti commessi su commissione tra la metà degli anni Ottanta e la fine dei Novanta, gioielli e pellicce per non meno di 7 miliardi di lire. Quadri e mobili antichi trafugati anche dalla collezione di Villa d'Este. Il Grand Hotel  a Cernobbio, Como, gestito ai tempi dei fatti da Jean-Marc Droulers: tele di Corot, Lancret, Hebert. 

“Il Conte Mitra” Emanuele fu smascherato da una lettera anonima ai carabinieri che ne segnalava la passione smodata per le armi automatiche: ne vennero sequestrate 170, compresi kalashnikov e uzi oliati e funzionanti, in mezzo ai quadri. Ne aveva fatto un museo privato, insieme al nonno Claudio: “furti  commessi soprattutto ai danni della contessina Marie Antoinette Castellano Labadini, ex moglie del “conte mitra”.     

La sorella Mariacristina non risparmia in niente il fratello: “un vigliacco che dichiara di aver combattuto in Afghanistan a fianco dei talebani e non ha fatto nemmeno il servizio militare”. Continua la scrittrice: “a dieci anni mi obbligava a vedere film porno” e “convertito all’islamismo” lo “scorso dicembre l’appartamento della sua convivente Emilia Dizioli è stato perquisito dai carabinieri di Brescia e della DDA, il Dipartimento distrettuale antimafia, all’interno della maxi-operazione Scarface.

L’indagine è ancora coperta dal segreto istruttorio” mentre la sua convivente è “indagata con l’accusa di essere la stretta collaboratrice di Francesco Mura, un imprenditore proprietario di tv private, che avrebbe stretto rapporti con il clan della ‘Ndrangheta Barbaro- Papalia”.

A quanto si legge, in una autobiografia che appare talmente avventurosa che si legge come un romanzo, tra l’altro ottimamente scritto, all’autrice non è andata bene neanche sul fronte del matrimoni con “Giulio, ultimogenito della famiglia di Vincenzo Romagnoli, immobiliarista lombardo a capo della Holding che controllava l’Acqua Pia Antica Marcia Spa (gestione acqua e elettricità nella Roma degli anni ’80, la Bastogi (al centro negli anni ’70 di una scalata da parte di Michele Sindona) e poi finanziarie, assicurazioni, il network televisivo Odeon Tv, trenta cinema a Roma e la storica casa cinematografica Titanus”. 

“Prima del matrimonio con suo figlio Giulio”, leggiamo, “mio suocero Vincenzo era già toccata una via Crucis: finì nelle indagini di Tangentopoli e nelle patrie galere”. Sin dal pranzo di nozze, al “Circolo del Giardino” di Milano, il matrimonio rischiava di annegare nell’alcool: “La prima notte mi chiusi in camera a chiave: urla, minacce, pugni sino a sfiorarmi la faccia”.                                                                

Passava molto tempo nella casa di famiglia Romagnoli: con la madre “amante dell’esoterismo”, i fratelli di Giulio, Giovanna ed Enrico Romagnoli tutti “incapaci di usare un linguaggio diverso da quello che implicava i soldi”. In quella casa era stata “presa a benvolere da Giulio Andreotti: mi chiamava ganascina e con lui giocavo a Gin Rummy, perdevo sempre” e “incontrai anche Cesare Romiti noioso, banale e sopravvalutato”.

Poi divorziata ha intrapreso diversi lavori di pubbliche relazioni sino a diventare assistente personale di Saadi Gheddafi: capace di spendere in pochi minuti e per due valigie 300 mila euro da Gucci in via Montenapoleone, di volere a tutti i costi una vasca di squali nel suo bagno (per poi farli arrosto e mangiarli), di voler entrare in serie A come calciatore del Perugia.   

Un’autobiografia che non ha il passo della vendetta, ma è il racconto di una Milano crudele e spietata che dagli anni da bere è finita con il bersi la dignità che l’ha sempre contraddistinta come “capitale morale”. Di cosa non si capisce, almeno leggendo le pagine di questo che è un romanzo di conti decaduti e imprenditori incapaci, di verità talmente nascoste da sfiorare la finzione.

·        Marcello Marchesi.

Dagospia il 9 agosto 2022. Estratti da “Diario Futile di un signore di mezza età”, di Marcello Marchesi (ed. Bompiani), pubblicati da “il Fatto quotidiano”

C'è chi si sente giovane perché, in cinquant' anni, non ha combinato niente e c'è chi si sente giovane perché tutto quello che ha combinato l'ha dimenticato. È il caso mio. Ma procediamo con disordine. Il disordine dà qualche speranza, l'ordine nessuna. 

Incontro J. Regista dei film Sexy. È disperato. "Ventisei metri di nudo mi hanno tagliato, capisci? Ventisei metri di nudo". "E che era? Un'elefantessa?". 

"Ah! come sto bene! Oggi mi sento proprio colpevole. Ieri sera avevo ancora un piccolo complesso di innocenza che mi tormentava, ma dopo il vostro trattamento suggestivo notturno, è passato. Meno male. Che bello sentirsi totalmente, incondizionatamente colpevole! Scusi, dove ci si confessa? Qui? Grazie!". 

Fiuggi '58. Con l'ottavo bicchiere in mano sto lì. Mi viene incontro Peppino De Filippo, ma più giovane e grassottello. È Ennio Flaiano. Dice che vuole scrivere una commedia, Caffè e antipatia, l'antitesi esatta di Tè e simpatia. È la storia di un uomo normale, che si vede lentamente mettere al bando dalla consorteria degli "altri". L'anormale è lui. Ascoltandolo, arrivo al nono bicchiere. Al decimo mi ribello. Basta acqua! Perché soffrire? perché consegnare alla Nera Signora un corpo curato? Se glielo dobbiamo dare, diamoglielo il più malandato possibile. Avrà fatto un cattivo affare. La cosa finisce a fettuccine "in quantità industriale" e abbacchio in piatti alla Salomè.

"L'angoscia mi scompensa" dice M. "Dimentico atti necessari, do importanza ai futili, ricordo persone antipatiche e sento urgenze inesistenti. Giro intorno a una parola come un somaro alla mola, non riesco a evitare la rima. Sono tutto da spremere, tutto mi dà spunto, ma fino all'angolo... dietro non so. Sfarfallo di pensiero in pensier, di niente in niente, e mi par d'essere un genio a rate. Invecchio. La mente mi precede, non so tenerle dietro. Ancora qualche anno e la guarderò agire per conto suo, me immobile". 

Concert Mayol. Esposizione stanca di sederi. Mulatte col nerofumo sotto i seni. Quante appendiciti! Odor d'olio d'arachide, di nero, di dolce disinfettante. La pianista e gli altri orchestrali hanno le facce di quelli che suonano nei caffè di Torino. Casalinghe e un po' rassegnate. Quando finisce era ora. 

A quarant'anni l'uomo fa il punto. A cinquant' anni fa la virgola, e con il punto e virgola può continuare, seppure faticosamente, il periodo delle sue riflessioni. 

Quel tipo di mogli che sposano il portafogli. 

Una vita idiota, tutti i giorni le stesse azioni, gli stessi incontri, le stesse facce. Eppure tiene un diario minuziosissimo. Per assicurarsi il suo alibi giornaliero. Non si sa mai.

Il commediografo P. è furente.

"Ho scritto una commedia con un titolo formidabile" grida "e non posso rappresentarla. La commedia è intitolata Lingua in bocca. Devo cambiare titolo. Perché? La lingua dove sta? In bocca, no? La bocca è il suo posto naturale. Nossignore, non vogliono. Valli a capire un po' tu, quelli là, valli a capire!". 

È un tecnico del sedere. Studia sedie moderne, che non sembrano sedie, ma che sono più comode delle sedie. Peccato che nessuno ci si sieda, perché è difficile prenderle per sedie. 

Chi si indigna più oggi? Al massimo, in certe occasioni, uno può sentir vibrare tutte le fibre tessili del suo vestito. 

Fellini 8½: il posto delle fregole. 

Abbiamo un nuovo ordine religioso: i cappuccini Hag.

Viene in ufficio una madre un po' mesta con una bambinetta compostina e distratta. La madre desidera che faccia del cinema, comunque. 

"Ha disposizione," chiedo "inclinazione?".

"Come no? Da piccola stava sempre tutto il giorno nuda davanti allo specchio".

"È un cretino, ma ogni tanto ha un lampo".

"Di genio?".

"No, riceve un telegramma lampo in cui gli confermano che è un cretino".

"Ah, io il giornale lo leggo a modo mio" dice il vecchietto. "Leggo solo gli annunci funebri e gli spettacoli. Se è morto qualcuno che conosco vado al funerale, se non è morto nessuno vado al cinema". 

Ed ecco Mina con quella faccia di bambola spaventata trovata in solaio. 

F. a forza di andare a sinistra ha fatto il giro e si è ritrovato a destra.

Milano. Vivo in una città occupata da gente occupatissima. 

Camminano tutti svelti, guardano le donne solo dopo le nove di sera. Questa città si sveglia ogni giorno un minuto prima. Qui gli uomini di affari ti dicono le cose delicate in automobile, su quattro ruote che girano a cento all'ora, coi paracarri che passano veloci. I paracarri non hanno orecchi. In questa città la gente viene a sapere che è primavera dai manifesti: "È primavera, cambiate l'olio al motore". È l'unica città in cui ho sentito tossire gli uccellini. In questa città parlano latino: "Te laùret semper".

Una mano lava l'altra e tutt'e due rubano.

Chi tardi arriva male posteggia. 

Missino: un tipo per bene, un tipo perbenito. 

Comperate, comperate: ma state attenti: la sedia elettrica non è un elettrodomestico. 

Ma sì, tagliamo gli alberi, i paracarri, i pali, abbattiamo le case, le colline. Rendiamo la terra tutta una calva autostrada, una pista totale per il carosello degli automobilisti. Finito il petrolio, sulla terra resterà una crosta di macchine. 

·        Marco Giusti.

Francesco Melchionda per perfideinterviste.it il 24 novembre 2022. 

Da tempo, baluginava nella mia testa l’idea di intervistare Marco Giusti. Nel mare delle banalità profuse a iosa e del conformismo nauseante spacciato per critica, "Il cinema dei Giusti" – così si chiama la sua rubrica quotidiana che il Nostro tiene, da anni, sulle pagine di Dagospia – è una galleria di personaggi, scene, orrori, bellezze. 

Ideatore, insieme a Ghezzi, di Blob, negli ultimi quarant’anni Giusti ha attraversato l’oceano tempestoso della tivù italiana con grande abilità e capacità. Ma  è stato il cinema il suo vero amore! 

A differenza di tanti sapientoni boriosi, che affollano il mare magnum della carta stampata, la penna di Giusti scivola leggera sulla carta; chi vuol capire qualcosa, lasci perdere i quotidiani e i suoi recensori che, a lingue spiegate, ci dicono cosa dobbiamo vedere, e cosa no; cosa è bello o brutto, o, come sovente capita, cosa è giusto o sbagliato; oppure, sorbirci panegirici infiniti sul grande (?) attore o sul regista così ben voluto da tutti… 

Ogni giorno, da decenni, non fa altro che vedere e scrivere, fino allo sfinimento, film alti e film bassi, giudicare premi Oscar e attori mediocri (tanti), con uno sguardo critico, a volte duro, ma sempre, o quasi, con una vena di tolleranza e, direi, benevolenza.

Giusti, dal divano di casa, o da una scomoda poltrona di cinema sempre più tristi e deserti, ci narra un’altra storia, probabilmente la più fedele e vicina alla realtà delle cose. Conosce tutto e tutti, ma, al netto di amicizie,  idiosincrasie, ed errori (spesso confessati), non puoi non apprezzare la sua onestà intellettuale, e la sua autonomia di giudizio. La sua penna risponde alla sua coscienza e non, di certo, alle cricche o conventicole così numerose nella Capitale 

La sua memoria, elefantiaca, spolvera storie spesso dimenticate. Nelle circa due ore di chiacchierata, ho provato ad aprire l’armadio della sua vita. Giusti è stato sornione come un gatto, a tratti guardingo, probabilmente, voleva capire chi fossi e cosa volessi da lui. Sarò riuscito a descriverlo per com’è? Chissà…(...)

Ha detto, in un’intervista, che fino all’età di 25 anni non ha aperto quasi mai bocca per via della sua balbuzie… Come ha affrontato il mondo?

Male, direi. Ho sempre trovato nei miei fratelli o nei miei genitori qualcuno che parlasse per me. Anche quando ho fatto coppia fissa nel lavoro con Enrico Ghezzi, parlava sempre lui, cercavo sempre di defilarmi, di nascondermi. Ora parlo, male, ma parlo…

Come nasce la sua balbuzie?

Esattamente non lo so; sono stato un bambino molto timido. Ne soffrivo quando ero in compagnia di uomini più grandi me; e, poi, si dice che capiti quando uno pensa troppo velocemente rispetto a come parla… 

Ha sofferto e soffre ancora?

All’inizio sì, molto; poi me ne sono fatto una ragione, e non l’ho mai voluta vedere come una cosa negativa, anzi. Penso di essere stato, in Italia, l’unico presentatore con questo problema…

A che età ebbe il suo primo rapporto sessuale?

A 21 anni… 

Se lo ricorda? E’ stato un po’ tardivo, lei…

Certo che me lo ricordo! Ero a Genova… Ed è stato quando ho avuto la mia prima storia d’amore. La distanza tra una casa e l’altra era minima, e quindi ricordo pure che in un appartamento vicino, dei signori vedevano un film:  "Carosello napoletano", di Ettore Giannini…

Scusi, Marco, per seguire il film vuol dire che il rapporto sessuale fu disastroso…

Beh, non ero un grande amatore…

Aveva ascendente sulle donne?

Da giovane ero molto carino, magro, ma completamente imbranato. E avevo il mito che sesso e amore non dovevano essere due cose scisse. Ero per le storie "per sempre"… 

E oggi, guardandosi allo specchio, si piace come uomo?

Certi giorni sì, altri no. Direi che cerco ancora di abituarmi a me stesso. 

E’ Alessandra Mammì, sua attuale moglie, la donna della sua vita?

Assolutamente sì!

Che rapporti aveva con il papà di Alessandra, Oscar Mammì, potente ministro della Prima Repubblica…?

Negli anni in cui è stato ministro e esponente di spicco della Prima Repubblica, era decisamente chiuso dentro se stesso, un po’ arrogante, come tutti i politici. Quando si ritirò a vita privata, era molto più umano, vicino, affettuoso. Ho un bel ricordo. Ero molto legato a Oscar.

Da barricadero illuso di sinistra, mal sopportavi, quindi le sue frequentazioni e alleanze politiche?

Mai stato né barricadero né illuso di sinistra. Ma, a differenza dei figli, pensi, una volta o due l’ho anche votato! E Craxi, Andreotti, potevano non piacere, ma erano delle personalità! Quando facevo Blob, erano anche presi di mira, sbeffeggiati, però avevano una statura internazionale che non potevi non vedere. 

Chi la raccomandò per entrare a viale Mazzini?

Inizio a lavorare in Rai, sul finire degli anni Settanta, seguendo Ghezzi, che era entrato con un concorso; prima a Genova e poi, seguendo Enrico, finisco a Roma a Raitre, con Angelo Guglielmi. Poi, quando nel 1996 arriva Carlo Freccero, mi sposto definitivamente sulla seconda rete e vengo assunto come dirigente. 

Aldo Grasso, a proposito di Freccero, ha scritto: "Ieri situazionista, oggi sovranista: replica il mondo e al tempo stesso lo assoggetta alla furia combinatoria. Assume le sembianze delle persone con cui entra in contatto: a pranzo con Di Battista spiega a Di Battista come essere Di Battista; con il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano parla il sangiulianese; al presidente Foa spiega come si fabbricano notizie al servizio dei governi ed elogia Putin…"

Condivide l’analisi di Grasso?

Freccero ha una personalità complessa, ha grande intelligenza, ma non sempre condivido le sue scelte. Ma seguito a volergli molto bene. E’ come un fratello per me.   

Lei che rapporti ha avuto con Freccero? Non è un sopravvalutato?

No. E’ stato il miglior direttore di rete che la Rai abbia mai avuto e che io abbia mai avuto. Il più moderno, il più spericolato, ma anche il più innovativo. La cultura televisiva deve molto a Freccero. Ci ha insegnato come fare televisione. Al di là della teoria, quello che abbiamo appreso era tutto molto pratico. Le potrei fare mille esempi. E era impossibile non sentirne il fascino. Specialmente la prima volta che è stato direttore di Rai Due, è riuscito a rinnovare profondamente la Rai. (…)

 Perché litigò con Ghezzi? Cosa combinò lei?

Quando si è in due e c’è un grosso successo, è molto difficile che il rapporto resista. 

Chi sbagliò di più?

Tutt’e due, probabilmente. Era diventato impossibile convivere con Enrico. Era tutto teoria, in sfida perenne con il mondo e con se stesso. Si sentiva troppo, troppo bravo rispetto a quello che faceva, ma al tempo stesso aveva molte fragilità. Alla fine mi ero stancato di reggergli il bidone, di fare il lavoro per lui. Detto questo, però, gli devo molto, anche sul lavoro. 

Riusciva a lavorare liberamente in Rai?

Assolutamente sì! Ho sempre fatto quello che cazzo volevo! Sono stato sempre molto abile a reinventarmi con ogni nuovo direttore, qualsiasi fosse il suo credo politico. Inoltre, i miei programmi, specialmente negli ultimi vent’anni non davano molte noie politiche…

Ma, scusi, Marco: Blob non vi creava rogne?

Blob era un programma che andava in onda su Raitre, la rete di Angelo Guglielmi. Era un programma totalmente protetto dalla rete e da Guglielmi. Un programma che oggi non si potrebbe più fare.

Mi sta dicendo che eravate intoccabili?

Più che noi, era Blob, l’intoccabile. Detto questo, qualcuno ci provò. Ricordo che una volta mi diedero 10 giorni di sospensione perché avevo fatto un montaggio contro Berlusconi. Diciamo che se sai nuotare, riesci a sopravvivere…

Una volta ha detto: "Davanti al trash non resisto". Da dove nasce questo feticcio? 

Perché sono attratto dalle cose folli e assurde, e nei film e nei programmi. Più la cosa è strana, bizzarra, popolare, più il mio pollice diventa verde. 

Quando Stracult chiude i battenti, nel 2020, dichiara: "Forse non piace al direttore di rete…" Non ha pensato minimamente che con il 2% di audience fosse difficile andare avanti?

Ma è l’audience che ha sempre fatto Raidue, nella programmazione notturna! Se pensi che il programma di Ilaria D’Amico in queste settimane sta facendo il 2,2 di ascolti. E Stracult non costava niente. Quindi?

Qualora fosse vero quello che lei mi sta dicendo, come se la spiega allora questa chiusura?

Beh, da un lato ero prossimo alla pensione, e dall’altro mi propongono di condurre Stracult con Pino Insegno, uomo vicino a Giorgia Meloni… Gli dico: non voglio fare un programma con Insegno, a un mese dal mio pensionamento, e rovinarmi una "fedina penale" immacolata… 

E lei, mettendo da parte la miopia o la non voglia del direttore di Raidue, che errori ha fatto, conducendo Stracult? Non era magari un programma un po’ moscio?

Non credo proprio. E’ stato un programma importante perché ha fatto uscire personaggi e film che erano stati dimenticati e che non avevano mai avuto occasione di parlare. E oltre ai personaggi e ai singoli film era proprio un tipo di cultura, diciamo popolare, che era stata completamente sommersa da quella considerata di maggior pregio perché legata al cinema d’autore. Ovvio che nel tempo un po’ di questa carica si sia perduta, ma non ho mai visto Stracult come un programma moscio. Nessuna rete aveva un programma così fuori dal normale come Stracult. 

La televisione dà sempre una grande visibilità… Da quando le hanno chiuso Stracult, il suo cellulare squilla ancora tanto? Si narra che negli anni della sua conduzione, il suo telefono squillasse tantissimo…

In effetti, il mio telefono è completamente morto… Tutto sommato, meglio così.

L’hanno delusa le persone che hanno smesso di cercarla?

No, per niente. L’avevo messo in conto. E’ la vita. 

Da chi si è sentito usato negli anni della sua massima popolarità? 

Da nessuno, mi creda. Le persone che hanno lavorato con me, e che ho sempre scelto liberamente, sono le stesse che avrei voluto a cena, a casa mia…

Di quale programma va meno fiero, e perché?

Di un programma che si chiamava "Scalo Settantasei". Meno fiero perché ho potuto fare poco, e sperimentare ancora meno. Era un programma che non era mio, dove sono stato chiamato. Ma in generale ho sempre cercato di farmi piacere tutto. 

Quale artista, o presunto tale, che hai lanciato in tivù, ti ha dato maggiori soddisfazioni?

Andrea Delogu, senza dubbio. Ma non posso dimenticare Max Giusti, Paolo Ruffini, Lillo&Greg, che, comunque, stavano facendo già un loro bellissimo percorso.  

Il più bravo tecnicamente?

Max Tortora era tecnicamente pazzesco. E come presentatore credo che Paolo Ruffini possa ancora dare moltissimo. 

Ci può spiegare l’amore per il cinema?

Perché sono nato e cresciuto nei cinema. Ma ora, in realtà, odio il cinema, non ne posso più…Ne ho visti troppi, di film…!

Quanti? 

Boh? Diciamo circa 50mila… Ma il punto, ad essere onesti, è un altro: di quanti film visti e stravisti ricordo ancora qualcosa? 

E che risposta si dà?

Che ricordo, paradossalmente, quelli visti da giovane… 

C’è n’è qualcuno che ha lasciato un’impronta, una cicatrice, nella sua vita?

Sentieri Selvaggi, i Cavalieri del Nord-Ovest di John Ford; se fossi nato negli anni di Tarantino, ricorderei senza dubbio di più i film di Sergio Leone… 

Come nasce la sua collaborazione con Dagospia? Nessuna la sopportava nei giornali?

All’epoca collaboravo con Il Manifesto, ma avevo scritto un po’ ovunque, sull’Espresso per esempio. Roberto aveva, da poco, fondato Dagospia. E non ci sembrava, a noi che scrivevamo sui giornali, qualcosa di solido e di possibile. Piano piano però le cose stavano cambiando e Dago aveva visto prima degli altri quello che sarebbe capitato all’editoria. Quando mi propose di scrivere per lui, ebbi qualche esitazione. Anche perché il mondo del web lo conoscevo poco, pochissimo. Poi mi dissi: ma in fondo Roberto mi lascia assolutamente libero di scrivere quello che voglio, perché rinunciare? In tanti anni ho sempre scritto quello che volevo con la più totale libertà.

Christian De Sica ha detto: spesso alle nostre prime, i critici si sbellicavano dalle risate, poi, leggendo i loro articoli, erano di una ferocia assoluta". Anche lei era così ipocrita?

No, per niente! Sono stato, probabilmente, il primo, e l’unico, a parlare bene di certi film che mi facevano ridere. Andando contro tutti. Ho sempre amato i cinepanettoni e il cinema "scorreggione"… 

Come mai la critica cinematografica, in Italia, verso in uno stato pietoso? Mai una critica, mai un azzardo, solo banalità e applausi scroscianti… Come se ne esce?

Perché, con la chiusura delle riviste specializzate, la critica cinematografica ha perso verve, forza, e ci si è un po’ ripiegati… Di conseguenza, il lavoro di analisi profonda sui film, sugli attori o sulla fotografia è diventato sempre più superficiale. E’ difficile, oggi, che un film faccia discutere, o che crei dibattito. E’ solo un: ti è piaciuto o non ti è piaciuto?

Una cosa che mi ha molto colpito è stato l’atteggiamento che i critici italiani e il mondo del nostro cinema hanno avuto nei confronti di Luca Guadagnino. Quando uscivano i suoi film non piacevano proprio. Ero il solo o quasi che lo abbia sempre accanitamente difeso e ci ho visto bene. Anche rispetto a Checco Zalone, l’ho sempre molto appoggiato.  E sono contento che Dago abbia appoggiato questo tipo di battaglia culturale. Ricordo che quando il film di Guadagnino "A Bigger Splash" andò alla mostra del cinema di Venezia, si poteva cogliere quasi l’odio, il disprezzo negli occhi di chi faceva cinema in Italia… Quando venne candidato all’Oscar, ovviamente, le cose cambiarono. 

E perché, secondo lei?

Perché Luca riesce a fare con budget limitati film internazionali, e, non da ultimo, il fatto di non stare nel giro del cinema romano…

E qual è, scusi, il giro romano che conta per lavorare ed essere apprezzati?

E’ il giro di chi fa cinema da anni e difende i propri interessi.  

Chi sono i produttori più permalosi e allergici alle critiche? 

Quelli che mi vorrebbero menare?  

Esatto, o quelli che alzano la cornetta per dirle che ha scritto delle stronzate…

Mi è capitato parecchie volte. E confesso che non sempre avevo ragione io. Uno di quelli che si è lamentato con me è stato Malcom Pagani che, una volta, mi chiamò per dirmi che era meglio se non avessi scritto nulla di un suo film piuttosto che scrivere cose negative… 

… E che film era?

Quello su Ornella Vanoni: purtroppo inguardabile… Ma non ne ho scritto. Ho fatto una battuta e si è arrabbiato. Pazienza. Invece ho fatto pace con la regista. 

E altri?

Beh, Pupi Avati , in effetti, mi detesta proprio…

Perché, cosa ha combinato?

Perché i suoi film sono brutti. Non riesco a farmeli piacere. E poi non posso non citare Elisabetta Sgarbi: anche i suoi film non mi piacciono proprio. E pretende pure che vadano ai festival…!  

E uno dei film più brutti visti recentemente? 

La terza parte di "C’era una volta il crimine" di Massimiliano Bruno, uno dei film più brutti che abbia mai visto ultimamente… E dire che gli altri film di Massimiliano Bruno mi divertono. Questo non è riuscito. Ma il mio divertimento non è solo giudicare liberamente i film che vedo ma, anche, scrivere sui gusti dei nostri critici, a partire da Mereghetti, del Corriere della Sera.  

De Laurentiis?

Aurelio è prepotente, si sa, ma, nonostante tutto, abbiamo un ottimo rapporto… 

Perché è prepotente? Cosa vuole da lei? Cosa le chiede?

E’ autoritario di carattere. Cosa vuole? Nulla. Ma è uno dei pochi produttori italiani, anche se oggi produce molto poco, che ti chiamano, ti stimolano, parla con la critica.  

E gli attori? Quali sono quelli verso i quali non prova grandissima stima, ed uso un eufemismo?

Perché mi fa questa domanda?

 (...)

Prima lei mi ha citato più volte Guadagnino; e di Sorrentino, cosa pensa? La sua fama è tutta meritata?

Quando uscì la Grande Bellezza, trovai il film irritante, e i rapporti, ovviamente, s’incrinarono. Paolo se la prese, forse a ragione, perché io non fui per niente tenero… Mi sembrava che lui non avesse capito né Roma né i romani. E forse esagerai. Per fortuna poi ci siamo riavvicinati, anche perché ho molto apprezzato le sue due serie, "The New Pope", e anche "Loro". Sorrentino è uno dei pochi registi italiani che riesce a muoversi con totale libertà. Nel nostro cinema può davvero raccontare di tutto esattamente come vuole.

Reputa Sorrentino un regista sopravvalutato, intoccabile?

No. Anche se certi suoi film possono non piacermi. Ma ha avuto e ha il giusto successo. Non è facile arrivare all’Oscar. E ancor meno facile è non venirne schiacciati. Sorrentino sa esattamente cosa vuole e sa come ottenerlo. Massima stima.

(...)

Serie e fiction prodotte a iosa non pensa siano diventate, ormai, una sorta di ufficio di collocamento per attori frustrati e mediocri?

A parte che anche gli attori frustati e mediocri hanno diritto di lavorare, mi sembra vero il contrario. Tante serie sulle piattaforme servono per lanciare e scoprire nuovi talenti. Pensi allo strepitoso cast di Gomorra… 

Qualche giorno fa tutti i giornali, a reti unificate, e con la lingua di fuori, hanno venerato Roberto Benigni, per i suoi settant’anni. Lei cosa pensa del toscano? Come mai da decenni ha perso quello smalto che tanto l’avevano rese celebre?

Come tutti quelli che vincono l’Oscar, anche Roberto, con tutto il successo internazionale che ha avuto, doveva inevitabilmente chiudersi un po’ a riccio. Se la popolarità ti soffoca, ti chiudi e rischi. Ma a settant’anni, siamo onesti!, è impossibile pretendere ancora creatività e freschezza esplosive. Detto questo, dopo Totò, metto proprio Benigni, Troisi, Verdone forse i più grandi attori comici che abbiamo avuto. Benigni giovane a teatro era un vero e proprio spettacolo. Mi dispiace che le generazioni più giovani non lo abbiano visto. 

Le è mai capitato di scrivere un articolo e poi vergognarsene?

Mi è capitato di scriverlo e poi cestinarlo, perché offendevo qualcuno o scrivevo qualcosa di sbagliato… Ma scrivendo sul web, così tanto e  così in fretta, si commettono anche molti errori. 

Entri nei dettagli; si ricorda i destinatari delle sue invettive? 

No. non voglio fare nomi. Si fanno degli sbagli per la fretta… e ti capita di dire cose che pensi, ma che non vanno per questo sempre scritte.

Crede ancora che quello che scrive ha ancora un significato? Non le capita di chiedersi: ma a chi interessa veramente quello che scrivo?

No, non me lo chiedo mai. Però, una domanda me la faccio sempre, ovvero se quello che scrivo interessa a me…

E il cinema cosa le ha lasciato?

Probabilmente, ritornare a quando eravamo bambini…

Cioè?

Sì. Ricostruire quel meccanismo di intrattenimento magico che vivevo da bambino andando al cinema.  

Come vorrà essere ricordato una volta smessi i panni del rompicoglione?

Non penso di essere tanto un rompicoglione… Una cosa la vorrei sottolineare, però: che mi venisse riconosciuto il tentativo di aver scritto un’altra storia del cinema e televisione italiani, vale a dire aver provato a dare un volto, una dignità artistica, uno spessore a figure che, diversamente sarebbero rimaste nell’anonimato, o a film e programmi che nessuno aveva voglia di "vedere" e ricordare…

Le fa paura finire nel dimenticatoio?

Probabilmente già ci sono. Il problema è che prima o poi si viene riscoperti…

·        Mario Picchi e Aldo Palazzeschi.

Il carteggio tra i due scrittori. Mario Picchi e Aldo Palazzeschi, una vita per la letteratura. Filippo La Porta su Il Riformista il 20 Gennaio 2022.  

Sapete chi era Mario Picchi? Immagino di no, a meno che non siate stati assidui lettori dell’Espresso negli anni Settanta, dove era redattore e curava la acuminata – e per me allora fondamentale – rubrica “Sottotiro”. Nato a Livorno nel 1927 e poi trasferitosi a Roma, giornalista culturale, e anche saggista, scrittore, traduttore (dal francese), dirigente editoriale, ha dedicato la vita alla scrittura, e la sua è stata una scrittura finissima, innervata da una intelligenza morale e da una erudizione straordinarie. Ma oggi chi ne serba memoria, al di là degli studi specialistici? Anche perciò va accolto con entusiasmo questo Carteggio, 1949-1979 (Edizioni di storia e letteratura) di Picchi con Aldo Palazzeschi, uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento, curato con acribia e amore da Anna Grazia D’Oria.

Si tratta di 61 lettere e 24 cartoline che compongono come in un puzzle «la storia di un’amicizia affidata negli anni non a scambi teorici ma al proprio sentire nella quotidianità» (come leggiamo nella introduzione). In loro due generazioni si incontrano per parlare di letteratura (autori, premi, la loro stessa scrittura), di amici comuni (da Marino Moretti a don Giuseppe De Luca), di vecchiaia e di città (Roma, Venezia, Firenze, Parigi). Si comincia dal 1949, quando Picchi esordì come critico con una intervista a Palazzeschi, allora all’apice della fama, apparsa sulla “Fiera letteraria”. Da lì prende avvio una relazione di amicizia intensa e continuativa, testimoniata da questo epistolario. Palazzeschi, percepito dal giovane interlocutore come padre e maestro, mostra nei suoi confronti un affetto pieno di sollecitudine: ad esempio in occasione di un viaggio di Mario Picchi a Venezia con la moglie si affanna con scrupolo a trovare loro una sistemazione dignitosa.

Quando Picchi nel 1960, con una raccolta di racconti, entra inaspettatamente nella rosa dei sei finalisti del premio Strega, è solo un outsider, per di più avversato da Maria Bellonci, madrina del premio. Ora Palazzeschi, di solito tranquillo e disincantato, «si trasforma per Mario in macchina da guerra», e tanto si impegna da farlo arrivare quinto e così promuoverlo in libreria. L’epistolario si conclude con la notizia di un furto rovinoso a casa di Palazzeschi, poco prima della morte dello scrittore, novantenne, nell’agosto 1974. Il volume è corredato da alcune foto che ritraggono Palazzeschi e Picchi nella vita quotidiana (specie il secondo): accanto alla macchina da scrivere, leggendo un libro o il giornale, con i familiari, in qualche cena e occasione conviviale. Palazzeschi ha un’aria sorniona e ingenua, nobilmente ironica, Picchi lo sguardo ardente, mite e affilato. Per dare solo un’idea degli scambi tra i due, sempre ispirati a un tono familiare, affettuoso, ricordo l’incipit di una lettera di Palazzeschi da Parigi, immersa in un gelo polare, dove nel metrò c’era un pover’uomo «che non aveva punto voglia di ridere e si messo a ridere di gusto vedendomi leggere il suo biglietto “Caldo opprimente”, lui coperto di lana fino agli occhi».

Ma ci sono innumerevoli lettere che mostrano la grande stima intellettuale reciproca, l’interesse dell’uno verso la produzione letteraria dell’altro. Forse meno scontata da parte di Palazzeschi, che nel 1964 scrive a proposito del romanzo di Picchi Il muro torto (pubblicato da Einaudi in quell’anno), e dopo averne già letta una prima stesura: «Ho sentito più in evidenza la parte lirica (il paesaggio romano), che in alcuni punti diviene vera e propria poesia… bravo Mario, ne sono felice per quanto non ne avessi mai dubitato». Nella seconda sezione sono raccolti gli scritti di Picchi su Palazzeschi, dei quali vorrei sottolineare – al di là delle considerazioni sempre penetranti sull’opera dell’autore delle Sorelle Materassi (che, come i pesci, cresce mantenendo “sempre la forma primitiva”) – lo sguardo sempre attento sulla cultura circostante, sull’universo letterario del nostro paese. Direi una autentica vocazione da “critico dell’ideologia”, insofferente di appartenenze e conformismi.

A proposito del ritratto di Palazzeschi, che affiora dal mosaico dei saggi, mi limito a citare la pagina in cui contrappone lo scrittore, «funambolo di se stesso» che non ha mai riscritto la propria storia, a Charlie Chaplin, che con le «svenevolezze sentimentali» di Luci della ribalta volle dare un «senso tra allegorico e anagogico» ai suoi film. E poi quando paragona il rifiuto di Palazzeschi ad avere telefono e radio «al rifiuto di firmare quei manifesti e quegli appelli che sono un troppo comodo alibi per sfuggire al più vero impegno». Per quanto riguarda la vocazione di “moralista” e critico della società segnalo un intervento sulla rivista “Belfagor” nell’estate 1970, in cui deplora le mode che divampano fulmineamente in Italia (da Lukacs a Marcuse, da Lévi-Strauss allo strutturalismo, “cicloni” che irrompono in un mondo chiuso, «bisognoso di sostegni a cui abbarbicare la sua incerta realtà: e ogni volta questo mondo si richiude in sé per digerire rapidamente la novità, da cui sperava chissà quale illuminazione», per ritrovarsi più affamato di prima.

Infine, ci appare oggi come un apologo senza tempo su potere e cultura quell’articolo dell’Espresso – 29 giugno 1975 – in cui ritrae un compiaciuto Amintore Fanfani, il «viso pieno di bonomia e di unzione, tra uno sfarfallio di sorrisi, di ammiccamenti, di mossette argute» di fronte a giornalisti che dovrebbero incalzarlo e invece «gli fanno da spalla» (qualche riga dopo ricorda i pomeriggi del leader democristiano passati in compagnia degli intellettuali convocati a discutere le magnifiche sorti, tra «gorgheggi e coccodè di soddisfazione», tutti in cerca di prebende, incarichi e pensioni…). Soffermandosi poi sui quadri di Fanfani, e sul suo enfatico annuncio di passare le notti a leggere libri, così commenta: «L’artista che fa politica è penoso, ma c’è qualcosa di peggio: il politico che fa arte». A lui Picchi contrappone Palazzeschi: «Nel suo sorriso c’era sempre un tanto di meraviglia, quasi di incredulità per quello che l’esperienza gli rovesciava addosso». Filippo La Porta

·        Mario Praz.

Luigi Mascheroni per "il Giornale" il 20 giugno 2022.

Mario Praz non amava il suo secolo, ricambiato. Antimoderno, ma mai reazionario, scettico di fronte alle false novità, nemico del moralume ma infastidito dall'imbarbarimento dei costumi del vivere moderno, già sul finire dei suoi giorni (muore nella primavera del 1982, quarant'anni fa), Praz vedeva la sua Roma come una città «forse ancora in parte affascinante, ma di fatto degradata, decaduta» citiamo, da una cartellina di ritagli, una vecchia intervista pubblicata su Panorama, 3 dicembre 1979 - 

«E che non provoca più i grandi amori che suscitava negli artisti del secolo passato». Del resto, credeva che l'arte, dalla rivoluzione dadaista in poi, non fosse veramente arte, ma solo la documentazione di un'epoca in crisi di identità, «testimonianza di un momento di smarrimento»; e per quanto riguarda la scuola: «Una volta mi interessava insegnare. Lo trovavo piacevole. Ho smesso, per limiti d'età, prima del '68: la ritengo una fortuna. Il Sessantotto ha rappresentato una rivoluzione, ma inculturale; ha determinato un'involuzione, che ha fatto degenerare l'insegnamento e gli studi. Oggi l'università è in disgregazione».

Mario Praz, il Professore. L'Anglista sommo. Il critico d'arte e letterario, l'accademico, il viaggiatore, il collezionista, il grand connoisseur, lo scrittore per Alberto Arbasino il miglior saggista italiano del '900 lo «Sherlock Holmes della cultura», nemico delle specializzazioni e amico dell'eclettismo, eruditissimo, capace di scovare fili invisibili e costruire reti di conoscenza fra un autore inglese del Seicento e un ritrattista rinascimentale, fra Stendhal e Palladio, fra Brueghel e il Cavalier Marino, tra la gemmologia e l'araldica, in un infinito parallelo tra la letteratura e le arti visive, fra la parola scritta e quella dipinta. 

La carne, l'anima e la vita. Mario Praz l'Innommable. Maestro di curiosità intellettuale, autentico raffinato che non assumeva mai le arie del raffinato, conversatore estroso e docente rigoroso, lettore onnivoro capace di assorbire qualsiasi pagina su cui posasse gli occhi, un'esistenza lungo le vie tracciate dalla storia del gusto e del costume, Mario Praz in vita fu compreso, amato e studiato più all'estero, Inghilterra e Francia, che in Italia. Eccezioni, dettate da ammirazione e amicizia: Alberto Arbasino, Pietro Citati, Piero Buscaroli, Alvar González-Palacios e pochi altri.

E fu lo stesso, o peggio, post mortem. L'accademia l'ha sempre guardato di sbieco. E poco di lui si è scritto e ripubblicato di recente. 

«In effetti negli ultimi anni Mario Praz è progressivamente caduto in un cono d'ombra - ammette Andrea Cane, storico editor alla Mondadori e alla Rizzoli, curatore nel 2002 del Meridiano prazziano Bellezza e bizzarria - e di suoi libri in catalogo ce ne sono davvero pochi. Anche la critica se ne è dimenticata, a parte un paio di giovani studiosi. Eppure, anche se forse la sua scrittura oggi appare un po' datata, seppure più sciolta rispetto a quella di molti suoi contemporanei all'epoca più fortunati, e penso a Emilio Cecchi, i suoi saggi restano molto divertenti, magari non la Storia della letteratura inglese, che non si adotta più, ma i saggi sulla cultura del manierismo e del barocco, o sulle arti minori o particolarissimi, chessò, cito la ceroplastica, rimangono un punto di riferimento per gli esperti, oltre che molti piacevoli per il lettore comune».

Intellettuale non comune, «Professor Saturno» - genio, spirito e demonio caustico e discepolo di Michel de Montaigne, Mario Praz era ovviamente l'esatto contrario dell'aura satanica di cui la maldicenza e l'invidia lo avevano circonfuso: semmai era dolce, gentile, affettuoso racconta chi lo conobbe. 

Forse molto solo e malinconico. Motivo, anche, per cui si allestì un proprio mondo, la casa della vita: bronzi altisonanti, mobili dalle zampe belluine, cortinaggi di seta, ritratti gloriosi e conversation pieces, poltrone Bellangé, obiets d'art, trofei e serpentoni, stile Impero (il suo favorito) e gusto Bidermeier, il tutto scenografato con cura nell'appartamento romano prima ospitato nello storico palazzo Ricci in via Giulia Mario Praz, The Genius of via Giulia poi trasferito a palazzo Primoli in via Zanardelli, dopo la sua morte trasformato in museo e oggi così recita il sito internet e un numero di telefono muto - «temporaneamente chiuso».

Ora, temporaneamente, l'editoria torna a occuparsi, con una certa civetteria, del Professore. Ecco, raccolti sotto il titolo Misteri d'Italia (Nino Aragno editore, pagg. 58, euro 10; a cura di Giuseppe Balducci), tre articoli perduti e ritrovati che Mario Praz scrisse nel 1958 per Il Borghese, il settimanale fondato da Leo Longanesi e, in quel momento, diretto da Mario Tedeschi. Tre brevi testi tra l'elzeviro, il racconto, l'aneddoto e i ricordi che mettono sotto teca, a futuro disdoro, velleità, furberie, piccoli vizi e grandi pretese dell'Italia e della sua eterna Capitale. Come si dice: prosa d'arte. 

Si parla della insostenibile vanità dei sedicenti intellettuali di provincia (che, poi: non è il nostro secolare provincialismo ad averci fatto grandi nel mondo?), di alcuni ineliminabili vitia italiani (il parlare sempre di denaro, un certo bigottismo, e anche l'innato servilismo) e del peso, difficile da portare con dignità, della Bellezza della nostra arte e del nostro paesaggio.

È difficile amare Praz, ma più difficile detestarlo. Cose che Praz detestava: tutto ciò che sapeva di posa, di artificio, di snobismo; la fama che lo perseguitava e il film Gruppo di famiglia in un interno di Luchino Visconti, 1974, ispirato a lui e alla sua casa (non gli piacque affatto, anche se il Professore era interpretato da Burt Lancaster, e poi si vedevano che i quadri di scena erano falsi), l'arte contemporanea, la letteratura dopo Joyce.

Cose che Praz amava: il senso della misura, l'ironia, i calembours, il feticismo per gli oggetti d'arredamento, le rivelazioni del gusto neoclassico, il pettegolezzo colto e - soprattutto, appunto - la rara capacità di tessere quel complesso sistema, intricato e fruttuoso, di associazioni, di analogie, di accostamenti, sintesi di bizzarro e imprevedibile, grottesco e incongruo, che danno vita a nuovi sensi e nuove creazioni. E che si dice, ancora oggi, «prazzesco».

·        Massimiliano Fuksas.

Massimiliano Fuksas: «Da giovane contestatore fui ricevuto da Moro. La rivalità con Piano? Siamo come Coppi e Bartali». Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 30 settembre 2022.

L’architetto: «Non parlo male di Roma, in questa città chi “se la tira” è cretino». «Su poliziotti e studenti Pasolini sbagliò analisi, io e lui giocammo a calcetto insieme» 

Il tavolo di lavoro romano di Massimiliano Fuksas è nel cuore di una fabbrica di architettura che ormai appare, nelle firme dei concorsi internazionali, solo con quel cognome di origine lituana, «Fuksas», senza più la parola «studio». La luce naturale irrompe nello spazio del palazzo cinquecentesco a san Paolo alla Regola.

C’è una foto iconica della sua vita. 1 marzo 1968, scontri a Valle Giulia alla facoltà di Architettura a Roma, lei a braccetto con Oreste Scalzone e Sergio Petruccioli. Ai tempi avrebbe mai creduto a un risultato elettorale come questo del 2022?

«No, ovviamente. Ma la penso come Longanesi, in Italia la rivoluzione è impossibile perché ci conosciamo tutti. Meloni post-fascista? Ma su... C’è stato un voto. Punto. Chi ha parlato di paura ha solo perso voti, la sinistra è polverizzata».

Lei era accanto a Scalzone, futuro Potere Operaio. Ha mai pensato che la sua vita avrebbe potuto prendere una strada diversa, pericolosa? «No. In quel periodo guardavamo tutto ciò che accadeva intorno a noi. Ma io amavo il grande movimento, il sogno era procedere verso il futuro su una marcia di Šostakóvič, non ho mai amato i gruppetti. Detesto la violenza, un uomo ammazzato mi fa orrore. Da una sofferenza non può derivare una gioia».

Quel giorno a Roma fu violento: scontri con la polizia, 148 feriti, 200 denunce. Tutto per tentare di rioccupare Architettura appena sgomberata.

«Volevamo riprenderci la nostra università, eravamo convinti che fosse l’inizio di una nuova era. Noi ragazzi viaggiavamo, io in autostop arrivai a Capo Nord senza una lira in tasca. Leggevamo letteratura straniera, eravamo diversissimi dai nostri genitori cosiddetti borghesi…. Dopo gli scontri ci ritrovammo davanti a palazzo Chigi. Incontrammo Marisa Rodano, poi Luciano Barca del Pci. Non l’ho mai raccontato ma Barca organizzò un incontro con Aldo Moro, ai tempi presidente del Consiglio. Con un gruppetto andammo a palazzo Chigi, un po’ arrogantelli... lui voleva capire cosa stesse accadendo. Ci ascoltò, disse poche parole serie e sagge. L’atteggiamento della polizia poi cambiò, e penso che quell’incontro ebbe il suo peso».

Pier Paolo Pasolini, è notissimo, si schierò con i poliziotti e contro di voi.

«Sbagliò l’analisi. Noi, l’ho detto, eravamo diversissimi dai nostri genitori. Molti di quei poliziotti erano legati al mondo del sottogoverno della Dc e da una stessa famiglia poteva uscire un poliziotto di destra o un operaio di sinistra. Con Pasolini ho giocato a calcetto a Monteverde Nuovo: lui all’ala, io con il 10 sulla maglia. Lui molto forte, io sempre un po’ regista. Ma basta col passato, parliamo di oggi...».

A cosa serve la buona architettura?

«A far vivere bene, a far incontrare le persone, a ridisegnare i loro rapporti. Da anni la crisi dei partiti e dei sindacati è evidente. Una rinascita della politica può avvenire solo dal basso, dalle città, dai territori. Bisogna guardare a sindaci come Beppe Sala a Milano, Dario Nardella a Firenze, Matteo Ricci a Pesaro, a presidenti di Regione come Massimiliano Fedriga in Friuli o Luca Zaia in Veneto».

Vogliamo parlare male di Roma oggi? Lo fanno tutti...

«No, io non parlo male di Roma soprattutto quando sono all’estero. Roma mal governata? Lo era anche nel Medioevo, nel ‘700, o anni fa. Le manca una classe dirigente e un ceto politico. Ha mille difficoltà: e magari anch’io ne faccio parte. Parlare male di Roma è inutile, banale».

Lei ha scelto di nuovo Roma dopo tanti anni passati a Parigi.

«Dopo la vittoria di Mitterrand nel 1981 venni chiamato a lavorare lì. La Francia, grazie a Jack Lang, scelse la strada che l’Italia non ha mai imboccato: convocare giovani e giovanissimi talenti per guardare al futuro, per progettarlo. Poi, alla fine degli anni ’90, decisi di tornare qui a Roma».

Perché, ripensandoci?

«Per porre fine al mio nomadismo. Un nonno ebreo lituano ma cittadino russo, la mia nascita in Lituania, le fughe della famiglia nel cuore dell’Europa, la mia crescita a Roma ma tanti spostamenti in Austria e in Germania con la nonna paterna. Volevo radicarmi, essere ciò che sono, un romano orgoglioso di esserlo. Da qui nasce la Nuvola all’Eur. Dovevo costruire nella mia città: lasciandomi alle spalle la geometria euclidea, mettendo a frutto gli studi sui frattali e la teoria del caos di Edward Norton Lorenz».

C’è un gioco a Roma sulla rivalità Nuvola di Fuksas- Auditorium di Renzo Piano...

«Troppo provinciale ricondurre tutto a due persone. Sembra la sfida Bartali-Coppi dove non si sa bene chi passò la borraccia a chi. La verità è che la competizione aiuta a imparare da altri ciò che tu non hai pensato».

Il marchio Fuksas significa anche Doriana Fuksas, sua moglie. Quanto c’è di lei nei progetti?

«Moltissimo, da anni. Lei mi ha vietato di calcolare da quanto dura la nostra storia ma si misura in decenni».

Confessi qualcosa su di lei...

«Doriana mi ha regalato il coraggio che non avevo. Nasco timidissimo, abituato alla difensiva, direi pauroso. Lei mi ha cambiato, mi ha dato forza. Contesta ancora una mia certa tendenza alla lamentazione, che lei attribuisce alle mie radici ebraiche. Siamo legatissimi».

Cosa è Roma, in un episodio?

«Nel periodo in cui non si riusciva a chiudere il cantiere della Nuvola, un giorno mi imbatto in un camioncino della Nettezza urbana che si blocca davanti a me. Si sporge l’autista, mi guarda e grida: “Architè, ma quanno la finimo ‘sta Nuvola?” Lui partecipava al dibattito della città sul progetto! Si fermò, mi offrì un caffè. Roma accoglie tutto e tutti, da millenni, dai principi ai delinquenti. Va rispettata per questa Storia immensa. Chiunque si senta importante a Roma, chiunque “se la tiri” è un cretino. E finisce ridicolizzato, a terra».

Lei adora la cucina romana e detesta gli chef stellati. Perché?

«Perché le trattorie romane, le pochissime rimaste, sono luoghi di verità, di gusto, di uguaglianza sociale, di radici nei sapori. Un giorno, invitato in uno di quei templi Michelin, mi hanno portato la carta delle acque. All’inizio ho chiesto, scherzando, un’acqua barricata annata 1972. Poi ho imposto una brocca riempita dal rubinetto. Siamo seri, no?».

·        Maurizio Cattelan.

Cattelan e l’arte di nascondersi (dietro una colonna). Pierluigi Panza su Il Corriere della Sera il 27 Novembre 2022.

Controverso, choccante, ma così timido. Ha iniziato come cameriere, poi lavandaio fino a fare l’operatore in obitorio. Alla costante ricerca di una via di fuga. E ripete: «Non sono un artista»

Come Alexander Portnoy nel romanzo di Philiph Roth, Maurizio Cattelan è alla costante ricerca di una via di fuga: «Io non sono un artista»; «Mi avevano detto che era una professione remunerativa e che avrei conosciuto un mucchio di ragazze, ma non è vero niente». È uno degli individui più timidi e malinconici che abbia conosciuto: si esclude da tutto ciò che lo riguarda. Quest’anno era tra i candidati all’Ambrogino d’oro a Milano, ma se lo sono «dimenticati»: avevano di meglio!

L o incontro una mattina in Biennale (il suo esordio a Venezia è nel 1993 con «Lavorare è un brutto mestiere») e ci facciamo un selfie davanti alla «Maschera di Breton» di René Iché. Lo incontro la stessa sera alla festa di Pinault e mi congeda in fretta per nascondersi dietro le colonne del chiostro dell’Isola di San Giorgio: siamo due timidi. È lui quello appeso, è lui quello nella bara, è lui la banana scocciata, lui il Wojtyla colpito dal meteorite de «La Nona ora» battuta nel 2001 da Christie’s per 886 mila dollari. Appassionato fin da piccolo di apparecchi radiotelevisivi, Càttelan, o in veneto Cattelàn (21 settembre 1960), incominciò come giardiniere e venditore di ninnoli religiosi in un emporio della parrocchia, licenziato perché disegnava baffi sulle statuette di Sant’Antonio, manco fosse Duchamp. Cameriere, lavandaio, antennista poi a pulire i cadaveri all’obitorio di Padova: «Forse è colpa di questo lavoro se quando penso a una scultura la immagino lontana, per certi versi già morta»: credo che «All», nove cadaveri di marmo coperti da lenzuola sia il suo capolavoro.

A 22 anni muore la madre e lui contribuisce a mantenere le sorelle minori. Ha aspirazioni da designer, ma è folgorato dall’arte dopo aver visto un autoritratto allo specchio di Pistoletto.

Così, nel 1989, alla Galleria Neon di Bologna espone il suo primo lavoretto: un cartello con scritto «Torno subito» (titolo dell’opera): è pura Die Kunst der Fuge. A furia di smanettare con pinze e saldatori, nel 1991, alla Galleria d’arte moderna espone la sua prima opera di successo. Si tratta di «Stadium», un lunghissimo tavolo da calciobalilla con due schiere di giocatori: i bianchi sono le riserve del Cesena e i neri gli operai senegalesi che lavoravano in Veneto. Ha già compreso che nell’età della finanziarizzazione del mondo l’arte è comunicazione spettacolarizzata, deve creare choc e turbare le coscienze. Ad arricchirsi saranno i galleristi.

Nel 1993 arriva la sua personale alla Galleria De Carlo, che consiste nel chiudere la galleria dal cui vetro s’intravvede a malapena un animaletto imbalsamato. È arte della fuga: già nel ’92, al Castello di Rivara aveva appeso a una finestra che dava sull’esterno una corda di lenzuoli annodati in un gesto simulato di evasione. Nel ’94 è alla Newburg Gallery di New York con «Warning! Enter at your own risk...», mostra di un solo giorno: un asinello chiuso in una stanza, chiaro richiamo a Joseph Beuys.

Da allora prende a giocare brutti scherzi ai potenti, come Kennedy («Now» del 2004), a se stesso («Spermini» del 1997, «Mini-me» del 1999, «La Rivoluzione siamo noi» del 2000), al suo gallerista attaccandolo al muro con lo scotch, ai cavalli(«Novecento» del 1997), agli asini simbolo di ignoranza («mi identifico»), a Hitler inginocchiato, fatto di resina, poliestere e capelli umani: nel maggio 2016 quest’opera viene battuta per 17,2 milioni di dollari («ma io ci ho guadagnato 50 mila euro»). Gioca ad avere un alter ego: è il curatore Massimiliano Gioni, che negli anni Novanta si spaccia per lui nelle interviste.

Cattelan abita tra Milano e New York, nel senso che se è a Milano risponde che è a New York e viceversa. Internazionale sì, ma al suo paese, manco a dirlo, nel 2011 lo battezzano «el mona» perché ha imbalsamato duemila colombi collocandoli sopra gli impianti dell’aria condizionata delle sale della Biennale.

Il primo caso a Milano lo crea nel 2004 per la Fondazione Trussardi, quando appende alla quercia di piazza XXIV Maggio tre figure di bambini in resina deliziosamente innocenti e a piedi scalzi. Franco De Benedetto, un muratore di 43 anni con cinque nipoti, nel caos di strepiti e proteste della folla che grida «via da Milano questi impiccati» prende la sua scala a pioli, la sistema e recide un ramo dov’è fissato un manichino. Poi precipita, viene trasportato in ospedale per «trauma cranico e contusioni» (seguirà causa giudiziaria). Il secondo caso è del 2010 con L.O.V.E. (Libertà, Odio, Vendetta, Eternità) il monumentale dito medio alzato nel centro di piazza Affari davanti alla Borsa: seguono varie ipotesi di rimozione.

Intanto si è fidanzato con la conduttrice televisiva italo-inglese Victoria Cabello che, parlando d’amore, in un’intervista a «Verissimo» afferma: «Se c’è un pirla nel raggio di 100 chilometri, io lo individuo e mi ci fidanzo». Lui? Impossibile. Questo ragazzo ha il naso lungo e il cervello fino, tanto che nel 2004 l’Università di Trento gli conferisce una laurea honoris causa in Sociologia. «Proprio a me — commenta — che sono stato due volte bocciato e poi ho fatto le serali». Del resto i professori non ci hanno mai preso: definirono Winckelmann, il più grande studioso d’arte che l’umanità abbia avuto, un «ragazzo vago e incostante». All’atto del conferimento Cattelan fa leggere un discorso presentandosi con un collare di gesso avendo avuto, o finto di avere, un incidente sugli sci il giorno prima: «A scuola sono stato un alunno terribile — racconta agli studenti —. In terza elementare insieme alla pagella mi hanno dato il libretto di lavoro: avevo passato così tanto tempo in corridoio che mi avevano assunto come bidello. Io, senza gli altri, non sono nessuno. Anche questo discorso l’ho scritto insieme a un amico, rubando qualche frase qua e là. È dai tempi della scuola che vado avanti così: la mia maestra si arrabbiava perché non avevo neanche la furbizia di copiare dagli studenti più bravi».

Per fuggire dall’arte, nel 2010 inventa con il fotografo Pierpaolo Ferrari la rivista «Toilet Paper», carta igienica. Ma la fuga non riesce: nel novembre 2011 la Mecca dell’arte, il Guggenheim di New York lo celebra con la retrospettiva «All»: 130 opere pendono dal soffitto del museo progettato da Frank Lloyd Wright. Chiude la mostra ed è la fine, decide di impagliarsi: «Ero infelice, anestetizzato. Ma alla fine è venuta la soluzione, ho visto la luce in fondo al tunnel: ritirarmi». Fuga definitiva? Ma no, figuriamoci: ritorna ancora e si chiude… in bagno! Nel 2016 espone un cesso: l’opera anti-Trump chiamata «America» consiste in un wc rivestito in oro a 18 carati utilizzabile dai visitatori del Guggenheim, poiché è esposto in un bagno del museo. Evacuare tra 18 carati non è per tutti e tutti si sparano un selfie dal gabinetto firmato. Nel 2022 ha esposto in Cina e nel 2023 andrà a Seul. «Poi basta impacchetto tutto»: eccome no!

Estratto dell'articolo di Dario Pappalardo per “la Repubblica” il 25 dicembre 2021. Dieci anni fa, decideva di scendere dalla giostra dell'arte contemporanea e di appendere le provocazioni al chiodo. Se si fa eccezione per il water dorato installato al Guggenheim o la banana attaccata con il nastro adesivo ad Art Basel, Maurizio Cattelan (Padova, 1960) ha più o meno mantenuto la promessa. Ma i giardinetti non sembrano troppo vicini. In questo momento l'Hangar Bicocca di Milano ospita la sua mostra Breath Ghosts Blind , aperta fino al 20 febbraio 2022 proprio come Last Judgement all'Ucca di Pechino. E ora l'artista pubblica Index (con Marta Papini e Michele Robecchi, a cura di Roberta Tenconi, Vicente Todolí e Fiammetta Griccioli, editore Marsilio), dove raccoglie vent' anni di conversazioni con più di 130 colleghi.

Cattelan, ha scelto di intervistare gli artisti perché è meglio intervistare che essere intervistati?

«È meglio essere in cattedra o essere interrogati? Vivo ogni intervista a cui devo rispondere come un interrogatorio in cui risulterò sicuramente colpevole, anche se non ho fatto niente. 

Intervisto gli artisti principalmente per curiosità. Mi piace sentirli parlare di sé e del proprio lavoro, del loro processo ideativo, di come elaborano un concetto e lo trasformano in opera, di che cosa leggono e cosa guardano.

È come esplorare un universo parallelo, in cui ogni cosa è leggermente diversa ma anche familiare. E poi ho sempre imparato di più dalle risposte degli altri che dalle mie». 

Nel suo libro ci sono anche interviste impossibili, come a Filippo Tommaso Marinetti, Domenico Gnoli e Francis Bacon. Che cosa la accomuna e che cosa la allontana da questi artisti?

«Io sono vivo, loro sono morti, a livello ontologico questa è sicuramente una gran differenza! Non hanno molto in comune neanche tra di loro, se non il medium della pittura, che li rende una volta di più diversi da me.

È interessante come hanno saputo declinare questo medium in modi totalmente differenti: chi ha cercato di superarlo, come Marinetti, chi è stato capace di stravolgerne i presupposti, come Bacon, chi di esaltarne il canone, come Gnoli. 

Tutti e tre hanno a loro modo cercato di fare qualcosa di diverso da ciò che li aveva preceduti con un unico medium. Non riesco a trovare molti punti in comune, e forse proprio per questo mi sono interessato a loro». (…) 

E oggi, invece, a cena con Damien Hirst o Jeff Koons?

«Rifiuto gentilmente l'invito di entrambi. Potendo scegliere vorrei andare a trovare Louise Bourgeois in uno dei suoi "Sunday, bloody Sundays" nella casa a Chelsea, al 347 West 20th Street. Ogni domenica pomeriggio, a partire dagli anni Settanta fino alla sua morte all'età di 98 anni, riceveva i giovani artisti che andavano a presentarle il proprio lavoro, faceva domande, li criticava. L'ingresso era aperto a tutti, dovevi solo portare il tuo lavoro e non avere il raffreddore». (…) 

C'è un'opera che non rifarebbe più?

«Ce n'è una lunga serie: ora non ho la lista con me e a memoria faccio fatica a elencarle, tendo a rimuoverle. Se mi guardo indietro, so di avere fatto tanti errori. Vorrei dire che ho imparato qualcosa nel farli e nel riconoscerli, ma non sono sicuro che sarebbe la verità».

Qual è la prossima che farà, se la farà?

«Avrà due gambe, due braccia, due occhi, due orecchie e una bocca e, se sono fortunato, con un soffio camminerà». 

Copio tre domande che lei nel libro fa al suo collega Francesco Vezzoli. Se lei fosse una sua opera, quale sarebbe?

«Dunque, non potrei essere uno scoiattolo, non ho tutti quei peli. Oggi non mi sento tanto un cavallo, ma in alcuni giorni potrei. Non ho mai voluto e mai vorrei essere il Papa, quindi... forse il cartello Torno subito».

E se fosse un film?

«Un film di formazione, come Apocalypse Now. Vedo la mia vita come un lungo viaggio verso l'ignoto: a ogni metro in più sul Mekong mi addentro nel mio inconscio, imparo qualcosa di me stesso che fino all'avamposto prima avevo ignorato. Non necessariamente questo mi migliora, anzi: il viaggio è sempre più spaventoso e oscuro, ma io divento sempre più consapevole». 

E se fosse un politico?

«Angela Merkel oggi. Mi sento pronto per una seconda pensione». 

Quindi, alla fine, si considera un pensionato dell'arte oppure no?

«Mi sono sempre considerato un ragioniere con l'hobby dell'arte».

·        Maurizio de Giovanni.

Ettore Mautone per “il Mattino” il 20 ottobre 2022.

«Era di notte, faceva un gran caldo, ero a letto e mi sono svegliato con un dolore sordo tra lo sterno e la scapola sinistra, come un grosso crampo. Mia moglie ha subito capito e chiamato il 118».

Era un infarto: a raccontare la sua esperienza di paziente è Maurizio de Giovanni, il noto scrittore partenopeo partecipa stamane a un incontro scientifico sul long Covid portando la sua testimonianza: «Sono stato ricoverato alcuni giorni al Cardarelli presso l'unità coronarica diretta da Ciro Mauro.

Bravissimi: mi hanno praticato un'angioplastica. Ora ho superato ma non posso fare a meno di pensare che tutto è avvenuto in pochi mesi, prima il Covid a febbraio e poi quell'insulto inaspettato al cuore, la notte del 13 luglio. A febbraio avevo avuto una tracheite e qualche decimo di febbre. I sintomi della variante Omicron, segni di infezione modesti anche grazie alle tre dosi di vaccino ma - mi hanno spiegato i medici - il virus conserva la capacità di infiammare i vasi sanguigni anche dopo la guarigione».

Long Covid e le conseguenze a breve e lungo termine dell'infezione dunque: a via Scaglione, presso la sede Damor, l'infettivologo Massimo Galli ed altri esperti di malattie cardiovascolari come Massimo Volpe primario alla Sapienza di Roma e presidente della Società italiana per la prevenzione cardiovascolare, Ugo Trama responsabile delle politiche del farmaco della Regione Campania e Vincenzo Santagada, assessore alla Salute del Comune, accendono i fari sull'evoluzione della pandemia nel prossimo futuro.

LE CAUSE «Le cause di quello che chiamiamo long Covid - spiega Massimo Galli - non sono ancora completamente chiarite. Le ipotesi più accreditate, relativamente all'aumento di incidenza di eventi cardiovascolari acuti come ictus e infarti, registrati peraltro sin dalle prime ondate epidemiche, suggeriscono il persistere di un'infiammazione. Il long covid - conclude Galli - è comunque una sindrome complessa e con diverse altre manifestazioni cliniche». Il percorso per l'individuazione di trattamenti specifici per il Long covid è ancora lungo ma una prima risposta arriva da uno studio condotto su 1.390 pazienti pubblicato su Pharmacological Research. Dimostra l'efficacia della terapia a base di L-Arginina e Vitamina C liposomiale, integratori utilizzati nelle fasi acute dell'epidemia anche al Cotugno.

Il trattamento agisce sulla protezione dei vasi sanguigni e si è rivelato capace di migliorare i sintomi del long Covid e anche di ridurre i tempi di ospedalizzazione.

La ricerca è stata coordinata da Bruno Trimarco docente emerito di malattie dell'apparato cardiovascolare alla Federico II, realizzata dal Consorzio Itme (International Translational Research and Medical Education), creato dalla Federico II in collaborazione con Gaetano Santulli, cardiologo esperto di endotelio dell'Albert Einstein Institute of Medicine di New York e il supporto di Damor, storica azienda del farmaco che ha sede a Napoli.

«Esistono prove concrete che la disfunzione endoteliale sia uno dei principali meccanismi alla base dello sviluppo della patologia grave da Covid - conclude Santulli - nel 2020, siamo stati i primi a dimostrare che manifestazioni sistemiche del Covid potevano essere spiegate da una disfunzione endoteliale preesistente correlata a ipertensione, diabete, tromboembolia e insufficienza renale, tutte presenti, in misura diversa, nei pazienti Covid».

·        Melissa P.: Melissa Panarello.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 19 febbraio 2022.

“Melissa P. è finita”. Una sentenza senza appello, per di più emessa dall’editore che l’aveva aiutata a spiccare il volo con quello che si ricorda come uno dei casi letterari più clamorosi e fortunati nel panorama italiano. In realtà la scrittrice catanese, allora poco più che maggiorenne, ha continuato a credere nel proprio sogno di bambina e, passati vent’anni, la troviamo ancora in libreria con titoli pubblicati da case editrici importanti (Einaudi, Fandango, Mondadori e da ultima La Nave di Teseo) e addirittura è passata dall’altra parte della scrivania: è infatti impegnata a far crescere la sua PAL (Piccola Agenzia Letteraria) con la quale aiuta giovani esordienti «a non farsi fregare com’è successo a me».

Da tempo ha abbandonato il nome d’arte che ne occultava il cognome e, come la protagonista di 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire – un esordio da tre milioni di copie vendute in tutto il mondo – Melissa Panarello dopo tanto peregrinare ha trovato l’amore con un altro scrittore, Matteo Trevisani, e persino la felicità: «Grazie a mio figlio Cosmo». E rispetto alle polemiche del 2003 per il suo romanzo erotico da minorenne, ci ha spiegato che ormai la sensibilità su certi temi è stata stravolta: «Oggi ti giudicano male se non parli di sesso!».

Melissa, intanto come va in questo strano periodo che stiamo vivendo?

Bene, anche se fino a ieri ero convinta di avere il Covid dopo averlo schivato varie volte. In realtà era solo influenza, quindi posso confermare che ancora esiste quella “normale”… 

Sei siciliana e da molti anni vivi a Roma. Cosa ti rimane della tua terra d’origine?

Sono nata a Catania e poi ho un po’ girovagato, negli ultimi tempi ho vissuto ad Aci Castello prima di andarmene definitivamente. La mia terra in sé non mi ha regalato tristezze, ma la mia storia famigliare e personale vissuta in quei luoghi mi riporta a ricordi che non mi abitano con gioia. Purtroppo, nonostante conservi un grande legame con certi aspetti come l’Etna o i Faraglioni, tutto quello che poi ho vissuto mi ha fatto diventare quella terra un nemico.

Odio e amore, come spiegavi già in interviste degli esordi?

Sì, è ancora presente questo sentimento contrastante.

Che bambina era Melissa?

Facevo cose diverse dai miei coetanei, ho iniziato a scrivere a 4 anni. Non ho pensato alla mia infanzia per tanto tempo, solo ora sto ricordando quel periodo, cioè da quando ho un bambino. Quando porto mio figlio al parco, per esempio, mi accorgo che non ci ero mai stata. Quindi ero una bambina atipica, molto poco spensierata. Avevo uno sguardo su me stessa e sulle cose, non dico da donna matura, ma sicuramente molto contrito. 

Il primo romanzo a 9 anni, ancora inedito. Insomma, eri piuttosto precoce.

Leggevo libri decisamente complessi per la mia età. Nei paesi in cui ho vissuto non c’erano librerie o i miei genitori non mi portavano, per cui gli unici libri che trovavo erano quelli al supermercato. E lì prendevo libri a caso. Infatti, le prime letture erano molto pesanti. Il primo è stato Madame Bovary di Flaubert, per cui è chiaro che il mio immaginario si è formato grazie alla lettura di volumi così potenti, ma anche grevi per una bambina di quell’età. 

I tuoi genitori come reagivano a questa passione?

Per mia madre era una perdita di tempo. Quando era arrabbiata, perché magari non avevo fatto qualcosa di importante, dava sempre la colpa ai libri. Mio padre invece non ci faceva molto caso. 

Hai avuto un rapporto conflittuale con i tuoi genitori?

Non erano per niente avvezzi alla letteratura, ma non lo definirei conflittuale come lo intendiamo normalmente. Era più un enorme conflitto esistenziale. Neanche dovuto alla diversità, ma proprio alla non appartenenza, che alla fine ha creato fratture molto più profonde della sola conflittualità.

Cos’hai trovato nella scrittura che non trovavi in altre attività?

Ho cominciato a scrivere a causa di questo conflitto esistenziale, di questo senso di non appartenenza. Sentivo il bisogno di trovare un luogo in cui potessi riposare, essere finalmente libera. L’unico che ho trovato è la scrittura, la pagina bianca da riempire. Era il mio sfogatoio. Ho iniziato per una reale necessità che era quella di andarmene via. Crescendo mi è nata la voglia di farlo come mestiere, ma i primi passi sono stati una via di fuga che affidavo totalmente alla scrittura. 

E a soli 17 anni esplode il caso Melissa P. con 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire. Milioni di copie vendute e traduzioni in tutto il mondo. Obiettivo raggiunto?

L’ho scritto a 16 anni e avevo solo idea di andarmene di casa. Non è stato soltanto un modo per andare oltre alla vita che facevo, ma proprio per fuggire fisicamente. Il mio biglietto di sola andata. 

Ti è mai capitato di rileggerlo, in questi quasi vent’anni?

No, non lo rileggo. L’ultima volta è capitato molti anni fa. Ma anche se non lo riprendo in mano, ho ben presente chi era quella ragazzina che ha scritto il libro e mi sembra che non sia più la stessa persona di oggi. Non ci credo di essere io ad averlo scritto. Nello stesso tempo, però, provo un senso di grande protezione verso di lei, e anche un po’ di ammirazione. Quello che ho fatto con quel libro ora non riuscirei a farlo. Quella spinta feroce che avevo era possibile solo allora. Oggi, che sono felice e appagata, non riuscirei a scrivere qualcosa di così potente. 

In molti si sono interrogati se fosse autobiografico o meno.

È molto complicato spiegarlo. Ma non faccio più mistero che sia un libro totalmente autobiografico. All’inizio sono stata vaga per salvaguardare i miei genitori, che ci sarebbero potuti rimanere male. Ma quella storia è assolutamente autobiografica. Nello stesso tempo dico che non ero trasgressiva. Spesso si ha questa idea che il raccontare di sesso promiscuo sia trasgressivo, in realtà quello che trapela dal romanzo è la ricerca della protagonista, la stessa che ho fatto io, non del sesso fine a sé stesso o per mera provocazione verso gli altri. Come la protagonista, volevo un posto che mi accogliesse e per me il sesso era il veicolo per arrivare a persone e situazioni che mi potessero accogliere. In questo senso non sono mai stata trasgressiva, perché non avevo regole da trasgredire.

E come per la protagonista, alla fine è arrivato anche l’amore.

Il finale è stato molto criticato, più del contenuto del libro. E fu molto dibattuto anche in casa editrice dal mio editor, perché non era convinto da questo “happy end”. Io invece lo volevo fortemente, anche se nella vita reale non mi era ancora accaduto. In 100 colpi di spazzola questo è stato l’unico elemento di vera finzione. L’ho voluto inserire per dare una speranza a una ragazza, che fondamentalmente ero io stessa in quel momento. Non potevo permettere che tutto crollasse. 

Poi è crollato il rapporto con l’editore che ti aveva portato al successo. Elido Fazi, dopo il terzo libro insieme, dichiarò: “È finita. Ha fatto di testa sua? Suicidio”. Oltre a mettere in dubbio le tue qualità letterarie: “Che Melissa non sappia scrivere è un fatto certo”. Col tempo i rapporti si sono appianati?

Il mio rapporto con l’editor di allora, Simone Cartabellota, non si è mai rotto. Anzi, lo considero ancora uno dei miei più cari amici. Con Fazi sì, alcuni aspetti si sono appianati. Quando ci incontriamo abbiamo rapporti molto educati, ma certo tante cose che ha detto non le dimentico. Rispetto al passato, però, non prendo più provvedimenti, mettiamola così. 

Aveva aggiunto anche che eri “luciferina”.

Questa cosa l’ha detta per indicare una mia personalità distruttiva nei confronti della casa editrice. Ma a me sembra invece di aver molto costruito. Era una piccola realtà sconosciuta e grazie a me e al loro lavoro ha conosciuto un lustro che prima non aveva. Credo si riferisse al fatto era stata costretta a cambiare radicalmente. È normale, con un successo del genere fra le mani si fa tabula rasa e si cresce. Sono convinta l’abbia detto in un momento di rabbia, anche perché non è qualcosa che davvero mi appartiene. 

Guardandoti indietro, pensi di aver sbagliato qualcosa?

Sicuramente avevo un’arroganza più che tipica del successo tipica dell’età. Non avevo il senso di quello che mi stava succedendo. Non mi ero montata la testa, però l’arroganza dei 18-19 anni sì. Quindi mi muovevo con un atteggiamento un po’ ostile verso gli altri. Questo si è un po’ smorzato, visto che sono cresciuta. 

Anche il libro In nome dell’amore, sempre con Fazi, che è un vero atto di accusa alla Chiesa e una lettera aperta al cardinal Camillo Ruini, fa capire che caratterino avessi a soli 19 anni.

Sono sempre stata una persona molto idealista, fin da bambina. Quello che mi crea un senso di ingiustizia lo prendo di petto. Non mi interessa tanto sul piano personale, quanto su quello generale. Se vedo un’ingiustizia voglio intervenire, purtroppo ancora oggi non riesco a starmene zitta.

Il cardinal Ruini ti ha mai risposto?

Non ha risposto e giustamente. Neanch’io nei suoi panni lo avrei fatto. E poi allora non c’erano i social, passava tutto più in sordina. Ricordo poco di quel periodo perché ero già molto stanca, avevo sfornato tre libri e avevo solo 19 anni. Infatti, subito dopo ho fatto un viaggio di sei mesi in Sudamerica per ritrovare le redini di me stessa. 

Hai un rapporto con la fede?

Quello proprio no, semmai con la spiritualità. Sono una persona spirituale, perché non credo che le cose siano solo materia, ma che ci sia diffuso qualcosa di più. Non sono materialista. Non mi ritengo atea o credente, non so cosa sono, però mi faccio tante domande e quando te le fai sei legato a una forma di spiritualità. 

Quelle ingerenze della Chiesa sulla società le vedi ancora o è cambiato qualcosa?

Qualcosa è cambiato, anche se sono convinta che la cultura cattolica sia ormai entrata nella cultura laica e che scindere i due aspetti sia impossibile. Per questo tante scelte politiche non sono per pressione attiva della Chiesa, ma per una pressione culturale che abbiamo da millenni. Con l’ultimo papato di Francesco tanto è migliorato rispetto ai predecessori e sento meno ingerenza politica. 

Nel tuo periodo di grande successo, ricordi di aver detto dei “no” importanti?

Purtroppo, sono stata molto sciocca con il denaro. Ho fatto scelte sbagliatissime da questo punto di vista. Quindi, con il senno di poi, non avrei detto “sì” a certe proposte e sicuramente avrei guardato molto meglio alle mie finanze facendo le pulci a chi se ne è approfittato, e di parecchio. 

Oggi una donna che scrive di sesso è ancora malvista?

Ma figurati, oggi ti giudicano male se non parli di sesso! Ma come, non la dai in giro? È diventato persino eccessivo come atteggiamento. Come se facesse piacere alle donne e alla società il fatto di essere rappresentate come “cattive”. E si dà per scontato che se una donna fa sesso è una “cattiva ragazza”. Per cui ti devi rappresentare come quella stronza.

Come te lo spieghi?

C’è un ramo del femminismo che vuole, anche giustamente, che alle donne sia data possibilità di rappresentarsi stronze come gli uomini e non conformi all’idea che si ha di loro, ma perché devi farlo per forza se non la sei? Io venivo definita trasgressiva e mi sono sgolata per dire che non lo ero affatto. Oggi, invece, sento in giro poca sincerità e grande voglia di dimostrare di essere o non essere qualcosa. Ma credo che questo faccia male all’emancipazione, sia maschile che femminile. 

Nell’ambiente degli scrittori hai suscitato più invidia o ammirazione?

Intanto, con uno scrittore ci ho fatto un figlio, sono andata oltre. Ho tantissimi amici scrittori di grande successo, come Giulia Caminito o Nadia Terranova. E poi ho aperto un’agenzia letteraria e aiuto gli emergenti proprio perché per me gli scrittori non sono nemici o avversari. Non mi sono mai sentita migliore o peggiore, per me proprio non c’è competizione. 

L’ultimo tuo sforzo letterario è del 2019, Il primo dolore con La Nave di Teseo. È quello che si può definire il libro della maturità?

Alcuni hanno fatto confusione, pensando che quel libro l’avessi scritto mentre ero in attesa di mio figlio. In realtà è nato due anni prima di rimanere incinta, quando ero insieme a un’altra persona e a un bambino neanche pensavo, anzi non lo volevo proprio. Poi quel libro è stato magico. Quando stava per uscire ho scoperto di essere in attesa e si è aperta una porta che tenevo chiusa. Può essere il libro della maturità perché è l’ultimo, ma il prossimo lo sarà ancora di più fino al libro della vecchiaia assoluta quando avrò ottant’anni, speriamo. 

Quanto ti ha cambiata avere un figlio?

Ha dato un senso alla mia vita che prima non aveva. Mi ha fatto capire per la prima volta cosa significa essere felici e non mi sembra poco. Spesso da altre donne sento dire che un figlio non ti completa, che per essere una donna intera non devi averne. Per me non è stato così, mi sento molto più completa e con uno scopo altro, che non siano solo la soddisfazione dei miei desideri e delle ambizioni. Prima ero sempre scontenta, oggi non lo sono più. 

E adesso ti ritrovi anche dall’altra parte della scrivania con PAL (Piccola Agenzia Letteraria). Com’è nato questo nuovo progetto?

Dalla necessità di dare a chi non ce l’ha le possibilità che io non ho avuto. Cioè di essere guidati da una persona senza interessi torbidi a entrare nel mondo editoriale con un po’ di naturalezza. È partita come agenzia per scrittori esordienti, giovani uomini o donne che oggi spesso non sanno come fare per iniziare, non sanno a chi mandare i loro scritti, non ricevono risposte o vengono fregati. Mancava questa figura rassicurante per chi vuole affacciarsi all’editoria. E poi, probabilmente, ho voluto proteggere la ragazzina che sono stata, chiudendo un cerchio, come se questo impegno potesse riscattarmi. Alla fine, si sono uniti anche scrittori e scrittrici non esordienti. 

C’è qualche esordiente di PAL che ti senti di consigliare?

A breve uscirà un libro per Fandango molto molto bello, di un giovanissimo scrittore abruzzese che si chiama Riccardo D’Aquila e ci punto molto. Così come su Noemi De Lisi, una giovane promessa palermitana che non aveva ancora pubblicato e possiede una voce davvero originale. Ma non farmi dire di più, che poi l’ufficio stampa mi sgrida perché anticipo troppo. 

A un certo punto nella tua vita, oltre alla letteratura, sono entrati anche l’astrologia e i tarocchi. Non è che alla fine un po’ “luciferina” lo sei?

Ma no! I tarocchi non sono un gioco, però li ho sempre praticati nel tempo perso.

Invece l’astrologia l’hai definita “la psicologia applicata alle stelle”.

Ritengo che tutto ciò che racconta l’essere umano alla fine è letteratura. Per cui leggere un oroscopo personale, non le previsioni generiche dei giornali, non è che un altro modo di leggere noi stessi. E tutti vogliamo che qualcuno ci parli di noi. Le stelle questo lo fanno, che tu ci creda o meno. È un racconto mitologico che diventa in qualche modo letteratura. Non è importante avere fede, è più importante credere nelle storie. Tutto qui.

Ho visto su YouTube nel canale Teledurruti, la televisione monolocale dello scrittore Fulvio Abbate, che un giorno gli hai fatto delle previsioni sul futuro in base alla sua data di nascita.

Si possono fare e hanno una loro valenza. Sul tema ho una rubrica sul settimanale Grazia da oltre dieci anni. Riconosco un valore nelle previsioni sul segno zodiacale. Certo che l’astrologia non si basa solo quello, ma su molto di più. Ma tutti si concentrano sull’aspetto delle previsioni. 

Non è che hai accettato l’intervista controllando la mia data di nascita?

(Ride) No no, lo facevo in passato quando avevo più tempo a disposizione, oggi non mi capita più.

Per caso le stelle parlano anche di questa pandemia?

Qualcosa ho notato e mi sono confrontata con la mia maestra astrologa. Quando è scoppiata la pandemia eravamo sinceramente curiose di capire se nel cielo fosse successo un movimento che potesse prevederla. Oggi non lo guardiamo più come in passato quando si annunciavano le pestilenze. Però abbiamo notato una congiunzione che non avveniva dall’ultima epidemia, quella di Giove con Plutone. E si è ripetuta spesso nelle epidemie e nelle pandemie più conosciute. Ci ha fatto riflettere sulla funzione di questi due pianeti. 

Melissa, va bene non fare previsioni, ma ora sono curioso di sapere se le stelle dicono che ne usciremo…

È difficile fare previsioni, ma direi di sì. I due pianeti si stanno sempre più allontanando e, affidandoci a questi due, probabilmente ci aspettano tempi migliori. 

Dal tuo esordio sono passati quasi vent’anni e, nonostante le critiche e le polemiche del passato, sei ancora nel mondo dell’editoria ad alti livelli. Ma te la immagini Melissa P. da anziana?

Oggi mi vedo molto cambiata, anche fisicamente. A volte sono ostile rispetto a questa immagine, però non mi preoccupa il futuro nel senso del decadimento. So che ci sarà, come dicono gli anziani: “la vecchiaia è una brutta bestia”. Ma non me lo chiedo ancora come sarò, quando succederà.

·        Michel Houellebecq.

Gli Interventi di Houellebecq per far luce sul mondo contemporaneo. Interventi, l'ultimo libro di Houellebecq edito in Italia dalla Nave di Teseo, è un raccoglitore di alcuni tra i più interessanti scritti del noto scrittore francese. Federico Giuliani il 23 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Dalle digressioni sull'arte contemporanea all'invettiva contro il poeta e sceneggiatore francese Jacques Prévert, "uno di cui s'imparano le poesie a scuola" ma che viene definito "imbecille". Dall'elogio a Donald Trump, "un buon presidente", al rimedio contro la "spossatezza d'essere", passando attraverso un'analisi del cinema novecentesco. E ancora, i "colloqui" con molteplici personaggi e il riferimento a Emmanuel Carrere e Neil Young. A prima vista può sembrare un insieme di riflessioni scoordinate tra loro e riunite alla rinfusa. Interventi, l'ultimo libro di Michel Houellebecq, edito in Italia da La Nave di Teseo, è invece un raccoglitore di alcuni tra i più interessanti scritti del noto scrittore francese. Interventi, appunto, che spaziano attraverso svariati temi ma che sono uniti da un minimo comune denominatore: l'attenzione – sia pur in modo corrosivo, controcorrente e dissacrante, tipica di Houellebecq – al mondo in cui viviamo. Un mondo, quello odierno, dove la vita delle persone è scandita da tecnologia e conformismo. 

Gli "Interventi" di Houellebecq

"Anche se non voglio essere un "artista impegnato", ho cercato in questi testi di persuadere i miei lettori della validità dei miei punti di vista, qualche volta sul piano politico, ma più spesso su diversi "temi sociali" e sul dibattito letterario", ha spiegato Houellebecq. L'autore ha quindi sottolineato che con questo libro non promette assolutamente di "smetterla di pensare" ma "almeno di smetterla di comunicare i miei pensieri e le mie opinioni, tranne in eventuali casi di grave emergenza morale".

Il volume, uscito in Italia lo scorso 5 ottobre, conta 480 pagine. Si apre con il testo "Jacques Prévert è un imbecille" e si chiude con "Il caso Vincent Lambert non sarebbe dovuto accadere". "Ho cercato di classificare questi "interventi" in ordine cronologico, per quanto ricordassi delle date. L’esistenza almeno apparente del tempo è sempre stata una grande fonte di fastidio per me; ma ci siamo abituati a vedere le cose in questi termini. Per questa volta, quindi, mi adatto", ha aggiunto Houellebecq.

I temi trattati da Houllebecq

Nel libro si parla di "Emmanuel Carrère e il problema del bene", di "Donald Trump è un buon presidente", in uno scritto apparso su Harper's Magazine nel gennaio 2019, e di Neil Young con le sue magnifiche canzoni e il suo percorso musicale che ha qualcosa di maniaco-depressivo. Tra i colloqui spicca quello con lo scrittore e giornalista francese Christian Authier. Troviamo inoltre anche un elogio del cinema muto, "La questione pedofilia" e "Un rimedio alla spossatezza dell'essere". Mentre in "Ho letto per tutta la vita" Houellebecq rivela che a dieci anni si è ritrovato a leggere "Graziella" di Alphonse de Lamartine, e in "Sono normale. Scrittore normale" ricorda la sua prima raccolta di poesie "La ricerca della felicità" e il premio Tristan Tzara.

Curiosità personali sull'autore, dunque, ma anche commenti e analisi a tutto tondo sul presente. Usciti su riviste e giornali francesi, gli interventi stiamo parlando di testi e colloqui inediti in Italia. L'autore de "Le particelle elementari", di "Sottomissione" e di "Annientare" ci racconta, come ha sempre fatto nei suoi libri, il mondo in cui viviamo, ci parla delle letture e visioni che lo raccontano. Con il suo sguardo di osservatore implacabile, lo scrittore e poeta riesce a mettere in moto pensieri che riguardano tutti noi anche attraverso le occasioni più imprevedibili, contingenti e personali.

"Contrariamente alla maggioranza delle persone, non temo la morte, anzi, invecchiando riscopro la mia giovinezza, a lungo dimenticata, e ogni tanto, quando le cose vanno male, mi rifugio comodamente nel mio lavoro. I miei libri mi garantiscono già una forma d’immortalità", ha dichiarato Houllebecq. I lettori, con "Interventi", potranno invece scoprire uno dei lati più nascosti dell'autore francese.

Noi, illusi di essere dèi saremo solo cloni senza più l'ombelico. Michel Houellebecq delinea il nostro futuro: ci resta soltanto una "Consolazione tecnica". Michel Houellebecq il 5 ottobre 2022 su Il Giornale.

Io non mi piaccio. Provo per me solo un briciolo di simpatia, e ancor meno stima; di più, la mia persona non m'interessa molto. Conosco da tempo le mie principali caratteristiche, e ho finito per provarne disgusto. Da adolescente, ancora giovane uomo, parlavo di me, pensavo a me, ero come ricolmo della mia stessa persona; ora non è più così. Mi sono estraniato dai miei pensieri, e la sola prospettiva di dover raccontare un episodio personale mi fa sprofondare in una noia vicina alla catalessi. Qualora vi sia assolutamente obbligato, mento.

Eppure, paradossalmente, non mi sono mai pentito di essermi riprodotto. Si può anche dire che amo mio figlio, e che lo amo ancora di più ogni volta che riconosco in lui una traccia dei miei medesimi difetti. Li vedo manifestarsi nel corso del tempo con un implacabile determinismo, e ne sono felice. Godo senza il minimo pudore nel vedere ripetersi, e di conseguenza perpetuarsi, caratteristiche personali che non hanno assolutamente nulla di apprezzabile, caratteristiche che risultano abbastanza spregevoli; e che, in realtà, non hanno altro merito se non quello di essere le mie. Peraltro, non sono esattamente le mie; di alcune mi rendo conto che sono ricalcate tali e quali sulla personalità di mio padre, quello stronzo fatto e finito; cosa che, stranamente, non toglie nulla alla mia gioia. La quale è qualcosa di più dell'egoismo; qualcosa di più profondo e indiscutibile. Come un volume è qualcosa di più della sua proiezione su una superficie piana; o come un corpo vivente è qualcosa di più della sua ombra.

Ciò che al contrario mi rattrista, in mio figlio, è il fatto di vederlo mettere in risalto (influsso della madre? cambiamento dei tempi? puro individualismo?) i tratti di una personalità autonoma, nella quale io non mi riconosco affatto, che mi rimane estranea. Lungi dal meravigliarmene, mi rendo conto che lascerò soltanto un'immagine incompleta e indebolita di me stesso; nel giro di pochi secondi, avverto più nettamente l'odore della morte. E posso confermarlo: la morte puzza.

La filosofia occidentale favorisce poco la manifestazione di sentimenti del genere; sono sentimenti che non lasciano il minimo spazio al progresso, alla libertà, all'individuazione, al divenire; che s'indirizzano unicamente all'eterna, imbecille ripetizione dell'uguale. Per giunta, non hanno nulla di originale; sono condivisi dalla quasi totalità dell'umanità, nonché dalla maggior parte del regno animale; non sono nient'altro che la memoria sempre attiva di un istinto biologico dominante. La filosofia occidentale è un lento, paziente e crudele dispositivo di ammaestramento volto a convincerci di alcune idee del tutto false. La prima è che dobbiamo rispettare gli altri perché sono differenti da noi; la seconda è che abbiamo qualcosa da guadagnare dalla morte.

Oggi, per effetto della tecnologia occidentale, questa vernice di convenienze si sta rapidamente scrostando. Naturalmente, io mi farò clonare appena possibile; naturalmente, tutti si faranno clonare appena possibile. Andrò alle Bahamas, in Nuova Zelanda o alle Isole Cayman; pagherò il prezzo necessario (né gli imperativi etici né gli imperativi finanziari hanno mai pesato molto, in confronto a quelli della riproduzione). Avrò probabilmente due o tre cloni, come si hanno due o tre figli; tra le cui nascite rispetterò un adeguato intervallo (né troppo vicini né troppo lontani); uomo ormai maturo, mi comporterò da padre responsabile. Assicurerò ai miei cloni una buona educazione; e alla fine morirò. Morirò senza piacere, poiché non desidero morire. Tuttavia, fino a prova contraria, vi sono obbligato. Tramite i miei cloni, avrò raggiunto una certa forma di sopravvivenza per nulla sufficiente, ma comunque superiore a quella che mi avrebbero garantito dei figli. È il massimo che la tecnologia occidentale possa offrirmi, sino a oggi.

Nel momento in cui scrivo queste righe, mi è impossibile prevedere se i miei cloni nasceranno fuori dal grembo della madre. Ciò che al profano sembra tecnicamente semplice (gli scambi nutritivi attraverso la placenta comportano a priori un minor mistero rispetto all'atto della fecondazione) si rivela in realtà l'elemento più difficile da riprodurre. Nel caso in cui la tecnica risultasse abbastanza progredita, i miei futuri figli, i miei cloni, vivranno l'inizio della loro esistenza dentro un barattolo di vetro; e questo mi rattrista un po'. Mi piace la fica delle donne, sono felice quando penetro nel loro ventre, nella morbidezza elastica della loro vagina. Capisco le ragioni della sicurezza, gli imperativi tecnici; capisco le ragioni che condurranno progressivamente a una gestazione in vitro; mi concedo, in merito, solo una leggera manifestazione di nostalgia. I miei piccoli cari, concepiti così lontano da lei, sentiranno ancora il gusto della fica? Lo spero per loro, lo spero con tutto il cuore. Esistono molte gioie a questo mondo, ma pochi piaceri e pochissimi che non procurino alcun male. Fine della parentesi umanista.

Se devono svilupparsi dentro un barattolo, i miei cloni nasceranno naturalmente senza ombelico. Non so chi abbia usato per la prima volta in senso spregiativo l'espressione littérature nombriliste, ma so che questo banale cliché non mi è mai piaciuto. Quale sarebbe l'interesse di una letteratura che pretendesse di parlare dell'umanità escludendo ogni considerazione personale? Eh? Gli esseri umani sono molto più simili tra loro di quanto si pensi, nelle loro comiche pretese di essere dei se stessi singoli; è molto più facile pensare di raggiungere l'universale parlando di sé. E qui scatta un secondo paradosso: parlare di sé è un'attività fastidiosa, persino ripugnante; scrivere di sé è, in letteratura, la sola cosa che valga, a tal punto che classicamente e correttamente si commisura il valore dei libri alla capacità di coinvolgimento personale del loro autore. È grottesco, se si vuole, è anche di un'impudenza folle, ma è così.

Scrivendo queste righe, sto effettivamente, e concretamente, contemplando il mio ombelico. Di solito ci penso di rado, ed è molto meglio. Questa rientranza della carne reca in sé, con tutta evidenza, il segno di un taglio, di un nodo effettuato in modo frettoloso; è il ricordo di un colpo di forbici attraverso il quale sono stato, senza indugio, proiettato nel mondo; ed esortato a sbrigarmela da solo. E, proprio come me, nemmeno voi sfuggirete a questo ricordo; da vecchi, anche molto vecchi, conserverete intatta in mezzo al ventre la traccia di quel taglio. Da quel buco mal chiuso, i vostri organi più interni potranno in ogni momento fuoriuscire e andare a marcire nell'atmosfera. Potrete in ogni momento svuotarvi delle vostre budella, sotto il sole; e crepare come un pesce finito da un colpo di stivale in piena spina dorsale. Non sarete né il primo né il più illustre. Ricordate le parole del poeta: come un pesce morto / finito a pedate.

Farete presto la stessa fine, figli senza importanza. Sarete come dèi e non sarà affatto sufficiente. I vostri cloni non avranno ombelico, ma avranno una littérature nombriliste. Anche voi sarete nombrilistes; sarete mortali. Il vostro ombelico si coprirà di grasso, e sarà detto tutto. Dopodiché vi si getterà della terra in faccia. Traduzione di Sergio Arecco. 2022 La nave di Teseo editore, Milano

Secondo Michel Houellebecq gli edifici di oggi sono corsie dell’ipermercato sociale. MICHEL HOUELLEBECQ su Il Domani il 04 ottobre 2022

L’architettura contemporanea si basa sulla formula: «Ciò che è funzionale è necessariamente bello». Partito preso sorprendente, in quanto lo spettacolo della natura contraddice di continuo quel postulato

Dovendo consentire una circolazione rapida degli individui e delle merci, tende a ridurre lo spazio alla sua dimensione puramente geometrica

L’architettura contemporanea tende dunque a dotarsi di un programma semplice, così riassumibile: costruire le corsie dell’ipermercato sociale

Momenti di trascurabile poesia. Michel houellebecq il 4 ottobre 2022 su La Repubblica.

Il poliziotto con lo scudo su cui è disegnato il marchio “ss”, manifesto simbolo del ’68 francese 

Pubblichiamo un estratto dalla nuova raccolta di saggi dello scrittore francese. Un ragionamento sul tempo sospeso, dal Sessantotto alla tecnologia

Nel maggio 1968, avevo dieci anni. Giocavo alle biglie, leggevo Pif le Chien; la bella vita. Degli "avvenimenti del '68" serbo un unico ricordo, anche se abbastanza vivo. Mio cugino Jean-Pierre frequentava all'epoca la prima liceo a Le Raincy. Il liceo mi dava l'idea, allora (l'esperienza che ne ebbi in seguito confermò peraltro quella mia prima intuizione, con l'aggiunta, ahimè, di una dolorosa dimensione sessuale), di un posto vasto e terribile dove ragazzi più avanti di me in età studiavano con accanimento materie difficili, onde assicurarsi un futuro professionale.

Dear Prudence. Houellebecq è tornato ed è diventato buono. Dario Ronzoni su L'Inkiesta il 5 Gennaio 2022.

Nonostante il cinismo che innerva tutte le sue opere, “Annientare” (che uscirà per la Nave di Teseo) lascia un filo di speranza e ammorbidisce i toni (certo, senza rinunciare alla diagnosi della morte imminente dell’Occidente) 

C’è qualcosa che funziona nell’universo di Michel Houellebecq. In “Annientare”, il suo ultimo romanzo, che sarà pubblicato da La Nave di Teseo in contemporanea con l’uscita francese per Flammarion, a dispetto del titolo emerge una speranza. C’è una luce, anche se fioca, che ammorbidisce la cupezza del romanzo, ed – attenzione – l’amore, in una sua forma disperata, certo. Rassegnata, anche.

Il libro è ambientato nella Francia del 2026. Il mondo è scosso da una serie di attentati misteriosi e sofisticatissimi, con obiettivi enigmatici e svolti usando tecnologie iper-avanzate. Nel frattempo Paul, un funzionario del ministero dell’Economia, stringe amicizia con Bruno, il ministro (alter ego, forse, di Bruno Le Maire, amico dello scrittore) e si preparano alle elezioni, dove il candidato sarà un personaggio proveniente dal mondo dello spettacolo, un certo Sarfati. Il presidente, che richiama Emmanuel Macron, ha da tempo cambiato politica economica, investendo nell’industria e nel rapporto con la Germania. L’Unione Europea è debole, l’America ha già perso la sua gara contro la Cina e tutto l’Occidente scivola nel declino – questo sì tema amato da Houellebecq: «a Paul sembrava evidente che l’intero sistema sarebbe andato incontro a un gigantesco collasso, di cui per ora non era ancora possibile prevedere la data, né le modalità». 

Il resto del romanzo è il racconto delle vicende private di Paul. Sia quelle con la moglie Prudence, donna che aveva amato e che da tempo era diventata poco più di una coinquilina, un crollo dovuto a varie ragioni – dal veganesimo di lei al nuovo appartamento: «un miglioramento delle condizioni di vita va spesso di pari passo con un deterioramento delle ragioni di vita, e in particolare della vita di coppia» – sia quelle con la famiglia di origine. Il padre, un ex agente segreto, finisce in coma e questo lo obbliga a riprendere i contatti con la sorella Cécile, cattolica e destrorsa e il debole fratello Aurélien, sposato a una gretta giornalista che, per umiliarlo, aveva deciso di fare un figlio con inseminazione artificiale, scegliendo un donatore nero.

Da qui si snoda il racconto della degenza in un istituto della campagna francese, che diventa occasione di riflessioni e pensieri sullo stato della società, sulla salute degli anziani, insieme a sferzate sul ruolo degli intellettuali, ormai schiavi del consenso della folla e su un mondo che si è consegnato a un’ideologia di nichilismo radicale. È, si direbbe, il solito Houellebecq. Solo che rispetto a “Sottomissione” nemmeno l’Islam presenta una forza vitale sufficiente per reggere la società e, a sorpresa, di fronte alla cupezza depressa di “Serotonina” stavolta una risposta esiste, per quanto modesta e fragile e forse illusoria. Nell’affrontare le disgrazie private gli incubi che lo accompagnano Paul ritrova un’alleata nella moglie Prudence (cui del resto è dedicata la copertina), attraverso un disgelo lento e progressivo, seguito da un risveglio dei corpi. È lo spirito femminile, che si ritrova in Madeleine, la compagna del padre in coma e poi immobilizzato, e nella sorella Cécile.

Il punto di vista del romanzo è maschile, i protagonisti sono uomini, ma a essere decisive sono le donne, di cui Houellebecq sottolinea ed elogia di continuo la propensione alla cura, il coraggio, la tempestività, la capacità di cogliere segni invisibili agli altri, a sapere cosa fare nei momenti di difficoltà. Con la preghiera o la compagnia o il sesso ognuna di loro – e Prudence soprattutto, nel finale – procede alla sua opera di salvazione, improntata a formule antichissime, pre-cristiane. Costituiscono per Houellebecq, insomma, un momento di respiro, una forma di consolazione sufficiente di fronte alla morte e alla fine.

Fabrizio Sinisi su Il Domani il 05 gennaio 2022. L’ultimo romanzo dell’autore segna uno scarto sostanziale rispetto ai precedenti: al centro del racconto ci sono le convenzioni di una famiglia borghese, non più il desiderio. Annientare è una lunga meditazione sul finire, nostro e del mondo.

Annientare è, rispetto ai precedenti di Houellebecq, un libro molto più affabile, più cordiale, per certi versi più ingenuo. Al centro del suo racconto c’è una famiglia tradizionale.

Se però Annientare segna uno scarto sostanziale nella meditazione di Houellebecq, non è (soltanto) perché decide qui di dedicarsi alle convenzioni del romanzo borghese e dell’epopea familiare: piuttosto perché Annientare è il primo libro di Houellebecq che non parli di Desiderio.

La società parla ora un linguaggio incomprensibile. Il mondo procede in un discorso inaccessibile, rimbalza ogni tentativo di decifrarlo. La modernità ha compiuto un salto di specie, e ha bruciato i ponti.

FABRIZIO SINISI. Drammaturgo. Drammaturgo, poeta e scrittore. Dal 2010 è dramaturgo stabile della Compagnia Lombardi-Tiezzi di Firenze e docente presso il Teatro Laboratorio della Toscana. Dal 2017 è drammaturgo presso il Teatro Stabile di Brescia. Collabora con i maggiori teatri italiani.

“Annientare”, un estratto dal nuovo romanzo di Michel Houellebecq. Il Domani il 06 gennaio 2022.

A livello razionale, Paul sa di essere nei locali del ministero, perché ha appena lasciato l’ufficio di Bruno; eppure non riconosce le pareti dell’ascensore. Sono di un metallo opaco e consumato, e quando schiaccia il tasto 0 cominciano a vibrare leggermente.

Poi l’ascensore si blocca al livello 0 e le porte si spalancano. Paul è salvo, o almeno così crede, ma quando esce dalla cabina si rende conto che si trova in un luogo sconosciuto.

Il messaggio era di Madeleine, la compagna di suo padre. Gli aveva telefonato alle nove del mattino, adesso erano da poco passate le undici. La registrazione era a tratti incomprensibile. Paul riuscì comunque ad afferrare che suo padre era in coma.

Il profeta prestigiatore. Il nuovo libro di Houellebecq è la radiografia della paura del nostro tempo. Stefano Pistolini su L'Inkiesta il 3 Gennaio 2022.

Il romanzo Annientare viene presentato come distopico, ma sembra una cronaca del giorno dopo, ambientata in una Francia del 2027 somiglia assai a quella del 2022. I personaggi sono disorientati, come noi, e cercano tutti una quiete sempre più difficile da raggiungere.

Uscito dagli effetti delle pillole di sostegno che fanno di “Serotonina” un notevole trattato pseudoscientifico sulla depressione, Michel Houellebecq sorprende nuovamente il mercato e la platea dei lettori con un romanzo torrenziale, “Annientare” (La Nave di Teseo, 743 pagine, 23 euro, in libreria dal 7 gennaio), che ha il vezzo di volerci far credere che potrebbe essere il suo canto del cigno – ma di questo possiamo tranquillamente dubitare. 

L’intero procedimento di promozione di “Annientare” è una commedia trash sul come oggi l’industria culturale si rappresenti, attraverso interviste negate (ma poi qualcuna concessa), severi embarghi ai recensori, anticipazioni micragnose (70 pagine spedite qua e là per stuzzicare la curiosità), fino all’irruzione della perfida Rete, dove copie-pirata in pdf del romanzo hanno preso a circolare vorticosamente, provocando le ire dell’editore Flammarion e lo scatenamento dei suoi legali – o qualcosa del genere, perché intanto il talk of the town attorno al libro cresceva esponenzialmente e c’è da scommettere che gli effetti provocheranno dei gran brindisi con ottimi champagne. 

Dunque Houellebecq si conferma un fuoriclasse del pop e delle sue regole, sebbene si affanni a ricordarci quanto la cosa l’affatichi e lo costringa a sottoporsi al martirio promozionale che segue il processo creativo. Ma niente di tutto questo conta granché, perché in realtà lui gioca come il gatto col topo (la curiosità dei media, l’ingenuità del pubblico) e vende a iosa la sua merce che d’altronde, come sempre, è di valore.

Perché se è nel suo stile interpretare il disincantato narratore mercenario, il poeta dei compromessi e l’orchestratore di tematiche che tirano, “Annientare” è una lettura potente, di grande intrattenimento e i suoi acquirenti faranno a gara nello scoprire come finisce una vicenda da più parti presentata come distopica, ma che sembra piuttosto una cronaca del giorno dopo, ambientata in una Francia del 2027 che somiglia assai a quella del 2022. Unica differenza è che certe cose si sono sottilmente estremizzate e che si capisce che il mondo in generale, ma l’Occidente in particolare e Parigi ancor di più, stiano tutti continuando a marciare su sentieri pericolosi. E che le minacce siano più subdole del previsto, acquattate appena sotto la superficie del concetto di progresso. 

In ogni caso, i personaggi di “Annientare” sono piacevoli, ben disegnati, capaci d’intercettare la nostra simpatia e interesse, in quanto figure vivaci, intelligenti, positive e umane (pochissimi i mostri, nelle ultime pagine di Houellebecq – altra inattesa novità). 

Dunque ecco Paul Raison, consulente del ministro dell’Economia francese, uomo d’ingegno professionale e di incertezze personali; sua moglie Prudence (battezzata dalla canzone di Lennon) e anche lei funzionaria governativa di rango, ma anche sposa infelice, rapita da tentazioni misticheggianti. Bruno Juge, appunto il ministro, capo e confidente di Paul – ricalcato sulla silhouette autentica di Bruno Le Maire, amico intimo di Houellebecq – uomo colto, di talento, raziocinio ed etica, eppure a un palmo dal punto di rottura, mentre si avvicina il momento di scendere in campo niente meno che per le presidenziali. E poi la complicata famiglia di Paul, una sorella fanatica religiosa, un misterioso padre, ex-dirigente dei Servizi Segreti, folgorato nelle prime pagine da un terribile ictus e assistito da una seconda moglie tremebonda. 

Una rappresentazione che passa di continuo dal privato al pubblico, dal personale al politico, dai sentimenti ai doveri fino alle mire dell’ambizione. Perché in parallelo alla corsa delle elezioni e all’irresistibile crescita di prestigio di una nazione francese eccitata dalla dimensione della propria forza, si sviluppa un’altra linea narrativa, stavolta nera, che descrive la mutazione delle forze del male per come le percepisce l’autore, il loro trasloco nei crismi del contemporaneo fino ad annidarsi nella Rete, trasformandola in strumento di terrore e in minaccia non solo al progresso, ma addirittura alla sopravvivenza degli uomini. 

Non andiamo oltre nel delineare gli sviluppi della storia, avvincente al punto da non meritare riassunti sommari. E diamo invece un’occhiata all’aria che tira in generale nelle pagine del più famoso scrittore francese del XXI secolo e alle idee che s’è fatto del mondo che racconta. Che stavolta è una rappresentazione a due facce, priva degli estremismi che un tempo eccitavano Houellebecq, più complessa, a tratti in apparenza ingannevole. Perché i suoi personaggi sono competenti e onesti tecnocrati di una post-democrazia, ambiziosi ma giudiziosi nelle scelte e timorosi nelle relazioni. Forse più insicuri del necessario, come del resto stiamo diventando tutti, perché a giocare c’è molto da perdere, la nostra civiltà ha costruito tanto ma ha prodotto un’infinità di scorie e la sensazione di pericolo globale si accentua giorno dopo giorno. 

Una grande minaccia ci sovrasta, ma non sappiamo definirla, i suoi contorni appaiono mutevoli, anche se la parola “Covid” non ricorre nel romanzo, e nemmeno “pandemia” – ma la paura sì, c’è in tutte le pagine, è palpabile, e la ricerca di requie, il tentativo di trovare un po’ di pace gronda da tutta la parabola di “Annientare”, senza nemmeno il coraggio di incasellarlo alla voce “amore” o “felicità”. 

Ma non è il caso di fare i catastrofisti: l’umanità ha realizzato un capolavoro imperfetto, disseminato di debolezze, di vergogne, ingiustizie e perciò di rabbia, odio, vendetta. Ci risiamo con gli angeli e i diavoli, non se n’esce, ma Houellebecq stavolta si schiera dalla parte dei buoni, sebbene col sadismo di chi lascia intendere che non è questione di schieramenti, quanto, come dicevano gli antichi saggi, di karma. 

La modernità produce il male come residuo del progresso e questo supplizio è insanabile, un destino malevolo, un errore di calcolo. Sesso e sete di potere sono le più efficaci pillole di sostegno collettive, ma sono solo terapie di sostegno, non soluzioni del problema. Il mondo non sarà mai perfetto, la famiglia non sarà un paradiso, la coppia non sarà eterna e il nostro corpo continuerà a disfarsi, a dispetto della scienza della salute.

Houellebecq ha sadicamente presentato “Annientare” come “un libro deprimente”, espressione di un’umanità delusa da se stessa, indebolita dai traumi, sconvolta dalla paura della morte. Ma c’è una nuova compostezza nelle sue pagine, che fa pensare alla dichiarazione dell’allenatore di una squadra coraggiosa, sbaragliata al termine della partita troppo difficile: abbiamo fatto il possibile, abbiamo gettato il cuore oltre l’ostacolo, abbiamo sbagliato molto, ma più di così non si poteva fare. 

Il senso di tragedia che aleggia nel libro va in risonanza con la percezione di caducità a cui ci stiamo abituando di questi tempi. Houellebecq è un prestigiatore delle profezie, sente le temperature e ha la disinvoltura di trasformarle in racconto. Se ci mettete il contributo offerto da una degnissima drammatizzazione, troverete motivi per restituire a un romanzo quella capacità di rappresentazione del presente che oggi si è sempre più restii ad accordargli.

Michel Houellebecq, lo scrittore che ha previsto il futuro. Francesco Boezi l'11 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il filosofo francese ha anticipato tanti fenomeni sociali dei nostri tempi. L'ultimo libro, Annientare (La Nave di Teseo), è l'ennesima sconvolgente lettura del mondo per come sarà.  

Se l'Europa ha qualche disturbo latente, le opere di Michel Houellebecq sono in grado, senza disdegnare un certo grado di crudezza narrativa e linguistica e soprattutto senza aver bisogno di giustificazioni, di palesare quel "guasto".

Sullo scrittore transalpino si è detto (e scritto) moltissimo, comprese durante questi primissimi giorni di gennaio a ridosso della pubblicazione di Annientare, l'ultimo (attesissimo) romanzo edito, come sempre in Italia, da La Nave di Teseo. Il coro d'interpretazioni è soltanto la più classica delle conseguenze: ogni volta che Michel Houllebecq chiude l'ultimo capitolo di un libro, inizia la corsa a rintracciare le profezie nascoste tra le righe del testo.

Anticipatore ed interprete del contemporaneo

Del resto, il romanziere francese ci ha abituato bene: la "maledizione" che lo accompagna - simile a quella che ha interessato Louis Ferdinand Celine ma anche altri giganti della letteratura mondiale - non gli ha impedito di guadagnarsi la fama di "profeta". Di sicuro, Houellebecq è considerato un interprete assoluto della contemporaneità e delle sue distorsioni antropologiche.

Il Vecchio continente, grazie ai romanzi dello scrittore d'Oltralpe, è soggetto ad una continua diagnosi che immortala un pessimo stato di salute. Dal nichilismo pervasivo agli aspetti psicologici dell'uomo moderno, passando per la fenomenologia sociale e per gli elementi politologici: la definizione più in voga, tra quelle inflazionate dalla critica, fa di Houellebecq un anticipatore.

In ogni libro, viene percepita una dose consistente d'esistenzialismo che deriva dalle esperienze personali dell'autore e dalla sua capacità d'osservazione sul mondo ma, il romanziere, non invade mai il campo con toni narcisistici: quelli di Houellebecq non sono scritti personalistici ma disamine capaci di produrre un effetto specchio in chi legge. Forse è questa la principale capacità che viene riconosciuta all'umanista: trarre dalle particolarità di una storia dei paradigmi validi per l' insieme dell'odierna condizione umana.

Anche l'ultimo romanzo - quello di cui IlGiornale ha pubblicato un estratto - è destinato senza dubbio alcuno a far discutere. Annientare è candidato a disegnare l'ennesima mappatura della condizione vissuta dall'uomo durante i tempi moderni, con la politica cui è stato attribuito uno spazio, per quanto di sfondo, forse maggiore rispetto alla maggior parte dei libri precedenti. Houllebecq non è un moralista e non fornisce antidoti: semplicemente racconta. E forse è anche per questa sua mancata volontà di distribuire formule e soluzioni salvifiche che il transalpino gode della fama di realista. 

Il caso Sottomissione

Houellebecq non è soltanto Sottomissione ma quel romanzo ha avuto un significato mediatico superiore alle aspettative. A giocare un ruolo decisivio affinché di Sottomissione si parlasse in tutta Europa per anni consecutivi (se ne discute ancora e se ne discuterà in futuro) è stato il momento in cui il romanzo è stato pubblicato: a poche settimane dall'attentato di Charlie Hebdo. Nell'opera, Houellebecq immagina una Francia islamizzata e del tutto slegata dalla sua cultura originaria. I cosiddetti sovranisti hanno fatto di Sottomissione un testo guida per comprendere - dicono loro - a quale direzione è destinato il concetto di Stato nazione, salvo interventi capaci di mitigare il multiculturalismo e la gestione aperturista dei fenomeni migratori.

Sottomissione è insomma la cartella clinica della Francia immersa in un avvenire che ha dimenticato la cristianità e che si è arresa, senza colpo ferire, ad altre tradizioni e ad un'altra confessione religiosa. Lo scrittore francese, non solo per questo romanzo ma anche per altre prese di posizione, è stato spesso etichettato come un intollerante anti-islamico, oltre che come un simpatizzante dell'estrema destra o dell'emisfero ultra-conservatore. Tra gli aforismi riassuntivi che forse l'umanità continuerà a conoscere ed a tramandare, con ogni probabilità, c'è anche questo: "È la sottomissione, l'idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta".

Le altre profezie

Sottomissione è un caso eclatante ma non è l'unico. Serotonina, il penultimo romanzo (quest'anno ridato alle stampe sempre dalla Nave di Teseo), è un viaggio all'interno della depressione, che è il grande convitato di pietra della contemporaneità. Ma Serotonina è anche una fotografia precisissima dell'abbandono subito dalla Francia rurale, quella periferica che, poco tempo dopo l'uscita del romanzo, ha contribuito a dare vita ai gilet gialli. E poi c'è quella dipendenza, un altro tratto segnante della fase storica in cui siamo catapultati, che ci rende sempre schiavi di qualcosa che non riusciamo davvero ad afferrare. Un grande spazio - in "Serotonina" come in quasi tutti gli altri romanzi - è riservato all'involuzione delle relazioni amorose ed amicali nel mondo moderno. ,

La coppia composta da un uomo ed una donna, comunque sia, come chi leggerà Annientare avrà modo di approfondire, costituisce per Houellebecq quasi una sentinella in grado di contrastare l'avanzata della dissoluzione del mondo tradizionale: "Una coppia è un mondo, un mondo autonomo e compatto che si sposta all’interno di un mondo più vasto, senza esserne realmente toccato; da solo, invece, ero attraversato da faglie". Quest'ultima è una frase che non è contenuta in Annientare, bensì in un libro precedente, ma che spiega bene quale sia il valore che lo scrittore d'Oltralpe attribuisce allo stare insieme.

Elencare tutte le previsioni e le tematiche contenute negli altri testi sarebbe complesso. Se "Estensione del dominio della lotta" - il primo romanzo - è una critica a certe distorsioni del capitalismo e del mondo lavorativo costruito su basi economicistiche, "Le particelle elementari" - che molti considerano il manifesto ed il capolavoro di Houellebecq - spazia tra la suggestione della clonazione degli esseri umani all'incontro-scontro tra un protagonista capace d'incarnare l'apollineo ed un altro profondamente dionisiaco. 

Houellebecq e la pandemia

L'evento che ha scosso la storia - la notizia del secolo, almeno sino a questo momento - è la pandemia, che Michel Houellebecq ha interpretato, per al di fuori delle sue opere, alla sua maniera, in specie durante i primi lockdown continentali. La diffusione del Covid19 è, per l'intellettuale d'Oltralpe, un acceleratore di cambiamenti tanto radicali quanto tragici già in programma. Tra queste, anche il definitivo tramonto delle relazioni umani per come le abbiamo conosciute.

Nella lettera pubblicata sul sito di France Inter, lo scrittore francese esprime il consueto punto di vista sprezzante: "Ammettiamolo: la maggior parte delle e-mail che ci siamo scambiati nelle ultime settimane aveva come primo obiettivo quello di verificare che l'interlocutore non fosse morto, né sul punto di esserlo. Ma dopo questa verifica, abbiamo provato a dire delle cose interessanti, cosa non facile, perché questa epidemia riusciva nella prodezza di essere allo stesso tempo angosciante e noiosa". E questa è una postilla anche su come l'umanità odierna si rapporti con la morte. Più in generale, Houellebecq pensa che non avverà una trasformazione maieutica "grazie" alla diffusione del Covid19: ci sarà - ritiene piuttosto - un abbrutimento generalizzato ma già telefonato dall'andazzo del mondo.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Houellebecq, Onfray, Zemmour: dalla nuova “rive droite” i sovranisti chic soffiano sul fuoco. Da sinistra alla reazione. E dalle élite al populismo. È il percorso che unisce in Francia un gruppo di intellettuali à la page. Vittimisti, vanesi e retorici, nemici dell’Europa e dell’Islam, irrompono nella campagna per le presidenziali del 2022. E vogliono sconfinare. Anna Bonalume su L'Espresso il 03 agosto 2021. «Alcuni intellettuali francesi, in particolare Alain Finkielkraut e Michel Onfray, hanno abbandonato il campo delle élite per avvicinarsi al campo del popolo. Immediatamente sono stati osteggiati da tutti i media, si sono uniti al campo dei populisti abietti, dove c’era già Éric Zemmour e dove io andavo a fare un giro di tanto in tanto». In questa dichiarazione di Michel Houellebecq, durante una conferenza a Buenos Aires nel 2017, si ritrovano i termini del mutato paesaggio intellettuale e politico francese di oggi, nell’anno chiave che porta alle elezioni presidenziali del 2022. Avanzano in Francia, fanno proseliti in Europa, anche in Italia. Hanno un nemico comune: le élite progressiste, gli apostoli del progressismo e della “religione dei diritti umani” che disprezzano e ostacolano il campo formato dal popolo e dagli “spiriti liberi” che parteggiano per il popolo. Predicano la provocazione, l’amore per il politicamente scorretto e soprattutto il culto del proprio status di vittime di élite e media: Eric Zemmour, Alain Finkielkraut, Michel Onfray e Michel Houellebecq sorridono alla politica populista. Mentre Zemmour è sempre stato di estrema destra, la conversione degli altri tre è piuttosto recente. Houellebecq comunica solo con i suoi libri. Profeta moderno per alcuni, islamofobo e misogino per altri, lo scrittore oggi è diventato l’idolo della destra sfrenata e infastidisce l’intellighenzia di sinistra. Nel 2019 il presidente gli ha conferito la Legione d’Onore: «Visceralmente antieuropeo», ha concesso Emmanuel Macron, è impossibile non riconoscere a questo scrittore «romantico perso in un mondo diventato materialista» il merito di aver «reinventato il romanzo francese». Il suo ultimo libro è una raccolta di testi dal titolo “Interventions 2020” edito da Flammarion. Vi spicca l’articolo “Donald Trump è un buon presidente”, pubblicato da Harper’s Magazine nel 2019. Houellebecq sosteneva la diplomazia non convenzionale dell’ex presidente americano, il suo atteggiamento conciliante verso il presidente russo Vladimir Putin, la sua sfiducia nel libero scambio e nella costruzione europea. Allo stesso modo, elogia la libertà di pensiero di Eric Zemmour, definito il «più interessante avatar contemporaneo» dei «cattolici non cristiani» che ammirano la Chiesa senza credere in Dio. Il “libero pensatore” Eric Zemmour è un giornalista politico vicino a Marion Maréchal. Ex deputata, la nipote di Marine Le Pen si è ufficialmente ritirata dalla vita politica: ora si occupa a tempo pieno della scuola di scienze politiche fondata a Lione, dove ama intervenire Zemmour, che ha anche presenziato all’apertura della “convention della destra” da lei organizzata a Parigi nel 2019. In questa occasione, la sua retorica violenta contro l’Islam e l’immigrazione gli è valsa una condanna e una multa di 10.000 euro per insulto e incitamento all’odio. Sanzioni che hanno avuto l’effetto di aumentare la sua popolarità. Il giornalista si è fatto conoscere come ospite fisso del programma “Face à l’info” in onda in access prime time sul canale d’informazione CNews, passato nelle mani del gruppo Bolloré, proprietario di numerose aziende di media e pubblicità. Zemmour potrebbe essere interessato alle elezioni presidenziali del 2022, anche se non ci sono conferme ufficiali da parte sua. Il suo editore Albin Michel ha cessato il contratto con lui in vista delle elezioni. «Abbiamo avuto uno scambio molto franco con Zemmour che aveva confermato la sua intenzione di partecipare alle elezioni presidenziali e di fare del suo prossimo libro un elemento chiave della sua candidatura», ha spiegato Gilles Haéri, capo di Albin Michel. Tra gli intellettuali francesi citati da Houellebecq, c’è Michel Onfray, uno dei filosofi francesi contemporanei più prolifici. Autore di più di cento opere, ha appena pubblicato in Francia “La nave dei folli”, nel quale condanna il delirio dell’Occidente, e “L’arte di essere francese”, in cui denuncia l’inevitabile apocalisse del mondo contemporaneo. «La civiltà sta crollando, i valori vengono rovesciati, la cultura si sta riducendo come una pietra, i libri contano meno degli schermi, le scuole non insegnano più a pensare ma a obbedire al politicamente corretto, e la famiglia esplosa, scomposta e ricomposta è spesso formata da persone egocentriche e narcisiste», tuona la quarta di copertina. Il filosofo lamenta di essere stato marcato a fuoco dai responsabili di questa catastrofe culturale, ovvero le élite europeiste e la «fasciosfera di sinistra» che, lui dice, lo spacciano per «un fascista, un antisemita, un islamofobo, un reazionario». Eppure questo non gli impedisce di continuare ad occupare ampiamente le vetrine delle librerie e gli studi televisivi, dove si destreggia tra una feroce invettiva e l’altra, e le espressioni provocatorie sono la sua principale modalità di esistenza. Per il filosofo le elezioni americane sono state un fallimento, come racconta all’Espresso: «La vittoria di Biden è quella di un uomo più malleabile di Trump: quest’uomo impulsivo e brutale, irascibile e aggressivo, volgare e maleducato, sembrava impossibile da pilotare! Biden è un uomo vecchio, stanco, una vecchia volpe della politica, in secondo piano da quarant’anni, messo in primo piano grazie all’aiuto del suo romanzo di famiglia ben sfruttato. È l’uomo del politicamente corretto, il cliente ideale dei Gafam, mentre l’account di Trump è sospeso dagli stessi capi dei Gafam», dove Gafam è l’acronimo che indica le cinque maggiori multinazionali dell’intelliggenza artificiale: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft. Sul futuro dell’ex presidente americano, Onfray ha una visione chiara: «Trump potrebbe trasformare questo fallimento elettorale in una vittoria politica nazionale. Assumerebbe quindi la guida di un movimento più ampio rispetto alla limitata presidenza degli Stati Uniti». In Europa, invece, il vero nemico è l’Unione Europea, «un club di banchieri che per un quarto di secolo hanno nascosto i loro interessi dietro la propaganda ideologica; per loro l’Europa sarebbe la fine della disoccupazione, la piena occupazione, il senso della Storia, l’amicizia tra i popoli, la fine di tutte le guerre, la fine del razzismo». Per Onfray invece queste conquiste sono fandonie: «Dopo un quarto di secolo questa politica ha generato esattamente il contrario!». Per divulgare queste idee, che lui definisce di tipo «socialista proudhiano», ha fondato la rivista sovranista “Front populaire”, un progetto nato per «costituire un Fronte Popolare in opposizione al Fronte del Populicidio costituito da Macron e dai suoi (la classe politica Maastrichiana di destra e di sinistra) il cui progetto consiste nell’estromettere il popolo dalla politica». L’obiettivo finale del filosofo e dei suoi alleati è chiaro: «Noi vogliamo la sovranità, che è l’arte di riprendere in mano il controllo politico del Paese per realizzare ciò che definisce la democrazia: il governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo. Perché, da questo punto di vista, non siamo più in una democrazia, ma in una aristocrazia del capitalismo». Accanto al “populicidio”, c’è la minaccia dell’Islam, che per Onfray «porta avanti una guerra di civiltà contro la giudeo-cristianità». La difesa della civiltà occidentale dagli attacchi dell’Islam accomuna Onfray, Zemmour, Finkielkraut ed è la provocazione sulla quale si basa il romanzo di Houellebecq “Sottomissione”. Sulla difesa della cultura e dell’Identità della civiltà occidentale, non si sottrae il filosofo Alain Finkelkraut. Recentemente ha confessato le proprie angosce a Vanity Fair: «Siamo entrati in una crisi dalla quale non sono sicuro potremo rimetterci. La Francia si trova di fronte a un’immigrazione incontrollata e sta subendo un mutamento demografico senza precedenti nella nostra storia». Di fronte a questo cambiamento cosa fanno le elite? Sono impegnate in «un’autoflagellazione sistematica e delirante». A dare voce a queste posizioni, una nuova costellazione di media di più o meno recente creazione, orientati a destra ed estrema destra. Tra questi ci sono il canale televisivo CNews, il settimanale Valeurs Actuelles, il magazine L’incorrect, il sito internet Boulevard Voltaire, la rivista Front Populaire, il nuovo media online Livre Noir. L’ultima battaglia è sui vaccini, il grande tema politico di inizio campagna elettorale per le presidenziali. I riferimenti intellettuali degli antivax sono il medico Didier Raoult, noto medico difensore del controverso trattamento per il covid-19 a base di idrossiclorochina, e Zemmour che due settimane ha dichiarato su CNEWS : «Macron ci impedisce di vivere senza vaccinazione, quindi siamo obbligati a vaccinarci. Non ha il coraggio di obbligarci perché aveva detto il contrario». Anche Zemmour si era contraddetto esaltando qualche mese prima la campagna vaccinale di Boris Johnson, ma non importa. Provocazioni e contraddizioni peseranno nella prossima campagna elettorale, le elezioni presidenziali del 2022. 

Emanuela Minucci per "La Stampa" il 18 ottobre 2021. Michel Houellebecq è arrivato a Torino nel tardo pomeriggio di sabato. E, spiazzante come al solito, pur essendo la vera stella supernova di questo Salone del Libro, non ha preteso né suite a 5 stelle né tantomeno un cachet. Una condizione però l'ha posta: «Una camera dove si possa fumare, meglio se con un balcone, altrimenti non prenotate neppure l'aereo». Accontentato. All'hotel vicino alla stazione di Porta Nuova, dove gli abbiamo offerto una birra, si è presentato chiuso nello stesso Barbour da «intellettuale un filo nichilista» (definizione di una lettrice che dichiara di aver letto Serotonina tutto in una notte) che indossava anche ieri, fra i velluti rossi dell'Auditorium del Lingotto. Qui ha ritirato dalle mani del «giudice monocratico» Marco Missiroli, il 47° premio Mondello. Davanti a Elisabetta Sgarbi, l'editrice della Nave di Teseo che pubblica i suoi romanzi, e al direttore del Salone Nicola Lagioia che non esita a definire l'evento «un incontro che dal punto di vista letterario passerà alla storia», l'autore delle Particelle elementari annuncia di avere finito un nuovo libro, senza scendere in troppi dettagli: «Sarà una storia deprimente, mi manca ancora il personaggio femminile ma lo troverò». L'Auditorium è stracolmo e silenzioso come una cattedrale. E qui comincia il dialogo tra Marco Missiroli e il suo ruvidissimo mito letterario: Michel Houllebecq che trova meraviglioso il fatto di essere non solo tradotto in italiano, ma anche nella lingua dei segni.

Chi era Houellebecq prima dell'Estensione del dominio della lotta?

«È lunga da spiegare, sono vecchio. Ho cominciato leggendo poesie in pubblico e poi le ho pubblicate. Ero uno scrittore promettente, non avevo ancora un grande successo e non ero troppo polemico, perché per essere molto polemici bisogna avere un grande successo. Poi è arrivato tutto insieme con Le particelle elementari. Mi sono reso conto che sapevo scrivere romanzi, ma non sarei in grado di scrivere un saggio».

Come si trova un uomo tranquillo come lei alla ribalta del demonio?

«Chi è violento nella scrittura è molto dolce nella vita, perché la scrittura è liberatoria e viceversa. Diffidate di chi scrive cose dolci, è gente pericolosa».

 C'è sempre un principio amoroso alla base dei suoi libri, magari fa un giro più lungo, in questo lei mi ricorda Conrad, nei suoi dissidenti c'è sempre stato un amore tenebroso, nero…

«L'amore nei libri ha lo stesso ruolo che può avere Dio: anche se si può avere dubbi sulla sua esistenza e anche se Cristo si sbagliasse è sempre preferibile stare con Cristo. È tanto tempo che non parlo di Schopenhauer, magari ne approfitto adesso». 

Prego.

«Intanto c'è un suo passaggio che trovo magnifico in cui dice che l'amore esiste, diversamente che per tanti altri filosofi, e in cui prende in giro Kant dicendo che su questo argomento non capisce nulla. Schopenhauer dice anche che l'amore è di origine sessuale e che la sessualità è importante perché serve per avere figli e che la domanda "chi mi succederà" è più importante di tutto il resto». 

Nei suoi libri l'amore è sessuale?

«Questa è una cosa strana. Si dice che c'è tanto sesso nei miei libri, ma è qualcosa che faccio fatica a capire».

Forse perché la sessualità nella sua letteratura è trattata come le relazioni umane e quelle di lavoro. Ciò che noi chiamiamo eros per lei è chimica, biologia, particelle è sociologia.

«Le Particelle è un libro scientifico, in altri libri l'approccio è più sociologico, culturale, e questo irrita molti perché la gente non vuole essere ridotta a una categoria sociologica, preferisce essere ricondotta a qualcosa di chimico. Ma sarebbe un errore». 

È vero che lei scrive a notte fonda?

«Sì, perché di notte il nostro spirito è libero. E poi bisogna approfittare dei sogni che si ricordano e scrivere prima di cominciare a parlare».

Ci spieghi le sue tre cattedrali: supermercati, automobili e l'aeroporto Charles De Gaulle.

«Il supermercato è quanto di più vicino al paradiso abbia costruito l'uomo. Dell'automobile è affascinante il linguaggio. Io amo le auto, Mercedes e Bmw. E l'aeroporto è il simbolo del concentrazionismo. Lì si vende di tutto, ma non c'è nulla che serve».

Quanto l'appassiona la politica?

«Della politica mi interessano le strategie, le alleanze, il non detto, i giochi di guerra. Ma nel retroscena nelle trame politiche i maestri siete voi italiani, con Machiavelli». 

Però nella politica contemporanea sono i francesi ad avere prodotto le più grandi sorprese.

«Le elezioni del 2017 sono state più affascinanti di qualsiasi trama di film». 

E stavolta chi vincerà?

«Al secondo turno vincerà Macron e si batterà contro il candidato della destra e non è detto che sarà Le Pen o Zemmour».

Lei scrive: io mi sento irresponsabile, sempre.

«Irresponsabile nel senso che non mi sento un guru e non cerco discepoli».

Alla fine, suo malgrado, lei è una star della letteratura mondiale. Come ci si sente?

«Non male. Diciamo che è una condizione positiva, necessaria, ma non difficile».

Standing ovation.

Houellebecq racconta "l'autunno delle idee" e incanta con Baudelaire. Alessandro Gnocchi il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Timido e istrionico, il grande scrittore francese ha recitato le poesie più belle dei "Fiori del male". Il carisma si manifesta sul palco della Milanesiana, a Parma, martedì sera verso le 21 e 30, al Parco della musica, sotto un albero secolare. Lo scrittore francese Michel Houellebecq sale sul palco, si accomoda su una seggiola rossa, ignora il leggio e inizia la sua lectio magistralis su Baudelaire. Pronuncia poche parole (come nel resto della giornata) di introduzione. In Francia, nessuno ha ricordato il bicentenario di Charles Baudelaire. Come mai? «I rapporti tra Baudelaire e la Francia non sono mai stati facili. Nella cultura francese, e in particolare nella letteratura francese, prevale una certa visione restrittiva, nella quale Baudelaire fatica a entrare». Grandi festeggiamenti invece per i quattrocento anni dalla nascita di Jean de La Fontaine. Prosegue Houellebecq: «Montaigne, La Fontaine, Voltaire Esiste una linea. Scettica, ironica, misurata, satirica, leggermente cinica». In seguito, a partire da Victor Hugo, prevale «una specie di ottimismo umanistico» che ci conduce ai nostri giorni. Baudelaire non rientra in queste categorie dello «spirito francese». Il pubblico, a questo punto, si aspetta una conferenza vera e propria. Invece Houellebecq si alza e recita in francese, mentre la traduzione corre sullo schermo alle sue spalle, venticinque minuti di poesie scelte dai Fiori del male. In prevalenza va a braccio, si aiuta appena con gli appunti. Si muove lentissimo da una parte all'altra del palco, ogni tanto si riposa, beve un po' d'acqua, si siede, si alza, riprende. Quando sbaglia (due volte) chiede scusa: «Non sono più abituato». Houellebecq sceglie poesie famose, «non è che lo siano per caso» commenta sornione, che un lettore sensibile alla poesia si porta con sé tutta la vita. Un altro si spezzerebbe le ossa, alle prese con versi scolpiti nella memoria collettiva. Invece, grazie a Houellebecq, è come scoprirli per la prima volta e accorgersi che c'era qualcosa di diverso. L'incipit è subito da knock out. Il nemico: «La mia giovinezza non fu che una oscura tempesta, traversata qua e là da soli risplendenti; tuono e pioggia l'hanno talmente devastata che non rimane nel mio giardino altro che qualche fiore vermiglio. / Ecco, ho toccato ormai l'autunno delle idee». Reversibilità: «Angelo pieno di bellezza, conosci tu le rughe, e la paura d'invecchiare e il tormento orribile di leggere l'orrore segreto della devozione negli occhi ove a lungo bevvero i nostri avidi occhi? Angelo pieno di bellezza, conosci tu le rughe?». Poi gli «ultimi ardori» della Morte degli amanti, la morte come consolazione della Morte dei poveri, gli oppiacei sogni di felicità di Invito al viaggio e Raccoglimento Un pugno in faccia, assestato con somma grazia, ma un pugno in faccia. Baudelaire, e Houellebecq attraverso Baudelaire, dicono parole che raramente si ascoltano volentieri: la senescenza è la nostra condizione; nostra, personale; nostra, della società in cui viviamo. È l'autunno del corpo ma anche delle idee. L'Occidente confonde lo sviluppo col progresso (proprio il «Progresso» è il tema della Milanesiana 2021). Insegue il feticcio della tecnologia ma si è dimenticata l'umano e il divino. Sembra andare sempre più veloce ma è immobile. Georges Bernanos diceva: i vermi che spolpano il cadavere sono convinti di compiere un'opera dalle magnifiche sorti e progressive. Il cadavere? Siamo noi, è la nostra Europa. Le particelle elementari (La nave di Teseo, 1999), il romanzo che ha rivelato al mondo il talento di Houellebecq, finisce con la frase: «Questo libro è dedicato all'uomo». L'ultimo, Serotonina (La nave di Teseo, 2019), si chiude così: «E oggi capisco il punto di vista del Cristo, il suo ripetuto irritarsi di fronte all'insensibilità dei cuori: hanno tutti i segni, e non ne tengono conto. È proprio necessario, per giunta, che dia la mia vita per quei miserabili? È proprio necessario essere così esplicito? Parrebbe di sì». Non c'è da stupirsi che Houellebecq sia un punto di riferimento per chi scommette sull'umano (e sul divino). La lettura è finita. Resta il tempo di una impressione sullo scrittore. Riceve il premio alla memoria dei grandi editori francesi Jean-Claude e Nicky Fasquelle. Imbarazzatissimo. Timidissimo. Silenziosissimo. Stretta di mano vigorosa, però. Giubbotto del tipo parka, camicia blu scura a mezze maniche, pantaloni color kaki scuro. Si colloca al di sotto dell'understatement. La moglie Lysis sembra volerlo proteggere. Alla consegna della Rosa, simbolo della manifestazione, sulle note degli Extraliscio, chiacchiera con Laura Morante, tra gli ospiti della serata, accenna un passo di danza, poi si mette a giocherellare con i bottoni della camicia. Niente di strano. È come te lo aspetti. Del resto, la timidezza e il sentirsi al posto sbagliato sono programmatici. Nella prosa lirica che apre la sua prima raccolta poetica, Restare vivi (1991, ora Bompiani 2016), Houellebecq scrive: «La timidezza non è da disdegnare la timidezza è un eccellente punto di partenza per un poeta». Ancora: «Talvolta, è vero, la vita vi apparirà niente più che un'esperienza fuori luogo. Ma il risentimento dovrà sempre restare vicino, a portata di mano, anche se scegliete di non esprimerlo. E tornate sempre alla fonte, che è la sofferenza». Infine: «Quando susciterete negli altri un misto di pietà spaventata e di disprezzo, saprete di essere sulla buona strada. Potrete cominciare a scrivere». In mezzo alla ritrosia e al pudore, spicca ancora di più, monumentale, la parola poetica che Houellebecq ha portato magistralmente sul palco. Il carisma, vocabolario alla mano, è dono divino e autorevolezza tutta umana. Per un grande scrittore come Houllebecq potremmo definire il carisma in questo modo: lasciare la parola alla parola scritta e dimostrarne la profondità abissale. Alessandro Gnocchi

"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam" Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione”, il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani». Sylvain Bourmeau su L'Espresso il 07 gennaio 2015. Siamo nel 2022. La Francia ha paura. Il Paese è da tempo in preda a disordini misteriosi. E le elezioni presidenziali hanno un risultato clamoroso: il leader del giovane partito della Fraternità musulmana, Mohammed Ben Abbes, batte nettamente Marine Le Pen al ballottaggio. Dall’oggi al domani la Francia cambia. Le donne indossano lunghe bluse su pantaloni larghi e lasciano in massa il lavoro, le università diventano islamiche: chi non è musulmano è obbligato alla pensione o alla “Sottomissione”. È questo il titolo del nuovo romanzo di Michel Houellebecq, pubblicato in Francia da Flammarion il 7 gennaio tra le polemiche (in Italia esce il 15 per Bompiani). Nel suo sesto romanzo, l’autore di “Le particelle elementari” si mette improvvisamente e atrocemente a somigliare a quegli editorialisti politici di serie B -  Eric Zemmour, Alain Finkielkraut, Renaud Camus... - che nei loro bestseller preelettorali hanno agitato lo spauracchio dell’invasione dell’Islam. E lo fa con quello che si deve decisamente definire un vero suicidio letterario. Perché l’abiezione politica e la debolezza letteraria sono in questo libro strettamente legate. Un romanzo arido e triste, approssimativo, mal documentato, senza dialoghi e senza poesia: “Sottomissione” suona falso da cima a fondo e non è certamente degno di apparire nella bibliografia di quello che rimane comunque uno dei più importanti scrittori contemporanei di lingua francese. Parola mia, cioè del critico che negli ultimi vent’anni ha più spesso intervistato Houellebecq: per questo l’autore aveva deciso di dare a me la prima intervista su “Sottomissione”. Ci siamo incontrati il 19 dicembre nell’ufficio di Flammarion. 

Houellebecq, perché questo libro?

«Per molti motivi, penso. Non amo usare questa parola, ma ho la sensazione che questo sia il mio ‘mestiere’. Ho vissuto a lungo in Irlanda e quando sono tornato in Francia ho riscontrato grandi cambiamenti, cambiamenti che non sono specificatamente francesi, del resto, ma dell’Occidente in generale. In effetti, da espatriati non ci si interessa granché a nulla, né alla società dalla quale si proviene, né a quella nella quale si vive, e in più l’Irlanda costituisce un caso un po’ particolare. Secondo motivo, forse il mio ateismo non ha veramente resistito alla serie di perdite che ho subito. Le ho trovate insopportabili, in realtà». 

Allude alla morte del suo cane e dei suoi genitori?

«Sì, a questo. Sono state molte perdite in un arco di tempo ristretto. Il tutto forse è stato aggravato dal fatto che, contrariamente a ciò che credevo, non ero veramente ateo, ma veramente agnostico. In generale, dire così serve a crearsi un paravento nei confronti dell’ateismo, ma nel mio caso non credo. Riesaminando alla luce di ciò che so la faccenda dell’esistenza di un creatore, di un ordine cosmico, di una cosa del genere, mi sono reso conto che non mi sentivo in grado di rispondere né sì né no». 

Mentre in precedenza aveva la sensazione…

«Avevo la sensazione di essere ateo, proprio così. A questo punto, non so dire di più. Ecco, io credo che siano state queste due motivazioni a indurmi a scrivere, e la seconda probabilmente è stata più forte della prima». 

Come definirebbe questo libro?

«La definizione di ‘fantapolitica’ non è male. Non mi sembra di averne letta molta, ma un po’ sicuramente sì, più nella letteratura inglese che francese”. 

A che cosa si riferisce?

«Ad alcuni libri di Conrad, per esempio, e anche di John Buchan. E poi a libri più recenti, meno belli, più imparentati al thriller. Il thriller può fiorire benissimo in un contesto di fantapolitica, non essendo obbligatoriamente vincolato al mondo degli affari. In verità, c’è un terzo motivo per il quale ho scritto questo libro, ed è che l’inizio mi è piaciuto moltissimo. In pratica, in una volta sola, di getto, ho scritto tutta la prima parte fino alla pagina 26. E l’ho trovata molto convincente… Perché me lo vedo che uno studente possa scegliersi come amico Huysmans  e dedicargli la propria vita. A me una cosa simile non è capitata: ho letto Huysmans molto più tardi, intorno ai 35 anni, credo, ma una cosa del genere mi sarebbe molto piaciuta: la mia stanza non era malaccio, e nemmeno la mensa universitaria era terribile e mi sono immaginato che cosa egli avrebbe potuto voler dire rispetto a tutto ciò. Penso che avrebbe potuto essere un amico vero per me. Insomma, dopo aver scritto la prima parte, per un po’ di tempo non ho scritto altro. Era il gennaio 2013, e ho dovuto riprendere in mano il testo nell’estate di quell’anno. In realtà, il mio progetto originario era molto diverso. Non doveva intitolarsi “Soumission” (Sottomissione). Il primo titolo che gli avevo dato era “La conversion” (La conversione). E inizialmente, nei miei piani, il narratore si convertiva sì, ma al cattolicesimo. Vale a dire che a un secolo di distanza seguiva il medesimo percorso di Huysmans, partendo dal naturalismo e approdando al cattolicesimo. Poi però non ci sono riuscito». 

Perché?

«Perché non funzionava. Secondo me, la scena clou del libro è quella nella quale egli guarda per l’ultima volta la Madonna nera di Rocamadour e si sente investito da una forza spirituale, come una serie di onde, che a un tratto si allontana e lui scende verso il parcheggio. Solo e disperato». 

Definirebbe satirico questo romanzo?

«No. Al massimo, ma solo molto parzialmente, è una satira del giornalismo politico. Della classe politica, forse, un po’ di più. Ma i personaggi principali non sono una satira». 

Come le è venuto in mente di inventare un ballottaggio per le elezioni della presidenza del 2022, con Marine Le Pen in competizione con il presidente di un partito musulmano?

«Beh, per Marine Le Pen mi pare del tutto verosimile nel 2022 – mi sembra verosimile che ci si arrivi già nel 2017… Quanto al partito musulmano, qui siamo al nocciolo della questione. Ho cercato di calarmi nei panni di un musulmano e mi sono reso conto che i musulmani in verità vivono in una situazione del tutto alienata. A livello globale infatti non si interessano molto di questioni economiche, dato che a loro stanno maggiormente a cuore quelli che nella nostra epoca definiamo temi sociali. È evidente che sono molto lontani dalla sinistra, e ancor più dagli ecologisti a proposito di queste tematiche. Basti pensare al matrimonio tra omosessuali per rendersene conto. Del resto, ovunque è così. Per di più, non si capisce proprio per quale motivo dovrebbero votare per la destra, e ancor meno per l’estrema destra che li rifiuta con tutte le sue forze. Che cosa può fare quindi un musulmano che vuole votare? Si trova in una situazione impossibile, perché non è rappresentato. Sarebbe ingannevole affermare che la religione musulmana non ha conseguenze politiche, perché ne ha, proprio come il cattolicesimo del resto, anche se i cattolici sono stati rimessi al loro posto. Di conseguenza, secondo me, l’idea del partito musulmano è plausibile». 

Ma da qui a immaginare che un partito del genere tra sette anni possa trovarsi nella condizione di vincere un’elezione presidenziale…

«Sono d’accordo, questo è poco plausibile. Per due ragioni principali. La prima è la più difficile da concepire: per i musulmani sarebbe necessario riuscire a mettersi d’accordo tra di loro. Sarebbe necessario che trovassero una persona estremamente intelligente e di un talento politico eccezionale, qualità che io ho dato al mio personaggio Ben Abbes. Un talento così superiore, però, è per sua stessa definizione poco probabile. Supponiamo, in ogni caso, che esista: questo partito potrebbe dunque compiere passi avanti, ma servirebbe più tempo. Se si considera il metodo utilizzato dai Fratelli Musulmani, notiamo una rete sul territorio fatta di associazioni di beneficienza, di luoghi di aggregazione culturale, di centri di preghiera, di vacanza, di cura… Un po’ l’equivalente di quello che aveva fatto il Partito Comunista. Sono del parere che in un paese nel quale la miseria dilaga tutto ciò potrebbe effettivamente convincere anche più dei musulmani ‘normali’ – se così posso dire –, perché oltretutto non ci sono soltanto i musulmani ‘normali’, ma anche i convertiti, persone che non sono di origine maghrebina… Un tale processo, in ogni caso, richiederebbe parecchie decine di anni. In realtà, a questo proposito il sensazionalismo mediatico riveste un ruolo negativo. Alludo, per esempio, a come è stata accolta la storia vera della conversione di un tizio che abitava in un piccolo villaggio della Normandia, francese al cento per cento, e che per di più non aveva alle spalle una famiglia disgregata. Beh, si è convertito ed è partito per combattere la jihad in Siria. In effetti, è ragionevole suppore che per uno così ci siano svariate decine di persone che si convertono senza partire per combattere la jihad in Siria. La jihad in Siria non è divertente. In fin dei conti, quindi, fa presa soltanto su individui fortemente motivati dalla violenza. Ovvero, una minoranza». 

Si potrebbe anche dire che ciò che interessa a queste persone più che altro è partire per la Siria, non convertirsi…

«Non credo. Io credo che esista un bisogno reale di Dio, e che il ritorno del sentimento religioso non sia uno slogan, ma una realtà. Anzi, questo processo ha ormai raggiunto una velocità addirittura maggiore». 

Questa ipotesi è fondamentale per il suo romanzo, ma è risaputo che in realtà è smentita da tempo da numerosi studiosi che hanno dimostrato che stiamo assistendo a una fase di graduale laicizzazione dell’Islam, e che violenza ed estremismo devono essere considerate alla stregua di ultimi sussulti. Questa è la tesi di Olivier Roy, di Gilles Kepel e di molti altri che studiano queste questioni da oltre vent’anni.

«Non è quello che ho constatato io. Del resto non è solo l’Islam a giovarsi di questo ritorno della spiritualità: in America del Nord e del Sud sono gli evangelisti a giovarsene. Non si tratta di un fenomeno francese, ma di un fenomeno globale che interessa quasi tutto il mondo. Così accade in Asia, anche se non sono molto informato in proposito, e così accade in Africa, dove questo fenomeno è interessante perché si vanno affermando sempre più due grandi forze religiose: l’evangelismo e l’Islam. In buona parte sono rimasto kantiano e non credo che una società senza religione possa durare». 

Ma perché ha deciso di “drammatizzare” le cose, tenuto conto che proprio lei afferma che è inverosimile che nel 2022 possa essere eletto un presidente musulmano?

«Beh, qui forse è entrata in gioco la parte di me che adora far presa sul grande pubblico con il thriller». 

Non sarai stato invece influenzato in parte da Eric Zemmour?

«Non lo so, non ho letto il suo libro. Che cosa dice, di preciso?» 

Al pari di un certo numero di altre persone, al di là delle naturali differenze, Zemmour delinea un ritratto della Francia contemporanea che mi pare decisamente di fantasia, nel quale una delle caratteristiche fondamentali è la minaccia di un Islam che influisce moltissimo sulla società francese. Drammatizzando questo stesso tema, come ha fatto lei nella sua fiction, si ha l’impressione che lei accetti come punto di partenza la descrizione della Francia contemporanea che riscontriamo oggi nelle opinioni di  intellettuali come Zemmour.

«Non saprei… Conosco soltanto il titolo del suo libro "Il suicidio della Francia", e questa non è l’impressione che ne ho io. A me non sembra di assistere a un suicidio della Francia. Ho la sensazione opposta, invece: l’Europa si sta suicidando mentre, proprio al suo centro, la Francia si batte con tutta sé stessa e perdutamente per sopravvivere. In pratica, è l’unico paese a battersi per la propria sopravvivenza. La Francia non si suicida affatto. Del resto, per gli esseri umani convertirsi è un gesto di speranza, non una minaccia. Aspirano a un modello diverso di società. Anche se, per quanto mi riguarda, non credo che ci si converta per motivazioni sociali. Ci si converte per ragioni più profonde. E anche se su questo punto il mio libro si contraddice un po’, Huysmans è il caso tipico di chi si converte per ragioni puramente estetiche. Le tematiche che agitano Pascal lo lasciano del tutto freddo, non ne parla mai. Faccio quasi fatica a immaginare un esteta a questo punto. Per lui la bellezza, invece, è rivelazione. La bellezza della poesia, della pittura, della musica attesta l’esistenza di Dio». 

Ciò ci riporta alla questione del suicidio, tenuto conto che Baudelaire diceva che gli restava solo la scelta tra il suicidio o la conversione…

«No, è Barbey d’Aurevilly ad aver fatto questa osservazione, del resto proprio dopo aver letto "Controcorrente". Me lo sono riletto tutto, nei dettagli, e alla fine è veramente cristiano. È sbalorditivo». 

Torniamo alla drammatizzazione di cui parlavo: nel libro essa assume per esempio la forma di descrizioni molto scorrevoli e vaghe di avvenimenti che accadono senza che si capisca chiaramente di che cosa si tratta. Siamo nell’ambito delle apparenze? Della politica della paura?

«Forse sì. Sì, un po’ di paura c’è. Io sfrutto il fatto di incutere paura». 

Quindi lei sfrutta coscientemente il fatto di incutere paura parlando di un Islam che conquista la maggioranza nel paese?

«In realtà, non si sa bene di che cosa si ha paura, se delle identità o dei musulmani. Tutto resta nell’ombra». 

Si è chiesto quali conseguenze può avere un romanzo che contiene un’ipotesi simile?

«Nessuna conseguenza. Nessuna». 

Non crede che ciò contribuisca a rafforzare le immagini della Francia che citavo prima, per le quali l’Islam incombe come una spada di Damocle, come la cosa più terrificante?

«In ogni caso, già ora questo è più o meno l’unico argomento di cui si occupano i media, che non potrebbero farlo in misura maggiore. È impossibile parlarne più di quanto già facciano oggi, quindi il mio libro non avrà nessuna conseguenza». 

Questa costatazione non le fa venire voglia di scrivere altro? Di non inserirsi nel flusso del conformismo?

«No, oggettivamente fa parte del mio lavoro parlare di ciò di cui parla la gente. Io vivo nella mia epoca». 

In questo romanzo lei sottolinea che gli intellettuali francesi hanno una propensione particolare a non sentirsi mai responsabili. Ma lei si è posto il problema della sua responsabilità di scrittore?

«Ma io non sono un intellettuale. Non mi schiero, non difendo alcun regime. Respingo ogni responsabilità, rivendico l’irresponsabilità, senza mezzi termini. A eccezione di quando nei miei romanzi parlo di letteratura, nel qual caso mi assumo la responsabilità del critico letterario. In verità, sono le opere di saggistica a cambiare il mondo». 

Non i romanzi?

«Forse sì. Tuttavia, ho l’impressione che quello di Zemmour sia grosso, troppo grosso. Ho la sensazione che il “Capitale” fosse troppo grosso, e a essere letto e ad aver cambiato il mondo sia stato invece il “Manifesto del Partito Comunista”. Rousseau ha cambiato il mondo, sapeva essere convincente al momento giusto. È semplice, se si ha intenzione di cambiare il mondo bisogna dire chiaramente: “Ecco, il mondo è così e questo è quanto va fatto”, senza perdersi in considerazioni romanzesche. Perché non serve a niente». 

Non sarà sicuramente a lei che insegnerò quanto il romanzo sia uno strumento epistemologico… Del resto, questo era il tema centrale del suo libro “La carta e il territorio”. A questo proposito, ho la sensazione che lei si assuma la responsabilità delle categorie descrittive, delle contrapposizioni più discutibili, quelle categorie con le quali funzionano la redazione di “Causeur”, Alain Finkielkraut, Eric Zemmour, sicuramente Renaud Camus. Per esempio, opporre l’antirazzismo e la laicità.

«È innegabile l’esistenza di una contraddizione». 

Io non la percepisco. Al contrario, ci sono persone che spesso sono a uno stesso tempo militanti antirazzisti e ferventi difensori della laicità, e le loro radici risalgono alla filosofia dei Lumi.

«Beh, sulla filosofia dei Lumi possiamo anche tracciare una croce: fine. Vuoi un esempio calzante? La candidata col velo nella lista Besancenot (candidata politica dell’estrema sinistra, NdR) è un vero esempio di contraddizione. Non sono soltanto i musulmani a trovarsi in una situazione di alienazione di questo tipo, in ogni caso: a livello di quelli che di norma si chiamano valori, le persone di estrema destra hanno più cose in comune con i musulmani che con la sinistra. Tra un musulmano e un ateo laico c’è più opposizione innata che tra un musulmano e un cattolico. Mi sembra evidente». 

Ma io non capisco il collegamento col razzismo nel caso specifico…

«Effettivamente, non c’è. Oggettivamente, non c’è. Quando sono stato prosciolto, in occasione del processo che mi hanno intentato una decina di anni fa per razzismo, il procuratore mi ha fatto giustamente notare che la religione musulmana non è appartenenza razziale. Oggi ciò è diventato ancora più evidente. Si è esteso l’ambito del razzismo, quindi, inventando il reato di islamofobia». 

Il termine forse è scelto male, ma esistono forme di stigmatizzazione di gruppi o di categorie di persone che sono forme di razzismo…

«Ah no, l’islamofobia non è razzismo. Se esiste un espediente che ormai è chiaro a tutti è proprio questo». 

L’islamofobia serve da paravento a un razzismo che non è più enunciabile perché punibile a termini di legge.

«Credo che sia completamente sbagliato. Non sono d’accordo». 

Altro abbinamento opinabile al quale lei fai ricorso è la contrapposizione tra antisemitismo e razzismo… Al contrario, si potrebbe osservare quanto nel corso della storia antisemitismo e razzismo siano andati di pari passo.

«Io credo che l’antisemitismo non abbia niente a che vedere col razzismo. Ho impiegato molto tempo a comprendere l’antisemitismo, in realtà. Il primo pensiero è quello di assimilarlo al razzismo, ma che tipo di razzismo è quello per il quale nessuno può dire se l’altro è ebreo o non ebreo, in quanto non lo si ‘vede’? Il razzismo è più elementare di questo, è un colore diverso di pelle…». 

No, perché da molto tempo esistono razzismi culturali…

«Ma in questo caso si utilizzano le parole ben oltre il loro significato. Razzismo è semplicemente detestare qualcuno perché appartiene a un’altra razza, perché non ha il medesimo colore della pelle, la stessa fisionomia. Non si deve dare a questo termine un significato più ampio». 

Tenuto conto però che da un punto di vista strettamente biologico le razze non esistono, per forza di cose il razzismo è culturale.

«Ma ciò vale, a quanto pare, in ogni caso. Chiaramente, vale a partire dal momento in cui col meticciato si crea un incrocio di razze. Su Sylvain! Lo sa bene che razzista è colui che detesta un altro perché ha la pelle nera o perché ha la bocca da arabo. Questo è razzismo!». 

O perché ha usanze o una cultura…

«No, si tratta di un altro problema, mi dispiace!». 

… O perché è poligamo, per esempio…

«Ah, questa poi… Si può essere sconvolti dalla poligamia senza essere neanche un briciolo razzisti. È il caso di molte persone che non sono neanche un briciolo razziste. Ma ritorniamo all’antisemitismo, perché si è trascurato questo punto. Visto e considerato che nessuno ha mai potuto dedurre se una persona è ebrea soltanto dal suo aspetto o dal suo stile di vita, giacché pochi ebrei avevano uno stile di vita ebraico quando si è sviluppato l’antisemitismo, di che cosa si può trattare? Questo non è razzismo. E sufficiente leggere ciò che è stato scritto per rendersi conto che si tratta semplicemente di una teoria del complotto: ci sono alcune persone, nascoste, responsabili di tutti i guai del mondo, che complottano contro di noi, pronte a invaderci… Il mondo va a rotoli ed è colpa degli ebrei, della finanza ebraica… È solo una teoria del complotto». 

In “Sottomissione” non c’è forse una teoria del complotto, l’idea che sia in atto la “grande sostituzione”, come la chiama Renaud Camus, e che i musulmani si impossesseranno del potere?

«Conosco male la tesi della grande sostituzione, ma a quanto pare è una questione alquanto razziale. Ebbene, in questo caso non si parla proprio di immigrazione. Non è questo il tema centrale». 

Non è necessariamente una questione razziale, può essere religiosa. Nel caso specifico, la religione cattolica è sostituita dall’Islam.

«No. È in atto un processo di distruzione della filosofia nata dal secolo dei Lumi, che non ha più senso per nessuno, o lo ha per pochissime persone. Quanto al cattolicesimo, si mantiene in forma piuttosto discreta. Io sostengo effettivamente che un’intesa tra cattolici e musulmani è possibile. Lo abbiamo già visto. E può ripetersi». 

Lei, che è diventato agnostico, vede di buon occhio questa distruzione della filosofia nata dall’Illuminismo?

«Sì. Doveva succedere e tanto vale che succeda adesso. Su questo punto torno a essere kantiano. Eravamo in quella che egli chiamava la fase metafisica, iniziata nel Medio Evo e che aveva come unico scopo la disintegrazione della fase precedente. Di per sé, essa non può produrre nulla, se non il nulla e il dolore. Quindi sì, sono contrario a questa filosofia nata dall’Illuminismo, occorre dirlo chiaramente, senza mezzi termini». 

Perché ha scelto di ambientare il romanzo nel mondo accademico? Proprio perché incarna questo secolo dei Lumi?

«Posso rispondere che non lo so? In fondo credo proprio che questa sia la realtà… In verità, volevo che ci fosse un rapporto molto lungo con Huysmans, e da qui è venuta l’idea di farne un accademico». 

Il fatto di scrivere un romanzo in prima persona è stato immediato?

«O forse è nato dal fatto che era un gioco con Huysmans. È così, fin dalle prime frasi». 

Vi è una dimensione di autoritratto, ancora una volta, in questo personaggio. Non completamente ma… C’è la morte dei genitori, per esempio.

« Sì, utilizzo qualcosa, anche se nei dettagli tutto in verità è diverso. Non si tratta mai di autoritratti, ma sempre di proiezioni. Per esempio, se avessi letto Huysmans da giovane, se avessi fatto studi umanistici e fossi diventato professore universitario... Mi immagino dentro vite che non ho vissuto». 

Lasciando però che alcuni eventi della vita reale si introducano in queste vite fittizie.

«Ricorro a episodi che mi colpiscono nella vita reale, questo sì. Ma ho la tendenza a inserirne sempre di più. In questo caso ciò che resta della realtà è proprio l’elemento astratto ‘morte del padre’, ma in realtà ogni cosa è diversa. Mio padre era molto differente da questo tipo, e la sua morte non è avvenuta così. Di fatto, è la vita a mettermi davanti gli argomenti». 

Scrivendo questo romanzo lei si è calato fino in fondo nei panni di una Cassandra, nel vero senso della parola, dato che nel romanzo fornisce anche una spiegazione precisa di ciò che è una Cassandra…

«Non è possibile etichettare questo libro come un presagio pessimista. In fin dei conti, non è così negativo». 

Non così negativo per gli uomini. Per le donne, invece, è un po’…

«Ah, quello è un altro problema. Ma ritengo che il progetto di ricostituzione dell’Impero romano non sia una stronzata… Ricentrare l’Europa sul sud, potrebbe dare un senso a tutto ciò che per il momento non ne ha. Politicamente, si può parlare di forte accettazione. Non si tratta di una catastrofe». 

Ciò non toglie che il libro è incredibilmente triste.

«Sì, vi è una tristezza molto intensa che lo percorre integralmente sotto sotto. Secondo me l’ambiguità culmina nell’ultima frase: "Non avrei avuto nulla da rimpiangere». In realtà, se ne deduce esattamente il contrario. Ha due cose da rimpiangere: Myriam e la vergine nera. Diciamo che non è andata proprio così. A rendere triste il libro è una specie di clima di rassegnazione». 

Come pensa che si collochi questo romanzo rispetto ai suoi libri precedenti?

«Diciamo che ho fatto ricorso a qualche espediente, come volevo fare da molto tempo e non avevo mai fatto. Per esempio, creare un personaggio molto importante ma che non compare mai, nello specifico Ben Abbes. Penso anche che in questo romanzo ci sia la fine più demoralizzante di un rapporto amoroso che io abbia mai scritto, perché è la più banale: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. C’erano dei sentimenti. In generale, c’è una sensazione di entropia ancora più forte rispetto agli altri miei libri. C’è un lato crepuscolare malinconico che dà a questo libro un accento alquanto triste. Per esempio, se il cattolicesimo non funziona, è perché è già servito, sembra appartenere al passato. L’Islam ha un’immagine in divenire. Perché la nazione non va bene? Perché si è troppo abusato di lei». 

Non vi è più la benché minima traccia di romanticismo, per non parlare della poesia. Si è passati al decadentismo.

«È vero, il fatto di partire da Huysmans ha sicuramente avuto un ruolo in tutto ciò. Huysmans non poteva più tornare al romanticismo, ma poteva ancora convertirsi al cattolicesimo. Il punto più evidente in comune con i miei altri romanzi è l’idea dell’indispensabilità della religione, una religione qualsiasi. Questo concetto è presente in molti miei libri. E anche in questo caso, l’unica differenza è che si tratta di una religione che esiste». 

Fino a questo punto si poteva pensare ancora a una religione nel senso che intendeva Auguste Comte?

«Comte ha cercato invano di crearne una e, in effetti, nei miei libri ho parlato più volte della creazione delle religioni. La differenza è che in questo caso essa esiste sul serio» 

Che posto occupa l’umorismo nel libro?

«C’è qualche personaggio divertente, qua e là. Ho la sensazione che l’umorismo occupi la stessa posizione di sempre. Ci sono personaggi comici come ce ne sono sempre stati». 

Si parla poco di donne… Si attirerà ancora critiche da questo punto di vista.

«Di sicuro, una femminista non potrà che essere depressa da questo libro. Ma non posso farci niente». 

Tuttavia era rimasto scioccato dal fatto che “Estensione del dominio della lotta” potesse essere considerato un libro misogino. Adesso però aggrava la sua posizione…

«Non mi ritengo affatto misogino, in verità. E direi che al limite non è nemmeno la cosa più grave. Dove peggioro veramente la mia posizione è enunciando che il femminismo è demograficamente condannato. Da qui l’idea implicita, e che può non piacere, che infine l’ideologia non abbia un peso rilevante in rapporto alla demografia». 

Non è una provocazione questo libro?

«Io eseguo un’accelerazione della storia, ma no, non posso dire che sia una provocazione, nella misura in cui non dico cose che ritengo essere incredibilmente false soltanto per provocare. In questo libro condenso un’evoluzione a mio avviso verosimile». 

E ha anticipato reazioni alla pubblicazione, scrivendolo o rileggendolo?

«Non faccio mai previsioni, davvero». 

Ci si potrebbe stupire del fatto che lei abbia deciso di andare in questa direzione, quando il romanzo precedente era quello del trionfo e i critici se ne erano rimasti in silenzio.

«La vera risposta è che francamente non ho deciso niente. All’inizio quella che si doveva verificare era una conversione al cattolicesimo». 

Non c’è qualcosa di disperato in questa azione che non è stata veramente decisa?

«La disperazione è l’addio di una civiltà in ogni caso antica. In fondo però il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. Evidentemente, come in ogni altro testo religioso, ci sono vari margini di interpretazione, ma leggendolo sinceramente si giunge alla conclusione che la guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e che solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Piuttosto, ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo. Le femministe, loro, non riusciranno a essere veramente sincere. Ma io e parecchia altra gente sì». 

Si possono sostituire le femministe con le donne, no?

«No, non si può sostituire le femministe con le donne. Non si può proprio, no. Anzi, faccio presente che oltre tutto ci sono anche delle conversioni femminili all'Islam». 

Traduzione di Anna Bissanti

Adriano Scianca per “La Verità” il 3 ottobre 2022.

Noto per lo più come romanziere nichilista, Michel Houellebecq è anche un raffinato elzevirista, un freddo analista del tramonto dell'Occidente che sa tagliare le coscienze con editoriali e commenti non meno che con i suoi affreschi narrativi. Alcune di queste incursioni, sparse in un arco di tempo che va dal 1992 al 2020, sono state raccolte nel volume intitolato, in modo volutamente anodino, Interventi, in uscita martedì per La nave di Teseo. 

Vi ritroviamo lo Houellebecq che conosciamo bene: una sorta di Céline più stanco e meno attaccabrighe, più disgustato che incollerito. E, disseminate qua e là, delle vere perle.

Come quando trova la formula più sintetica ed efficace per descrivere le femministe: «Delle amabili stronze» (il testo è del 1998, forse qualcosa nel frattempo è cambiato, soprattutto sul fronte dell'amabilità).

Lo scrittore si diverte a raccontare l'ingenuità di un movimento di protesta che pensava di far dispetto ai maschi propugnando l'amore lesbico, le cui manifestazioni sono notoriamente apprezzate proprio dai più impenitenti dei maschi eterosessuali, oppure ostentando «un incomprensibile appetito verso il mondo professionale e la vita d'impresa; mentre gli uomini, sapendo da tempo che cosa significavano la "libertà" e la "realizzazione" offerte dal lavoro, sogghignavano bonariamente». 

Per Houellebecq, «l'obiettivo delle femministe (entrare in quanto membri "liberi e uguali" nella società maschile, salvo sacrificare, nel farlo, una parte dei valori femminili) a ogni modo è stato raggiunto, quantomeno in Occidente». Ciò che permane, di queste battaglie, ha visibilmente a che fare con altro, non certo con i diritti delle donne.

Paradossalmente, ma non troppo, alla fine il francese dimostra di avere più in simpatia il delirio androfobico e criminogeno dello Scum Manifesto di Valerie Solanas, che non il femminismo più raffinato e che oggi apparirebbe quasi moderato di una Simone de Beauvoir. 

Se la seconda, con la sua tesi per cui «donna non si nasce, si diventa», mostra «soltanto una crassa ignoranza dei dati biologici più elementari», le sparate terroristiche della Solanas sull'uomo come criminale innato sembrano in particolare sintonia con l'antropologia negativa di Houellebecq (che, beninteso, non manca di evidenziare gli aspetti insostenibili di quel vero e proprio manifesto contro il maschio).

Lo scrittore si sorprende quando i commentatori insistono sulla centralità del sesso nella sua opera, centralità che egli nega. Eppure, anche in Interventi, spesso è proprio lì che si va a parare. Ma non è mai un sesso dionisiaco, luminoso. Non è, a ben vedere, neanche un sesso oscuro, perverso. È semplicemente un diversivo dall'inutilità della vita. Peraltro fallace. 

La vita, per Houellebecq, è una festa, sì, ma fallita, noiosa, quasi insopportabile. Uno di quei matrimoni di qualche cugino di quarto grado in cui parte il trenino in mezzo al ristorante. Se Philippe Muray, autore peraltro amato da Houellebecq, aveva già descritto il moderno come l'homo festivus, per l'autore di Annientare questa tendenza alla festa è un tentativo di esorcizzare l'angoscia, peraltro sempre più insostenibile.

«Lo scopo della festa», scrive, «è di farci dimenticare che siamo solitari, miserabili e destinati a morire. In altre parole, di trasformarci in animali. Per cui il primitivo ha un senso della festa molto sviluppato. Una bella fiammata di piante allucinogene, tre tamburelli ed ecco fatto: un niente lo diverte. Invece, l'occidentale medio arriva a un'estasi insufficiente solo alla fine di raves interminabili da cui esce sordo e drogato: non ha affatto il senso della festa. Profondamente consapevole di se stesso, radicalmente estraneo agli altri, terrorizzato dall'idea della morte, è del tutto incapace di accedere a una qualsiasi fusione. Tuttavia, si ostina».

Perché il sesso, allora? Per uscire vivi dall'imbarazzo della festa non riuscita: «In questo genere di circostanze (locali notturni, balli popolari, festini), che non hanno visibilmente nulla di divertente, un'unica soluzione: rimorchiare». Ma non per reale trasporto della libido, quanto per ingannare la noia. Una sessualità simbolica e quasi virtuale, che funziona come elemento d'ordine e di sublimazione, molto più che come sfogo reale. 

Lo sguardo disincantato dello scrittore non ha del resto paura di misurarsi con alcun argomento, per quanto scabroso esso sia. Lo vediamo quindi, con olimpica tranquillità, discettare del più disturbante dei temi, la pedofilia. Houellebecq taglia subito di netto ogni ambiguità, gettando nel cassonetto lo pseudo argomento dei giustificatori: «Le pulsioni sessuali dell'infanzia, in realtà, non esistono; è un'invenzione pura e semplice. In tutti i casi riportati dai media con tanto compiacimento, il bambino è assolutamente e totalmente una vittima».

E tuttavia, non può non aggiungere che «il pedofilo mi pare il capro espiatorio ideale di una società che organizza l'esacerbazione del desiderio senza fornire i mezzi per soddisfarlo». Non si tratta, meglio specificarlo subito, di attribuire le colpe individuali alla società, ma di denunciare la dimensione alienante e innaturale della proliferazione di un desiderio che non potrà comunque mai essere esaudito. Un retrobottega sordido e maleodorante della grande festa perenne.

 Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore.

A Parigi, in un indeterminato ma prossimo futuro, vive François, studioso di Huysmans, che ha scelto di dedicarsi alla carriera universitaria. Perso ormai qualsiasi entusiasmo verso l’insegnamento, la sua vita procede diligente, tranquilla e impermeabile ai grandi drammi della storia, infiammata solo da fugaci avventure con alcune studentesse, che hanno sovente la durata di un corso di studi. Ma qualcosa sta cambiando. La Francia è in piena campagna elettorale, le presidenziali vivono il loro momento cruciale. I tradizionali equilibri mutano. Nuove forze entrano in gioco, spaccano il sistema consolidato e lo fanno crollare. È un’implosione improvvisa ma senza scosse, che cresce e si sviluppa come un incubo che travolge anche François. Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore che, come il protagonista, François, vedrà il mondo intorno a sé, improvvisamente e inesorabilmente, stravolgersi.

La Parigi "sottomessa" di Houellebecq divide i politici francesi. Il romanzo sull'islam fa discutere. Hollande: "Non si deve cedere a paura e angoscia". Le Pen: "E' fiction ma potrebbe diventare realtà", scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Questa sera Michel Houellebecq si difenderà dalle accuse scatenate dalle anticipazioni del suo nuovo romanzo Sottomissione (da domani in Francia, in Italia dal 15 gennaio per Bompiani). Lo farà sul canale televisivo France2, intervistato da David Pujadas. Ma lo scrittore ha già rivendicato il diritto, sulla Paris Review , di trattare temi d'attualità, anche scomodi. Respinte le accuse di razzismo e islamofobia, ha osservato la crisi dei valori dell'Illuminismo, il rifiuto crescente della modernità, il ritorno delle religioni, il suicidio dell'Europa e la lotta dei francesi per restare in vita. Il libro entra in pieno nel dibattito in corso da tempo in Francia sull'identità nazionale e sul corretto rapporto con l'immigrazione, specie quella di matrice religiosa musulmana. In Sottomissione , le elezioni presidenziali del 2022 sono vinte dal candidato del neonato partito musulmano, che batte la destra di Marine Le Pen grazie all'appoggio sia dei socialisti sia dei repubblicani. Parigi accetta di buon grado l'islamizzazione morbida propugnata dal nuovo governo. La Francia, forse l'intera Europa, rinuncia alla libertà avvertita come un inutile fardello, il retaggio di un passato ormai finito. La sfiduciata cultura occidentale non può non cedere di fronte alle forti rivendicazioni identitarie dei musulmani. Il protagonista di Sottomissione , un professore esperto di Joris Karl Huysmans, accetta senza opporsi l'islamizzazione dell'università, e in questo segue a suo modo le orme dell'oggetto dei suoi studi. Huysmans, l'autore di A ritroso , passò infatti dal Naturalismo al Cattolicesimo («lo fece per ragioni estetiche, restando freddo di fronte alle grandi domande di Pascal», precisa Houellebecq nella citata intervista alla Paris Review ). Fantapolitica? Dipende dai punti di vista. Dopo critici, filosofi e opinionisti, sono intervenuti i pesi massimi della politica francese. Il presidente della Repubblica, il socialista François Hollande, ha detto che leggerà Sottomissione non appena possibile. Nel frattempo osserva che la tentazione di denunciare «la decadenza, il declino, di esternare pessimismo e dubitare di se stessi» è una costante di molta letteratura, non solo di questo secolo. «Ciascun autore è libero di esprimere quello in cui crede. Il mio compito, invece, è invitare i francesi a non cedere alla paura, all'angoscia». Perché nel Paese ci sono «forze positive» capaci di porre rimedio alle situazioni incerte e di migliorare le condizioni generali. Del resto, pochi giorni prima di Natale, Hollande aveva dichiarato che gli immigrati servono, e il resto è demagogia. Di parere radicalmente opposto la leader del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, tra i personaggi del romanzo stesso: « Sottomissione è un libro interessante. È fiction ma potrebbe diventare realtà. Il patto pro islam tra socialisti e repubblicani, in opposizione alla nostro destra, si può già osservare a livello comunale o regionale».

Houellebecq, l’ultimo “Charlie Hebdo” dedicato al suo nuovo libro. Il romanziere sotto scorta ora piange l’amico morto. Disse: «Non sento una responsabilità particolare per quello che scrivo. Un romanzo non cambia la storia», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Michel Houellebecq è scoppiato in singhiozzi, ieri, quando ha saputo che tra i morti c’era il suo amico Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista a “Charlie Hebdo”. Sul numero della rivista uscito poche ore prima della strage, Maris conclude con queste parole quello che sarà l’ultimo articolo della sua vita: «Ancora un romanzo magnifico. Ancora un colpo da maestro». Si riferisce a “Sottomissione”, il libro di Houellebecq che negli stessi momenti cominciava finalmente a essere venduto nelle librerie, dopo settimane di indiscrezioni, distribuzioni illegali su Internet e polemiche che, come solo in Francia può accadere, passano rapidamente dalla letteratura alla politica. È stata una giornata spaventosa per tutti. Michel Houellebecq non ha potuto che viverla in modo ancora più drammatico, per le persone colpite a lui vicine e perché quella, fino alle 11 e 30 era la «sua» giornata, quella dell’uscita del libro più atteso dell’anno, da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Una giornata preceduta la sera prima da un suo intervento al tg delle 20 sul canale pubblico France 2, in cui lo scrittore di tanti romanzi tra analisi della società e profezia aveva risposto con la consueta flemma alle domande del conduttore David Pujadas. «Non sente di avere una responsabilità particolare, lei che è uno scrittore così importante e seguito?», chiedeva Pujadas. «No - aveva risposto Houellebecq -, forse un saggio può cambiare la storia, non un romanzo». Il giornalista alludeva a una voglia di provocazione - tante volte negata - di Houellebecq, che in “Sottomissione” mette in scena il fantasma più angosciante per la società francese di questi giorni: un Islam trionfante, che ha ragione per vie democratiche di una civiltà giudaico-cristiana ormai estenuata, spossata dall’Illuminismo e dal fardello di libertà che pesa su ogni essere umano. Meglio la sottomissione, allora, suggerisce François, il protagonista del romanzo: delle donne all’uomo (la poligamia viene incoraggiata, più mogli smettono di lavorare e restano a casa ad accudire un unico marito), e di tutta la società a Dio. Anzi, ad Allah. Per questo, Houellebecq è stato accusato di soffiare sul fuoco, di usare la paura per vendere libri. Ma Houellebecq è uno scrittore, di sicuro il più celebre e forse il migliore scrittore francese contemporaneo, non un opinionista né tantomeno un uomo politico. Ha il diritto di descrivere la realtà, e anche di offrirci la sua idea di quel che la realtà potrà diventare tra qualche anno, «esagerando e velocizzando», come dice lui stesso. Da quando in autunno si è saputo che il suo prossimo romanzo avrebbe dipinto questa Francia del 2022 in mano all’Islam, l’Islam per certi versi rassicurante (donne a parte) del nuovo presidente della Repubblica Mohammed Ben Abbes, il dibattito culturale - e politico - francese ha cominciato a incentrarsi su Sottomissione , fino a esserne completamente monopolizzato. L’azione militare dei terroristi è stata talmente efficace da essere probabilmente pianificata da mesi, dicono le fonti di polizia: l’uscita di Sottomissione e l’ultimo numero della rivista non c’entrano nulla. I piani si sovrappongono perché c’è la coincidenza dell’uscita nelle librerie, e perché l’ultimo Charlie Hebdo esibisce in copertina una splendida vignetta firmata Luz, almeno lui per fortuna scampato al massacro, che dipinge Houellebecq con l’eterna sigaretta e un ridicolo cappello con stelle e pianeti. Titolo: «Le predizioni del mago Houellebecq», e lo scrittore che dice «Nel 2015 perdo i denti...» (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e «Nel 2022, faccio il Ramadan!». Nell’ultima pagina di Charlie Hebdo , come sempre, «le copertine alle quali siete scampati»: e riecco Michel Houellebecq in braccio a una Marine Le Pen sognante che canta «Sarai il mio Malraux», disegnato da Cabu, morto nell’attentato; Houellebecq in ginocchio che sniffa una pista di cocaina stesa per strada e il titolo «Houellebecq convertito all’Islam?», disegnato da Coco, alias Corinne Rey, la donna che sotto la minaccia delle armi ha aperto la porta della redazione ai terroristi; infine, ecco un ritratto poco avvenente di Houellebecq, lo strillo «Scandalo!» e il titolo «Allah ha creato Houellebecq a sua immagine!». La firma è di Charb, il direttore, l’uomo che più di tutti gli assassini volevano uccidere. Michel Houellebecq è ovviamente sotto la protezione della polizia, come lo sono le redazioni di tutti i giornali e i locali della casa editrice Flammarion, che ieri sono rimasti chiusi. Nel romanzo, gli islamici prendono il potere vincendo le elezioni grazie a un’alleanza con gli esangui partiti di centrosinistra e di centrodestra. Prima che l’ordine coranico regni sovrano sulla Francia e l’Europa, in base al sogno di Ben Abbes di rifondare un impero romano con l’Islam al posto del Cristianesimo, in Sottomissione (uscirà in Italia il 15 gennaio per Bompiani) ci sono scontri, un timido debutto di guerra civile. E la guerra civile, il caos, sono evocati nelle dichiarazioni di mesi fa di Éric Zemmour, l’opinionista che con il bestseller Le suicide français ha generato furiose polemiche su razzismo e islamofobia, con la sua accusa rivolta ai musulmani di Francia di essere «un popolo nel popolo».

Negli ultimi giorni i migliori intellettuali e scrittori francesi, da Michel Onfray a Emmanuel Carrère, si sono pronunciati sulla polemica Houellebecq. Charlie Hebdo, Michel Houellebecq sospende la promozione di Sottomissione, scrive Angela Iannone. L'attentato di matrice terroristica al settimanale satirico francese coincide con la pubblicazione del romanzo di Michel Houellebecq, "Sottomissione". Michel Houellebecq ha deciso di "sospendere la promozione" del suo libro "Sottomissione" perché "profondamente turbato dalla morte del suo amico Bernard Maris, ucciso nell'attacco terrorista al settimanale Charlie Hebdo, nel quale sono state uccise altre undici persone". Lo ha annunciato il suo agente Francois Samuelson, secondo quanto riportato dai media francesi. Lo scrittore, che è sotto scorta, lascerà Parigi, come ha precisato il suo editore Flammarion. L'attentato terroristico alla redazione di "Charlie Hebdo", il settimanale satirico attaccato da un commando armato stamattina, coincide con due pubblicazioni. La prima è la copertina del settimanale stesso, che aveva proprio oggi come protagonista Michel Houellebecq, lo scrittore francese che nel suo ultimo romanzo "Sottomissione", immagina una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani e lancia un allarme sulla progressiva islamizzazione del Paese. La seconda è proprio la pubblicazione di "Sottomissione", che è in uscita oggi nelle librerie francesi. Charlie Hebdo riportava oggi la caricatura dello scrittore travestito da mago, il cui titolo era "Le previsioni del mago Houellebecq" con lo scrittore francese che dice "Nel 2015 perdo i miei denti" e poi "Nel 2022 faccio il Ramadan". Sottomissione è un romanzo fantapolitico che ipotizza una Francia futura nelle mani dell'integralismo islamico. Un Paese in cui un leader musulmano impone l'islamizzazione forzata a tutti  gli abitanti. Circa 300 pagine con una tiratura di 150mila copie diffuse illegalmente già prima della pubblicazione ufficiale, suscitando non poche polemiche tra l'opinione pubblica francese, che si è divisa commentando il titolo come "sublime" o "irresponsabile". Intervistato dalla radio France-Inter, Houellebecq ha minimizzato lo scandalo, ritenendo che non è sia quello il vero senso del libro e che "la parte del romanzo che fa paura  è piuttosto precedente all'arrivo dei musulmani al potere. (...) Si può dire che quello è terrificante, questo regime". "Nel mio libro -continua - l'Islam non è per nulla radicale, al contrario, è una delle religioni più pacifiche che si possano immaginare. Non penso che il mio libro dipinga un Islam minaccioso".

Charlie Hebdo, Houellebecq e Sottomissione, il libro fatale. La strage nel giorno dell'uscita di Sottomissione, scrive “L’Ansa”. Gli assalitori che hanno sparato e ucciso nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo non hanno scelto un giorno a caso: oggi, 7 gennaio 2015, esce in Francia l'ultimo libro di Michel Houellebecq, Sottomissione (traduzione letterale della parola Islam), che in Italia arriverà il 15 gennaio. Proprio a questo libro del controverso autore di Le particelle elementari, Piattaforma, La possibilità di un'isola, il numero di Charlie Hebdo aveva dedicato un articolo e la copertina con una vignetta che ritrae lo scrittore vestito da mago e il titolo: Le previsioni del mago Houellebecq; le profezie dello scrittore sono: Nel 2015 perderò i denti, nel 2022 farò il ramadan. Perché Sottomissione proprio di questo parla: di una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani, che riescono ad andare al governo grazie ad una (poco) incredibile alleanza con quel resta di centristi e sinistra alleate al musulmano moderato  Mohammed Ben Abbes, leader di Fraternité musulmane, contro lo strapotere di Marine Le Pen.  Non è solo l'ennesimo allarme di Houellebecq contro la progressiva islamizzazione del Paese. Come ha scritto Emmanuelle Carriere, Houellebecq ha il merito di essere l'unico a parlare di un problema che esiste ma che molti intellettuali sembrano ignorare. Non solo: per Carriere quella di Houllebecq è una posizione politicamente e sociologicamente ragionevole. L'Occudente si arrende per così dire dolcemente all'Islam, sfinito da secoli di razionalità e illuminismo eccessivamente responsabilizzanti. Nell'acceso dibattito intellettuale francese sul libro e sullo scrittore, non è l'unica recensione positiva incassata da Houellebecq: un altro intellettuale 'scorretto', Michel Onfray , noto per il suo trattato di ateologia e per le sue posizioni anti-cristiane e favorevole al libertinismo, ha parlato di Europa come Continente morto che volontieri si consegna all'Islam dopo averlo fatto con i mercati. E dunque, per Sottomissione, di uno scenario assolutamente plausibile. Proprio ieri, Houllebecq aveva parlato al canale francese France 2 per rivendicare il suo diritto di trattare temi di attualità e soprattutto di sottolineare la crisi dei valori dell'illuminismo e della modernità.

"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam". Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione” il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani», scrive Sylvain Bourmeau su “L’Espresso”. Michel Houellebecq, lo scrittore più controverso di Francia, non ama parlare con i giornalisti. Per il lancio del suo nuovo romanzo, “Sottomissione”, ha dato una sola  intervista al critico Sylvain Bourmeau, che in vent'anni lo ha incontrato decine di volte e che, malgrado le critiche sincere che gli riserva anche in questa occasione, si è guadagnato la sua fiducia. “L'Espresso” pubblica in esclusiva per l'Italia il lungo colloquio che parte dalla trama del nuovo romanzo, ancora più provocatorio dei precedenti. Il libro è uscito in Francia proprio nel giorno dell'attentato a Charlie Hebdo (in Italia esce il 15 per Bompiani). E lo scrittore, che dopo aver subito un processo per islamofobia non vive più in Francia ma è a Parigi per il lancio del libro, è stato posto sotto scorta. Al centro di “Sottomissione” c'è una Francia trasformata in uno stato islamico dopo la vittoria alle presidenziali del leader di un partito  musulmano. Un'ipotesi irrealistica? Non secondo Houellebecq, che ipotizza un ballottaggio con la leader della destra xenofoba Marine Le Pen. «Per la Le Pen mi pare del tutto verosimile che arrivi al ballottaggio già alle elezioni del 2017», spiega lo scrittore. «Quanto al partito musulmano, mi sono reso conto che i musulmani vivono in una situazione del tutto alienata. Sono molto lontani dalla sinistra e ancor di più dagli ecologisti. E non si vede perché dovrebbero votare per la destra, che li rifiuta. Quindi l'idea di un partito musulmano mi sembra plausibile». Il nuovo romanzo sfrutta la paura dell'Islam che serpeggia per la Francia, ammette Houellebecq. Che però è convinto che «non si può definire  “Sottomissione” una predizione pessimista». Anche perché, dichiara a sorpresa, «il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. La guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e  solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo». 

«La civiltà dell’Europa è sfinita». Onfray promuove Houellebecq. «È un continente morto, oggi in mano ai mercati. Domani forse all’islam», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione , immagina una Francia del 2022 governata da un presidente musulmano e un nuovo ordine sociale che prevede poligamia e donne che restano a casa a occuparsi di mariti e figli in omaggio a una religione - l’islam - che ha trionfato sulla civiltà dell’Illuminismo. Prima ancora dell’uscita (il 7 gennaio in Francia per Flammarion e il 15 gennaio in Italia per Bompiani) il libro scatena polemiche e discussioni, tra riconoscimento del valore letterario e critiche a una presunta voglia di provocazione. Il «Corriere» ha sollecitato l’opinione di Michel Onfray, uno dei più noti intellettuali francesi, autore di decine di opere tra le quali il celebre Trattato di ateologia e una Controstoria della filosofia (Ponte alle Grazie); un pensatore ateo che ha letto - e amato - il romanzo del momento.

Visto che «Sottomissione» è un romanzo e non un saggio, è possibile separare il valore letterario dal contenuto profetico?

«È un esercizio di stile, una fiction politica ma anche metafisica: un romanzo sull’ignavia delle persone, degli universitari in particolare. Un romanzo molto anarchico di destra. Un libro sulla collaborazione, vecchia passione... francese! Come un universitario specialista di Huysmans può convertirsi all’islam? Ne scopriamo le ragioni poco alla volta: la promozione sociale in seno all’istituzione riccamente finanziata dai Paesi arabi, gli stipendi mirabolanti dei convertiti, la possibilità della poligamia, una ragazza per il sesso, un’altra meno giovane per la cucina, una terza se si vuole, il tutto continuando a bere alcool... Questo libro è meno un romanzo sull’islam che un libro sulla collaborazione, la fiacchezza, il cinismo, l’opportunismo degli uomini...».

La parte più scioccante è forse il destino riservato alle donne. Qual è la sua opinione? È concepibile nella nostra società un’evoluzione simile?

«La nostra epoca è schizofrenica: bracca il minimo peccato contro le donne e, per fare questo, milita per la femminilizzazione dell’ortografia delle funzioni, la parità nelle assemblee, la teoria di genere, il colore dei giocattoli nelle bancarelle di Natale; la nostra epoca prevede che ci si arrabbi se si continua a rifiutare auteure o professeure (femminili di autore e professore ), ma fa dell’islam una religione di pace, di tolleranza e di amore, quando invece il Corano è un libro misogino quanto può esserlo la Bibbia o il Talmud. Se si vuole continuare a essere misogini con la benedizione dei sostenitori del politicamente corretto, l’islam alla Houellebecq è la soluzione!».

In una sua prima intervista alla «Paris Review», Houellebecq decreta la fine dell’Illuminismo e il grande ritorno della religione (l’islam, ma non solo). In quanto pensatore ateo, qual è la sua reazione?

«Credo che abbia ragione. I suoi romanzi colgono quel che fa l’attualità del nostro tempo: il nichilismo consustanziale alla nostra fine di civiltà, la prospettiva millenarista delle biotecnologie, l’arte contemporanea fabbricata dai mercati, le previsioni fantasticate della clonazione, il turismo sessuale di massa, i corpi ridotti a cose, la loro mercificazione, la tirannia democratica, la sessualità fine a se stessa, l’obbligo di un corpo performante, il consumismo sessuale, eccetera. Quindi, utilizzare i progressi incontestabilmente compiuti dall’islam in terra d’Europa per farne una fiction sull’avvenire della Francia è un buon modo per pensare a quel che è già».

Houellebecq descrive una società francese ed europea stanca, affaticata dalla perdita di valori tradizionali. Cosa pensa? L’Europa è condannata, come dicevano i neocon americani?

«Houellebecq continua a dipingere il ritratto di una Francia post-68. E ha ragione di vedervi un esaurimento, meno in rapporto con il breve termine del Maggio 68 che con il lungo periodo della civiltà giudaico-cristiana che crolla. Questa civiltà è nata con la conversione di Costantino all’inizio del IV secolo, il Rinascimento intacca la sua vitalità, la Rivoluzione francese abolisce la teocrazia, il Maggio 68 si accontenta di registrarne lo sfinimento. Siamo in questo stato mentale, fisico, ontologico, storico. Houellebecq è il ritrattista terribile di questo Basso Impero che è diventata l’Europa dei pieni poteri consegnati ai mercati. L’Europa è morta, ecco perché i politici vogliono farla!».

La mia impressione, leggendo il libro, è che si finisca per credere alla profezia. In questo sta l’abilità di scrittore di Houellebecq? O la sua previsione è davvero plausibile?

«È in effetti uno dei talenti di questo libro: il racconto è estremamente filosofico perché è estremamente credibile... Sottomissione rivaleggia con 1984 di Orwell, Fahrenheit 451 di Bradbury, Il mondo nuovo di Huxley. Per me è il migliore libro di Houellebecq, e di gran lunga. La sottomissione di cui diamo prova nei confronti di ciò che ci sottomette è attualmente sbalorditiva. È un altro sintomo del nichilismo nel quale ci troviamo».

Evocando l’islam, Houellebecq agita un fantasma molto presente nella Francia di oggi, come dimostrano i libri di Alain Finkielkraut e Éric Zemmour. È giustificata, questa preoccupazione dell’identità?

«Ricorrere alla parola fantasma è già un modo di prendere una posizione ideologica. Esiste una realtà che non è un fantasma e che coloro che ci governano nascondono: divieto di statistiche etniche sotto pena di farsi trattare da razzisti ancor prima di avere detto alcunché su queste cifre, divieto di rendere note le percentuali di musulmani in carcere sotto pena di farsi trattare da islamofobi al di fuori di qualsiasi interpretazione di queste famose cifre, eccetera. Non appena si nasconde qualcosa, si attira l’attenzione su quel che è nascosto: se non esiste che un fantasma, allora che si diano le cifre, saranno loro a parlare...».

·        Michela Murgia.

Il Bestiario, la Murgiona. La Murgiona è una giornalista leggendaria che chiama il suo collega maschio “giornalisto”. Giovanni Zola l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.

La Murgiona è una giornalista leggendaria che chiama il suo collega maschio “giornalisto”.

La Murgiona è un essere mitologico che non riesce a fare pace con la lingua italiana, con sé stessa e soprattutto con la logica. A tal proposito, la Murgiona è citata dagli antichi. Aristotele narra che durante la stesura dell’”Organon”, il suo testo fondamentale sulla logica che il mondo ha tragicamente dimenticato, spesso la Murgiona appariva nei suoi incubi notturni, con serpi al posto dei capelli e il suo ultimo libro in mano, e mischiava gli appunti sul sillogismo del filosofo nel tentativo di farlo impazzire e facendolo svegliare nel cuore della notte madido di sudore.

La realtà non smentisce l’indole mitologica della Murgiona. Alcuni fortunati testimoni raccontano di aver visto l’essere leggendario borbottare frasi senza senso nel tentativo di disorientare l’avversario senza però saper utilizzare l’ironia della supercazzola. Altri giurano di aver udito affermare dalla Murgiona che “durante i Rave Party non si commettono reati”. Effettivamente alla Murgiona non le si può dare torto. Se per organizzare un Rave Party infatti si aprisse una società con partita iva, si affittasse uno spazio idoneo, si assumesse una società per la sicurezza, si pagassero le tasse, non si spacciasse droga e ci si facesse una doccia, non ci sarebbe nulla di illegale.

La Murgiona non si accontenta di far torto alla logica aristotelica, essa si diverte anche a giocare con le parole e a declinarle a proprio piacere con la prepotenza di cui solo le femministe più incarognite sono capaci. Nell’era del mondo LGBTQYZ dove ognuno si definisce come vuole – l’ultima trovata è quella di un uomo che si sente donna disabile e vive in carrozzella pur essendo sano (è una storia vera) – la Murgiona impone regole grammaticali e pretende che gli avversari si definiscano come a lei più aggrada. La Murgiona dovrebbe però riflettere a riguardo sul fatto che dalla sua parte la donna più importante è quella che fa da porta borse a un maschio Beta e senza poter decidere neanche che la borsa sia una Yves Saint Laurent.

Di più, la Murgiona non si accontenta di bisticciare con l’Accademia della Crusca, ma processa le intenzioni per cui una donna che pretende l’articolo maschile davanti al suo ruolo professionale necessariamente agirà come un maschio. Da cui, siccome la logica malgrado la Murgiona ha un suo valore, ne concludiamo che chi è di sinistra è femmina, chi è di destra è maschio e chi è di centro usa i bagni neutri.

L'Ego diviso di Michela Murgia. Evi Crotti il 5 Novembre 2022 su Il Giornale.

Cosa raccontano la scrittura e la firma della scrittrice: l'analisi della grafologa

Dalla scrittura e dalla firma di Michela Murgia emerge un temperamento sanguigno atto all’azione e all’operosità. È, pertanto, persona poliedrica e ciò le permette di attivarsi continuamente in comportamenti che le permettono di soddisfare il suo Ego diviso tra soddisfazioni immediate e idealismi, purché diano alla sua immagine un che di positività da presentare all’esterno. Si tratta quindi di un’immagine basata da un lato su principi appaganti e dall’altro sugli ideali che favoriscano la distinzione.

Se lo scritto mette in risalto un gesto grafico semplice e lineare, la firma, invece, denuncia quanto Michela Murgia ami apparire. Le iniziali dell’autografo, così oltre misura, indicano la bramosia nel voler sfondare e trovare così una dominanza nel mondo sociale. In questo senso ella si serve di regole dettate dal padre assunto come modello, che quindi le dona quella forza volitiva e operativa che le permette di distinguersi e di operare con slancio e determinazione (vedi lettere marcate e ben rappresentate). Ciò è anche segnale di un’ottima energia vitale per cui sa affrontare una buona mole di lavoro senza subire fatica e stress.

La Murgia possiede un pensiero di tipo concreto, per cui bando a ogni elucubrazione o a ripensamenti: infatti, ella ama concretizzare a volte persino senza soppesare i pro e i contro che potrebbero derivare da situazioni che invece richiederebbero riflessione; l’importante per lei è fare, rendersi utile ed essere pertanto sempre sulla cresta dell’onda, sia in modo concreto, con i conseguenti ritorni, sia solo in senso idealistico (vedi lettere ”g”, “m” e “p” molto grandi e amplificate). Tale modalità di condotta evoca simbolicamente il carattere della Murgia che passa da una modalità all’altra con estrema facilità.

Le aspirazioni fantastiche, dipendenti dal mondo istintivo, creano poi un misto di caratteristiche temperamentali che senza dubbio le conferiscono grinta, volontà, ambizione e operosità. Deve però stare attenta a non crogiolarsi troppo in questa situazione di apparente sicurezza, a volte persino troppo ostentata ed espressa da forme egocentriche (vedi firma nella quale viene evidenziato di più il nome rispetto al cognome).

"Famiglia tradizionale? Ma se Gesù...". La predica gender della Murgia. Marco Leardi il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale.

"La famiglia di Nazareth non è modello di niente". La scrittrice si improvvisa esegeta e scomoda persino la religione. Poi l'attacco al premier Meloni: "Il femminismo l'avrà sempre come nemica"

Gesù di Nazareth? Un nemico della famiglia tradizionale. Un sovvertitore dei ruoli prestabiliti, uno che rinnegava certi valori. Addirittura, una sorta di attivista queer. Il catechismo secondo Michela Murgia è un compendio di relativismo spicciolo che di cristiano, per chi abbraccia la fede della Chiesa, ha davvero poco. Ma che importa: nella retorica del femminismo d'oggi, l'unico dio nel quale credere non può che avere connotati fluidi. Persino il modello trinitario non ha più senso. Lo ha spiegato la stessa scrittrice in un'intervista a La Stampa, nella quale ha offerto ai lettori un sermone domenicale che non ha risparmiato nessuno. Nemmeno Giorgia Meloni.

Il "catechismo" di Michela Murgia

"La famiglia di Nazareth nel Vangelo non è il modello di niente", ha spiegato la novella "esegeta" femminista, offerendo anche degli esempi che suffragassero questa sua tesi. "Quando qualcuno va da Gesù cercando di fargli dire qualcosa di familistico tipo 'sono venuti qui tua madre e tuo fratello a chiamarti perché stai facendo un po' il pazzo in piazza', lui dice 'chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?', cioè io giudico sulla base di chi fa la volontà del Padre, non ci sono titoli e ruoli, non li riconosco. Quando dice con durezza 'io sono venuto a portare la spada, non la pace, tra il padre e il figlio, tra la madre e la figlia', mette in crisi i cultori della famiglia tradizionale". Una spiegazione abbastanza semplicistica, e anche errata per la dottrina, della quale però la scrittrice sarda è sembrata parecchio convinta.

Secondo Murgia, del resto, quello della famiglia tradizionale - con padre, madre e bambini - sarebbe un modello fittizio, costruito "negli anni Sessanta" e diverso da quello della famiglia allargata che invece esisteva nelle realtà rurali. "Il fatto che lo Stato riconosca soltanto forme di aggregazione in coppia, riportando il rapporto affettivo solo a un binomio, fa ridere perché nei fatti non è così", ha proseguito la scrittrice, la quale rifiuta anche l'esistenza di valori definiti "non negoziabili" (per usare una storica definizione del cardinal Ruini). "Non esistono nel consesso umano valori non negoziabili. Tutto è negoziabile, perché siamo tutti diversi, la democrazia è l'esercizio della negoziazione più estremo che ci sia. Anche la pace si fa con i negoziati", ha affermato l'attivista queer.

L'attacco a Giorgia Meloni

In simile contesto teorico, il giudizio - peraltro arcinoto - della scrittrice su Giorgia Meloni non poteva certo stupire. "Lei beneficia oggi dei risultati del femminismo, ma il femminismo l'avrà sempre come nemica", ha sentenziato Murgia, arrabbiandosi anche con quelle donne che da sinistra hanno espresso apprezzamenti al neopremier. "Sono allibita dalla simpatia che il discorso di Meloni in Parlamento ha suscitato in molte donne perché non ha sovvertito alcuno schema: non ha detto nulla che non ci si aspettasse da lei, a parte la furbata di intestarsi i percorsi di emancipazione di donne che, se l'avessero conosciuta quando erano vive, sarebbero state sicuramente dalla parte opposta delle barricate", ha aggiunto l'attivista sarda. E ancora: "Meloni ha fatto una costruzione di sé come underdog, la perdente che sovverte i pronostici, che non sta in piedi: a 29 anni era deputata e a 31 ministro".

"Vuole svuotare le battaglie linguistiche"

Sulla questione del ruolo di presidente declinato dal premier al maschile, poi, Murgia è salita sulle barricate. "L'unico motivo per cui una donna dovrebbe rifiutare di farsi declinare al femminile è una disforia di genere, che dubito però la riguardi. In realtà il tentativo è quello di svuotare di significato le battaglie sul linguaggio, che invece sono importanti perché la lingua è l'infrastruttura del pensiero. Loro continuano a dire 'non conta niente', ma allora perché impiegano tanta energia? Sanno che conta, sanno che se tu cambi i nomi, cambi anche i rapporti tra le cose", ha osservato, accusando il presidente del consiglio di voler così i progressi sul linguaggio inclusivo.

Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa” il 30 ottobre 2022.

Di Michela Murgia, in God save the queer (Einaudi Stile Libero), c'è tutto. Ci sono la fede e la modernità. La capacità di indagare il sacro e quella di rappresentarlo attraverso le parole. Il femminismo, la tecnologia, uno sguardo aperto sulla vita che è, sempre, mutamento. E che per questo nulla può pretendere di fissare. 

C'è, al fondo, la libertà di una scrittrice che può spaziare dalla Bibbia a Harry Styles a Cenerentola passando per David Bowie e Il giovane Holden, senza smettere di parlare di noi. 

Ci incontriamo nei giorni della fiducia del Parlamento al governo di Giorgia Meloni. Della circolare di Palazzo Chigi con l'indicazione di chiamare la prima premier italiana «il signor presidente del Consiglio», poi corretta in «il presidente del Consiglio». 

Così è naturale, sotto il sole di un mattino d'ottobre, partire da questo. «Sono allibita dalla simpatia che il discorso di Meloni in Parlamento ha suscitato in molte donne - dice Murgia - perché non ha sovvertito alcuno schema: non ha detto nulla che non ci si aspettasse da lei, a parte la furbata di intestarsi i percorsi di emancipazione di donne che, se l'avessero conosciuta quando erano vive, sarebbero state sicuramente dalla parte opposta delle barricate».

Meloni ha riconosciuto che donne come Nilde Iotti o Tina Anselmi hanno costruito la scala che ha permesso il suo percorso. È la prima volta, non le sembra un passo avanti?

«Lei beneficia oggi dei risultati del femminismo, ma il femminismo l'avrà sempre come nemica». 

In realtà pare voler incarnare un altro femminismo, meno simbolico, più pragmatico.

Niente battaglie sui nomi, ma la rivendicazione di una presa del potere solitaria.

«Confonde il potere con l'emancipazione. Il femminismo non ha come obiettivo il raggiungimento del potere, ma la messa in discussione di un modello tradizionale che lei non tocca minimamente. E che anzi incarna al meglio. A Meloni manca tutto il percorso della sorellanza, della rete. Non lotta per le altre donne». 

Ha ripetuto, anche in aula, che non toccherà i diritti, a partire dalla legge 194 sull'aborto.

«La 194 non dice che noi possiamo abortire se lo vogliamo, dice che ci devono essere delle condizioni. Quando Meloni dice: faremo tutto quel che è scritto nella legge, significa che può far sì che quelle condizioni debbano essere certificate da un medico. Così tu dovrai affrontare il consultorio con i pro vita, trovare un dottore che certifichi che hai diritto a interrompere la gravidanza, poi trovarne un altro non obiettore. Sono molto spaventata perché credo che su questi temi saranno feroci e nello stesso tempo diranno: non stiamo toccando niente». 

Di certo non si potrà pensare all'adozione dei figli del partner nelle famiglie arcobaleno o a una legge contro l'omotransfobia.

«E invece io credo che le battaglie che dobbiamo fare non siano di difesa. Bisogna avere il coraggio di alzare l'asticella, dire che vogliamo di più e chiederlo direttamente a questo governo, altrimenti sì che ci ricacciano indietro». 

Cosa pensa del cambio di nome dei ministeri?

«Sono convinta che il modo in cui chiami le cose sia il modo in cui inevitabilmente finisci per trattarle. Sulla questione della scuola e del merito, Giuseppe Conte in aula ha citato una frase meravigliosa: la scuola non è il luogo dell'eccellenza, ma del riscatto. So che la lotta di classe è fuori moda, ma mentre noi decidevamo che non si porta più, le diseguaglianze sono aumentate. Meloni ha fatto una costruzione di sé come underdog, la perdente che sovverte i pronostici, che non sta in piedi: a 29 anni era deputata e a 31 ministro».

Per arrivare dov' è però ha lavorato senza mettersi dietro a un padrino, anzi sfidando i leader.

«Il Pd ha un problema che può risolversi solo lui, quanto a donne che stanno dietro agli uomini. Tornando a Meloni, ognuno fa la narrazione di sé che preferisce. A me stupiscono le persone che le credono. Anche a sinistra. A chi dice: "Anche se non viene dal nostro mondo dobbiamo lasciarla lavorare", rispondo: non è che non abbia mai lavorato. La conosciamo, sappiamo quel che pensa». 

Non sembra avere fiducia nel Pd.

«È irredimibile. La penso come Rosy Bindi. Conte sta occupando i temi che dovevano essere della sinistra». 

Conte è sempre quello che ha votato i decreti sicurezza, i 5 stelle sull'immigrazione hanno avuto per anni una posizione molto simile a quella di Meloni.

«Credo che stia facendo prendere al Movimento un'altra strada. Se il Pd avesse accettato di fare un accordo con loro alle politiche oggi avremmo sicuramente un Pd più di sinistra e un M5S meno nel caos. Era meglio perdere i renziani ancora dentro che la possibilità di quell'alleanza». 

All'inizio del suo libro cita una riflessione di Chiara Valerio. Io ho sempre pensato che nominare significasse far esistere qualcosa, lei invece dice: nominare significa escludere.

«È vero che, nominando, trasformi le cose in fenomeni che non possono essere più ignorati, ma è anche vero che ogni nominazione rischia di essere dogmatica. Tutto quello che esiste deve entrarci e così si creano ulteriori scatole. Per questo mi piace il concetto di queer: l'atto del queering è una scatola senza i lati, prende la forma di quello che ci entra dentro, anziché il contrario. Ed è la ragione per cui è visto con così grande sospetto anche all'interno del mondo Lgbtqia+».

Questa indefinitezza dei confini, queste identità liquide, è come se alimentassero nuove paure. Nel mondo avanzano forze che usano parole d'ordine antiche, una religiosità pervasiva che confligge con una società secolarizzata.

Penso ai teocon americani, a Trump, a Orban, ai polacchi, a Putin. In God save the queer, lei riesce a tenere insieme tutto. La religione non è più gerarchia, la stessa Trinità non lo è, come nell'icona di Andrej Rublëv.

«Credo che la differenza sia tra il concetto di conservazione e il fatto che noi siamo mutamento. Se ti spaventa il mutamento intorno a te, ti spaventa anche il tuo. È per questo che per me categorie come omo, etero, non hanno significato. 

Sono statiche, fasi che non possono definire un'identità. Se la forma diventa la tua sostanza, nel momento in cui la tua sostanza cambia e tu non hai un'altra forma, rimani in gabbia. Trovo tra gli omosessuali e le lesbiche molta difficoltà anche con la stessa categoria di bisessuale.  

Ti dicono: sei un irrisolto, non sei sufficientemente coraggioso, ti chiedono di irrigidire la tua natura. E tu dici: ma io non la voglio irrigidire, perché oggi è così ma domani no e io rimango me stessa. Non è la stasi a definirci, ma il mutamento». 

Parla dei diversi modi di essere cristiano: chi lo è per aderire a una forma che non sente, ma che lo rassicura, e chi lo è nel profondo.

«Ricorda la formula che utilizzava il cardinal Ruini quando era presidente della Cei? Parlava di valori non negoziabili. Ma non esistono nel consesso umano valori non negoziabili. Tutto è negoziabile, perché siamo tutti diversi, la democrazia è l'esercizio della negoziazione più estremo che ci sia. Anche la pace si fa con i negoziati. Il cattolicesimo è sopravvissuto per 2000 e passa anni negoziando forme diverse, altrimenti sarebbe stato sterminato nel primo secolo». 

E quindi anche la religione può essere aperta, inclusiva, fluida.

«Nell'icona di Rublëv si vedono tre persone che pur avendo un'identità specifica non hanno confini così netti da poter dire dove finisce uno e dove comincia l'altro. Quello per il cristiano deve essere il massimo dei conforti possibili. Il problema è che a noi non hanno proposto come modello sociale quella Trinità: hanno proposto la famiglia di Nazareth, che nel Vangelo non è il modello di niente. 

Quando qualcuno va da Gesù cercando di fargli dire qualcosa di familistico tipo "sono venuti qui tua madre e tuo fratello a chiamarti perché stai facendo un po' il pazzo in piazza", lui dice "chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?", cioè io giudico sulla base di chi fa la volontà del Padre, non ci sono titoli e ruoli, non li riconosco.

Quando dice con durezza "io sono venuto a portare la spada, non la pace, tra il padre e il figlio, tra la madre e la figlia", mette in crisi i cultori della famiglia tradizionale». 

Esiste la famiglia tradizionale?

«Quel modello nasce negli anni Sessanta, padre, madre e due bambini, ed è celebrato dal Mulino Bianco, ma la famiglia tradizionale rurale era una famiglia allargata in tutti i sensi, dove anche i confini tra fratelli e cugini non erano così netti». 

È un modello costruito?

«Sì e neanche lo applichiamo più. Siamo uno dei Paesi al mondo che fa meno figli in assoluto, più di metà della popolazione è in un nucleo familiare singolo. I modelli di relazione sono già altri e si è visto quanto corta fosse la coperta nel momento in cui, durante il lockdown, ci hanno detto: devi stare con i congiunti. Io sapevo con chi volevo stare, ma legalmente quelle persone non erano la mia famiglia».

Ha dedicato questo libro, alla sua famiglia.

 «Siamo otto e ciascuno di noi ha realtà diversissime, orientamenti diversissimi, ma abbiamo stipulato patti di reciproca responsabilità. Se uno si ammala, se uno ha bisogno, ci siamo l'uno per l'altro o per l'altra. Il fatto che lo Stato riconosca soltanto forme di aggregazione in coppia, riportando il rapporto affettivo solo a un binomio, fa ridere perché nei fatti non è così». 

C'è un capitolo su quanto la tecnologia cambi la realtà, ricreandola. Lei considera il virtuale reale quanto la vita fisica?

«Io non credo che il corpo ci determini. Se una persona con una disabilità si costruisce una identità digitale in cui non dichiara quella disabilità, è forse meno reale? Mi rifiuto di essere inchiodata al mio dato biologico e credo che questo sia molto femminista. Il mio corpo non è la mia identità, per questo non ho problemi se una persona trans dice: io sono questo.

Lo accetto, non vedo cos' altro potrei fare. E mi dà fastidio che a non accettarlo siano a volte le donne che hanno combattuto per anni il fatto di essere ridotte a un corpo, trattate come merce». 

La scelta di Giorgia Meloni di chiamarsi il presidente è una scelta queer?

 «Ma è così! L'unico motivo per cui una donna dovrebbe rifiutare di farsi declinare al femminile è una disforia di genere, che dubito però la riguardi. In realtà il tentativo è quello di svuotare di significato le battaglie sul linguaggio, che invece sono importanti perché la lingua è l'infrastruttura del pensiero. Loro continuano a dire "non conta niente", ma allora perché impiegano tanta energia? Sanno che conta, sanno che se tu cambi i nomi, cambi anche i rapporti tra le cose». 

Annarita Digiorgio per “il Giornale” il 10 ottobre 2022.

Il 15 dicembre si celebrerà la prima udienza del processo in cui è imputato Roberto Saviano per diffamazione contro Giorgia Meloni. Lo scrittore a dicembre 2020, in diretta su Rai Tre, chiamò «bastarda» la leader di Fratelli d'Italia. All'udienza a Roma parteciperà anche Michela Murgia. Non per dare solidarietà a Giorgia Meloni, come ci si aspetterebbe dalla scrittrice (o si dice scrittora?) paladina delle donne e dello schwa, bensì per sostenere il collega maschio che ha insultato una donna. 

Murgia ha annunciato la sua presenza al processo dalle colonne dell'Espresso: «Il 15 novembre c'è il rinvio a giudizio di Saviano, reo di aver detto una parola contraria a Meloni e Salvini sulla responsabilità dei morti nel Mediterraneo». 

La scrittrice si guarda bene dal pronunciare l'insulto rivolto al futuro premier, derubricandolo a critica politica, anzi a «cultura»: «Il primo gesto di Meloni da presidente del Consiglio - scrive Murgia - potrebbe dunque essere quello di portare alla sbarra un intellettuale di fama internazionale che le ha espresso dissenso. A quell'udienza ci sarò anche io. Voglio vederla in faccia questa destra che appena sente la parola cultura mette mano alla querela». 

Quindi secondo Murgia dire «bastarda» a Giorgia Meloni è «cultura». Eppure proprio lei ha scritto un libro che si chiama Stai zitta. E altre nove frasi che non vogliamo sentire più. Nel saggio Murgia (senza articolo d'avanti, per lei sarebbe sessismo anche quello!) elenca tutti gli epiteti e modi di dire correnti che, secondo lei, insultano le donne.

Non solo sessismo linguistico, ma veri e propri femminicidi verbali: «Se si è donna, in Italia si muore anche di linguaggio. È una morte civile, ma non per questo fa meno male». Si legge nella sintesi di copertina: «Accade ogni volta che rifiutano di chiamarvi avvocata, sindaca o architetta perché altrimenti dovremmo dire anche farmacisto. Succede quando fate un bel lavoro, ma vi chiedono prima se siete mamma. Quando siete le uniche di cui non si pronuncia mai il cognome, se non con un articolo determinativo davanti. Quando vi dicono di calmarvi, di scopare di più, di smetterla di spaventare gli uomini, di sorridere piuttosto, e soprattutto di star zitta».

Per Murgia dire a una donna che «fa la maestrina» è sessismo, mentre darle della «bastarda» è cultura. O diventa «cultura» solo perché la «bastarda» è Meloni? Forse l'insulto per essere tale dipende da chi lo dice, e da chi lo riceve. Quando infatti sono rivolti a lei, diventano sessismo o bodyshaming. 

Alla fine del primo governo Conte fece l'elenco degli insulti ricevuti dagli hater mentre Salvini era al Viminale: «Scrofa. Palla di lardo. Peppa Pig. Sono sui socialmedia da 11 anni, ma quello che mi sono sentita dire negli ultimi 14 mesi non ha precedenti. Tanto è durato il governo uscente, tanto è durato il processo di promozione dell'insulto da bar a linguaggio istituzionale. Si chiama bodyshaming». 

Invece Saviano che chiama «bastardi» Meloni e Salvini finendo a processo per Murgia è cultura: e non ha usato neppure la «schwa»!

Giulia Zonca per "La Stampa" il 2 febbraio 2022.

Mascherina per l'ossigeno, siringa, pastiglie: Michela Murgia è diretta come al solito: «La malattia non è una catastrofe, ma un pezzo della mia vita che vale come gli altri e non voglio trattarla come un segreto oscuro o una cosa di cui vergognarmi». 

È uscita dalla terapia intensiva dove è stata ricoverata a inizio anno per un problema cardiaco e ora racconta sprazzi della convalescenza, spiega le assenze giustificate e mostra pure il sostegno ricevuto, le attenzioni di un giro di amici così partecipe da monitorarla, sostenerla, inseguirla.

Mostra quello che serve per guarire. La scrittrice aveva già dato notizia della sua salute il 2 gennaio con un messaggio più stringato e pronto a scomparire in una storia. Nei giorni di dubbi e paure forse era meglio affidarsi a un post temporaneo, ma il gruppo di supporto è emerso subito, forte e chiaro e ora torna negli aggiornamenti. 

Prende il sopravvento sulle cure e sulle fragilità, resta prepotente e vivace, in primo piano, saldo in mezzo alle difficoltà. Quando Alessandro Baricco ha deciso di informare il pubblico della leucemia ha scritto un avviso, destinato a restare unico, ha aperto e chiuso un canale per l'attimo che serviva a definire la situazione. 

Quel giorno lui entrava in ospedale per un delicato intervento, lo aspettavano lunghi giorni purtroppo destinati a restare senza immediate risposte, in attesa. Murgia si riaffaccia su Instagram uscita dalla clinica e semplicemente dichiara di non avere intenzione di nascondersi.

Non significa che da ora in poi farà la cronistoria del suo recupero minuto per minuto, ma non tira le tende su questo periodo. Ci ha raccontato che si è fatta controllare per «la tigna di Chiara Tagliaferri» la compagna di libro e di podcast, la collega con cui conduce «Morgana» sottotitolo, «storie di ragazze che tua madre non avrebbe approvato», storie militanti con cui lei cerca di scolpire figure in un vocabolario aderente, su misura, e non preso malamente in prestito da altri mondi.

Si propone di svelare persone spesso descritte con le parole sbagliate. E la stessa tecnica usa per trattare la sua salute, un tema personale, che resta tale, però pure una cosa che capita e si deve affrontare: «Ammalarsi è normale, curarsi è normale e anche scegliere dove fermarsi è normale. Non tornerà tutto come prima, ma quello che verrà dopo potrebbe persino essere meglio. Diamoci il tempo di farlo succedere», cambia il ritmo ai social.

Rallenta. Baricco lo aveva bloccato con una singola affermazione che conteneva pure, conteneva già, il successivo silenzio. Suo e di chi gli sta vicino. Murgia spiega che darà le novità «di tanto in tanto», quando sarà necessario perché lei ha sempre scritto e detto tutto per emergenza, per il bisogno di evidenziare, di non trattenere. 

Spesso le si intitolano delle crociate e lei lascia che sia, alimenta l'idea, ma ognuno ha degli imperativi e lei segue i suoi. Non si lascia giudicare nemmeno in questa circostanza, sfugge al controllo però piazza ogni dettaglio in piena luce: la mascherina per l'ossigeno, la siringa e le pastiglie. Niente filtri. 

Gli amici controllano che lei non faccia sforzi dalla chat «oro saiwa» che ogni tanto si affaccia nei post. La invitano a rispettare la app salute che denuncia un battito accelerato e quindi una probabile fuga, una camminata proibita e lei rilancia «figurati se esco dalla vostra guardania... mi sto masturbando».

Sa bene che la app la localizza, lontana da casa. Soprattutto sa di avere quello che serve per riprendersi: gli amici, l'amore, l'attenzione. E che ce lo faccia sapere non è così male.

·        Michele Rech, in arte Zerocalcare.

Da open.online il 6 gennaio 2022. «Non ho mai pensato che disegnare fumetti potesse essere la mia principale fonte di reddito. Anche perché molte persone mi dicevano che non avevo abbastanza talento per diventare un fumettista». Michele Rech, in arte Zerocalcare, ha parlato della sua arte e della sua esperienza come disegnatore in un’intervista rilasciata al Guardian, realizzata da Lorenzo Tondo. 

A dieci anni dall’uscita del suo primo graphic novel (La profezia dell’armadillo, 2011), Zerocalcare racconta le sue difficoltà iniziali. Quel lavoro era stato rifiutato da decine di editori. Quando la Bao edizioni ha poi deciso di pubblicarlo, è arrivata a ristamparlo 24 volte per una vendita totale di circa 150 mila copie. «L’ultima volta il firmacopie è durato 14 ore», racconta Zerocalcare. «È estenuante. Mi dicono che dovrei assumere un agente, qualcuno che metta dei limiti a questa cosa. Ma per me sarebbe un’ingiustizia, e mi sentirei in colpa». 

Ma l’apice del suo successo è arrivato quest’anno, con l’uscita della sua serie tv targata Netflix Strappare lungo i bordi. E la sua vita, dice, da un po’ non è più quella di prima. «Devo imparare che le cose non sono come erano un mese fa. E non è facile per uno come me».

Ma come è nato il progetto della serie animata? «Ero ossessionato dall’idea», ha detto il fumettista. «Prima di tutto per la musica, perché avevo sempre citato delle canzoni nei racconti ma sapevo che molte persone non li avrebbero mai ascoltati. E io volevo che lo facessero: quindi ho inviato a Netflix centinaia di e-mail, finché alla fine non hanno accettato». Ma la serie non è piaciuta particolarmente alla Turchia di Erdogan, che ha criticato l’inserimento delle bandiere curde nella scenografia. Ma Rech ha sempre difeso la sua scelta: «Sono le bandiere delle persone che hanno liberato la Siria settentrionale dall’Isis. Di coloro che hanno dato la vita per combattere il fondamentalismo islamico».

Zerocalcare: «Non sono pacifista. Ci sono pure le guerre di liberazione, no?». Chiara Severgnini su Il Corriere della Sera il 25 Marzo 2022.

«Non ho gli strumenti per fare un’analisi geopolitica...». «Tanti mi chiedono: “Perché non dici o non disegni la tua sull’Ucraina?”. Ma io ho difficoltà a dare risposte tranchant e diffido di chi lo fa». 

Michele Rech, nato a Cortona il 12 dicembre 1983, fumettista conosciuto con il nome d’arte Zerocalcare (foto Mondadori Portfolio)

In principio fu l’armadillo. Michele Rech, alias Zerocalcare, lo ha scelto come incarnazione della sua coscienza. Prima nei fumetti che pubblicava «ogni maledetto lunedì su due» sul blog. Poi nella sua graphic novel d’esordio e in quasi tutte le successive. Infine, nella serie animata per Netflix Strappare lungo i bordi, uscita a novembre in 190 Paesi, che ha elevato al cubo la sua fama. E pensare che la primissima edizione de La profezia dell’armadillo, alla fine del 2011, era un’autoproduzione: 500 copie stampate con l’aiuto di Makkox, tra i primi a credere nel talento di Rech. Costava 12 euro, spedizione inclusa; oggi su eBay non si trova a meno di 600. Nel mezzo ci sono dieci anni e altri tredici fumetti, tutti editi da Bao Publishing (che nel frattempo ha anche ristampato La profezia dell’armadillo, a colori, ben ventisette volte). Il loro successo ha fatto di Rech—romano, classe 1983— una vera star: a gennaio, per dire, c’erano quattro sue opere nella classifica dei venti titoli di narrativa italiana più venduti. A differenza di altre star, però, lui non sembra voler cambiare vita. Non ha un agente. Non ha cambiato né quartiere, né amici, né abitudini («vado ancora in fumetteria ogni martedì », giura). Presta china, tempo e voce alle stesse cause di sempre: dalla lotta dei curdi al sostegno legale per i manifestanti coinvolti nei processi per i fatti del G8. Su WhatsApp ha uno status ironico: «Odio disegnare e odiò andà in giro».

Dieci anni di carriera. Che effetto fa?

«Assurdo. Ogni tanto incontro pischelli che mi dicono cose come “sono cresciuto con le tue storie”, oppure “ti ho riscoperto con la serie, quando ero piccolo ti leggeva mia mamma”. E io penso: ma com’è possibile che tu abbia cambiato il tuo status da “piccolo” ad “adulto” da quando io faccio fumetti leggibili anche da chi non frequenta i centri sociali? Perché in realtà è da 25 anni che faccio cose… ».

«RISPETTO A PRIMA SONO UNA MACCHINA! SOLO CHE TUTTO VIENE OFFERTO SUBITO AL PUBBLICO. NON RIESCO A DIRE “STO 6 MESI CHIUSO A DISEGNARE”»

L’anniversario ti ha fatto riflettere?

«Ho fatto un bilancio. Quando è uscita La profezia dell’armadillo c’era una divisione molto netta tra i miei fumetti pop e i miei fumetti legati al mondo dei centri sociali. Però ho sempre voluto provare a portare i secondi all’interno dei primi, senza snaturarmi e senza commettere un suicidio lavorativo. È stato un processo lungo, ma oggi il mio bagaglio politico sta integralmente nella mia professione».

Come sei cambiato, come autore?

«Rispetto a prima, sono una macchina! Sono più veloce e più sicuro di me. Ma tutto ciò che faccio viene dato direttamente in pasto al pubblico e questo è avvenuto a discapito della ricerca artistica: non ho avuto il tempo di sperimentare, non ho mai potuto dire “sto sei mesi chiuso in casa a disegnare, vediamo come va”. Questo è il mio rimpianto».

«SPOSARE UNA CAUSA, QUANDO FAI UN LIBRO, E POI DISINTERESSARTENE, QUANDO IL CLAMORE SI SPEGNE, È MORALMENTE INDECENTE PER ME» 

E perché non ti prendi questi sei mesi?

«Non perché devo pagare l’affitto, come qualcuno pensa, ma perché sto incastrato in meccanismi editoriali e in logiche politiche che impongono delle scadenze. Per esempio, nel 2021 sono stato tra Iraq e Siria, perché i curdi mi hanno detto che c’è bisogno di raccontare quello che sta succedendo lì: se il fumetto esce tra tre anni, non serve a nulla. È vero, potrei mandare tutti a quel paese, ma io considero i fumetti come una declinazione del mio modo di stare al mondo e prima di essere un fumettista sono una persona con un’esigenza di militanza».

Insomma, non ti puoi prendere sei mesi da te stesso.

«Esatto».

In questi dieci anni anche il fumetto italiano è cambiato. Senz’altro ha acquisito una maggiore visibilità mediatica. Perché?

«Si è presa coscienza del fatto che è un linguaggio, non un genere. Con il fumetto puoi fare tutto: interviste, saggi, storie per l’infanzia…».

In questo processo di sdoganamento, il fumetto ha perso qualcosa o ci ha solo guadagnato?

«Ci sono ancora spazi dove si possono fare fumetti underground con contenuti radicali. Per chi finisce sotto i riflettori, è chiaro, ci sono delle questioni da affrontare…».

«PER FORTUNA HO DEGLI AMICI CRUDELI E LUCIDI CHE, QUANDO SERVE, SONO CAPACI DI DIRMI: ‘SMETTILA, SEMBRI LA BARBARA D’URSO DEL FUMETTO’» 

Per te, quali sono?

«La prima è saper fare delle cose impopolari, se penso che siano giuste, continuando a parlare a tanta gente. Dopo un po’ che fai questo mestiere, capisci quali sono le cose che ti portano consenso. E quando sei molto esposto, ti verrebbe naturale schivare i guai: è umano. La sfida è mantenere un equilibrio».

E poi?

«Non trasformarmi in un pupazzo del teatrino mediatico. È difficile: mi invitano in tv, mi provocano sui social… Per fortuna, ho degli amici crudeli e lucidi che ci tengono molto a me. E, quando serve, sono capaci di dirmi: “Smettila, sembri la Barbara d’Urso del fumetto”».

Con quali fumetti sei cresciuto?

«Ho iniziato con Il Corriere dei Piccoli, poi ho scoperto Topolino, Sturmtruppen, Lupo Alberto, Cattivik… Dopo ho cominciato con i supereroi americani e i manga. Ma la folgorazione, la voglia di fare questo mestiere, è arrivata con La mia vita disegnata male di Gipi».

Perché?

«Mi ha fatto capire che ci possono essere delle cose da raccontare anche nella vita di uno come me, che non sono certo Indiana Jones. In più, se ne fotte della grammatica del fumetto. Non avevo mai letto nulla di simile prima e mi ha trasmesso un’idea di libertà assoluta».

Ti rileggi?

«Non ho mai riletto un mio fumetto in vita mia».

Neanche prima di mandarlo in stampa?

«Se lo facessi, non andrebbe in stampa niente. Mi affido all’editore».

«HO SEMPRE VOLUTO OBBLIGARE LE PERSONE AD ASCOLTARE LA MUSICA CHE DICO IO, LEGGENDO LE COSE MIE! STAVO IN FISSA CON LA COLONNA SONORA: HO SCELTO PERSONALMENTE OGNI SINGOLA CANZONE» 

Cosa rende speciale il fumetto?

«Richiede al lettore di stare attento. Si presta a fare ragionamenti complessi, non solo razionali, ma anche emotivi. Può dare la percezione di essere rilassante, ma costringe a fare una sintesi tra immagine e parola, a riempire con la fantasia gli spazi tra una vignetta l’altra e a mettere in funzione tanti sensi».

Non l’udito, però. Eppure nei tuoi fumetti i testi delle canzoni sono un elemento ricorrente. È anche per questo che hai fatto il salto verso l’animazione?

«È stato il motivo numero uno: ho sempre voluto obbligare le persone ad ascoltare la musica che dico io, leggendo le cose mie! Stavo in fissa con la colonna sonora: ho scelto personalmente ogni singola canzone».

Sei riuscito a ottenere tutti i brani che volevi?

«No, c’è un famoso cantautore italiano che non ci ha autorizzato a usarne uno, anche se lo volevo tantissimo. Mi avevano detto che è perché non lo concede mai, ma di recente l’ho trovato in un film di merda… verrà il giorno della mia vendetta (ride, ndr)».

Canzoni a parte, com’è stato passare dal fumetto alla serie animata?

«Sono molto contento del risultato e mi piacerebbe raccontare altre storie in quel modo, ma devo far sì che sia compatibile con la maniera in cui mi piace vivere. Per il primo mese, è stato complicato: ogni cosa che scrivevo o dicevo finiva in quel teatrino di cui parlavamo prima, mi sembrava di stare in un talk show permanente. Non era mai accaduto prima e ci ho messo un po’ a prendere le misure».

Tante persone che ti hanno scoperto con la serie. Che tipo di riscontri hai ricevuto?

«Molte si sono commosse o sentite coinvolte. Poi però per alcune c’è stato una sorta di scarto quando hanno scoperto il resto della mia produzione, come Strati (uscita a febbraio su L’Essenziale, racconta la storia di Ugo Russo, ucciso a 15 anni dal carabiniere fuori servizio che stava tentando di rapinare con una pistola giocattolo, ndr). Qualcuno si è indignato e si è chiesto: “Com’è possibile che l’autore di una serie in cui mi sono riconosciuto così tanto sostenga posizioni che io vorrei vedere sepolte in galera?”. Fa parte delle grandi contraddizioni della vita».

«GLI YAZIDI SI SONO DATI UNA FORMA DI AUTONOMIA INSIEME AI CURDI, MA SONO MINACCIATI SIA DALLO STATO IRACHENO SIA DALLA TURCHIA, CHE LI BOMBARDA QUASI QUOTIDIANAMENTE» 

Prima accennavi al tuo viaggio in Iraq e al tuo prossimo fumetto, atteso nella seconda metà dell’anno.

«Sono stato dove vivono gli yazidi, una minoranza massacrata dall’Isis nel 2014 in quello che l’Onu ha riconosciuto come un tentato genocidio. Si sono dati una forma di autonomia insieme ai curdi, ma sono minacciati sia dallo stato iracheno sia dalla Turchia, che li bombarda quasi quotidianamente. È un altro pezzetto del progetto di autonomia democratica che ho già raccontato in Kobane Calling e che rischia di essere spazzato via».

Vuoi riportare l’attenzione su una guerra che, passata la fase acuta, è stata dimenticata?

«La percezione del superamento della fase acuta ce l’abbiamo noi, perché non ci sentiamo più coinvolti. Ma per chi combatte, forse la fase acuta è ora: sul campo ci sono ancora i jihadisti e in più in cielo ci sono i cacciabombardieri turchi. Io, comunque, non me ne occupo da reporter, ma perché ho deciso che mi sta a cuore. Sposare una causa quando fai un libro e poi disinteressartene quando il clamore si spegne o quando ti dedichi ad altro, per me, è moralmente indecente».

Perché hai «deciso» di prendere a cuore questa causa?

«Perché, tra le mille situazioni drammatiche che ci sono al mondo, questa non mi smuove solo una questione umanitaria, ma rappresenta un faro di speranza. Il tipo di società per cui si battono i curdi si basa su valori che secondo me permetterebbero di risolvere tante delle contraddizioni in cui stanno anche le nostre vite, qui in Occidente. Il mio è un impegno continuo, anche quando non si vede a fumetti: vado ogni mercoledì alla riunione con la comunità curda. Ma non so sparare e non sono un diplomatico, so solo fare fumetti: questo è l’unico contributo che posso dare dunque voglio darlo».

«LA SCELTA DEL DARE O NON DARE ARMI AGLI UCRAINI E’ UN DILEMMA. E CHI NON SE LO PONE È SUPERFICIALE OPPURE È UN PEZZO DI M...» 

Cosa rappresenta la cover che hai disegnato per 7?

«Il dilemma. In Ucraina è in corso un’aggressione e i civili stanno attraversando qualcosa che dovremmo cercare di far finire il prima possibile. Ma come? C’è chi dice che bisogna dare armi agli ucraini, e chi dice che dare armi è sbagliato perché non bisogna alimentare il conflitto. In entrambe le posizioni riconosco qualcosa di eticamente valido. Ma bisogna pensare alle conseguenze, che sarebbero in ogni caso pesantissime. Sta lì, il dilemma. E chi non se lo pone è superficiale oppure è un pezzo di merda. Su questo tema, ho più bisogno di ascoltare che di essere quello che si pronuncia».

E invece?

«Tanti mi chiedono: “Perché non dici o non disegni la tua sull’Ucraina?”. Ma io ho difficoltà a dare risposte tranchant e diffido di chi lo fa. Il fatto stesso che io mi debba barcamenare in questa cosa dà l’idea di quanto ci informiamo male. C’è chi crede di potersi fare un’opinione seguendo un influencer! Oppure chiedendo a me! Ma io non ho gli strumenti per fare un’analisi geopolitica, posso solo ripetere quello che ho letto. Ma ci si dovrebbe informare con la complessità, non con la semplificazione ».

L’equivoco nasce dal fatto che sei stato etichettato come autore pacifista o buonista?

«Forse. Ma non sono pacifista. Mi schiero contro alcune guerre, ma non sono per la non-violenza a tutti i costi. Ci sono anche le guerre di liberazione, no? I curdi stessi sono in guerra. Quanto al buonismo… Non ci trovo nulla di bello nel dirsi cattivo, ma non cerco di essere buono a tutti i costi».

A proposito di etichette, sulla tua carta d’identità c’è scritto «fumettista»?

«No, c’è ancora “grafico”: è la mia comfort zone». 

·        Nietzsche.

Che cosa salverei del grande Nietzsche. Filippo La Porta su Il Riformista il 20 Febbraio 2022. 

Sapete qual è il libro di filosofia più bello, più avvincente e nutriente di questa stagione? Il commento a Umano, troppo umano, aforisma per aforisma di Sossio Giametta (Bibliopolis). L’autore, saggista, traduttore, filosofo, si impegna a commentare tutti gli aforismi di Umano, troppo umano, appartenente alla cosiddetta fase “illuministica” di Nietzsche, dopo averli mirabilmente tradotti mezzo secolo fa. Configurando un “metodo” prezioso nell’accostarci – amorevolmente, criticamente – ai filosofi. La filosofia è dialogo, anche litigioso, con i filosofi che ci hanno preceduto. Mi piacerebbe che il “metodo” diventasse contagioso, che cioè qualcuno si cimentasse nello stesso esercizio, poniamo, con l’Etica di Spinoza, con La ricerca sull’intelletto umano di Hume, con le Briciole filosofiche di Kierkegaard (per dire tre libri fondamentali, che ho molto amato).

Il commento di Giametta è puntuale, rispettoso, acuminato, e sempre fortemente personale: ogni volta mette in gioco se stesso, una conoscenza di prima mano del pensiero filosofico e il rapporto “urgente” con la propria esperienza quotidiana (appartiene alla famiglia dei “moralisti”, digressivi e antisistematici, diversi tecnicamente dai filosofi professionali). Glosse e scolii rappresentano un immenso deposito di cultura filosofico-letteraria, acume psicologico, conoscenza della vita. Di tale deposito mi limito a segnalare tre o quattro cose per me salienti. Anzitutto, come ne esce Nietzsche? Giametta ci va giù con mano pesante: gli aforismi del filosofo tedesco sono per lui alcune volte scombinati, arbitrari, sballati (con titoli fuorvianti), altre volte “spiritosi”, e infine altre volte geniali. Ciò che viene giustamente sottoposto a disamina critica è lo “stile nietzscheano”: roboante, spettacolare, pieno di frasi ad effetto e di velleità poetiche (sarebbe meglio dire poeticistiche), e insomma la sua “teutonica radicalità”.

A ben vedere proprio questo stile ha avuto una grande influenza sui nostri filosofi contemporanei, traducendosi in un estremismo tutto retorico, manieristico, privo di qualsiasi rapporto con il senso comune, attratto dall’estremo e dall’oltre. Nietzsche loda proprio l’equilibrio e la misura cui risulta perlopiù refrattario, finendo a volte in una specie di Kitsch allegorico (ma forse ne è consapevole: definisce Leopardi il maggior prosatore del secolo, e lui è certo lontano dalla sua grazia di scrittura). Valga per tutti il giudizio di Tolstoj che definì Nietzsche, a causa della sua spesso inutile complicazione, un “civettuolo feuilletonista”, tutto paradossi brillanti e rovesciamenti. Entrando più nel merito Giametta porta i suoi affondi critici lì dove Nietzsche ci appare oggi più datato: condanna della compassione (“il peggiore dei mali”), giudizio negativo sulla morale, liquidazione del cristianesimo (che, benché devitalizzato – annota l’interprete – “continua a offrire l’amore, la protezione e la provvidenza del padre, che la laicità non può offrire”). E non parliamo degli elogi della guerra e della schiavitù o dei sinistri progetti eugenetici.

Giustamente l’autore ricorda che la morale è “un fatto naturale, non metafisico”, come vorrebbe Nietzsche: viene dal basso, e coincide con una solidarietà biologica, con la identificazione dell’individuo con la specie. Ciò che non convince è proprio la proposta nietzscheana di “rinaturalizzazione” dell’uomo, e cioè l’auspicio di un (gioioso) imbarbarimento, di un recupero dei suoi istinti più ferini, e dunque l’esaltazione della sopraffazione e dello sfruttamento dei deboli da parte di una casta superiore. Dentro la nostra natura ci sono egoismo e ferocia, ma anche cooperazione ed empatia. Nel filosofo tedesco riecheggiano teorie riduttive alla Rochefoucauld che tutto spiega con la vanità umana. Né si può negare l’esistenza di azioni disinteressate, o se si preferisce motivate da un interesse bene inteso.

Inoltre: Nietzsche non crede alla logica (serve solo a rasserenare i “Malati” mettendo ordine nel caos), in quanto funzionerebbe solo su cose uguali e nella natura non c’è niente di uguale: eppure “nella natura non c’è, a rigore, neanche niente di completamente disuguale”. Poi Giametta critica a più riprese la negazione nietzscheana del libero arbitrio. L’essere umano, certo determinato da molteplici cause, è un pezzo di essere, è una parte della potenza della natura, e di questa condivide la libertà creativa. E poi, sbotta Giametta: “negare la responsabilità, accettata in tutta la storia umana, sebbene sia difficile da dimostrare, può mai essere un’idea sana”. Su giustizia e amore: se il diritto è non solo necessario ma “terribile”, perché “sempre impari, nella sua dura logica, alla vita inafferrabile” (Salvatore Satta), non perciò possiamo giudicare “stupido” (Nietzsche) l’amore, che dà a tutti indipendentemente dai meriti. Né, d’altro canto la giustizia stessa è interamente riducibile ad accordi e patti di convenienza: la sua origine è nella dignità umana, che rifiuta la soperchieria e la disuguaglianza.

Ora, il valore della filosofia di Nietzsche consiste proprio nella sua spietata attitudine alla scepsi, al “martello critico”, alla demolizione di illusioni e ipocrisie, dunque nel continuo riesame critico delle proprie stesse posizioni. Di ciascuna delle “verità” prima riportate, benché suonino apodittiche, definitive, lo stesso Nietzsche scriverà una parziale ritrattazione, una riformulazione problematica (è un pensatore scettico). Anche perciò è sempre spiazzante: ad es. quando scrive, ad onta del suo inguaribile pessimismo, “in mezzo alla natura l’uomo è sempre un fanciullo. Questo fanciullo fa a volte un sogno cupo e angoscioso ma quando riapre gli occhi si ritrova in paradiso”.

Le pagine di Umano, troppo umano dedicate a un sistematico smascheramento dell’essere umano – o meglio della borghesia trionfante e delle magnifiche sorti – conservano tutta la loro affilata, scandalosa verità, così come le pagine di Marx e Freud, la cosiddetta “trilogia del sospetto”, la quale tende a sottolineare la parte bassa, materiale dell’uomo, che “tira giù tutto”. Mentre la sua magniloquente pars costruens ci appare oggi meno convincente. Benché sia da valorizzare la “china felice”, presente, in quest’opera, della “attenzione nelle piccole cose, alle famose cose prossime”. Anche meditando queste pagine se oggi un ventenne – inappetente alla lettura come la maggioranza dei suoi coetanei – mi chiedesse il titolo di almeno un libro indispensabile, non esiterei a indicargli Guerra e pace (Giametta propende per Goethe): nel romanzo tolstojano scopriamo infatti che nell’esistenza ci sono più cose tra il cielo e la terra di quante se ne trovano nelle sentenze memorabili di Zarathustra. Filippo La Porta

·        Oliviero Toscani.

SIMONETTA SCIANDIVASCI per Specchio-la Stampa il 7 agosto 2022.

Casinista calmo, talvolta ascetico, combinaguai a sua insaputa, polemista senza dolo, padre di sei figli, innamoratissimo di sua moglie, Kirsti Moseng, la migliore delle migliori - una volta ha detto: «Non conta quante donne ho avuto, conta che ho avuto le migliori». E fotografo: capace di ritrarre 800 facce e 58 organi sessuali per campagna, e di far baciare una suora e un prete, e di usare dei preservativi, delle facce, dei migranti in barca per pubblicizzare una marca di vestiti, senza mai mostrare nemmeno un paio di pantaloni. Oliviero Toscani è un artista: «Il mestiere del fotografo non esiste più. O sei artista o sei nulla». Lo ha detto tre anni fa, non ha cambiato idea. 

Toscani, mi agevoli: si descriva lei.

«Sono uno onesto». 

E basta?

«Che altro c'è?».

Tutto il resto.

«Ma no. Bisogna essere capaci di togliere. Togliere e mettere le cose a nudo». 

Si spogli. Cosa vede?

«Un ottantenne fortunato». 

L'età è una cosa bella o brutta?

«È. Avanza e non c'è scelta».

Ma?

«Ma non scio e non corro come quando avevo vent' anni. Un po' mi dispiace, ma lo accetto, è normale, appartiene alla vita. Quelli che vorrebbero essere giovani per sempre sono ridicoli».

Lei detesta qualsiasi tentativo di contrastare il dato di fatto. Persino indossare i tacchi.

«Io detesto gli imbrogli». 

Se indosso qualcosa che mi fa sentire di più a mio agio, imbroglio?

«Vuoi sembrare chi non sei, quindi non ti vuoi bene». 

Oppure me ne voglio così tanto da volermi migliorare.

«Ma non si può migliorare. Non con il trucco, almeno. Si migliora con la cultura. Ci sono ciccione infinitamente più belle di certe che faticano a esser magre. Io con una che fa ore di palestra per essere magra non so di cosa potrei parlare. Cosa mi racconta, che dieta fa? Che mi importa di una ossessionata dall'aspetto? ».

Grossolano. Descrive l'ossessione per il corpo come un segno di vacuità.

«Perché lo è».

No. Il corpo può fare molto male. Pensi a quello che ci stanno insegnando i transessuali su quanto è doloroso stare in un corpo che non rappresenta chi si è. Ma vale anche per molto meno, vale anche per chi senza fondotinta s' intimidisce.

«Sui transessuali concordo, mai avuto niente in contrario. Sul fondotinta no». 

Cos' è la vera bellezza?

«Ingrid Bergman».

E tanto piacere. Ma non possiamo essere tutte come lei.

«Io però voglio lei». 

Quando va in giro ne vede molte, di Ingrid Bergman?

«No. Vedo soprattutto donne rovinate, tutte uguali». 

Cosa pensa delle ragazzine che si rifiutano di depilarsi e di quelle che si vantano dei loro brufoli?

«Che sono l'altro lato della stessa medaglia».

Agiscono in nome dell'autenticità. È l'eccesso del suo discorso.

«No. Io cerco una bellezza fatta di personalità. Mi piacciono le donne che incutono rispetto da dieci metri di distanza». 

Esempi?

«Monica Vitti, seria e irresistibile. Aveva una personalità incredibile, si sentiva da lontano la forza della coscienza che aveva di sé. Simone De Beauvoir. Individui liberi che non hanno mai avuto il problema del genere».

Simone De Beauvoir se l'è posto eccome il problema del genere.

«Ma le fregava qualcosa di essere una bambolina?»

Ma lei non ha mai paura di sbagliare?

«Mi faccia una domanda migliore». 

Ha paura di qualcosa?

«Solo una: di farmi male».

Bene, così si tutela.

«Sì. Per il resto, m' interessa rischiare. Il rischio è una grande opportunità. Non puoi essere creativo ed essere sicuro. L'insicurezza è una fortuna». 

Mi dice un rischio che sta per assumersi?

«Rispetto al mio lavoro ho sempre fatto le scelte che mi sentivo di fare. Ho sempre ascoltato la voce interna che mi diceva: fai, abbi coraggio. Ed è ancora così».

Non ha mai detto di no?

«Sì, e anche a tante cose interessanti. A Berlusconi quando ha cominciato a lavorare in tv. E tutte le volte che non mi piacevano le cose che dovevo fotografare e lo scopo per cui dovevo farlo».

Ha detto che Chiara Ferragni è la più brava fotografa del nostro tempo.

«No». 

Lo hanno riportato male?

«La gente ha il cervello piccolo. Ho detto che lei inconsciamente è quella che usa la fotografia nel metodo più moderno. Posta una foto e 22 milioni di persone la vedono subito. Quale altro fotografo ha questo privilegio? Lei usa la fotografia nel modo più estremo che è tecnicamente possibile al giorno d'oggi. Questo ho detto. E ho anche detto che però la fotografia dei social deve ancora andare all'asilo: è totalmente ignorante. È come un bimbo che sarà intelligente ma deve ancora cominciare a scolarizzarsi». 

Ma Ferragni la segue?

«No, non mi interessa. Però mi piace il suo potere».

Anche il suo lavoro è stato visto da milioni di persone.

«Ma c'è voluto molto tempo».

E non è giusto così? Arrivare con la fatica, dopo molto tempo?

«Non so cosa sia giusto. È così.

Non dico che Ferragni sia una brava fotografa: posta cagate inutili, ma quelle cagate inutili sono viste. Quando ha postato le foto con Luciana Segre, ha avuto un'utilità maggiore di quella che ha quando vende magliette griffate». 

I social hanno un futuro?

«Il problema è che non hanno un passato. E tutto questo è un pre asilo». 

Quindi la nuova epoca deve ancora cominciare?

«Sicuro. Quando sento genitori che si lamentano di TikTok, dico: perché non si chiedono come mai, agli occhi dei figli, è più interessante TikTok di loro? Dobbiamo educare i mezzi di comunicazione, non demonizzarli». 

Educare a usarli?

«No, educare per farli crescere, come è stato fatto con la tv e la radio, dove per anni sono state impiegate le nostre intelligenze migliori, e infatti tante cose le conosciamo perché le abbiamo viste e ascoltate lì.

Certo, adesso la qualità è enormemente calata». 

Di chi è colpa?

«Non del pubblico. Berlusconi ha rovinato l'Italia perché è un buzzurro ed è riuscito a imporre il gusto di un buzzurro a un Paese di sessanta milioni di persone».

Un Paese che l'ha votato.

«E che però lo ha negato. Come coi grillini: ora che sono finiti, nessuno ammette di averli voluti, di averci creduto».

E lei ci ha creduto?

«Mai. È un bene che siano finiti». 

E se il 5 Stelle ritornasse in un'altra forma?

«Le cose che ritornano sono sempre penose». 

Lei per chi voterà?

«Sono di sinistra». 

Crede al grande centro?

«Democrazia Cristiana: si chiama così il grande centro. Ed è quello che piace agli italiani.

Io sono radicale. Marco Pannella aveva sempre ragione».

Gli italiani lo amavano e però poi non lo votavano.

«Tipico: un popolo di figli di puttana».

Cosa teme questo popolo?

«Se stesso».

Però gli italiani la amano anche tanto.

«Quando non mi usano come capro espiatorio. Guardi il casino per il Ponte Morandi». 

Lei disse: «A chi interessa che caschi un ponte?».

«Ora le dico bene la storia. Io non avevo niente a che fare con Autostrade, ero tornato in Benetton da poco, mi aveva richiamato Luciano, e l'unica volta che gli ho chiesto come andasse con Autostrade, mi aveva detto che non gestiva personalmente quella parte, e che aveva sentito che avevano proposto al gruppo di seguire anche la Salerno Reggio Calabria, ma il gruppo aveva rifiutato perché erano stati informati del fatto che c'erano ponti costruiti con cemento tremendamente scadente. E mi aveva impressionato che ci fossero ponti fatti con cemento scadente. Quando dissi quella frase mi riferivo a questo. Ma mi vennero tutti addosso, io sono sempre il capro espiatorio perfetto». 

Usciamo dall'Italia.

«Per andare?». 

In Cina. Le piace?

«Dai cinesi mi aspetto la vera rivoluzione. Non possono rimanere così, senza libertà. Per fortuna, il mondo non è gestito da loro».

E non teme che accadrà?

«No».

Tornerà la grande America?

«No, ma alla fine l'Occidente è il meno peggio. E l'Occidente non è l'America. Milano è molto più USA del Midwest americano. L'Europa è cultura occidentale, non americana». 

Vito Mancuso ha scritto su La Stampa che l'Occidente ha bisogno di una nuova utopia, che per lui è tornare a essere umani.

 «Io trovo che l'utopia sia il nome che diamo alle cose che non riusciamo a realizzare». 

Lei le ha realizzate tutte?

«No. Ma ho fatto parte di una generazione fortunata, migliore di quelli che hanno avuto il padre fascista e il nonno comunista. I quarantenni di oggi sono così e mi hanno deluso profondamente: sono rimasti delle mezze seghe, guardi Renzi, Salvini, questi qui tutti a metà. Sono nati ricchi, come i miei figli, e noi li abbiamo viziati troppo perché pensavamo che non dovessero fare fatica. Risultato: non sanno cosa fare del tempo della loro vita». 

E cosa c'è da sapere?

«Se vuoi consumarlo o se vuoi viverlo».

Però i quarantenni hanno inventato la yolo economy, quella che ricorda che si vive una volta sola.

«E che invenzione è? Lo vede che hanno, anzi avete poco talento? Forse avete mangiato troppa roba in scatola». 

Troppo Mulino Bianco?

«Sì, ecco. Troppe merendine. Non sa quanto ho battagliato contro quello slogan "Dove c'è Barilla c'è casa", di Gavino Sanna. Gli dicevo: Gavino, guarda che dove c'è casa ci sono anche grandi problemi sociali e lui mi rispondeva che io facevo vedere i neri e gli omosessuali. Il mondo della pubblicità, negli anni Ottanta, era pieno di improvvisatori della felicità. Imbroglioni».

La felicità che cos' è?

«La voglia di averla».

La vita che vorrebbe aver avuto?

«Ho fatto tutto quello che avrei voluto fare e ho avuto pure modo di vivere momenti di pigrizia e ripensamento. Ho vissuto dove ho voluto e ora vivo dove voglio vivere. Appartengo alla generazione di Bob Dylan. Abbiamo fatto la nostra storia». Ora ne arriva un'altra. «Speriamo. Son qua che aspetto da quarant' anni».

Il provocatore radical clic dalle mille idee e un'ideologia. Luigi Mascheroni l'11 Luglio 2022 su Il Giornale.

Creativo più che vero fotografo, è a suo modo un genio. Ma a riguardare oggi i suoi scatti, sono invecchiati. Come lui.

Oliviero Toscani con il passare del tempo diventa sempre più - come dire? - fané. A ottant'anni - a proposito: «Auguri!», così, Si metta in posa Maestro: clic clic - ha scritto la storia della fotografia in Italia, ha toccato lo zenit con l'ambizioso progetto Razza umana, ma ormai ha perso la freschezza di un tempo - le fotografie vintage non sempre sono belle solo perché sono vintage - e anche un po' i freni inibitori. All'inaugurazione della recente mostra a Milano Professione fotografo dedicata alla sua patinata e abbagliante carriera, ignorando quasi duecento anni di studi sulla falsificazione e l'ideologia dell'immagine fotografica, ha dichiarato: «Da quando c'è la fotografia ci siamo resi conto di cos'è davvero l'umanità, prima abbiamo raccontato tante balle. Io credo che il Vangelo e la Bibbia siano fake news. Se ci fosse stata la macchina fotografica la figura di Gesù Cristo sarebbe ridimensionata». Liquidando, con un ardito scatto di ingenuità, duemila anni di religione. Ebraica e cristiana. Il Corano, curiosamente, è rimasto fuori dall'inquadratura.

E così Oliviero Toscano, uomo di tante idee ma ancor più di granitica ideologia, può continuare a professare la propria personalissima religione laica: il livore. Il maestro dello «shockvertising» - termine che definisce lo shock provato nel momento in cui si scopre quanto si può guadagnare con una réclame non sopporta tutto ciò che non rientra in una pagina pubblicitaria di Vogue. Quindi: i poveri, che gli fanno schifo; i colleghi fotografi per una malcelata invidia di fondo, e in particolare quelli di guerra («mistificatori col giubbotto antiproiettile»); poi tutti i politici (di destra), tutte le politiche (anche Maria Elena Boschi, che pure immortalò in un celebre servizio su Maxim, perché alla fine in copertina il nome di lei era scritto più grande di quello di lui), i social («sono campi di concentramento delle intelligenze»), tutti gli italiani che non la pensano come lui, e soprattutto quei mona dei veneti, «tutti ubriaconi», i siciliani («mafiosi!»), e chi vota Berlusconi, Salvini e ultimamente, con una acredine direttamente proporzionale alla velocità con cui sale nei sondaggi, Giorgia Meloni: «ritardata, brutta e volgare», «una povera donna che dice un sacco di cazzate», pericolosa e fascista. «Le persone normali hanno sempre bisogno di un mostro da giudicare per convincersi di non essere simili a lui». Facciamo clic clic la fotografia a chi non se la lega al dito, facciamo clic clic la fotografia al sorriso di un amico.

Amico dei Benetton, nemico dei no-vax - «United Colors of Omicron» - e indifferente alle vittime del crollo del ponte Morandi (i grandi fotografi sono quelli che sanno riassumere con uno scatto di cinismo le grandi tragedie: «A chi vuoi che importi se cade un ponte») e sponsor entusiasta delle Sardine, da cui il famoso grido «Oliviero, datti all'ittica!», Toscani bisogna riconoscerlo - e chi non lo fa è un leghista ignorante che va in giro a farsi i selfie col telefonino - è uno dei fotografi italiani più celebri al mondo. Piace a molti, non piace ad altrettanti. Ma la sua opera è nella storia. Perché Oliviero Toscani è bravo. Come ammette lui stesso, non è un grande fotografo dal punto di vista tecnico. E neppure da quello artistico. E a dire il vero non è neppure un fotografo. È un creativo, e non diciamo «pubblicitario» per non mancare di rispetto. A lui e ai pubblicitari. Ma a suo modo è un genio. Insomma l'espressione esteticamente migliore dei peggiori anni Ottanta. Modelle, ufficio casting e foto di moda. Toscani - radicale in tutto e amicissimo di Marco Pannella - ha illuminato un'epoca. Che per fortuna è passata. Le sue fotografie, oltre che provocatorie, sono bellissime. È che, a guardarle oggi, sono invecchiate. Un po' come lui. Anacronistico e situazionistico.

Je suis la photographie! Sfondo bianco e identico schema di luci, teorico del soggetto principale sempre al centro, scatti nevrotici, permaloso, sensibile come una pellicola Fuji 1600 ISO, grande senso degli affari (su olivierotoscanibazaar.com si vende di tutto) e convintamente democratico «Tutti quelli che vogliono fare gli artisti e non sanno fare niente, fanno i fotografi: è l'arte più democratica che ci sia» Toscani ultimamente sembra uno di quegli intellettuali umanisti e engagé che prima conquistano culturalmente l'Italia, fanno la bonne vie da privilegiati e infine, al crepuscolo professionale, vivono di rendita e cominciano a criticare tutto ciò che non gli piace del Paese. Del resto, il dramma dei migranti è una cosa orribile vista da una tenuta di Casale Marittimo, Maremma puttana, allevando cavalli e producendo vino. Syrah, Cabernet Franc, Petit Verdot, Teroldego, radical clic e conformismi: razzismo, discriminazioni, multiculturalità - e multinazionali dell'abbigliamento - guerra, sesso liquido, violenza, anoressia, bianco e nero, il bianco che bacia il nero, il nero che bacia il bianco, la suora che bacia il prete, lei che bacia lui, lui che bacia lui, lei che bacia lei, e ancora il razzismo Come insegnava un grande pubblicitario: «Repetita iuvant». Anche se lui tifa Inter. Insomma: eccellente fotografo, solo un po' monotono. Però ha un seguito di fan straordinario, almeno dal 1973: «Chi mi ama mi segua» (e chissà cosa direbbero oggi di quel culo le prefiche del #MeToo...).

Carattere ombroso, ormai uno degli unici rimasto su Clubhouse (dove a tarda notte lo puoi trovare a litigare con gruppetti sfigati di fotoamatori), curioso del successo altrui «Chiara Ferragni non sa fotografare ma è quella che usa la fotografia nel modo più moderno. Ma io non seguo quello che dice Chiara Ferragni, trovo che gli stupidi la seguano, infatti ne ha più di 22 milioni» - Toscani è, ammettiamolo, un tipo originale. Si veste come un manifesto della Benetton e porta strani occhiali dalla montatura colorata, tipici degli over 80 con ansie giovanilistiche, categoria anagrafica che, unita a una spiccata coprolalia, gli permette di dire ciò che vuole. E litigare con tutti.

Ma naturalmente sono solo provocazioni. Facciamo clic clic la fotografia al mondo di domani, facciamo clic clic la fotografia a tutti i tipi strani. E un primo piano a me

Sempre in primo piano, secondo a nessuno, figlio di Fedele Toscani, capo dei fotografi del Corriere della sera al quale si attribuisce ma non è vero, è una fake news - la famosa fotografia di Indro Montanelli che batte sulla macchina per scrivere seduto su una pila di giornali e amorevole padre di Olivia («Non l'ho più visto dall'età di quindici anni, quando sono andata via da casa»), Toscani ha fatto la storia della fotografia. Ma non gli basta. Da un po' di tempo in qua - profondità di campo e miopia politica - vuole fare anche quella della sinistra italiana. Lui, Chef Rubio, Vauro, i Maneskin, Rula Jebreal e Roberto Saviano L'ultimo sogno situazionista è diventare gran consigliori del mondo prog-dem-left-chic. Con intellettuali di una simile lunghezza focale, come si fa a perdere? Mettetevi in posa, bravi, così: facciamo clic clic... Anche i grandissimi fotografi, prima o poi, finiscono dentro una fotografia. 

Simonetta Sciandivasci per "la Stampa" il 24 febbraio 2022.

Li capisci sempre dalle mogli. Oliviero Toscani ha battagliato, polemizzato, discusso moltissimo, sempre, con chiunque, tranne che con Kirsti Moseng, la terza e ultima donna che ha sposato. Cinquant' anni insieme e mai un litigio perché «Lei mi guarda e io mi sento un cretino». Nelle 250 pagine della sua autobiografia, Ne ho fatte di tutti i colori" (La Nave di Teseo, da oggi in libreria), su di lei e loro insieme c'è pochissimo: un paio di frasi, nessun aneddoto. Perché lui viene da una famiglia radicale e sobria, non ha avuto che trenta baci da sua mamma in tutta la vita, detesta quelli che si dicono «ti amo».

Della Kirsti, però, è «innamorato come il primo giorno». Il tumulto, nella sua vita (il 28 febbraio fa ottant' anni, come Dino Zoff), è stato altrove. Nel lavoro, che è tutto il resto e che lo ha portato ovunque: a Zurigo, a studiare, negli anni in cui a Basilea venne sintetizzata per la prima volta l'Lds; al Chelsea Hotel quando ci viveva Dylan Thomas, che ha fotografato in vestaglia, tra gli scarafaggi; a giocare a carte con Keith Richards; a lavorare per Vogue, Elle, Libération, con Fiorucci e Luciano Benetton; a fare l'assessore di Vittorio Sgarbi; a mandare al diavolo Anna Wintour dicendole «fatti curare da uno psichiatra» (poco dopo lei sposò uno psichiatra); in tribunale per vilipendio della religione, diffamazione di Salvini, Gasparri, popolo veneto.

Quando fece l'epica campagna dei jeans Jesus, quella del Chi mi ama mi segua scritta sugli shorts, Pasolini scrisse sul Corriere della sera che Toscani aveva cambiato le regole dello slogan. Di giornali e riviste ne ha fatti a bizzeffe. Con Colors dice di aver rivoluzionato l'editoria. 

So che le è stato proposto di dirigere il Corriere. È vero?

«Sì. E arriverei a un milione di copie in sei mesi». 

Mi dica il piano editoriale.

«Prima di tutto faccio una redazione molto eccentrica. Niente vecchi, nemmeno un barboso editorialista di questi rincoglioniti con cui riempite i giornali. A scrivere ci metto ventenni da tutto il mondo: analisi, opinioni forti, contrasti, polemiche, risse, approfondimenti. Le notizie si leggono sul telefono. E poi abolisco le distinzioni di settore: politica, esteri, sport, spettacoli. Va tutto insieme: storie e letture personali. Il giornale dev' essere super soggettivo, una sorpresa quotidiana, una rappresentazione teatrale scritta e illustrata». 

Bello, lo compro. Ai trentenni nemmeno un posticino?

«Mi sembrano in maggioranza imbecilli. Pochissime eccezioni. Preferisco i ventenni». 

Che dice dei ragazzi in piazza in questi giorni?

«Non mi piace che si rifiutino di fare la prova scritta: magari scrivono che i professori sono cretini, ma devono farla». 

E delle proteste per gli studenti morti sul lavoro?

«Che è qualcosa di troppo drammatico per farne una ragione per scendere in piazza. E non può passare l'idea che chi offre lavoro ammazza la gente: lo dico pur convinto che la scuola non debba insegnare a lavorare, o a fare marketing, bensì a ragionare, a sorprendere, anche a contestare. Io volevo la cattedra di sovversione alla Sapienza, ma non me l'hanno data». 

Ma la sovversione non si può insegnare, è un controsenso.

«Certo che si può, anzi: si deve. Sovvertire significa mettere a posto le cose che non vanno». 

Bella la sua bio, le invidio l'avventura.

«Lei dove è nata?». 

Matera.

«In un sasso?». 

No, ahimè.

«Allora non è figlia di un asino. Mi spiace per Matera, l'ho vista che ero un ragazzino, con le bestie nelle case, ricordo il rumore, lo strazio. Ora è un posto per ricchi vecchi bavosi, ci sono stato di recente per fare un libro ma ho mollato, non mi piaceva». 

Perché in Italia roviniamo sempre tutto?

«Perché non abbiamo fantasia. Diciamo di essere creativi ma è una balla. Abbiamo inventato solo il fascismo, e infatti ne siamo gelosi, non riusciamo ancora a rinnegarlo». 

Dov' è finito il suo patriottismo?

«Parlo così proprio perché sono un patriota. Per amore». 

Cosa ama di questo Paese?

«Le minoranze. Pannella prendeva il 2 per cento, ma aveva ragione. In buona parte, gli italiani sono vigliacchi, pigri. Ma ci sono individualità eccezionali che finiscono o soffocate o assorbite: qui hai speranza di fare qualcosa se ti iscrivi al partito, se stai col regime». 

Lei si è fatto la tessera del PD nel 2018.

«L'ho fatto quando avevano perso tutto, miseramente». 

E si è pentito?

«No. Se ci fosse stato il PCI, mi sarei iscritto al PCI». 

Ma lei non è mai andato d'accordo con i comunisti.

«È vero. Erano troppo tristi grigi ottusi e borghesi per me».

E allora?

«Sono un radicale, l'ultimo rimasto in Italia. La tessera del Pd la feci per dimostrare che bisogna avere il coraggio di appartenere a qualcosa anche nel momento in cui fallisce». 

La destra riesce sempre a far sembrare i conservatori dei veri liberali e i liberali dei veri bacchettoni.

«Gioca facile: il nostro è un paese di destra. Il resto è un inganno. Una volta mi sono permesso di dire che i veneti sono alcolizzati atavici e si sono scandalizzati come suore, persino Zaia si è risentito, m' è toccato scrivergli una lettera di scuse».

L'ho letta. Bellissima. «Chiedo scusa a Lei, che è il Presidente dei veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po' leghista che ho usato per fotografare i simpatici amici del Veneto».

«E pensi che poi Zaia mi chiamò per dirmi che era stato eletto grazie a me«. 

Un collaborazionista.

«Io? Per carità. Io sono contrario persino alle mamme italiane. Tirano su maschi fifoni, vigliacchi, superbi». 

I padri tutti innocenti??

«Sempre le italiane li allevano.

Ha scritto che le donne migliori hanno i difetti peggiori degli uomini.

«Intendevo le donne riconosciute come migliori: guerresche signore nevrili, uguali ai maschi. E dire che a me le donne piacevano perché non facevano la guerra. Spero ancora che s'inventino un altro mondo, invece di battersi per prendersi questo e dire: sappiamo fare come voi». 

A parte le mamme, c'è un'altra causa di tutti i mali?

«I padroni. Questo paese ne ha avuti di pessimi. Pensi ai nostri reali e imprenditori: Olivetti è morto nel 1960 e ancora lo rimpiangiamo perché non c'è stato nessuno migliore di lui. Nessuno in sessant' anni».

Dicono tutti che lei è un provocatore. Non le sta stretto?

«Ieri era qui una giornalista polacca, non faceva che dirmelo e alla fine ci ho litigato, le ho detto che mi sembrava che fosse venuta a dimostrare che Toscani è un delinquente. La provocazione è la conseguenza di un comportamento, non un modo d'essere. È un'azione». 

Di questo presente cosa c'è di interessante?

«Tutto. Come sempre». 

Mi piaceva la sua idea di fare una campagna vaccinale con lo slogan "Droghiamoci tutti!". Molto anni Ottanta.

«Gli anni Ottanta sono stati uno schifo, del resto i Beatles si sono sciolti nel 1969». 

E lì è finito il mondo?

«Un po' sì. Finiti loro, ritornarono tutti i parrucconi e i loro figli. Negli anni Ottanta sono nati quelli della sua generazione. Come sono le sue amiche?». 

Strepitose.

«Portano i tacchi?». 

Sì.

«Vede? Basso cervello, alti tacchi. Le ballerine dovreste mettere. Io non sopporto le donne con i tacchi e meno ancora quelle con i tatuaggi: mi rifiuto, in generale, di parlare con chi si tatua». 

Quante donne ha avuto?

«Non conta quante, conta che ho avuto le migliori».

Ha fatto pazzie per amore?

«Una: dedicargli la mia vita». 

Perché le piace il Papa?

«Perché è un buon conservatore e dice le stesse cose che diceva mio nonno, un anarchico socialista antifascista». 

Cosa sarebbe successo se avesse detto sì a Berlusconi, quella volta che chiamò lei e Umberto Eco per affidarvi la direzione editoriale e creativa delle sue tv?

«Forse avrei fatto qualche buon programma: Mediaset non ne ha fatto nemmeno uno. Berlusconi è stato la rovina di questo paese. E non mi è mai stato antipatico. Era anche amico del mio fratello maggiore, Elio Fiorucci. Ma ha sempre avuto un insormontabile problema: l'eccesso di gusto. Lui è sempre troppo: troppi denti, troppi capelli, troppi figli, troppe donne». 

Lei ha conosciuto Weinstein, ha detto che era gentile.

«E aveva un carisma che trascendeva la sua bruttezza. Non voglio difenderlo, ma dico che non si può condannare senza capire. A tre anni gli fu chiaro di essere un mostro: deve avergli fatto scattare qualcosa di terribile». 

Com' è andata quando ha fotografato 58 organi sessuali?

«Erano di più. 58 ne pubblicammo. Ero a Parigi, feci un fondo con un buco. Un mio assistente faceva i casting, loro si spogliavano, si fermavano davanti a quel buco, io scattavo e via. Sarà passato anche Macron».

Ha detto di aver completato la sua istruzione al cinema. Mi fa una lista di film che valgono quanto un liceo?

«Tati, Bunuel e Limonata Joe. Guardi questi, poi torni». 

Cos'è il pop?

«Molte cose: quello che si mangia al cinema, una parte del papa, uno scoppio, un'espressione estetica, e anche un suono».

Giovanni Audiffredi per "DLui - la Repubblica" il 22 febbraio 2022.

«Non tagliate la carta, che detesto gli sprechi. Poi mi basta una luce sola. Così proviamo che l’ombra sia bella incisa». Oliviero Toscani, il 28 febbraio compirà 80 anni, è seduto su una vecchia poltrona da ufficio con le rotelle e spicca ordini perentori. 

Sta allestendo il set del prossimo servizio fotografico. Due assistenti eseguono freneticamente. Provano a dire qualcosa, ma lui li sovrasta. 

Srotolano un rullo di carta bianca appeso al soffitto per fare il fondo: «Prendete due pali e schiacciatelo bene alla parete. Ho detto bene. Ora delle lastre di plexiglass per fare il pavimento. Spingetele di più: devono essere a filo. Ecco, ci siamo, è pronto. Non serve tanta roba. Possiamo andare a mangiare». Indossa il cappello da Indiana Jones bordato di piume, il cappotto di casentino arancione fluo e sentenzia: «Attraversiamo la strada, qui davanti, ai Binari, si mangia l’ossobuco».

Usciamo dal portone di Via Tortona, 16, un indirizzo emblematico per la fotografia di moda a Milano. Tutti quelli del mestiere sanno che corrispondeva allo studio di Giovanni Gastel, morto il 13 marzo 2021. Fino alla stessa data di quest’anno, la mostra People I Like, alla Triennale, ne ricorda il lavoro di ritrattista. 

Toscani, perché ha scelto di venire a lavorare proprio qui?

«Giovanni… che tipo che era. Mi manca. Nel 1982 nella redazione di Donna, stavo litigando con il mio amico art director Flavio Lucchini che voleva farmi fare un servizio: The Great Gatsby. Una cazzata pazzesca. 

Con tutto quello che accadeva nel mondo, noi a fare quella roba lì. Io gli dico: “Fatti il tuo giornaletto, me ne vado”. E lui mi risponde: “Bene, non sentirò la tua mancanza, il primo cretino che si presenta qui farà quello che fai tu”. Apro la porta e mi si para davanti Giovanni Gastel, con il book in mano. Intendiamoci, non era affatto cretino, gli ho detto: “Ciao, tocca a te”. E la mia segretaria, Carla Ghiglieri, diventò la sua agente. Giovanni era un lord lombardo».

Lei invece, milanese dell’Isola, nato sotto i bombardamenti degli inglesi.

«Mia mamma andò in tram a partorirmi alla Mangiagalli. Poi siamo stati sfollati in campagna, a Clusone, in casa di contadini. Sono tornato a Milano a tre anni, ma ero infelice, deperivo senza giocare con cavalli, oche e vacche. Allora mi riportarono lì e vivevo a piedi nudi». 

È vero che suo padre fotografò Benito Mussolini impiccato in Piazzale Loreto?

«Certo. Era un dissidente tollerato dal regime perché faceva il reporter per il Corriere della Sera e filmava per l’Istituto Luce. Conosceva bene Mussolini. Aveva capito il carattere tragicomico del regime. Scattava e poi le foto venivano divise: quelle passate al vaglio della censura del Minculpop, andavano alla propaganda interna; mentre quelle scartate le vendeva a un’agenzia di Londra. Il regime faceva finta di non sapere».

Cosa ha imparato da lui?

«Ho il suo modo di affrontare le cose, con una macchina in mano. È un attrezzo che serve a porsi delle domande. Mai lavorato insieme. Sì, andavo nel suo studio, avevo l’occasione di frequentare dei luoghi: a Monza per la Formula 1, alle partite dell’Inter. A mio padre andava bene che facessi quel lavoro, però non da autodidatta. Dovevo studiare». 

Così la spedì a Zurigo alla scuola di Arti e Mestieri?

«Quello è tutto merito di mia sorella Marirosa e di suo marito Aldo Ballo, grandi fotografi che volevano che mi educassi. Lì si respirava il clima della Bauhaus». 

Sì, ma lei parlava tedesco?

«No. Ma, io sono così. La mia fortuna è che se c’è un problema, reagisco con slancio. Non sono timido davanti al rischio. Adesso parlo tedesco». 

Tornò pieno di tecnica?

«Non sto qui a fare il modesto: ho una preparazione che non ha nessuno. Io non ci devo pensare alla tecnica. Quando siamo passati dalla pellicola al digitale per me è stato naturale. Le regole non esistono. Il talento è un concetto astratto, va esercitato e gestito. La macchina fotografica è solo un mezzo, non il fine». 

È vero che lei scattava anche quattro lavori al giorno?

«Ci si esprime con il lavoro, non con le vacanze. Per me la vacanza significa vacuum: vuoto». 

Descriva una foto alla Oliviero Toscani.

«Diana Vreeland, storica firma di Harper’s Bazaar e Vogue America, mi disse: “Le tue immagini brillano, hanno il sole dentro”».

A proposito di Vogue, è vero che ha litigato con Anna Wintour?

«Litigato… Sono andato via e l’ho lasciata lì. All’inizio era divertente, ma più è entrata nella linea del potere, più si è incupita. Le ho detto che non mi piaceva lavorare con lei e con il suo metodo di controllo a ogni scatto». 

Franca Sozzani, storica direttrice di Vogue Italia, ha scritto: «Oliviero mi chiamava puntaspilli deficiente».

«Un giorno arriva su un set come assistente di Gisella Borioli. Franca era fasciata di Yves Saint Laurent. La guardo e le dico: “Ma dove credi di stare? Oh, ma guarda che tu sei venuta a puntare gli spilli, deficiente”. Lei era divertente e caustica insieme. Si è messa a ridere. E quella parola se l’è tenuta cara». 

Come ha iniziato a fare foto di moda?

«Negli anni Sessanta ero un reporter, figlio di reporter, che scattava per l’Europeo. Ma mi ero reso conto che quel mondo si stava esaurendo. Alla Rizzoli mi chiesero di fotografare degli impermeabili da donna e capii che ci poteva essere una nuova dimensione della fotografia, interpretata con codici diversi, con creatività personale. Il vero reportage era la moda. Mica la Settimana Santa in Sicilia di Ferdinando Scianna». 

Forse una cosa non escludeva l’altra?

«No. Perché l’evoluzione della fotografia era stare dove la vita prendeva nuove forme: a Londra a immortalare le minigonne, che hanno rivoluzionato il mondo. Altro che preghiere». 

Già, lei e la religione…

«Vengo da una famiglia laica: una religione seria».

Insomma, la moda l’aveva affascinata?

«Mettere insieme dei vestiti è documentazione commerciale. La moda è quello che accade nella cultura di un tempo, è un atteggiamento socio-politico. E in quegli anni aveva una funzione eversiva. Mi interessava. Poi è piombata nel conformismo estetico». 

Per questo si è messo davanti allo studio di Andy Warhol a fotografare quelli che suonavano al campanello?

«Certo, perché così rivelavi la moda. Quelle persone erano interpreti di un racconto. Poi la moda è diventata un burqa per colpa dei brand. Se non possiedi una certa cosa di una certa firma sei escluso, altro che incluso. Una forma sottile di costrizione sociale».

Tra tanti uomini, il suo preferito?

«Muhammad Alì. Incredibile, lui era completo: bello, carismatico e rivoluzionario, con un impegno sociale che ha trasformato uno sportivo in un leader mondiale. Pensate al baccano che ha fatto Cristiano Ronaldo quando ha detto che non beve Coca-Cola. Ecco, se si occupasse seriamente anche d’altro, che impatto potrebbe avere».

È vero che il suo lavoro ha influenzato la carriera di Giorgio Armani?

«All’inizio conoscevo sua sorella Rosanna che faceva la modella per un giornale che si chiamava Arianna. Era intelligentissima. Poi Giorgio, che era stato promosso in Rinascente all’ufficio acquisti, mi fece fotografare delle orribili tazze messicane che aveva comprato. Di ritorno da un reportage nella base dei marines di Quantico, in redazione a L’Uomo Vogue, incontro Armani che parlava con Lucchini di lanciare la sua casa di moda.

Se ci fate caso, il logo Giorgio Armani è nello stesso carattere Bodoni che usavamo al giornale. Giorgio guarda le diapositive e ne porta via alcune. La sua prima collezione, fatalità, è tutta d’ispirazione militare». 

Uomini a cui ha detto: sì?

«Quasi sempre a Luciano Benetton. Altro pianeta maschile. Lo correggo solo quando dice: “Questa è una foto alla Benetton”. No, una foto alla Toscani». 

Uomini a cui ha detto: no?

«Il mio grande amico Elio Fiorucci, genio assoluto, filosofo della moda, insiste per presentarmi Silvio Berlusconi. Fine anni Settanta, eravamo in una casa della Milano bene in Via Bigli. Berlusconi chiede a me e a Umberto Eco di lavorare per lui. Gli rispondiamo entrambi di no. Questione d’istinto per la libertà».

È vero che con il suo amico fotografo David Bailey facevate a gara per sedurre modelle?

«Mettevamo le crocette sulle loro foto appese. A volte anche sulle stesse. Ma, non sono mai stato un arrapato. Quando ho conosciuto mia moglie Kirsti sono tornato al mio imprinting di rigore famigliare». 

Ha sei figli: che padre è stato?

«Ho cercato di essere un padre onesto. Meglio un ladro onesto, che ammette la colpa, che un banchiere ladro. I miei figli a volte mi hanno criticato, ma ora vado d’accordo con tutti, mi portano i nipoti e ne sono felice». 

Sa che mettere insieme delle sue foto d’archivio è un’impresa? Perché non ha tenuto traccia di tutto il suo immenso lavoro?

«Per me l’archivio significa guardare indietro con rabbia del passato. Non mi interessa».

Però alle foto che ha fatto ai sopravvissuti all’eccidio di Sant’Anna di Stazzema ci tiene.

«Quelle sono un documento storico. Ho dimostrato che fotografare è un insieme di professionalità. Sei autore, sceneggiatore, direttore delle luci che illumina gli occhi e poi fai il regista: raccontami la storia. Intanto, guardi e scatti. Ecco, cos’è il vero fotografo. Altrimenti è solo un operatore alla macchina». 

Instagram lo usa?

«L’ho studiato, l’ho capito, posso dire che non mi interessa. Io sono il mio pubblico, non voglio accontentare nessuno. Io sono il cliente più difficile. Non sono alla ricerca del consenso dei followers». 

Toscani, ha 80 anni.

«Non avrei mai immaginato di arrivarci così lucido. Beh, mi sembra di aver vissuto».

Oliviero Toscani compie 80 anni: «Ho usato i maglioni per parlare di migranti. Non sono un fotografo». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2022.

Ha rivoluzionato moda e pubblicità. «Volevo essere testimone del mio tempo, ho usato i maglioni per parlare di migranti. Il segreto per restare giovani? Non entrare mai in banca. Ho avuto chi lo ha fatto per me». 

Gli ricordi che il 28 febbraio sono 80 anni e Oliviero Toscani chiede: «Davvero?». In effetti, a vederlo, sembra ancora capace di stare in piedi su un cavallo, vestito da cowboy, come nella foto che campeggia sulla copertina di Ne ho fatte di tutti i colori -– Vita e fortuna di un situazionista, l’autobiografia che esce il 24 per La nave di Teseo. Lui si schermisce: «Lei non sa di questo corpo che odio, della discrepanza fra cervello e corpo! Mi porto dietro questo rottame, questa baracca. Sa com’è avere una vecchia auto? Non puoi accelerare quando vuoi, non puoi frenare…».

A giudicare dalle tante cose che fa, sembra stare benissimo.

«Sono appena tornato a fare il reporter per il direttore di Oggi Carlo Verdelli: mi diverto come un matto. Faccio quello che faceva mio padre per il Corriere della sera . C’è da fotografare Dino Zoff che fa 80 anni il mio stesso giorno? Vado a Roma e lo faccio in mezz’ora, che mi guarda con la faccia fra le mani. Che faccia».

Una volta, ha detto d’aver fotografato così tante persone da saper leggere in ognuno i suoi angeli e demoni.

«Ho fotografato 80mila facce solo per il progetto Razza Umana. Il carisma lo sento come un odore. Posso dire che non esiste una persona brutta. I diseredati che nessuno guarda sono i più interessanti. Ho cercato di annullare la parte estetica della foto: fermo le persone per strada e sono loro che mi guardano come se fotografassero me».

A 80 anni, ferma ancora le persone per strada?

«A giugno, sono andato i Germania a fare i tedeschi del XXI secolo. Uno se li immagina biondi e occhi azzurri, invece sono turchi, italiani, afgani. Uscirà un libro, ci sarà un’esposizione a Berlino ad aprile: ho fatto 800 ritratti».

Da solo, in un mese?

«In dieci giorni. Quando sei ragazzo, fai tutto. E tutti fotografati da me personalmente, non dagli assistenti».

In vacanza è mai andato?

«Io non ho mai lavorato. Ho sempre vissuto. Con che cosa ti esprimi? Pigliando il sole? Immagini tre sdraio, una con Leonardo da Vinci, una con Albert Einstein e una con me. Finché prendiamo il sole, siamo tutti uguali, è quando ti alzi che fai la differenza. Ora, sono tornato da un mese a Santo Domingo, mia figlia vive lì. Era la prima volta che non lavoravo nel senso che intende lei, ma ero oberatissimo: mi hanno obbligato ad andare in palestra, un posto che detesto, da cretini, ma mi ha fatto bene; in piscina, mia figlia mi obbligava a fare avanti e indietro. Ho giocato coi due nipoti di cinque e tre anni, un divertimento unico».

Ora è nella tenuta di Casale Marittimo, in Maremma.

«Guardi che verde… E si vedono la Corsica, l’Elba. Ho costruito qui il Toscani Circus, una specie di centro culturale. È appena stata qui Marina Abramovic, l’artista. L’ho conosciuta ad Amsterdam, avevo 18 anni nel 1960, ho fatto tutti i ‘60 da ventenne, andavo dove pensavo ci fossero persone interessanti, sovversive, mica a Courmayeur e Portofino. Faremo un progetto insieme io e Marina, una Cleaning house per ripulire le persone in senso psicologico, di creatività. La gente ha bisogno di questo, non di personal trainer e posti dove bevi l’acqua».

In un ideale album dei ricordi, come sarebbe la foto di Toscani bambino?

«Anche lei mi crede fotografo? A me interessava essere testimonial del mio tempo, potevo fare musica, cinema... Ho fatto foto perché mio padre faceva foto. L’altro equivoco è che faccio foto di pubblicità, io non ho mai lavorato con le agenzie, mai con un direttore artistico. Ho usato lo spazio destinato a promuovere i maglioni per metterci migranti e condannati a morte».

Le sue foto hanno dato scandalo. Quali di più?

«Intanto io le ho fatte per quelli che le capivano, non per quelli che si scandalizzavano. Dipende: in Italia, il prete e la suora che si baciano; in America, i preservativi colorati; in Francia, il marchio Hiv tatuato sulla pelle».

E le foto di moda?

«Ho fatto io la battaglia per avere la prima ragazza nera sulla copertina di Elle France. Nel 1971, convinsi L’Uomo Vogue a fare un monografico sui neri di New York. Avevo uno studio lì. Sono stato l’unico fotografo italiano ad andare oltre Chiasso. Ho sempre fotografato l’espressione culturale della moda, ora, c’è solo espressione commerciale».

Ha lanciato anche in Europa persone diventate icone.

«La cosa più grave di arrivare in ritardo è arrivare in anticipo. Ad Andy Warhol, diedero giusto tre foto in una pagina sola. Fotografai Patti Smith appena arrivata a New York, vidi subito che aveva carisma, ma l’editor di Vogue Italia non la volle. Pure a Lou Reed diedero solo una pagina».

Fu anche il primo a portare Monica Bellucci a Parigi.

«La vidi a Milano. Mi piace usare le ragazze nuove: sono ancora esseri umani, poi diventano modelle e diventano involucri vuoti. Siamo andati, abbiamo fatto le foto e Monica è rimasta là».

Lei ha sei figli da tre mamme, 16 nipoti, una moglie, Kirsty Moseng, con cui sta da 50 anni. Che patriarca è?

«Sarei stato un single perfetto. Invece, sta parlando con la persona più fortunata e privilegiata che io conosca».

Fortunato per le donne che ha incontrato?

«Se non potessi dirlo, dovrei spararmi».

Alla fine, qual è il segreto per restare giovani?

«Non entrare mai in banca. Io ho sempre avuto qualcuno che lo faceva per me. Non ho mai parlato di bollette, scartoffie, di problemi imbecilli». 

·        Oriana Fallaci.

Oriana Fallaci, lo "scrittore" che raccontò la storia e il "sesso inutile". Davide Bartoccini il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

Prima reporter di guerra italiana, tra le più importanti testimoni della storia di fine secolo, Oriana Fallaci ha intervistato le personalità più importanti della sua epoca. È stata una grande scrittrice e una grande giornalista, ma prima di tutto è stata una donna straordinaria.

Lo chiamava il “sesso inutile” il suo. Il femminile, il gentilsesso. Ma come è vero che nell’autocritica - da sempre - si cela il principio della grandezza egoica, è vero anche che lei, Oriana Fallaci, s’era proprio imposta fin da bambina di diventare “scrittore”, non scrittrice. Mandando al diavolo già in principio la retorica del futuro, quella delle neo-lingue inclusive, dello schwa e di chi tenta di usarlo a suo discapito. A una maledetta toscana come la Fallaci - "la", sì, con l'articolo determinativo femminile - queste cose non sarebbero mai importate. Del resto chi ha fatto la guerra come staffetta partigiana appena dodicenne, chi ha raccontato la guerra come nessun altro e nessun'altra avevano fatto, portandola a diventare la più famosa giornalista e reporter di guerra del mondo, certe “battaglie” non le combatterebbe mai. Ne mai le avrebbe combattute. Le avrebbe lasciate a chi non aveva di meglio da fare. "Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico", sosteneva.

Perché Oriana Fallaci è stata una giornalista - una grande giornalista -, prima di consacrarsi come scrittore. “Solo un modo per guadagnare dei soldi”, diceva, e lo sa bene chi nutre le stesse ambizioni. "Io più che il giornalista ho sempre pensato di fare lo scrittore", scriveva di sé, “Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore, e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi, da un discorso che sentivo fare a casa: 'Eh! Scrittore, scrittore! Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e arrivare a vendere un libro?'".

L’ha scoperto da sola. Con la tenacia di chi inizia a scrivere quando è ancora a scuola. E continua. Continua anche quando s'iscrive alla facoltà di Medicina dell’Università di Firenze. I suoi libri verranno tradotti in più di trenta paesi. I suoi articoli invece, quando era appena ventenne, compariranno sul Mattino, su Epoca, sull’Europeo. Iniziò a scrivere di “costume”, come credevano le si addicesse - celebre rimase il suo articolo di Christian Dior a Firenze -. Finì per intervistare la moglie dello scià di Persia, Soraya Pahlavi, e a scrivere il suo primo libro “I sette peccati di Hollywood” (1958). La prefazione la firmò niente meno che Orson Welles. Era diventata "scrittore". Poteva ben dirlo.

Arrivarono così “Il sesso inutile” (1961), un resoconto sulle donne che aveva incontrato in Medio Oriente nel quale esprimeva la ferma posizione critica e autocritica nei riguardi delle molte donne che perseguono uno sbagliato modo di “vivere” tanto nelle latitudini dove valgono quanto un cammello, quanto nelle longitudini dove il matriarcato tossico produce i suoi effetti egualmente nocivi. Esattamente come il patriarcato. Come accadeva già allora dall’altra parte dell’oceano, in America. “Penelope alla guerra” (1962) sarà il suo primo romanzo. "Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere?", le ripetevano. 

La risposta l'ebbe dopo i primi quattro traguardi e successi editoriali. Quando acquistò una grande casa in Toscana per lei e suoi genitori - gli stessi che le avevano posto fin da bambina quella domanda difficile e premurosa per metterla in guardia - e una a New York, dove si trasferì nel 1963. “Per non assuefarsi, non rassegnarsi, non arrendersi, ci vuole passione. Per vivere ci vuole passione”, pensava Oriana Fallaci. Che dai grandi classici della letteratura che i genitori acquistavano a rate - e che lei leggeva da bambina sviluppando nel suo profondo la cosiddetta "passionaccia" - si ritrovava in quel trentottesimo piano dei grattaceli di Manhattan. In uno chic che di "radicale" aveva qualcosa di vero: i viaggi in Vietnam come reporter i guerra, dal 1967 al 1975.

Lì sarà spettatrice appassionata e devastata della peggiore guerra che gli americani abbiano mai combattuto, della vita quotidiana di una Saigon dantesca, dei bombardamenti, degli interrogatori, delle imboscate dei Viet Cong che sembravano fantasmi nella giungla. Scriverà queste verità strazianti nel libro reportage che ne verrà, "Niente e così sia" (1969). E da quel momento per lei la guerra sarà "...solo una sporca tragedia sulla quale non puoi che piangere. Piangi quello cui negasti una sigaretta e non è tornato con la pattuglia; piangi su quello che hai rimproverato e ti s'è disintegrato davanti; piangi su lui che ha ammazzato i tuoi amici".

La bambina e l'eco degli eroi

A Oriana Fallaci gli eroi sono sempre piaciuti. Furono i partigiani a forgiarne il carattere ribelle e sprezzante di un pericolo che ha sempre riconosciuto e rispettato: "La mia fanciullezza è piena di eroi perché ho avuto il privilegio di esser bambina in un periodo glorioso. Ho frequentato gli eroi come gli altri ragazzi collezionano i francobolli, ho giocato con loro come le altre bambine giocano con le bambole. Gli eroi, o coloro che mi sembravano tali, riempirono fino all’orlo undici mesi della mia vita: quelli che vanno dall’8 settembre 1943 all’11 agosto 1944, l’occupazione tedesca di Firenze. Credo di aver maturato a quel tempo la mia venerazione per il coraggio, la mia religione per il sacrificio, la mia paura per la paura". Così una donna non diviene né un cammello né una matriarca: diviene essere umano. Puro e semplice.

Per parte sua poi, i colpi di una pistola li aveva sentiti sulla sua pelle quando rimase gravemente ferita a Città del Messico durante la repressione di una manifestazione studentesca. La credettero morta e la portarono all'obitorio. Ma morta non lo era, forse per qualche istante nel regno dei morti ci si era trovata e sentita. Ne è risorta per poter raccontare meglio cosa si prova. Non per sentito dire, come piace fare ai nostri tempi.

Negli anni Settanta la Fallaci si afferma ancora come grande giornalista politica, racconta il conflitto arabo-palestinese, la guerriglia condotta contro le dittature in Sudamerica, l'assassinio di Robert Kennedy. E mette in fila una serie straordinaria di interviste "che non lasciano respiro" al lettore come all'intervistato, incontrando le personalità più importanti della sua epoca: Ayatollah Khomeini, Henry Kissinger, Golda Meir, Pasolini, Gheddafi, Andreotti, Berlinguer e Fellini, solo per citarne alcuni. Tutte insieme verranno inserite nel libro "Intervista con la storia" (1974). Tra queste compariva anche quella fatta a Alekos Panagulis, l'intellettuale rivoluzionario greco imprigionato e torturato dai colonnelli di cui si era innamorata e che sarà il suo "compagno" di vita. Anche se morirà presto - ucciso su mandato secondo lei - in un tragico incidente stradale. Nel 1979 pubblicherà un libro dedicato interamente a lui, e a quelli come lui, dal titolo "Un uomo".

Dopo una lunga pausa, la penna irosa e vera della giornalista che trovava sempre meno appeasement tra le fila dei suoi detrattori, torna ad occuparsi di guerra. Scrive della guerra civile scoppiata in Libano, del fondamentalismo islamico e delle sue derive, e ancora una volta di soldati mandati lontani da casa. Questa volta sono i nostri, il contingente inviato in Libano quando le missioni iniziavano a prendere l’appellativo di peacekeeping, e le guerre, vere o per procura, assumevano un altro aspetto: più oscuro, più celato, ma sempre totale e tentacolare. Il libro si intitolerà “Insciallah”(1990). Poi l’Iraq, e quelle nubi nere dei pozzi di petrolio bruciati in Kuwait la cui combustione produce tanta cenere tossica nera e vischiosa, da oscurare il cielo a mezzogiorno. Da far calare la notte. Ne respira tanta da spaventarsi, più che in Vietnam sotto le bombe.

Nel 1992 Oriana Fallaci scopre di avere il cancro, o "l’Alieno" come cominciò a chiamarlo lei. Lo temeva e allo stesso tempo lo fiaccava con la sua arguzia, mentre era impegnata a lavorare a quello che sarebbe stato il suo ultimo libro. Un lungo viaggio che voleva tracciare le origini e la storia della sua famiglia, dalla quale aveva ricevuto in dono quello spirito temprato e ardimentoso. Non fece in tempo. Verrà pubblicato postumo col titolo “Un cappello pieno di ciliege”. Lo anticiperà invece, inaspettatamente, un’irosa trilogia rivolta a motivare e infiammare l’Occidente contro il terrorismo islamico che nel 2001, colpendo le Torri Gemelle a New York, dove ella si trovava, aveva di fatto cambiato il mondo. Le sinistre benpensanti del mondo la osteggiarono come avevano già fatto in passato. Come quelle femministe che l’avevano tanto vituperata e che lei incalzava sempre con affondi ancora validi - nel contenuto e nelle forma -. "Ricordate gli anni in cui anziché ringraziarmi d’avervi spianato la strada cioè d’aver dimostrato che una donna può fare qualsiasi lavoro come un uomo o meglio d’un uomo, mi coprivate di insulti?", scriveva, "Com'è che non organizzate mai una abbaiatina dinanzi all'ambasciata dell'Afghanistan o dell'Arabia Saudita o di qualche altro paese musulmano?". Mistero delle fede, quale che sia la vostra confessione. Morirà solo 5 anni dopo. Il 15 settembre del 2006.

La morte di uno scrittore

Oriana Fallaci ha lasciato questo mondo per colpa di quel male incurabile cui non diamo la soddisfazione d’essere nominato, almeno noi altri. Perché lei lo diceva eccome di averlo. Era tornata per l'ultima volta nella sua Firenze. Città che divenne di Dante, dei Medici, di Macchiavelli. E di Oriana Fallaci. "Mi ritengo comunque una fiorentina pura. Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando mi chiedono a quale Paese appartengo, rispondo: Firenze. Non: Italia. Perché non è la stessa cosa", aveva scritto sull’Europeo presentandosi ai lettori quando aveva vent’anni. Non s’accontentava d’essere una maledetta toscana, come voleva Curzio Malaparte, uno dei suoi maestri: era fiorentina proprio. Prossima a congedarsi dal mondo, all’amico Silvio Berlusconi disse: "Voglio morire nella torre dei Mannelli guardando l'Arno dal Ponte Vecchio. Era il quartier generale dei partigiani che comandava mio padre, il gruppo di Giustizia e Libertà. Azionisti, liberali e socialisti. Ci andavo da bambina, con il nome di battaglia di Emilia. Portavo le bombe a mano ai grandi. Le nascondevo nei cesti di insalata". Non fu possibile.

Di questa donna straordinaria resta assieme a un patrimonio per la storia e la letteratura, un nitido pensiero: "Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito". Oriana Fallaci è sepolta nel cimitero degli Allori, accanto ai suoi genitori: Edoardo, partigiano, e Tosca, una donna che, secondo la figlia, in fatto di coraggio non aveva nulla da invidiare al marito. Sulla sua lapide compare scritto semplicemente “Oriana Fallaci – Scrittore”.

"A diciassette anni fui assunta come cronista in un quotidiano di Firenze. E a diciannove o giù di lì fui licenziata in tronco (…).

Mi avevano ingiunto di scrivere un pezzo bugiardo su un comizio d'un famoso leader nei riguardi del quale, bada bene, nutrivo profonda antipatia anzi avversione(..).

Pezzo che, bada bene, non dovevo firmare. Scandalizzata dissi che le bugie io non le scrivevo, e il direttore (…) rispose che i giornalisti erano pennivendoli tenuti a scrivere le cose per cui venivan pagati. "Non si sputa nel piatto in cui si mangia". Replicai che in quel piatto poteva mangiarci lui, che prima di diventare una pennivendola sarei morta di fame, e subito mi licenziò.

(…). No, nessuno è mai riuscito a farmi scrivere una riga per soldi. Tutto ciò che ho scritto nella mia vita non ha mai avuto a che fare con i soldi". Oriana Fallaci 

Oriana Fallaci, lo "scrittore" che raccontò la storia e il "sesso inutile". Davide Bartoccini il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

Prima reporter di guerra italiana, tra le più importanti testimoni della storia di fine secolo, Oriana Fallaci ha intervistato le personalità più importanti della sua epoca. È stata una grande scrittrice e una grande giornalista, ma prima di tutto è stata una donna straordinaria.

Lo chiamava il “sesso inutile” il suo. Il femminile, il gentilsesso. Ma come è vero che nell’autocritica - da sempre - si cela il principio della grandezza egoica, è vero anche che lei, Oriana Fallaci, s’era proprio imposta fin da bambina di diventare “scrittore”, non scrittrice. Mandando al diavolo già in principio la retorica del futuro, quella delle neo-lingue inclusive, dello schwa e di chi tenta di usarlo a suo discapito. A una maledetta toscana come la Fallaci - "la", sì, con l'articolo determinativo femminile - queste cose non sarebbero mai importate. Del resto chi ha fatto la guerra come staffetta partigiana appena dodicenne, chi ha raccontato la guerra come nessun altro e nessun'altra avevano fatto, portandola a diventare la più famosa giornalista e reporter di guerra del mondo, certe “battaglie” non le combatterebbe mai. Ne mai le avrebbe combattute. Le avrebbe lasciate a chi non aveva di meglio da fare. "Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico", sosteneva.

Perché Oriana Fallaci è stata una giornalista - una grande giornalista -, prima di consacrarsi come scrittore. “Solo un modo per guadagnare dei soldi”, diceva, e lo sa bene chi nutre le stesse ambizioni. "Io più che il giornalista ho sempre pensato di fare lo scrittore", scriveva di sé, “Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno per me un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore, e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi, da un discorso che sentivo fare a casa: 'Eh! Scrittore, scrittore! Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e arrivare a vendere un libro?'".

L’ha scoperto da sola. Con la tenacia di chi inizia a scrivere quando è ancora a scuola. E continua. Continua anche quando s'iscrive alla facoltà di Medicina dell’Università di Firenze. I suoi libri verranno tradotti in più di trenta paesi. I suoi articoli invece, quando era appena ventenne, compariranno sul Mattino, su Epoca, sull’Europeo. Iniziò a scrivere di “costume”, come credevano le si addicesse - celebre rimase il suo articolo di Christian Dior a Firenze -. Finì per intervistare la moglie dello scià di Persia, Soraya Pahlavi, e a scrivere il suo primo libro “I sette peccati di Hollywood” (1958). La prefazione la firmò niente meno che Orson Welles. Era diventata "scrittore". Poteva ben dirlo.

Arrivarono così “Il sesso inutile” (1961), un resoconto sulle donne che aveva incontrato in Medio Oriente nel quale esprimeva la ferma posizione critica e autocritica nei riguardi delle molte donne che perseguono uno sbagliato modo di “vivere” tanto nelle latitudini dove valgono quanto un cammello, quanto nelle longitudini dove il matriarcato tossico produce i suoi effetti egualmente nocivi. Esattamente come il patriarcato. Come accadeva già allora dall’altra parte dell’oceano, in America. “Penelope alla guerra” (1962) sarà il suo primo romanzo. "Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere?", le ripetevano.

La risposta l'ebbe dopo i primi quattro traguardi e successi editoriali. Quando acquistò una grande casa in Toscana per lei e suoi genitori - gli stessi che le avevano posto fin da bambina quella domanda difficile e premurosa per metterla in guardia - e una a New York, dove si trasferì nel 1963. “Per non assuefarsi, non rassegnarsi, non arrendersi, ci vuole passione. Per vivere ci vuole passione”, pensava Oriana Fallaci. Che dai grandi classici della letteratura che i genitori acquistavano a rate - e che lei leggeva da bambina sviluppando nel suo profondo la cosiddetta "passionaccia" - si ritrovava in quel trentottesimo piano dei grattaceli di Manhattan. In uno chic che di "radicale" aveva qualcosa di vero: i viaggi in Vietnam come reporter i guerra, dal 1967 al 1975.

Lì sarà spettatrice appassionata e devastata della peggiore guerra che gli americani abbiano mai combattuto, della vita quotidiana di una Saigon dantesca, dei bombardamenti, degli interrogatori, delle imboscate dei Viet Cong che sembravano fantasmi nella giungla. Scriverà queste verità strazianti nel libro reportage che ne verrà, "Niente e così sia" (1969). E da quel momento per lei la guerra sarà "...solo una sporca tragedia sulla quale non puoi che piangere. Piangi quello cui negasti una sigaretta e non è tornato con la pattuglia; piangi su quello che hai rimproverato e ti s'è disintegrato davanti; piangi su lui che ha ammazzato i tuoi amici".

La bambina e l'eco degli eroi

A Oriana Fallaci gli eroi sono sempre piaciuti. Furono i partigiani a forgiarne il carattere ribelle e sprezzante di un pericolo che ha sempre riconosciuto e rispettato: "La mia fanciullezza è piena di eroi perché ho avuto il privilegio di esser bambina in un periodo glorioso. Ho frequentato gli eroi come gli altri ragazzi collezionano i francobolli, ho giocato con loro come le altre bambine giocano con le bambole. Gli eroi, o coloro che mi sembravano tali, riempirono fino all’orlo undici mesi della mia vita: quelli che vanno dall’8 settembre 1943 all’11 agosto 1944, l’occupazione tedesca di Firenze. Credo di aver maturato a quel tempo la mia venerazione per il coraggio, la mia religione per il sacrificio, la mia paura per la paura". Così una donna non diviene né un cammello né una matriarca: diviene essere umano. Puro e semplice.

Per parte sua poi, i colpi di una pistola li aveva sentiti sulla sua pelle quando rimase gravemente ferita a Città del Messico durante la repressione di una manifestazione studentesca. La credettero morta e la portarono all'obitorio. Ma morta non lo era, forse per qualche istante nel regno dei morti ci si era trovata e sentita. Ne è risorta per poter raccontare meglio cosa si prova. Non per sentito dire, come piace fare ai nostri tempi.

Negli anni Settanta la Fallaci si afferma ancora come grande giornalista politica, racconta il conflitto arabo-palestinese, la guerriglia condotta contro le dittature in Sudamerica, l'assassinio di Robert Kennedy. E mette in fila una serie straordinaria di interviste "che non lasciano respiro" al lettore come all'intervistato, incontrando le personalità più importanti della sua epoca: Ayatollah Khomeini, Henry Kissinger, Golda Meir, Pasolini, Gheddafi, Andreotti, Berlinguer e Fellini, solo per citarne alcuni. Tutte insieme verranno inserite nel libro "Intervista con la storia" (1974). Tra queste compariva anche quella fatta a Alekos Panagulis, l'intellettuale rivoluzionario greco imprigionato e torturato dai colonnelli di cui si era innamorata e che sarà il suo "compagno" di vita. Anche se morirà presto - ucciso su mandato secondo lei - in un tragico incidente stradale. Nel 1979 pubblicherà un libro dedicato interamente a lui, e a quelli come lui, dal titolo "Un uomo".

Dopo una lunga pausa, la penna irosa e vera della giornalista che trovava sempre meno appeasement tra le fila dei suoi detrattori, torna ad occuparsi di guerra. Scrive della guerra civile scoppiata in Libano, del fondamentalismo islamico e delle sue derive, e ancora una volta di soldati mandati lontani da casa. Questa volta sono i nostri, il contingente inviato in Libano quando le missioni iniziavano a prendere l’appellativo di peacekeeping, e le guerre, vere o per procura, assumevano un altro aspetto: più oscuro, più celato, ma sempre totale e tentacolare. Il libro si intitolerà “Insciallah”(1990). Poi l’Iraq, e quelle nubi nere dei pozzi di petrolio bruciati in Kuwait la cui combustione produce tanta cenere tossica nera e vischiosa, da oscurare il cielo a mezzogiorno. Da far calare la notte. Ne respira tanta da spaventarsi, più che in Vietnam sotto le bombe.

Nel 1992 Oriana Fallaci scopre di avere il cancro, o "l’Alieno" come cominciò a chiamarlo lei. Lo temeva e allo stesso tempo lo fiaccava con la sua arguzia, mentre era impegnata a lavorare a quello che sarebbe stato il suo ultimo libro. Un lungo viaggio che voleva tracciare le origini e la storia della sua famiglia, dalla quale aveva ricevuto in dono quello spirito temprato e ardimentoso. Non fece in tempo. Verrà pubblicato postumo col titolo “Un cappello pieno di ciliege”. Lo anticiperà invece, inaspettatamente, un’irosa trilogia rivolta a motivare e infiammare l’Occidente contro il terrorismo islamico che nel 2001, colpendo le Torri Gemelle a New York, dove ella si trovava, aveva di fatto cambiato il mondo. Le sinistre benpensanti del mondo la osteggiarono come avevano già fatto in passato. Come quelle femministe che l’avevano tanto vituperata e che lei incalzava sempre con affondi ancora validi - nel contenuto e nelle forma -. "Ricordate gli anni in cui anziché ringraziarmi d’avervi spianato la strada cioè d’aver dimostrato che una donna può fare qualsiasi lavoro come un uomo o meglio d’un uomo, mi coprivate di insulti?", scriveva, "Com'è che non organizzate mai una abbaiatina dinanzi all'ambasciata dell'Afghanistan o dell'Arabia Saudita o di qualche altro paese musulmano?". Mistero delle fede, quale che sia la vostra confessione. Morirà solo 5 anni dopo. Il 15 settembre del 2006.

La morte di uno scrittore

Oriana Fallaci ha lasciato questo mondo per colpa di quel male incurabile cui non diamo la soddisfazione d’essere nominato, almeno noi altri. Perché lei lo diceva eccome di averlo. Era tornata per l'ultima volta nella sua Firenze. Città che divenne di Dante, dei Medici, di Macchiavelli. E di Oriana Fallaci. "Mi ritengo comunque una fiorentina pura. Fiorentino parlo, fiorentino penso, fiorentino sento. Fiorentina è la mia cultura e la mia educazione. All’estero, quando mi chiedono a quale Paese appartengo, rispondo: Firenze. Non: Italia. Perché non è la stessa cosa", aveva scritto sull’Europeo presentandosi ai lettori quando aveva vent’anni. Non s’accontentava d’essere una maledetta toscana, come voleva Curzio Malaparte, uno dei suoi maestri: era fiorentina proprio. Prossima a congedarsi dal mondo, all’amico Silvio Berlusconi disse: "Voglio morire nella torre dei Mannelli guardando l'Arno dal Ponte Vecchio. Era il quartier generale dei partigiani che comandava mio padre, il gruppo di Giustizia e Libertà. Azionisti, liberali e socialisti. Ci andavo da bambina, con il nome di battaglia di Emilia. Portavo le bombe a mano ai grandi. Le nascondevo nei cesti di insalata". Non fu possibile.

Di questa donna straordinaria resta assieme a un patrimonio per la storia e la letteratura, un nitido pensiero: "Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito". Oriana Fallaci è sepolta nel cimitero degli Allori, accanto ai suoi genitori: Edoardo, partigiano, e Tosca, una donna che, secondo la figlia, in fatto di coraggio non aveva nulla da invidiare al marito. Sulla sua lapide compare scritto semplicemente “Oriana Fallaci – Scrittore”. 

Altro che femministe, la Fallaci che si strappò il velo. Miriam Pastorino su Culturaidentita.it il 17 Maggio 2022.

Articolo tratto dal Mensile cartaceo di maggio 2022

Il Novecento è ricco di personaggi che hanno lasciato un segno importante e che, per un motivo o per l’altro, andrebbero compresi tra i “profeti inascoltati”. La nostra rassegna è incompleta, né poteva essere altrimenti; tuttavia, non può non balzare agli occhi l’evidente carenza di figure femminili in essa contemplate. Una circostanza non voluta ma che riflette la realtà del Novecento: un secolo diviso in due per quanto riguarda il ruolo sociale della donna: fino agli anni Cinquanta presenza piuttosto rara e per lo più occasionale nel panorama culturale e, dagli anni Sessanta in poi, sempre più protagonista fino a diventare dominatrice del pensiero per quanto riguarda la riformulazione delle leggi e dei costumi. Alla caccia di sempre nuovi traguardi, la moltitudine di figure femminili che hanno conquistato e spesso ben meritato la scena, non avevano disposizione alcuna a riflettere su ciò che ci avrebbe riservato il futuro. In un certo senso, a riscattare quella che ha finito per rivelarsi una pericolosa mancanza di immaginazione, è arrivata Oriana Fallaci, l’indomita fiorentina la cui vita straordinaria costituisce uno degli esempi forse più fulgidi dell’intelligenza e della forza femminile dell’intero Novecento. La sua biografia è universalmente conosciuta, ma è solo estraendo dall’inevitabile asprezza di un’attualità da lei vissuta in prima persona sui fronti più caldi del pianeta che ci si rende conto del valore e della potenza della sua ultima, decisissima presa di posizione contro il venir meno dello spirito identitario dell’Occidente, il cui atteggiamento debole fino a rasentare l’autolesionismo apriva le porte alla non più sopita violenza del radicalismo islamico. 

La circostanza che a suonare l’allarme di fronte alla dirompente realtà rappresentata dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle di New York non fosse un accademico uso a studiare i processi storici sui libri ma una coraggiosa giornalista che, nel corso della vita, aveva avuto modo di intervistare i personaggi più in vista del revanscismo islamico, ebbe ben altro significato riuscendo, almeno per un po’, a risvegliare dal torpore i cervelli sclerotici di tanti benpensanti di qua e di là dell’Atlantico. Per sottolineare la tempra di Oriana basterà ricordare il forte gesto di libertà da lei messo in atto durante l’intervista che rivolse all’Ayatollah Khomeini nel settembre del 1979, quanto solo da pochi mesi il personaggio era rientrato in Iran; peraltro l’unica concessa a una donna dal capo della rivoluzione islamica. Dopo avergli rivolto molte domande insidiose e talvolta imbarazzanti, come ultima provocazione Oriana si strappò il velo dal capo, costringendo l’intervistato, che fin lì non l’aveva mai guardata in faccia, ad allontanarsi bruscamente. Un atteggiamento, quello della Fallaci, ben diverso dalle femministe più oltranziste che ormai da decenni popolano la cronaca, tanto feroci contro gli uomini dell’occidente accusati d’esser colpevoli di non saper cogliere fino in fondo l’opportunità di restituire alle donne il ruolo da protagoniste lungamente negato loro, quanto silenti e ignave nei confronti della soggezione della donna nel mondo dell’Islam; e sempre pronte ad indossare disciplinatamente il velo d’ordinanza nel corso di incontri ufficiali con capi di stato islamici. Sono passati 15 anni dalla scomparsa di Oriana; di lei ci manca quello che poteva essere l’evoluzione del suo pensiero in merito alle degenerazioni del femminismo “realizzato”, tuttora incapace di superare una conflittualità sterile e implacabile tra i sessi che porta nel mondo occidentale a gravi conseguenze sociali e demografiche.

Bibliografia essenziale: La rabbia e l’orgoglio, Lettera a un bambino mai nato, Il sesso inutile, Penelope alla guerra, Insciallah, Se nascerai donna, La forza della ragione, Saigon e così sia, Le radici dell’odio, Se il sole muore, Intervista con il Potere.

·        Orson Welles.

Alberto Anile per “la Repubblica” il 4 novembre 2022.

La "prima" di The Blessed and the Damned di Orson Welles ebbe luogo il 19 giugno 1950, dopo prove frenetiche e ben tre rinvii, al teatro Édouard VII di Parigi. 

Alla serata di gala, oltre a Duke Ellington, Deanna Durbin e Elsa Schiaparelli partecipò, accompagnata dal marito Alì Khan, Rita Hayworth. Un arrivo clamoroso: Orson e Rita avevano divorziato solo due anni prima, e rivederli insieme fece annusare un riavvicinamento. «Non c'è nulla di strano », smentì subito Welles, «Alì, Rita ed io siamo buoni amici». D'altronde in quei giorni il suo cuore batteva per l'afroamericana Eartha Kitt, protagonista della seconda parte dello spettacolo, il faustiano Time Runs .

La prima parte dello show, più leggera, era costituita dalla commedia The Unthinking Lobster, è di questa che qui si parla, perché il suo testo, rititolato Miracolo a Hollywood , esce ora per la prima volta in Italia (da Sellerio, con traduzione e nota di Gianfranco Giagni). 

L'unica altra pubblicazione risale a settant' anni fa, in lingua francese per l'editore La Table Ronde, un'edizione limitata a 57 esemplari (uno dei quali nella mia libreria, ma sospetto siano state fatte delle ristampe). La commedia non è dunque sconosciuta ma è comunque pochissimo studiata.

In Italia se n'è parlato giusto in un saggio di Marco Vanelli e Davide Zordan su Cabiria e in un vecchio libro del sottoscritto; e l'inglese Simon Callow gli ha dedicato alcune pagine in uno dei volumi della sua monumentale biografia wellesiana. 

Il lascito di Welles è una cornucopia d'intelligenza e di bellezza: dove tocchi, trovi una gemma, basta mettere la mano nel mucchio.

The Unthinking Lobster , o Miracolo a Hollywood che dir si voglia, è un gustoso attacco alla Mecca del Cinema, un comico j' accuse contro lo sfruttamento della fede religiosa a fini commerciali, e un inno umoristico alla superiorità del falso sul vero.

L'incidente scatenante è ambientato sul set di una pellicola neorealista, Gli amori di Sant' Anna , protagonista una santa in grado di guarire gli infermi. Protestata dal regista per la sua incapacità, la prima attrice viene sostituita da miss Pratt (Suzanne Cloutier, la Desdemona con cui Welles cercava di completare il suo eterno Otello ), dattilografa del burbanzoso Beehoovian, produttore del film (interpretato dallo stesso Welles); indossato il costume di scena, miss Pratt opera dei veri miracoli! L'avvenimento trasforma Hollywood in una sorta di città santa, dove gli spettatori smettono di andare al cinema per raccogliersi in preghiera. 

Alla prospettiva di chiudere bottega, Beehovian accetta di firmare un accordo con un arcangelo: il Cielo smetterà di trasformare le dattilografe in sante e in cambio Hollywood non si occuperà più di religione. 

Fra i personaggi della commedia, c'è una caricatura della giornalista di gossip Hedda Hopper, arcigna nemica di Welles dai tempi di Quarto potere, un arcivescovo che non crede in Dio (interpretato da Hilton Edwards, che aveva appena smesso i panni di Brabanzio nell'Otello) e il finto arciduca russo Michel (Frédéric O' Brady), in cui si riconosce un ricordo del sedicente principe Michal Waszynski, responsabile della seconda unità di Otello .

Penalizzato dal fatto di essere recitato in lingua inglese, dopo un iniziale successo il doppio spettacolo The Blessed and the Damned chiuse rapidamente le repliche: d'altronde a Welles serviva soprattutto a recuperare denaro per completare il suo film shakespeariano e pagare i suoi attori. 

Ma Miracolo a Hollywood non va sottovalutata, innanzitutto perché illustra in un colpo solo ciò che Welles pensava di Hollywood e del suo diretto opposto, il neorealismo: il regista italiano del film sulla santa, chiamato Alessandro Sporcacione, è presente attraverso una voce fuori campo irosa e volgare (doppiata all'epoca da Lucio Ardenzi), ed è una trasparente presa in giro di Rossellini e del suo metodo.

In questa commedia si ritrova fra l'altro una delle battute che Orson pronunciava spesso in privato, meglio se c'erano in giro dei nostri connazionali: «tutti gli italiani sanno recitare ma i meno bravi sono proprio gli attori». 

In un testo dello stesso periodo, Welles scriveva allusivamente: «una delle leggi più sicure del teatro è che non si può trarre una farsa da ciò che è già una farsa in sé. Questo è forse il motivo per cui capita così raramente di essere divertenti a coloro che pretendono di trattare in modo umoristico le cose del cinema». Pur mettendo in scena la farsa del cinema, questo testo riesce divertente, a tratti spassoso. Miracolo a Hollywood , sì, ma anche miracolo di Welles.

DAGONOTA il 19 settembre 2022.

Essì, da sempre, la gloria comincia sul sofà, che era il mobile più importante nell’ufficio di Darryl F. Zanuck, il produttore di ‘Furore’ e di ‘Eva contro Eva’, il primo a istituzionalizzare negli anni ’40 la pratica del pedaggio sessuale: negli studios della sua 20 Century Fox, alle quattro del pomeriggio si faceva una pausa di trenta minuti, durante la quale una ragazza, ogni giorno diversa, con la promessa di un contratto gli veniva portata.  

Marylin Monroe conosceva bene la legge di Hollywood (“Non esistono cene gratis”) e non tentò mai di nasconderlo: "Tutte l'hanno fatto. Faceva quasi parte del mestiere. Loro volevano assaggiare la mercanzia e se dicevi di no ce ne erano almeno altre venticinque disposte a dire di sì. Non era un dramma".

Estratto di “A pranzo con Orson – conversazioni tra Henry Jaglom e Orson Welles” (ed. Adelphi) 

HJ - Zanuck aveva sotto contratto Marylin, vero? 

OW - Era la mia ragazza, allora. La portavo alle feste prima che diventasse una star. 

HJ - Questa non la sapevo!  

OW - Volevo promuovere la sua carriera. Nessuno la degnava di uno sguardo. C'erano in giro ragazze magnifiche, elegantissime; spendevano una fortuna tra vestiti e salone di bellezza. E tutti: «Tesoro, sei uno schianto!». 

Dopodiché le ignoravano. Gli uomini, intendo. Facevano capannello e raccontavano barzellette o discutevano d'affari. Parlavano delle ragazze solo per dire che se n'erano fatta una la sera prima. Così indicavo Marilyn a Darryl: «Guarda che fenomeno! ».  

E lui: «Non è niente di che. Ne abbiamo a carrettate. Smettila di rifilarmi queste troiette. A quella diamo già centoventicinque dollari la settimana». Be', sei mesi dopo Darryl gliene dava quattrocentomila, e gli uomini la guardavano eccome - le avevano messo l'etichetta.

Raffaele Manica per ilmanifesto.it - Estratto il 19 settembre 2022.

Per citare solo una delle migliaia di citazioni possibili (la battuta verso un cameriere o verso una celebrità che si avvicina al tavolo senza sapere che cosa si saetterà appena se ne sia allontanata) a proposito di storia e correttezza ed egocentrismo: «OW: “Un dittatore alto non è mai esistito. Mai”.  

HJ: “O dio santo”. OW: “Fammi un nome. Sono tutti al di sotto del normale”. HJ: “Mussolini era basso?”. OW: “Bassissimo”. HJ: “Franco?”. OW: “Basso. Hitler era basso. Anche quelli che magari ti potrebbero piacere un po’ di più, come Tito: un piccoletto. Stalin: un piccoletto»: 

HJ: «Una nuova teoria della storia».

OW: «Guarda che i grandi malinconici sono tutti giganti, non tappi. Sono i tappi e i nani che hanno le manie di grandezza». HJ: “Tu quanto sei alto?”. OW. “Una volta ero un metro e novantuno, ma adesso sono sull’uno e ottantotto. Uno e ottantasette, forse. Continuo a perdere collo. È la forza di gravità. 

Come Elizabeth Taylor: ormai è senza collo! Le orecchie le toccano le spalle. Ed è ancora giovane! Ora immagina dove sarà la sua faccia quando avrà la mia età. Nell’ombelico, no?”». Moltiplicate un tono così per trecento e comincerete a intuire che cos’è questo libro.

Frasi, citazioni e aforismi di Orson Welles

“Privare la magia del suo mistero sarebbe assurdo come togliere il suono alla musica.” 

“In Italia per trenta anni sotto i Borgia ci sono stati guerra, terrore, criminalità, spargimenti di sangue. Ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo, il Rinascimento. In Svizzera vivevano in amore fraterno, avevano cinquecento anni di pace e democrazia. E cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù!” 

“Beh... Potrei essere più preciso nelle promesse, se già fin d’ora non dessi tanto da fare per mantenerle.”

“Il mio dottore mi ha detto di smettere di avere cenette intime per quattro. A meno che non vi siano altre tre persone.” 

 “Nasciamo soli, viviamo soli e moriamo soli. Solo attraverso l'amore e l'amicizia possiamo crearci l'illusione di un momento che non sia di solitudine.”

 “Solo una persona può decidere il mio destino, e quella persona sono io.” 

 “L'Italia conta oltre cinquanta milioni di attori. I peggiori stanno sul palcoscenico.”

“Al pubblico voglio dare solo indizi: dare troppo agli spettatori li porta a non contribuire allo spettacolo. Se dai loro solo dei suggerimenti li fai lavorare assieme a te: è questo a dare senso al teatro, quando cioè diventa un atto sociale.” 

“Non mi piace una fidanzata che abbia già un marito: se prende in giro l'uomo con cui è sposata, probabilmente si prenderebbe gioco anche di me.”

“Il nemico della società è la classe media, nemico della vita è la mezza età.” 

“Non prego perché non voglio annoiare Dio.” 

“Un bravo artista dovrebbe essere isolato: se non lo è, c'è qualcosa che non va.” 

 “Io sono un'autorità su come far pensare le persone.” 

“Odio Woody Allen, non ne sopporto la vista e mi da fastidio parlarci assieme. Ha la stessa combinazione di arroganza e timidezza che aveva Charlie Chaplin e che mi fa digrignare i denti.”

“Ci sono solo due emozioni su un aeroplano: noia e terrore.” 

“Hollywood non è poi tanto male, sono i film che fanno schifo.” 

 “La golosità non è un vizio segreto.” 

“Io odio la televisione. La odio tanto quanto odio le noccioline. Ma non riesco a smettere di mangiare noccioline.” 

“Richard Burton è diventato una barzelletta che ha sposato una celebrità. Lavora solo per i soldi e recita nelle produzioni peggiori in assoluto.” 

 “Lavorare per i posteri è volgare tanto quanto lavorare per i soldi.”

“Ogni attore in cuor suo crede a tutte le cattiverie che vengono scritte su di lui.” 

“Un film non è mai davvero di qualità se la telecamera non si comporta come un occhio nella mente di un poeta.” 

“La cosa migliore a livello commerciale è quella che ha più successo, ma sicuramente a livello artistico non vale niente.” 

“L'odio razziale non fa parte della natura umana, anzi, è l'abbandono dell'umanità.” 

“La popolarità non dovrebbe essere un metro di giudizio per eleggere i politici: se così fosse, Donald Duck e I Muppets siederebbero in Senato.”

“Solo le persone molto intelligenti non vogliono entrare in politica, ma io sono stupido abbastanza da volerci avere a che fare.” 

“Nessuno che accetti una sfida enorme e difficile può permettersi di essere modesto.” 

“Quello del regista è un rifugio per gente mediocre.” 

“L'uomo è un animale razionale che perde puntualmente le staffe quando deve agire in accordo con i dettami della ragione.”

“Il lieto fine dipende dal momento in cui fai finire la tua storia.” 

“Se non esistessero le donne, staremmo ancora accovacciati nelle caverne a mangiare carne cruda. Ci siamo civilizzati solo per fare buona impressione sulle nostre fidanzate.” 

“Al giorno d'oggi non ti insegnano nulla all'università. Ti puoi laureare in 'torte di fango'.” 

“Le leggi ed il palcoscenico sono entrambi forme di esibizionismo.” 

“Nemica dell'arte è l'assenza di limitazioni.”

“Ho perso ogni interesse in Hollywood non appena ci ho messo piede.” 

“Tutto ciò che si viene a sapere di Hollywood è vero, incluse le bugie.” 

“Non chiedere ciò che puoi fare per il tuo paese. Chiedi cosa c'è a pranzo.” 

“Nessuno ottiene giustizia. La gente ottiene solo fortuna o sfortuna.” 

“Facciamo un brindisi all'amore alle mie condizioni. Sono le sole condizioni che un uomo rispetta: le proprie.”

·        Pablo Picasso.

Kamel Daoud: «Picasso ritrae il proprio desiderio, il momento in cui diviene un’unica cosa con la donna».

L’incontro con l’Altro, l’esplosione della passione, la nudità. E il divieto di rappresentare la figura umana nella cultura islamica. Un giro al museo dedicato al celebre pittore dà il via al nuovo libro dello scrittore algerino. Anna Bonalume su L'Espresso il 24 Gennaio 2022.

Cosa rivela l’erotismo dei quadri di Picasso? Lo racconta l’intellettuale algerino Kamel Daoud nel nuovo romanzo “Il pittore che divora le donne”, edito da La nave di Teseo e tradotto da Cettina Caliò. È l’esperienza di una notte al museo Picasso di Parigi, un viaggio attraverso le opere della mostra “Picasso 1932: anno erotico”. Quell’anno il pittore spagnolo si invaghisce della giovanissima Marie-Thérèse Walter, che ne diviene la musa, l’amante, l’ossessione.

·        Pier Paolo Pasolini.

Giovanni Berruti per “la Stampa” il 29 novembre 2022.

«Io sono quello che lei cerca». All'inizio degli Anni 60, diversi giovani inviarono le proprie candidature per il ruolo principale ne Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. 

Tutto nacque da un'intervista che lo scrittore e regista rilasciò sul settimanale Le Ore, annunciando l'ambizioso progetto e nello stesso tempo la ricerca di un attore non professionista che interpretasse Cristo. Ovviamente, che non si richiamasse all'immagine oleografica cui si è sempre stati abituati. 

Sceneggiato da Donata Scalfari e diretto da Simona Risi, Capelli quasi biondi, occhi quasi azzurri - 78 lettere a Pier Paolo Pasolini è un docufilm che analizza le missive degli aspiranti attori, spedite tra il 1962 e il 1963 da tutta Italia, ma anche da Germania e Stati Uniti. A far da fil rouge, la voce dell'uomo che ha ritrovato questi documenti nell'archivio paterno: il fotografo Mimmo Frassineti (tra gli autori del soggetto con Valentina Presti Danisi), figlio dello scrittore Augusto. Pasolini era amico di quest' ultimo e all'epoca gli consegnò le lettere ricevute (già aperte, dunque è lecito pensare che le abbia visionate tutte) in quanto esperto di «supplica». 

Più che un making of de Il Vangelo secondo Matteo, l'ultimo progetto targato 3D Produzioni, realizzato con il sostegno di Intesa Sanpaolo e presentato al Torino Film Festival, punta a offrire un ritratto generazionale maschile, a quasi vent' anni dal secondo conflitto mondiale e pochi prima della grande aggregazione politico-culturale che ha dato vita al 68. 

La peculiarità? Gli scritti sono letti e commentati dagli allievi del Piccolo Teatro di Milano, come se si mettessero a confronto con degli alter ego del passato.

C'è disperazione tra i giovani autori che inseguono l'ambitissima parte (oggi sarebbe «scontata»?) e soprattutto l'ingresso nel mondo del cinema. «Ho fatto la guerra, ho bisogno di lavorare», «Ho sedici anni, sono povero e non posso iscrivermi alla scuola di recitazione, lanciatemi voi». C'è l'ansia per il futuro. Ci sono elementi per un'analisi sociolinguistica del paese, con problemi con l'uso del verbo avere al Nord e del verbo essere al Sud. C'è infine, in una buona parte delle lettere, addirittura una sorta di tensione omosessuale che lega mittente e destinatario. 

Diversi gli interventi nel docufilm, da Marco Tullio Giordana ad Adriana Asti, da Monsignor Zuppi a Natalia Aspesi. «È un'Italia ingenua, un po' miracolistica, che spera di venire adottata dal grande regista per fare il suo film. Non lo pretende, come se nella stessa domanda fosse già implicita la rinuncia» spiega Giordana, in questi giorni in scena proprio con uno spettacolo su Pasolini, Pà con Luigi Lo Cascio. «Emerge il desiderio di entrare in un mondo di cultura - afferma la Aspesi - Ma anche un concetto di mascolinità oggi decisamente tossico, figlio del ventennio fascista e della ricostruzione del dopoguerra».

«Sono abbastanza Pasoliniano», scrive un giovane allegando anche una fotografia. Sì, perché il merito di Pasolini è stato di aver preso dalle periferie il proletariato e sottoproletariato per trasformarli in quadri e sculture. Così da canone estetico, «Pasoliniano» finì per diventare un aggettivo assoluto, uno status. Nessuno fu preso. Né come protagonista, trovato nello spagnolo Enrique Irazoqui, all'inizio restio dall'accettare la parte, né come comparsa, di cui la maggior parte furono alla fine scelte a Matera. Intervistate tra l'altro dagli autori proprio nella città che fu trasformata in Gerusalemme. Figure totalmente distanti dall'attore accademico, «che Pier Paolo non amava particolarmente», come raccontato dalla Asti. Ma in quelle lettere c'era anche chi voleva semplicemente farsi leggere. Come Lello, il contadino pugliese che i genitori volevano ingegnere. Colui che trovava la pace solo con il suo trattore. La stessa che probabilmente Pasolini cercava nell'arte.

"Non lascia nulla al banale". Chi era davvero Pier Paolo Pasolini. L'analisi grafologica dello scrittore bolognese rivela una personalità tutta puntata sull'introspezione e un continuo stato creativo. Evi Crotti su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Dalla firma e dalla scrittura (clicca qui) del poeta e scrittore bolognese emerge una ricca personalità tutta puntata sull’introspezione e sull’analisi affinché nulla in lui venga vissuto ed espresso in modo soggettivo.

Pier Paolo Pasolini è capace di sviscerare ogni cosa senza nulla lasciare all’immaginazione libera: tutto è frutto di mera creatività (grafia minuta con buona distribuzione degli spazi sia tra le lettere sia tra le parole e le righe). Ciò è indice di un pensiero che non lascia nulla al banale.

Possiede inoltre capacità di analisi, prodotto di una mente e di un pensiero filosofici che valutano con questa ottica sia i problemi sociali sia quelli personali: tutto è sotto l’occhio vigile di un discernimento incessante che poco spazio lascia alla critica altrui.

Dalla grafia emerge pure una componente di ossessività volta a ricercare sempre il vero, che appaghi prima di tutto sé stesso e che lo riempia saturando quella sete interiore che lo ha da sempre caratterizzato.

Possiamo senza dubbio di smentita che egli ha lasciato dietro di sé l’immagine di un uomo che, incidendo nella storia letteraria e sociale, ha indubbiamente creato nostalgia di sé. Egli brilla ancora per le sue notevoli capacità in vari settori dove ancora potrebbe dettare legge (vedi forme estetiche, gesti originali, lettere minute, firma uguale al testo e pressione leggera).

La mente di Pasolini è sempre stata in continuo fermento, caratteristica che gli ha permesso di essere in “continuo stato creativo” riuscendo così a vivere e ad essere presente, allora come anche oggi, con la sua complessa personalità fatta di creatività e affettività tormentata, ma soprattutto con la sua naturale e spontanea ingenuità, fuori da ogni schema preordinato.

Quel moralismo della sinistra jr. che legge Pasolini come lady oscar. Fulvio Abbate su L’Identità il 19 Novembre 2022.

La riflessione sull’omosessualità di Pier Paolo Pasolini non può essere spiegata con la citazione tardo-adolescenziale dei manga giapponesi, ovvero Lady Oscar, oggetto d’affezione LGBT. Come rendere banale la verità storica e perfino carnale di uno scrittore. Marx, Gramsci e lo “straccetto rosso” cancellati dai cartoni acetati. Per chi ne ignori l’esistenza nei trascorsi palinsesti pomeridiani, Lady Oscar è una fanciulla bionda in uniforme da spadaccino maschio nel tempo della rivoluzione del 1789, l’ambiguità di genere come significante. La scrittrice Chiara Valerio, ragionando sulla sostanza di PPP, chiama in causa proprio Lady Oscar, ai suoi occhi chiave di lettura del disvelamento omosessuale. Si possono utilizzare ordinari feticci della subcultura pop perfino nella riflessione ontologica, lo ha fatto il filosofo Giulio Giorello con Tex Willer, resta che Chiara Valerio non possiede la sciabola di Giorello, e la sua narrazione di Pasolini mostra modalità da “cosplay”. Come depotenziare l’omosessualità di Pasolini, disincarnarla dal suo prosaico quotidiano esistenziale. Per paradosso, appare più pertinente la gaffe dell’allora presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che, commemorandolo a Palazzo Madama, lo evocava “Gian Paolo”. Ancora in tema di garbate mistificazioni, tornano le parole di Marco Pannella. Il leader radicale rilevava che i comunisti, per moralismo e ipocrisia, ritenendo indicibile una “morte da frocio” (sic), avevano scelto di declinarne l’epilogo tragico attraverso la tesi edificante del complotto politico fascista, così ignorando il nodo dell’omosessualità stessa. Accostare Pasolini a Lady Oscar con modalità da turismo letterario giovanile corrisponde ancora una volta a omettere la sostanza della sua praxis omosessuale, sebbene lo scrittore l’abbia esplicitata nel suo portato masochistico, nero su bianco. Occorre dare atto a Dacia Maraini d’essere stata tra i pochi a riconoscere che Pasolini amasse “farsi picchiare”. Basterebbe citare “Il pratone della Casilina”, capitolo del romanzo “Petrolio”, dove scorre una sequenza estenuante di coiti orali che assomiglia a una esecuzione per cancellare ogni lettura da educandato. Moralismo edificante della sinistra giovanile perbene sostituisce i boccoli dorati dell’eroina manga ai brufoli e al ghigno di Pino Pelosi e d’ogni altra “marchetta” che accompagna il quotidiano erotico dello scrittore fino alla morte all’Idroscalo di Ostia. Un bel libro di Andrea Pini, pubblicato dal Saggiatore, “Quando eravamo froci, gli omosessuali nell’Italia della dolce vita”, raccoglie, fra l’altro, testimonianze dirette sull’omosessuale Pasolini, lì definito in tutta la sua attitudine fortemente autopunitiva. Fuori da ogni post-verità, si tratta semplicemente di liberare Pasolini da una lettura che impropriamente ne trascende la sostanza, anche la più drammatica e oscena; impronunciabile. Anche il “corpo” citato da Chiara Valerio evocando Simone Weil ignora le pagine de “La condizione operaia” sulla fatica materiale o ancora lei miliziana con gli anarchici della Colonna Durruti in Spagna nel 1936, il filosofo (tale si riteneva Simone, al maschile) viene semmai trasfigurato in poster edificante da attichetto romanzesco. Così come Berlinguer è ormai reificato in Padre Pio della sinistra svanita, Pasolini appare non meno feticcio glamour caravaggesco, spolpato d’ogni rabbia politica; della sua critica alla società più nulla restano sullo sfondo dei cosplayer in costume da Lady Oscar.

Antonio Gnoli per “la Repubblica” – 21 ottobre 2005 

La morte di Pasolini addolorò profondamente Alberto Arbasino. Ma il modo in cui morì gli parve irreale e provocatorio come la scena di un brutto film. «Ogni tanto si torna a parlare della morte di Pier Paolo come di uno dei tanti episodi misteriosi che accadono in Italia. A me è sembrato molto strano che Pasolini si mettesse in situazioni non dico di venire aggredito o ammazzato, ma ripreso, in posizioni compromettenti, magari con i pantaloni abbassati, da quei fotografi che correvano dietro le starlette. Sarebbe bastata una di quelle fotografie che lo cogliessero in atteggiamento sconveniente per compromettere l’ altezza civile e moralistica delle battaglie politiche che allora stava conducendo».

Sostiene che era troppo noto e troppo impegnato per non avvertire il pericolo di finire su qualche giornaletto scandalistico? 

Una qualunque rivistaccia lo avrebbe distrutto. Mi dicevo quindi: possibile che abbia commesso una tale imprudenza? E poi tutta la storia – le inquadrature, le vicende, le foto, i protagonisti – somiglia molto a un filmaccio di terz’ordine, fatto da degli imitatori di Pasolini che hanno scelto un luogo miserabile, tipo Accattone, per ambientarne la scena. 

Il pasolinismo sarebbe servito per confezionare un omicidio?  

Non lo so, ma quello che gli è successo bastava ricavarlo dai suoi film;  perfino il ragazzetto era uguale a Ninetto. In un certo senso la sua morte mi veniva di paragonarla a quella di Giangiacomo Feltrinelli, avvenuta nei presso di un traliccio a Segrate, dove la sua casa editrice stampava i libri. 

Sta cercando significati emblematici? 

No, ma delle coincidenze che sembrano nate da pessimi sceneggiatori. 

Pessima la sceneggiatura, ma di chi era la regia?

Non si può dire che ci fosse una regia, ma lo si può pensare. 

Che peso dà alle coincidenze?

Non si può far altro che osservarle. 

Ma il fatto che questo caso riesploda ora, a distanza di trent’ anni, cosa le suggerisce? 

Vedrei la cosa in una prospettiva più ampia. Da qualche tempo gli scrittori del nostro Novecento vengono rievocati non per i loro libri che, a quanto pare, non interessano a nessuno, ma semplicemente perché hanno fatto una delazione alla polizia, scritto un biglietto al federale o si sono compromessi con l’Unione Sovietica. Siamo al gossip politico.

Quando vi siete conosciuti con Pasolini?

In un’ epoca ormai remota. Mi pare fosse il 1956, io gli avevo mandato dei versi che avrebbe dovuto pubblicare su “Officina”, una rivista fatta da Pasolini e Leonetti dove si pubblicavano in prevalenza cose sperimentali. 

Vi conoscevate di nome? 

PASOLINI

Diciamo che entrambi agli inizi degli anni cinquanta gravitammo attorno alla rivista “Paragone”, fu lì che pubblicai le mie primissime cose. “Paragone”, sotto le ali di Roberto Longhi e Anna Banti, è stata la migliore rivista letteraria italiana. Normalmente vi collaboravano Bassani, Testori, Citati, Garboli, Calvino e naturalmente Pasolini. In seguito accadde un episodio curioso. Avevo mandato a Bassani, presso la redazione di “Botteghe Oscure”, il manoscritto dell’Anonimo lombardo, che più tardi sarebbe uscito con Feltrinelli.

PASOLINI OMICIDIO 22

Bassani perse la lettera che accompagnava il manoscritto e perciò nessuno sapeva chi fosse l’autore di quel manoscritto. Pasolini che non mi conosceva, ma aveva letto il solo mio racconto comparso su “Paragone”; con grandissimo fiuto filologico, me ne attribuì la paternità. E in seguito, come accennavo, mandai i miei versi per “Officina”. E lui, ricordo, mi diede appuntamento, sotto il Ponte Sant’Angelo, ai famosi bagni del Ciriola. 

Strano appuntamento per due intellettuali.

Era un posto che lui amava. Ricordo che mi ricevette in costume da bagno malgrado la stagione non fosse propizia. E con grande ospitalità mi presentò dei piccini bruttissimi. 

E lei come reagì? 

Mi ero provocatoriamente vestito in grisaglie e cravatta regimental, neanche dovessi andare nella redazione del “Mondo” di Pannunzio. Reagii interpretando la parte del vecchio gentleman arrivato dal Nord Europa che a Copenaghen o a Amsterdam ne aveva viste ben altre. Mi sembra che non gradì particolarmente quel gioco vagamente internazionale.

Per uno come lui probabilmente la paradossalità di certe situazioni era vissuta con fastidio.

Direi che in generale era un uomo molto teso e nervoso. Aveva quel tipo di tensione delle persone che sono abbastanza timide e quindi si fanno forza diventando un po’ aggressive.

Era anche un uomo pieno di inquietudini. 

Come tutti in quegli anni. Cercavamo varie forme con cui esprimerci: giornalismo, romanzo, poesia, teatro, cinema. Sperimentavamo a volte con successo, altre con dei flop clamorosi. 

Pasolini era uno che ce l’ aveva fatta. Penso al cinema. 

Era indiscutibilmente più bravo e poi aveva una perseveranza rara. 

Cosa pensa del suo cinema?

A me piacquero moltissimo Accattone e Il Vangelo, poi ho avuto qualche dubbio. Rimasi, per esempio, molto perplesso su Salò-Sade. In fondo tutto quello che c’era da sapere su Sade lo avevo appreso da tempo nelle mie frequentazioni nelle librerie parigine. 

Intende dire che era un film troppo scontato? 

Di cattivo gusto. Il Salò-Sade – che ha entusiasmato certi e sdegnato altri – poteva dare anche una certa angoscia, pensando allo stato mentale di chi lo aveva concepito e messo a punto. 

A quale stato mentale allude? 

Voglio dire che l’ angoscia che quel film mi trasmetteva non era tanto per le immagini che vedevo, quanto perché un amico si era arrovellato su quei fantasmi.

Pasolini amava a volte far fare ad alcuni amici piccole parti nei suoi film. Le ha mai chiesto di lavorare con lui? 

No. 

E se lo avesse fatto? 

Avrei voluto vedere cosa mi offriva. Aveva un modo di coinvolgere gli amici un po’ speciale. Quando girò Il Vangelo c’erano un po’ quasi tutti gli amici. Ricordo che Rodolfo Wilcock fece una piccola interpretazione nel Vangelo. Mi raccontò dell’ entusiasmo per aver passato una settimana in Puglia, dove Pasolini girava fra Trani e Molfetta: il giorno Vangelo e la notte divertimento straordinario con i giovani che assediavano il set. 

Com’era vissuta l’ omosessualità in quegli anni? 

In quegli anni non c’erano termini che designassero omosessualità o pedofilia. Oggi sono espressioni politicamente corrette. Allora non esisteva il nome e dunque non esisteva neppure la cosa. Assenza di pregiudizi. Non c’ erano i film hard, le edicole non traboccavano di riviste porno. I giovani cercavano sfoghi sbrigativi e senza impegno. Al massimo ci scappava una pizza e un pacchetto di sigarette. 

Ha una immagine lievemente idilliaca dell’ omosessualità.

È stato un periodo relativamente breve. In seguito il paesaggio sociale si modificherà. E questo avrà il suo peso su Pasolini. 

In che senso?

I ragazzini non sono più poveri, nascono vere e proprie categorie professionali. Per giunta si approfondisce il divario fra un cinquantenne come Pasolini e un quindicenne.

Nasce la marchetta. 

Si specializza. Spariscono figure come il marinaio in divisa bianca entrato nell’ immaginario erotico di Cocteau e Genet, o di certi scrittori inglesi. In qualunque porto allora si andasse, da Tolone a La Spezia, li trovavi ad attendere. 

Ma non erano i soggetti che Pasolini prediligeva. 

Pier Paolo amava i minorenni, un’inclinazione che oggi sarebbe oggetto di una riprovazione assoluta.

Gli piaceva invadere il mondo del sottoproletariato. 

Ne era attratto. Lui era un signore con macchina vistosa e lì, in quelle borgate, andava per épater. 

Beh, non solo épater, ad alcuni si è legato. I Citti e i Davoli hanno fatto parte della sua vita. 

Ma di Ninetto era innamorato! Ci sono tra l’ altro le lettere che scrisse a Volponi – la persona meno omosessuale che si poteva conoscere – nelle quali parlava di questo amore a volte disperato. 

Disperato?

Quando Ninetto si sposò, Pier Paolo sembrava una vedova inconsolabile. 

Lei accennava a una certa assenza di pregiudizi negli anni Cinquanta. Però Pasolini fu cacciato dal Pci per immoralità.

Fu un fatto di puritanesimo piccolo borghese. Neppure nella Dc, dove c’erano politici che non facevano mistero delle loro avventure notturne, sarebbe potuto accadere.

Vuole dire che era un partito più tollerante? 

Una tolleranza da parrocchia veneta, che accettava i gusti di un campanaro o di un sagrestano. Comunque negli anni Cinquanta un moralismo piccolo borghese veniva fuori, come ostentazione nel proletariato, con quei giovanotti che si incontravano nei cinema, sui bastioni, nei cessi delle stazioni, ai giardinetti, cioè in tutti i luoghi dove si poteva consumare sul posto.

E nelle classi alte? 

Non c’era nessun moralismo. Froci tantissimi. Magari alcuni di loro erano oggetto di discussione ideologica nei partiti, o di pettegolezzo sui giornali piccolo borghesi di sinistra o di destra. Ma certo non si faceva alcun mistero nel raccontare avventure e prodezze. Come del resto facevano Comisso e Palazzeschi che con rimpianto dicevano: “ahhh, non sa cos’è la douceur du vivre chi non ha conosciuto i moschettieri del duce, quei gerarchi maschioni che venivano chiamati Ferruccio di giorno e Maria di notte’’. Ma questo era il vero gossip. (…)

 Altra epoca. 

Inarrivabile. 

L’ultima volta che vide Pasolini? 

Ci incontrammo proprio sul luogo dove si sarebbe svolto il suo funerale: Campo de’ Fiori. Ci incrociammo alla Carbonara, un ristorante dove aveva portato Sandro Penna. Fu l’ultima volta che lo vidi. 

Che impressione le fece? 

Mi parve pentito della buona azione di essersi trascinato Penna a pranzo. Il vecchio poeta era particolarmente lamentoso. Pier Paolo aveva il sorriso stanco. Di lì a poco sarebbe partito per andare a girare Salò-Sade.

Che giudizio dà dello scrittore? 

Il suo libro che ho più amato è Le ceneri di Gramsci. 

E la sua poesia friulana?

Tanto vale parlare dei poeti di Voghera. 

È stato un grande saggista? 

Indubbiamente lo è stato. 

Anche quando parlava di lucciole. 

Ce le siamo portate appresso per lungo tempo. A volte la sua intelligenza si disperdeva nelle polemichette fra “Rinascita” e “Paese Sera”. 

In vita la sinistra non lo ha amato. 

Di quella roba non avevo nessuna impressione. Ma questa era l’Italia. Minima e rissosa. Bastava prendere un aereo e dopo dieci minuti avevi tutto alle spalle.

Pasolini è stato ucciso: l’Italia è sconvolta. Sulla Gazzetta il ricordo di Giorgio Saponaro. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Novembre 2022

«Pasolini ucciso da un “ragazzo di vita”, come in un suo film»: così titola «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 3 novembre 1975. «Lo scrittore e regista Pier Paolo Pasolini è stato selvaggiamente assassinato questa notte, dopo una furiosa colluttazione, a colpi di una pesante tavola di legno divelta da un rudimentale cancello. Il suo cadavere, orrendamente sfigurato, è stato scoperto all’alba di stamani all’estrema periferia di Ostia, nei pressi dell’idroscalo, dalla famiglia di un carpentiere che, come tutte le domeniche, si recava nella zona per completare i lavori di una baracca che stava costruendo artigianalmente».

La notizia sconvolge il Paese intero. Pier Paolo Pasolini – scrittore, poeta, autore e regista cinematografico e teatrale – nasce cento anni fa, nel 1922, a Bologna. Segue gli spostamenti continui del padre Carlo, ufficiale di carriera: dopo la laurea in Lettere, Pasolini si trasferisce in Friuli, nel paese natale della madre, dove comincia la sua esperienza letteraria, e poi definitivamente a Roma. La pubblicazione dei due «romanzi romani» – «Ragazzi di vita» nel 1955 e «Una vita violenta» nel 1959 – rappresenta, si legge sulla «Gazzetta», uno dei fatti più interessanti degli anni Cinquanta. «Una ricerca inquieta, appassionata, nel tessuto sociale dei luoghi, delle comunità umane in cui visse, o meglio con cui visse, perché tutta l’opera di Pasolini, e dunque anche la sua vita, è all’insegna della partecipazione, viva, attiva: egli è stato un vero militante, in uno dei periodi più difficili della nostra storia recente».

Lo scrittore barese Giorgio Saponaro così lo ricorda: «Gli occhiali neri, come per difesa contro il mondo che voleva sempre osservarlo, scrutarlo, vivisezionarlo; la voce, dolcissima, suadente come di chi soffre quotidianamente con immenso strazio le cose di cui parla, di cui dice, con le quali intrattiene gli altri. Il corpo magro, i giubbotti neri, e tutto intorno alla sua figura un non so che di rappreso, di tenuto a freno, di gentile e di forte insieme».

Sulla «Gazzetta» si riportano, inoltre, le reazioni a caldo di molte personalità della cultura nazionale. Eduardo De Filippo, che di lì a poco avrebbe dovuto interpretare l’ultimo film di Pasolini, commenta amaro: «Mentre l’uccidevano, povero e caro Pier Paolo, avrà certamente pensato al soggetto cinematografico che aveva ideato per me, nel quale descriveva, in modo allucinante e ricco di particolari, la scena di un martirio che subisce un uomo in mezzo ad una pubblica piazza». «Sono sconvolta e desolata» – dice Lina Wertmüller – «Abbiamo perduto forse l’intelligenza più lucida dell’Italia contemporanea».

Il sogno di Pasolini tra passato e futuro. Un omaggio al Cairo con centinaia di studenti di Italiano. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Novembre 2022

Ritrovare Pasolini oltre i suoi libri e i film, nello scenario del Cairo, metropoli di venticinque-trenta milioni di abitanti dove convivono modernità e arretratezza, quartieri ricchi insieme alla povertà estrema delle baraccopoli. Con una compresenza dei vivi e dei morti che un tempo Carlo Levi attribuiva al nostro Sud e che al Cairo è effettiva, visto che centinaia di migliaia di persone abitano stabilmente nelle tombe, le cappelle e i mausolei di Al-Qarafa, l’antica necropoli musulmana della capitale detta “La città dei morti”. Del resto, il fantasma di Pier Paolo Pasolini aleggia ovunque non sia giunta a compimento l’omologazione piccolo-borghese che egli aborriva, mentre rimpiangeva la civiltà contadina in via di estinzione nell’Italia del boom, della industrializzazione, della televisione livellatrice dei costumi e dei consumi. Con l’ostinazione di «una forza del passato», Pasolini continua a cercare le vestigia del mondo che sentiva profondamente suo: nelle borgate romane dei primi bellissimi film (Accattone, Mamma Roma) o a Matera dove girò Il Vangelo secondo Matteo (1964), fino alle antiche mura di Sana’a nello Yemen, cui dedicò un documentario-manifesto, e poi in India, Marocco, Brasile... Non è solo “nostalgia”, perché Pasolini nel Terzo Mondo intravede gli indizi sociali e linguistici di una possibile/impossibile rivolta contro la occidentalizzazione indiscriminata, arrivando a presagire per certi versi la grande migrazione, di là da venire, dall’Africa o dall’Asia verso i Paesi ricchi (fa testo per esempio Alì dagli occhi azzurri).

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922), in corso di celebrazione un po’ dovunque, con mostre, iniziative, dibattiti a Roma e nelle grandi città, ma anche in piccoli centri, a testimonianza di quanto abbia permeato la società e la cultura italiane. Dopo la morte violenta a 53 anni per mano del “ragazzo di vita” Pino Pelosi nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975, giusto quarantasette anni fa, Pasolini ha subito dapprima una rimozione feroce e in seguito una paradossale edulcorazione: la sua figura di regista, poeta, saggista e polemista sempre controcorrente è stata trasformata in un’icona di massa. Non mancano gli omaggi all’estero. Siamo stati invitati di recente a parlare di Pasolini, appunto al Cairo, per l’inaugurazione della XXII Settimana della Lingua Italiana nel mondo, organizzata dal Ministero degli Affari Esteri in vari Paesi. Nell’auditorium dell’Istituto Italiano di Cultura della capitale egiziana, un elegante villino del quartiere Zamalek nell’isola Gezira sul Nilo, abbiamo dialogato sull’Autore e il suo cinema con lo storico delle idee Davide Scalmani, il quale dirige con passione l’Istituto. Un luogo vivo e assai frequentato, a cominciare dalla splendida biblioteca intitolata a Giuseppe Ungaretti, il grande poeta intervistato da Pasolini in Comizi d’amore (1965). Ungaretti resta il più celebre fra gli italiani d’Egitto, nato ad Alessandria nel 1888 da un padre operaio fra i tanti stranieri impegnati nello scavo del Canale di Suez e da una madre fornaia.

Per conoscere qualcosa in più di Pasolini all’Istituto Italiano del Cairo v’erano in sala centinaia di giovani, soprattutto ragazze con il velo ormai diffusissimo rispetto a pochi decenni fa e non di rado giunte da altre città, quasi tutti studenti della lingua italiana nei licei e nelle università dell’Egitto. Sono oltre centodiecimila, dice Scalmani, ed è in effetti un patrimonio impressionante di interesse e di fascinazione per la nostra cultura. Si rinnovano così i rapporti tra i due Paesi fecondati lungo l’800 e il ‘900 dagli egittologi italiani impegnati negli scavi archeologici, dai grandi architetti che hanno rimodernato Alessandria e Il Cairo (Antonio Lasciac, Giuseppe Mazza, Mario Rossi), dalle relazioni verdiane grazie all’Aida oggi tenacemente coltivate fra gli altri dal direttore d’orchestra Elio Orciuolo, pugliese di casa all’ombra delle Piramidi. Senza dire dei letterati protagonisti di avventurose esperienze tra il Mediterraneo e il Nilo: Enrico Pea, Fausta Cialente, Stefano Terra, oltre al futurista Filippo Tommaso Marinetti ch’era nato ad Alessandria come Ungaretti.

La tragica vicenda di Giulio Regeni, il dottorando italiano dell’Università di Cambridge rapito, torturato e ucciso al Cairo nel 2016, e la lunga detenzione in carcere di Patrick George Zaki, studente egiziano dell’Università di Bologna, hanno creato tensioni diplomatiche tra l’Italia e l’Egitto che solo la necessaria chiarezza sulle responsabilità potrà sciogliere. Eppure i rapporti interculturali continuano: sono una mezza dozzina attualmente i lettori di Lingua italiana nelle università del Cairo, tra i quali la docente barese Rosa Luigia Bottalico. C’è una nuova generazione di italianisti di pregio come la giovane Nadine Wassef, ricercatrice della Ain Shams University, all’opera su autori da riscoprire come Anna Messina (Cronache del Nilo, 1940) e Marisa Milani. Mentre Suzanne Badie Iskandar lavora intorno a Una vita violenta di Pasolini, che in passato è stato occasionalmente tradotto in arabo e talora non dall’italiano, bensì da altre lingue. Non conta solo l’accademia. Il console onorario italiano a Luxor Francis Amin, collezionista e studioso, in perfetto italiano racconta di mostre e iniziative realizzate in varie città del Paese. Il canale YouTube “Egitto Ora”, curato dai volenterosi Ossama Fawzy e El Semary Saleh, esplora temi legati al turismo, la gastronomia, la musica italo-egiziani.

Sempre l’Istituto Italiano di Cultura nei giorni scorsi ha ospitato un concerto tutto pugliese, con il pianista Mario Margiotta, il soprano Serena Grieco e il Quartetto Gershwin, e ha propiziato l’incontro artistico fra il sassofonista jazz romano Simone Alessandrini e il gruppo locale Mazaher & Nass Makan Ensemble. Insieme stasera saranno di nuovo in concerto al “Makan - Egyptian Center for Culture and Arts” animato da un intellettuale cosmopolita qual Ahmed Maghraby, che conosce bene l’Italia e in particolare l’antropologia musicale del Mezzogiorno. Di scena la musica «Zar», un secolare ritmo rituale e onirico utilizzato a mo’ di esorcismo per liberare le donne dagli spiriti malefici: esattamente come la Taranta... Il sogno di una cosa, sì, nel segno di Pasolini.

Pasolini, il cantore identitario contro il globalismo. Alessandro Gnocchi su Culturaidentita.it il 2 Novembre 2022

Oggi moriva PPP, Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Ostia, Roma, 2 novembre 1975): perché venne assassinato? E’ vero che Pino Pelosi fu l’unico responsabile dell’omicidio? E quei tre uomini dall’accento meridionale presenti sul litorale di Ostia? Ed è vero che in quel capitolo “mancante” del suo romanzo uscito postumo, Petrolio, il protagonista interpretato da un personaggio di fantasia era in realtà una persona molto in alto dell’ “apparatchik” economico/politico di allora? La morte di PPP resta comunque uno dei tanti misteri italiani. Ma noi oggi non ci vogliamo soffermare su questo aspetto oscuro: vogliamo invece mostrare un paesaggio luminoso, cioè il suo ultimo libro di poesie intitolato La nuova gioventù, contenente quella poesia scritta in dialetto friulano, Saluto e augurio, che idealmente rappresenta un testamento intellettuale e morale per chi sarebbe venuto dopo, cioè noi oggi (Redazione)

“Non c’è peccato peggiore, nel nostro tempo, che quello di rifiutarsi di capire: perché nel nostro tempo non si può scindere l’amare dal capire. L’invito evangelico che dice «ama il prossimo tuo come te stesso» va integrato con un «capisci il prossimo tuo come te stesso». Altrimenti l’amore è un puro fatto mistico e disumano”. 

Pier Paolo Pasolini è stato forse l’ultimo intellettuale possibile. Quali speranze avrebbe oggi un poeta di emergere con la forza delle sue parole nel mondo dei social media, che consuma le idee come fossero merci? Esistono forse due Pasolini. C’è il personaggio pubblico “Pasolini”, l’intellettuale eretico, fedele ai comunisti ma non al comunismo, il fustigatore della borghesia, l’editorialista sorprendente, il profeta civile. Accanto al marxista, tutto nella storia e nella ragione, c’era ancora il giovane Pier Paolo-Narciso, il poeta friulano, tutto nella ciclica astoricità del mondo contadino e nel sentimento. Il marxista forse nacque anche per mettere un argine a Narciso, per ordinare le idee, per maturare. Chissà cosa sarebbe diventato se non lo avessero ammazzato come un cane nel 1975. Pasolini era a un passo da un grande cambiamento. Era in arrivo qualcosa di peggio delle camicie nere della gioventù: una forma perfetta di regime costruito con l’assenso degli uomini ridotti a consumatori. Il potere diventava globale e usciva dai parlamenti per entrare nei board di un nuovo tipo di Stato, senza confini: l’azienda multinazionale. Il mercato globale ha una sola regola: l’efficienza. I consumatori devono essere uno identico all’altro e desiderare le stesse cose da prodursi in serie, con redditizie economie di scala. In futuro, ogni reale differenza sarà cancellata, in nome e con la scusa della tolleranza. Il cambiamento è veloce e globale. Dunque travolgerà tutto ciò che è lento e locale. Istituzioni come famiglia e Chiesa sono obsolete e saranno abbandonate o svuotate di senso proprio come la politica tradizionale. Anche piccoli imprenditori, partite Iva e commercianti sono un freno a mano tirato. Quindi dovranno sparire.   Pasolini picchiava duro anche a sinistra: il progresso non può consistere nel mettere un televisore in ogni casa. La “contestazione” si è rivelata funzionale al capitalismo. Può aver senso cancellare la morale tradizionale e l’autorità. A patto di inventarsi un nuovo modo di essere tolleranti, illuministi, liberi. Il Sessantotto non ne è stato capace, ha involontariamente rimosso gli ultimi ostacoli all’affermarsi del capitalismo delle grandi concentrazioni.

Quando si apre La meglio gioventù o L’usignolo della Chiesa Cattolica improvvisamente si capisce che esiste un mondo da salvare se vogliamo restare umani, incluso tutto il male e tutte le perversioni di cui siamo capaci. Il male non è meno importante del bene in questo mondo in cui tutti si candidano a essere più buoni attraverso quell’inconcludente (ma non innocente) gioco di parole chiamato politicamente corretto.

Nell’ultimo libro di poesie, La nuova gioventù, un Pasolini ormai disperato affida il suo testamento politico e morale a un giovane fascista, rappresentante di una destra “sublime”. La poesia si intitola Saluto e augurio, è scritta in friulano, questa è la traduzione di Pasolini stesso:

Tradotto: “Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie, abbandonate dal letame. Difendi il prato tra l’ultima casa del paese e la roggia. I casali assomigliano a Chiese: godi di questa idea, tienila nel cuore. La confidenza col sole e con la pioggia, lo sai, è sapienza santa. Difendi, conserva, prega!”. E ancora: “Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità. Ama la loro voglia di vivere soli nel loro mondo, tra prati e palazzi dove non arrivi la parola del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; ama il loro dialetto inventato ogni mattina, per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria. Ama il sole di città e la miseria dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio. Dentro il nostro mondo, dì di non essere borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, o un soldato senza violenza”. Le nuove tavole della Legge in tre comandamenti: difendi, conserva, prega.

Bibliografia essenziale: La meglio gioventù, Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, Le ceneri di Gramsci, Ragazzi di vita, Scritti corsari, Petrolio, Teatro.

Pier Paolo Pasolini, un caso mai chiuso. Il depistaggio nella ricostruzione del legale che ha riaperto l’indagine. A 47 anni dall’omicidio, il libro di Stefano Maccioni elenca tutti gli elementi irrisolti che convergono a delineare il quadro di una deliberata manomissione della verità sull’omicidio dell’intellettuale, pilastro del pensiero del Novecento. Enrico Bellavia su L'Espresso il 31 ottobre 2022.

Una morte che incarna la traiettoria che avrebbero preso i nostri giorni. Perché la costruzione di misteri è arte in cui l’Italia eccelle nel mondo e genera emuli. E la storia recente ne è piena. Ha molto a che vedere con la genesi della Repubblica sulle ceneri del fascismo e dei suoi apparati: perché è quello il vizio di origine che grava come un fardello sul presente.

La fine di Pier Paolo Pasolini, il 2 novembre 1975, 47 anni fa, all’Idroscalo di Ostia, è il cold case italiano più dibattuto. Tanto longevo quanto controverso, rappresenta l’archetipo dal quale tutti gli apprendisti ingegneri dell’arcano attingono la propria scienza.

Gli atti mancati, le prove distratte, sparite, manipolate. Le domande eluse, le risposte inconcludenti, apparentemente frutto di incomprensibile casualità, tutti elementi che, messi in fila e analizzati, appaiono, al contrario, come tessere necessarie alla manomissione deliberata della verità. E costituiscono un campionario perennemente replicato ogni qual volta, in una ridda di congetture, la nebbia diventa la miscela necessaria a mischiare il falso con l’autentico, il buio con la luce. Perché tutto rimanga nell’indistinto del mistero, appunto.

Per Pasolini, plasticamente, l’eterna tentazione di concentrare il punto di vista dell’indagine sul morto e non sull’assassino è la premessa da cui sembra discendere tutto. È operazione funzionale, serve tutte le volte in cui il contesto di un delitto, l’esatto giorno in cui viene compiuto, il valore preventivo dell’omicidio devono essere sviliti al rango di particolari inessenziali. Con una torsione all’indietro, si volge lo sguardo verso ciò che la vittima aveva fatto, trascurando quel che stava per fare. La confessione servita, quando c’è, e in questo caso, tra mille contraddizioni, c’è, è, per converso, il suggello perfetto a blindare montagne di scartoffie nella cassaforte delle presunte prove incontrovertibili. E consegnare tutto il resto all’oblio dell’indimostrato.

Nell’anniversario della morte, che arriva in fondo all’anno del centenario della nascita (5 marzo 1922), la curva dell’attenzione sulla fine di Pasolini ha conosciuto nuovo vigore. Libri, inchieste, documentari, performance hanno scandagliato e scandagliano ciò che per comodità chiamiamo mistero e potremmo tranquillamente definire, anche in questo caso, depistaggio. Tante sono le analogie con mille altri episodi che punteggiano gli anni del nostro passato (?) prossimo.

Alla versione, l’unica consacrata in sentenza, del delitto d’impeto del ragazzo di vita Pino Pelosi, ribellatosi a un tentativo ulteriore di approccio non sono più molti a credere. Non ci credeva più di tanto neanche Pelosi che pure fece di tutto, sostenuto dall’avvocato Rocco Mangia, per accollarsi l’omicidio in un’altalena di ricostruzioni nelle quali comparivano e sparivano i comprimari. Non ci credeva, e questa è faccenda non secondaria, il tribunale dei minorenni, presieduto da Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo, che condannò l’imputato ma lasciò apertissima la porta del concorso di ignoti che frettolosamente la procura generale si premurò di chiudere.

Da lì è ripartito Stefano Maccioni, avvocato - parte civile nei processi per la morte di Stefano Cucchi, per la strage di Viareggio, in “Mafia capitale”, per il “Sangue infetto” e per l’omicidio del vice brigadiere Mario Cerciello Rega – che, innamorato di casi impossibili, ancora una volta con la leva del diritto e l’esercizio del dubbio ha avuto il merito di far riaprire nel 2010 l’ennesima indagine sulla fine dello scrittore risoltasi però cinque anni dopo nel nulla.

Maccioni però di passi avanti ne ha impressi. Concentrandosi, insieme con la criminologa Simona Ruffini e con il contributo del giornalista Rai Valter Rizzo, su quella che anni di telefilm e fiction ci hanno insegnato a definire la scena del crimine. Lo ha fatto negli atti giudiziari che hanno accompagnato il proprio impegno e in un libro “Pasolini. Un caso mai chiuso” (260 pagine, Round Robin 2022, 14 euro), agile e compatto, in cui sono i fatti incongrui a rivelare la propria fragilità e ad aprire la scena all’ingresso di esami scientifici ed evidenze di laboratorio che gli si sovrappongono, escludendoli per confutarli. Consacrando nuove certezze senza alimentare la roulette del mistero. Perché semplicemente, «i reperti prelevati dalla scena del crimine», fino al 2010 «non erano mai stati sottoposti ad alcuna analisi di laboratorio».

Maccioni, in modo trasparente, sposa la tesi del movente legato alla stesura del romanzo postumo “Petrolio” incentrato sugli affari dell’Eni e sulla mano interna per la morte, il 27 ottobre 1962, del patron della ribellione energetica nazionale al monopolio delle Sette sorelle, Enrico Mattei. Un omicidio, quello, lasciato passare per un incidente aereo fino a quando il pm di Pavia Vincenzo Calia non ha riaperto il fascicolo e smascherato il sabotaggio del velivolo.

In definitiva, per l’avvocato Maccioni, così come per lo stesso giudice Calia, (“Il caso Mattei”, Chiarelettere 2017, scritto con Sabrina Pisu) sono le consapevolezze conquistate da Pasolini sul conto del vice e successore di Mattei, Eugenio Cefis, nel romanzo Aldo Troja, e in «un’informativa del Sismi indicato come il vero fondatore della P2», il cuore della ragione della sua uccisione. E Maccioni lo scrive in premessa: «Secondo me Pelosi non era solo quella notte, Pasolini era sotto ricatto da giorni, e un altissimo papavero italiano stava per essere travolto da Petrolio, il suo romanzo inchiesta il cui argomento aveva già due omicidi sulle spalle. Questo penso, e a questo credo».

Maccioni, quanto al movente, si inserisce nel solco di altri lavori sul punto come quello di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (“Profondo Nero”, Chiarelettere, 2010 o “L' Italia nel petrolio. Mattei, Cefis, Pasolini e il sogno infranto dell'indipendenza energetica” di Giuseppe Oddo e Riccardo Antoniani, Feltrinelli, 2022.

Ma è sull’analisi del fatto che il lavoro dell’avvocato spicca per sforza di sintesi nell’analizzare i mille dettagli trascurati che compongono la ricostruzione sbilenca. Così traballante da apparire rabberciata ad arte nella fretta di concludere come nel più classico dei copioni che in fondo la vittima se l’era cercata.

Perché anche a voler credere, invece, che il movente ultimo della morte di Pasolini, sia prossimo ma diverso, come sostenuto in altre appassionate pubblicazioni, per esempio, i lavori di Simona Zecchi, (“Massacro di un poeta”, 2015 e “L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini, 2020, entrambi per Ponte alle Grazie), sulle trame neofasciste dello stragismo degli esordi nei Settanta, che alimentava il lavoro giornalistico di Pasolini, il punto di vista deve comunque spostarsi a quel che il sangue dell’Idroscalo ha impedito e non a quello che uno dei pilastri del Novecento, aveva già fatto. Frequentazioni dei marchettari della stazione Termini incluse, ovvero il movente omofobo che Maccioni giustamente liquida come funzionale al nascondimento della verità: «Ovvio, comodo, lineare e inevitabile. Anche troppo», scrive.

«Una storia un poco scontata, una storia sbagliata. Storia diversa per gente normale, storia comune per gente speciale», avrebbero sintetizzato Fabrizio De André e Massimo Bubola (1980), prima di quel «Tutto passa, il resto va», di Francesco Di Gregori (A Pà, 1985) e dopo quel «Non può non può, può più parlare», che Giovanna Marini urlò nel 1979 (Lamento per la morte di Pasolini).

Il cuore del lavoro di Maccioni è proprio il luogo del delitto. Gli oggetti recuperati e trascurati, la genesi delle testimonianze che convergono a rafforzare la responsabilità di Pelosi ma descrivono tratti e colori di persone che non gli corrispondono. Che dicono di aver riconosciuto l’assassino sulla base di una foto mostratagli dagli investigatori che incredibilmente era già nelle loro mani a poche ore dal fermo di Pelosi e della quale però non c’è traccia negli incartamenti.

E poi ci sono i particolari, come l’ostinata ricerca di un anello, dono di Johnny lo zingaro, alias Giuseppe Mastini, di cui l’assassino rivendica la proprietà che innesca una forsennata ricerca fino al ritrovamento nei pressi del corpo della vittima. Il sigillo necessario a chiudere il caso. Fino alla sorprendente presenza di Maurizio Abbatino, boss della Magliana, tra i curiosi fotografati nella calca dell’Idroscalo l’indomani dell’omicidio.

Puntigliosamente elencati, sviscerati, messi a confronto con le risultanze di esami indipendenti e perizie del Ris che hanno supportato l’ennesima istruttoria archiviata - in tutto sono quattro –  gli elementi raccolti fanno dire a Maccioni che con Pelosi ci fossero almeno altre cinque persone, per tre delle quali si ha il profilo genetico, e sul conto delle quali non si era mai indagato a fondo, né si indagherà. Nel 2015 l’indagine si è arresa all’esito negativo di trenta confronti del dna con altrettanti potenziali assassini. Vicino ai quali però si arriva per fisionomia, incroci e coincidenze. Come la circostanza di un’auto identica a quella di Pasolini e con tracce di sangue, portata a riparare in tutta fretta all’indomani del delitto.

Il contesto è quello dei giovani della malavita romana legata all’eversione di destra e di origine siciliana. Molto più di una suggestione che sembra tracciare una retta che riconnette Pasolini al molto del grumo di potere che ha ipotecato il Paese. E che ancora una volta riconduce a Mattei e a un altro mistero italiano, la fine del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre 1970), impegnato nelle ricerche per la sceneggiatura del film di Francesco Rosi sul presidente Eni. E anche per De Mauro, il movente ipotizzato non è l’unico. L’altro, anche questo prossimo ma non coincidente, porta invece alle rivelazioni impedite sul golpe neofascista (notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970), progettato dal principe nero Junio Valerio Borghese. E da lì si riallaccia a una teoria di altri delitti eccellenti siciliani, da quello del procuratore Pietro Scaglione a quello del giudice Cesare Terranova fino all’omicidio del commissario Boris Giuliano.

Abbastanza per concludere con l’autore che davvero il caso non è affatto chiuso. Perché Pasolini ci parla ancora. E quel corpo martoriato all’Idroscalo allunga ombre su quel che eravamo e su quel che ancora oggi siamo.

Pasolini: «Un massacro firmato da pariolini neofascisti. Ma ora anche i sottoproletari sono criminali». Pier Paolo Pasolini il 18 OTTOBRE 1975 su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

Nell’ultimo articolo pubblicato sul Corriere prima di essere a sua volta barbaramente assassinato (il 2 novembre 1975), lo scrittore analizzava le radici del delitto: «La stampa borghese è felice di poter privilegiare come delinquenti quelli del Circeo» 

Angelo Izzo ride durante l’arresto, poche ore dopo il massacro del 29 settembre 1975. Con lui fu arrestato Gianni Guido; Andrea Ghira si diede alla latitanza

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dall’Archivio storico del Corriere vi proponiamo questo articolo di Pier Paolo Pasolini dell’Ottobre 1975, ripubblicato sul numero di 7 in edicola il 21 ottobre 2022 

«La stampa borghese è felice di poter privilegiare come delinquenti quelli del Circeo: solo i drammi di quella classe sociale hanno valore e interesse. Ormai però anche l’universo popolare delle borgate romane è diventato «odioso» perché quei giovani appartengono totalmente all’universo piccolo borghese che è stato loro imposto definitivamente. La criminalità si vince solo abolendo totalmente la scuola media d’obbligo e la televisione I vari casi di criminalità che riempiono apocalitticamente la cronaca dei giornali e la nostra coscienza abbastanza atterrita, non sono casi: sono, evidentemente, casi estremi di un modo di essere criminale diffuso e profondo: di massa. Infatti i criminali non sono i neo-fascisti».

«SOLO I DRAMMI DI QUELLA CLASSE SOCIALE HANNO VALORE E INTERESSE. ORMAI PERÒ ANCHE L’UNIVERSO POPOLARE DELLE BORGATE ROMANE È DIVENTATO «ODIOSO» PERCHÉ QUEI GIOVANI APPARTENGONO TOTALMENTE ALL’UNIVERSO PICCOLO BORGHESE CHE È STATO LORO IMPOSTO DEFINITIVAMENTE»

«Ultimamente un episodio (il massacro di una ragazza al Circeo) ha improvvisamente alleggerito tutte le coscienze e fatto tirare un grande respiro di sollievo: perché i colpevoli del massacro erano appunto dei pariolini fascisti. Dunque c’era da rallegrarsi per due ragioni: I) per la conferma del fatto che sono solo e sempre i fascisti la colpa di tutto; II) per la conferma del fatto che la colpa è solo e sempre dei borghesi privilegiati e corrotti. La gioia di sentirsi confermati in questo antico sentimento populista - e nella solidità dell’annessa configurazione morale - non è esplosa solo nei giornali comunisti, ma in tutta la stampa (che dopo il 15 giugno ha una gran paura di essere a meno appunto dei comunisti). In realtà la stampa borghese è stata letteralmente felice di poter colpevolizzare i delinquenti dei Parioli, perché, colpevolizzandoli tanto drammaticamente, li privilegiava (solo i drammi borghesi hanno vero valore e interesse) e nel tempo stesso poteva crogiolarsi nella vecchia idea che dei delitti proletari e sottoproletari è inutile occuparsi più che tanto, dato che è aprioristicamente assodato che proletari e sottoproletari sono delinquenti».

«SI PENSI AL DELITTO DEI FRATELLI CARLINO DI TORPIGNATTARA, O ALL’AGGRESSIONE DI CINECITTÀ... LA CRIMINALITÀ SI VINCE SOLO ABOLENDO TOTALMENTE LA SCUOLA MEDIA D’OBBLIGO E LA TELEVISIONE»

« Io penso dunque che anche il massacro del Circeo abbia scatenato in Italia la solita offensiva ondata di stupidità giornalistica. Infatti, ripeto, i criminali non sono affatto solo i neo-fascisti, ma sono anche, allo stesso modo e con la stessa coscienza, i proletari o i sottoproletari, che magari hanno votato comunista il 15 giugno. Si pensi al delitto dei fratelli Carlino di Torpignattara, o all’aggressione di Cinecittà (un ragazzo percosso brutalmente e chiuso dentro il baule della macchina e la ragazza violentata e seviziata da sette giovani della periferia romana). Questi delinquenti «popolari» - e per ora mi riferisco, con precisione documentata, ai soli fratelli Carlino - godevano della stessa identica libertà condizionale che i delinquenti dei Parioli; godevano cioè della stessa impunità. È assurdo dunque accusare i giudici che hanno mandato in giro «a piede libero» i neofascisti se non si accusano nel tempo stesso e con la stessa fermezza i giudici che hanno mandato in giro «a piede libero» i fratelli Carlino (e altre migliaia di giovani delinquenti delle borgate romane)».

QUELLO CHE STATE LEGGENDO (ISPIRATO AL DELITTO DI IZZO, GUIDO E GHIRA), FU L’ULTIMO ARTICOLO DI PIER PAOLO PASOLINI SUL CORRIERE: 15 GIORNI DOPO SAREBBE STATO UCCISO

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«La realtà è la seguente: i casi estremi di criminalità derivano da un ambiente criminaloide di massa. Occorrono migliaia di casi come quelli della festicciola sadica del Circeo o di aggressività brutale per ragioni di traffico, perché si realizzino casi come quelli dei sadici pariolini o dei sadici di Torpignattara. Quanto a me, lo dico ormai da qualche anno, che l’universo popolare romano è un universo «odioso». Lo dico con scandalo dei benpensanti; e soprattutto con scandalo dei benpensanti che non credono di esserlo. E ne ho anche indicato le ragioni (perdita da parte di giovani del popolo dei propri valori morali, cioè della propria cultura particolaristica, coi suoi schemi di comportamento eccetera)».

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«E a proposito, poi, di un universo criminaloide come quello popolare romano bisognerà dire che non valgono le consuete attenuanti populistiche: è necessario munirsi della stessa rigidità puritana e punitiva che siamo soliti sfoggiare contro le manifestazioni criminaloidi dell’infima borghesia neo-fascista. Infatti i giovani proletari e sottoproletari romani appartengono ormai totalmente all’universo piccolo borghese: il modello piccolo borghese è stato loro definitivamente imposto, una volta per sempre. E i loro modelli concreti sono proprio quei piccoli borghesi idioti e feroci che essi, ai bei tempi, hanno tanto e così spiritosamente disprezzato come ridicole e ripugnanti nullità. Non per niente i seviziatori sottoproletari della ragazza di Cinecittà, usando di lei come di una “cosa”, le dicevano: “Bada che ti facciamo quello che hanno fatto a Rosaria Lopez”».

«La mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale - che oppongo ancora una volta all’offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose - m’insegna che non c’è più alcuna differenza vera nell’atteggiamento verso il reale e nel conseguente comportamento tra i borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate. La stessa enigmatica faccia sorridente e livida indica la loro imponderabilità morale (il loro essere sospesi tra la perdita di vecchi valori e la mancata acquisizione di nuovi: la totale mancanza di ogni opinione sulla propria «funzione»). Un’altra cosa che l’esperienza diretta mi insegna è che questo è un fenomeno totalmente italiano. Fa parte del conformismo, peraltro antiquato, dell’informazione italiana il consolarsi col fatto che anche negli altri paesi esiste il problema della criminalità: esso esiste, è vero: ma si pone in un mondo dove le istituzioni borghesi restano solide e efficienti, e continuano a offrire dunque una contropartita. Che cos’è che ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall’ansia economica di esserlo? Che cos’è che ha trasformato le «masse» dei giovani in «masse» di criminaloidi?».

«IL CONSUMISMO HA DISTRUTTO CINICAMENTE UN MONDO ‘REALE’, TRASFORMANDOLO IN UNA TOTALE IRREALTÀ, DOVE NON C’È PIÙ SCELTA POSSIBILE TRA MALE E BENE. DONDE L’AMBIGUITÀ CHE CARATTERIZZA I CRIMINALI: E LA LORO FEROCIA, PRODOTTA DALL’ASSOLUTA MANCANZA DI OGNI TRADIZIONALE CONFLITTO INTERIORE»

«L’ho detto e ripetuto ormai decine di volte: una «seconda» rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la «prima»: il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo “reale”, trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c’è più scelta possibile tra male e bene. Donde l’ambiguità che caratterizza i criminali: e la loro ferocia, prodotta dall’assoluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c’è stata in loro scelta tra male e bene: ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà. Si lamenta in Italia la mancanza di una moderna efficienza poliziesca contro la delinquenza. Ciò che io soprattutto lamenterei è la mancanza di una coscienza informata di tutto questo, e la sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che fare con la realtà. Bisogna oggi essere progressisti in un altro modo; inventare una nuova maniera di essere liberi, soprattutto nel giudicare, appunto, chi ha scelto la fine della pietà. Bisogna ammettere una volta per sempre il fallimento della tolleranza. Che è stata, s’intende, una falsa tolleranza ed è stata una delle cause più rilevanti nella degenerazione delle masse dei giovani. Bisogna insomma comportarsi, nel giudicare, di conseguenza e non a priori (l’a priori progressista valido fino a una decina d’anni fa)».

«Quali sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due proposte swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere. 1) Abolire immediatamente la scuola media d’obbligo. 2) Abolire immediatamente la televisione. Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe Swift: ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione. La scuola d’obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento ecc.: tutto un imbroglio). Inoltre una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento: imparare un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè appartenente a un’altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d’obbligo è prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità)».

«Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un avanzamento che è una degradazione è delittuoso: perché lo rende: primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciosamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza. Certo arrivare fino all’ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla quindicesima classe, sarebbe, per me, come per tutti, l’ optimum, suppongo. Ma poiché oggi in Italia la scuola d’obbligo è esattamente come io l’ho descritta (e mi angoscia letteralmente l’idea che vi venga aggiunta una «educazione sessuale», magari così come la intende lo stesso Paese Sera ), è meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (È questo il nodo della questione)».

«Quanto alla televisione non voglio spendere ulteriori parole: ciò che ho detto a proposito della scuola d’obbligo va moltiplicato all’infinito, dato che si tratta non di un insegnamento, ma di un «esempio»: i «modelli» cioè, attraverso la televisione, non vengono parlati, ma rappresentati. E se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? È stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo) concluso l’era della pietà, e iniziato l’era dell’ edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore). Ora, ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non è servita a nulla: la scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione (produzione di umanità)».

«Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l’immediata cessazione delle lezioni alla scuola d’obbligo e delle trasmissioni televisive. Non sarebbe nulla, ma sarebbe anche molto: un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare un proprio modello di vita. Posteriore a quello di una volta, e anteriore rispetto a quello presente. Altrimenti tutto ciò che si dice sul decentramento è scioccamente aprioristico o in pura malafede. Quanto ai collegamenti informativi del Quarticciolo - come di qualsiasi altro «luogo culturale» - col resto del mondo, sarebbero sufficienti a garantirli i giornali murali e l’Unità: e soprattutto il lavoro, che, in un simile contesto, assumerebbe naturalmente un altro senso, tendendo a unificare una buona volta, e per autodecisione, il tenore di vita con la vita».

L’AUTORE. Pier Paolo Pasolini. Nato a Bologna il 5 marzo 1922, figlio di un ufficiale di fanteria bolognese edi una maestra friulana, Pier Paolo Pasolini fu poeta, scrittore, regista di cinema e teatro. Attento osservatore dell’Italia Anni 70, radicale nei giudizi sulla società dei consumi ma anche sulla protesta del ‘68, fu barbaramente ucciso a 53 anni sulla spiaggia dell’idroscalo di Ostia, alle porte di Roma, il 2 novembre 1975. Sul Corriere scrisse dal 7 gennaio 1973 al 18 ottobre 1975: quello pubblicato qui fu il suo ultimo articolo.

Per Pasolini amore diffuso senza scandalo. Paolo Di Stefano su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022 

Molte iniziative nel centenario della nascita, e non solo nelle grandi città. A ciascuno il suo Pasolini

È stata inaugurata mercoledì a Palazzo delle Esposizioni di Roma una grande rassegna su Pier Paolo Pasolini nel centenario della nascita. Titolo: «Il Corpo Poetico». Al netto dell’icona ormai alquanto scontata del Corpo del poeta ucciso, la mostra sembra di notevole ricchezza documentaria e materiale (con oggetti, fotografie, carte, prime edizioni filmati, eccetera). Così come saranno da visitare quelle che seguiranno a Palazzo Barberini e al Maxxi su «Il Corpo Veggente» e «Il Corpo Politico» con le pagine del «corsaro». Tantissime le pubblicazioni, gli studi, le nuove edizioni che si sono riversate in libreria. Per non dire dei convegni, delle mostre, degli spettacoli.

Dunque, un centenario come tanti? Tutt’altro. L’effetto d’insieme non è affatto celebrativo nel senso ordinario e stancante dell’aggettivo. Basta un rapido giro nel web per cogliere nella ricorrenza qualcosa di insolito che, al di là dei distinguo sul valore artistico, avvicina Pasolini forse al solo Dante tra gli scrittori capaci di smuovere un sentimento diffuso di partecipazione e curiosità. Certo, c’è l’eterna suggestione complottistica e/o voyeuristica (il Corpo, appunto), ma si avverte anche altro. E lo dimostra il fatto che Pasolini non viene ricordato esclusivamente (e doverosamente) nelle grandi città (Milano ha offerto al Piccolo La lunga strada di sabbia di Tiezzi-Lombardi, e altro arriverà). Non solo nei «suoi» luoghi, da Udine e Codroipo a Bologna a Matera. Non solo a Firenze, Napoli, Bari... ma a Bolzano, Modena, Lecce, fino ai centri quasi minimi, fuori dalla biografia e dallo scandalo: Ortona, Soriano, Oristano, Ariola, Rho, Racalmuto, dove un convegno fa incontrare in questi giorni il corsaro con Sciascia... A ciascuno il suo Pasolini, ma forse nel piccolo si trovano i segnali d’amore più autentici. Delle tracce d’odio (come i recenti vandalismi al Teatro di Salerno intitolato a PPP), Pasolini avrebbe detto: «Io so i nomi». Idioti è il più sicuro.

 Lettera a Dagospia di Pierluigi Panza il 20 ottobre 2022.

Era l’inizio-metà anni Ottanta, io avevo già pubblicato alcune poesie ma, soprattutto, avevo preso la patente e credo che a lei servisse un autista per Milano e il Nord: per questo iniziò la nostra frequentazione. Alta, magra, poteva avere indifferentemente dai 40 agli 80 anni. Era sempre in un cappottino o in una giacchetta nera strettissima, le scarpe da uomo e il capello nerissimo e cotonato. 

Pasolini, come emerge anche dal catalogo della mostra del Palazzo delle Esposizioni di Roma “Tutto è santo” le voleva bene e lei ne voleva… soprattutto alla madre di Pasolini, Susanna Colussi. Il pudore dei sentimenti, allora, e non l’esaltazione del coming-out, oggi, credo impedisse a questa donna di esprimere un lato lesbico presente in lei, che era sposata con un notabile democristiano, il senatore Giulio Orlando. C’è una foto di lei col vestito da sposa: fa veramente ridere pensandola! Fu questo pudore, e non l’esternazione, a fare di lei una scrittrice.

Veniva da un’alta famiglia della borghesia ebraica ferrarese, il padre avvocato, la madre amante di Giacomo Matteotti: lei era stata arrestata dalle SS ed era scappata dall’università senza laurearsi. Aveva una casa a Bologna, dove si era incontrata con Pasolini prima di andare a Casarsa dove avrebbe voluto vivere con la di lui madre. Lì la Bemporad insegnò alla scuola per bambini messa su da Pasolini. 

Negli anni Ottanta era in declino poiché il Postmodern non era la sua misura, rimaneva, tuttavia, una sorta di prodigio letterario. Mille anni prima (nel 1958), lei ragazzina aveva pubblicato un unico libro di poesie, “Esercizi” - echi di Hölderlin e di Leopardi - che Pasolini le aveva recensito. Era così allampanata e preda della poesia che non ne scrisse più dandosi alla traduzione di Omero. Pubblicò qualche traduzione per la casa editrice “Le Lettere”, ma poiché per ogni verso ci voleva un decennio non fu prolifica! A Roma e anche a Milano, in quegli anni, c’erano ancora abitazioni in cui, di sera, qualche scampolo di demi monde in putrefazione si riuniva per serate letterarie. Si ospitavano strane poetesse dal nom de plume come Vitoria Palazzo o Antonietta Dell’Arte…

La Bemporad era la mattatrice non salottiera di quei salotti perché come sapeva declamare lei la poesia non c’era nessuno, nemmeno Carmelo Bene! Poteva declamare Omero in italiano o in greco indifferentemente, ma si concedeva solo a tarda, tardissima sera per i ritmi milanesi. Al ritorno stava in macchina a discutere per ore di un verso prima di salire a casa, un appartamentino dietro piazza Cinque Giornate. Lì, con il “malcapitato” si sedeva in cucina, dove non aveva niente in frigorifero, e continuava a parlare con voce sempre più maschile e roca, anche per la fatica. Era difficile riuscire a divincolarsi e tornare a casa all’alba. Il giorno, per lei, non era niente: era una da “Quelli della notte”. 

Avrebbe potrebbe essere la Yourcenar italiana se avesse scritto le “Memorie di Omero”, di pura invenzione. Ma era troppo persa nelle sue astrattezze e non aveva il minimo interesse a scrivere per giornali o per andare in tv. Andava a letto più o meno com’era vestita.

Si ritirò negli ultimi anni a Roma e quando morì fu sepolta al cimitero di Fermo. Il marito, che ora le è accanto, mi scrisse una lettera per ringraziarmi di un breve obituaries dove raccontava tutto l’amore che ebbe per lei e quanto lei, che oggi diremmo lesbica, gli fosse sempre stata accanto con inesausto amore. Imparate scrittrici, imparate.

Maria Berlinguer per “la Stampa” il 19 ottobre 2022. 

«Mi ha regalato un anello, dunque mi ama», dice Maria Callas sicura di poter "redimere" Pasolini dall'omosessualità. «Se una persona non è felice non ti interessa», gli scrive Oriana Fallaci, che all'amico rimprovera di essere picchiata per lettera e che dopo il suo brutale assassinio, ancora oscuro, cercherà in tutti i modi di scoprire la verità. E poi ancora l'amatissima mamma Susanna Colussi, la quasi vedova Laura Betti, custode della memoria, e Giovanna Bemporad. 

Sono le cinque protagoniste de Le donne di Pasolini, prodotto da Anele (Gloria Giorgianni) e Rai Documentari (direttore Fabrizio Zappi) che vede la narrazione di Giuseppe Battiston e la regia di Eugenio Cappuccio. Un progetto nato nel centenario della nascita dello scrittore. 

Si tratta di un docufilm di 90 minuti che è una specie di guida in cui Battiston, friulano, ci porta nei luoghi dell'infanzia di Pasolini e insieme un percorso narrativo teatrale di drammaturgia scritto sulla base delle lettere e di tutto il repertorio Rai. Con le testimonianze di Dacia Maraini ed Emanuele Trevi. 

«Volevamo partire dai suoi territori e dal rapporto con la madre, una relazione fondante che ha segnato tutta la sua vita - racconta Giorgianni -. Da lì abbiamo pensato alle donne più importanti che hanno segnato il suo percorso. È la mamma, interpretata da una bravissima Anna Ferruzzo, che incontra e presenta al pubblico le donne di Pier Paolo. L'obiettivo è raccontare la modernità del pensiero di Pasolini, soprattutto perché è l'intellettuale che ha dato voce alle periferie, agli ultimi. Tra questi c'erano senz' altro anche le donne». 

L'idea, prosegue la produttrice, è declinare attraverso la sua relazione con le donne il racconto degli emarginati. Prezioso il contributo di Maraini sulla visita alla mamma di Pier Paolo dopo il suo assassinio, quando la donna apparecchiò per tre lasciando il piatto vuoto per il figlio. «Io non ho avuto il coraggio di dire nulla» ricorda la scrittrice, che per far capire quanto fosse intenso il legame tra i due aggiunge un altro ricordo.

Pasolini telefonava alla madre tutte le sere. Così in una occasione, quando si trovava in Africa con Maraini e Moravia, si è fatto a piedi 50 chilometri per trovare un apparecchio in funzione e siccome la mamma gli aveva detto di avere un forte mal di testa, la mattina seguente aveva rifatto lo stesso percorso per avere sue notizie. «Siamo partiti dall'idea di questo piatto vuoto, una mancanza riempita - commenta Giorgianni -, mi piaceva uscire dal racconto dell'omicidio di Pasolini perché l'atrocità di quel delitto ha negli anni fagocitato il suo pensiero, la sua forza e il suo valore». 

Pasolini ha avuto per queste donne un amore vero.

Certamente ha amato Maria Callas. Per lui c'era anche un rapporto carnale, fisico, che non è mai arrivato al rapporto sessuale forse, come dice Maraini, perché visto il rapporto con la madre l'avrebbe vissuto come un incesto. Ma tutto il resto c'era. Aveva una grande sensibilità e conoscenza del femminile. E aveva un'attenzione costante per chi non ha un posto nel mondo, a volte perché troppo creativo e idealista. «Lui non era un arrabbiato, un rabbioso, lui si difendeva» spiega Maraini.

Il racconto parte dal Friuli perché modernità e radici sono un connubio indissolubile. Ecco allora che si vede un anziano che ha frequentato la scuoletta per analfabeti aperta da Pasolini a Versuta, ecco Casarza e i bellissimi paesaggi, ecco il lago di Grado mitico riferimento di Medea. 

Ed ecco Pasolini che parla attraverso il repertorio Rai. 

«Uno dei nostri obiettivi è sostenere la crescita del settore documentaristico italiano attraverso progetti di rilevanza culturale, caratterizzati da un racconto del reale innovativo e da storie capaci di suscitare un forte interesse», ricorda Fabrizio Zappi, direttore di Rai documentari. 

Nel film, spiega il regista Cappuccio, ci sono «cinque donne diversissime tra loro, che forse proprio per questo erano riuscite a coniugarsi con Pasolini. Il suo rapporto con il femminile, fondamentale per la radice materna, era senza implicazioni sessuali ma arrivava a un livello profondissimo - dice Cappuccio -. Queste donne hanno in comune la profondità e l'anticonformismo in un periodo storico nel quale l'essere donna era anche motivo di battaglia. Pasolini lo conoscevo profondamente a livello accademico - conclude il regista -, mi ha colpito immensamente la sua capacità non solo di qualità dell'opera ma anche di quantità.

È stato impressionante scoprire come sia stato capace di produrre in maniera direi rinascimentale pittura, poesia, romanzo, cinema». Le attrici scelte - Anna Ferruzzo, Carolina D'Alterio, Martina Massaro, Liliana Massari e Sara Mafodda - vengono dal teatro e hanno in alcuni casi una particolare somiglianza con le donne che interpretano.

Pasolini e la Storia: il poeta alla ricerca di radici e identità. Pier Paolo Pasolini e la Storia d'Italia che inevitabilmente innerva tutta la sua letteratura, passando dal dialetto vissuto come prima lingua sino ad arrivare allo sforzo costante di capire il presente passando dal passato. Matteo Sacchi il 19 ottobre 2022 su Il Giornale.  

Pier Paolo Pasolini e l'identità. Pier Paolo Pasolini e la Storia d'Italia che inevitabilmente innerva tutta la sua letteratura, passando dal dialetto vissuto come prima lingua sino ad arrivare allo sforzo costante di capire il presente passando dal passato.

Questi sono i temi che domani saranno discussi alla giornata di studi organizzata a Napoli dall'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa con il patrocinio del Comitato Nazionale per il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini e intitolata «Arte cinema e letteratura: storia e identità nazionale in Pier Paolo Pasolini».

Quello attorno al poeta di Casarsa sarà un dialogo multidisciplinare, che partirà alle 10 nella biblioteca Pagliara dell'Università, con relazioni che spazieranno dalla storia (L'abisso tra corpo e storia. Croce, Gramsci e i conti con l'ideologia) alla letteratura (L'anti-grand tour pasoliniano), dalla storia dell'arte (Roberto Longhi e Pasolini: Masaccio, i manieristi, Caravaggio e un'idea dell'Italia) al cinema (L'Italia profonda al cinema: da «Accattone» a «La ricotta»). Al tavolo dei relatori, coordinato da Alfonso Amendola, docente di Sociologia, si alterneranno sino alle 17 lo storico dell'arte Stefano Causa, lo storico del cinema Augusto Sainati, lo storico Eugenio Capozzi, gli italianisti Guido Cappelli, Nunzio Ruggiero, Carlo Vecce e Paola Villani e i giornalisti Alessandro Gnocchi e Antonio Tricomi.

Tra gli interventi segnaliamo l'interessante «La pelle del popolo: Malaparte e Pasolini» di Guido Cappelli. Mostra il legame sotterraneo e poco esplorato tra la poetica di Curzio Malaparte e quella di Pasolini. Per Cappelli sono entrambi: «testimoni/interpreti di quella crisi epocale che sta culminando, qui (in Occidente) e ora (nel tempo della guerra), nel caos biopolitico e postdemocratico, con la terza guerra guarda un po' che incombe. Crisi epocale, non altra è la diagnosi di entrambi. Il primo è figura o prologo del secondo: se l'uno è il testimone/interprete della sconfitta nella guerra mondiale, l'altro lo è della sconfitta nel dopoguerra insieme colgono l'esito culturalmente e moralmente devastante di quelle sconfitte».

Lo storico Eugenio Capozzi nel suo intervento sviscera il complesso rapporto in Pasolini tra la Storia e l'ideologia (marxista): «un poeta interiormente combattuto tra l'impulso a portare il buio seme della storia profonda e della cultura popolare italiana nella luce del riscatto sociale e politico, sotto la guida del nume protettore incarnato dal fondatore e martire del Pci, e la crescente convinzione che si sarebbe trattato di uno sforzo inutile e mal posto, in quanto la ricchezza di quella storia e di quella cultura stavano proprio nella loro diversità irriducibile, nella loro ostinata refrattarietà a essere inseriti organicamente negli schemi di un pensiero razionalista, illuminista, storicista, progressista».

Pier Paolo Pasolini ed i suoi molteplici linguaggi nel cinema. Ne parlano Paolo Mieli e il professor Lucio Villari a Passato e Presente, in onda oggi alle 13.15 su Rai 3 e alle 20.30 su Rai Storia. Redazione Spettacoli su La Gazzetta Del Mezzogiorno il 23 Settembre 2022

Grande sperimentatore di linguaggi, Pier Paolo Pasolini è stato innanzitutto un intellettuale capace di attraversare quasi tutti i generi e le forme espressive. Ne parlano Paolo Mieli e il professor Lucio Villari a Passato e Presente, in onda oggi alle 13.15 su Rai 3 e alle 20.30 su Rai Storia. Quando nel 1950 Pasolini si trasferisce a Roma, ha modo di conoscere i ragazzi che vivono nelle borgate, la loro allegria, la loro vitalità. È questo il mondo che descriverà nei suoi primi romanzi. A partire dal 1960, poi, scopre nel cinema un mezzo espressivo che si rivela adatto alle sue ricerche stilistiche e al suo bisogno di immediata comunicazione visiva, e debutta con Accattone nel 1961, che può essere considerato la trasposizione cinematografica dei suoi precedenti lavori letterari. È un’opera filmica nella quale insegue la sua idea di narrazione epica e tragica.

Ma Pasolini non è solo letteratura e cinema. Nella sua incessante e febbrile produzione abbraccia teatro, pittura, musica. Nel 1975 lavora al film Salò o le 120 giornate di Sodoma. È un film estremo, l’ultimo feroce attacco alla sempre più opprimente società dei consumi. L’idea di base trae ispirazione dal libro del marchese Donatien Alphonse François de Sade Le 120 giornate di Sodoma. Il film inoltre presenta riferimenti incrociati con l’extratesto dell’Inferno di Dante, presenti anche nello stesso de Sade.

Purtroppo Pier Paolo Pasolini non farà in tempo a vederlo uscire nelle sale cinematografiche perché la notte del 2 novembre 1975, nei pressi di Fiumicino (Roma), verrà assassinato.

Giampiero Mughini per Dagospia il 6 settembre 2022.

Caro Dago, oltre che essergli cugino Nico Naldini è stato un esegeta accurato di Pier Paolo Pasolini. Non lo ha mai celebrato, enfatizzato, divinizzato. S’è sempre attenuto ai fatti, alle opere per come erano davvero, ai rapporti tra le persone per come erano andati davvero. Naldini, e tanto per fare l’esempio più cocente, non ha mai avuto dubbi che ad uccidere Pasolini sia stato Pino Pelosi e questo nel contesto di un rapporto omosessuale che si stava sfrenando. Altro che la celebre sentenza emessa da Alberto Moravia, e cioè che Pasolini era stato “assassinato dalla borghesia”, sentenza che mandò su tutte le furie Livio Garzanti, editore del libro che la conteneva.

Ecco perché l’ho presa subito la nuova edizione della biografia che Naldini aveva consacrato a Pasolini alcuni anni fa e che ha pubblicato la Luni editrice, Pasolini, una vita. Beato lui, Naldini ha potuto accedere all’archivio personale di Pasolini, compitare una quantità enorme di lettere private, documenti inediti. Tanto che il suo libro è una sequenza puntualissima di quel che è stato scritto e pensato da gente determinata in quel momento determinato. 

E’ impressionante come sin dai primi momenti del suo arrivo a Roma, quando pure era soltanto un professorino che ci metteva non so quante ore al giorno a raggiungere la scuola dove insegnava, Pasolini trovi amici e interlocutori a profusione. Nell’epoca in cui non esistevano i telefonini e i social, i rapporti erano tra le persone reali o non erano. Anziché andar frugando le une o le altre imbecillità di chi si vuol fare notare su Instagram o su Twitter, Pasolini faceva delle grandi passeggiate a piedi con il poeta genovese Giorgio Caproni che era venuto a Roma e che abitava non lontano da una delle prime case romane abitate da Pasolini.

A un tempo in cui i rapporti tra le persone non erano quelli odierni, quando gente come me viene suppliziata dai messaggi Whatsapp di gente che mostra la copertina di un suo libro in uscita o magari la foto della pietanza che si accinge a divorare o magari la foto di sé stesso a sette anni, a quel tempo intendo gli esseri umani si scrivevano delle lettere. Ho detto delle lettere, non delle letterine buttate giù in fretta e furia. Quando Pasolini pubblica in poche copie i suoi primissimi libri di poesia, non solo Gianfranco Contini ne scrive con insuperata maestria ma poco dopo gli manda una lettera di un tale acume che uno di noi comuni mortali con quel materiale riempirebbe il primo capitolo di un libro.

E così via, per tutta la ricostruzione che Naldini fa della biografia di un Pasolini che si cimenta nella poesia, nella saggistica colta, nel cinema e da regista e da sceneggiatore. Gli scrivono Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda, Giorgio Bassani, Elsa Morante, Franco Fortini. Raccontano, interpretano, ammirano, duellano intellettualmente. Allucinante quando scoppia il caso di quel ragazzo che accusa Pasolini di essergli andato contro armato di pistola e di averlo derubato. A esprimere a Pasolini la sua solidarietà gli scrive nientemeno che Pietro Nenni. Cose d’antan.

Quando una quindicina di anni fa mi cancellarono dall’Albo dei giornalisti del Lazio dopo che io avevo detto loro che non mi rompessero i coglioni per avere io fatto una pubblicità in televisione, non uno dei giornalisti che erano stati miei colleghi nei tanti giornali cui avevo collaborato mi mandò due righe di solidarietà. Due righe. Nemmeno uno.

Pier Paolo Pasolini, assessore Gotor: «Serve una commissione d’inchiesta per risolvere l’omicidio». Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 14 Giugno 2022.

«L’omicidio di Pierpaolo Pasolini è un caso da risolvere. Servirebbe, finalmente, una commissione d’inchiesta». A lanciare l’idea di un’iniziativa parlamentare, affinché venga fatta luce sull’assassinio dello scrittore e regista, ucciso in circostanze ancora non del tutto chiare all’idroscalo di Ostia nel novembre del 1975, è stato l’assessore alla Cultura del Comune, Miguel Gotor, durante la presentazione del libro “Pasolini, un caso mai chiuso” scritto dall’avvocato Stefano Maccioni.

La proposta è emersa nel corso di un intenso dibattito che si è svolto martedì il 13 giugno del 2022 alla libreria Zalib. Il libro è stata l’occasione per discutere di una vicenda ancora disseminata di ombre. Pasolini, come ha stabilito una sentenza definitiva a nove anni e sette mesi di carcere per omicidio volontario, è stato ucciso la notte tra l’1 e il 2 novembre del 1075 da Pino “La Rana”, all’anagrafe Giuseppe Pelosi. Tuttavia diversi sono i lati oscuri ripercorsi nel libro.

Innanzitutto all’epoca si disse che la macchina di Pelosi, una Fiat 850 Coupé, fosse bianca. Nel 2011 è emerso che Pelosi è stato proprietario di questo modello, ma il colore era azzurro, non bianco. Era lui a guidare? Poi, altro mistero: l’anello che Pelosi disse di aver smarrito vicino al corpo dello scrittore ma che non è mai stato ritrovato. Che fine ha fatto quell’anello?

Inoltre, alcuni testimoni non sarebbero mai stati ascoltati. Infine, come sostengono i familiari dello scrittore, dal maglione indossato da Pasolini quella notte sarebbe possibile ricavare il dna della persona da cui fu aggredito e ucciso. Temi trattati in modo documentato nel libro dall’avvocato Maccioni, che da sempre rappresenta i parenti dello scrittore. Spunti che hanno spinto l’assessore a chiedere la formazione di una Commissione d’Inchiesta.

Marco Belpoliti su doppiozero.com articolo postato il 15 settembre 2014.  

Lui c’era. Lo incontrava, gli parlava, in un novero di anni non poi tanto breve. Pasolini era una presenza usuale nelle tavolate dell’epoca, quelle in trattorie e pizzerie romane, che Alberto Arbasino descrive nel suo libro, capolavoro della sua post-maturità, Ritratti italiani (Adelphi).  

Con Moravia, la Morante, gli altri amici romani, si discuteva, si litigava, ci si divertiva parecchio, racconta. Nelle venticinque pagine che Alberto Arbasino dedica al più famoso intellettuale italiano della seconda metà del XX secolo, uno dei più lunghi ritratti, si comincia con un’intervista del 1963, in precedenza pubblicata in Sessanta posizioni, libro uscito nel 1971.

Lì c’è una frase che esprime la situazione di Pasolini all’epoca, frase che suona anni Settanta e non Sessanta, come è datata nei Meridiani, dove è riportata: “L’Italia è un corpo stupendo, ma dovunque lo tocchi o lo guardi, vedi, attorcigliate, le spire viscide e nere di un serpente, l’altra Italia. Come si può fare l’amore con un corpo avvolto da un serpente? Così comincia la castità”. Mancano solo quattro anni alla sua barbara uccisione. Anni cupi per il poeta.

Siamo a Mantova, in un albergo, parlo con Arbasino di Pasolini. A Venezia è stato proiettato il film di Abel Ferrara dedicato a PPP, che ricostruisce l’ultimo giorno di vita dell’autore di Salò-Sade. Non l’abbiamo visto né io né lui. Su “The Observer” è uscito poche settimane fa un articolo di Ed Vulliamy, che da giovane fu a Firenze nel 1973, membro di “Lotta Continua”, dedicato al film di Ferrara. Si parla ancora dell’uccisione di PPP per ragioni politiche: a causa del romanzo che stava scrivendo, Petrolio, per la connessione tra la morte del poeta e l’uccisione di Mattei, con servizi deviati, neofascisti, bombe, oro nero.

Questa estate è uscito sul supplemento culturale de “il Sole-24 Ore” un articolo di Graziella Chiarcossi, la nipote di Pasolini, che spiegava a chiare lettere che non c’è stato nessun furto del manoscritto di Petrolio, una delle prove proposte negli ultimi anni per sostenere la vicenda dell’uccisione politica di PPP. Certo, ci sono ancora molte cose oscure nella vicenda. Pelosi, l’assassino reo confesso, non ha detto tutta la verità, e ha più volte parlato ingarbugliando la storia di quelle ultime ore. Parlo ancora una volta di Pasolini con Arbasino perché nelle sue pagine ci sono due o tre cose che meritano di essere riprese e commentate.

Perché tanto spazio a Pasolini? Non ne dai così tanto neppure a Calvino, molte volte citato nel libro.

Perché Pasolini è stato un’icona. E lo è diventato soprattutto grazie ai film, così visti all’estero, mentre invece per quello che riguarda Ragazzi di vita o Una vita violenta erano considerate delle narrazioni dialettali, romanesche, né più né meno come i racconti milanesi di Testori. Bisogna pensare a cosa faceva Gadda, il nostro indiscusso maestro, che nello stesso giro di frase includeva il sublime e il pecoreccio, il linguaggio tecnico e ingegneresco, demodé o aggiornato. Pasolini e Testori si limitavano a tradurre i loro linguaggi. 

Vuoi dire che ti sembra più riuscito il cinema della narrativa. Non è un giudizio da specialista, da addetto ai lavori? Non lo leggono in tanti?

No, non credo. Mi domando quanti siano oggi i lettori di quei due libri.

Lo scandalo di Ragazzi di vita, il processo lo avevano aiutato molto ad affermarsi come autore.

Certo, ci furono tanti scandali, denunce e processi, un’infinità che hanno accresciuto la sua fama, processi spesso intentati per ragioni pretestuose. 

Quanto ha contato e ancora conta lo scandalo nella costruzione dell’icona?

Moltissimo, uno scandalo che riguardava allo stesso tempo i cattolici, i comunisti e persino i lettori del “Corriere della Sera”. Uno scandalo divulgatissimo. Riusciva a provocare scandalo con i costumi prevalenti, così come lo suscitava con la religione di Stato e con ideologie alla moda. Turbare e scandalizzare i praticanti con le loro stesse pratiche, come ho scritto nel libro.

La frase che riporti nella tua intervista, quel fare l’amore con il corpo dell’Italia, fa pensare ai ragazzi con cui andava Pasolini a Roma…

Beh, allora, negli anni Settanta i ragazzi avevano soldi e automobili, oltre che ragazze. L’arrivo di una Alfa Romeo in una piazzetta o strada non era più un avvenimento, l’offerta di una pizza faceva sorridere. Senza dubbio era disperato. 

Oggi alla presentazione del libro hai detto che Pasolini si sentiva invecchiare…

Certo, invecchiare era un dramma per lui. Non aveva più la prestanza di prima. Non giocava più a calcio con i suoi coetanei, ma con ragazzi che avevano la metà dei suoi anni; il corpo che invecchia era diventato certamente un problema.

Nel libro ricordi che i temi della mutazione antropologica, gli articoli in Scritti corsari, e prima su “il Corriere”, derivano da questa delusione per la perdita di seduzione, dalla perdita dei ragazzi di vita con cui andava nelle sue notti.

Era disperato per questo, ma è anche stato frainteso, perché chi rimpiangeva all’epoca l’Italia frugale del passato sembrava allora un nostalgico del fascismo. Le motivazioni autobiografiche delle sue anacronistiche invettive contro la società dei consumi e del benessere rendono ancora più straziante la tragica fine di Pier Paolo. 

C’è un passo del tuo ritratto che mi ha colpito. Là dove tu parli del vittimismo masochistico genuino e profondo di Pasolini, “ostentato e strumentale per la carriera ma molto autentico, presentandosi insieme come capro espiatorio e agente provocatore – o come capro espiatore, sempre più eretico e martire; e poi aggiungi che tutto questo in ambienti dove il sesso e soprattutto la sodomia venivano vissuti come commedia e non come tragedia”.

Pier Paolo col suo temperamento drammatico e ferito visse la sodomia come tragedia e non come commedia. Non poteva certo fare il capro espiatorio nella letteratura, all’epoca ricca di vecchie zie delicate e velate, in trepida attesa di cose osé. E anche non poteva fungere da vittima o dissacrante scandalizzatore in quei set pieni di elettricisti e macchinisti romaneschi trascinati allora da romantiche figure dietro i cespugli o fra le quinte… 

Da dove nasce questa propensione al vittimismo?

Forse nasce in Friuli, nell’infanzia. Se si pensa che Casarsa è poi diventata Casarsa della Delizia, ed è il luogo dove ha subito il processo per comportamenti lascivi, come si diceva un tempo. 

Nel libro parli degli ultimi tempi della vita di Pasolini, della delusione di questo mondo cambiato.

I ragazzi non lo davano più, se non a pagamento. Scompare l’Eden trovato a Roma. Pasolini aveva ragione parlando di omologazione che metteva insieme al terrorismo, poi il terrorismo passa di moda e l’omologazione si estende e diventa omogeneizzazione. 

Tu hai scritto in un articolo, che qui nel libro non c’è, che nel caso di Pasolini che va coi ragazzi si trattava di pedofilia.

Sì. Era pedofilia, ma era anche un termine che allora non esisteva. Non c’era. Si tratta di un termine usato dopo.

 Tu dici che a prenderlo sul serio erano solo le due chiese, i comunisti e i cattolici: scandalizzati ma anche attirati da lui.

Ma certo. Nel caso dei comunisti soprattutto erano attirati dal suo non conformismo, perché era controcorrente. I comunisti erano affascinati da questo. 

Ma i comunisti erano dei puritani rispetto al sesso.

Certo. 

E i cattolici non erano forse scandalizzati dall’omosessualità di Pasolini, dalla sua pedofilia? In un articolo che ricordo, hai parlato dei preti, dei monsignori in Friuli, pedofili, che facevano lo stesso, ma allora non se ne parlava.

Lo si faceva normalmente nelle canoniche, perché una grande maggioranza dei preti così toccavano il sedere dei bambini.

La personalità masochista di Pasolini faceva vedere tutto questo come tragico, scrivi.

Virava in tragedia quello che era stato commedia nelle chiese e nei seminari. 

Perché diventa una tragedia, ne aveva i motivi per questo?

Questa era la sua personalità. Pasolini, come Testori, erano tesissimi e inquietissimi. Afflitti dal senso del peccato, trasformavano in sfida quello che altri ambienti indulgenti e ironici vivevano la sodomia come divertimento e non come tormento: monsignori mondani, diplomatici sorridenti, signore con villa, grandi borghesi con yacht, letterati in blazer, la società gin-and-tonic. 

In un paio di articoli comparsi in Scritti corsari, e prima in rivista o rotocalco, Pasolini spiega che lui non è gay, anche se non usa quel termine, e non credo neppure avrebbe amato molto i matrimoni omosessuali.

Neanche per sogno. Figurarsi, non avrebbe amato neppure quelli che si chiamavano i giovani mariti che allora si sfogavano prima di andare a casa dalle giovani mogli. Andava solo con i ragazzini, si faceva picchiare dai gruppi di ragazzini. 

Il tema della sua uccisione trattato da film di Abel Ferrara. Si parla della sua morte come un delitto politico. Non ti pare che questo sia un modo per non prendere in considerazione questi aspetti sessuali di Pasolini?

Certo. Il fatto delle mancanza di documenti... Tanti a dire: Io so, io so, io so… Ma allora dillo, allora scrivilo. 

Tu pensi come Nico Naldini che il delitto sia avvenuto in un contesto sessuale?

Allora scrissi un articolo sul “Corriere” poco dopo la morte di Pier Paolo, dopo la disgrazia, dove si diceva che ci sono molti aspetti oscuri nella sua morte, ma forse ha ragione Naldini nel dire che hanno a che fare con quello. 

Non è stato ucciso solo da Pelosi, questo sembra oramai probabile. Ma parlare del complotto politico…

Bisogna vedere se aveva l’abitudine di andare in quei luoghi più o meno spesso, se sono stati seguiti. Su questo si possono fare delle congetture. Non lo so. 

Tu sei stato amico di Pasolini. Era un’amicizia fondata su che cosa?

Su un’affinità letteraria. Come con Parise e Calvino, ad esempio, è stata un’amicizia che non c’entrava nulla con le storie di culo.

Cosa ti manca di Pasolini?

I film, perché avendo visto Salò sono rimasto perplesso. Un film che mi convince poco. 

Oggi Pasolini riuscirebbe a capire qualcosa del gran caos in cui viviamo immersi?

Dubito che riuscirebbe a ricavarne una qualche spiegazione o interpretazione. Tutto è diventato complesso. 

Arbasino è visibilmente stanco. Ne ha ben donde. Ha ottantaquattro anni e oggi ha parlato per quasi un’ora al Festival della Letteratura, poi ancora in radio, e un’altra intervista, prima di sederci qui nella stanzetta dell’albergo a riparlare di Pasolini. Tuttavia le sue risposte su Pasolini sono sempre pungenti e insieme affettuose e tenere, come nelle pagine del libro. Leggetele, troverete davvero un autore che non è solo un grandissimo stilista, come ha scritto, per altro giustamente, qui Giancarlo Leucadi – lo è, per fortuna, perché Arbasino è prima di tutto come lo dice e non quello che dice.

Le pagine sul poeta, sull’autore di Petrolio, sono stupende, come quelle su Gian Giacomo Feltrinelli, altra figura discussa, ma senza dubbio straordinaria della nostra storia recente. Leggete tutto questo libro, perché non solo c’è un’Italia scomparsa, e poi personaggi incredibili, ricordi, tanto gossip acuto e spietato, affascinante e brillante, ma perché questa di Ritratti italiani è l’autobiografia di uno dei nostri maggiori scrittori, e insieme il manuale su cosa deve e non deve fare un intellettuale (l’ha detto un acuto amico la sera stessa con lui). 

Insomma, un libro che è destinato a restare per qualche generazione almeno. Non ultimo il fatto che è uno dei libri più venduti (e probabilmente letti) di Arbasino. Va da Agnelli Gianni a Zeri Federico. Non tutta l’Italia, dal 1960 al 2010, ma molta. Autoritratto italiano.

Walter Siti per Dagospia il 13 maggio 2022 – Siti ha curato i due ultimi Meridiani delle opere complete di Pasolini. Il suo ultimo libro: “Quindici riprese - Cinquant’anni di studi su Pasolini” (Rizzoli)

Credo che La ricotta sia il più bel film di Pasolini nel senso del più perfetto e dominato dalla grazia, da una felicità creativa che vien voglia di definire mozartiana. A questo, certo, contribuisce la sua brevità: non a caso gli altri due miei preferiti sono altri due mediometraggi (Che cosa sono le nuvole ? e La terra vista dalla luna) girati per quei “film a episodi” che erano una specialità italiana degli anni Sessanta. 

Ma la brevità da sola non basterebbe di sicuro, se non fosse accompagnata da una sorta di superiore noncuranza che permette di dire cose serie senza perdere leggerezza e quasi senza accorgersene. E quali sono queste cose serie? 

La prima è uno sguardo finalmente spietato nel giudicarsi da fuori in quanto artista esteta e decadente. All’uscita di Mamma Roma aveva discusso con Arbasino se la morte di Ettore sul letto di contenzione fosse più ispirata a Mantegna o a Caravaggio, aveva chiamato Longhi a testimone che il suo amore per l’antica pittura si doveva considerare “un fatto stilistico interno, non una ricostruzione di quadri!”.

Qui invece Pasolini si mette in scena nella figura del “reggista” che ricostruisce quadri manieristi proprio secondo la lezione di Longhi e di Briganti; si prende per i fondelli con allegria perché si sente tra amici. La voce di Bassani che doppia Orson Welles pronuncia parole che scendono negli anfratti dell’inconscio (“ed io, feto adulto, mi aggiro/ a cercare fratelli che non sono più”), mentre Laura Betti fa la diva che più diva non si può (“tesoro, se non si gira subito io me la batto”).

Fortini lamentava, giustamente e moralisticamente, che Pasolini avesse parlato così tanto di poveracci e pochissimo del mondo del cinema: qui lo fa ma non lo fa pesare nemmeno a se stesso, l’ironia è anche esorcismo. Le contraddizioni svaporano nei piccoli incidenti del set, nella simpatia dei figuranti borgatari; se l’intellettuale sceglie musiche snob (Scarlatti ma non Domenico bensì il padre Alessandro, assai meno conosciuto), i ragazzi della troupe ballano il twist (però non un twist qualunque, l’Eclisse Twist le cui parole erano state scritte da Antonioni); colui che si autodefinisce “una forza del Passato” è attratto dalla passione popolare per la modernità.

Pasolini si mostra nell’atto di creare, e questo (di nuovo senza parere) comincia a risolvere un’impasse che lo aveva bloccato negli anni immediatamente precedenti; come poeta aveva perso la metrica, come intellettuale stava perdendo la fede nel marxismo, come uomo si sentiva travolto dal rancore e dall’aridità.

In alcuni versi scritti mentre girava Mamma Roma comincia a capire che l’exit strategy si può trovare nell’ibridazione tra letteratura e vita, sporcando la forma con l’attesa della forma, in una aurorale intuizione delle possibilità del non-finito. 

La sceneggiatura stessa, se la consideriamo opera d’arte autonoma, è un testo che ha bisogno di essere integrato da quel che è esterno a sé (le immagini); proprio nel testo della Ricotta, come poi lo pubblicherà in Alì dagli occhi azzurri, c’è uno stupendo tour de force longhiano per descrivere il rosso e il verde dei panneggi di Pontormo, una ventina di righe di prosa d’arte per illustrare un oggetto che nel film si vede per pochi secondi.

Il film allora può sentirsi più libero perché la letteratura fa il lavoro sporco, quello della Bellezza, da un’altra parte. E’ questa libertà che incanta nella Ricotta film, anzi filmetto: una rivoluzione formale che celebra qui, ingenuamente, il proprio battesimo.

C’è nel film qualcosa di sfacciato e aggressivo: Pasolini risponde alla sensazione di esser preso di mira come capro espiatorio (sta ancora vivendo le conseguenze dell’assurdo episodio del Circeo) ma questa volta non recita da vittima, anzi assale a sua volta sottolineando le provocazioni (“l’Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa”); tratta da servo il malcapitato giornalista di “Tegliesera”, a cui dà il nome di un magistrato che gli stava sui coglioni.

Ha voglia di ridere e non si sottrae a un comico facile, dalla fame atavica di Pulcinella fino a Charlot o meglio a Ridolini. Le ufficialità della religione franano miseramente sotto gli inconvenienti del set e l’implacabile umorismo romanaccio; il realismo trascolora in parodia e gli frutterà un’accusa di vilipendio alla religione di Stato (con conseguente sequestro del film).

Nessuna atmosfera cupa, però (come per esempio avverrà nel diavolo che caca monaci nei Racconti di Canterbury), anzi un’adesione agli impulsi creaturali; il vero santo è Stracci, è lui dimenticato sulla croce il vero Cristo. Un povero cristo che incarna il Sacro, contrapposto al Religioso. Questa è l’altra cosa seria che ci dice il film, nella sacralità delle inquadrature finali e nel famoso “segno della croce sbagliato” del protagonista Mario Cipriani, che tocca prima la spalla destra poi la sinistra.

Il Pasolini della Ricotta è un quarantenne che non ha paura, che ha assorbito la depressione e sta rilanciando perché si sente forte, il nuovo mezzo espressivo gli apre orizzonti entusiasmanti. Poi si appesantirà, già nel Vangelo sarà un po’ inibito dalla tradizione pittorica e dal bisogno di “rifarsi una onorabilità”. 

Qui, con un soggetto veloce buttato giù alla brava, già offerto a un altro produttore che se n’era spaventato, si sente libero di scherzare anche sulle proprie tare cattoliche e sui propri sensi di colpa; il processo alla Ricotta gli costerà la rinuncia a un film sull’Africa a cui teneva moltissimo, e che Alfredo Bini non sarà più disposto a finanziare.

Ma il rischio (con le conseguenti delusioni e disavventure) è in questo momento un colore in più della vita, ci si può commuovere su Stracci e seguire ridacchiando il Santo platinato e frocio che si infratta con le giovani comparse. Il ritmo mozartiano significa capacità di non escludere nulla di ciò che è umano, con in corpo una gran voglia di innamorarsi: sul set della Ricotta incontra per la prima volta un quattordicenne figlio di calabresi immigrati – si chiama Giovanni Davoli, detto Ninetto.

DAGONOTA il 7 maggio 2022.

Quando a una certa ora della notte il sonno stenta ad accompagnarti in camera da letto e cominci a cercare sulle piattaforme qualcosa di eccitante ma che non sia tale da scavallare la mezzanotte e trovi sulle sempre benedetta Mubi dedicata al cinema d’autore, all’interno di Prime Video, “La Ricotta” di Pasolini, quarto episodio del film RoGoPaG (gli altri tre sono firmati da Godard, Rossellini e Gregoretti), ebbene, davanti a quel capolavoro inatteso, vorresti che il film non finisse mai.

Perché di colpo comprendi che l’opera più travolgente e sconvolgente che squarcia il buio del nostro presente è datata 1963 e ripescandola rappresenta anche il modo migliore di celebrare il centenario di Pasolini, qui autore di un film perfetto e politicamente devastante. 

La voce dello scrittore fa da prefazione al suo film: “Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sentiranno colpiti infatti cercheranno di far credere che l’oggetto della mia polemica sono la storia e quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e che i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti”. 

Incuriosito e sorpreso googlo “La ricotta” e mi succhio la trama su Wikipedia: “Nella campagna romana, una troupe è impegnata nelle riprese di una passione di Cristo. Stracci, la comparsa che interpreta il ladrone buono, regala ai propri familiari il cestino del pranzo appena ricevuto dalla produzione. Essendo affamato, si traveste da donna per rimediare un secondo cestino, che viene mangiato dal cagnolino della prima attrice del cast. Sul set giunge intanto un giornalista che intervista il regista; terminata l'intervista, il giornalista trova Stracci che accarezza il cane e glielo compra per mille lire.

Con i soldi, Stracci corre dal "ricottaro" dei dintorni a comprarne tutte le rimanenze per sfamarsi, ma viene chiamato sul set e legato alla croce per la ripresa dei lavori; alla successiva interruzione, corre a mangiare la ricotta e, sorpreso dagli altri attori, viene invitato ad abbuffarsi con i resti del banchetto preparato per l'ultima cena. Al momento di girare la scena della crocifissione, muore di indigestione sulla croce. Il regista, senza ombra di commozione, commenta: "Povero Stracci. Crepare... non aveva altro modo per ricordarci che anche lui era vivo...". 

Affamato di “Ricotta”, in completa estasi visiva, inizio a vedere il film mentre azzanno sul sito, centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it, il testo di Massimiliano Valente: “Un altro film fuori dagli schemi di una rappresentazione tradizionale e di una iconografia asservita. Un altro lavoro, dopo Accattone e Mamma Roma, nel quale il fine primo dell’autore è quello di trasmettere messaggi politico-sociali; nel quale non sono da sottovalutare tuttavia alcuni elementi che cercherò qui di seguito di mettere in luce.

Vi sono alcuni segni “forti” della grande ricchezza culturale di Pier Paolo Pasolini:

le citazioni figurative (l’accostamento alle pale d’altare di Rosso Fiorentino e del Pontormo);

i richiami filmici che ha inserito nella sua opera (alcune sequenze accelerate sia nelle immagini sia nella musica ricordano il film muto e in particolare il primo Chaplin, amatissimo da Pasolini);

l’utilizzo sempre sapiente della musica: un Dies Irae arcaico, un Sempre libera degg’io dalla Traviata di Verdi – titolo oltremodo significativo se solo si consideri l’effettivo grado di libertà dei figuranti e di Stracci, il protagonista che recita la parte del Ladrone buono (e ancor più significativo se si fa attenzione alla trasformazione subita da quest’ultimo brano: una grottesca, quasi parossistica accelerazione che trascina la musica in un’irrefrenabile accelerazione che si avvita su se stessa…). 

È il terzo film di Pasolini e in esso, ancora una volta, il registra privilegia una storia che fa capo agli strati più umili ed emarginati della società – tutte le comparse, i generici, i figuranti del “film nel film” la cui storia viene narrata (e che rappresenta la Passione di Cristo) sono dei sottoproletari, dei “morti di fame” in senso letterale, come ci dirà lo stesso Pasolini attraverso l'”enorme mangiata” di ricotta rappresentata quasi a conclusione del film e della vita stessa di Stracci. 

Ma compare anche la borghesia, nei panni rozzi e volgari del produttore e del suo entourage (avvistiamo Tomas Milian, Andrea Barbato, Giuliana Calandra, Adele Cambria, Elsa de’ Giorgi, Gaio Fratini, John Francis Lane, Letizia Paolozzi, Enzo Siciliano). E viene anche “messa in scena” l'”integrazione sociale” cui sembra essere pervenuto il regista “marxista” (interpretato da Orson Welles)”. 

Continua Valente: “La pellicola fu sequestrata con l’imputazione di “vilipendio alla religione di Stato” (1963): nelle numerose pagine di questo sito se ne parla molto ampiamente. Ne seguì un processo nel quale, tra l’altro, il Procuratore della Repubblica Di Gennaro presentò ai “cattolici benpensanti” il film come “il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio”.

Sull’onda delle vicissitudini giudiziarie, al film saranno apportati alcuni tagli: le tre ripetizioni de “la corona!”, lo spogliarello della generica che interpreta la Maddalena, la risata dell’attore generico che interpreta Cristo; si sostituisce l’ordine “via i crocefissi!” con “fare l’altra scena!”, l’espressione “cornuti” con “che peccato”, la frase finale “povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” con “povero Stracci! crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”! 

Soltanto nel maggio 1964 la Corte d’appello di Roma, accogliendo il ricorso di Pasolini, assolverà il regista perché “il fatto non costituisce reato”.

Le critiche e le motivazioni della persecuzione giudiziaria, come Pasolini stesso aveva previsto, erano dettate dalla malafede. Pasolini aveva diretto, in effetti, attraverso questo film, un attacco frontale nei confronti della borghesia e questo era il motivo vero che scatenò ancora una volta la canea nei suoi confronti. 

Il senso di questo attacco è contenuto essenzialmente nelle parole qui sotto riportate, pronunciate dal regista-Orson Welles e dirette al giornalista che gli chiede una intervista: 

Giornalista: “Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”

Regista: “Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”

Giornalista: “Che cosa ne pensa della società italiana?”

Regista: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.”

Giornalista: “Che cosa ne pensa della morte?”

Regista: “Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione.” 

Il regista-Orson Welles, tenendo tra le mani il libro “Mamma Roma”, legge una fulminante poesia di Pasolini (Io sono una forza del passato…da ''Poesia in forma di rosa'') 

Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle chiese,

dalle pale d’altare, dai borghi

abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,

dove sono vissuti i fratelli.

Giro per la Tuscolana come un pazzo,

per l’Appia come un cane senza padrone.

O guardo i crepuscoli, le mattine

su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,

come i primi atti della Dopostoria,

cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,

dall’orlo estremo di qualche età

sepolta. Mostruoso è chi è nato

dalle viscere di una donna morta.

E io, feto adulto, mi aggiro

più moderno di ogni moderno

a cercare fratelli che non sono più

Dopodiché, Orson Welles/Pasolini inizia a perculare il giornalista (mentre quest’ultimo idiotamente ride): 

“Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste… Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione… e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale… Addio.” 

In un breve scritto del 1961, Pasolini così si espresse: “Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando [La ricotta] ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di “imitatio Christi”, quell’irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono.  

Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l’esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene”. (Angela Molteni, pasolini.net). 

Citazioni tratte da AA.VV., Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, a cura di Laura Betti, Garzanti, Milano 1977. Alfredo Bini, produttore del film, deponendo al processo per vilipendio contro la religione dello Stato, intentato dal P.M. Di Gennaro contro Pier Paolo Pasolini, disse: 

‘’La ricotta è una denuncia della decadenza morale dell’uomo contemporaneo. Pasolini si serve di uno dei simboli del cristianesimo, la passione di Cristo, per rappresentare, attraverso l’immoralità della troupe di quel set cinematografico, il vero Cristo: Stracci. Stracci ha una duplice funzione: rappresenta il sottoproletario sacrificato al vuoto borghese, e rappresenta l’incarnazione reale e contemporanea del Cristo. Stracci viene sacrificato, condannato a morte dalla ferocia di un mondo gretto e teso al consumo a tutti i costi.

Dirà Pasolini di questo film: “L’intenzione fondamentale era di rappresentare, accanto alla religiosità dello Stracci, la volgarità ridanciana, ironica, cinica, incredula del mondo contemporaneo. Questo è detto nei versi miei, che vengono letti nell’azione del film […]. Le musiche tendono a creare un’atmosfera di sacralità estetizzante, nei vari momenti in cui gli attori si identificano con i loro personaggi. Momenti interrotti dalla volgarità del mondo circostante. […] 

Col tono volgare, superficiale e sciocco, delle comparse e dei generici, non quando si identificano con i personaggi, ma quando se ne staccano, essi vengono a rappresentare la fondamentale incredulità dell’uomo moderno, con il quale mi indigno. Penso ad una rappresentazione sacra del Trecento, all’atmosfera di sacralità ispirata a chi la rappresentava e a chi vi assisteva. E non posso non pensare con indignazione, con dolore, con nostalgia, agli aspetti così atrocemente diversi che una sì analoga rappresentazione ottiene accadendo nel mondo moderno”.

Pasolini fa largo uso di riferimenti a pittura e letteratura. Le Deposizioni del Rosso Fiorentino e del Pontormo vengono prese a esempi figurali; il Dies Irae accompagna molte scene del film; Orson Welles recita una poesia dello stesso Pasolini. Il film è girato tra la via Appia Nuova e la via Appia Antica presso la sorgente dell’Acqua Santa nell’autunno del 1963. Sullo sfondo le infinite distese dei palazzoni delle borgate romane, le stesse borgate di Ragazzi di vita, di Tommasino, di Accattone, di Mamma Roma, la stessa umanità antropologicamente identificata con i sottoproletari, ma un diverso approccio autobiografico e religioso. Quel set rappresenta per Pasolini il tempio invaso dai mercanti. 

Il testo di Massimiliano Valente, si conclude così: “Il film fu accolto con freddezza dalla critica, e la ragione va ricercata nelle parole di Moravia:

“La chiave del mistero va ricercata, secondo noi, oltre che nell’impreparazione culturale di molti critici, anche nella ingenua mancanza di tatto di Pasolini. 

Diamine: il regista nell’intervista dichiara: ‘L’Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d’Europa’, ed ecco che scontenta così i partiti di destra come quelli di sinistra. Poi, peggio ancora, Orson Welles rincara: ‘L’uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista, ed ecco scontentati tutti quanti. L’Italia del passato, infatti era il paese dell’uomo, in tutta la sua umanità; l’Italia di oggi, invece, è soltanto il paese dell’uomo medio”.

Fulvio Abbate per Dagospia l'11 maggio 2022.

Caro Robertino, ti do un dolore: non sei l’unico a ritenere “La ricotta”, lo dico con parole semplici, il più bel film di Pier Paolo Pasolini. Una macchinina poetica perfetta, carburazione elegiaca straordinaria, un aggeggio cinematografico composto, disegnato con il doppio decimetro, con il cacciavite, appunto, della sua poesia.  

Su tutto, la corona di spine destinata alla scena della crocifissione, custodita dagli attrezzisti dentro un cartone di salsamenteria o forse un cestino destinato al pranzo della troupe, marchio “Federici”, lì Roma trova il suo assoluto.

Così come l’intera scrittura del film, perfetta come un componimento mozartiano. A proposito di Mozart, Pasolini ne riteneva la musica segnata da “allegria funebre”. Forse lo stesso sentimento che trovi ne “La ricotta”.   

Certo, noi - io, tu e molti altri - di quel suo lavoro riconosciamo una sincerità espressiva assoluta, che suscita tenerezza, di più, compassione come il bambino del portinaio che, d’inverno, fa i compiti nel buio della guardiola.    

Straordinari i figuranti accampati sul set, e le comparse, gli angeli, cherubini e serafini, che ballano il twist, nel modo più rionale, come fossero davanti ai jukebox di un baretto di allora o piuttosto nei locali della sezione del Partito comunista italiano di Pietralata, in occasione della festa de l’Unità del 1963; Pietralata è il quartiere che vanta la squadra “comunista” dell’Alba rossa. 

Pochi film sanno essere così cristologicamente perfetti come “La ricotta”, molto di più del “Vangelo Secondo Matteo”, sempre suo, con Mario Cipriani, Stracci, il protagonista, faccina da manovale preso, “capato”, direbbero tra i banchi di Porta Portese, dallo smorzo della vita romana.

Per i dettagli filologici, aggiungiamo che Pasolini nel film omaggia ora Rosso Fiorentino ora Pontormo ricostruendone, come in un tableau vivant, la deposizione e la crocifissione. Perfino le forzature, le voci dell’aiuto regista che urla: “Inchiodateli!”, “Schiodateli!” sono lì perfette, assomigliano a loro volta alle fermate della Via Crucis che tra acquasantiere e confessionali di noce scura costellano le pareti delle chiese di borgata, solitamente affidate a modeste mani di artisti che stilizzano tutto come farebbe Bernard Buffet.

Nel film, lo si è detto, c’è un manifesto ideologico pasoliniano o forse si tratta di una semplice constatazione antropologica, affidato a un Orson Welles seduto nella sua sedia da regista, Pasolini gli fa dire infatti cosa pensa dell’Italia: "Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d'Europa." 

Il film è del 1963, anno del varo del primo governo di centro sinistra, nonché di fondazione del movimento letterario omonimo, il Gruppo 63, appunto. I socialisti di Nenni, in quei giorni, sulla tessera del loro partito, accanto a falce martello libro e sole nascente, vollero mettere anche il disegno di un’autostrada, e l’“Avanti!” titolò: “Da oggi ognuno è più libero”.  

Nel 1991, Laura Betti pubblicò un libro dedicato al cinema di Pasolini, “Le regole di un’illusione”, nel capitolo dedicato a “La ricotta”, citando il precedente del “Vangelo”, Pasolini scrive che il film è “una variante della stessa suite come può essere allegro rispetto all’adagio”, e parla di Stracci come di “un santo”, c’è poi il trattamento e il racconto dei processi subiti.

Alfredo Bini, il produttore, racconta di avere preso a pugni Pasolini perché questi, nottetempo, si presentò alla “Fono Roma” in fase di doppiaggio per modificare il cognome del giornalista ottuso che intervista Orson Welles, utilizzando con quello di un giudice che lo aveva denunciato per oscenità, Pedote o Pedoti. Bini racconta che si menarono di brutto.

Con un trenino degli anni Cinquanta messo a disposizione dalle ferrovie, era il 1995, andammo a Ciampino per ricordare Pasolini nel ventennale della morte. Prima di raggiungere la trattoria per festeggiare, appunto, con una ricotta offerta dal Fondo, si svolse una partita di calcio, sempre in ricordo di Pasolini: politici contro magistrati. 

In campo, tra i politici Veltroni e D’Alema, tra i magistrati invece Gherardo Colombo. Quel giorno, le telecamere di “Striscia la notizia” colsero il tic di D’Alema che soffiava sui pugni chiusi, e ne nacque un tormentone televisivo di cui forse qualcuno ha ancora memoria.  

C’erano Franco Citti, Ninetto Davoli e anche Mario Cipriani. Per l’occasione, gli raccontai che il mio amico Mariano l’aveva incontrato davanti a un’autoscuola a Talenti: “Ma lei è Stracci?”. Cipriani e la faccina di sempre, la stessa che mostra lassù sulla croce, un volto bambino vecchio, sorriso mite da borgataro, espressione da gommista malinconico e insieme dolce, arreso a se stesso, alla vita.

Ne “La ricotta” c’è anche Rossana Di Rocco, già l’angelo di “Uccellacci e uccellini” e del “Vangelo”, nel film fa parte della povera famiglia di Stracci, Rossana ha in braccio un bambino, e aspetta, seduta sull’erba tra i ruderi, che arrivi proprio la ricotta. Tra coloro che visitano il set, accanto a Elsa de’ Giorgi, Enzo Siciliano, Adele Cambria e Robertino Ortensi, amico fratello maggiordomo di Mario Schifano.     

A proposito del film, Pasolini scrive: “Martedì 5 marzo 1963 mattina: “Era l’inizio del giorno, pochi istanti fa, una luce vecchia, morente, e ora ecco l’azzurro di un golfo del Meridione, nel gelo della tramontana, un giorno che bastava soltanto a scoprire, era su noi, splendidamente remoto da ogni nostra passione”. Nelle note di regia aggiunge: “Il rutto sulla croce non è un rutto, ma un singhiozzo, il singhiozzo di chi, morto di fame il buon Stracci, si è finalmente rimpinzato.”

In quel 1963, a commento dell’arrivo dei socialisti di Nenni al governo, Pasolini scrisse una poesia, “Vittoria”, dove immagina il ritorno dei Partigiani, eccola in coda a questo mio biglietto per te.

VITTORIA di Pier Paolo Pasolini 

Dove sono le armi? Io non conosco 

che quelle della mia ragione:

e nella mia violenza non c'è posto

NON INTELLETTUALE. Faccio ridere

ora, se, suggerite dal sogno, 

in un grigio mattino che videro

morti, e altri morti vedranno, ma per noi 

non è che un ennesimo mattino, grido 

parole di lotta? Non so poi

che ne sarà di me a mezzogiorno, 

ma il vecchio poeta è «ab joi» 

che parla, come lauzeta o storno

- e come un giovane vorrebbe morire. 

Dove sono le armi? Non ritornano 

i vecchi giorni lo so, ogni aprile 

rosso, di gioventù, è passato.

Solo un sogno, di gioia, può aprire 

una stagione di dolore armato. 

Io che fui un partigiano inerme

- un mistico, imberbe Innominato - 

adesso sento nella vita il germe

orrendamente profumato della Resistenza. 

Nel mattino le foglie sono ferme 

come sul Tagliamento o la Livenza: 

non è un temporale che viene,

né una sera che scende, è l'assenza 

della vita, che si contempla, si tiene 

lontana da sé, intenta a capire

quali terribili, quali serene 

forze ancora la empiano: profumo d'aprile! 

un giovane armato per ogni filo d'erba, 

volontario per voglia di morire!

Bene, mi sveglio per la prima volta in vita mia 

col desiderio d'impugnare un'arma.

Il ridicolo è che lo dico in poesia 

- e a quattro amici di Roma, due di Parma – 

che mi capiranno, in questa nostalgia

idealmente tradotta dal tedesco, in questa calma 

archeologica, che contempla un'Italia solatia 

e spopolata, sede di partigiani barbari,

che scendono Alpi o Appennini, per la Vecchia Via... 

Non è la mia che frenesia dell'alba.

A mezzogiorno sarò coi miei connazionali

alle opere, ai pasti, alla realtà che inalbera 

la bandiera, oggi bianca, dei Destini Generali. 

E voi, comunisti, miei compagni non compagni, 

ombre di compagni, straniati cugini carnali 

persi nei giorni presenti come in lontani, 

non immaginati giorni del futuro, voi, padri 

senza nome, che avete sentito richiami

che io credevo simili ai miei, quelli che ardono 

oggi come dei fuochi abbandonati,

sulle fredde pianure, lungo i margini 

dei fiumi dormienti, sui monti bombardati... 

Prendo tutta su di me la colpa (vecchia 

mia vocazione, inconfessata, facile fatica) 

della disperata nostra debolezza 

per cui milioni di noi, con una vita 

in comune, non furono in grado 

di andare fino in fondo. È finita, 

trallallà, cantiamo, cadono

le ultime foglie della Guerra

e della martire vittoria, sempre più rade, 

distrutte a poco a poco da quella

che sarebbe stata la realtà,

non solo della cara Reazione, ma della bella 

Socialdemocrazia nascente, trallallà.  

Prendo (con piacere) su di me la colpa

di aver lasciato tutto com'era:

della sconfitta, della sfiducia, della sporca 

speranza degli Anni Amari, trallallera. 

E prendo su di me lo straziante

dolore della nostalgia più nera, 

quella che si rappresenta le cose rimpiante 

con tanta verità, che spera

quasi di ricrearle, o ricostruirne le infrante

condizioni che le necessitavano, trallallera...

Dove sono sparite le armi, pacifica 

produttiva Italia che non importi al mondo? 

Nella schiava bonaccia che giustifica 

oggi la ristrettezza come ieri il benessere - dal profondo 

al ridicolo - e nella più perfetta solitudine -

j'accuse! No, calma, non il Governo, o il Latifondo, 

o i Monopoli - ma solo i loro drudi, 

gl'intellettuali italiani, tutti,

anche coloro che giustamente si giudicano 

miei forti amici. Saranno stati questi i più brutti

anni della loro vita: PER AVERE ACCETTATO 

UNA REALTA CHE NON C'ERA. I frutti 

di questa connivenza, di questo ideale peculato, 

sono che la realtà reale ora non ha poeti.

(Io? Io sono inaridito e superato.)

Ora che Togliatti se ne va con gli echi 

degli ultimi scioperi di sangue,

vecchio, nel numero dei profeti 

che, ahi, hanno avuto ragione - sogno nel fango 

armi nascoste, nel fango elegiaco

tra piccoli che giocano, vecchi padri che vangano, 

mentre dalle lapidi cade la malinconia, 

le liste dei nomi si incrinano,

i coperchi delle tombe saltano via, 

e i giovani cadaveri con la spolverina 

che usava in quegli anni, i calzoni

larghi, e sulla chioma partigiana la bustina

militare, scendono lungo i muraglioni 

dove stanno i mercati, giù dai viottoli 

che uniscono i primi orti ai costoni 

delle colline: scendono dai cimiteri. Giovanotti 

con negli occhi qualcos'altro che amore:

una follia segreta, di uomini che lottano 

come chiamati da un destino diverso dal loro. 

Con quel segreto che non è più segreto, 

scendono giù, muti, nel primo sole, 

e, pur così vicino alla morte, il loro è il passo lieto 

di chi ha tanto cammino da fare nel mondo.

Ma essi sono abitanti del monte, del greto 

selvaggio del fiume padano, del fondo

della fredda pianura. Cosa fanno fra noi? 

Tornano, e nessuno li ferma. Non nascondono 

le armi - che stringono senza dolore né gioia -

e nessuno li guarda, come accecato dal pudore 

per quell'osceno brillare di mitra, quel passo d'avvoltoi, 

che scendono al loro oscuro dovere, nella luce del sole.

Vorrei vedere chi ha il coraggio di dirgli 

che l'ideale che arde segreto nei loro occhi

è finito, appartiene ad altro tempo, che i figli 

dei loro fratelli da anni ormai non lottano 

più, e la storia crudelmente nuova,

ha dato altri ideali, li ha quietamente corrotti... 

Toccheranno, rozzi come barbari poveri,

le nuove cose che in questi due decenni l'uomo 

crudele si è dato, cose inette a commuovere 

chi cerca giustizia... 

Ma facciamo festa, prendiamo le bottiglie 

del buon vino della Cooperativa...

A sempre nuove vittorie, e nuove Bastiglie! 

Il Refosco, il Bacò... Evviva, Evviva! 

Salute, vecchio! Forza, compagno! 

E tanti auguri alla bella comitiva! 

Viene da oltre le vigne, da oltre lo stagno 

delle Fonde, il sole: dalle tombe vuote, 

dalle lapidi bianche, dal tempo lontano. 

Ma adesso che violenti, assurdi, con ignote 

voci di emigranti, sono qua,

impiccati a lampioni, straziati da garrote, 

chi, alla nuova lotta, li guiderà? 

Togliatti, lui, è finalmente vecchio 

come per tutta la vita egli ha

voluto, e si tiene allarmato nel petto

come un pontefice, il bene che gli vogliamo, 

sia pur fissato in epico affetto, 

lealtà che accetta anche il più disumano 

frutto di lucidità arsa e tenace come scabbia. 

«Ogni politica è una realpolitica», anima 

guerriera, con la tua delicata rabbia!

Non riconosci un'altra anima, eh? Questa 

dove c'è tutta la prosa dell'uomo abile, 

del rivoluzionario attaccato all'onesta 

media dell'uomo (anche la complicità 

con gli assassinii degli Anni Amari s'innesta

nel classicismo protettore, che fa

il comunista perbene): non riconosci il cuore 

che diventa schiavo del suo nemico, e va 

dove il nemico va, condotto dalla storia 

ch'è storia di tutti due, e li fa, nel profondo, 

stranamente fratelli; non riconosci i timori 

d'una coscienza che, lottando col mondo, 

ne condivide le norme della lotta nei secoli, 

come per un pessimismo in cui affondano, 

per farsi più virili, le speranze. Lieto 

d'una lietezza che non sa retroscena 

è questo esercito - cieco nel cieco

sole - di giovani morti, che viene

ed aspetta. Se il suo padre, il suo capo,

lo lascia solo nei bianchi monti, nelle serene

pianure - assorbito in un misterioso dibattito 

con il Potere, legato alla sua dialettica

che la storia rinnova senza pace - 

piano piano dentro i barbarici petti 

dei figli, l'odio si fa amore per l'odio, 

ardendo solo in essi, i pochi, i benedetti. 

Ah, Disperazione che non conosci codici! 

Ah, Anarchia, libero amore

di Santità, con i tuoi canti prodi! 

Prendo, anche, su di me la colpa del tentare 

tradendo, del lottare arrendendosi, 

dell'accettare il bene come il minor male, 

antinomie simmetriche che io tengo

in pugno come vecchie abitudini...

Tutti i problemi dell'uomo, col loro tremendo 

volerci ambigui (il nodo delle solitudini 

dell'io che si sente morire

e non vuol presentarsi davanti a Dio nudo): 

tutto prendo su me, onde poter capire, 

da dentro, il frutto di quell'ambiguità: 

un uomo adorabile, da cui in questo aprile 

incalcolato, mille giovani scesi dall'Aldilà, 

aspettano fiduciosi un segno che abbia

la forza della fede senza pietà, 

a consacrare la loro umile rabbia.

Struggente, è in lui, Nenni, l'incertezza

con cui ha rimesso in gioco se stesso, e l'abile 

coerenza, l'accettata grandezza.

Con cui ha rinunciato all'epico affetto 

che poteva anche a diritto avere avvezza 

la sua anima: e, uscendo dalla scena di Brecht, 

per ritirarsi nei bui retroscena,

dove impara nuove parole reali l'eroe incerto, 

ha spezzato a sue spese la catena

che lo legava al popolo come un vecchio idolo, 

dando alla sua vecchiezza nuova pena. 

I giovani Cervi, mio fratello Guido,

i ragazzi caduti a Reggio nel Sessanta, 

col loro casto, il loro forte, il loro fido 

occhio, sede della luce santa,

lo guardano, e aspettano le vecchie parole. 

Ma egli, eroe ormai diviso, manca 

ormai della voce che tocca il cuore: 

si rivolge alla ragione non ragione, 

alla sorella triste della ragione, che vuole 

capire la realtà nella realtà, con passione

che rifiuta ogni estremismo, ogni temerità.

Che cosa dirgli? Che la realtà ha una nuova tensione 

che è quella che è, e ormai non ha 

più senso altro che accettarla... 

S'È SENZA MAI VITTORIA... che forse non è tardi

per chi vuol vincere, ma non con la violenza 

delle vecchie, disperate armi...

Che bisogna sacrificare la coerenza 

all'incoerenza della vita, tentare un dialogo 

creatore, anche contro la nostra coscienza. 

Che la realtà, anche di questo piccolo, avaro 

Stato, è più di noi, è sempre un'immensa cosa: 

e bisogna rientrarne, se pure è così amaro... 

Ma che ragione volete che ascolti questa ansiosa 

masnada di uomini, che hanno lasciato - come 

dicono i canti - la casa, la sposa, 

la vita stessa, proprio nel nome della Ragione? 

Ma c'è forse, una parte dell'anima dí Nenni, che vuole 

dire a questi compagni - venuti da laggiù,

con vesti militari, i buchi nelle suole 

delle scarpe borghesi, e la loro gioventù 

innocentemente assetata di sangue –

«Dove sono le armi? Avanti, su, 

prendetele, dalla paglia, dal fango,

non vedete che non è cambiato niente? 

Coloro che piangevano ancora piangono. 

Quelli di voi che hanno cuore puro e innocente 

vadano a parlare in mezzo ai tuguri,

ai caseggiati della povera gente,

che dietro i suoi vicoli e i suoi muri 

nasconde la peste vergognosa, la passività 

di chi si sa tagliato fuori dai giorni futuri. 

Quelli di voi che possiedono un cuore 

votato alla maledetta lucidità,

vadano nei laboratori, nelle scuole, 

a ricordare che nulla in questi anni ha

mutato la qualità del conoscere, eterno pretesto, 

forma utile e dolce del Potere, NON MAI VERITÀ. 

Quelli di voi che obbediscono a un onesto 

vecchio imperativo di religione

vadano tra i figli che crescono 

col cuore vuoto di ogni reale passione,

a ricordare che il loro nuovo male

è SEMPRE, ANCORA la divisione del mondo. Quelli 

infine tra voi a cui una triste nascita casuale

in famiglie senza speranza, ha dato spalle dure, capelli 

ricci di criminale, oscuri zigomi, occhi senza pietà, 

vadano, tanto per cominciare, dai Crespi, dagli Agnelli, 

dai Valletta, dai potenti delle Società

che hanno portato l'Europa sulle rive del Po: 

è giunta per ognuno di loro l'ora che non ha 

proporzione con quanto ebbe e quanto odiò. 

Coloro poi che hanno sottratto al bene comune 

capitale prezioso, e che nessuna legge può 

punire, ebbene, andate, legateli con la fune 

dei massacri. In fondo a Piazzale Loreto 

ci sono ancora, riverniciate, alcune 

pompe di benzina, rosse nel quieto 

solicello della primavera che riviene 

col suo destino: è ora di rifarne un sepolcreto.»

Se ne vanno... Aiuto, ci voltano le schiene, 

le loro schiene sotto le eroiche giacche

di mendicanti, di disertori... Sono così serene 

le montagne verso cui ritornano, batte

così leggero il mitra sul loro fianco, al passo 

ch'è quello di quando cala il sole, sulle intatte

forme della vita - tornata uguale nel basso

e nel profondo! Aiuto, se ne vanno! Tornano ai loro 

silenti giorni di Marzabotto o di Via Tasso... 

Con la testa spaccata, la nostra testa, tesoro

umile della famiglia, grossa testa di secondogenito, 

mio fratello riprende il sanguinoso sonno, solo 

tra le foglie secche, i caldi fieni

di un bosco delle prealpi - nel dolore

e la pace d'una interminabile Domenica...

Eppure, questo è un giorno di vittoria! 

[In Poesia in forma di rosa (1964), Appendice 1964, in Pasolini. Tutte le poesie, Meridiani Mondadori, Milano 2003]

Daniele Di Mario per iltempo.it il 3 maggio 2022.

«Questa è la convention degna del primo partito italiano». Un militante di Fratelli d'Italia ha quasi le lacrime agli occhi guardando il MiCo di Milano stracolmo di delegati, giornalisti, militanti. Vengono da ogni parte d'Italia: Veneto, Lombardia, Sicilia, Campania. Ovunque. 

Adesso i sondaggi danno il partito di Giorgia Meloni al 21%, di poco sopra il Pd. E la conferenza programmatica, con tutto il suo entusiasmo, certifica l'ottimo stato di salute di un movimento che s' appresta a correre per il governo del Paese.

Ma tra padiglioni con dibattiti che s' avvicendano, delegati che parlano, giornalisti che inseguono questo o quel parlamentare per un'intervista, una battuta, un retroscena, c'è anche l'altra faccia del partito. 

Quella che non è mai cambiata. Chi frequenta da anni Atreju, tradizionale kermesse giovanile meloniana, ricorda le provocazioni culturali e le gag. Ecco, la convention di Milano non è luogo per gag. Ma le provocazioni culturali restano.

Così, nel pantehon dei conservatori ci sono Margherita Sarfatti (intellettuale, mecenate dei futuristi e amante di Benito Mussolini, sul quale ebbe una enorme influenza), Giovanni Paolo II, Enzo Ferrari, Ennio Flaiano e persino Pierpaolo Pasolini, il cui totem figura a fianco a quello di Tolkien. 

La musica poi. «L'avvelenata» di Francesco Guccini insieme con «Berta filava» di Rino Gaetano a tutto volume prima dell'inizio dei lavori.

C'è naturalmente la libreria che vende pubblicazioni di area culturale conservatrice. E poi c'è lo stand dei gadget di Fratelli d'Italia, un brand che tira e che viene usato giustamente come forma di autofinanziamento. Si vendono felpe, penne, accendini, braccialetti di gomma. Ma anche felpe e penne. I prezzi? Popolari: dieci euro un berretto da baseball. Molto meno il braccialetto o l'accendino. I militanti e i delegati si fermano, parlano coi ragazzi dello stand. E comprano. Il brand FdI tira eccome.

Estratto dell'articolo di Marcello Veneziani pubblicato a novembre 2009 da il Giornale il 3 maggio 2022.

L’inventore moderno della destra divina è uno scrittore sui generis, con tessera Pci: Pier Paolo Pasolini. La destra divina di Pasolini non era una destra storica ma onirica, perché viveva nella dimensione del sogno. Stupido è dunque cercarla nella realtà. 

Ne parlai anni fa in un mio saggio, ripescando la sua poesia Saluto e Augurio, l’ultima prima di morire che Pasolini scrive quasi presago della sua morte, ed è dedicata a un giovane fascista. In quei versi in friulano Pasolini sciorina la sua destra divina, il suo amore disperato del passato e della tradizione ed esorta il giovane fascista a servire la destra divina attraverso un triplice comandamento: difendi, conserva, prega. La poesia di Pasolini, che si definiva «uno sgraziato reazionario», diventa il viatico del testo di Langone e il triplice imperativo pasoliniano campeggia sotto il titolo del suo libretto.

Ma, informo Camillo, l’inventore storico e mitico della destra divina è addirittura un Re normanno, Ruggero II Altavilla, che nel sud Italia coniò il mirabile motto: Dextera domini fecit virtutem, dextera domini exaltavit me. Traduco anche se è un latino trasparente: la destra del Signore fece la virtù, la destra del Signore mi esaltò. Insomma la destra divina ha quasi nove secoli, quella umana neanche tre, se partiamo dal Parlamento inglese o dalla Rivoluzione francese (…)

Il libro corale curato da Del Monte. Il vero mistero di Pasolini non è la sua morte ma le opere. Susanna Schimperna su Il Riformista il 21 Aprile 2022. 

Undici poesie/canzoni, ventuno interviste e tre testimonianze compongono Puzzle Pasolini, ed. Ensemble, il nuovo libro su Pasolini curato da Andrea Del Monte che ricalca solo il parte quello uscito sette anni fa in occasione del quarantennale della morte (Caro poeta, caro amico). È un libro che regala anche a chi per avventura non dovesse sapere nulla di lui un Pier Paolo davvero alive and kicking, vivo e scalciante in senso non soltanto metaforico. Molto diverse le opinioni sulla morte, a volte inaspettati eppure complementari i vari punti di vista su quanto e come fosse considerato finché in vita, approfonditi i giudizi su lui artista, concordanti le descrizioni su lui persona.

Dalle testimonianze e dalle interviste (firmate Claudio Marrucci, Ignazio Gori, Antonio Veneziani e lo stesso Andrea Del Monte, che ha anche composto le musiche delle canzoni), alcuni tra i passaggi più interessanti. Walter Siti, curatore delle opere complete di Pasolini per I Meridiani di Mondadori: «Le caratteristiche che mi hanno sempre colpito sono tre: l’ingenuità quasi infantile che ha mantenuto fino alla vecchiaia, il coraggio di buttarsi nella mischia intellettuale senza troppo preoccuparsi delle conseguenze, la convinzione che la vita sia incontenibile dalla letteratura. Ognuna di queste caratteristiche (positive) è bilanciata dalla sua ombra negativa: la sciatteria nel documentarsi (come i bambini che credono di sapere già tutto), l’autocompiacimento nel pensare a se stesso come a un capro espiatorio, un vitalismo che finisce per svalutare le propria bravura tecnica». Enrique Irazoqui, attivista antifranchista, insegnante, scacchista di fama mondiale, interprete del ruolo di Cristo nel Vangelo secondo Matteo: «Un uomo dalle idee chiare, nette. I suoi litigi furenti a casa di Laura Betti mi impressionavano. Ma sapeva anche essere spietato. Ricordo che sul set del Vangelo fu capace di ricordare a sua madre della morte di suo figlio Guido, fucilato dai partigiani rossi durante la guerra, “solo” per farla piangere e far sembrare la scena più realistica».

Alessandro Golinelli, scrittore: «Una frase per definire la poetica pasoliniana? L’erotismo dell’innocenza». Citto Maselli, regista: «Quando riuscimmo a farlo eleggere presidente dell’Associazione nazionale degli autori cinematografici accadeva che in occasioni pubbliche e incontri politici (su una nuova legge per il cinema per esempio) lui non resisteva all’impulso di distinguersi e così a volte sosteneva tesi diverse da quelle che eravamo riusciti con fatiche inenarrabili a far accettare ad altre organizzazioni di categoria o sindacali. Con gran tripudio delle nostre controparti ministeriali democristiane… Credo che in realtà quello che lui non sopportava di me erano le mie origini borghesi, la mia parentela con Pirandello, le cene di Capodanno dove da me c’erano da Gadda a Visconti fino alla Magnani e a Paola Masino, Antonioni, Monica Vitti e Cesare Garboli…». Giuseppe Pollicelli, giornalista e regista, primo a occuparsi di Pasolini nel fumetto: «A Pino Pelosi è convenuto, malgrado tutto, non raccontare mai la verità. Il che non significa che dietro la morte di Pasolini vi sia per forza una verità grande, clamorosa. Forse vi è una verità – per così dire – piccola, umile nella sua crudeltà e nella sua infamia».

Ninetto Davoli, che dopo Il Vangelo secondo Matteo è protagonista con Totò di Uccellacci uccellini, sempre di Pier Paolo: «Nel Vangelo facevo il pastorello, poi è venuta, totalmente inaspettata, la proposta di recitare al fianco di Totò. All’inizio ero dubbioso, imbarazzato. Il mio lavoro era quello di lucidatore di mobili, falegname. Non mi vedevo assolutamente nelle vesti di attore. Ma Pasolini ha insistito molto e alla fine mi ha convinto. Nella mia ingenuità non potevo credere che sarei stato pagato per recitare addirittura al fianco di Totò». Renzo Paris, romanziere, poeta, critico, autore di Pasolini. Ragazzo a vita: «Era molto vitale, sia di giorno quando attivava fino all’estremo la sua intelligenza, sia di notte quando attivava il corpo … Molti gli invidiosi per il suo successo». David Grieco, regista e scrittore, autore del libro e del film La macchinazione sugli ultimi mesi di vita di Pasolini: «Pasolini non sarebbe mai riuscito a sopravvivere fino a vedere il mondo come è diventato oggi. E non per una questione di età. Secondo me sarebbe morto comunque cercando, purtroppo inutilmente, di impedire che accadesse ciò che è accaduto».

Federico Bruno, scultore, regista, autore del film Pasolini. La verità nascosta: «Pelosi servì da esca. È stato una pedina-oggetto ed è stato secondo me demonizzato ingiustamente. Non poteva certo sapere quello che sarebbe accaduto… Ma Pasolini si fidava di Pelosi, si fidava di Citti, si fidava soprattutto dei ragazzi delle borgate, li conosceva, conosceva soprattutto il loro modo di ragionare e di vivere, li amava in un modo tutto suo». Lucia Visca, giornalista, la prima cronista ad accorrere a Ostia alla notizia della morte di Pasolini: «Non ho mai avuto l’impressione che Pasolini badasse molto al femminile come specifico di genere… Lo ricordiamo anche per aver scritto: “Il problema non è di essere contro o a favore dell’aborto, ma a favore o no della sua legalizzazione. Ebbene, io mi sono pronunciato contro l’aborto e a favore della sua legalizzazione”. La posizione fece infuriare le femministe… Riletta oggi spiega perfettamente quale fosse l’interesse di Pasolini: la maternità». Fulvio Abbate, scrittore: «Ritengo che sia stato un delitto omosessuale, mi spiace che i perbenisti di sinistra non vogliano accettare la vocazione masochistica, se non autolesionistica, della persona».

Alcide Pierantozzi, romanziere e sceneggiatore: «Pasolini ha fatto cultura, altissima cultura, provocando. Forse il suo grande limite, cioè il tentativo di cambiare il corso di quel grande fiume chiamato realtà, è quello che oggi lo avvicina di più ai ragazzi, alle nuove generazioni. Certo, è stato un fallimento. Ogni tentativo di cambiare il mondo fallisce. Ma Pasolini non era un filosofo, era un poeta. Non poteva comprendere l’inevitabilità di certi moti della storia… È stato grande nella misura in cui sono stati grandi le sue sviste e i suoi errori… Quello che mi interessa di lui non è la denuncia sociale, ma è questo errore cosmico, leopardiano». Giulio Laurenti, romanziere e poeta: «Assassinato brutalmente. / Non solo per quello che era, / ma soprattutto per quello che rappresentava / e ti direi che da ragazzo io / sentivo usare il suo nome come insulto scagliato / ai giovani che non erano conformisti come tutti / essere Pasolini significa essere diverso e contro». Igor Patruno, scrittore: «Era solo, rabbioso, coraggioso, e come un vero poeta, viveva dentro l’apocalisse ed era in grado di giudicarla».

Pino Bertelli, giornalista, fotografo, film maker: «1958. Un poeta (Pasolini) incontra un ragazzo di strada, gli dona una macchina fotografica Rolleiflex e con quel semplice gesto lo salva dalla galera… Il cinema di Pasolini è un cinema che respinge dappertutto l’infelicità e – costi quel che costi – incita a fare della vita di ciascuno un’opera d’arte … Lungi dall’essere un porto, la sua cultura era un brulotto innescato contro tutte le forme di autoritarismo». Giovanna Marini, cantautrice e ricercatrice etnomusicale: «Credo che la lezione più grande che ci ha lasciato Pasolini è il bisogno di pulizia. Pulizia in quanto corrispondenza della parola al pensiero, del gesto alla parola e quindi al pensiero, e dunque di un’intera vita al pensiero, alla parola, al gesto… Un uomo che è riuscito in questa estrema profonda coerenza come Pasolini, se ci unisci anche il genio creativo di cui era pieno diventa un uomo pericoloso per il resto dell’umanità che vive nella nebbia, ma aspira, comunque, al potere».

Tullio de Mauro, linguista: «Due anni dopo l’assassinio consegnammo un documento presentato alla Casa della Cultura in sette: Giovanni Berlinguer, Laura Betti, Giuseppe Branca, Tullio de Mauro, Nino Marazzita, Stefano Rodotà. Accusammo formalmente la Procura Generale della Repubblica anzitutto di aver trascurato colpevolmente la sentenza di condanna che il giudice del Tribunale dei minori Carlo Moro aveva stilato contro il Pelosi stabilendo che con lui (come Pelosi uscito dal carcere aveva ammesso, continuando a tacere i nomi) avevano operato ignoti autori dell’assassinio… Concludevamo accusando la Procura di complicità con gli assassini di Pasolini. Pensavamo che la Procura avrebbe aperto un procedimento a nostro carico e speravamo che questo avrebbe comportato una ripresa delle indagini. Non accadde. Il non-accaduto, gli omissis segnano la nostra storia civile». Emanuele Trevi, critico e romanziere: «Per fare un esempio minimo ma significativo della società in cui è vissuto, mi ricordo che a scuola, dopo l’omicidio, i ragazzini si insultavano chiamandosi “pasolone”, un pittoresco equivalente di frocio. Ovviamente, era qualcosa che proveniva dagli adulti».

Franco Tovo, attore in Mamma Roma: «Le prime volte ci ritrovavamo con gli altri attori in una roulotte, dove ci spogliavamo e indossavamo altri vestiti per girare le scene… A un certo punto, per motivi di budget, decisero di fare a meno della roulotte e iniziammo a usare la macchina di Pasolini per lasciare i nostri vestiti. Era un’Alfa Romeo, che lui lasciava sempre aperta. Una sera scoprimmo che i ladri avevano rubato tutti i nostri panni. Pasolini ci diede subito un assegno a testa per ricomprarci i vestiti. Era una persona generosissima». Silvio Parrello, “Er Pecetto” del romanzo Ragazzi di vita: «Venni chiamato “Er Pecetto” perché pecetto viene da pecione, e mio padre, che faceva il calzolaio, usava la pece per aggiustare le scarpe. Ho incontrato Pier Paolo qui a Monteverde nel ’54, al campetto di calcio di Donna Olimpia, mentre giocava a calcio. Io avevo dodici anni. Era una persona gentilissima, quasi angelica… Per il calcio aveva una passione sfrenata. Una volta addirittura, a Mosca, dove era a girare un documentario, lo chiamarono da Roma dicendogli che a Nettuno c’era una partita di pallone; lui prese immediatamente l’aereo, si fece aspettare da un’auto all’aeroporto di Ciampino che lo portò a Nettuno dove giocò la partita. Fisicamente, era una persona molto forte. Una volta, a via dei Quattro Venti, litigò con quattro persone che l’avevano offeso, e le mise tutte e quattro ko. Era alto un metro e sessantasette e pesava solo cinquantanove chili. Una volta addirittura alzò una mucca dalle zampe anteriori, mettendosela sulle spalle… Era una persona generosissima… Quando veniva qui con la macchina lasciava gli sportelli aperti con delle monete nei tasconi di stoffa dove si riponeva il libretto, perché sapeva che andavano a prenderle i ragazzi meno abbienti».

Giancarlo De Cataldo, magistrato e scrittore: «Mi sono chiesto se PPP sarebbe diventato leghista, per esempio, disgustato dalla mutazione genetica della Sinistra e dalle delizie del politicamente corretto. Se l’ostinata vocazione allo scandalo (nel senso nobile e non ancora mercificato) lo avrebbe condotto a un’ennesima rottura con il passato… Credo che nessuno sia in grado di stabilirlo… Io so… Sapevamo in tanti. L’intera classe dirigente del Pci, all’epoca, sapeva. Oggi sappiamo tutti tanto, forse tutto, di ogni cosa. Ma questo, come accadeva al tempo di Pasolini, non ci ha reso in niente più forti, determinati, capaci di agire contro le ingiustizie e le discriminazioni. E anche il nostro sapere si è fatto mercato». Susanna Schimperna

Pier Paolo Pasolini deriso, offeso, ucciso: il povero Cristo poeta. GIOVANNA STANZIONE su Il Quotidiano del Sud il 10 aprile 2022.

Sappiamo tutti com’è finita. Abbiamo passato gli occhi più volte su quel corpo lungo e secco, abbiamo rimestato nella sabbia sporca di Ostia e formulato le nostre teorie, tesi, congetture. Poche altre morti sono così pubbliche da trascendere il corpo, me ne viene in mente un altro di cui conosciamo a memoria le braccia magre, il costato scheletrico, le gambe piegate. Sulla sua morte facciamo congetture e abbiamo tesi da due millenni. Le morti simboliche, le morti esemplari, è come se ponessero un suggello su chi le subisce. Un suggello che rende eterni i suoi tratti, profetiche le sue parole, emblematica la sua esistenza, appiattisce le complessità, spiana le contraddizioni. Sappiamo tutti com’è finita. Tendiamo a dimenticare chi fosse l’uomo all’inizio.

È il centenario dalla nascita di Pier Paolo Pasolini. È stato detto che solo Pasolini, come D’Annunzio o Pirandello, ha sperimentato tutti i generi artistici della sua epoca: racconti, romanzi, opere teatrali, sceneggiature e regie cinematografiche, saggi politici e di critica letteraria e, ovviamente, la poesia. Conosciamo tutti il suo nome, i tratti scavati del volto. Lo chiamiamo in causa, tutt’ora, per corroborare giudizi sul costume o la decadenza dell’Italia, per benedire il nostro pensiero. O, a seconda del nostro credo, per maledirlo e sbeffeggiarlo ancora, per trionfare su di lui, sul suo stile di vita, sui suoi errori di giudizio. Un ragazzo lo ha percosso una notte a sprangate e poi ci è passato sopra con l’auto, una due tre volte. Così è stato appurato a processo. Sostenuto da alcuni, contestato da altri. Sappiamo tutti com’è finita e nessuno lo sa con certezza.

Ma non conta molto, la morte è quella cosa capace di dare in misura incontestabile coerenza e senso a un’intera vita: “Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi veramente, cioè di potere dare un senso alla mia azione […]. È dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita […] è intraducibile: un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione[…] Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.”

Porco, martire, frocio, censore morale, intellettuale, comunista, pedofilo, cattolico, pervertito. Trentatré processi in vita. Corruzione di minore, atti osceni in luogo pubblico, vilipendio della religione di stato, oscenità, rapina a mano armata perfino. Quindici anni ininterrottamente sotto processo pubblico, mentre la sua vita veniva scandagliata, il suo corpo e la sua intimità esposti. Fuori la stampa e la società lo giudicavano, lo deridevano, lo linciavano. “Una figura lo aveva sempre ossessionato: – scrisse Citati alla sua morte – Cristo deriso, sputato, colpito, lapidato, inchiodato, ucciso sulla croce. Facendo film, scrivendo e vivendo, egli cercava soltanto di venire lapidato ed ucciso, come la pietra dello scandalo, la pietra d’inciampo, che viene respinta dalla società umana.”

I gesù cristi in terra non sono santi, quella è prerogativa divina e viene dopo la morte. Non è tanto com’è finita che conta. È la loro vita cui dovremmo guardare bene: “I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. – aveva detto Pasolini nella sua ultima intervista, il giorno prima di morire – Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, “assurdo”, non di buon senso. Eichman, caro mio, aveva una gran quantità di buon senso. […] Magari avrà anche detto agli amici: a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno, alla televisione. […] Ma non ha mai inceppato la macchina.”

I gesù cristi sono ostinati nel loro essere contrari, inceppano le macchine. Pasolini osservava la società, gli uomini e le loro azioni, faceva connessioni, smascherava le intenzioni senza aver bisogno di prove, preconizzava i nuovi fascismi e le nuove schiavitù, le mutazioni del potere che si impossessava dei corpi in modi nuovi, insinuandosi nei loro desideri. Pasolini divideva la vita con i dannati terreni che altri chiamavano sottoproletari, ma nessuno chiamava per nome: “Voglio dire fuori dai denti, io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi.” Io credo che anche Cristo fosse uno che scendeva all’inferno e che non metteva etichette sulle azioni altrui: “Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere sul delitto la vostra bella etichetta.”

I gesù cristi terreni sono tutti poeti nella misura in cui amano disperatamente la vita con una intensità tale che inevitabilmente ne rimangono bruciati. E amano gli uomini pure perché li vedono allo stesso modo innocenti, allo stesso modo colpevoli: “Ma io dico che in un certo senso tutti sono deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono colpevoli, perché tutti sono pronti al gioco del massacro. Pur di avere. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere.”

I gesù cristi odiano altrettanto intensamente, percuotono i complici del potere, rovesciano i banchi nei templi. Eppure sono sempre, nell’espressione violenta di quell’odio, “pieni di puntuale amore”. Non importa tanto che siano figli di Dio. Forse, come scrive Kurt Vonnegut in quel suo bellissimo passo di Mattatoio n 5, “Gesù era veramente un uomo qualunque, e una seccatura per un sacco di gente che aveva relazioni più importanti delle sue. E diceva anche lì tutte le cose belle e imbarazzanti che diceva negli altri Vangeli. Così un giorno la gente si divertì a inchiodarlo a una croce e a piantare la croce nel terreno. Non ci sarebbero state ripercussioni, pensavano quelli che l’avevano linciato. […] E poi, un momento prima che questo “nessuno” morisse, i cieli si aprirono e mandarono tuoni e lampi. Dall’alto scese stentorea la voce di Dio. Dio disse alla gente che adottava quel barbone, dandogli i pieni poteri e i privilegi di Figlio del Creatore dell’Universo per tutta l’eternità. Ecco quello che disse: D’ora in poi Egli punirà orribilmente chiunque tormenterà un barbone senza relazioni importanti.” Forse Pasolini non era un gesù cristo, ma sicuramente era un poeta “e – come disse Moravia al suo funerale – di poeti ne nascono tre o quattro in un secolo”.

Alcune copertine dei testi pubblicati da Pier Paolo Pasolini

Da globalist.it il 9 aprile 2022.

Clamoroso scivolone della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Durante le celebrazioni della giornata di “Senato e cultura” dedicato a Pierpaolo Pasolini, Casellati si è rivolta a Dacia Maraini – grandi amica di PPP – sbagliando in maniera piuttosto evidente il nome di battesimo del grande scrittore e poeta. 

Casellati ha poi concluso l’intervento dedicandogli un pensiero.

“Auspico che gli occhiali di Pasolini che sono sempre moderni anche a distanza di tanti decenni ci aiutino a leggere la difficile contemporaneità, dando un equilibrato giudizio critico: perché le domande da lui poste ieri, dall’ambiente alla guerra, sono le stesse domande di oggi”.

Senato, Maria Elisabetta Casellati e la gaffe con il libro di Dacia Maraini: parla e cambia il nome a Pasolini. Il Tempo il 09 aprile 2022.

Pier Paolo Pasolini, anzi no Gian Paolo Pasolini: incredibile gaffe del presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. In un video postato su Twitter (@_sblendorio) si vede la seconda carica dello Stato che, durante le celebrazioni della giornata di “Senato e cultura”, dedicate al grande scrittore, poeta e regista, dice con aria solenne: “Un ringraziamento speciale va a Dacia Maraini che ha dedicato l’ultima sua fatica letteraria all’amico Gian Paolo Pasolini e un ringraziamento…”. 

Casellati non si accorge del lapsus, non si corregge e ribattezza così Pasolini, mentre la presente Maraini, autrice del libro “Caro Pier Paolo” appena uscito, rimane impietrita. Casellati, lunga militanza in Forza Italia, è stata sottosegretario al Ministero della Giustizia e componente del CSM prima di diventare presidente del Senato nel 2018. A fine gennaio è stata candidata da Matteo Salvini, leader della Lega, alla Presidenza della Repubblica prima che tutte le forze politiche convergessero sul bis a Sergio Mattarella.

Verlato, realtà e allegoria nella Passione di Pasolini. Vittorio Sgarbi il 10 Aprile 2022 su Il Giornale.

Fonti letterarie e cinematografiche si sommano alla cronaca in un omaggio al grande intellettuale.

A Roma, alle Terme di Diocleziano, nei vasti spazi dove si agitano, come fantasmi, sculture antiche fra lapidi e sepolcri, Nicola Verlato racconta la morte di Pier Paolo Pasolini in grandi teleri da cui si affacciano, riemergendo dalla memoria, intorno al corpo straziato del poeta, i personaggi che lo hanno accompagnato o ispirato, Ezra Pound, Orson Welles, Anna Magnani, Maria Callas, Totò, Franco Citti, impaginati come i dolenti nel Seppellimento di Santa Lucia di Caravaggio a Siracusa. È questa l'opera che io proposi a Verlato come testo di riferimento e di ispirazione per un d'apres che è la più grande e principale di una serie di quattro tele che propongono, con la resurrezione rovesciata verso il mito del ritorno nel grembo della madre, diverse versioni della morte di Pasolini.

«Finché io non sarò morto, nessuno potrà dire di conoscermi veramente, cioè di poter dare un senso alla mia azione, che dunque, in quanto momento linguistico, è mal decifrabile». La morte accompagna la vita di Pasolini e ne favorisce una interpretazione psicoanalitica che è come il tuffo a ritroso nel mondo dell'infanzia descritto da Verlato. Si tratta di una vera e propria Passione. Diverse sono le fonti di ispirazione, letterarie e cinematografiche. Il pittore Giuseppe Zigaina propose l'interpretazione più radicale e mistica; e fu anche più estremo nel rispondere alle domande di Mary B. Tolusso in una intervista sul senso della morte di Pasolini, pubblicata sul quotidiano Il Piccolo, l'1 novembre 2005:

«Pasolini ha fatto una imitatio Christi, portata fino alla testimonianza ultima, che sarebbe il martirio. Era profondamente religioso, ma aveva un'idea arcaica del sacro, non a caso ha scritto Io sono un cristiano delle origini o uno gnostico moderno, nel senso che era perfettamente cosciente che i primi tre secoli del cristianesimo coincidevano con la grande fase della gnosi, della ricerca, elementi che hanno fondato tutto il suo pensiero: la credenza nella magia, nella santità, ma anche nella celebrazione dell'orgia sacra. Io sono un pittore di professione e sono stato costretto a scrivere sulla morte di Pier Paolo perché lui me lo ha chiesto».

«Come?»

«Tramite messaggi che mi mandava. Per esempio ha bloccato per tre giorni le riprese del Decameron facendomi telefonare da Rossellini, decisamente disorientato perché Pier Paolo stava immobile dicendo: il mondo non mi vuole più e non lo sa. Di questo rifiuto Pasolini era cosciente e volle realizzare il dramma di questo ripudio. Pasolini mi costrinse a interpretare quello che lui faceva, scriveva e ogni suo atteggiamento nei miei confronti. Le faccio un altro esempio. Tra il 5 e il 6 novembre del 1975 io ricevetti tutto il film di Salò, allora non mi rendevo conto del significato di questa azione, sapevo solo che era morto, ma non avevo messo in collegamento i due avvenimenti mentre Pasolini aveva già teorizzato tutto questo in Empirismo eretico in termini espliciti, dicendo che il montaggio cinematografico, che è la conclusione del film, è analogo all'azione esplicitata dalla morte nella vita di uomo. Ora tutto questo che cosa poteva voler dire? Per me il significato è stato: io mi sono fatto uccidere, sono morto».

«Ci sarebbe dunque un messaggio da decifrare negli scritti di Pasolini e che rimanda alla sua morte...».

«Dagli anni '60 tutti i titoli delle sue opere sono in codice, nel senso che hanno un valore assoluto, riassuntivo e logico di tutta la sua opera. Ma di questa morte annunciata le evidenze sono tante, la stessa scelta della data, il 2 novembre del 1975, ha una ragione d'essere che risale al calendario perpetuo. Ma non solo, sono troppi gli elementi d'incastro per parlare di coincidenze. Gli studiosi non danno importanza a queste combinazioni, ma il mio impegno continua nella diffusione dell'altra verità».

Nella seconda tela, allegorica, Verlato evita ogni interpretazione cristologica e sceglie la suggestione della sovrapposizione di Pasolini con un eroe laico della contraddizione come Christopher Marlowe, e la mette in scena con una scelta estrema. Marlowe fu un personaggio controverso e discusso la cui libertà di pensiero fu intesa come ateismo e satanismo, con l'insinuazione di attività politiche segrete, libertinaggio, omosessualità. Trovò morte violenta in una osteria di Deptford durante una rissa. Con questa lettura, Verlato trasferisce l'episodio della morte di Pasolini in una rappresentazione teatrale, con l'ambientazione di una locanda in prossimità dei Docks di Londra di cui sul fondo si vedono gli alberi delle imbarcazioni in porto. Quelle di Marlowe e di Pasolini sono vite parallele, vicende drammatiche in cui letteratura e vita coincidono.

Lo stesso Verlato ha scritto: «Voglio rappresentare il momento in cui le cose si spostano da un piano dell'esistenza ad un altro, quello mitologico (...). Il mio metodo di lavoro consiste nel raccogliere quella massa di dati accumulati dagli individui su un determinato soggetto. Poi li trasformo in un modello, produco cioè una metafisica al contrario: ricavo l'idea di un soggetto a partire dalle sue varie manifestazioni concrete. È una metafisica dell'ovvio perché sono in realtà affascinato dalle stesse cose che interessano a tutti, quelle cioè che disseminano il maggior numero di tracce nei media e nell'immaginario collettivo: James Dean, Fifty Cent o quant'altro sono delle nuvole fenomeniche-mitologiche, cariche di informazioni e pronte per essere organizzate in modelli».

Il secondo telero corrisponde alla ricostruzione, proposta da più parti, di un assassinio politico, dunque di un complotto, non di una vicenda passionale legata ai rapporti sessuali con Pino Pelosi. Il giovane è un'esca, per portare il poeta, pericoloso e minaccioso per le sue denunce, riflesse in Petrolio, nel luogo dell'agguato dove lo attendono con bastoni alcuni aggressori, tra i quali un nero. L'ispirazione viene dalla sceneggiatura del film di David Grieco, La macchinazione, incentrata sull'episodio della richiesta di un riscatto per il furto del negativo del film Saló o le 120 giornate di Sodoma, che sarà una trappola per ucciderlo. Interpretazione suggestiva anche se non dimostrata. Ma Verlato racconta e definisce la situazione del dramma, aldilà della realtà effettuale. Il taglio è ancora una volta cinematografico, con l'atmosfera del notturno accentuata dal dialogo tra la luna e i fari dell'automobile. Torna Raffaello: la diretta ispirazione di Verlato è dalla Liberazione di San Pietro nelle Stanze vaticane. Caravaggio è lontano. Carpaccio nei suoi teleri sostituiva il verbo pinxit con finxit, a dire la sua intenzione di raccontare una storia come «finzione» narrativa. Ciò che oggi si chiama fiction. Non per caso Verlato dipinge nel tempo e con la misura psicologica del cinema, e la sua realtà è cinematografica. Il ciclo su Pasolini è una serie di ipotesi che, da teorie, diventano immagine. Per questo esiste la pittura. Per i concetti, c'è la filosofia.

Se Dacia Maraini inciampa nell'omosessualità di Pasolini. la scrittrice si lascia scappare l'idea della "de-omosessualizzazione" di PPP. E subito lo scivolone (come tutti i suoi) assume quasi una cifra letteraria- Quasi. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il

05 aprile 2022

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Ci sono dei giorni in cui il politicamente corretto e i pensieri arcobaleno di Dacia Maraini si tingono d’imbarazzo. 

Prendete il giorno in cui Rai Cultura inondava i palinsesti di ottime e approfondite analisi su Pier Paolo Pasolini (tra cui segnalo “Visioni. P.P.P. Una vita corsara”, la prima parte di “Museo Pasolini” con Ascanio Celestini e “'Na specie de cadavere lunghissimo”, da godersi tutte su Rai Play); be’ Daria era gradita ospite dei quei pregiato documentari. E, al tempo stesso, la scrittrice si trovava a parlare su Facebook del suo libro su Pasolini. E subito, faceva notare il critico letterario Gian Paolo Serino direttore della rivista letteraria Satisfiction  «Dacia durante una diretta con Roberto Cotroneo di Neri Pozza dice a proposito di Maria Callas che avrebbe voluto sposarlo: “l’idea che l’avrebbe guarito dalla sua omosessualità”…».Chiosava, il Serino: «Guarito? l’omosessualità per la Maraini è ancora una malattia? Meno male che da scrittrice dovrebbe essere più attenta alle parole». Serino aveva ragione.

E ancora meno accorta è stata, più o meno, la risposta che Maraini diede alla Callas che voleva, appunto, de-omosessualizzare PPP: «Cosa vuoi fare Maria, oramai a quell’età...». La qual cosa evoca un po’ quella domanda classica, intimista, logorante, tipica dei genitori anni ’70 nei riguardi del proprio figlio: «Oddio, e se poi questo mi diventa frocio?». Ora, Dacia è del ’36, è figlia del suo tempo virilista e omofobico a tinte forti; e -come spiega bene Walter Siti- ha vissuto anni in cui quel tipo di lessico non era inquadrato certo nel politicamente corretto. Ma il problema di Dacia è la stessa  scrittrice che, ogni settimana, da anni, ci delizia dalle colonne del Corriere della sera con rampogne bombastiche sui diritti delle donne e degli omossessuali, sulla parità di genere e contro le diseguaglianze, sul rispetto del senso stesso delle parole che possono ferire. 

Non è la prima volta che la sussurrata signora inciampa nelle gaffe. E una volta parla degli uomini con la barba “svirilizzati” e “predicatori di odio” (e io un po’ me la sono presa, rovistandomi il pizzetto); e un’altra ecco che suggerisce alla Ue -essendo contraria alla guerra, come tutti-  di non fornire missili agli Ucraini ma fionde come quella di Davide; e un’altra ecco che fa un pippone sull’acqua pubblica, senza conoscere troppo le leggi. Insomma Dacia, inciampa nelle gaffes ma il suo inciampo viene sempre spacciato per licenza poetica e saggezza controcorrente. C’è da dire che le sue, visto quello che c’è in giro, almeno sono gaffes col foulard, elegantissime Simonetta Sciandivasci  per “La Stampa” il 2 aprile 2022.

Di quello che di Pasolini è stato frainteso, trasfigurato e manipolato, s' è detto. E s' è detto anche di quello che ha scritto, interrotto, avrebbe potuto ancora scrivere. Eppure, il discorso su di lui non si conclude e, anzi, s' allarga.

Ora si discute di cosa si decide di dire e non dire, mostrare o non mostrare, e di come (e se) questo abbia a che fare con lo spirito del nostro tempo. Sul Corriere della Sera, Paolo Di Stefano ha ripreso quanto Roberto Carnero, professore e studioso di Pasolini (ha appena pubblicato Pasolini, Morire per le idee, Bompiani), ha fatto notare con preoccupazione su Avvenire: nel volume delle Lettere appena uscito per Garzanti, rispetto all'edizione originale che uscì per Einaudi, ci sono parecchie omissioni, molte delle quali legate all'amore di Pasolini per Ninetto Davoli (che aveva 14 anni quando incontrò il regista la prima volta). 

Nel suo articolo, che principia mettendo sul piatto la cancel culture, Di Stefano scrive, in accordo con Carnero, che la ripulitura sarebbe avvenuta per «sottrarre Pasolini all'accusa di pedofilia». Emanuele Trevi, che del medesimo epistolario ha scritto con entusiasmo, e che su Pasolini ha costruito il suo Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie, 2018), dice alla Stampa: «Non credo abbia senso difendere uno scrittore così esplicito, come era Pasolini, dalla sua vita. Esattamente come Gabriel Matzneff, non ha mai nascosto niente. La bellezza dello scandalo, del resto, sta nell'ipocrisia.

 Mi viene sempre in mente, in casi come questo, Ulisse che va dai Feaci e, dopo aver raccontato le sue storie, si copre, si vela e piange: i Feaci si accorgono del suo pianto proprio perché si nasconde. Ciò detto, Carnero e Di Stefano hanno tutto il diritto di avanzare critiche a una scelta editoriale, così come chi l'ha fatta aveva il diritto di farla: è un nobilissimo braccio di ferro. A me l'epistolario di Garzanti ha entusiasmato, e l'ho scritto». Ma che scelta editoriale è quella che omette un fatto tanto significativo di un autore, specie in un epistolario, che è un documento biografico?

«L'equivoco nasce dalla lettera, che può essere tante cose: un esercizio squisitamente letterario, innanzitutto. All'inizio di questo epistolario, ce n'è una di Pasolini al fratello morto, con tanto di epigrafe. Ma la lettera può essere anche un documento, una confessione non elaborata letterariamente. C'è un'ambiguità nello statuto: che cosa sono le lettere di uno scrittore? 

 L'epistolario di Keats è un trattato di poesia romantica essenziale, ma contiene anche notizie private dell'autore. Le lettere di Pasolini, invece, hanno a che fare con un vissuto elaborato letterariamente: è lui che decide quale immagine di sé riscrivere artisticamente. Credo che, allora, la posta in gioco non sia la trasformazione della vita in opera d'arte: il discrimine vero è tra esperienza e scrittura. E per me non c'è differenza tra una lettera finta e una vera. Evidentemente, i familiari hanno giudicato inopportuno il tono confidenziale di alcune parti: è impossibile giudicare l'operazione, la cancel culture non c'entra»

 Walter Siti per “La Stampa - TuttoLibri” il 4 aprile 2022.

Non ci posso credere. Non posso credere che per cinquant' anni mi sono occupato dello stesso scrittore, che poi non era neanche davvero il mio tipo - certo non è Dante, né Dostoevskij, né Cervantes, né Shakespeare. 

Per cinquant' anni non mi sono occupato di lui a tempo pieno: dopo la tesi ho dovuto disintossicarmene, poi ci sono tornato sopra perché era un argomento che conoscevo e potevo sfruttarlo per la «carriera», poi ho amato e studiato altre cose (forse la vera catena al collo, parecchio più tardi, sono stati i dieci tomi dei Meridiani a cui mi chiamò Renata Colorni grazie alla mediazione di un'amica comune, Giovanna Gronda). 

Però era come la griglia di una gora a cui corrono tutte le acque piovane, Pasolini e il suo desiderio me li trovavo sempre tra i piedi: il suo «ossimoro permanente» era anche per me una scappatoia, condividevo il suo paradosso di un sacro senza religione, la mia omosessualità l'ho cresciuta e difesa anche contro di lui e il suo senso di colpa; quando mi sono trovato a innamorarmi di un borgataro romano, a scrivere di Marcello e del suo ambiente, giuro che non stavo pensando a Pasolini: alla Borgata Fidene mi ci aveva portato la vita.

Ci pensai dopo, a metà scrittura, che poteva sembrare un'imitazione o una sfida ma ormai era fatta; mi venne in mente il paragone con quando ti sforzi di rinnegare tuo padre e poi una mattina facendoti la barba allo specchio t' accorgi che il gesto di tirarti la pelle sullo zigomo è la replica del gesto che faceva lui. 

Ma Pasolini (a costo di giurare di nuovo) non è mai stato un padre per me, come io non sarò un padre per nessuno. Adulti, mai. Eravamo a Cordova o forse a Granada con Laura Betti e altri coscritti, avevano organizzato un incontro-spettacolo su Garcia Lorca e Pasolini: Laura prese la parola e parlando dei due poeti insieme li chiamò «due ragazzi». 

Per Lorca mi tornava, è morto a trentotto anni, ma per Pasolini mi parve un'esagerazione; ora, che potrei avere un figlio dell'età che aveva Pasolini quando è morto, capisco Laura e il suo sentimento. Probabilmente, accademia e critica letteraria a parte, il filo che mi ha tenuto legato a lui per una così incredibile durata è stata proprio la percezione di una comune immaturità.

Non riesco a considerare Pasolini semplicemente un oggetto di studio: per questo ho voluto intitolare Quindici riprese la raccolta dei miei saggi su di lui. «Riprese» vuol dire che ho ripreso il discorso almeno quindici volte, ma il numero quindici è legato al pugilato, che nei suoi anni eroici regolava appunto in quindici round gli incontri validi per i campionati europei o mondiali. 

Quello con lui, per me, è sempre stato un combattimento. (Senza escludere, mi viene in mente ora, l'armonica di senso legata al lessico sartoriale: mia mamma, abile sarta, chiamava «riprese» quelle che faceva agli abiti per adattarli a una persona diversa dal primo proprietario, per esempio accorciare una gonna o stringere in vita un soprabito troppo largo; i vestiti di Pasolini mi stanno larghi addosso, è ovvio). La psiche ha percorsi tortuosi, a meno che io non stia ragionando su tutto ex post, per cercare di dare unità a un itinerario esistenziale e critico che magari invece è stato casuale e sbadato, come tante cose che mi riguardano.

 Il solo merito che mi riconosco, proprio grazie all'andamento carsico del mio coinvolgimento biografico, è di essere rimasto vergine sia dal servo encomio che dal codardo oltraggio. C'è stato un momento, subito dopo la morte, che Pasolini è diventato di moda: a un qualunque incontro in piazza o in libreria, bastava che sul manifesto si parlasse di Pasolini e accorreva il doppio del pubblico che sarebbe accorso per qualunque scrittore anche più bravo di lui. 

Io, che già passavo per essere uno che lo conosceva bene, non ne potevo più di sentirmi chiedere che cosa avrebbe pensato Pasolini dell'edonismo reaganiano o delle Brigate Rosse. Si parlava di lui poco meno che come di un profeta. Viceversa, per reazione, c'era chi sosteneva che lui fosse stato poeta solo quando non scriveva versi, che la sua retorica fosse stata stucchevole, che il suo populismo sentimentale apparisse ormai ideologicamente dannoso e stilisticamente arretrato. 

Lo si dannava in quanto pedofilo; tutti ne rivendicavano politicamente un pezzetto (i comunisti, i fascisti, i radicali, perfino la Lega Nord) e tutti lo biasimavano per ciò che sembrava aver concesso agli avversari; ogni argomento era buono pur di non far la fatica di leggerlo. 

Il suo essere volontariamente o involontariamente scandaloso continuava ad attirarmi, come un rimprovero alla mia pavidità; coraggioso tanto che nei suoi ultimi anni era andato a mani nude contro la corazzata dei media e del perbenismo progressista.

La sua morte aveva fatto scalpore sia per le circostanze poco chiare in cui era avvenuta, con sospetto di depistaggi da parte del potere democristiano e mafioso, sia perché veniva dopo i suoi editoriali sul Corriere della sera e dopo il successo dei film «decamerotici» (di cui lui per altro si era già abbondantemente pentito). 

Ecco, forse la cosa in apparenza più superficiale ma più sostanziosa nel fondo, più delle sue famose «contraddizioni», era per me il suo continuo pentirsi di ciò che aveva scritto prima, le sue costanti «abiure», il suo essere perennemente insoddisfatto della letteratura come gioco verbale, la sua scoperta che la poesia è impotente di fronte alla realtà. Perché Pasolini non ha, non ha mai avuto, una «dignità» da difendere: la dignità è dei padri mentre lui è un eterno figlio infelice e velleitariamente eversore; i figli infelici sono i soli poeti, «Hitler è il deputato dei Rimbaud di provincia». 

 I giovani che ora provano a leggerlo lo trovano un po' artificioso, sfuggente. Eppure nessuno come lui sarebbe adatto a un giovane scrittore: perché non sarà mai un maestro da venerare. Nel panorama suo contemporaneo, denso di avanguardie e sperimentalismi d'ogni genere, Pasolini è stato forse l'unico vero «geneticamente sperimentale»: ha giocato a rimpiattino coi generi letterari e con le altre forme di espressione artistica, contaminando e pretendendo di risalire sempre alle origini.

 Io, che mai sarò padre nemmeno per simbolo, vedo Pasolini come un figlio che si dibatte tra le spire degli elementi primari: il sole, l'acqua, il sesso, il niente prima della nascita, la morte. Invidio la grandezza del suo errore nel voler tradurre in passione civile l'ossessione erotica; non posso che contemplarla dal basso per mancanza di ali. Ammiro come un fenomeno naturale la sua debordante vitalità, la sua inesausta capacità lavorativa; non gli perdono l'annaspare inconsulto, la rimossa sudditanza ai «Padri farisei»; maledico la sua sfortuna (o fortuna, chissà) di essere diventato un bersaglio, triturato da un meccanismo che non gli ha consentito di darci quel che il suo sicuro insaziabile talento avrebbe potuto; compiango il suo esser diventato un mito.

Siti e Pasolini incrociano i guantoni. Gian Paolo Serino il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

"Quindici riprese" è un grande contributo scientifico ma anche un regolamento di conti.

Non è soltanto una raccolta di saggi su Pasolini ma è un corpo a corpo con la letteratura, con l'idea stessa di letteratura come materia viva. Walter Siti manda in libreria Quindici riprese (Rizzoli, pagg. 412, euro 20) dimostrandosi ancora una volta l'unico scrittore italiano contemporaneo capace di trasformare l'inchiostro in un respiro, le parole in un atto di purezza e infine di generosità. In questi che sono, come recita il sottotitolo «cinquant'anni di studi su Pasolini», Walter Siti si confronta con Pasolini - del quale è massimo studioso: alla sua opera ha dedicato l'opera omnia nei Meridiani Mondadori- e si «libera» dall'oggetto della sua ricerca, un'ossessione che lo ha accompagnato per quasi una vita. Un'ossessione che si avverte ancora nell'ampissimo uso del pronome «lui», la parola che ricorre maggiormente in tutto il libro. Da una parte Siti vuole «smitizzare» Pasolini, affrancandolo dal dramma di essere diventato un «personaggio pop» poco letto ma molto citato persino da «politici corrotti, soubrette televisive e giornalisti buoni per tutte le stagioni»; dall'altra è lui stesso a cercare di liberarsi dal daimon di Pasolini, da quel suo essere «volontariamente o involontariamente scandaloso come fosse un rimprovero alla mia pavidità». È difficile comprendere nella prefazione inedita e nei saggi presentati - già apparsi in riviste, saggi, introduzioni- quando Siti è oggettivo o quando si presenta come una delle tante vittime di Pasolini stesso. Un Pasolini capace di cannibalizzare chiunque perché, come annota lo stesso Siti, «il personaggio più potente che la letteratura di Pasolini abbia mai creato è Pasolini stesso». Un Pasolini che non ha lasciato eredi, se si esclude «Vincenzo Cerami che comunque è sfuggito per la tangente, liberandosi del terribile Salò con l'invenzione di La vita è bella». Neanche Siti si considera un erede perché «contemplo la grandezza del suo errore nel voler tradurre in passione civile l'ossessione erotica; non posso che contemplarla dal basso per mancanza di ali» ma «invidio la fama che il destino gli ha concesso». E aggiunge: «congedando questo libro () getto tardivamente le stampelle, mi dico illudendomi che sia un gesto coraggioso ma forse è solo il senile volermi allontanare da qualcuno che ancora mi rimprovera, che mi sventola in faccia la mia rassegnazione a tacere e dunque è un'ultima prova di viltà». Siti racconta da una parte l'intellettuale Pasolini che del suo essere controcorrente non ha mai voluto fare una corrente (Siti scrive che non ci ha lasciato, ad esempio, un «manifesto letterario») e dall'altra un Pasolini che comprende come la letteratura non possa colmare il vuoto dell'essere umano.

Per Siti «Pasolini non ha previsto praticamente niente del futuro italiano e mondiale» e anche «Montale è stato poeta più grande di lui, Morante e Moravia sono stati romanzieri migliori, Fellini è certo più indiscutibile come regista. Pasolini è stato tutte queste cose insieme e non c'è strada letteraria e culturale in Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta che lui non si sia messo per traverso». Per Pasolini, conclude Siti, la «parola Letteratura ha un valore negativo contrapposta alla poesia». In questo Siti ricorda l'Arthur Rimbaud che nell'opera Divina Mimesis -la rivisitazione in chiave moderna della prima cantica della Divina Commedia - accoglie Pasolini e gli mostra grandissimi scrittori che non hanno paura della letteratura perché «non si ha paura di ciò di cui sei più forte». Forse perché, leggendo i passaggi dove Siti mostra un «Pasolini prefabbricato per mito», «un triangolo tra Artaud, Dom Franzoni e Marilyn», viene in mente l'incipit della poesia Autopsicografia di Fernando Pessoa: «Il poeta è un fingitore./ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/il dolore che davvero sente».

La grandezza del libro di Walter Siti è che in queste «quindici riprese» il Walter Siti saggista raggiunge vette di certo superiori ai tanti che hanno dedicato centinaia di libri a Pasolini, ma quel che è ancor più interessante è lo scrittore che emerge. Sono saggi, certo, ma è anche il romanzo su un uomo ossessionato dallo stesso mito che cerca di sfatare: se da una parte Siti sembra sconfessare questa idea (come quando sembra troppo esplicitamente prenderne le distanze evidenziando che ha perso due delle tre lettere che Pasolini gli inviò mentre era studente alla Normale di Pisa), dall'altra leggiamo di un artista, Siti stesso, che di Pasolini ha subito tutte le influenze, gli affronti, le arroganze, le violenze del suo «corpus» letterario.

Leggiamo di un artista che influito un altro artista, di un poeta che ha depotenziato un altro poeta (desiderio di Siti che più volte si rammarica di non esserlo). È un match impari, per usare il termine pugilistico del titolo, dove Pasolini ha sempre combattuto (come nella vita) a «mani nude» (concetto che Siti usa più volte) mentre Siti non ha compreso, forse per timidezza forse per arroganza, che se avesse deposto guantoni e caschetto di protezione sarebbe stato tutto un altro incontro. Quindici riprese è uno scontro tra due timidezze: urlata quella di Pasolini, soffocata quella di Siti.

Quindici riprese è senza dubbio il libro definitivo su Pasolini - tantissimi gli aspetti che qui abbiamo tralasciato, impossibili riportarli tutti- ma è al contempo uno dei migliori romanzi di Walter Siti: non perché vi siano invenzioni letterarie ma perché è un libro che commuove per la purezza e generosità. L'ulteriore sensazione è che dopo cinquant'anni di studi pasoliniani sia arrivato alla stessa conclusione che ha recentemente raccontato Mario Elia nel podcast Perché Pasolini?: Elia appena quattordicenne fu adescato da Pasolini tra le borgate romane e oggi sessantenne in dialetto romano si interroga «Ma Pasolini che ha fatto per noi? Che ha fatto per noi borgatari? Niente. È morto senza fà niente, senza un manifesto, senza un aiuto, ma che ha fatto? Scriveva, scriveva, scriveva, ma che si scriveva?».

Pasolini è l’emblema del gran bazar delle commemorazioni. CHRISTIAN RAIMO su Il Domani l'08 marzo 2022

Pasolini è diventato, suo malgrado, il modello dello scrittore come icona, merce, brand. Frasi decontestualizzate possono fare da slogan a campagne pubblicitarie o auguri di compleanno.

Ragionare su questo genere di questioni, senza moralismi o facili soluzioni, a partire dal centenario pasoliniano ha due sensi.

Il primo riguarda l’uso pubblico delle memorie culturali. Il secondo mette in discussione la centralità invadente che hanno assunto gli anniversari anche nel dibattito culturale. 

CHRISTIAN RAIMO. Scrittore e traduttore. Ha collaborato con diverse riviste letterarie (Liberatura, Elliot-narrazioni, Accattone, Il maleppeggio), quotidiani (il manifesto, Liberazione (quotidiano)) e con la casa editrice romana Minimum fax. Con la stessa casa editrice ha pubblicato, nel 2001, la sua raccolta di racconti di esordio, Latte. Il suo primo romanzo, Il peso della grazia, è uscito nel 2012 per Einaudi.

Davide Brullo per mowmag.com il 30 marzo 2022.

Ha la statura di un vincolo, l’implacabile dell’illecito: che del corpo di Pier Paolo Pasolini, dico, si faccia massacro, caustico banchetto, osceno mercimonio. Si sono inghiottiti gli occhi di PPP, la lingua forcuta, scartavetrato la mascella claustrale; funesto mercato si fa del suo cazzo, il cazzo pasoliniano, in irrimediabili copie, calchi di calchi, nudità svenduta a peso d’oro, che schifo. 

Tra i libri immondi che celebrano il secolo di Pasolini, nato a Bologna nel marzo del 1922, scopertosi poeta – e dunque, ovunque, scandalo – a Casarsa della Delizia, in Friuli, intellettuale a Roma, morto all’idroscalo di Ostia nel giorno dei morti del ’75, per lo più apolide, apocrifo al proprio tempo, uomo a parte, il più brutto, il più triste, il più insulso lo ha scritto Massimo Recalcati, s’intitola Pasolini. Il fantasma dell’origine (stampa Feltrinelli). 

Sessanta pagine in formato microscopico, da microonde editoriale, in cui lo psicoanalista telegenico “tra i più noti d’Italia” (così la bio) s’incarica, che infamia, di ‘normalizzare’ Pasolini, di fagocitare “le posizioni francamente reazionarie di Pasolini” in yogurt polemico e buonista – ma Pasolini era innocente, mica giusto; e l’innocenza è feroce, ferina, non risparmia nessuno –, d’altronde, “la sua non è una critica puritana al potere, ma la visione della necessità di un ricambio generazionale che impone si abbia il potere per modificare gli assetti del potere”. Insomma, il Pasolini di Recalcati non è la pietra d’angolo, il poeta lapidario, l’uomo che lapida il potere: è un pio riformatore che lavora per stimolare a “mettersi davvero in gioco per trasformare le istituzioni”. Petting partitico, patetico.

Perso in un fitto fottio di concetti marci, macilenti, anemici – del tipo: “Più in generale, Pasolini coglie con grande lucidità quel processo di dissoluzione della funzione simbolica del padre... che caratterizza il nichilismo della società dei consumi” –, di citazioni ritrite (dall’articolo “dedicato alla scomparsa delle lucciole” a quello Contro i capelli lunghi), Recalcati compila un bigino sfasato, da misero miniatore del proprio ego, sottolineando – che autoinzuccamento del cazzo – che a Pasolini “nel 1979 dedicai la mia tesi di maturità intitolata Popolo e religione nell’opera di Pasolini”. Eccolo, il fine psicoanalista, che infine piscia in bocca al cadavere di Pasolini sbraitando, con anale protervia, esisto anch’io nel centenario pasoliniano, mi unisco anch’io al fiero pasto dei cannibali, dei vili.

Pasolini e Maraini

Piuttosto, i ricordi – retrivi, superficiali, vani – degli amici di PPP ci danno l’idea della sonora solitudine in cui viveva il poeta, schiacciante, agghiacciante, sfrenata – e verrebbe voglia, prima che ci prenda a morsi, di accarezzarlo, il cadavere di PPP, di baciarlo, di renderlo all’amore. Forse, ricorrendo all’elusione e al provocante, Pasolini mirava a essere frainteso. Di certo, non lo ha capito Dacia Maraini, che in Caro Pier Paolo (stampa Neri Pozza) vanta un’amicizia idilliaca con Pasolini, dando di lui l’idea di un mero pupazzo, un miserabile fantoccio, dominato dal destino del desiderio, prono a tutte le interpretazioni, a novanta, adatto al comodino, comodo, accomodante, un Pasolini aggiogato al guinzaglio, addestrato, che dice ciò che vuoi sentirti dire, inutile spettro, inerme, inerte. 

Gente altolocata, passanti chiarificati dalla prestanza di Pasolini, che ora, con esasperata vendetta – inconsapevole? – lo sputtanano. In particolare, il testo della Maraini dimostra chiari segni di demenza stilistica, è scritto male (“Vorrei acchiapparti per un braccio, Pier Paolo, e chiederti: ma tu che corri sempre, dove vai?”), declassato in una nostalgia senza lignaggio, serva. Non è neppure sacrilego (magari lo fosse, ne godremmo per alterigia del grottesco, protervia in bestemmie): è biecamente inerte, beato nella propria fiera inutilità.

Di fatto, la Maraini tritura il cadavere di Pasolini in pappa di caviale, usa il morto per i propri fini, promozionali: l’autrice, figlia di cotanto Fosco, ci rammenta che con Piera degli Esposti ha scritto Storia di Piera (p.22), che a Pasolini piaceva il suo Memorie di una ladra (“L’hai giudicato un ‘romanzo picaresco’”, p. 67), che ha “fatto ricerche su Chiara di Assisi” (da cui, va da sé, è scaturito un libro; p.101), che ha scritto “un testo teatrale su suor Juana Inés de la Cruz (p.197). Ci avvisa, la scaltra Dacia, che “amo molto le case museo. 

Ricordo la casa di Tolstoj che ho visitato a Mosca...” (p.117), e chissenefrega; rivanga l’era femminista fatta di “albergucci economici”, “panino col formaggio” e ribellismo al dettaglio (“Il personale è politico, era la nostra ricetta prediletta”). In effetti, nell’anno in cui muore Pasolini la Maraini licenzia un dramma ad alta densità ideologica, Reparto speciale antiterrorismo, reperto di un’era fa, fasullo, da idolatria sessantottina, dove le forze dell’ordine calzano nomi parlanti (Cane, Muscolo, Furbo, Italo) e latrano frasi di militare idiozia: “Fare domande non è segno di intelligenza... Devi ubbidire e basta... Al lavoro in silenzio, senza fiatare”. Più che un segno di contraddizione, i testi della Maraini rispondono ai comandi dell’egemonia dominante, da lotta di classe in salotto, contenta lei. 

Di Caro Pier Paolo, più che altro, va elogiata la copertina: Pasolini e la giovane Dacia, di apollinea bellezza, assediati dal cielo abbacinante d’Africa. Il breve ricordo di Ezra Pound, “un grande poeta compromesso col nazismo”, capace di poesie “che, a parte quelle deliranti legate al periodo nazista, sono bellissime” (quale sarebbe il “periodo nazista” di Ez?), è acido, stupido, imbarazzante. 

Probabilmente, ex amici, compagni di via, smaliziati esegeti tentano di fare di Pasolini un’icona da talk, una specie di lassativo culturale, appianando aporie, apostasie, eversioni. Sono loro, costoro, incatenati allo show editoriale, che con sarcastica gioia ammazzano Pasolini nella sacrestia delle buone intenzioni, ne fanno pasto, lo sbudellano, lo evirano, felici di sventolarne lo scalpo, bravi, l’avete svaginato. Ancora e ancora e ancora.

Pasolini, il centenario di carta diventa l’amuleto delle prof della dea sinisteritas. PIETRANGELO BUTTAFUOCO su Il Quotidiano del Sud il 16 marzo 2022.

Ha la faccia di Massimo Ranieri il centenario di letteratura e popolo di PPP. Nel viaggio superficiale dell’affastellare volti, contesti e parole, s’impone l’unicità del canone dove tutto si tiene, quello del luogo comune di pop e fraintendimento, l’avverso destino – insomma – in cui è incappato Pier Paolo Pasolini.

Diventato perfino un intercalare nella programmazione di RaiRadio3, dove – all’improvviso – è sempre un “come direbbe Pasolini”, “come scriverebbe Pasolini”, “come filmerebbe Pasolini”, il più reazionario tra gli intellettuali d’Italia, nella percezione dei saputi, e nel sentimento diffuso, si ritrova a essere una caricatura dell’impegno, una sorta di amuleto per le professoresse col cerchietto devote al dogma del progresso di “dea sinisteritas”. Le bacheche di Facebook, per dirla con Alessandro Gnocchi, straripano dei suoi versi e di sue citazioni.

E invece, tutto il contrario. Un universo, quello di PPP, di miracoli e fiaschi di vino. L’usignolo friulano di “Difendi, conserva, prega”. Ecco chi è. Contro l’estremo slogan del principio nuovo, della parola nuova, per alimentare le masse.

È appunto Ranieri ad assomigliare a Pier Paolo Pasolini, e non viceversa. Il marchio di origine – il proletario in giacca e cravatta – è lui. Lui è il dio nelle fattezze dello straniero, del “diverso” a essere più precisi. Con tutto il rispetto per Dacia Maraini e per il profluvio di carta da centenario, l’unico libro su Pasolini che merita di essere letto, è “PPP, le Piccole Patrie di Pasolini” – un saggio di Alessandro Gnocchi, edito da La Nave di Teseo – dove ci sono tutti i giorni incantati del vivere sconosciuto.

Non conosce speranza, il futuro. Così nel groviglio dell’opera totale di PPP. È un incamminarsi nell’angoscia di massificazione e depauperazione.

Lo si scorge tra le ombre di Matera dove, in cerca di Cristo, gira il suo film più carnale o nel fosso di “Teorema” dove Silvana Mangano vi arriva per far l’amore. Fosse pure nel sottofondo di una litania contro le donne che si pitturano le unghie, quella coralità di popolo dello scrittore corsaro è poetica nel profondo di un romanticismo radicalmente impolitico.

Il suo calcio al pallone ripete – con la stampella di Enrico Toti – lo slancio di vita nel pieno della disfatta esistenziale, tutta di passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Le sue lucciole, infatti, non baluginano tra gli incastri dell’egemonia e nel parlare alla tomba – “Le Ceneri di Gramsci” – nel parlare al capo filosofico del comunismo italiano, dice: “attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta; la sua natura, non la sua / coscienza”.

Il mondo che se ne va, strugge di evidenze. Abbaia la campagna, si sa. Col viatico di Gnocchi – ottimo segnavia in quel romanzo sentimentale che è PPP – il canto tragico del poeta è sì catarsi ma nel chiarore. La speranza che Cristo scenda dalla croce per salvare l’autenticità dell’esistenza è già feconda gioia.

Il ragazzetto in uniforme ritratto in copertina – è la divisa della GIL, Gioventù italiana del Littorio – è lo stesso che nel passare degli anni diventa “l’emerito pervertito” cui un’infinità di carte giudiziarie lo certifica “imputato”.

Trentatré processi come stazioni di un calvario il cui esito, per PPP, è un exitu. Se ne ricavano gli occhi rossi a leggere la pagina 107 del libro di Gnocchi. Trova una chiavetta alla reception della pensione di Casarsa dove ha soggiornato per immergersi nelle Piccole Patrie. Un biglietto – a lui indirizzato, sapendolo in partenza – si raccomanda: “senza divulgarle, per favore”.

Ecco un brano dal libro di Gnocchi: “Ho con me solo un iPad. Dovrò aspettare. Salgo in macchina e arrivo a casa di notte. Infilo subito la chiavetta nel computer. Parte un video artigianale in bianco e nero, senza audio. Difficile dirlo se sia inedito. Non importa: certamente io non l’ho mai visto. È ipnotico. Dura circa quindici minuti. È Casarsa piena di gente, ovunque, per strada, sui balconi, alle finestre, nei portoni. Passa la bara dello scrittore Pier Paolo Pasolini, massacrato selvaggiamente in un campetto di calcio all’Idroscalo di Ostia. Adesso sono io ad avere gli occhi rossi”.

Quindici venti chilometri al più, ecco la misura delle Piccole Patrie.

Un’ora di pedalate a girarci intorno, a prendersi il cielo ad alzare il naso in aria, a avvistare un pallone in strada – o in piazza – e farne epica, come in una ricerca di realtà nell’illusione della verità.

Tanto più reale quanto più eretico, come quando la fede attraverso il dubbio scuote da sé ogni passività e diventa azione, personale reazione.

E dunque: “Difendi, conserva, prega”.

100 anni dalla nascita. Le rivoluzioni di Pier Paolo Pasolini.  Paolo Speranza su La Voce delle Voci il 2 Marzo 2022. Per LA VOCE DELLE VOCI Pier Paolo Pasolini non è, non è mai stato, semplicemente un’icona culturale buona per tutti gli usi, ma un alto riferimento etico, un testimone scomodo e coraggioso, un uomo che oltre alle parole e alle immagini ha messo in campo la propria faccia e il proprio corpo per sfidare il fascismo oscuro che ancora si annida nella società italiana.

Potremmo dire che per noi è stato un (illustre e gradito) compagno di viaggio, che condivide il percorso – difficile e controcorrente, come la sua vita e le sue opere – della nostra testata fin dal 1984. Un percorso che i nostri lettori potranno scoprire a mano a mano, nell’anno del centenario di Pasolini, rileggendo i tanti articoli che hanno provato a ripercorrere e a sottolineare, con l’aiuto di amici e studiosi del poeta-regista, le sue qualità artistiche ma soprattutto il suo impegno politico, il coraggio ideale, il suo essere vicino e partecipe alle ansie e alle lotte del Sud d’Italia e di tutti i Sud del mondo, sempre dalla parte dei poveri, dei deboli, dei dimenticati.

Per questo, oltre ad attingere al vasto archivio pasoliniano (cartaceo e poi online) de LA VOCE DELLE VOCI, ci siamo proposti di proseguire il cammino alla ricerca delle sue tracce, ancora profonde, ancora necessarie a indicarci una strada verso un futuro tutt’altro che facile e pacificato, e tuttavia l’unico possibile per chi vuole ispirare la propria vita alla ricerca della verità e alla pratica della democrazia solidale. Partendo dall’Africa, ieri come oggi l’area più depressa e sfruttata del mondo, che Pasolini (caso rarissimo, se non proprio unico, nell’intellighenzia italiana e occidentale pre-Sessantotto) sentiva come il punto di partenza per la costruzione di un’umanità nuova.

Dall’Africa al Sud Italia, proprio come il suo Alì dagli occhi azzurri, il passo è naturale, inevitabile: un Sud antropologicamente diverso da oggi, il Sud della Matera-Gerusalemme del suo Vangelo secondo Matteo, della Napoli “ultimo villaggio d’Europa” del Decameron, o dell’Irpinia, la provincia all’epoca più povera d’Italia ma capace di sprigionare la vincente utopia del “Laceno d’Oro”.

Quanto è rimasto di quel Sud percorso e amato da Pasolini?

È una riflessione che vogliamo condividere con i nostri lettori, ma qualche risposta ci sentiamo di darla subito. Quando pensiamo alla generosa utopia umanitaria di Riace, alla comunità di Lampedusa che accoglie i profughi del mare, alla gara di solidarietà dei cittadini di Bari per accogliere gli albanesi della nave Vlora che sognavano Lamerica in Italia, ai giudici coraggiosi e ai giovani che in Campania, in Calabria e in Sicilia non si arrendono alle mafie, non si può fare a meno di pensare che Pasolini aveva capito come nessun altro, forse come solo il suo amico Carlo Levi, che il Sud può essere l’estrema riserva di umanità nell’Occidente cinico e vuoto dei Paesi ricchi e “frugali”, a patto di non snaturare la sua antica cultura di semplicità e di accoglienza. 

L’AFRICA di PASOLINI

 “Africa! Unica mia alternativa…”, scrive Pasolini in Frammento alla morte, nella raccolta La religione del mio tempo (1961).

In quello stesso anno il poeta-regista, di ritorno dall’India, compie il suo primo viaggio in Africa, in compagnia di Alberto Moravia ed Elsa Morante, visitando il Kenya e lo Zanzibar. Un’autentica folgorazione: “Sono stato razionale e sono stato / irrazionale: fino in fondo. / E ora…ah, il deserto assordato / dal vento, lo stupendo e immondo /

sole dell’Africa che illumina il mondo”, scrive in Frammento alla morte.

Per Pasolini è la scoperta di un universo antropologico quasi primitivo e ancora intatto, dal quale riprendere il suo viaggio inesausto alle radici del Mito primigenio, ormai definitivamente cancellato in Occidente dalla civiltà industriale: un tema che riprenderà in Poesia in forma di rosa (1964). Nello stesso 1961, invitato dagli Editori Riuniti a firmare la prefazione all’antologia I poeti. Letteratura negra, a cura di Mario De Andrade, Pasolini scopre la vivacità culturale che anima i movimenti di liberazione dei popoli di colore nell’Africa nera e nelle Americhe. Una vera e propria “Resistenza negra”, come scrive nel titolo della sua prefazione, che Pasolini non può fare a meno di comparare con le analoghe speranze di libertà e di giustizia degli “ultimi” d’Italia: “Lo ‘sguardo al futuro’, che era tipico in noi in quei famosi anni quaranta, lo ritroviamo qui, con la stessa quasi impudica freschezza, con la stessa imprecisa ma emozionante irruenza”. Qui Pasolini rivela la sua visione del Terzo Mondo e la sua idea di Sud, più antropologica e culturale che etnica e geografica: “I negri nudi che ballano intorno al fuoco sono come sottoproletari rovigotti intorno al fiasco del vino o cafoni meridionali che suonano la chitarra (p. XXI). È fortemente sintomatico che a lottare per la giustizia sociale siano i popoli più lontani dalla civiltà industriale”.

Questa Africa, al tempo stesso arcaica e in fermento, che Pasolini torna a visitare l’anno successivo, in Egitto e nel Sudan, gli ispira da subito il progetto di un film: Il padre selvaggio, di cui “Film Selezione” pubblicò in esclusiva il soggetto nel numero 12 del luglio-agosto 1962 (le riprese sarebbero iniziate nell’inverno successivo) definendolo “il primo film che affronterà realisticamente e con una precisa impostazione ideologica il dramma e la nascita della nuova Africa”. Per dare concretezza al progetto, Pasolini torna in Africa nel gennaio del ’63, visitando Ghana e Guinea in compagnia di Moravia, Dacia Maraini e del produttore Alfredo Bini. Pasolini e Moravia esplorano il continente nero, annuncia la “Settimana Incom illustrata” del 10 febbraio, e tre giorni prima “Vie Nuove” pubblica un’ampia intervista a Pasolini sui luoghi del film con il titolo Perché in Africa. Perché, spiega il poeta: “L’Africa è l’aspetto di una realtà che riguarda anche l’Italia. (…) Sono andato in Africa per caso due anni fa, tornando da un viaggio in India. E mi ha irrazionalmente e antropologicamente incantato”.

Per il nuovo film, che nell’intervista definisce “la storia di una educazione (educazione reciproca)”, Pasolini effettua i sopralluoghi e le scelte per il cast, individuando gli attori per i due ruoli principali: il professore democratico, giunto nel liceo della capitale di uno Stato che ha appena ottenuto l’indipendenza, e il suo studente più intelligente e sensibile, Davidson, figlio di genitori poveri e analfabeti, con il quale dibatterà dialetticamente sui temi della libertà, della democrazia e del rapporto tra bianchi e neri.

Perché questo “atto d’amore verso i popoli dell’Africa libera”, come lo definì “Vie Nuove”, non si concretizzò? Lo rivela Pasolini nell’introduzione alla sceneggiatura di Il padre selvaggio, pubblicata da “Cinema & Film” nei numeri 3 e 4 del 1967: “E’ stato il processo a La ricotta, per vilipendio alla religione, che mi ha impedito di realizzare Il padre selvaggio. Il dolore che ne ho avuto – e che ho cercato di esprimere negli ingenui versi di E l’Africa? – ancora mi brucia orrendamente. Dedico la sceneggiatura de Il padre selvaggio al pubblico ministero del processo e al giudice che mi ha condannato. Sono cose, queste, che si possono perdonare ma non dimenticare”.

L’anno successivo, da un nuovo viaggio in Uganda e Tanzania, Pasolini realizza tra il dicembre del ’68 e il febbraio del ‘69 Appunti per un’Orestiade africana, documentario di forte impronta etnografico-visiva concepito come preludio ad un progetto cinematografico più ampio, strutturato in cinque film, dal titolo Appunti per un poema sul Terzo Mondo. Presentato a Venezia nel 1973, alle Giornate del cinema italiano, e tre anni dopo al Festival di Cannes, Appunti per un’Orestiade africana fu definito da Alberto Moravia “il film più riuscito di Pasolini”, il quale, con il pretesto di condurre uno studio per un film su Eschilo, ha in realtà affrontato un tema fondamentale della sua vita artistica: il conflitto tra l’antico e il moderno, tra l’arcaico e il contemporaneo, in un percorso culturale che mirava ad unire il mito della tragedia greca con il retaggio arcaico dell’Africa contemporanea, accomunati da un conflitto drammatico sull’idea di giustizia e sulla nascita della democrazia. “Pasolini ‘sente’ l’Africa nera con la stessa simpatia poetica e originale con la quale a suo tempo ha sentito le borgate e il sottoproletariato romano”, commentò Moravia sul numero del 14 febbraio 1971 de “L’Espresso”, che pubblicò la recensione col titolo Oreste a trenta all’ombra.

In questo film, dichiarò nel 2005 a “Quaderni di Cinemasud” il regista Gian Vittorio Baldi, che ne fu il produttore, risaltano le qualità del Pasolini “cineasta totale”, per aver scritto il soggetto e la sceneggiatura, curato le riprese e il montaggio, letto i commenti fuori campo, scelto le musiche di Gato Barbieri e inserito scene di un ballo di fecondazione della terra della tribù Savana Magago Dadono del Tanganica.

(da TuttoPasolini, Gremese, Roma, 2022) 

PASOLINI, REA E IL “LACENO D’ORO”

Cinema e letteratura nel Festival del Neorealismo 

Pasolini e il “Laceno d’Oro”: è stato un flash, ma di quelli che illuminano per sempre la vita di una comunità e restano impressi in maniera indelebile nella sua memoria collettiva.

In una lettera del 30 agosto del ’59 Pier Paolo Pasolini comunica all’amatissima madre Susanna l’imminente partenza per Avellino (piccolo capoluogo dell’Irpinia, una provincia montuosa vicino Napoli), dove giunge il 5 settembre, accolto con grandi onori al Circolo Sociale. L’indomani è a Bagnoli Irpino, all’albergo “Al Lago”, sull’altopiano del Laceno, che da quell’anno ospiterà uno dei festival cinematografici più originali e importanti d’Italia, l’unico al mondo dedicato al Neorealismo, il movimento culturale più importante nella storia del cinema italiano, grazie ai capolavori di registi come Rossellini, De Sica, Visconti.

Accolto con interesse e simpatia, Pasolini firma decine di copie del suo recente successo editoriale Una vita violenta e ritira il primo Premio “Laceno d’Oro” alla regia per conto di Michelangelo Antonioni, vincitore con Il grido.

Pasolini si intrattiene con il sindaco di Bagnoli Irpino Tommaso Aulisa e con i promotori del Festival internazionale del cinema neorealistico, i giornalisti avellinesi Camillo Marino e Giacomo D’Onofrio, per definire la linea culturale e i dettagli organizzativi del Premio.

Lo scrittore friulano è rimasto colpito da un’accorata lettera inviatagli l’anno precedente da questi due giovani intellettuali dell’Italia del Sud e decide di aiutarli a realizzare il loro sogno: dar vita nella provincia di Avellino (all’epoca la più povera d’Italia) ad un premio cinematografico e ad una rivista specializzata.

L’intervento di Pasolini è decisivo: nel ’58 nasce la rivista “Cinemasud” (su cui lo scrittore-regista pubblicherà poesie, saggi e soggetti cinematografici) e nel ’59 il “Laceno d’Oro”.

Il 31 luglio del ’60 Pasolini è di nuovo sul Laceno, per la seconda edizione del Premio, seduto accanto all’attrice Laura Betti, sua amica e musa ispiratrice, nella prima fila di una platea di circa ventimila persone. Fra gli ospiti c’è Domenico Modugno, già diventato una star internazionale con la canzone Volare, che per Pasolini comporrà la stupenda colonna sonora di Che cosa sono le nuvole.

Pasolini chiede a Marino di accompagnarlo al santuario della Madonna di Montevergine, vicino Avellino, e al ritorno registra dalla viva voce di alcuni giovani del posto la versione originale della Canzone di Zeza, un canto popolare del Carnevale, che alcuni anni dopo costituirà la sigla di testa del suo Decameron.

Con Pasolini il “Laceno d’Oro” nasce all’insegna del binomio cinema-letteratura.

I neorealisti di Avellino si richiamano alla lezione del grande critico letterario Francesco De Sanctis, nato in Irpinia, pubblicano su “Cinemasud” racconti e poesie, inseriscono nella giuria del “Laceno d’Oro” Alberto Moravia – all’epoca lo scrittore italiano più famoso – e fra gli amici e sostenitori del Festival spiccano lo scrittore e giornalista siciliano Giuseppe Fava (ucciso nell’83 a Catania dalla mafia) e due autori napoletani: Luigi Incoronato e Domenico Rea, quest’ultimo già famoso anche all’estero, fin dagli anni Cinquanta, per Gesù, fate luce e Spaccanapoli, a cui Marino e d’Onofrio offrono nel ’66 la presidenza del Premio.

Del “Laceno d’Oro” – che proprio quell’anno si trasferì da Bagnoli Irpino ad Avellino – Domenico Rea fu un sostenitore convinto: “Bisogna dire subito – scrive nel ’68 in un’accorata lettera al presidente della Provincia di Avellino – che esso rimane il premio più sganciato, spontaneo, ricco di improvvisazioni e di illuminazioni che nel campo della cinematografia vi sia in Italia”.

La presidenza quinquennale di Rea coincide con l’”età d’oro” del Festival irpino, in una felice simbiosi di “dolce vita” di provincia e di fermenti culturali del ‘68.

Toccò allo scrittore napoletano, nel ’66, consegnare il primo premio alla grande attrice svedese Ingrid Thulin, l’anno successivo ai fratelli Paolo e Vittorio Taviani per I sovversivi, nel ’69 a Ettore Scola (per Il commissario Pepe), nel ’70 al regista di Drop out Tinto Brass e ai protagonisti Franco Nero e Gigi Proietti.

Furono gli anni del “disgelo” verso il cinema dell’Est europeo, dei dibattiti tra autori e pubblico dopo le proiezioni, della “scoperta” di tanti attori e registi: un festival giovane, coraggioso e conosciuto in tutto il mondo fu quello che Rea riconsegnò nel ’70 alla coppia Marino-d’Onofrio e al suo prestigioso successore: Cesare Zavattini, “il poeta del Neorealismo”, scrittore e sceneggiatore dei capolavori di Vittorio De Sica Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto D., Miracolo a Milano.

Su “Cinemasud”, intanto, esordiscono alcuni giovani appassionati di cinema che diventeranno importanti storici e docenti universitari, scrivono critici e giornalisti affermati e nel comitato di redazione figurano registi di fama internazionale: Carlo Lizzani (presidente del “Laceno d’Oro” dal 1978), Lina Wertmuller, Giuliano Montaldo, Luigi Zampa.

La rivista pubblica anche 37 Quaderni tematici e un libro del direttore Camillo Marino, Estetica politica e sociale del Neorealismo, in cui si delineano i valori estetici e ideologici che animano il “Laceno d’Oro”: la difesa del cinema ispirato alla realtà, politicamente impegnato (secondo i princìpi del marxismo e dell’antifascismo), indipendente e d’autore; l’attenzione costante per le cinematografie dell’Est e del Sud del mondo; la visione del cinema come strumento di analisi della realtà, di coscienza critica, di formazione culturale; la valorizzazione di opere, autori, manifestazioni di qualità sottovalutate dal mercato e dalla stampa.

La costante attenzione riservata alle cinematografie dell’Europa dell’Est e del Terzo Mondo diventa una delle caratteristiche peculiari del “Laceno d’Oro”: in tempi di “guerra fredda” e di dominio dello star system di Hollywood il Festival di Avellino e “Cinemasud” riservano ampio spazio al cinema dei paesi in via di sviluppo (India, Cuba, Egitto, Palestina, Vietnam, Bangladesh, Cile democratico e tanti altri) e del mondo socialista, innanzitutto della Jugoslavia (che viene premiata con Targhe d’oro e d’argento, ininterrottamente, dal ’66 all’81) ma anche di Urss, Ungheria, Polonia, Romania, Bulgaria. E Cecoslovacchia, paese in cui Marino era praticamente di casa e per due volte, nel ’72 e nel ’76, è stato membro della giuria internazionale al Festival cinematografico di Karlovy Vary.

Nel mondo del cinema il “Laceno d’Oro” si conquistò anche la fama di “premio portafortuna”, per aver dato i primi riconoscimenti a futuri maestri del cinema mondiale (Antonioni, Pontecorvo, Scola) e ad esordienti di grande avvenire (i registi Paolo Benvenuti, Silvio Soldini, Silvano Agosti, Luigi Faccini, Nino Russo, Franco Piavoli, Cinzia Th.Torrini, Salvatore Maira e gli attori Valeria Moriconi, Franco Citti, Michele Placido, Stefano Satta Flores, Gigi Proietti, Barbara De Rossi, Luca Barbareschi) e soprattutto per aver scoperto, per la prima volta in Italia, il talento di cineasti come l’indiano Mrinal Sen, il francese Paul Vecchiali, il croato Vatroslav Mimica, il serbo Goran Paskaljevic, la norvegese Anja Brijen, il cileno Reinaldo Zambrano, il cubano Humberto Solas e tanti altri.

Il declino comincia dopo il violento terremoto che il 23 novembre ’80 colpisce l’Irpinia, provocando più di 3000 morti e danni ingenti. In quella circostanza drammatica Zavattini scrive una lettera alle popolazioni irpine e nell’81 sarà in prima fila al Cinema Eliseo di Avellino per incoraggiare con la sua presenza i neorealisti del “Laceno d’Oro”.

L’ultima edizione del Festival di Avellino si svolge nel 1988.

L’anno successivo il “Laceno d’Oro” chiude per mancanza di finanziamenti pubblici, paradossalmente proprio quando l’Irpinia – grazie ai contributi per la ricostruzione – vive la sua fase di maggiore ricchezza. Lo stesso anno crollano il Muro di Berlino e le utopie socialiste di cui si era alimentata l’intera esistenza di Camillo Marino, che tuttavia negli ultimi anni prende le distanze dal “socialismo reale” ma resta coerente ai suoi ideali antifascisti ed al rigore morale apprezzati anche dagli avversari politici e dai critici cinematografici che non ne condividono i princìpi estetici.

Dieci anni prima, intanto, il 1 novembre del 1979, nel ventennale del “Laceno d’Oro”, un gruppo di cineasti di tutto il mondo, su invito di Marino e D’Onofrio, in una commovente cerimonia all’albergo “Al Lago”, aveva posto una lapide in memoria di Pier Paolo Pasolini, barbaramente assassinato quattro anni prima. Fu distrutta l’anno dopo dal terremoto e mai più ricostruita.

Oggi la redazione della rivista “Cinemasud” lancia la proposta di intitolare a Pasolini una sala del Nuovo Cinema Eliseo di Avellino, che dal ’66 all’88 ospitò quel “Laceno d’Oro” che forse, senza Pasolini, sarebbe rimasto solo una meravigliosa utopia. 

DOMENICO REA SU PIER PAOLO PASOLINI 

Pasolini – Una vita semplice 

Noi napoletani abbiamo perduto pa­recchio con la morte di Pasolini. Egli amava Napoli, s’intende la Napoli ple­bea, che considerava un unicum profondamente diverso dalle borgate ro­mane.

Alla plebe napoletana egli attribuiva una serie di virtù umane rimaste intat­te, fervide e franche, senza quella macchia di orrori disseminatisi in altri luoghi, oggetto dei suoi interessi di uomo e di artista, derivati dal consumi­smo, dal distacco dalla storia, dalla frenesia di vivere senza uno scopo o un ideale. Nelle sue analisi più recenti, Pasolini nella gioventù di oggi aveva finito per individuare un indistinto mortificante. È rimasta celebre la sua diagnosi della incapacità di separare un giovane di tendenza fascista da uno di tendenza comunista o extraparlamentare. Tutti per Pasolini avevano ormai lo stesso comportamento, lo stesso fanatismo, lo stesso modo cate­chistico di esprimersi e la stessa vio­lenza distruttiva.

Il mondo plebeo napoletano non rien­trava in quest’universo della morte; e non a caso, nel Decameron, i personag­gi di bassa corte si esprimono in dialet­to napoletano. Questo avvenne non sol­tanto perché Pasolini sapeva che il Boccaccio ricevette la sua più grande lezione di vita e lo spirito della commedia proprio dalla fervida Napoli tre­centesca — in anni in cui la nostra città, in tutti i sensi, era la capitale d’ Europa, avanti a Parigi e Londra — ma perché nel dialetto napoletano egli aveva trovato un linguaggio amabile, analogico e in grado di alleggerire i mali dell’uomo e di renderli più accet­tabili.

Su Napoli, del resto, Pasolini proget­tava d’impiantare il suo più importan­te film — il più aperto alla vita e cari­co di speranza —. Memore di un’epigrafe di Paolo VI, che in Napolivede un termine di altissima umanità, egli pensava di stabilire un confronto tra Napoli e il resto del mondo occiden­tale: un mondo cioè che, pur nella sua problematica esistenziale, è rimasto al di fuori del regno del delitto contro se stesso e gli altri. In questo senso me ne parlò a lungo durante le sessioni del processo ai Racconti di Canterbury do­ve io e altri amici napoletani, dietro suo invito, ci recammo più per dargli una mano che per un atto di presenza e di solidarietà.

Ma a parte questa preferenza per Napoli nel suo discorso artistico, sono i diseredati (e i disadattati) di tutta Ita­lia che hanno perduto il loro più valido e ultimo campione. Figlio del neoreali­smo Pier Paolo Pasolini era stato l’uni­co a non venir meno a questa temati­ca, che assume a vertice dell’esistenza la coscienza degli umili a essere il mo­tore della storia. Quasi tutti, se non tutti gli scrittori e i registi provenienti dalla stessa corrente hanno cambiato rotta, si sono buttati a descrivere casi di eccezione o sono precipitati in un mare di banalità. Pasolini, pur cam­biando genere di continuo, o tenendoli tutti in istato di allarme sul tavolo di lavoro, non si era lasciato incantare o deviare o tentare dalle apparenze, anzi era rimasto attentissimo al progressi­vo cammino in bene e in male di una sostanza, quella popolare, legata a lui e alla sua intimità come il suo stesso modo di essere.

Pasolini non ha mai descritto un bor­ghese. Non si è mai attardato nelle sue opere ad approfondire una storia d’amore o una storia interiorizzata. Nel « terzo stato », infatti, l’amore è un problema secondario. Il vivere quoti­diano, come lotta per non lasciarsi schiacciare predomina sul resto e se l’eros vi ha un suo capitolo il suo stile ri­siede nell’avventura, nella gioia, con il preciso significato di una parte del tut­to. Ma ciò che conta, ciò che è da ri­cercare, e che Pasolini cercava, è il sentimento tragico della vita, riscatta­to dalla coralità, che nelle borgate ro­mane come a Napoli è presente come mutuo soccorso, come interesse alle cose del prossimo.

È stato sorprendente per tutti ap­prendere che la sua ultima sera Pasoli­ni la trascorresse in compagnia di un amico semplice, della di lui moglie e dei loro bambini. Col suo nome, col suocenso, molti altri avrebbero da tempo cambiato abitudini, avrebbero tirato al mondano e all’appartato. Ma Pasolini amava la «gentarella». Si sentiva a suo agio solo in sua compagnia. È sta­to uno dei pochissimi artisti della no­stra storia letteraria e cinematografica che si sia sforzato di darci un’immagi­ne articolata e piena del mondo degli umili visti dall’interno fino ad apparirelui stesso un indigeno. La sua rimane un’arte o il più grande esempio di un’ arte popolare non paternalistica. La stessa tragica fine, del resto, è una testimonianza non di una « vita violen­ta », ma semplice.

Domenico Rea

 (“Il Napoletano”, anno II, n. 10, 10 novembre 1975) 

MATERA COME GERUSALEMME

Il Vangelo di Pasolini e la sua idea di Sud 

In pochi film, come nel Vangelo secondo Matteo di Pasolini, è possibile scorgere in maniera così inequivocabile i segni del Destino.

Quel viaggio ad Assisi, innanzitutto (ricordato in questo volume negli illuminanti saggi di Cetta Brancato, Angelo Fàvaro e Salvatore Ferlita), sui luoghi e tra gli apostoli del messaggio francescano, doveva rivelarsi il contesto ideale non solo per una potente, e presto insopprimibile, spinta creatrice, ma anche per conferire la necessaria profondità di spirito e dottrina ad una religiosità che nell’animo del regista era latente da sempre, e si era manifestata a livello cinematografico – in una forma decisamente originale ed amara ma non del tutto compiuta – appena un anno prima nell’episodio La ricotta del film collettivo Rogopag, introdotto dalla definizione della Passione di Cristo come “la storia più grande che sia accaduta“.

E la “scoperta” dell’interprete del Cristo? Addirittura “drammatica”, l’avrebbe definita più avanti Pasolini. Certo casuale come poche, e decisiva per la vita del giovane protagonista, come lo stesso Irazoqui e lo studioso Giorgio Manacorda qui testimoniano nelle preziose interviste a Cetta Brancato.

“Fatale”, poi, nell’accezione positiva dell’attributo, si sarebbe rivelato il passaggio di Pier Paolo Pasolini a Matera: un seme fecondo di umanità e di cultura, che a più di mezzo secolo – come ben argomenta nella sua ampia testimonianza Domenico Notarangelo – rinnova e amplifica il miracolo di un film e di un’identità antropologica che sono da tempo patrimonio inestimabile della comunità internazionale. 

LA RELIGIONE DEL SUO TEMPO

A merito di Pasolini va attribuita la straordinaria, profetica capacità di saperli interpretare, e indirizzare in senso progressivo, quei segni del Destino. A partire dalla svolta epocale che si stava prefigurando nella Chiesa cattolica con il Concilio Vaticano II. Pochi intellettuali del tempo, soprattutto di orientamento marxista ma anche nello stesso mondo cattolico, dimostrarono di saper cogliere con tanta tempestività, e nella sua immensa portata, l’eredità del pontificato di papa Roncalli. Come non ricordare la commossa dedica iniziale del Vangelo secondo Matteo alla memoria di Giovanni XXIII?

Con la sua scelta di realizzare un film su una tematica religiosa, la più ambiziosa e temibile, il poeta-regista di Casarsa riuscì a spiazzare sia l’intellighenzia di sinistra che il clero italiano, contribuendo ad aprire su entrambi i fronti fertili canali di dialogo e rispetto e vistose crepe nelle granitiche contrapposizioni ideologiche.

Da parte marxista questo sforzo venne sottolineato anche da un critico cinematografico severo come Antonello Trombadori, al quale su “Vie Nuove” del 10 settembre del ’64 preme “porre l’accento su quanto il film di Pasolini porta avanti sul terreno delle idee“. Finalmente, sembra suggerire l’intellettuale comunista, ne è passata di acqua sotto i ponti da quando le autorità religiose, poco più di vent’anni prima, avevano condannato la Crocefissione del suo amico Renato Guttuso come “eretica”, bollando l’artista di Bagheria come “pictor diabolicus”.

Le poche (e becere) riserve nei confronti del film vennero soprattutto dagli ambienti della destra, in Italia, e in Francia dai settori radical chic: in una memorabile proiezione a Notre-Dame, davanti a cinquemila persone, il 16 novembre del ’64, toccò a Jean Paul Sartre difendere Pasolini e il suo film dalla contestazione di una parte del pubblico e dagli attacchi del settimanale “Le Nouvel Observateur”.

Davvero significativa, e di portata storica, fu l’accoglienza riservata al film da parte delle autorità cattoliche: dopo il premio per il Vangelo secondo Matteo alla Mostra del Cinema di Venezia arrivò nello stesso 1964 il premio OCIC per il miglior film dell’anno. Non era passato neppure un anno dalle polemiche che avevano accolto La ricotta. Potenza del genio e della poesia di Pasolini. E del coraggio della nuova Chiesa in cammino, per ritrovare il suo popolo.

Nel cinquantennale del film, lo scorso anno, “L’Osservatore romano” poteva definire con legittima convinzione Il Vangelo secondo Matteo “il più bel film mai girato su Gesù”: le gerarchie e i maggiori intellettuali cattolici, per una volta, lo avevano percepito con immediatezza e senza riserve fin dalla “prima” a Venezia. Non era affatto scontato, come ci ricorda lo storico Guido Crainz, in quell’Italia del ’64. 

LO STUDENTE CHE DIVENTÒ CRISTO

“Avevo diciannove anni. Ai tempi della dittatura franchista ero membro del sindacato clandestino e, siccome sapevo un po’ di italiano, fui inviato in Italia per contattare intellettuali che facessero conferenze nell’isola democratica dell’università spagnola. Non avevo mai sentito parlare di Pasolini quando andai a trovarlo. Appena aperta la porta, come mi raccontò poi Ninetto Davoli, si accorse subito che ero il protagonista del suo Vangelo. “Ho trovato Gesù” – disse“.

Così Enrique Irazoqui, oggi professore di letteratura spagnola, ricorda in questo libro la sua prima e indimenticabile esperienza di attore, sul set del Vangelo di Pasolini.

Dal punto di vista di Pasolini quell’incontro casuale fu altrettanto decisivo. Dalla sua testimonianza, riportata in Le regole di un’illusione, edito nel ’91 dal Fondo Pier Paolo Pasolini, risalta l’enfasi per quel che allora gli parve una sorta di miracolo: “Una scoperta che avvenne in modo quasi drammatico. Avevo rinunciato già a molti attori, avevo visto migliaia di persone, ormai mi ero arreso. Stavo per prendere un attore teatrale tedesco, quando improvvisamente entro in casa e me lo vedo seduto su una poltrona: eccolo lì, Cristo! Enrique Irazoqui: uno studente catalano che aveva scritto delle cose su Ragazzi di vita e voleva conoscermi. Aveva lo stesso volto bello e fiero, umano e distaccato dei Cristi dipinti da El Greco. Severo, perfino duro in certe espressioni“.

Se il Vangelo secondo Matteo rappresentò una svolta per la vita di Irazoqui, l’epifania di Irazoqui a Roma risultò a sua volta determinante per il successo del film.

“Fu un incontro di quelli che soltanto il Destino riesce a combinare – commentò a buon diritto su “l’Unità” David Grieco nel testo dell’edizione in vhs del film. “Perchè Irazoqui, con il suo volto piatto come un’effigie e misterioso come una scultura dell’isola di Pasqua, resta di gran lunga il Cristo più intenso, più magico e più iperrealista che mai si sia visto al cinema. Al confronto, attori pur bravi e sensibili come il Robert Powell del Gesù di Franco Zeffirelli o il Willem Defoe dell’Ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese paiono soltanto dei volgari impostori. A tutt’oggi, la storia del cinema non ha altro Cristo all’infuori di Irazoqui”. 

IL SUD DI PASOLINI

Nel volto di Irazoqui, inoltre, il poeta-regista friulano ritrovava quell’archetipo umano di un mondo arcaico e non corrotto che, nella sua preoccupata e lungimirante visione, era destinato ad una imminente estinzione.

In un’ampia recensione a Scritti corsari e alla raccolta di poesia La nuova gioventù,  pubblicata su “Il Mondo” il 14 agosto del ’75, lo scrittore Enzo Siciliano (che fu tra l’altro – con Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Alfonso Gatto ed altri letterati – una delle “partecipazioni speciali” del Vangelo) collocava il rimpianto pasoliniano per la cultura contadina non in una metafisica età dell’oro, quanto verso una reale “età del pane”, quando “gli uomini erano consumatori di beni estremamente necessari”, evocando in questa recensione il Freud del Disagio della civiltà e il sentimento del limite dell’umanità in La Ginestra di Leopardi.

A sua volta testimonia lo storico Giacomo Scotti, che ha ripercorso le tracce del rapporto di Pasolini con la Jugoslavia, e segnatamente con l’Istria: “Era ossessionato dalla minaccia incombente di un “universo orrendo” del potere e del consumo, nel quale avrebbero finito per estinguersi le “storie particolaristiche” e nazionali, sarebbero state crudelmente represse le “diversità”, liquidati il “sentimento”, l'”avventura”, il “romanzesco”, la bellezza; un mondo di “omologazione” tecnologica e di consumismo che avrebbe scatenato l”aggressività individuale'”.

Il Sud di Pasolini è storico, più che geografico; anzi, per essere più aderenti alla sua Weltanschaung, è un Sud pre-storico, arcaico, con i caratteri e il fascino del mito. E’ ogni terra dove sopravvivono i “popoli perduti”, che resistono alla civiltà ed al potere totalizzante del consumismo e del mercato. Un topos letterario, dunque, che affiora fin dalla raccolta Le ceneri di Gramsci, nel poemetto intitolato L’Appennino, laddove Pasolini sente di ritrovare nelle “meridionali voci” il mondo contadino del Friuli della sua infanzia. Dal Friuli alle borgate romane, al Meridione d’Italia, all’Africa, all’India, fino allo Yemen e all’Iran “si sono susseguite in Pasolini le tappe di un’ininterrotta epifania del Mito, ovvero della ricerca di nuove incarnazioni della mitologia di un’umanità vergine e primitiva: sempre più a sud, sempre più lontano dall’odiata civiltà neocapitalistica e borghese, verso mondi ancora barbari e incontaminati”, rileva Guido Santato in Pasolini: quale eredità? (2005), primo volume della nuova collana dei “Quaderni di Cinemasud” (edizioni Mephite).

Nel Mezzogiorno appenninico Pasolini era riuscito a trovare le ultime tracce di quel mondo contadino, altrimenti scomparso nell’Europa occidentale, come dichiara nella famosa intervista a Oswald Stack: “Bisogna ricordare che l’Italia era, ed è ancora, in una posizione abbastanza insolita nell’Europa occidentale. Mentre il mondo contadino è completamente scomparso nei maggiori paesi industrializzati come la Francia e l’Inghilterra (dove non si può parlare di contadini nel senso classico di questa parola), in Italia, invece, esso ancora sopravvive, sebbene recentemente si sia verificato un suo declino…Il mio rapporto col mondo contadino è molto diretto, come per molti Italiani: quasi tutti noi abbiamo avuto almeno un nonno contadino, nel senso classico di questa parola”.

Ben presto anche l’Italia avrebbe subìto in maniera irreversibile gli effetti dell’omologazione consumistica, e Pasolini mostra di intuirne l’esito fin dai tempi de La ricotta, come rileva nel saggio dello Speciale Pasolini di “Quaderni di Cinemasud” (2005) la giornalista e studiosa di cinema Marika Iannuzziello: “La morte di Stracci sembrerebbe suggerire che il mondo decantato da Pasolini si stesse estinguendo, per lo meno in Italia, tant’è che negli anni successivi l’autore si recherà con sempre più frequenza nei Paesi del Terzo Mondo a ricercare quei volti, quelle facce non ancora segnate dalla nova religione dell’uomo moderno, il consumismo“. 

MATERA COME GERUSALEMME

Chissà se Pasolini era a conoscenza di quel dipinto di Carlo Levi – altro nume tutelare del popolo lucano e dell’identità storica di Matera – risalente agli anni del confino, a sud di Eboli, oltre i confini del mondo civilizzato: Grassano come Gerusalemme.

Certo è che trent’anni dopo, anche se per circostanze in parte fortuite, Pasolini si convinse di ritrovare a Matera – più che nella stessa Palestina – l’atmosfera, i luoghi ed i volti dell’epoca di Cristo. La città dei Sassi, scrive David Grieco, divenne nel film di Pasolini l’epicentro di “un Terzo Mondo quasi extraterrestre che porta i nomi di Matera, Gioia del Colle, Crotone, Orte, Montecavo, Barile, Massafra, Catanzaro e la Valle dell’Etna“.

All’epoca fu soprattutto Trombadori, nella citata recensione su “Vie nuove”, a percepire la contaminazione tra linguaggio cinematografico e dimensione antropologica nel film di Pasolini, in particolare “la sua limpida sintesi di mito e di realtà nel quadro d’una ambientazione della vita di Cristo al livello del nostro Mezzogiorno più contadino e sottoproletario – quello stesso Mezzogiorno che Carlo Levi dipinge nel suo quadro Matera (sic) come Gerusalemme e nel suo libro famoso prima che Cristo, vale a dire la moderna civiltà, avesse varcato i confini di Eboli, e che ancora in tanta parte è rimasta tale”.

Un decennio più tardi, su “Il Mondo”, Siciliano avrebbe indicato anche un’ulteriore e peculiare chiave di lettura del Vangelo di Pasolini: la scelta degli “ultimi” da parte di Cristo prendeva corpo nel film attraverso i volti degli interpreti, dai protagonisti alle comparse: “L’aspetto fisico degli uomini, dei “poveri parlanti in dialetto”, era tutt’uno con la loro coscienza morale: l’aspetto della povertà è l’aspetto della bellezza, e insieme quello di un registro di valori che resisteva da secoli“.

Emblematica in tal senso è in questo volume la testimonianza di Notarangelo, che sul set del film di Pasolini a Matera, nel 1964, fu anche attore, nel ruolo del centurione, ma soprattutto collaboratore all’organizzazione ed al casting. Fu a lui che il regista affidò il delicato compito di reperire attori non professionisti per interpretare i persecutori di Cristo: “Bisognava cercare una cinquantina di volti che potessero svolgere il ruolo dei sacerdoti e dei farisei. Io avevo una mia idea di come dovessero essere quelle facce. Dovevano essere, mi precisò Pasolini, “facce stronze e fasciste”. Appunto come le intendevo anch’io“.

Le facce, i luoghi, il carisma di Pasolini e la sua scelta di veridicità – insieme alla fotografia di Tonino Delli Colli, alle musiche, allo straordinario doppiaggio di Irazoqui con la voce di Enrico Maria Salerno – furono i veri “effetti speciali” di una pellicola realizzata con legittime ambizioni ma risorse relativamente limitate per quei tempi. Quella magica fusione di poesia e realtà rivive oggi nella testimonianza e nel percorso iconografico che Domenico Notarangelo ha ricostruito da anni, attraverso scritti, pubblicazioni – Il Vangelo secondo Matera (Città del Sole, 2008) e Pasolini Matera(Giannatelli, 2013) – mostre, sollecitazioni culturali rivelatesi determinanti per la ricomposizione di quel patrimonio di documenti, memorie, rapporti umani che oggi fanno di Matera un polo della cultura europea.

“Io ricordo e rivedo Pasolini – scrive oggi in questo volume di “Quaderni di Cinemasud – nei giorni in cui dirigeva il film nei Sassi di Matera e sulle rocce brulle della Murgia. Lo vedevo sempre assorto nel lavoro, mai distratto, sempre concentrato. Lo notavo mentre confabulava con Enrique Irazoqui fra una scena e l’altra, in un’atmosfera di massima concentrazione, come se stesse recitando o scrivendo i versi di un poema. Sì, a distanza di tempo riesco a rivivere quell’atmosfera come fosse oggi, tutti noi immersi in una calura spietata e in un silenzio assordante e intorno a noi la storia millenaria di caverne dove fino a pochi anni prima c’era stata la vita, dove una volta si avvertivano i rumori e i ragli degli asini, dove si percepiva l’odore del pane fatto in casa e l’umore forte delle vinacce e il tanfo violento dei letamai e delle muffe, gli strilli dei mocciosi e i lamenti delle nonne. Il popolo dei Sassi portava addosso i panni della miseria, sulle facce della gente erano evidenti i solchi delle rughe e dei patimenti. E c’era la disoccupazione di massa. Quel popolo si offriva alla perfezione a rigenerare le folle che seguivano Gesù nell’osanna e nella passione. A quel popolo Pasolini non concesse benefici economici poiché misero era il compenso, ma diede lustro e identità, mostrandolo agli occhi del mondo nella nudità della sua condizione di vergogna nazionale e di custodi della dignità umana“.

Di quel popolo e di quella storia (davvero – possiamo dire parafrasando La ricotta – una delle più grandi accadute a Matera e nel Sud) e dei protagonisti del film, primo fra tutti Pasolini, le fotografie di Notarangelo ci restituiscono una icastica dimensione di verità e quella corporeità concreta, umana, lontana anni-luce dalla mitografia eppure capace di trasmetterci una sensazione ineffabile di emozione e poesia. La stessa avvertita con intensità dai visitatori della sua mostra sul Vangelo secondo Matteo da Parigi a Bologna, da Roma a San Pietroburgo, da Trieste all’Irpinia che grazie a Pasolini vide nascere il festival del cinema neorealistico “Laceno d’Oro” e che nel suo nome ha ripreso nel cinquantennale del Vangelo il suo nuovo percorso.

La testimonianza in forma di ricordo e di immagini di Domenico Notarangelo, unita in questo volume a cura sua e della poetessa Cetta Brancato ad avvincenti interviste e notevoli saggi, rappresenta un contributo originale e prezioso per far rivivere la magia di quel film straordinario e la realtà di un’epoca consegnata alla Storia. Con una memoria tenace e commossa, intensamente partecipe ma sempre veritiera e concreta, del tutto in sintonia con la sensibilità ed il rigore intellettuale di Pier Paolo Pasolini.

(dall’introduzione a Pasolini. Scatti rubati, “Quaderni di Cinemasud”, 2015)

Dimmi chi ha ucciso Pierpaolo Pasolini. Simona Zecchi, Giornalista e scrittrice, su antimafiaduemila.com il 13 Marzo 2022.

Sul settimanale Oggi, a cento anni dalla nascita, la storia delle bobine sparite del film "Salò"

L’omicidio mai risolto di Pasolini, il cui corpo massacrato è stato rinvenuto la mattina del 2 novembre 1975, trascina con sé da decenni domande senza risposta che continuano a mantenere accesa la richiesta di verità sul movente che ha portato al massacro dello scrittore. E sui reali esecutori. 

Tuttavia sia il processo, che ha visto la condanna del minorenne Giuseppe Pelosi a 9 anni e 7 mesi, sia le quattro riaperture di indagini, culminate tutte in archiviazioni, hanno seminato nel tempo innumerevoli indizi ed elementi che se messi tutti in fila e letti in controluce conducono a un’altra verità rispetto a quella sancita dalla magistratura nelle battute finali del processo dell’aprile del 79.  Una condanna, questa in cassazione, che già a partire dalla sentenza d’appello, non riconoscerà più il “concorso con ignoti” asserito in primo grado. 

Le ultime indagini preliminari aperte nel 2010 hanno raccolto documentazione e lavoro investigativo cospicui: in tutto 7 faldoni. Ma alla fine, nel 2015, il pm Francesco Minisci chiederà l’archiviazione che la GIP confermerà. Centoventi sospettati, diversi esami svolti dal RIS sui reperti e la conseguente estrazione dei DNA per individuarne i profili. Risultato: incerta la datazione dei profili sui reperti e un database del ministero che fa cilecca. E ancora: nuove interrogazioni, diversi approfondimenti costellati da ritrattazioni, omissioni, piste poco approfondite. Oltre alla foto dello scomparso Flavio Carboni su cui gli inquirenti anche si erano focalizzati per i suoi legami emersi nel tempo con esponenti della criminalità organizzata e la destra eversiva. In quei faldoni hanno fatto capolino poi le carte delle inchieste aperte in precedenza dopo il processo. La procura di Roma, infatti, aveva riaperto altre tre volte le indagini tra il 1987 e il 2005. 

In quest’ultimo caso Pelosi, ribaltando le sue precedenti dichiarazioni, rivelò che quella notte con lui c’erano altre persone e che Pasolini non usò mai violenza su di lui. Tanti altri sono gli elementi su fonti aperte che ci consegnano un’altra verità ma è sul versante del movente che i passi fatti risultano nulli. Anche se le testimonianze relative all’espediente utilizzato per condurre lo scrittore all’Idroscalo (il furto delle ultime scene di Salò o le 120 giornate di Sodoma presso lo stabilimento Technicolor) presenti nelle carte dell’ultima inchiesta, uno spiraglio aperto lo lasciano. Ne parliamo con l’ex agente infiltrato della Dea Nicola Longo che a Oggi per la prima volta rivela: «Fui io nel 1976 a recuperare le pizze di quei film attraverso l’aiuto di un pezzo grosso della criminalità ormai deceduto, che per cercare di allentare un po' la mia presa sulla banda, al tempo, mi disse che avrebbero fatto ritrovare le pellicole. Mi portarono il campione di alcune scene sottratte dal Casanova di Fellini (anch’esso tra le bobine rubate nell’agosto del 1975) per provarmi che stavano dicendo il vero. Così acconsentii: fecero ritrovare tutta la merce rubata, comprese le pizze di Salò, nell’armadio blindato da dove erano state rubate». In precedenza, la produzione di Salò aveva deciso non sottostare ad alcun ricatto e di chiudere il film con altre scene di scarto, ma il regista aveva continuato a cercarle con l’aiuto di Pelosi, Sergio Citti e altri fino alla notte del 1° novembre con la sua Alfa GT. L’auto, che ancora tanti dettagli poteva rivelare nelle indagini successive, è stata ritrovata dopo 46 anni: non fu mai demolita come dichiarato invece da familiari e amici. Ormai irriconoscibile e sotto restauro di un privato, è l’ennesima delle verità sottratte a questa storia. 

Di certo, riguardo alle bobine, c’è che il criminale che le fece riconsegnare non chiese nulla in cambio, come ci conferma Longo, l’ex Serpico infiltrato in tante operazioni fuori e dentro l’Italia che risolse la questione su richiesta della società produttrice americana del Casanova. 

Quello che resta fuori da queste infinite code giudiziarie, però, sono le carte sparse tra documenti e lettere che conducono tutte alla pista di Piazza Fontana e della strategia della tensione. Una lettera datata 24 settembre 75 spedita da Pasolini a Giovanni Ventura implicato nella strage e allora in carcere, rivela l’esistenza di un carteggio tra i due pubblicato da chi scrive. In quel carteggio l’ex neofascista indica a Pasolini le correnti politiche della DC dietro le stragi e l’esistenza di un dossier pericoloso.  

Tratto da: Oggi Settimanale, uscito nella settimana del 3-10 marzo (titolo originale "Dimmi chi ha ucciso Pasolini”) 

Nel centenario della nascita, Mattarella ricorda Pasolini: "La sua lezione continua a parlarci". La Repubblica il 5 marzo 2022.  

Il presidente della Repubblica: "La sua voce, che voleva mettere in guardia sulle ambivalenze del progresso e della contemporaneità, che intendeva segnalare i possibili impoverimenti per l'umanità, travestiti da maggiori ricchezze,è tuttora una testimonianza su cui riflettere". 

"La sua voce, che voleva mettere in guardia sulle ambivalenze del progresso e della contemporaneità, che intendeva segnalare i possibili impoverimenti per l'umanità, travestiti da maggiori ricchezze, rappresenta tuttora una testimonianza su cui riflettere". Nel centenario della nascita, il Capo dello Stato Sergio Mattarella ricorda Pier Paolo Pasollini,sottolineando l'attualità del contributo culturale del grande scrittore e poeta che "aveva le sue radici nel Novecento. In quel dopoguerra, in cui si è affermata l'idea di uguaglianza sostanziale, unitamente a quelle di libertà e democrazia. Gli è appartenuta la dimensione dell'impegno civile dell'intellettuale, a servizio della società".

"Pasolini - scrive il presidente della Repubblica in un messaggio - ha impresso un segno importante nella cultura italiana e la sua lezione continua a parlarci con il linguaggio affilato dei suoi scritti e delle sue immagini, con l'assoluta originalità delle sue visioni, con quell'attenzione alle marginalità - cifra distintiva della sua opera - che in lui esprimeva un desiderio di pienezza umana". Secondo Mattarella, siamo di fronte a un "patrimonio di intuizioni e valori che ancora possono aiutarci nel confronto con la modernità, suo rovello, oltre che bersaglio del suo pensiero critico".

"Pochi, come Pasolini - sottolinea Mattarella - si sono conquistati spazi così rilevanti nella letteratura, nel cinema, nel teatro, nella saggistica, nel giornalismo. La poesia è stata forse il tratto espressivo che più lo ha distinto. Il linguaggio e le idee di Pasolini, così come l'intera sua vita, hanno continuamente messo alla prova convenzioni consolidate, provocando polemiche che non di rado gli sono costate emarginazioni ed esclusioni".

I memoir degli amici e il saggio definitivo di Siti. Alessandro Gnocchi il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Paris, Maraini e Ferretti ricordano lo scrittore. Su "Linus" di marzo l'ultima intervista a Pasolini.

Le pubblicazioni e le manifestazioni pasoliniane, in occasione del centenario, sono moltissime. Ecco una piccola scelta, centrata sui libri appena usciti o in uscita. Molto altro si aggiungerà col passare dei mesi. A parte Le lettere e la nuova edizione di Petrolio, i due «eventi» più importanti, l'editore Garzanti ci accompagnerà tutto l'anno con ristampe e altre iniziative. Belle le ristampe anastatiche delle prime edizioni dei romanzi romani, Ragazzi di vita e Una vita violenta. Nell'ambito del memoir ragionato bisogna segnalare i libri di chi ha conosciuto bene Pasolini. E dunque Pasolini personaggio (Interlinea) di Gian Carlo Ferretti, Caro Pier Paolo (Neri Pozza) di Dacia Maraini e Pasolini e Moravia (Einaudi) di Renzo Paris. Quest'ultimo mette a confronto i due scrittori-amici e contiene una interessante, e anche personale, digressione sul rapporto burrascoso tra Pasolini e il movimento studentesco degli anni Settanta. Paris non si nasconde dietro a un dito e ci mostra anche la rivalità tra gli ex amici dello scrittore nel rivendicarne la memoria e le idee. Nella pura saggistica, il primato, come importanza, spetta al Walter Siti di Quindici riprese (in aprile per Rizzoli). Siti raccoglie per la prima volta cinquant'anni di studi pasoliniani, inclusi i saggi «infedeli» al maestro con affondi sul mito di Pasolini. Sono oltre quattrocento pagine. Il tutto confezionato dal curatore dell'opera completa di Pasolini per i «Meridiani» Mondadori. Tra le ristampe, con o senza aggiunte, segnaliamo Morire per le idee (Bompiani) di Roberto Carnero, un long seller che è un ottimo inizio per il neofita, e la biografia di Barth David Schwartz Pasolini Requiem (La nave di Teseo). Carocci prepara nuovi saggi di carattere accademico ma ben leggibili come «Il Decameron» di Pasolini, storia di un sogno di Carlo Vecce, uscito da poco. Gradevole, e adatto non solo ai ragazzi, il divulgativo Pier Paolo Pasolini. Il poeta corsaro (La nuova frontiera): vi troverete ampie e splendide citazioni da Pier Paolo Pasolini. Tra le riviste, il numero di marzo di Linus dedica la copertina a Pasolini. Contiene, tra molte altre cose, una lunga intervista a Walter Siti, l'ultima intervista a Pasolini di Furio Colombo, un poema di Sandro Veronesi e splendide illustrazioni.

Caro Pasolini mi hai insegnato a essere libero. Massimo Recalcati su La Repubblica il 5 Marzo 2022.

Pier Paolo Pasolini con la madre Susanna Colussi 

Cento anni fa nasceva a Bologna uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento. Il ricordo di un “allievo” che lo racconta in un breve saggio appena uscito in libreria.

Ho incontrato il testo di Pasolini dopo aver incontrato da ragazzo il suo corpo morto, ferocemente assassinato. 

Per la mia generazione Pasolini è stato sinonimo di anticonformismo, libertà intellettuale, pensiero critico. Il personaggio pubblico, il divo, l’intellettuale, il poeta, l’omosessuale appariva fuori dagli schemi, introverso e inassimilabile al pensiero dominante. Era sufficiente quello per provocare nelle nuove generazioni simpatia spontanea e ammirazione, che spesso però prescindevano dalla conoscenza della sua opera. 

Cento anni di PPP. Pier Paolo Pasolini, l’ultimo scrittore italiano del ‘900 e il primo dell’epoca nuova. Eraldo Affinati su Il Riformista il 5 Marzo 2022.  

Pier Paolo Pasolini, che compie idealmente cento anni proprio oggi, è stato l’ultimo scrittore italiano del Novecento e il primo dell’epoca nuova: credo sia questa la ragione che spiega il suo persistere e prosperare nell’immaginazione collettiva non solo italiana. Aveva infatti, a partire dalla tesi di laurea su Giovanni Pascoli, profonde radici letterarie, coltivate e bruciate, un’agguerrita formazione culturale e financo filologica; inoltre i nuclei di riferimento da cui pareva avvinto furono sempre quelli dell’intellettuale moderno: la responsabilità sociale, lo sviluppo del senso critico, la tensione partecipativa che lo spingeva oltre la pagina, il palco e la pellicola, lasciandolo infine tramortito e solo.

Allo stesso modo, senza rinunciare alla tradizione da cui discendeva, volle incidere sulla propria carne viva il tema essenziale del nostro tempo: la dissoluzione dell’opera. Prima della rivoluzione digitale, che ha davvero sentenziato la fine dell’aura dell’oggetto unico preconizzata già nel 1936 da Walter Benjamin, frantumando in Rete i talenti e le forme che li rappresentano, Pasolini è fuoriuscito, come sbalzato, con mossa radicale e tragica, dai generi artistici pure praticati: se li è messi alle spalle, un articolo, un libro e un film dopo l’altro, deponendo a terra gli scudi per offrirsi a petto nudo, coi jeans stracciati e la maglietta sporca, al sacrificio supremo. Ostia come Hostia, in un cristianesimo sepolto e trafugato, secondo la suprema intuizione interpretativa di Giuseppe Zigania. Non a caso risultano incongrue per lui le esclusive e soffocanti definizioni di romanziere, poeta e regista. Ragazzi di vita e Una vita violenta, in quanto manufatti artigianali, non hanno retto alla distanza, scoprendo sempre di più la loro matrice artificiale. Anche Amado mio e soprattutto Petrolio, il capolavoro narrativo, non avrebbero la forza che hanno se a comporli fosse stato un altro: valgono perché sono stati scritti col sangue dopo aver passato il coltellino sulla piaga. Quando li leggi ti viene in mente lui. Tutta la vita che c’è dentro ancora pulsa e zampilla alla maniera di un geyser espressivo.

In fondo la stessa cosa potremmo dire per il teatro, per i saggi (Passione e ideologia, Scritti corsari, Lettere luterane, Descrizioni di descrizioni ne fanno il critico-scrittore più importante della sua generazione e soprattutto la poesia, pensando, ad esempio, al Pianto della scavatrice, uno degli innegabili vertici lirici, compreso nelle Ceneri di Gramsci: “Solo l’amare, solo il conoscere /conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto.” Quest’uomo, di cui tanto sentiamo la mancanza, ha saputo timbrare con l’inchiostro rosso, come pochi altri, i luoghi di Roma nei quali è transitato: “ma giù, a viale Marconi, / alla stazione di Trastevere, appare / ancora dolce la sera. Ai loro rioni, / alle loro borgate, tornano su motori / leggeri – in tuta o coi calzoni /di lavoro, ma spinti da un festivo ardore / i giovani, coi compagni sui sellini, / ridenti, sporchi.” E qui c’è tutto. Non dobbiamo aggiungere altro. Dove egli riuscì ad essere integralmente se stesso, come ormai tutti gli riconoscono, è nel cinema, direi specialmente all’inizio e alla fine: ogni volta che rivediamo Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo e quell’indimenticabile gioiellino di Che cosa sono le nuvole? con Modugno, Totò, Silvana Mangano e Ninetto Davoli in stato di grazia, comprendiamo la natura del genio che abbiamo ancora di fronte: come se in questa irripetibile sequenza visiva, nella frontalità folgorante dei visi, dei paesaggi e delle parole, fra la pittura veneta e le macerie dell’Urbe, Pasolini avesse compendiato il carattere italiano, superando – ora si capisce bene – ogni limitante schema sociologico.

Questo è accaduto perché ha saputo fermare per sempre con la telecamera l’energia vitale che ci contraddistingue. In una suprema chiave pedagogica, spirituale e non operativa, l’autore friulano ha coagulato la sua poetica. A ben pensare la corsa affannosa degli apostoli che stanno dietro al Nazareno, sullo sfondo della Palestina ricostruita sui Sassi di Matera, è la stessa dei ragazzi di borgata in giacca e cravatta (la camicia bianca si gonfia come una vela dietro le spalle di Ettore Garofolo, a Guidonia) che passano veloci sotto agli acquedotti imperiali. Prima del testamento finale, lugubre, solenne e ultimativo, di Salò o le 120 giornate di Sodoma, una delle riflessioni più intense sulle logiche di potere che mostrano in azione il male umano universale dentro la dimensione storico-politica del fascismo. Eraldo Affinati

Il dibattito di 44 anni fa. Perché Pier Paolo Pasolini nel’68 era contro gli studenti: lo scontro con Foa e Petruccioli. Redazione su Il Riformista il 4 Marzo 2022.  

Il 1 marzo del 1968 a Valle Giulia, a Roma, a due passi dalla facoltà di Architettura, ci fu uno scontro violentissimo tra gli studenti e la polizia. Nacque quel giorno il movimento studentesco italiano. E nacque il ‘68. Qualche mese dopo Pier Paolo Pasolini scrisse una poesia di critica feroce agli studenti e di difesa dei poliziotti. Il 17 giugno nella redazione dell’Espresso si svolse una tavola rotonda con lo stesso Pasolini, Vittorio Foa, colonna della Cgil, e Claudio Petruccioli, capo dei giovani del Pci. Coordinava il condirettore del settimanale Nello Aiello. Ecco il resoconto quasi integrale della discussione, (e nella pagina accanto la poesia della quale si discuteva). Sono passati 44 anni, ma vedrete che è una lettura interessante.

AIELLO. La poesia di Pasolini chiama in causa il movimento studentesco, la classe operaia e il partito comunista. Il movimento studentesco ha risposto con la citazione dal “Che fare?” di Lenin. Sentiamo ora l’opinione degli altri.

FOA. La poesia non mi piace, la trovo molto brutta. Però essa è anche interessante: non tanto per ciò che dice sugli studenti o sul movimento operaio, ma per ciò che rivela su Pasolini. Pasolini ha una visione immobilistica della lotta di classe e del movimento operaio. Non capisce gli studenti appunto perché non sono oggi gli operai: la classe operaia non è più quella della metà degli anni ’50, è un’altra cosa, completamente diversa. Pasolini parla di operai che non sanno l’inglese e il francese, e al massimo si danno da fare per imparare qualche parola di russo; io vorrei ricordare che oggi, nelle grandi città del Nord, migliaia e migliaia di operai giovani vanno a scuola la sera e imparano le lingue, apprendono le tecniche, studiano le discipline umanistiche. (…)

PETRUCCIOLI. Più che non capire la classe operaia, a mio parere Pasolini la ignora. Nel pensiero di Pasolini la classe operaia non c’è e non c’è mai stata. C’è una divisione dell’umanità in ricchi e poveri, in gente che puzza o non puzza: è sintomatico in questo senso la parte della poesia dedicata ai poliziotti. Gli sfugge un fatto importante, cioè questo: che il ruolo politico degli strati sociali non è legato alla loro “miserabilità” ma alla loro collocazione concreta nel processo produttivo e quindi alla possibilità di acquisire una coscienza rivoluzionaria.

Per lo stesso motivo Pasolini sbaglia il giudizio sugli studenti, i quali non si possono giudicare dal loro status d’origine, dal fatto che sono in gran parte figli di borghesi, ma solo dal ruolo che assumono oggi nella dialettica sociale e dai loro concreti comportamenti. Insomma Pasolini concepisce le classi sociali come entità poetiche contrapposte: i Poveri e i Ricchi. Vede la classe operaia sempre in chiave populista, il che non gli consente di capire neppure gli studenti. È vero, il movimento studentesco è composto di gente che in gran parte è di estrazione sociale borghese, ma ciò dimostra appunto che l’egemonia borghese sulla società attuale è in crisi. A sua volta il movimento operaio organizzato cerca di acquistare un’egemonia su questi strati che abbandonano la borghesia, ma ci riesce solo in parte.

PASOLINI. Tutto quello che avete detto a proposito della mia poesia dipende dal fatto che si tratta d’una poesia brutta, cioè non chiara. Questi brutti versi io li ho scritti su più registri contemporaneamente: e quindi sono tutti “sdoppiati” cioè ironici e autoironici. Tutto è detto come tra virgolette.

AIELLO. Allora, niente di quello che c’è in questa poesia va preso alla lettera, né il pezzo sui poliziotti, né quello sugli operai…

PASOLINI. Il pezzo sui poliziotti è un pezzo di “ars retorica”, che un notaio bolognese impazzito potrebbe definire una “captatio malevolentiae”: le virgolette sono perciò quelle della provocazione. Tra virgolette sono anche, per esempio, i due passi riguardanti i vecchi operai che vanno la sera in cellula a imparare il russo, e l’evoluzione del vecchio, acciaccato Pci. A parte il fatto che questa figura di operaio e di partito comunista corrispondono anche alla realtà, qui in questa mia poesia, sono figure retoriche e paradossali: provocatorie. Foa mi dice che la classe operaia non è più quella che io descrivo. Ma io (provocazioni a parte) credo che anche Foa si sbagli, si fa delle illusioni. La classe operaia è evidentemente cambiata, ma si tratta di piccole minoranze del Nord. Qui a Roma, per quello che mi risulta, non è cambiato quasi nulla rispetto agli anni ’50, né nei luoghi di lavoro né nelle cellule comuniste. Foa mi accusa di immobilismo. Potrebbe darsi che io abbia assunto una specie di fittizio immobilismo come forma, sempre provocatoria, di discussione polemica. Mi spiego meglio: il vero bersaglio della mia collera non sono tanto i giovani, che ho voluto provocare per suscitare con essi un dibattito franco e fraterno; l’oggetto del mio disprezzo sono quegli adulti, quei miei coetanei, che si ricreano una specie di verginità adulando i ragazzi. Pubblico questi brutti versi per significare quanto segue: ho passato la vita a odiare i vecchi borghesi moralisti, e adesso precocemente, devo cominciare a odiare anche i loro figli, non robot ma ribelli, detraendo dal loro numero solo quei pochi che avranno il mio disgraziato destino, e forse un destino ancora peggiore, dato che i loro compagni di vita moltiplicheranno per mille il moralismo dei loro padri…

FOA. La poesia una volta pubblicata, è una cosa che va per conto suo, e chi la legge non sa nulla dei canoni interpretativi del suo autore. La sua poesia, Pasolini, cade in mezzo a una determinata società e in un determinato momento: un momento nel quale i giovani, nonostante le sue illusioni, sono in gravissime difficoltà. Parlo degli studenti e parlo della gioventù operaia: a mio giudizio è in corso un’operazione congiunta per isolare il movimento giovanile. È in atto un grosso sforzo che ricorre a tutti i mezzi: non escluso il tentativo, per fortuna fallito, di mobilitare contro i giovani le organizzazioni operaie e sindacali. È un pogrom, quello che si prepara, non necessariamente di sangue, ma un pogrom. Ebbene, in tutto questo concorso di forze che cerca d’isolare i giovani mancava la voce d’un poeta. E la voce del poeta è venuta, per accusarli di essere in malafede, d’essere dei piccolo-borghesi. Come può sostenere, Pasolini, che Valle Giulia è stato un episodio di lotta di classe rovesciata? Che importanza ha se i poliziotti sono poveri e provengono da tuguri contadini? I soldati del Governo Provvisorio che, nel luglio del 1917, cacciarono in galera i bolscevichi, li bastonarono e li costrinsero ad emigrare, non erano anch’essi dei poveri contadini con la divisa puzzolente in lotta contro i borghesi della direzione bolscevica?

AIELLO. A me pare che la poesia sia perfettamente in linea con la precedente produzione letteraria di Pasolini. Il suo idolo, la sua materia poetica, non è la classe operaia ma il sottoproletariato. Lei, Foa, è d’accordo?

FOA. Ma anche il sottoproletariato cambia, Pasolini dovrebbe saperlo. Quei giovani operai del Nord che vanno a scuola, e che ancor prima degli studenti hanno affrontato la polizia, a Milano, a Torino, a Valdagno, quegli operai che occupano da venti giorni le ferriere di Bari sono in buona parte ex sottoproletari meridionali. Sono coscienti che la loro condizione di sfruttati pone un problema di classe e di potere. I giovani d’oggi hanno sempre presente l’esigenza d’una riforma radicale delle strutture sociali in cui vivono. Sono giovani studenti e sono giovani operai…

PETRUCCIOLI. È in corso una manovra pericolosa: basta guardare i giornali della grande borghesia. Io mi fido dei giornali della grande borghesia: individuano subito qual è il pericolo principale per la classe che rappresentano. E che cosa stanno facendo oggi questi giornali? Fanno di tutto per evitare l’incontro tra il movimento studentesco e le organizzazioni operaie, presentando di volta in volta gli studenti come dei borghesi o come dei cinesi. Perciò la poesia di Pasolini è sbagliata e inopportuna: se l’obiettivo dei nostri avversari è di dividere le nostre forze, allora dobbiamo chiarire subito qual è l’obiettivo nostro: operarla questa saldatura, ottenerlo questo incontro.

AIELLO. Pasolini, lei è stato definito “il poeta del progrom”. Come si difende?

PASOLINI. Che la mia poesia venga fraintesa non m’importa niente. Fraintesa o no, intanto noi siamo qui a parlare, e in termini non canonici. Almeno io, voi non so. Nella mia poesia io dico: voi studenti, siete figli di papà, e vi odio come odio i vostri papà. Ma questo perché lo dico? Ecco: fino alla mia generazione compresa, i giovani avevano davanti a sé la borghesia come un oggetto, come un mondo separato. Potevamo guardare la borghesia, così, oggettivamente ci era offerto dallo sguardo posato su di essa da ciò che non era borghese: operai o contadini. Per un giovane di oggi la cosa si pone diversamente: per lui è molto più difficile guardare alla borghesia oggettivamente attraverso lo sguardo di un’altra classe sociale. Perché? Perché la borghesia sta trionfando, sta rendendo borghesi gli operai da una parte e i contadini dall’altra. Insomma, attraverso il neo-capitalismo la borghesia sta per diventare la società stessa, sta per coincidere con la storia del mondo.

PETRUCCIOLI. Come si fa, oggi, a dire che la borghesia tende a coincidere con la storia del mondo? Guardiamo il Vietnam e i popoli del Terzo mondo, la Francia e la classe operaia europea, i neri d’America, gli studenti. Sono queste le forze che attualmente fanno la storia con le loro idee e le loro lotte: e sono contro la borghesia.

AIELLO. E lei, Foa? Pensa anche lei che il neocapitalismo abbia, come Pasolini, un’enorme capacità di assorbire e neutralizzare le energie e le coscienze?

FOA. Sì, lo penso anch’io, e so che la scuola è uno degli strumenti a disposizione del neocapitalismo, forse il più importante. Ma il movimento studentesco e quello operaio lottano contro questa situazione. È qui la vera novità di oggi rispetto a ieri. Oggi noi assistiamo a un processo rivoluzionario, o almeno ne cogliamo i sintomi, iniziali ma chiarissimi; e vediamo che a questo processo la classe operaia e il movimento studentesco partecipano concordemente. Quando gli operai francesi occupano la fabbrica, chiudono a chiave il direttore (non perché sia cattivo, anzi dicono che è un brav’uomo e non ha nessuna colpa a incarnare il potere), innalzano la bandiera rossa e suonano l’Internazionale, ci troviamo di fronte a una situazione che non ammette dubbi. Lei, Pasolini, mi chiami pure passionale: ma a questo punto io gli uomini li giudico a seconda se stanno da una parte o dall’altra.

PASOLINI. No, lasciatemi chiarire. Io sono decisamente dalla parte degli operai francesi che hanno occupato la fabbrica e chiuso a chiave il direttore. Ma mentre l’operaio quando si muove ed occupa una fabbrica fa la rivoluzione, lo studente, quando occupa una università, fa soltanto la guerra civile. Bisogna che abbiamo ben chiara la distinzione tra le due cose. Per questo io dico agli studenti: «State attenti, tra voi e gli operai la concordia è impossibile. Aceto e olio non si mescolano». Ho assistito il giorno 8 maggio a un indimenticabile duetto Scalzone-Longo (Oreste Scalzone leader degli studenti e Luigi Longo, segretario del Pci, ndr). È noto che in questi ultimi tempi gli studenti hanno capito che bisogna ricordarsi degli operai e sono andati a manifestare a braccetto. Cosa che ha avuto l’unico effetto di dare delle insincere ispirazioni ai titolisti dell’“Unità” e di dimostrare quanta differenza ci sia tra la faccia e il corpo di uno studente e la faccia e il corpo d’un operaio.

AIELLO. Sarebbe forse opportuno che Pasolini precisasse meglio perché la rivolta degli studenti si trasforma in guerra civile e non in rivoluzione.

PASOLINI. Perché la massa degli studenti “dissenzienti” vogliono fare le riforme in un giorno anziché in un decennio, e vogliono che siano mille anziché una. Questi nobilissimi Pierini non vogliono accettare pedissequamente il sistema, pretendono di comandarlo. E questo che cosa significa? Significa che la borghesia si schiera nelle barricate contro se stessa, che i “figli di papà” si rivoltano contro i “papà”. La meta degli studenti non è più la rivoluzione ma la guerra civile. Ma, ripeto, la guerra civile è una guerra santa che la borghesia combatte contro se stessa…

FOA. Pasolini, mi permetta di rivolgerle, ancora una volta, una critica personale. Lei si lamenta dello strapotere presente e futuro della borghesia, teme i mostruosi inganni del neocapitalismo che cattura e corrompe tutti. Ma contemporaneamente scrive una poesia contro gli studenti e la presenta come una lirica “di provocazione”, “di autocritica” e così via. Vuole che si discuta di questa poesia, che ci si scagli contro di essa, purché se ne parli. Critica se stesso, sollecita la critica degli altri contro di sé, si contraddice. Con quale risultato? Di valorizzare il suo prodotto in termini di mercato. Questo per quanto riguarda la parte commerciale. Dal punto di vista politico la sua ode rappresenta un aiuto offerto agli avversari del movimento studentesco, un aiuto pesante. Perciò io direi che prima di scagliarsi contro il sistema, bisogna vedere fino a che punto se ne è prigionieri. Il primo esperimento va fatto di fronte allo specchio.

PASOLINI. Mi è difficile rispondere. Dovrei fare un processo a me stesso, stendere un’autoconfessione. Dovrei spargere le viscere su questo tavolo. La cosa è molto complicata. Per quanto mi riguarda, non mi ero reso affatto conto, fino a ieri, del valore dirompente di questa ode, né avevo pensato a valorizzarla. Tornando agli studenti, penso che solo se la loro autocritica sarà completa, severa, rigorosa, giusta, allora il loro movimento potrà affiancarsi veramente agli operai.

AIELLO. Vogliamo vedere allora se e fino a che punto il movimento studentesco l’ha fatta, questa autocritica? Lei, Petruccioli, cosa ne pensa?

PETRUCCIOLI. Secondo me tutti i problemi che abbiamo discusso finora sono presenti all’attenzione del movimento studentesco. Tranne qualche piccola frangia, nessuno nel movimento afferma che la rivoluzione prima la facevano gli operai ed oggi la fanno gli studenti. Quello che si ricerca è la via originale di una rivoluzione socialista che comprenda la classe operaia e i suoi alleati, tra cui gli studenti progressisti.

PASOLINI. Io sbaglierò, la mia sarà una visione poetica, ma mi pare che questo non sta avvenendo. In Francia, da una parte vedo gli operai, dall’altra gli studenti. Con qualche caso isolato di contaminazione.

AIELLO. Vorrei chiedere a Petruccioli, che è un comunista, che effetto gli ha fatto leggere sulla “Pravda”, due settimane fa, una dura scomunica degli studenti ribelli di Parigi, dei seguaci di Marcuse e così via.

PETRUCCIOLI. Ho già commentato sull’“Unità” l’articolo della “Pravda”. Il suo errore fondamentale era di non tener conto del clima politico in cui cadeva, del fatto che proprio in quei giorni, ad esempio, il “Corriere della Sera” pubblicava grossi titoli come “Operai contro studenti in Francia”. Ma anche se non ci fossero episodi di questo genere, noi comunisti dobbiamo lavorare per rendere possibile la saldatura fra operai e studenti. In Italia stiamo lavorando in questa direzione.

PASOLINI. Allora, voi comunisti, siete d’accordo con me che esiste una differenza sostanziale, quasi di natura, tra studenti e operai?

PETRUCCIOLI. Il movimento operaio organizzato ha mezzo secolo di vita, il movimento studentesco è appena nato. C’è una differenza di linguaggio, di tradizione oltre che di origine sociale e di robustezza teorica.

FOA. Non c’è soltanto questa differenza storica di cui parla Petruccioli, c’è anche un’azione dell’avversario di classe, specifica, costante, insistente, demagogica, per operare la frattura tra studenti e operai. La sua ode, Pasolini, si unisce al coro.

PASOLINI. Ma io non seguo nessuna tattica politica. Se sbaglio non me ne importa nulla. Non sono mica un uomo politico, io.

AIELLO. Ma lei, Pasolini, non diceva poco fa che tutta la sua opera in versi è poesia politica?

Pasolini. È la politica di un non-politico, di uno scrittore non iscritto a partiti.

PETRUCCIOLI. Ma insomma, che cosa vuol dire Pasolini con la sua poesia? Che gli studenti devono uccidersi come movimento studentesco? Che il piccolo-borghese deve negare il suo essere piccolo-borghese per diventare rivoluzionario? Su questa esigenza siamo tutti d’accordo. Cominciamo allora a vedere che cosa fanno in realtà gli studenti. Il loro slogan principali è “No alla scuola dei padroni”. Essi cercano il rapporto con la classe operaia, vogliono una radicale trasformazione della società borghese, un superamento della civiltà occidentale. Ecco ciò che gli studenti fanno, ecco ciò che sono.

PASOLINI. Questa è la loro volontà. Questo è quello che vogliono. Quello che sono in realtà è molto diverso: sono dei borghesi, dei figli di papà rimasti tali e quali ai loro padri. Parlano come i loro padri, hanno un senso legalitario della vita, sono profondamente conformisti. Vorrei comunque rivolgervi una domanda: che differenza c’è, secondo voi, tra uno studente e un intellettuale? Per me sono la stessa cosa. E sarebbe l’ora che gli studenti smettessero di autodefinirsi studenti. Che interesse hanno? Si chiamino “intellettuali”. Tutti sanno che l’università, in Italia, è un’istituzione classista. Chi si definisce studente fa sorgere, immediatamente, il sospetto d’essere l’esponente di una classe retriva.

PETRUCCIOLI. Mi sembra un po’ inutile mettersi a discutere sulle parole. A Roma, nei giorni successivi ai fatti di Valle Giulia, un rappresentante del movimento studentesco tenne una specie di comizio rivolto ai poliziotti. «Noi vogliamo un’università in cui possano andare anche i vostri figli», questo era il succo del suo discorso. Era un appello significativo. A mio parere, nella università, come nella società, l’integrazione tra studenti e operai non è affatto impossibile. Se pensassimo che è impossibile, allora dovremmo esortare gli studenti a mettersi da parte, ad abbracciare la causa della borghesia che li ha messi al mondo, senza creare confusione. Dovremmo ricacciarli indietro. Finiremmo per creare una nuova categoria di “indesiderabili”. Non più i “dannati della terra”, ma i dannati della nascita.

"Quando Pasolini mi chiamò: vieni subito a girare Medea". Sara Frisco il 4 Marzo 2022 su Il Giornale.

Lo scenografo, sul set con il regista per nove dei suoi film, lo ricorda in una mostra a Los Angeles: "Gli devo tutto".

Los Angeles. «Ci siamo sempre dati del lei, ma con Pasolini c'è stato un rapporto di collaborazione e amicizia che andava al di là di quella formalità. Gli devo la mia carriera. Pasolini è stato il mio faro». Lo scenografo Dante Ferretti è stato a Los Angeles per l'inaugurazione della mostra Conoscenza carnale: I film di Pier Paolo Pasolini (fino al 12 marzo) organizzata da Bernardo Rondeau nel nuovo museo dell'Academy costruito da Renzo Piano e inaugurato lo scorso settembre. Ferretti ha fatto ritorno nella capitale mondiale del cinema dieci anni dopo aver vinto, insieme alla moglie Francesca Lo Schiavo, il suo terzo Oscar per la scenografia di Hugo Cabret di Martin Scorsese, e venti anni dopo un'altra rassegna che lo vedeva protagonista. «Allora Cinecittà e l'Academy realizzarono una bellissima mostra dei miei disegni».

Vent'anni fa era già uno dei più richiesti scenografi al mondo, ma la sua carriera è iniziata molto prima, negli anni Sessanta, proprio con Pasolini.

«Ho iniziato a 17 anni, facendo l'assistente di Luigi Scaccianoce, bravissimo scenografo che però aveva l'abitudine di prendere più commesse insieme. Un giorno mi disse, dobbiamo fare un film con Pasolini a Matera. Era Il Vangelo secondo Matteo. Mi avvertì: guarda che ci sarò poco. Pasolini mi conobbe così, prima a chiedermi dov'era lo scenografo e poi a trattare direttamente con me. Così io, a poco a poco, cominciai a prendere qualche iniziativa personale».

Poi vennero Uccellacci e Uccellini con Totò e Ninetto Davoli, e L'Edipo Re.

«Stessa trafila. Lo scenografo ufficiale era Scaccianoce ma sul set c'ero quasi sempre solo io e così mi sono conquistato la sua fiducia».

E quella di Fellini.

«Scaccianoce fu chiamato per il Satyricon e io fui di nuovo ingaggiato come assistente. Scaccianoce in questo caso c'era sul set ma litigò con Fellini, che invece mi prese in simpatia, mi chiamava Dantino».

Poi venne il suo primo film da titolare, fu Pasolini in persona a chiamarla, per Medea.

«Stavo per andare al mare con un amico. Uscii di casa ma tornai indietro perché avevo scordato qualcosa. Squillò il telefono. Pasolini mi voleva subito sul set di Medea, in Cappadocia. Invece di andare al mare volai a Istanbul e da lì raggiunsi il set».

Dove c'erano Pasolini e la Callas.

«Pasolini mi disse: fra quattro ore c'è in programma questa scena con la Callas, su un carretto. Ma il carretto non esisteva e io avevo quattro ore per inventarmi qualcosa. Chiesi aiuto a tutti quelli che conoscevo sul set. Mi portarono della stoffa, del cuoio. Alla fine il famoso carretto era pronto, un'ora prima di girare».

Fu l'inizio di una folgorante carriera che fra gli anni Ottanta e Novanta assunse un rilievo internazionale.

«Fui chiamato da Jean-Jacques Annaud per Il Nome della Rosa. Poi da Terry Gilliam per Le avventure del Barone di Munchausen».

E poi da Martin Scorsese, Neil Jordan, Tim Burton e negli anni del 2000 arrivò la consacrazione agli Oscar. Nel 2005 per The Aviator di Scorsese, nel 2008 per Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street di Burton, e nel 2012 per Hugo.

«Abbiamo sei statuette su una mensola dell'Ikea, tre mie e tre di mia moglie Francesca (Lo Schiavo, set decorator, ndr). Insieme a cinque Bafta, altrettanti David di Donatello, 14 nastri d'argento. Nessuno però mi ha ancora premiato con un milione di dollari, ora lancio un appello».

A proposito di Oscar, cosa ne pensa di È stata la mano di Dio di Sorrentino?

«Mi è piaciuto moltissimo, a me Sorrentino piace molto e quel film mi ricorda la mia infanzia a Macerata, nelle Marche. Anche io sognavo di fare cinema, non sapevo cosa avrei potuto fare, però. Fu un amico scultore a suggerirmi la scenografia. Così feci l'Accademia di Belle arti a Roma e poi iniziai a fare pratica sui set».

Con Pasolini girò in tutto nove film compreso l'ultimo, Salò o le 120 giornate di Sodoma, la cui première si svolse dopo la sua morte.

«Girammo vicino a Parma, in una grande cascina dove avevamo ricostruito tutti gli interni. Poi Pasolini tornò a Roma per fare vedere il suo film e quella notte, in quella spiaggia di Fiumicino, successe quel che successe. Lo seppi la mattina dopo, ero con Elio Petri, passeggiavamo sul Lungotevere quando, passando davanti a un bar apprendemmo della sua morte, da una televisione accesa. Andammo all'obitorio e l'avvocato della famiglia di Pasolini mi chiese di andare sul posto con un metro per prendere le misure sulla scena del delitto. Lo feci, fu dura».

Lo sguardo a destra di Pasolini. Lorenzo Pallotta su Culturaidentità su Il Giornale il 5 Marzo 2022.

Pasolini fu intellettuale contraddittorio, tanto di sinistra quanto di destra, tentare di dare coerenza univoca al suo pensiero significa necessariamente mutilarlo.

Il 5 marzo 1922, precisamente cento anni fa, nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini: poeta, sceneggiatore, attore, regista, scrittore e drammaturgo, è stato uno dei più grandi intellettuali del secondo dopoguerra.

Un discorso sul suo pensiero deve partire da un fondamentale presupposto: il fatto che Pasolini sia stato un brillante intellettuale non significa che le sue idee non possano essere contraddittorie. Anzi, tentare di dare coerenza univoca al pensiero di un personaggio del suo calibro significa necessariamente mutilarne la figura e limitare la portata rivoluzionaria della sua produzione artistica. Egli andò oltre le vecchie suddivisioni e appartenenze ideologiche e fu proprio questo a renderlo così geniale. 

In prima istanza v’è quindi da criticare l’erroneo ritratto che mostra un Pasolini intellettuale unicamente di sinistra. Egli, infatti, fu sì comunista ma con toni fortemente antimodernisti, il suo marxismo fu eretico e reazionario ed il suo pensiero fu sempre marcatamente conservatorista e legato ad un populismo rurale. Per quanto riguarda la storia del poeta, poi, ci si dimentica troppo spesso di alcuni elementi focali, che non poterono fare a meno di porlo in una posizione critica rispetto al PCI: l’uccisione di suo fratello, partigiano, da parte di partigiani comunisti e l’abbandono subito da parte del Partito, che lo cacciò, rinnegandolo, non appena si scoprì la sua omosessualità. Passata in sordina è anche la sua denuncia del potere dilagante della sinistra, astutamente camuffatasi come candida resistenza liberatrice.

La verità è che Pasolini fu intellettuale di sinistra tanto quanto lo fu di destra. A tal proposito egli dedicò uno dei suoi primi articoli all’entusiastico racconto di un viaggio fatto con gli universitari fascisti a Weimar e nella sua ultima poesia parlò di un giovane fascista a cui suggerì d’amare la tradizione di una “destra divina” fondata su tre principi cardine: difendere, conservare e pregare. Inoltre il poeta disapprovò nel’68 la “falsa contestazione dei giovani borghesi, figli di papà coccolati dalla cultura dominante di sinistra”, difendendo i poliziotti, spesso poveri e provenienti dalle periferie. Egli si pose infatti come il vero cantore dei sobborghi, delle campagne, della ruralità, a tutela dei molti particolarismi culturali di cui l’Italia è sempre stata ricca, osservando con lucida preoccupazione il nascente capitalismo consumistico, che tutto stava inglobando e uniformando già cinquant’anni fa. Non a caso la sua poesia nacque nella lingua dialettale materna, il friulano, e nella sua innovativa antologia sulla Poesia dialettale del Novecento (1952) egli elesse i dialetti come vera lingua “patria”, da non opprimere nelle scuole e da non relegare al livello basso della comunicazione.

Ad agevolare lo storico accostamento dello scrittore unicamente alla sinistra è stato il fatto che la destra si è accorta tardi di Pasolini e solo dopo averlo a lungo frainteso e contestato. Per questo motivo, oggi più che mai, è importante ricordare che parlare di Pasolini vuol dire anche parlare di temi cari alla destra, scardinando un ricordo parziale ed errato che troppo a lungo è stato tramandato del suo pensiero. Scriveva Pasolini: “L’Italia non ha avuto una grande Destra perché non ha avuto una cultura capace di esprimerla”. Appare dunque naturale domandarsi se la Destra riuscirà oggi a raccogliere l’invito che il poeta gli faceva più di mezzo secolo fa, comprendendo l’importanza della nascita d’una propria cultura e identità.

Pasolini 100, militante nella terra promessa. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Marzo 2022.

«La passione non ottiene mai il perdono». Pier Paolo Pasolini fu ucciso per mano del «ragazzo di vita» Pino Pelosi nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975 all’idroscalo di Ostia. Aveva 53 anni. Regista, poeta, polemista, Pasolini scompigliava certezze ideologiche e appartenenze politiche. Neppure a sinistra era a suo agio, fin da quando la Federazione comunista di Pordenone lo espulse nel 1949 per «indegnità morale» attribuita alla sua omosessualità e «alle deleterie influenze dei vari Gide e Sartre». Pier Paolo aveva perso il fratello minore Guido, partigiano trucidato dai «rossi» nell’eccidio di Porzûs del 1945, e fu laconico nella risposta ai burocrati del PCI: «Malgrado voi, resto e resterò comunista». Nato a Bologna il 5 marzo 1922, visse durante la guerra a Casarsa della Delizia con Guido e con l’amatissima madre Susanna Colussi, che era originaria della cittadina del Friuli, «un paese di temporali e di primule», come recita il titolo di una sua raccolta.

Si forma allora l’autore eretico, corsaro o luterano, straniero talora finanche a se stesso, che coltiva il diritto allo scandalo proprio della frase evangelica Necesse est enim ut veniant scandala (Matteo 18, 7). È l’opportunità di creare un inciampo nelle situazioni stagnanti, cara all’autore del Vangelo secondo Matteo (1964). Pasolini tenacemente assunse posizioni controcorrente sulla scuola, l’omologazione televisiva e la fine della civiltà contadina, il ‘68 dei «figli di papà», il Palazzo e la Democrazia cristiana per cui invocò il «processo». Il suo approccio era tanto metaforico quanto concreto, come se davvero egli guardasse alla Terra vista dalla Luna, titolo di un breve film con Totò e Ninetto Davoli (1967). «Nessun mondo nuovo senza un nuovo linguaggio», ammoniva negli stessi anni la poetessa austriaca Ingeborg Bachmann, che giunge in Italia nel 1953 della morte del lucano Rocco Scotellaro, e prende a viaggiare nel Mezzogiorno - da Ischia a Matera, alla Puglia - per scandagliarne la sotterranea utopia. Pasolini si affratella a quel mondo altro, grazie appunto al Vangelo, girato a Matera, Barile, nel Castello di Lagopesole, oltre che in varie località pugliesi: Massafra, Gioia del Colle, Manduria, Ginosa, Barletta, Santeramo in Colle. Nei Sassi il poeta con la macchina da presa individua i caratteri di sobrietà e sacertà di una «nuova» Terra promessa, che non aveva trovato in Israele, dove si era recato nei mesi precedenti con don Andrea Carraro, perché le facce erano ormai «occidentalizzate».

Matera invece è ancora salva dall’omologazione culturale e dalla paventata mutazione antropologica che fa assomigliare i figli del popolo ai piccolo-borghesi. Perciò Pasolini non può che definire «un delitto» lo svuotamento dei Sassi in corso. Il film esordisce il 4 settembre 1964 alla Mostra di Venezia, dove, oltre al Premio speciale della Giuria (il Leone d’oro va a Deserto rosso di Antonioni), si aggiudica il riconoscimento assegnato dall’OCIC, l’Office Catholique International du Cinéma. La Chiesa ne coglie subito la spiritualità e non solo in virtù della dedica di Pasolini «alla cara, lieta, familiare figura di Giovanni XXIII». Il ruolo del Nazareno è affidato a Enrique Irazoqui, scomparso nel 2020, allora diciannovenne sindacalista catalano (la madre era una ebrea italiana di Salò), ch’era stato spedito in Italia a cercare fondi e appoggi contro la dittatura fascista di Francisco Franco. A Roma conobbe La Pira, Nenni, Pratolini prima di essere condotto a casa di Pier Paolo, il quale non ebbe dubbi: ecco il Cristo per cui fino ad allora erano in predicato il poeta siberiano Evgenij Evtušenko e lo scrittore americano Jack Kerouac.

Pasolini non è morto all'idroscalo di Ostia, ucciso dal "Rana". E' morto perché nessuno potrebbe più scrivere «io so i nomi dei responsabili, ma non ho le prove». Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 4 marzo 2022.

«Dopo la mia morte, perciò, non si sentirà la mia mancanza» – così scrisse in Trasumanar e organizzar. Ci manca Pasolini?

Ci manca anche Sciascia, e tanto; e ci manca Calvino, e altri – anche se non è lungo l’elenco degli “irregolari”, partigiani senza esercito, la cui voce illuminata o pacata o ironica arrivava come un tuono. Ma Pasolini di più, se così si può dire. E ci manca di più perché Pasolini era dove non ti aspettavi mai dove avresti pensato che sarebbe stato. Fu contro l’aborto, Pasolini, e contro il divorzio, mentre il paese si spaccava nei referendum, fin dentro le famiglie. Fu contro gli studenti che “imberbi” iniziavano il loro Sessantotto a Valle Giulia, Roma – che avevano la stessa faccia dei loro padri che contestavano, mentre lui stava con i poliziotti, facce di figli del popolo. E ogni volta non eri d’accordo con lui, e ogni volta ti scavava dentro e vi lasciava i semi del suo pensiero, a crescersi. Non era solo una “postura”, la sua – quella dell’intellettuale che è contro. Che contraddice il mondo, iniziando a contraddire se stesso. Era uno sguardo, una complessità di pensieri. Era lo sguardo poetico – disarmato, sacro, violento. Mai consolatorio.

Per questo ci manca Pasolini – senza volerlo tirare per la giacchetta, questo macabro esercizio di “riesumare” persone che hanno detto cose importanti per fargliene dire altre su cui chissa come si sarebbero espressi. Eppure – cos’avrebbe detto Pasolini del DDL Zan? Cos’avrebbe detto Pasolini dell’eutanasia? Oh sì, che ci manca Pasolini. Cosa avrebbe detto di questa guerra?

Non dovremmo mai fare di Pasolini un mito, lui per primo se ne sarebbe irritato. Non è il “pasolinismo” che ci manca, anzi, di questo proprio – ne faremmo volentieri a meno. Di quelli, cioè, che pontificano moralisticamente sul mondo ma non mettono mai in gioco se stessi – e “se stessi”, intendo esattamente le proprie ossa, il proprio naso, la propria faccia, il proprio corpo. È stato l’uomo più denunciato d’Italia, Pasolini, e ha racimolato le sue condanne – anche di rapina a mano armata, fu accusato, fatta con una pistola dai “proiettili d’oro”, una farsa.

Alla prima nazionale di Mamma Roma, novembre del 1962, nel foyer del cinema Adriano, a Roma, apostrofato da un gruppo di giovani squadristi, li affronta a pugni, scatenando una rissa – non si tirava indietro: il corpo è la misura del proprio scandalo. E non perché si è omosessuali, o almeno: non solo. Ma perché è la cosa più sacra che abbiamo – o tale dovremmo considerarla. Oggi, le risse sono solo virtuali. Lui è stato un martire – proprio nel senso più cristiano del termine.

Pasolini non ha eredi, non ha neppure lasciti. Perché il mondo in cui lui ha vissuto e poetato, scritto e amato non esiste più. E non solo il “mondo delle lucciole”, quella società povera e contadina, legata alla comunità del lavoro della terra, spazzata via prima dallo sviluppo industriale e dal consumismo di massa, e poi dalla globalizzazione. Non esiste più il mondo politico in cui lui ha vissuto e poetato, scritto e amato, quello della Democrazia cristiana e del Partito comunista. Quello delle ideologie. Quello delle chiese.

Pasolini non è morto all’idroscalo di Ostia, ucciso dal “Rana” – è morto perché nessuno potrebbe più scrivere oggi: «Io so i nomi dei responsabili. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi» . È morto perché nessuno potrebbe più girare un film come Salò o le 120 giornate di Sodoma – a chi potrebbe venire in mente una “dittatura sessuale”, in cui si applicano “prove” orribili, quando al massimo le prove che riusciamo a sostenere con lo sguardo e l’immaginazione sono quelle dell’Isola dei Famosi? Quel mondo bigotto, reazionario, conservatore, sessuofobico, stragista, in cui mestavano agenzie straniere e bombaroli nostrali – è morto. Era un mondo con un piede ancora tutto dentro la tragedia del fascismo – quello storico, quello vero.

Il processo alla Democrazia cristiana – quello che voleva fare Pasolini – lo fecero poi le Brigate rosse, quando sequestrarono Moro per 55 giorni. Anzi, lo fece Moro stesso, nelle sue lettere, al suo partito – quando capì che lo avrebbero abbandonato al suo destino, quando lo dichiararono pazzo. E la tragedia divenne grottesca, con un esito sanguinario. E il Partito comunista – quello che lo aveva espulso nel ’ 49 per “deviazione ideologica”, quando era scoppiato il primo scandalo per una breve avventura, e a cui lui rispose parlando di “disumanità” (e anche di cretineria) – restò sotto le macerie del crollo del muro di Berlino.

Sarà poi la magistratura, con Tangentopoli, a porre fine al “ridicolo decennio”, proprio quella magistratura che Pasolini odiava – e ne aveva ben donde, non solo perché simbolo proprio del “potere” ma perché si accaniva nel perseguitarlo: il procuratore Di Gennaro, al processo contro La ricotta per “vilipendio alla religione di Stato”, con sprezzo del ridicolo porterà in aula una moviola e fotogramma per fotogramma indicherà le ragioni dell’accusa («un cavallo di Troia, nella città di Dio» – 4 mesi di condanna). Non amavamo Pasolini, noi ragazzi del ’ 68 – e non per quella sua poesia scema.

Non lo amavamo per quel collocare la purezza proletaria in un mondo distante e opposto all’industria, alla produzione, alle merci. La purezza linguistica anche – Ragazzi di vita è uno degli straordinari tentativi  (insieme al Gadda del Pasticciaccio e poche altre cose) di ridare vita a un italiano che usciva dai dialetti ma trovava il suo standard nella “parola televisiva”. Pasolini disse una volta che l’unica parola che in quel momento si capiva da Milano a Palermo era: “frigorifero”, una parola tecnica – una merce, si potrebbe aggiungere. Ma per noi, ragazzi del ’ 68, questo irrompere del desiderio operaio di comprare cose (l’automobile, la lavatrice, il frigorifero, la casa) era proprio il segno che si andava spostando la distribuzione della ricchezza. Il proletariato non ha una sacralità – è una rude razza pagana.

Eppure, quella frenesia espressiva, quella capacità di toccare registri dma, dal romanzo all’articolo di quotidiano, dalla poesia al saggio), e ogni volta sorprenderci, ogni volta spiazzarci, ogni volta incuriosirci, per quelle sue parole che ti scartavetravano dentro, quella bava corrosiva del conformismo che si lasciava dietro – oh sì, come ci mancano.

È morto un poeta – disse Moravia al suo funerale. Il poeta dei margini, dei lembi, degli estremi, dei dialetti – quello friulano e quello romanesco. Il poeta delle periferie, di quello che preferiamo non vedere, di ciò che è “clandestino” nella nostra società, di ciò che ci arriva come eco di una qualche cronaca ma non mai è al centro dei nostri pensieri, delle nostre preoccupazioni, delle nostre ossessioni, dei nostri affanni. Della nostra democrazia. Quelle periferie di Pasolini non ci sono più – un mondo scomparso con lui. Ma altre periferie, altri margini, altri lembi di società sono fra noi. E ci manca il poeta che li racconti. Nicotera, 3 marzo 2022.

Pasolini, cento anni dopo. Un dossier per ricordare lo scrittore corsaro. Lucio Luca su La Repubblica il 5 Marzo 2022.  

Articoli, commenti, video, mostre, libri e gallerie fotografiche. Per celebrare il grande intellettuale ucciso nel 1975. 

Pier Paolo Pasolini cent’anni dopo. Cosa rimane oggi dell’intellettuale più amato e odiato del Novecento? Quale eredità ci ha lasciato “uno dei pochi poeti che nasce in un secolo” come gridò angosciato Alberto Moravia subito dopo il delitto di Ostia? E perché, a distanza di quasi cinquant’anni dalla sua morte, PPP fa ancora così paura?

Lo scorso numero di Robinson, il settimanale culturale di Repubblica, ha celebrato Pasolini in una speciale monografia. Nel giorno del centenario dalla nascita, quel lavoro diventa uno speciale sul nostro sito arricchito da altri articoli, libri, iniziative, gallerie fotografiche che ricordano l’opera dello scrittore corsaro, regista maledetto, profeta inascoltato e chissà quanto altro.

Pier Paolo Pasolini nasce il 5 marzo del 1922 a Bologna. Primogenito di Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria, e di Susanna Colussi, maestra elementare. “Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa della società italiana: un vero prodotto dell'incrocio – scriveva lui - Mio padre discendeva da un'antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una famiglia di contadini friulani che si sono a poco a poco innalzati, col tempo, alla condizione piccolo-borghese. Dalla parte di mio nonno materno erano del ramo della distilleria. La madre di mia madre era piemontese, ma ciò non le impedì affatto di avere egualmente legami con la Sicilia e la regione di Roma. Gli effetti dell'unità d'Italia".

Nel 1928 l'esordio poetico: Pier Paolo annota su un quadernetto una serie di poesie accompagnate da disegni. Il quadernetto, a cui ne seguirono altri, andrà perduto nel periodo bellico. Conclude gli studi liceali e, a soli 17 anni si iscrive all'Università di Bologna, facoltà di lettere. Collabora a Il Setaccio, il periodico del GIL bolognese e in questo periodo scrive poesie in friulano e in italiano, che saranno raccolte in un primo volume, Poesie a Casarsa. Partecipa inoltre alla realizzazione di un'altra rivista, Stroligut, con altri amici letterati friulani con i quali crea l'Academiuta di lenga frulana.

Arruolato durante la Seconda guerra mondiale a Livorno, nel 1943, all'indomani dell'8 settembre disobbedisce all'ordine di consegnare le armi ai tedeschi e fugge. Dopo vari spostamenti in Italia torna a Casarsa. La famiglia Pasolini decide di recarsi a Versuta, al di là del Tagliamento, luogo meno esposto ai bombardamenti alleati e agli assedi tedeschi. Qui insegna ai ragazzi dei primi anni del ginnasio.

La morte in guerra del fratello Guido avrà effetti devastanti per la famiglia Pasolini, soprattutto per la madre, distrutta dal dolore. Il rapporto tra Pier Paolo e Susanna diviene così ancora più stretto, mentre con il padre – specialmente dopo la scoperta dell’omosessualità del figlio – il legame si dirada quasi completamente.

In quegli anni comincia la sua militanza politica. Nel 1947 si avvicina al PCI, cominciando la collaborazione al settimanale del partito Lotta e lavoro. Diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa, ma non viene visto di buon occhio dal partito e, soprattutto, dagli intellettuali comunisti friulani. Molti “compagni” vedono in lui un sospetto disinteresse per il realismo socialista e una eccessiva attenzione per la cultura borghese.

Il 15 ottobre del 1949 viene segnalato ai carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenne avvenuta, secondo l'accusa, nella frazione di Ramuscello: è l'inizio di una delicata e umiliante trafila giudiziaria che cambierà per sempre la sua vita. Espulso dal Pci perde il posto di insegnante, decide allora di fuggire da Casarsa e insieme alla madre si trasferisce a Roma. I primi anni romani sono molto complicati: sono tempi d'insicurezza, di povertà, di solitudine. Pasolini tenta la strada del cinema, fa il correttore di bozze, sbarca il lunario e comincia a frequentare le borgate, il cosiddetto sottoproletariato romano.

Ma i suoi scritti cominciano a essere pubblicati nelle riviste letterarie, riesce anche a trovare un posto nella redazione letteraria del giornale radio Rai, il peggio sembra essere passato. E nel 1954 pubblica il suo primo importante volume di poesie dialettali: La meglio gioventù. Seguito, un anno dopo, dal romanzo Ragazzi di vita che ottiene un vasto successo, sia di critica che di lettori. Sebbene, anche negli ambienti comunisti, si sussurra che il libro è intriso di “gusto morboso, dello sporco, dell'abbietto, dello scomposto, del torbido..”.

Il ministro dell’Interno Tambroni porta a giudizio Pasolini e l’editore Garzanti. E’ una censura bella e buona ma, a sorpresa, entrambi vengono assolti perché il fatto non costituisce reato". Il libro, per un anno tolto alle librerie, viene dissequestrato. Ma Pasolini diventa un bersaglio: lo accusano di tutto, persino di una incredibile rapina a mano armata a un distributore di benzina al Circeo.

E poi c’è il cinema, opere che contribuiscono ad accrescere l’amore e l’odio per un regista mai scontato: collabora con Sergio Citti a Le notti di Cabiria di Fellini, fa l’esordio da attore ne Il gobbo del 1960. L’anno dopo l’esordio da regista con Accattone, film subito vietato ai minori di 18 anni che suscita non poche polemiche alla Mostra del cinema di Venezia. Nel 1962 dirige Mamma Roma, poi l’episodio La ricotta (inserito nel film a più mani RoGoPaG), per il quale Pasolini viene imputato di vilipendio alla religione dello Stato.

Nel '64 Il vangelo secondo Matteo, poi Uccellacci e Uccellini, Edipo re, Teorema,  Porcile.  Nel 1970 Medea e fino al '74 la triolgia della vita, o del sesso, ovvero Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte. Fino all’ultimo film-shock, Salò o le 120 giornate di Sodoma concluso poco prima della morte.

La mattina del 2 novembre 1975, sul litorale romane ad Ostia, in un campo incolto in via dell'idroscalo, una donna, Maria Teresa Lollobrigida, scopre il cadavere di un uomo. Sarà l’attore e amico Ninetto Davoli a riconoscere il corpo di Pier Paolo Pasolini. Nella notte i carabinieri fermano un giovane, Giuseppe Pelosi, detto "Pino la rana" alla guida di una Giulietta 2000 che risulterà di proprietà proprio di Pasolini. Il ragazzo, interrogato dai carabinieri, e di fronte all'evidenza dei fatti, confessa l'omicidio.

Racconta di aver incontrato lo scrittore alla Stazione Termini e dopo una cena in un ristorante, di aver raggiunto il luogo del ritrovamento del cadavere. Lì, secondo la versione di Pelosi, il poeta avrebbe tentato un approccio sessuale, e vistosi respinto, avrebbe reagito violentemente: da qui, la reazione del ragazzo. Una verità mai del tutto accertata. Si ipotizza che ci fossero altri quella notte, che sia stato un omicidio politico con diversi esponenti della destra neofascista romana coinvolti e non si chiarirà mai l’esatta dinamica del delitto. Un solo fatto è certo: per la morte di Pasolini l’unico condannato è stato proprio Pelosi.

Nel dossier, a raccontare i tanti aspetti di un intellettuale multiforme, che ha lasciato la sua impronta sulla cultura italiana e che ancora oggi ci parla, sono le firme di Repubblica, gli intellettuali e gli studiosi che si sono dedicati alla sua opera, gli artisti che lo hanno conosciuto e che hanno lavorato con lui, mentre ad accompagnare analisi, ricordi e interviste troverete le splendide immagini di alcuni dei fotografi più celebri che ritrassero PPP, da Dino Pedriali a Roberto Villa.

Lo scrittore Francesco Piccolo dipinge la natura contraddittoria e la molteplicità che lo ha reso “l’artista e l’essere umano più complesso del Novecento”. Basti pensare alle tre definizioni: cattolico, comunista, omosessuale dichiarato. E ognuna di queste era intollerabile per le altre due”. Giancarlo De Cataldo racconta il mistero infinito del suo delitto, il giallo ancora irrisolto intorno al suo cadavere martoriato, ritrovato a Ostia il 2 novembre 1975.

Michele Serra, partendo dalla celebre invettiva pasoliniana “Io so. Ma non ho le prove”, analizza la sua forza di polemista, capace di pronunciare frasi che dette da altri non sarebbero state credibili, come forza non di un semplice intellettuale ma di un artista. Concita De Gregorio racconta le donne della sua vita: la madre Susanna, l’amica Laura Betti, e poi le dive, dalla Callas ad Anna Magnani, che ha voluto come protagoniste dei suoi film, e Paolo Mauri il suo circolo di amicizie, mentre Donatella Di Pietrantonio  e Gabriele Romagnoli analizzano il Pasolini che fece del suo corpo un’icona fragile e vigorosa, fino al nudo degli ultimi scatti.

Della dimensione mitica in cui si muoveva Pasolini scrive Raffaella De Santis, che colloquiando con lo studioso Marcello Barbanera ne ricostruisce il rapporto con l’antichità, i viaggi in Oriente e la genesi di opere come Edipo Re e Medea: sulle pagine di Robinson, proprio dal set di Medea, troverete alcuni splendidi scatti inediti.

E ancora: Piergiorgio Paterlini ripercorre la sua giovinezza e la vita da maestro in Friuli, Dante Ferretti, intervistato da Arianna Finos, ricorda gli esordi della sua carriera di scenografo dei suoi film, mentre è Alberto Anile a dare le coordinate della sua opera cinematografica. Angelo Guglielmi, che da critico ha avuto un rapporto più che dialettico con lo scrittore di Casarsa, ne parla con Simonetta Fiori. Nello Strapalando, invece, Antonio Gnoli colloquia con Furio Colombo, che fu l’ultimo a intervistare Pasolini prima della morte.

In fieri. Petrolio è un grande libro mancato di un grande scrittore mancato. Tiziano Gianotti su L'Inkiesta il 21 Marzo 2022.

L’inedito postumo di Pier Paolo Pasolini è l’opera di un uomo d’ingegno divorato da un’ossessione sessuale (non erotica) che è disperazione. Ed è anche un ipertrofico preludio a una disperata vitalità a cui non poteva più attingere. Il récit di un’ossessione, un testo terminale.

Pier Paolo Pasolini: pare difficile dirne senza entrare in questioni che esulano dal valore letterario dell’opera. Tanto per cominciare c’è tutta la mitologia pasoliniana, con sacerdoti e sacerdotesse dedite al culto che vigilano; poi c’è tutta la retorica del complotto e dell’assassinio di Stato o quasi, dove folklore de sinistra e paranoia gauchiste producono tomi su tomi; e infine l’immaginetta omosessuale da taschino. Bene, di tutto questo non solo non mi importa nulla: lo considero dannoso, in molti casi oltraggioso sia dell’opera sia dell’avventura terrena di un uomo d’eccezione. Credo che il rispetto dovuto stia nel dire della sua opera e basta.

Credevo non ci fosse molto da aggiungere al gran lavoro fatto da Walter Siti e Silvia De Laude per l’edizione delle opere nei Meridiani – ben dieci volumi, con materiale inedito e disperso e scartafacci in gran copia – ma mi sbagliavo. Rimaneva aperta la questione di Petrolio, l’opera postuma pubblicata a cura di Maria Careri e Graziella Chiarcossi con l’ausilio di Aurelio Roncaglia: ed è questione fondamentale per più di una ragione. Petrolio infatti continuava a girare come un nero e scabroso cetaceo letterario da cui tutti si tenevano alla larga, per varie e pittoresche ragioni. (Le celebrazioni acritiche e le ebbrezze esoteriche sono modi per tenersi alla larga). Io l’ho letto allora, con grande fatica e non per la scabrosità: mi pareva da un lato un testo terminale, dall’altro un tentativo disperato: da qualunque parte lo prendessi non si definiva in opera, rimaneva una congerie di quadri narrativi dai registri più disparati e i più cerebrali – tali mi parevano le celebrate o vituperate scene erotiche, che non erano per nulla erotiche. Pure Petrolio continuava a girare nei discorsi e ogni volta mi sorprendevo curioso ad ascoltare. Niente di urgente e di urticante: solo la curiosità di intendere tanto interesse e l’origine di quello.

Ora, la meritoria pubblicazione da parte di Garzanti di una nuova edizione a cura di Maria Careri e Walter Siti, ricca di materiali inediti e documenti utili a chi volesse approfondire – più un saggio di Walter Siti che è il vero punto d’interesse – non poteva che risvegliare la curiosità e la voglia di capirne l’origine.

Lo dico subito, per chiarezza: la rilettura del testo non sposta il giudizio sull’opera: un grande libro mancato. (Così come riprendendo la formula di Alfonso Berardinelli ritengo Pasolini un grande scrittore mancato). Pure ogni volta provo imbarazzo nel dirlo e per una buona ragione. Si continua a sorvolare su un fatto decisivo: Petrolio è stato pubblicato postumo, quindi non per volontà dell’autore, e diciassette anni dopo la sua morte. Se si aggiunge che, come ha rivelato Maria Careri, il lavoro al testo si interrompe un anno prima della morte e non ci sono documenti a dire il motivo e le ragioni della interruzione, ecco che i motivi dell’imbarazzo diventano chiari e evidenti. Stiamo parlando di un’opera in fieri interrotta.

Facciamo un passo indietro. Nel 2012 Emanuele Trevi pubblica Qualcosa di scritto, saggio narrativo dove si dice del lavoro dell’autore al Fondo Pier Paolo Pasolini, inventato e governato da Laura Betti e allora in quel di Roma. Il libro si regge su due figure, Laura Betti e il fantasma di P., ma a spiccare è la lettura che Trevi imbastisce su Petrolio, già indicato nel titolo. (Qualcosa di scritto è la locuzione con cui Pasolini indicava Petrolio: “Né più, né meno – è questa la formula che in varie occasioni riaffiora in Petrolio, come la più adatta a definire l’opera che prende forma”). Segue un’apoteosi di metafore: il testo diventa “un’ombra o una secrezione appiccicosa”, passa ad essere “un essere umano, un corpo vivente”, per finire come “mostro informe” che contiene la presenza – “questo fiato che appanna ogni specchio” – di nientemeno che “lui, P.P.P., in carne ed ossa”. Una carambola di ispirate generalizzazioni esoteriche, che culminano in una di quegli sgradevoli emblemi di cui Trevi si compiace e su cui ha costruito una minuscola mitologia: “Qualcosa di scritto: significa intrattenere con le parole la stessa penosa intimità che unisce il bambino che piscia nel letto alla chiazza tiepida che si è allargata sul lenzuolo”. Ora, non ho goduto di questo problema infantile e quindi non posso dire della perspicuità della figura: pure la locuzione non lascia intravedere alcuna umida intimità di Pasolini con le parole: è evidente se mai un distacco emotivo, netto: una perdita di aderenza tra lo scrittore e le sue parole. Una distanza.

Trevi arrivava presto al punto: “Qualcosa di scritto [Petrolio], fin dal momento della prima concezione è un libro sacro, un annuncio, una rivelazione”: insomma un testo iniziatico: Pasolini letto tra Ernesto De Martino e Roberto Calasso. È anche un libro unico, per la gioia postuma di Bobi Bazlen: “La sua natura di oggetto misterioso, la sua inconfondibile vibrazione di messaggio supremo [il corsivo è mio: di irritazione] lo rendevano diverso da ogni altro libro in cui mi fossi imbattuto”. Affranto, acconsentivo. Non era finita: ora arrivava il punto saliente (per me, poco ricettivo agli entusiasmi misterici), che era il sottolineare la scelta pasoliniana, “che è quella del rifiuto dell’opera compiuta. Quando invece – suprema intuizione realista – non c’è niente che inizia e niente, meno che mai, che finisca”. Eccolo, il punto: l’estetica dell’incompiuto, dell’opera che cresce e non si chiude: l’iperbole del frammento. Le bianche poetiche dell’avanguardia si univano nel talamo all’esoterismo dalle bande nere. Ma lasciamo gli entusiasmi misterici e diciamo dell’incompiuto.

Tutto ha origine dai dieci-volumi-dieci dell’opera omnia di Pasolini ideata e così realizzata da Walter Siti: un lavoro ciclopico sul filo di un paradigma tautologico: “la vera opera di Pasolini è l’insieme delle sue opere, dai cui interstizi figurali traspare il volto stesso di Pasolini”. Nei fatti, le singole opere pubblicate sono parte di un unico libro che contiene anche gli abbozzi, le varianti, le riscritture: tutto in un unico flusso – o in unico gorgo: dipende dal giudizio. È una sorte di epitome della variantistica: l’opera letteraria come un unico, pantagruelico scartafaccio.

(Qui c’è da discorrere a far notte: non è il luogo e non è l’ora: e necessitano generi di conforto. Rimane il fatto che questa bulimia variantistica è una delle malattie della modernità: la clausola del testo come metastasi ben si attaglia al paradigma novecentesco della malattia. Sarebbe l’ora di andare oltre).

Trevi benediceva l’ipotesi di Siti e l’abbracciava con trasporto: “Personalmente [sic], sono totalmente d’accordo con Siti. Mi interessa solo il disordine, ciò che è instabile e approssimativo. I metodi e i processi, molto più che i cosiddetti risultati. La pari dignità dell’abbozzo e del prodotto rifinito”. Non avevo e non ho dubbi: è evidente. Quel che della lettura di Trevi rimaneva, e spostava, era che indirizzava oltre la trita tiritera di Petrolio come allegoria del Potere: il cetaceo era ben altro e chiedeva una nuova lettura: non mi convinceva quella di Trevi, troppo esposta agli entusiasmi misterici, ma una strada si apriva. Serviva un’occasione.

Ecco spiegato il motivo dell’accoglienza alla nuova edizione garzantiana di Petrolio, soprattutto del saggio di Walter Siti: è l’occasione giusta. (Devo risparmiare spazio, così non dirò dei criteri della edizione: non me ne voglia Maria Careri). L’intuizione geniale di Siti è quella di anteporre al testo e a far da prologo la lettera di Pasolini a Alberto (Moravia), dove lo scrittore dice dell’opera allo stato dell’arte del momento. È un documento fondamentale: in qualche modo contiene tutti i motivi che agitano l’autore, l’intento che lo muove e l’interrogativo che lo angustia non poco e decisivo. Tutto meno quel che sta all’origine della disperazione ben dissimulata e lo sconforto che l’accompagna – non ce n’era bisogno: l’amico e scrittore sapeva e lo intendeva Decisivo più che l’interrogativo che pone è però l’affermazione dell’ultimo paragrafo: lascio al lettore il gusto di scoprirlo. Dirò soltanto che nella espressione “preambolo di un testamento” si cela la verità della condizione dell’uomo, prima che lo scrittore. Ma non corriamo. Nel saggio messo a postfazione Siti accoglie entrambe le letture accreditate – Petrolio come allegoria del potere e come libro iniziatico (“Hanno ragione tutti e due”), dirime alcune questioni non proprio capitali e viene al punto: la centralità del tema della scissione (il protagonista si scinde in due Carli: Carlo di Polis e Carlo di Teti), lo sdoppiamento. Niente di nuovo o di strepitoso: chiunque abbia letto Pasolini intende come lo sdoppiamento frutto di una contraddizione sia la bestia che nutre l’immaginario e distrugge la salute dell’autore. “Al fondo della scissione dei due Carlo c’è il disagio di Pasolini nell’accettarsi in quanto borghese: integrazione e ribellione lottano dentro di lui in una tesi/antitesi che non può mai essere superata in una sintesi”, scrive Siti, e va bene: è un fatto evidente. Passa poi a una lettura a base freudiana (Siti è frutto della temperie pisana: Marx e Freud) del tutto esornativa che molto ecciterà i cultori del genere, si accosta al tema della iniziazione esoterica rilevando in nota come P. si mostri pigro nell’indagine relativa, così come per l’investigazione giornalistica: non è un caso: non è quello il punto. Entrambi sono magazzini di materiale di scena e cartapesta.

Poi, finalmente, si gioca: “Il Pasolini che la sera del 1° novembre 1975 si avvia all’appuntamento fatale è un uomo disperato ma pieno di progetti”: e fa seguire un elenco dettagliato, più una frase: “E poi quel romanzo [Petrolio] che sembra volersi estendere all’infinito perché non sa come chiuderlo”. Fermiamoci qui. Pasolini è “un uomo disperato ma pieno di progetti”, infatti ha abbandonato da un anno Petrolio; Siti dice il libro un “romanzo”, e già questo meriterebbe un discorso; quel romanzo “che sembra estendersi all’infinito perché non sa come chiuderlo”. Non è finita qui. “Pier Paolo vuole e insieme non vuole scrivere il libro che sta scrivendo, ne vive la genesi e pretenderebbe una trasformazione di sé che gli risulta impossibile”. Certo: Pasolini era troppo intelligente per non sapere che l’iniziazione misterica non era cosa per lui (andava di fretta: il patetico e non il sublime era cosa sua: e la stizza): può darsi se ne sia doluto ma non credo: certo sapeva di fare un uso retorico di tutta la paraphernalia esoterica. C’era ben altro e non certo la politica: “L’ansiosa percezione del «“nulla” sociale» proietta in disperazione sociologica e politica la propria privata sessualità ormai diventata perversa: le due strade dei due Carli si riuniscono in un unico smarrimento”. Eccolo, il punto che mi è sempre parso lampante: ci voleva la forza cognitiva e lo sprezzo della statuaria di Siti per dirlo. Petrolio, come peraltro Salò o le 120 giornate di Sodoma, è l’opera di un uomo d’ingegno divorato da un’ossessione sessuale (non erotica) che è disperazione. Concepito come “edizione critica di un testo inedito” di cui sarebbe stato il curatore, è un ipertrofico preludio: non a un testamento: a una “disperata vitalità” a cui non poteva più attingere. Il récit di un’ossessione – e un testo terminale.   

Per concludere: ho sempre pensato che Pasolini avesse più occhio che orecchio – ma non fino al punto di esser stato il più geniale allievo di Roberto Longhi, come pretenderebbe Giovanni Agosti. Non è un caso se il meglio della sua opera, oltre al dittico Saggi corsari e Lettere luterane, stia nelle opere cinematografiche (le prime). Pasolini ambiva a essere un grande manierista, un Pontormo oppure un Rosso Fiorentino, inizia come un bambocciante da suburra con Ragazzi di vita e Una vita violenta, e finisce col delineare crudeli manichini degni di Johann Heinrich Füssli. (Fin dalla prima lettura di Petrolio mi sono venuti a mente i disegni erotici di Füssli). Non saprei dir meglio la traiettoria letteraria di Pier Paolo Pasolini.

CENTO ANNI DALLA NASCITA DI PPP. Cosa voleva dire davvero Pasolini con il suo Petrolio. WALTER SITI, scrittore, su Il Domani l'01 marzo 2022

Circolano alcuni luoghi comuni su Petrolio (l’ambizioso romanzo che Pier Paolo Pasolini stava scrivendo quando fu ucciso) che svaniscono alla prova della lettura.

Il libro è ancora troppo informe perché si possa affermare che sia un capolavoro; insieme a brani di indubbia bellezza ci sono pagine raffazzonate e mal scritte, il finale semplicemente non esiste perché Pasolini non ha fatto in tempo a immaginarlo.

La fortuna di Petrolio è stata di comparire in tempi di risorgente avanguardia, e di ricomparire ora che va di moda l’opera trans-testuale, multimediale, il testo che farà finire tutti i testi eccetera.

WALTER SITI, scrittore. Saggista, scrittore italiano e critico letterario: dopo aver pubblicato saggi su E. Montale e S. Penna (fra gli altri), è divenuto il curatore dell’opera completa di P.P. Pasolini per la collana I Meridiani di Mondadori. Scrittore di romanzi quali Scuola di nudo (1994), Un dolore normale (1999), Troppi paradisi (2006), Il contagio (2008), Autopsia dell’ossessione (2010), Resistere non serve a niente (2012, Premio Mondello 2013 e vincitore al Premio Strega 2013), Il realismo è l'impossibile (2013), Exit strategy (2014), La voce verticale - 52 liriche per un anno (2015) e Bruciare tutto (2017); nel 2018, il pamphlet Pagare o non pagare e il romanzo Bontà (2028); La natura è innocente (2020).

Aldo Grasso per corriere.it l'1 marzo 2022. 

Per essere uno che detestava la tv («Non c’è dubbio che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogan mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione specie, appunto, la televisione, non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre — Corriere della Sera, 9 dicembre 1973), per essere un apocalittico, si diceva, di tv ne ha fatta molta: inchieste, interviste, dibattiti. Rai Storia, nel preziosissimo spazio «Domenica con» curato da Enrico Salvatori e Giovanni Paolo Fontana, ha dedicato un intero pomeriggio alle immagini, alle interviste e ai documentari tratti delle Teche Rai che hanno visto Pasolini protagonista. 

Il lungo viaggio inizia con Gabriella Ferri che canta una sua canzone scritta per Laura Betti, con «Cinema 70» di Oreste Del Buono e finisce con «Settimo giorno» quando il critico Francesco Savio intervista Pasolini in occasione dell’uscita de «Il fiore delle mille e una notte». La maratona televisiva conferma l’idea che in molti suoi interventi, Pasolini sia stato un felice dilettante di successo; la sua morte tragica lo ha santificato e ha ostacolato ogni forma di ragionevole critica. 

O lo si ama o lo si disdegna. Tanto più che un pasolinismo di maniera — la sparizione delle lucciole, il nuovo fascismo della società dei consumi, l’omologazione, il centralismo della pubblicità, l’«Io so, ma non ho le prove» — è ancora oggi fonte di non pochi travisamenti. Speriamo che il centenario della nascita sia l’occasione per disvelare il «mistero» della sua opera, per sostituire l’icona pop con il poeta.

300 nuovi documenti, tra cui un inedito. Cento anni di Pier Paolo Pasolini, pubblicata la nuova edizione dell’epistolario. Filippo La Porta su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

La nuova edizione dell’ampio epistolario di Pasolini – Pasolini, Le lettere, a cura di Antonella Giordano e Nico Naldini (scomparso alla fine del 2020) – si raccomanda come documento prezioso per capire lo scrittore, la cui opera si presenta come una interminabile, stremata autofiction. È la storia di un’anima (commovente perché assolutamente trasparente), di un’anima inserita in un preciso contesto e momento storico.

Dunque capitolo di una storia sociale del nostro paese a partire dal 1940 e per 35 anni, della mentalità, delle ideologie, del costume, dell’ethos collettivo, e pure di tante speranze disilluse, compilato da un testimone eccezionale (per acume psicologico, intelligenza “politica”, spirito di osservazione e totale sincerità nel rivelare i propri demoni). Impossibile rendere qui conto anche minimamente dell’epistolario, che si distende per quasi 1500 pagine, e che nella nuova edizione comprende 300 nuovi documenti e uno struggente testo inedito, una lettura inviata idealmente al fratello Guido, il giorno della notizia della sua morte, nella primavera del 1945. Mi limito a segnalare – sfiorando l’arbitrio – alcuni passi sparsi che mi sembrano di particolare rilievo.

Innumerevoli le lettere ai poeti, da Betocchi a Ungaretti, da Noventa a Bertolucci, da Sereni a Gatto – una “categoria” che gli era particolarmente cara, accanto ai ragazzi di vita – , però bisogna aggiungere che dei letterati tendeva a diffidare, per la ragione che “richiedono sempre delle opinioni, e io non ce le ho”. In una “domenica senza prospettive” del febbraio 1950 scrive alla cara amica Silvana Mauri che andrà a ballare con una ragazza che lavora alla Biblioteca Nazionale. E comunque con gli scrittori – da Calvino a Volponi – il suo rapporto, benché amichevole, resta sempre tormentato, polemico, a tratti rissoso: a Soldati scrive “tu non capisci niente di me”, rimproverandogli di avere “pensieri degni di Flaiano. Anche tu appartieni a quella razza?” (dove la “razza” è presumibilmente quella, ostica a Pasolini, dei borghesi moralisti e spiritosi del “Mondo”). Aggiungo solo che Pasolini, estraneo alla società letteraria, aveva pure l’ossessione dei premi, e in occasione dello Strega del 1959 (cui partecipa con Una vita violenta) tempesta amici e conoscenti (Quasimodo, Solmi, Palazzeschi…) di biglietti per invitarli a votarlo. Si tratta di una delle tante – spesso vitalissime – contraddizioni di Pasolini: maestro ma diffidente della pedagogia, comunista (fino alla fine) ma consapevole che il marxismo era diventato una retorica del Nuovo Potere, laico ma attratto dal “poco-razionale” e dal sacro, ossessionato dall’eros ma tentato dalla castità…

Sempre a Silvana Mauri, nella stessa lettera (si tratta delle lettere più intime, con una affettività debordante, come quelle alla adorata madre, “pitinicia”, e ad alcuni amici) confessa di essere nato per essere sereno, equilibrato e naturale: la mia omosessualità era un inpiù… Me la sono sempre vista accanto come un nemico”. Eppure, lui che “ha avuto il destino di non amare secondo la norma” dice anche che solo a Roma, dove si era da poco trasferito, si sente accolto e ha “trovato il modo di vivere ambiguamente”. In altre lettere sono contenuti giudizi acuminati, in forma di consigli, ad altri scrittori. Cito solo il commento, fatto all’autore, a un racconto di Arbasino: “Si desidererebbe che Lei fosse molto più semplice o molto più complicato, sì che le citazioni e le mimetizzazioni letterarie non risultassero ammiccamenti al lettore… le sue cose somigliano un po’ a camicie finissime stirate con troppo amido”. Il gusto di Pasolini ha l’aria di essere infallibile! O al giovane Massimo Ferretti, nel 1956: “… fai un po’ il super-uomo, estetizzi, ti compiaci del maledettismo e della solitudine… sii più parco, lima qualche sovrabbondanza”. In altri casi si affida a definizioni epigrammatiche: del “critico confusionario” come gli appare Angelo Guglielmi scrive che “vorrebbe fare del Cosmo un Caos. Tutto al contrario di me”.

Interessante la lettera del 1970 a Walter Siti, allora autore di una tesi di laurea su Pasolini e in seguito eccellente curatore dei Meridiani a lui dedicati: prima gli assegna trenta e lode, e ne elogia alcuni capitoli “bellissimi” ma poi lo accusa di moralismo predicatorio, di “adulazione ai forti” – il Movimento Studentesco è di quegli anni – e di averlo rinchiuso unilateralmente “in un triangoletto regressione-aggressività-narcisismo” attraverso una psicanalisi un po’ dilettantesca. Ne è tenero verso la rivista “Quaderni piacentini”, che lo stroncò attraverso Fofi (con il quale invece dovette schierarsi Fortini): in particolare a Piergiorgio Bellocchio, che giustamente lo avverte che nessuno può parlare di sé come “poeta” (da cui risulterebbe illuminata tutta la propria opera), replica che accusare di “immobilità” astorica il mondo sottoproletario e il proprio mondo interiore è arbitrario e soprattutto ideologico.

Ha pure uno scontro duro con l’amata Elsa Morante, la quale si lamenta per non essere stata pagata per la partecipazione al Vangelo secondo Matteo. Anche qui Pasolini sembra combattere soprattutto un riflesso moralistico nei suoi interlocutori. Alla Morante, chiamata “caro angelo mio” – che gli rimprovera la frequentazione dei Padri Farisei risponderà: “Non vedo perché dovrei escludere i Farisei ricchi, in quanto persone. In quanto classe sociale lo sai che non ho e non ho avuto nessun rispetto e non sono sceso a nessun compromesso” (e aggiunge che lui prova “rispetto” per ogni creatura, anche per il cane di Moravia e Dacia Maraini).

Infine suggerisco un prelievo, per certi versi illuminante su Pasolini, da una lettera decisamente anomala, che nell’ottobre 1975, poco prima di morire, scrive al neofascista Ventura, in carcere per la strage della Banca dell’Agricoltura (il quale si era rivolto strumentalmente a lui per avere una “sponda” favorevole durante il processo): “Vorrei che le sue lettere fossero meno lunghe e più chiare. Una cosa è essere ambigui, un’altra è essere equivoci. Insomma, almeno una volta mi dica sì se è sì, no se è no”. Già, in nome della complessità e “ambiguità” della condizione umana quanti comportamenti equivoci! Pasolini gli risponde citando il Vangelo e invitandolo ad una elementare limpidezza morale, che non è mai moralistica. Filippo La Porta

Pier Paolo Pasolini e il cinema, tutta la filmografia del regista.  PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud l'1 Marzo 2022.

In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini analizziamo brevemente ogni singolo film del regista, Identificando l’altalenante girovagare tra tragico e comico di un regista perennemente sospeso tra la Vita e la Morte.  

ACCATTONE (1961)

Malavita da strada, lessico naturale (i dialoghi sono curati con profonda etimologia dal pasoliniano Sergio Citti) naturale vocazione da prostituta per le donne accompagnano l’estate di Accattone e della battona romanesca che a lui si unisce. Un bianco e nero esemplare illumina emarginati che diventano protagonisti assoluti di una Storia che è controstoria.

MAMMA ROMA (1962)

Anna Magnani dà forma, fisicità e voce a Mamma Roma, prostituta che attraverso il mestiere cerca il riscatto piccolo borghese abbandonando la borgata per una più rispettabile periferia romana che invece non redime e non perdona. Ettore, il figlio, in un finale struggente muore su un letto di contenzione dopo un fermo di polizia.

LA RABBIA (1963)  

Film di montaggio realizzato in due parti da Giovannino Guareschi e Pier Paolo Pasolini che non avrà successo. Si tratta di una sorta di grande Blob ante litteram in cui due personalità titaniche e opposte hanno modo di urlare la loro concezione politica del mondo.

LA RICOTTA (1963)

Episodio del film collettivo Rogopag. Sorta di summa pasoliniana che mette al centro della ricostruzione filmica la Passione di Cristo celebrando l’ascesa e caduta del sottoproletario Stracci destinato alla morte di fame in Croce per motivi di finzione. Uso alternato del bianco e nero e del colore con raffinate citazioni pittoriche del Pontormo. Orson Welles attore.

COMIZI D’AMORE (1964)

Microfono in mano e cameraman al seguito Pasolini gira le spiagge e le piazze d’Italia dal nord al sud per chiedere domande semplici che restituiscono uno dei migliori spaccati sociali e antropologici dell’Italia dell’epoca. Non mancano domande a celebri intellettuali.

IL VANGELO SECONDO MATTEO (1964) 

Il film che consegna una dimensione internazionale a Pasolini come regista di grande talento. La sceneggiatura è tratta integralmente dal testo

evangelico è resa filmica con scene indimenticabili e di gran valore. Un film monumento che si vedrà con lo stesso interesse fino alla fine dell’umanità.

UCCELLACCI E UCCELLINI (1966) 

Totò è il papà di Ninetto Davoli in uno dei film più intensi nella riflessione pasoliniana. Sono i due eroi, che di cognome fanno simbolico “Innocenti”, in un film saggio che resta a futura memoria . Li segue un corvo che ha la voce del poeta Leonetti che racconta loro la storie di fraticelli francescani che trovano narrazione filmica negli stessi attori.

EDIPO RE (1967)

La tragedia greca ambientata e mescolata in chiave cinematografica nella provincia italiana del primo dopoguerra filtrata dall’autobiografismo del regista  ripropone le sue profonde difficoltà esistenziali che ciclicamente lo contrappongono al difficile rapporto con il padre.

APPUNTI PER UN FILM SULL’INDIA (1967)

Documentario nato su committenza della Rai per essere inserito nella programmazione di TV7.

LA TERRA VISTA DALLA LUNA (1967)

Episodio del film “Le streghe”. Totò e Ninetto Davoli questa volta duellano con la Mangano in una vicenda all’ombra del Colosseo dove si agitano amore, morte, soldi e fantasmi.

TEOREMA (1968)

Un’ospite intruso nel nucleo familiare di un industriale fa sesso con tutti i componenti nessuno escluso. Quando andrà via tutti sono cambiati. Si

salva solo la serva di origine contadina interpretata da una bravissima Laura Betti che vince la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia.

LA SEQUENZA DEL FIORE DI CARTA (1969)

Pier Paolo torna all’evangelista Matteo per modernizzare la parabola del fico nel film ad episodi “Amore e rabbia”.

PORCILE (1969)

Complessa parabola che si dipana in due direzioni:  un cannibale sbranato dalle fiere in un luogo inventato ambientato sull’Etna e il figlio di un

industriale tedesco che si accoppia ai porci che finiranno per divorarlo nella villa Pisani di Stra.

APPUNTI PER UN’ORESTIADE AFRICANA (1969-1973)

Tra Uganda e Tanzania con il proposito di allestire l’Orestiade di Eschilo in una terra madre non aggredita ancora del consumismo e dal regno delle merci.

MEDEA (1970)

Maria Callas nella trasposizione della tragedia di Eschilo e sul tema estremamente pasoliniano del conflitto tra società agricola che diventando urbana perde il concetto di sacro.

IL DECAMERON (1970)

Pasolini ha il merito di aver restituito agl’italiani la lezione del Decamerone, notevole opera caduta in dimenticanza. Le 7 novelle scelte per la sceneggiatura sono ambientate a Napoli con una precisa scelta di campo meridionalista. Pasolini grande esperto di pittura interpreta Giotto.

LE MURA DI SANA’A (1970)

Pasolini realizza un documentario d’impegno  (non privo d’ispirata poesia civile) appellandosi all’Unesco per salvare la città dello Yemen.

I RACCONTI DI CANTERBURY (1972)

Pasolini elabora 8 dei 21 racconti del libro di Chaucer e li sceneggia con la propugnante vitalità (nonostante dissensi critici molto manifesti) del precedente. Ennio Morricone elabora musiche celtiche scelte dal regista

IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE (1974)

La trilogia della vita si conclude ad Oriente con uno dei novellieri più celebri della letteratura mondiale che Pasolini potenzia ancora una volta sul versante sessuale che sta a lato dalla Morte incombente.

SALO’ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA (1975)

Pasolini lascia il suo testamento adoperando il fascismo storico ambientando una metafora molto leggibile della epoca che si appresta ad ammazzare Pasolini con la stessa violenza che si mostra nel film. Sade viene trasposto a Salò e Marzabotto in una precisa identificazione del nuovo fascismo.

Cento anni di PPP. Perché abbiamo tanto amato Pier Paolo Pasolini anche se alcune sue scelte erano opposte agli ideali di sinistra. Fausto Bertinotti su Il Riformista l'1 Marzo 2022. 

Non si salverà neppure Pier Paolo Pasolini dalla celebrazione. La celebrazione mediatica è un segno dei tempi. La secolarizzazione, di cui Pasolini aveva letto in anticipo, seppure credo unilateralmente la barbarie, ha invaso e pervaso di sé almeno il grande campo delle comunicazioni. Anniversari di morte e di nascita, come la scomparsa di una personalità pubblica, diventano l’occasione di un trionfo mediatico. Un tempo si diceva che il comunista buono era il comunista morto, ora vale per tutte le persone che hanno raggiunto il nuovo codice d’onore, cioè la notorietà.

Non so se potrà bucare il muro della prevedibile retorica dar conto, al contrario, di come una generazione politica di sinistra, interna al Movimento operaio, giovani comunisti, socialisti, abbiano amato Pasolini e abbiano continuato a farlo, malgrado alcune sue scelte politiche risultassero per loro urticanti e li vedesse su opposte frontiere. Era il ’68 quando, nella battaglia di Valle Giulia a Roma, che aveva opposto gli studenti alla polizia, Pasolini scrisse ne “Il Pci ai giovani”: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti, perché i poliziotti sono figli di poveri». Il colpo fu duro. Pensammo, e continuo a pensare, che si sbagliava, trascinato nell’errore da un poco significativo dato sociologico e dal comprensibile odio per tutte le borghesie. Sbagliava tanto da non vedere la risposta operaia e studentesca che stava attraversando il mondo intero e che avrebbe aperto le porte alla straordinaria stagione di lotta di classe che ha trasformato il nostro Paese negli anni Settanta, anche rendendolo un po’ più umano, proprio a partire da quel biennio rosso ’68-’69.

Una ballata da dentro quel nuovo mondo, proprio dentro quello scontro, ne dava conto in presa diretta, con le speranze e i sogni che stavano nascendo, seppure lontani dalla terra arata e seminata dal sempre grande intellettuale. Era la ballata Valle Giulia di Paolo Pietrangeli. La rottura continua a scavare nel fondo, fino a rivelarsi in modo illuminante nel famosissimo testo La scomparsa delle lucciole. La tesi di Pasolini va al fondo di una mutazione antropologica che viene fatta risalire alla metà degli anni Sessanta, comparabile all’inquinamento dell’aria e dell’acqua, che produce la scomparsa delle lucciole e comparabile all’invasione nelle borgate delle “brutte costruzioni” che la snaturano. L’industrializzazione e la società dei consumi avrebbero demolito quel che Pasolini definiva “il grande Paese”, il mondo del Pci che si stava formando dentro il Paese Italia. Secondo Pasolini, quel popolo, che avendolo tanto amato aveva ben conosciuto, subiva una mutazione che lo ha deformato come la sua stessa coscienza, rendendolo «degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale».

Alla luce di questa inquietante traiettoria, Pasolini rivedrà drammaticamente, fino al rovesciamento, anche il suo giudizio, sui protagonisti dei suoi romanzi: i ragazzi della borgata romana. Dopo la scomparsa delle lucciole, anche la politica avrebbe cambiato di segno, rendendo inusabile persino il discorso del Politecnico e di Fortini sulla presenza in Italia di due fascismi: soggettivo e oggettivo. Dopo, la Democrazia cristiana diventa il vuoto, e i suoi dirigenti le “teste di legno”. Si sarebbe preparato così il passaggio dal vecchio assetto di potere a quello nuovo della polizia tecnocratica e sovranazionale. Non tragga in inganno la singolare aderenza di questa conclusione, quella della scomparsa delle lucciole, con la situazione attuale. Di mezzo, ci sono tutti gli anni Settanta, ci sono i suoi protagonisti: gli operai dei Consigli, i giovani, le donne. In mezzo c’è stata una contesa che ha cambiato il Paese con riforme sociali e di civiltà e soprattutto con una partecipazione e un protagonismo delle masse che avrebbe potuto portare a un’altra società, a un altro modello di società. È la sconfitta di quella storia che ci ha condotti qui, non la sua esistenza, che invece il poeta si è negata.

La distanza politica non poteva essere più grande, e proprio in quella fase, la metà degli anni Settanta, si faceva una distanza cruciale. Eppure, un filo forse allora poco visibile quanto resistentissimo ci ha continuato a legare a lui. Bisognerebbe riuscire a spiegarlo. Non so se in casi come questi, l’incontro tra dei giovani critici e uno scrittore, si possa parlare di innamoramento. Noi lo conoscemmo divorando i suoi Ragazzi di vita e Una vita violenta. Non eravamo così raffinati da aver saputo guardare bene dentro le straordinarie poesie che li avevano preceduti. Quei libri, per noi, furono una rivelazione. Ci portarono dentro le borgate romane fino al Prenestino a conoscere il sottoproletariato, così lontano dalla realtà operaia e politica che frequentavamo, e vicini alla sua scandalosa umanità. In quell’universo, il Riccetto, un ragazzo che vive di espedienti, di furti e di altro “fuori norma”, si tuffa nell’acqua del Tevere e rischia la sua vita per salvare una rondine che stava affogando. La vitalità, la spontanea generosità del ragazzo di borgata sono una risorsa di umanità, ma non possono essere un dono permanente. Quando Riccetto perde i suoi riccioli e si integra perde quella dote e si avvia al drammatico destino costruitogli da una società ingiusta e inumana.

Ma lì, in quel mondo, vivevano le lucciole, che sono la ragione della poetica di Pasolini. Lo dirà lui stesso nelle Ceneri di Gramsci. Il poeta si rivolge a Gramsci dicendogli «sono attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me una religione. Per la sua allegria (lo attrae), non la millenaria sua lotta, la sua natura, non la sua coscienza». C’è in una frase tutta una ragione di attrazione profonda e di un dissenso. Ritorna allora l’interrogativo: “Allora perché Pasolini?”. Già negli anni Sessanta, non è facile capire bene perché quei giovani militanti che si volevano eredi di marxismi eretici, che leggevano la politica del sindacato e delle sinistre alla luce della centralità del conflitto di classe, nella lente della lotta operaia, fossero così attratti dalla tematica pasoliniana e dalle sue opere, e ancora di più dalla sua figura di intellettuale, di scrittore, di artista. Lo inseguimmo ovunque: nel romanzo, nella poesia, nella saggistica, nella linguistica, fin dentro quel suo cinema così intenso e illuminato, che il capolavoro La ricotta aveva preannunciato.

Ci avevano avviati a lui i Dialoghi con Pasolini, la rubrica che lo scrittore teneva su Vie Nuove, un periodico comunista e popolare tra gli ultimi anni Cinquanta e i primi Sessanta. Erano state quelle risposte alle lettere dei lettori, che saranno poi raccolte nel volume Le belle bandiere. Ancora oggi, esse ci parlano della temperie di un tempo, di ricerca e di impegno. Pasolini vi era immerso da protagonista, secondo la sua interpretazione, e una presenza profetica in un tempo che era di transizione, cercando le risposte anche a quella che veniva definita una crisi (una delle tante crisi) del marxismo. Ma non nelle prossimità politiche vanno cercate quelle passioni nostre che si rivelarono durevoli. Infatti, anche quando quelle prossimità vennero meno, le nostre passioni continuarono. Già allora il panorama intellettuale e letterario avrebbe suggerito di poter alimentare, quelle stesse passioni, con altre presenze, suscettibili di maggiori sintonie politico-culturali. Scrittori come Franco Fortini, poeti come Edoardo Sanguineti, il Volponi del Memoriale, per altri versi ancora Calvino, e poi per intero il “Gruppo 63” che animava la ricerca della nuova Avanguardia, e altri ancora avrebbero potuto esserlo allo stesso titolo.

Perché quella connessione sentimentale con Pasolini? Una ragione forse si trova nel doppio di quella sua frase che abbiamo citato. Da un lato, un assoluto religioso della ricerca di un popolo che vive già, come può, l’umanità cercata per il futuro, l’avversione radicale alla società dei consumi, al capitalismo delle società violente come rifiuto sistematico del mondo borghese, conducono alla tensione profetica del poeta. Isaac Deutscher titola uno dei tre volumi della trilogia su Leone Trotskj Il profeta disarmato. Nessuna parentela con Pasolini, se non forse proprio la definizione di “profeta disarmato”. Noi quell’essere disarmato lo trovavamo nel secondo paragrafo della frase citata, quella in cui si diceva che non l’attraeva di quel popolo, che pure cercava, la sua lotta, la sua coscienza, cioè si può dire la classe operaia. Non si può prendere la scorciatoia per spiegare il rapporto con Pasolini con la sua grandezza, perché anche altri ce ne sono.

Forse ci aiuta invece a capirlo proprio questa drammatica tensione tra i due poli che, uniti, hanno riempito la politica del Novecento. Deprivato di quell’unione tra popolo e classe, Pasolini non si è arreso e ha continuato a cercare e a testimoniare. Conservatore e rivoluzionario, com’ebbe a dire Berlinguer del comunista. Alla modernità Pasolini si è messo di traverso, come Walter Benjamin, credo pensasse che la rivoluzione si fa premendo il freno e non l’acceleratore. Forse era proprio questo non poter essere mai pacificato che non consentì mai al dissenso di farsi separazione. “Loro” uccisero il profeta. Non so se avesse ragione Gianni Borgna nella sua ricerca sulla genesi dell’uccisione del poeta, uccisione che definiva politica. Certo, fu un omicidio culturale. Pasolini portava con sé nel mondo il carisma dell’ultimo grande intellettuale civile del Paese.

Nella contesa tra Sartre e Camus non si trattava allora di scegliere da che parte stare, ma di connetterli, di connettere l’intellectuel engagé e l’uomo in rivolta. Uno scrittore suo coetaneo, seppure da lui lontanissimo, Beppe Fenoglio, aveva trovato la parola giusta che credo possa definire il nostro Pasolini. Ritrovando le speranze del nuovo mondo che si affacciava, le speranze dell’aurora, Fenoglio scriveva che nasceva allora «quella nuova parola, nuova nell’acquisizione italiana, così tenera e splendida, nell’aria dorata: partigiano». Partigiano. Forse sta qui la ragione di una passione durevole.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

Anticipazione da Oggi – oggi.it il 2 marzo 2022.

A 100 anni dalla nascita di Pier Paolo Pasolini, l’ex agente infiltrato della Dea Nicola Longo, in una intervista esclusiva a OGGI, in edicola dal 3 marzo, rivela: «Fui io nel 1976 a recuperare le pizze rubate con le ultime scene di Salò o le 120 giornate di Sodoma (il cui recupero fu il pretesto per attirare Pasolini all’idroscalo di Ostia e ucciderlo, ndr), attraverso l’aiuto di un pezzo grosso della criminalità ormai deceduto.

Mi portarono il campione di alcune scene sottratte dal Casanova di Fellini per provarmi che stavano dicendo il vero», dice l’ex agente. Che aggiunge: «Il criminale che le fece ritrovare non chiese nulla in cambio». La ricostruzione e l’intervista completa sono su OGGI in edicola dal 3 marzo.

Cento anni di PPP. Ecco perché fu ucciso Pier Paolo Pasolini: la verità di David Grieco. Susanna Schimperna su Il Riformista il 2 Marzo 2022.  

«Un anno e mezzo per avere una distribuzione. La mia compagna Marina Marzotto, produttrice del film insieme a me, era andata a farlo vedere in Rai. Non avrei voluto, sapevo che sarebbe stato inutile. Infatti. Un mare di complimenti, elogi alla recitazione di Massimo Ranieri, di Libero De Rienzo, ma poi: “Pensate di farlo uscire al cinema? No, non può, nel modo più assoluto”». Così alla fine, senza aver avuto i fondi ministeriali e dopo ostacoli di ogni genere, il film di David Grieco Macchinazione, terminato nell’agosto del 2014, riesce ad arrivare nelle sale solo a Pasqua del 2016 grazie a una piccola distribuzione.

Pochi l’hanno visto anche se continua a circolare per l’Italia, ogni volta accolto come un piccolo evento, fonte di enorme curiosità, sconcerto, dibattiti. Perché Grieco, che ha conosciuto e frequentato Pasolini per più di quindici anni, in Macchinazione e nel libro omonimo scritto parallelamente alla lavorazione del film propone sull’uccisione del poeta un tesi molto diversa da quella ufficiale.

Se Pasolini non è stato ammazzato da Pino Pelosi, allora da chi? E soprattutto, perché?

È stato ammazzato perché rompeva i coglioni. Dillo con queste parole qui. Quello che andava scrivendo da un po’ sul Corriere della Sera, quello che scriveva sulle stragi, il suo “Io so tutto ma non ho le prove” – che è un manifesto del giornalismo, e lui negli ultimi anni si sentiva più che mai un giornalista – , il processo alla Dc, il suo ultimo romanzo Petrolio; ecco, tutto questo è “il perché”. Tutti sapevano che stava scrivendo Petrolio e che al centro del libro c’era Cefis. Anni dopo si è scoperto che molti appartenevano alla P2, che anche i vertici Rai appartenevano alla P2 (associazione su cui non si è mai riuscito a far luce, non dimentichiamolo). Pier Paolo andò all’idroscalo a lasciarci la pelle con la piena consapevolezza di rischiare. Probabilmente pensava “Mi conoscono tutti, sono Pasolini, faccio saltare il coperchio dalla pentola”. Invece non c’è riuscito perché le connivenze erano tante e tali. Pelosi ritrattò uscito dal carcere, poi cambiò ancora versione, e alla fine si è portato nella tomba ciò che sapeva. Ma cosa sapeva, poi? Solo quello che aveva visto. I baraccati che erano ai margini del campo di calcio raccontarono a Furio Colombo, che due giorni dopo andò lì, che erano in tanti, in tanti a infierire su un uomo solo per più di mezz’ora, mentre lui gridava “Mamma, mamma!”. Furio disse: “andate a parlarne ai magistrati”, e loro “no no, siamo abusivi e poi ci cacciano via di qua”. Che loro non siano andati dai magistrati è comprensibile, molto meno comprensibile è che i magistrati non siano andati da loro.

Anche tu sei andato all’idroscalo subito dopo l’omicidio.

Sì. Ho ventiquattro anni, vado e porto con me Faustino Durante, che è mio suocero, che a sua volta porta Guido Calvi, all’epoca un giovane avvocato. Scrivo poi la memoria di parte civile del primo processo a Pino Pelosi, su incarico della cugina ed erede di Pasolini, Graziella Chiarcossi. Tempo dopo c’è il progetto di un film con Abel Ferrara che invece non farò.

Che è successo con Abel Ferrara?

Mi aveva chiesto di scrivere un film su Pasolini di cui lui sarebbe stato il regista. La televisione francese Canal Plus era disposta a produrlo solo se l’avessi scritto io, che ho tantissimo materiale accumulato negli anni e sono molto ben disposto. Ma entro subito in rotta di collisione con Abel perché lui se ne fotte altamente di come sia morto Pasolini. «Io non voglio fare una storia di spionaggio», mi dice. E mi descrive Pasolini con “un uomo ricco che comprava carne”, mandandomi in bestia. Allora scrivo e realizzo un film mio, parallelamente a un libro con lo stesso titolo, per raccontare una parte dei retroscena su quella morte. Altri retroscena sono venuti fuori successivamente.

Facciamo un grande salto all’indietro. A quando hai conosciuto Pasolini.

Avevo nove anni. Lui frequentava la compagna di mio padre, Lorenza Mazzetti, quindi veniva spesso a casa nostra. Lorenza aveva cominciato a fare dei film a Londra non avendo una lira, rubando la pellicola e la macchina da presa alla scuola che frequentava, ma questo Pier Paolo non lo sapeva ed era ansioso di capire come si potesse realizzare un film a basso costo. Veniva insieme a Bernardo Bertolucci, restavano a chiacchierare per ore. Doveva fare Accattone ed era stato accannato da Fellini… Poi un giorno, all’epoca di Teorema, scrive una parte per me. Io quanto a recitazione sono un cagnaccio, e subito, il primo giorno di riprese a Milano, mi impunto: «Non me la sento di proseguire questa impostura, non sono un attore, non posso fare l’attore». Gli chiedo però di essere il suo assistente volontario e lui accetta. Quando, a diciott’anni e quindi poco dopo, sono giornalista all’Unità, divento un po’ il suo tramite: faccio una serie di campagne col giornale contro la censura, contro i sequestri insopportabili dei film, tra cui quelli proprio di Pasolini. Al di là di questo, ci frequentiamo molto. Pur non essendo borgataro (mio padre giornalista e per anni direttore dell’agenzia Tass, mio nonno tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia), faccio parte di questa banda di borgatari, Franco Citti, Ninetto Davoli. Perché sono cresciuto un po’ in mezzo alla strada e parlo la loro stessa lingua, cosa che affascina Pasolini.

Che facevate con questa banda?

Erano anni in cui la sera uscivi senza mèta. Ancora si poteva. Per esempio facevamo le “macchinate”: tutti a bordo di due o tre macchine, e via. Finivamo al Tiburtino III, o magari a vedere l’alba a Pietralata. Lui amava Roma come la può amare un gatto randagio e ci portava tutti dietro.

Raccontami di lui sul set. E nel quotidiano, a parte le macchinate.

Era ovunque lo stesso. Era come era. La persona più gentile del mondo. Non alzava la voce nemmeno quando ci assalivano i fascisti per la strada. Succedeva spesso: lui era molto riconoscibile, con quei tratti del viso, gli occhiali neri, quindi le persone lo fermavano e si mettevano a parlare. Pasolini dedicava tempo a chiunque (e per questo non si arrivava mai puntuali agli appuntamenti). Poi uno o più tipi cominciavano a insultarlo, a botte di “frocio” e altre piacevolezze. Pasolini non mollava, cercava finché possibile di dialogare. Ma se quelli passavano alle mani, lo faceva anche lui. Gli ho visto mettere in fuga anche tre o quattro uomini ben piazzati.

Di che parlavate? Che ti ha insegnato?

Non faceva sermoni di tipo paternalistico. Era un uomo di poche parole, dotato di ironia. A me ha insegnato essenzialmente una cosa: a pensare con la mia testa. Ti cito uno degli infiniti episodi. Ero diventato critico cinematografico dell’Unità e in quel periodo Moravia lo era dell’Espresso. Lo era a modo suo, e tutta la categoria dei critici cinematografici lo prendeva molto in giro. Una sera Pasolini sentì che stavo un po’ schernendo Moravia e mi disse «Sei uno stupido. Moravia vede i film con i suoi occhi e la sua testa, e tu faresti bene a fare la stessa cosa, anziché far parte di una congrega». Se poi vuoi sapere dei suoi discorsi, si partiva sempre da cose semplici, il cibo che stavamo mangiando per esempio, e si poteva arrivare pure a parlare di Socrate, ma così, perché veniva spontaneo. Amava la spontaneità e la sincerità sopra ogni cosa, odiava la falsità e i formalismi. Infatti era fuori da tutti i giri. Ogni tanto si andava nei cosiddetti salotti, ma erano incursioni rapidissime solo per salutare qualcuno e basta, di solito per salutare proprio Moravia.

Hai detto prima che da un certo punto in poi si sentiva soprattutto un giornalista…

Sì, e il rapporto con me era infatti anche professionale. Lui, pubblicista, adorava questo mestiere. Indagava per conto suo, quindi gli servivano articoli, materiale, e me li chiedeva. Scritti corsari, raccolta di articoli apparsi sul Corriere, per me è il libro di iniziazione pasoliniana. I ragazzi oggi lo stanno scoprendo, lo amano. Io vado spesso nelle scuole, ora più che mai perché è l’anno di Pasolini, ed è pieno di giovani interessatissimi a lui e a quel libro, con delle curiosità che non ti aspetti.

Celebrato da decenni e quest’anno più che mai…

Da un lato lo santificano, dall’altro lo vedono come un cliente di marchettari ammazzato una sera per caso da un marchettaro. Pasolini odierebbe tutte queste celebrazioni, non amava nemmeno ricevere premi. Era un dolce ragazzaccio.

Di lui si sono appropriati tutti. Si sottolineano tendenziosamente alcune sue posizioni, che se pure ha avuto allora forse in altri tempi e contesti avrebbe cambiato, e certe sue frasi vengono ripetute come dei mantra. Un po’ come è accaduto con Fabrizio De André. Guai a contestare Pasolini. Cosa ti dà più fastidio delle infinite cose dette su di lui?

Dato che non sono lui né sono suo figlio, mi faccio scivolare tutto, non mi indigno più. Ne ho sentite talmente tante quando era vivo, che ci avevo (e ci aveva anche lui) fatto il callo. Il Pd, che è quella cosa che somiglia alla Dc più di ogni altra identità politica, creò qualche anno fa una scuola di partito a Roma – idea di Massimo Recalcati – intitolata a Pasolini. Un paradosso. Mi diverte vedere quanta gente provi a impossessarsi di Pasolini e che magre figure facciano.

La famosa poesia dalla parte dei poliziotti: “Avete facce di figli di papà. / Buona razza non mente. / Avete lo stesso occhio cattivo. / …Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti / io simpatizzavo coi poliziotti!”…

Quanto ci hanno ricamato sopra. Quanto l’hanno usata per denigrare la ribellione dei ragazzi. È tutto molto più semplice e dobbiamo ricordare l’occhio lucido di Pasolini: a Valle Giulia negli scontri con la polizia ci stavano i fascisti, ci stavano Stefano Delle Chiaie e tutta questa gente qua. C’erano le foto, bastava osservarle. Il punto è: perché Pasolini quelle foto le “vedeva”, oltre che guardarle, e gli altri no?

Vedere. Occhio lucido. Ma non solo: Pasolini è considerato un profeta. Tra le tante cose, quale è quella più importante che avrebbe previsto, secondo te?

La più straordinaria è Alì dagli occhi azzurri. È la visione a colori estremamente nitida, a fuoco, della migrazione dall’Africa. Parliamo dei primissimi anni Sessanta. Quella sì che fu come uno squarcio profetico. Per il resto, era… lavoro. Lui indagava, pensava, e giungeva a conclusioni logiche. Aveva negli ultimi tempi un’ansia letteralmente febbrile, tanto che era difficile stare con lui, viaggiava velocissimo. Aveva capito che si stava creando o si era appena creata la P2, con complicità insospettabili di qualsiasi genere. Per fare il colpo di stato senza carri armati e senza sparare un colpo.

Era pessimista. Direi apocalittico. All’intervista del 1° novembre ’75, rilasciata a Furio Colombo poche ore prima di morire, aveva voluto dare un titolo egli stesso: “Perché siamo tutti in pericolo”.

Si sentiva solo. Eravamo in tanti a stargli vicino, Laura Betti forse prima fra tutti, ma lui capiva e soffriva di non riuscire veramente a trasmetterci le scoperte che andava via via facendo, e i suoi timori. Parlavamo spesso di politica, mi aveva fatto portare una lettera a Enrico Berlinguer alle Frattocchie. Amava molto Berlinguer. Poi come aveva visto che si stava realizzando il compromesso storico, era trasecolato e aveva detto “no no, Berlinguer non deve fare un errore di questo genere”.

Temi di cui aveva parlato anche in quell’ultima intervista: l’istruzione scolastica obbligatoria a cui era contrarissimo e che secondo lui appiattiva tutti; la repressione sessuale ancora potente; il consumismo; l’omologazione (che si cita puntualmente insieme al nome di Pasolini, ma in realtà non è per lui un male primario, è la risultante di scuola obbligatoria, più tv, più consumismo). Che avrebbe detto oggi della sessualità, del gender, di questa voglia di nominare e forse normare? L’avrebbe considerata o no la tappa di un percorso di liberazione?

No, avrebbe odiato tutto questo. Si era tenuto sempre lontano anche dal FUORI di Angelo Pezzana, non era d’accordo sulla “sindacalizzazione” degli omosessuali. Figuriamoci adesso. Non puoi più dire nulla, tutto deve essere all’interno di questo cruciverba assurdo, fatto di incastri che sono in realtà proibizioni, limiti.

Sul darsi un nome, definirsi: siamo sicuri che Pasolini fosse di sinistra? Intendo con i parametri dell’epoca, non quelli attuali.

Lui era un comunista. È morto pensando di essere comunista, e se ti dovesse rispondere adesso continuerebbe a dire «Sono un comunista». Con tutto ciò che questo implica, anche illusioni e disillusioni. Susanna Schimperna

Dacia Maraini: «Pasolini viene spesso a trovarmi nei sogni. Anche ora». Scrittore corsaro. Voce profetica. Poeta maledetto. Capro espiatorio. A cento anni dalla nascita continua a inquietare i conformisti. In un Paese non più suo, abitato dal vuoto. Marco Damilano su L'Espresso il 28 febbraio 2022.

Pier Paolo riposa oggi accanto alla mamma Susanna, in una piccola tomba con la lapide sporca, annerita dal tempo, che si fa fatica a vedere. «Carissima pitinicia», si rivolgeva a Susanna, «in Casarsa quello che conta è la campagna attorno, con i suoi orizzonti e i suoi angoli segreti». A Casarsa della Delizia, sulle sponde del fiume. «Ho voglia di essere dentro il Tagliamento, a lanciare i miei gesti uno dopo l'altro nella lucente concavità del paesaggio.

Ascanio Celestini: «Pasolini, un poeta ucciso dal Novecento​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​».

La prima poesia. Il cimitero di Casarsa. L’innocenza perduta del Pci. La bomba di piazza Fontana. Il corpo seviziato. Negli oggetti dello spettacolo teatrale “Museo Pasolini” la nostra storia. «Era famoso, è stato utilizzato dal fascismo come un contenitore del letame. Il regime l’ha consegnato alla sua fine». Marco Damilano su L'Espresso il 28 febbraio 2022.

Largo Spartaco, con le case di via Sagunto nel quartiere Quadraro di Roma, costruite con il piano Ina-Casa firmato nel 1949 dal ministro democristiano Amintore Fanfani. Un lunedì romano di pioggia e di vento, i murales nel sottopassaggio, il bar con le foto di Anna Magnani e Alberto Sordi, la parrocchia dell’Assunzione di Maria di cemento armato in mezzo ai palazzi, una scritta sul muro: «Babbo Natale servo del Capitale».

Poeta, scrittore, regista, polemista; un artista totale. Chi era Pier Paolo Pasolini, il vate del complottismo e del giustizialismo. Angela Azzaro su Il Riformista il 26 Febbraio 2022. 

Scrittore, poeta, polemista, regista, pittore. Ma anche anti-sessantottino, anti-abortista, anti-modernità. Pier Paolo Pasolini ha incarnato nel Novecento l’artista totale, il genio che qualsiasi iniziativa decidesse di intraprendere diventava un’operazione riuscita. La sua opera, a prescindere dal mezzo che utilizzava, ha toccato le grandi questioni della contemporaneità con domande e con provocazioni che ci interrogano ancora oggi. Artista totale lo era anche per il modo in cui ha vissuto la sua vita, in un’esposizione costante del suo corpo, del suo desiderio, del suo essere se stesso.

Pasolini il maledetto, perché la sua epoca lo ha tanto amato ma anche tanto odiato. Per la sua sessualità che nella dichiarazione di omosessualità non si è mai voluta normalizzare, diventare famiglia, scegliendo la strada e i ragazzi di vita come luogo del proprio desiderio. Per la sua ereticità, per il suo stare sempre dall’altra parte come quando dopo Valle Giulia si schiera con i poliziotti contro i figli della borghesia che manifestano. Con le lucciole rimpiange in maniera reazionaria il passato, evocando un mondo ancestrale fatto di sfruttamento e di potere maschile. Lui queste storture non le vede, non le denuncia. Anzi. La nostalgia per il mondo che viene travolto da quella che poi chiameremo globalizzazione è troppo forte. E così sull’aborto volta le spalle al femminismo, le cui ragioni non fa mai sue. Pasolini viene espulso dal Pci per immoralità, subisce 33 processi e un centinaio di denunce. È scomodo, fuori da qualsiasi chiesa. Eppure proprio lui che viene perseguitato dalle autorità per le sue idee e il suo linguaggio è uno dei padri del complottismo italiano.

Non è un caso che di recente la rivista del Fatto quotidiano, “Millennium”, abbia dedicato un articolo alla persecuzione giudiziaria da lui subita. A parte la contraddizione palese – l’house organ delle manette che protesta contro le manette a Pasolini – è chiaro il filo che lega il grande scrittore a giustizialisti e complottisti, che poi spesso sono la stessa cosa. Certo, va fatta subito una precisazione: stiamo parlando da una parte di un grande intellettuale e grande scrittore, dall’altra del cascame ideologico, privo di talento, che in questi anni ha divorato anche la cultura e l’intellighenzia del nostro Paese. Ma non si può, a distanza di anni, non mettere sotto accusa l’articolo uscito il 14 novembre 1974 sul Corriere della sera dal titolo Cos’è questo golpe? Io so (i nomi): un atto di accusa generico contro la classe politica che avrebbe nascosto i responsabili delle stragi. “Io so i nomi – scriveva – ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”.

Il manifesto del giustizialismo che decide la colpevolezza calpestando la presunzione di innocenza, che manda le persone in galera sulla base di teorie non verificate, che organizza processi sommari nella pubblica piazza sulla base di convinzioni personali. Sì, è vero che Pasolini è stato profetico, lo è stato sicuramente rispetto a quello che sarebbe stato il clima generale del Paese dopo vent’anni, trent’anni dalla sua morte. Un clima che dura ancora oggi. Un anno dopo la pubblicazione di quell’articolo, il 2 novembre 1975, Pasolini viene ucciso all’Idroscalo di Ostia. Il colpevole per i giudici è Pino Pelosi, detto la Rana, che trent’anni dopo aver riconosciuto di essere stato lui l’omicida di Pasolini, dichiara in un’intervista a Franca Leosini di non essere stato solo sul luogo del delitto. In seguito farà anche i nomi dei cosiddetti complici. Ma Pelosi non parla a caso. Sono anni e anni che si alimentano teorie complottiste sulla morte di Pasolini. Qualcuno dice che è stato ucciso per avere scritto l’articolo “io so i nomi”, altri legano il mistero al film Salò che uscirà poco dopo la sua morte e di cui, durante le riprese, vengono rubate alcune bobine.

Nel 1986, quando viene pubblicato Petrolio, la narrazione sulla sua morte si infittisce ulteriormente. Il romanzo è un “non finito”, ma forse proprio per questo suo “non finito” è dal punto di vista stilistico, letterario, un vero caso. Il frammento inserito nel disegno monumentale dell’opera crea un elemento di contraddizione fortissimo: la narrazione sincopata eppure epica, l’ambizione di raccontare un intero Paese, attraverso lo sdoppiamento di personalità del protagonista Carlo diviso tra il bene e il male e che a un certo punto si sveglierà nel corpo di una donna. C’è in Petrolio tutta l’ideologia pasoliniana che andrebbe indagata, capita, vagliata. Ma c’è chi ci ha voluto vedere prima di tutto il motivo della sua morte. La critica al potere, al Palazzo (è sua la definizione populista) sono il collante dell’opera in cui si raccontano le vicende dell’Eni. E se lo avessero ucciso per questo? E se Petrolio fosse legato a Salò e alle bobine rubate?

Nel 2010, per non farci mancare nulla, Marcello Dell’Utri, ha dichiarato di avere ritrovato un frammento sparito del romanzo. Nuove ombre, nuove congetture. Invece l’unica certezza è che Pasolini è stato ucciso da uno dei ragazzi di vita, e questo non va giù. Non va giù che il mito, il vate, il grande intellettuale avesse una vita sessuale non classificabile, per molti insopportabile moralisticamente. Quegli stessi che però ne hanno amato le congetture, le definizioni che alimentano i sospetti, la cultura della presunzione di colpevolezza. A tal punto hanno amato questi aspetti di Pasolini, da aver proiettato sulla sua morte questa passione per l’irrazionale, per l’anti-politica, per tutto ciò che non rientra nello stato di diritto. Caro Pasolini, lasciacelo dire, quanti danni hai fatto!

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Dagospia l'11 marzo 2022. Tratto da “Quando c’era Pasolini” (Baldini+Castoldi) di Fulvio Abbate. Appena uscito in libreria.

Nel novembre del 2013, su “La Lettura” del “Corriere della Sera”, ho avuto modo di scrivere poche parole. Di congedo. Da Pasolini. Convinto – scrivevo allora – che si tratti di una battaglia ormai persa. Eccole: «Ho appena deciso di “abiurare” ciò che ho scritto a proposito di Pasolini nel corso degli ultimi vent’anni. 

Nell’ordine, un romanzo del 1992, Oggi e un secolo, dove lo immaginavo mentre fa ritorno a noi, come in un seguito di Uccellacci e uccellini; e ancora, C’era una volta Pier Paolo Pasolini, del 2005, dove provavo a raccontare la “necessita” della sua voce di poeta, anzi, il bisogno della persistenza della sua tersa consapevolezza politica; e poi, infine, Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi, uscito pochi mesi fa.» 

Uno scritto, quest’ultimo, concepito affinché coloro che son venuti dopo potessero intuire la vitalità, la grandezza dello scandalo che animava gli anni Settanta, i più incandescenti, l’avventura terminale pasoliniana. Lo stesso scrittore, pochi mesi prima di finire assassinato, volle abiurare, testualmente, la sua Trilogia della vita: Decameron, Canterbury e Il fiore. Riteneva che «ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, e divenuto suicida delusione, informe accidia».

Anch’io sento una simile delusione, e dunque prometto che quando si tratterà di celebrare i cento anni della nascita, o portare l’ennesima primula all’Idroscalo di Ostia, non ci sarò, ne metterò nero su bianco una parola, fosse anche di quelle necessarie a spiegare, come disse proprio Pasolini al giovane Veltroni, che «si applaudono sempre i luoghi comuni» mentre uno scrittore dovrebbe essere «una contestazione vivente». 

Parole che listano a lutto l’assenza ormai conclamata di una Sinistra, di una forza d’opposizione, di uno «straccetto rosso»; acclarato il vuoto di fantasia di chi avrebbe dovuto almeno provare a dargli retta. Alla fine, non sono riuscito a scriverne ancora. 

Personalmente penso che la scelta non apologetica, bensì problematica, sia l’unica necessaria per sottrarre Pasolini alle sue prefiche. Laureate e non. Trovo desolante che il poeta delle Ceneri di Gramsci sia diventato un Padre Pio dell’afasia «civile», sempre lì a mettere in moto la regressione letteraria e fideistica, com’e testimoniato dai molti blog che tengono accesa la lucciola pasoliniana nell’infinito della Rete, dove la melopea-lagna non riesce a produrre pensieri se non regressivi: fra convento fortificato e fan club. 

Sono deluso dalle semplificazioni di quei «fascisti» che con poveri mezzi d’intelletto a loro volta rivendicano l’antimodernità dello scrittore in chiave autarchica, cosi come mi deprime ripensare, e l’ho già raccontato, alcuni ragazzi gay in nero-Paul Smith che davanti alle foto di PPP nudo scattate alla torre di Chia da Dino Pedriali nel 1975 seppero trovare come uniche parole un «che gran figone!» Per non dire di certi ex voto pittorici del suo volto, talmente brutti da surclassare il peggiore dei generi.

Anche Enrique Irazoqui, già Cristo nel Vangelo secondo Matteo, ha detto di sentirsi altrettanto «infastidito dal culto acritico universale di San Pier Paolo Pasolini, del Profeta Pasolini, dell’Infallibile Pasolini». Stringere la mano a Pino Pelosi, l’assassino, l’ho detto, mi ha suscitato meno disagio di tutto ciò che ho appena provato a raccontare. 

Come in una tragica natura morta, ritrovo e provo ad elencare le povere cose che si trovano oggi al Museo Criminologico di via Giulia, a Roma, la strada della «comare secca», la morte.

 Ritrovate nell’auto, la Giulia metallizzata di Pier Paolo Pasolini in ordine sparso: il libretto degli assegni, il libretto dell’auto, una confezione di preservativi “777” e una di “Saridon”, una carta geografica dell’Italia centrale, tre fototessere, i suoi occhiali, la tessera in marocchino verde di giornalista pubblicista, una copia dell’antologia, tascabile, del “Politecnico” di Elio Vittorini, una copia Adelphi di Sull’avvenire delle nostre scuole di Friedrich Nietzsche, un premio cittadino: una statua che mostra Nettuno con il suo tridente, infine la canottiera verde che indossava la notte della morte, la camicia a righine orizzontali, le due tavolette che servirono al suo massacro dove, con vernice rossa, si trova scritto: “Via idroscalo 93” e “Buttinelli. A”. 

Chissà perchè, chissà come, alla fine di questo libro, pensando all’«umile Italia», mi sono ritrovato tra le mani due foto, scattate, in bianco e nero, ai baracchini delle fototessere che si trovano in strada o in prossimità delle stazioni.

Nei due scatti in sequenza appare, c’è, vive, Peppino R., «sottoproletario della sezione Borgo Vecchio del Pci di Palermo». Chi le ha fatte giungere fin sotto il mio sguardo, cinquant’anni dopo, lo racconta, lo restituisce «cantastorie, imbianchino a tempo perso e venditore di palloncini nelle feste di paese. Il Pci degli umili e dei senza voce» 

Nelle foto, Peppino indossa il basco cachi del servizio militare, il fregio di plastica nero della fanteria, lo indossa e così si mostra come vezzo, come se quel berretto, indossato come un oggetto di scena della vita trascorsa, lo restituisse alla pienezza del tempo e del mondo, forse anche del cosmo, di più, del viaggio. Chissà in quale possibile paradiso delle molliche sociali calpestate, spazzate via dalla durezza dell’esistenza, ammesso che un paradiso esista, sia mai esistito, si possa trovare adesso Peppino. Alla fine, non resta che una parola, per lui, per tutti: compassione.

Il mio libro è dedicato a Carlo Alberto Pasolini dall’Onda, padre rimosso di Pier Paolo.

Cento anni di PPP. “Quando c’era Pasolini”, cronache di un mondo che non esiste più. Fulvio Abbate su Il Riformista il 27 Febbraio 2022. 

Il primo significativo anniversario della morte dello scrittore di cui c’è modo d’avere pubblica memoria, il decennale – novembre 1985 – innalzava un titolo che sapeva di avvenire, forse anche speranza di continuità del suo discorso, delle sue profezie, Una vita futura, la manifestazione seppe occupare lo spazio monumentale, arcaicamente imperiale, dei Mercati di Traiano, in via IV Novembre, tra l’infilata di una piccola scalinata che lascia intravedere il Vittoriano e piazza Venezia, e il viale in salita che conduce al Quirinale, a Roma.

Nelle “stanze”, trovavi i costumi da Maria Callas indossati nei fotogrammi di Medea, esposti accanto a ceste colme di nocciole raccolte a Chia, nel bosco intorno alla torre medievale da Pasolini acquistata nel 1970 con l’intenzione dichiarata di trascorrervi la vecchiaia, coabitando magari con la famiglia di Ninetto Davoli. C’è ancora modo di ricordare la presenza di Alberto Moravia, la sua andatura d’ospite, amico, d’onore, l’andatura del parente, del congiunto, la sua compagna Carmen Llera che lo tiene per mano, e poi, elegantissimo, «regimental» nel gusto, mano in tasca, Alberto Arbasino che confabula proprio con la Betti di com’erano «certi giorni insieme a Pier Paolo», discutono di cose amate insieme e forse ormai assenti, com’era Roma al tempo di Giro a vuoto, com’era Gadda, squisito, «davvero carino» incalza lei, la vedova Pasolini, abito verde ampio come uno Zeppelin, in gran spolvero per la vernice culturale e mondana. «L’unica forza contestatrice è il passato», affermava d’altronde Pasolini. Arbasino nel suo libro Un paese senza ha scritto cose molto chiare e terse su PPP.

Sotto le mura e dunque in mezzo ai fossati di Castel Sant’Angelo, Pietro Folena, nello stesso decennale della morte dello scrittore, proprio Folena segretario dei giovani comunisti del Pci, volle che la loro festa annuale prendesse il nome, il volto e gli argomenti politici e umani di Pasolini, e perfino la proiezione dei suoi film, su tutto Accattone. Nel 1985 lo stabilimento del «Ciriola», chiatta galleggiante dipinta d’azzurro e bianco che nel film ricorre come un luogo di ritrovo obbligato, stava ancorata al suo posto, sotto il ponte con il suo corredo di angeli di pietra, sebbene fosse ormai in stato d’abbandono, casa sbilenca, rifiuto urbano, monumento ufficioso al tempo di un’altra città, di un altro fiume… Sempre lì, Giovanni Franzoni, già abate della basilica di San Paolo fuori le Mura sospeso «a divinis» per aver dichiarato il proprio voto al Pci nei primi anni Settanta, raccontò di un Pasolini polemico con i cattolici “del dissenso” a proposito del concetto di «desacralizzazione» sostenuto da questi ultimi. «Voi sbagliate», avrebbe detto, «occorre invece imporre la sacralità del tutto».

Per il ventennale – novembre 1995 – giunse da alcuni la bizzarra idea, accolta comunque volentieri da Laura Betti, di mettere la cittadina di Ciampino al centro dell’evento. Gli amici, gli ospiti, i partecipanti, accompagnati, portati fin laggiù in treno, partendo dai binari di Termini, con una vera tarda «littorina» ormai degli anni Cinquanta, messa a disposizione dalle Ferrovie dello Stato, così da rifare lo stesso tragitto che PPP affrontava ogni mattina per andare a insegnare, a Ciampino appunto, scuola media «Petrarca», dove fra i suoi allievi avrebbe avuto il futuro scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami. Si era in clima di «tangentopoli», la ruota dell’inchiesta Mani pulite sembrava dovesse mutare radicalmente il costume e il paesaggio stesso del Paese, così a qualcuno venne in mente di organizzare, sempre in nome della «cara memoria» di Pasolini, una partita di calcio fra politici e magistrati. Non era forse vero che l’uomo amava il calcio più di ogni altra cosa al mondo? Non era altrettanto sicuro che la giustizia gli dovesse ormai un «risarcimento» morale?

Intervistato da Pippo Baudo a La freccia d’oro, programma pomeridiano che prevedeva un quiz per scoprire un personaggio famoso attraverso alcuni indizi, Pasolini alla domanda «Se non avesse fatto lo scrittore, cosa avrebbe scelto?» rispose «Avrei fatto il calciatore». «In che ruolo?» ribatté il presentatore, e lui, con tono sicuro che non nascondeva una garbata timidezza: «Mezz’ala». Lo si era già detto, ma qui suona da conferma. Fra i giudici, nello stadio di Ciampino, Gherardo Colombo e Felice Casson, fra i politici Walter Veltroni e Massimo D’Alema. Alla partenza da Termini, le tende spesse di broccato marrone, mosse dal vento che giungeva dai finestrini aperti nono- stante le temperature di novembre, schiaffeggiavano le guance dei passeggeri seduti lì accanto, il paesaggio non era più quello originario, anche se il Mandrione sembrava immacolato nella sua realtà marcita di rudere. Intronata sui sedili di legno, Betti, al meglio del suo furibondo fulgore, rimuginava intanto qualcosa di terribile, una scenata, sì, una scenata improvvisa, una scena madre che sarebbe poi avvenuta davvero in trattoria.

Franco Citti, Sergio Citti, Mario Cipriani (quest’ultimo è «Il Balilla» di Accattone e lo «Stracci» de La ricotta), e Ninetto Davoli, per fatti loro, la testa nel piatto colmo di ricotta, citazione alimentare volontaria della serata, se ne infischiano delle sue bizze, anzi, Franco Citti mormora un «Ma se n’annasse affanculo, che cazzo vole…» Forse insieme a loro c’era anche Ettore Garofolo, il figlio della Magnani in Mamma Roma. Gli ex ragazzi di vita anche quel giorno, vent’anni dopo la fine tragica dell’amico «Paolo», «Pa’», mostravano d’appartenere ad altri mondi, Paese e tavoli separati, lontani dagli e dalle sovrastrutture della cortesia borghese. Anche Franco Citti, sì, lui, Accattone, e non il fratello Sergio, il regista, il «filosofo» che portò Pasolini a scoprire meglio le borgate, proprio Franco, l’attore, un bel giorno, suppergiù nel 1991, sentì il bisogno di fare un film per Pasolini, lo sentì “dal cuore”, come in una chiamata. Nonostante il carattere ombroso, la natura taciturna, Franco ottenne il sostegno di un amico proprietario di una televisione privata, così il film poté essere girato in 16 millimetri, ma «co’ manco ’na lampadina».

Mi raccontava invece Ettore Scola di avere avuto «l’idea di un film con un prologo», da affidare a Pasolini, una sorta di «apocrifo» pasoliniano. «Solo in letteratura esiste il prologo, la prefazione», continuava a dirmi Scola, «dove un autore più importante presenta il testo del più giovane. Allora gli dissi: siccome questo mio film arriva quindici anni dopo Accattone, con un genocidio culturale sempre più evidente, nuovi falsi bisogni imposti dal consumo borghese, mi piacerebbe davvero che ci fosse un tuo prologo. L’avremmo girata a film finito, dopo avere rivisto insieme il materiale montato. Non un prologo scritto, ma un prologo parlato, ovviamente. Era d’accordo, mi disse così: mi vesto tutto di bianco e lo vengo a girare in queste baracche che hai costruito a Monte Ciocci, meglio, in cima a via Cipro, dalle parti della stazione ferroviaria urbana di Valle Aurelia, con me che passeggio tra le baracche e intanto racconto questi dieci anni che hanno visto la prosecuzione di un genocidio umano e antropologico.

Fulvio Abbate.

Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "I promessi sposini" (2019). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Cento anni di PPP. Per salvare Pasolini bisogna abbandonarlo, non trasformarlo in un feticcio pop. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 27 Febbraio 2022. 

«Contro tutto questo voi non dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare». Nel suo ultimo documento pubblico – il testo di un intervento che avrebbe dovuto tenere al 15º Congresso del Partito Radicale nel novembre del 1975, due giorni dopo il suo assassinio – Pier Paolo Pasolini ci consegna un compito: sappiate essere “eternamente contrari”.

I cento anni dalla nascita di PPP ci obbligano a confrontarci con questa eredità inattuabile e sfuggente. Ciò che rimane di Pasolini non è sintetizzabile in un insegnamento univoco o in una formula trasmissibile, ma è rappresentata dalla complessità contraddittoria di una testimonianza che ci invita ad essere sempre incompatibili, sempre contrari. E Pasolini incarna e rappresenta questa inconciliabilità dell’intellettuale “di nessuna chiesa” che vuole attraversare tutte le contrapposizioni cui sono gravide la vita e la società, rifiutando le etichette e le appartenenze. Tra solitudine e mondanità, tra perversione e santità, tra marxismo e cattolicesimo, tra ribellione e conservazione, Pasolini è “eternamente contrario”, inclassificabile negli schemi binari in cui, oggi più che mai, tendiamo a ordinare il mondo.

«I maestri si mangiano in salsa piccante» consigliava il Corvo a Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini. E se i maestri non vanno venerati, ma letti, studiati, interpretati, digeriti, contraddetti e (quando necessario) abbandonati, allora anche Pasolini va mangiato “in salsa piccante” per parafrasare un saggio di Marco Belpoliti.

Rimanere fedeli al maestro-Pasolini vuol dire affrancarlo dai sacerdoti del “pasolinismo” che lo hanno trasformato in un mito venerabile e intoccabile, in un santino plastificato, in un feticcio pop molto simile alla faccia di Che Guevara sulle magliette. Bisogna tornare alla molteplicità ambigua della sua opera, alla forza tragica e disturbante, come nel suo corpo nudo, indifeso e potente, come nelle foto scattate da Dino Pedriali nella torre della Tuscia dove si era esiliato a scrivere Petrolio. Se vogliamo rispettare il suo comandamento – “essere eternamente contrari” – dobbiamo diffidare dagli epigoni che vogliono imitarne la posa parodiando l’atteggiamento dell’intellettuale apocalittico che parla male della televisione in televisione e che tutti i giorni posta la propria indignazione contro i social sul suo profilo social. Quella retorica benpensante, trita e ritrita, è buona solo per conquistare un po’ di temporaneo consenso. Ma il successo, come spiega Pasolini in una memorabile intervista televisiva a Enzo Biagi, «è l’altra faccia della persecuzione». E gli intellettuali pasoliniani hanno scambiato l’engagement alla francese degli intellettuali del ‘900 per l’engagement all’inglese dell’attivismo social, dove il coinvolgimento del proprio pubblico va di pari passo con il sostegno alle buone cause.

L’antidoto per vaccinarci dal pasolinismo à la page ce lo fornisce, per fortuna, Pasolini stesso. Basta rileggere gli Scritti corsari per avere le armi giuste per difendersi dal virus del conformismo degli anticonformisti, dal pericolo del fascismo degli antifascisti, dall’ipocrisia di chi trasforma la critica radicale in una moda vuota e superficiale. Pasolini non è l’intellettuale organico che “suona il piffero per la rivoluzione”, e tanto meno un semplice giornalista d’inchiesta che si batte per raccontare le verità taciute dai “poteri forti”. Chi schiaccia la morte di Pasolini su quel “Io so” pubblicato in prima pagina dal Corriere della Sera – alimentando l’idea di un martirio causato dalle trame occulte di un complotto politico– lo fa per rendere più accettabile una morte inaccettabile, legata alla pratica di un’omosessualità mai digerita dalla cultura italiana (e dallo stesso Partito Comunista che nel 1946 lo espelle per “indegnità morale e politica”).

La definizione più autentica dell’enigma-Pasolini l’ha data Alberto Moravia che durante il suo funerale dice: «Oggi è morto un poeta». Pasolini è un poeta perché solo i poeti possono plasmare la realtà. Solo i poeti sono capaci di fornirci altre lenti con cui guardare il reale, un altro sguardo che trasforma le cose illuminandole in modo nuovo. Solo i poeti possono trasformare la vita stessa in un’opera. “Poesia vissuta” come la chiama in una lettera a Sandro Penna del 1970 (raccolta nella nuova edizione pubblicata da Garzanti a cura di Antonella Giordano e Nico Naldini), poesia come questione di vita o di morte, nulla a che fare con la retorica del “si stava meglio quando si stava peggio” della vulgata pasoliniana. Solo i veri poeti non ricercano la provocazione esteriore, l’oscenità fine a se stessa, ma il vero “scandalo” che trasforma il mondo e la vita. In un dibattito con il giornalista Antonio Ghirelli, Pasolini lo esplicita chiaramente: «Non cerco la provocazione formale, ma lo scandalo in senso evangelico».

Il termine skandalon è ripetuto almeno 15 volte nel Vangelo e, in greco, vuol dire “pietra di inciampo”. Lo scandalo ci fa inciampare, segna un’interruzione del nostro percorso lineare, è un ostacolo che ci fa sbandare e cadere a terra. E infatti il Cristo raccontato da Pasolini nel suo Vangelo secondo Matteo è una figura radicalmente scandalosa: estrema, ineluttabile, urticante, non accetta compromessi e non scende a patti con nessuno, mette disagio sia i farisei, sia i suoi discepoli. Un Gesù che non ha nulla a che vedere con quello consolatorio e pacificante dei fondi oro delle chiese e delle prediche, ma che ci consente di entrare in rapporto con il mysterium tremendum et fascinans del sacro.

Pasolini stesso vuole incarnare “la pietra dello scandalo” e non solo perché la sua opera scandalizza i ben pensanti (dai Ragazzi di vita accusato di oscenità a La Ricotta accusata di vilipendio alla religione di Stato, Pasolini ha subito trentatré processi e più di cento denunce).

Il vero scandalo di Pasolini è quello interno al suo corpo-opera: lo «scandalo del contraddirmi ogni volta» come ammette ne Le ceneri di Gramsci. Lo scandalo di una natura eretica ed anarchica che rifiuta ogni quieta appartenenza e che segue il proprio desiderio fin nei sentieri più oscuri, un’alterità assoluta che i guardiani del manierismo pasoliniano in tutti questi anni hanno tentato di addomesticare e di normalizzare. Oggi per salvare Pasolini, bisogna abbandonarlo. Ce lo consiglierebbe lui per primo. Lucrezia Ercoli

·        Pietrangelo Buttafuoco.

Maurizio Caverzan per “la Verità” il 24 settembre 2022.  

Pietrangelo Buttafuoco, ha voglia di fare la pagella della campagna elettorale?

«Volentieri». 

Cominciamo definendola.

«Secondo me è stata una campagna da fiato sospeso. Perché da un lato c'è stata una forte tensione perché sotto sotto può cambiare tutto, al punto da smentire Il Gattopardo. Dall'altro c'è stata la paura che potesse accadere qualcosa». 

Qualcosa di pericoloso?

«La nostra è pur sempre una storia di misteri irrisolti. Da Enrico Mattei ad Aldo Moro fino al libro nero degli anni Settanta. È stato un tempo sospeso e ora non vediamo l'ora che arrivi domani sera».

Certi poteri consolidati non si rassegnano alla possibilità di un cambiamento?

«Il vero bipolarismo in Italia è tra lo status quo e la maggioranza silenziosa che non ha mai avuto rappresentanza politica. È il famoso 65% degli italiani, individuato a suo tempo da Pinuccio Tatarella, che non è di sinistra, ma non ha mai trovato espressione compiuta». 

E che stavolta più che in passato ingrasserà il partito degli astensionisti?

«La campagna elettorale è stata costruita sulla paura: se votate in un certo modo finirà tutto male. Lo diciamo noi migliori, ma lo dicono anche l'Europa e il mondo perché quelli lì sono brutti, sporchi e cattivi».

È stata la narrazione di fondo.

«Nascondendo l'ingombrante dettaglio che se ci troviamo in questa situazione è perché al timone ci sono stati loro». 

Qual è l'episodio o lo slogan che le è rimasto più impresso?

«Makkox, il vignettista di Propaganda live, ha detto che "l'ignoranza è il concime della destra". È una frase dal sen fuggita che svela il vero sentimento degli ottimati di fronte agli italiani alle vongole».

Il noto complesso di superiorità?

«Ora più marcato perché lo zoccolo duro della Ztl e dei garantiti ha costruito una muraglia per proteggersi dai deplorevoli. In Italia arriviamo in ritardo di qualche anno rispetto alla famosa invettiva di Hillary Clinton». 

Chi è stato il più efficace?

«Senza dubbio Giuseppe Conte perché dal grande svantaggio da cui partiva è riuscito a toccare tre corde sensibili: la povertà, la ghiotta occasione e la pace. Con il reddito di cittadinanza ha evidenziato il dato oggettivo che la povertà esiste. La ghiotta occasione è quella dei bonus, con i quali i 5 stelle sono identificati. Infine, la contraddizione della guerra: è difficile spiegare agli italiani che si danno 700 milioni agli Ucraini e solo 5 ai Marchigiani».

Si conferma che il M5s è efficace sul piano dei principi, ma rimane poco affidabile quando c'è da governare?

«Però stavolta hanno il vantaggio che il reddito di cittadinanza l'hanno dato e i bonus anche. La guerra è arrivata dopo e si propongono come elemento di disturbo. Il ritorno dei 5 stelle sorprende perché sono riusciti anche a neutralizzare la scissione pilotata di Luigi Di Maio». 

Chi il meno brillante?

«Proprio il povero Di Maio. L'unica nota squillante è stato ritrovarsi in volo tra le braccia dei pizzaioli di Napoli come Patrick Swayze in Dirty dancing. A pensarci bene però la campagna più efficace è un'altra».

Quale?

«Quella di Fratelli d'Italia affidata a Enrico Letta». 

Ha fatto autogol?

«Ha fatto una campagna per far vincere FdI». 

Di proposito, per non confrontarsi con il momento drammatico?

«No. È una beffa del destino». 

Cioè?

«Nelle tecniche di combattimento orientale come il karate non è la tua forza che ti fa vincere, ma la potenza dell'avversario sfruttata a tuo vantaggio». 

È la mossa vincente di Giorgia Meloni?

«Sì. Letta ha offerto l'immagine della sinistra più insopportabile agli occhi degli italiani. Ha presente la parodia che fa Maurizio Crozza della Cirinnà?». 

È l'eterogenesi dei fini?

«Siamo sul filo del paradosso. Noi pensiamo che il mito del cane della Cirinnà sia una gag, invece mostra l'abitudine a garantire i privilegiati. Nel Pd i diritti coincidono con i privilegi e si dimenticano le garanzie sociali che derivano dalle emergenze incombenti. Oggi, se sei senza casa, ti rivolgi ai leghisti, a Fdi o ai 5 stelle. Se invece hai bisogno della colonnina per ricaricare il monopattino vai dalla Cirinnà». 

Tornando alla campagna di Letta?

«Gli do 10 come spin doctor di Fdi». 

E come segretario del Pd?

«Respinto». 

Infatti si parla già di successione indicando Elly Schlein.

«Devono sincerarsi che non possieda un canuzzo dotato di cuccia e relativo contante».

Letta ha polarizzato lo scontro, o noi o loro, con i manifesti rossoneri.

«È un lapsus speculare a quello di Makkox. Anche i preti che frequentano non sono mai vicini al prossimo. Il nuovo riferimento è il cardinal Matteo Zuppi che scrive una lettera alla Costituzione. Ma prenditi il Vangelo». 

Letta ha coinvolto Berlino e Bruxelles.

«Per fargli dire che se arrivano le destre non avremo più la tutela dell'Unione europea, che è il vero reddito di cittadinanza». 

Carlo Calenda e Matteo Renzi?

«Mi ricordano l'esperimento dell'Italia dei carini, della principessa Alessandra Borghese e Luca Cordero di Montezemolo». 

Sfonderanno?

«Non credo. Tutti i benestanti che conosco votano Calenda. Fa fine e non impegna. Voti i soviet, ma lo mascheri con una patina di moda. Alle ministre di Forza Italia non è parso vero di liberarsi della cattiva immagine per presentarsi in società. In tv ho visto Massimo Mallegni, un senatore di Forza Italia, più ostile verso il centrodestra dell'esponente del Pd.

Col suo entusiasmo ha svelato il disegno: farsi eleggere qui per poi andare di là. Calenda e Renzi sono i Bel Ami, offrono la possibilità a chi è stato sotto l'ombrello berlusconiano di darsi una rinfrescata nel mondo nuovo. Ma questo vale solo per la nomenklatura, perché l'elettorato col cavolo che li segue».

Draghi li ha mollati ma sperano sempre nello stallo e nel ricorso al commissario?

«Sembra quando da bambini si litigava e si diceva: adesso torno con mio fratello più grande. Draghi non ha mai detto: "Non in mio nome". In Italia ci si lascia sempre la porta aperta. Dimentichiamo che è italiano e gesuita. E la disciplina seguita dai gesuiti è solo una: la dissimulazione». 

Il no pronunciato nell'ultima conferenza stampa non l'ha convinto?

«Un no convincente sarebbe stato: "Prego gli autori della campagna elettorale in mio nome di astenersi"». 

Che voto dà a Silvio Berlusconi su TikTok?

«Dieci a prescindere. Non solo su TikTok, anche nella guerra alle mosche. Mentre merita un 5, anzi, un 2 nelle interviste scritte. Ma non si offenderà perché è noto che non è lui a rispondere».

È l'ago europeista e liberale del centrodestra?

«È molto più di questo, è il grande romanzo italiano della letteratura universale». 

Però un milione di alberi, la flat tax, la pensione a 1.000 euro per tutti 

«Sono i suoi giochi pirotecnici, sempre efficaci, perché scavano nell'immaginario degli italiani. Meno tasse per tutti diventa subito meno Totti per Ilary». 

O più giga per tutti. È un po' grottesco?

«Berlusconi resta nell'immaginario al pari di Garibaldi, di Totò, di Padre Pio. I ragazzini lo conoscono e riconoscono mentre gli altri del pantheon della politica spariranno. Difficilmente ricorderemo Giuseppe Saragat, Sandro Pertini o Oscar Luigi Scalfaro. In lui si compendia la tradizione italiana, da Carlo Goldoni a Gioachino Rossini. È il nostro Balzac».

Questo è il suo prossimo romanzo?

«Magari, immagino un musical». 

È parso anche a lei che Matteo Salvini abbia rincorso?

«È un movimentista, è fuori luogo immaginarlo in grisaglia, non sa e non vuole annodarsi la cravatta». 

Il dietrofront su Putin?

«Di necessità si fa virtù. Ciò che noi italianucci potremmo dire oggi riguardo alla storia è poca cosa». 

Meloni ha catalizzato la campagna come l'orso del tiro al bersaglio? Prima il pericolo fascista, poi la colpa di essere una donna non femminista 

«È stata come Dioniso preda delle Menadi. Solo che la sanguinaria eucarestia cui si sottopone Dioniso si svela sempre nell'esatto contrario: le Menadi se ne vanno e Dioniso resta». 

Voto alle star dello showbiz, da Elodie a Paolo Virzì 

«10. Sempre per conto di Fratelli d'Italia».

Voto a Laura Pausini che non ha cantato Bella ciao.

«La novella Arturo Toscanini che si rifiutò di eseguire Giovinezza». 

Il nuovo bersaglio è Pino Insegno?

«Purtroppo i democratici non sanno evitare d'insultare chi la pensa in modo diverso da loro». 

Voto ai grandi giornali?

«Sempre 10 per conto di FdI. Certi titoli della Stampa La campagna di Repubblica contro Giorgia Meloni, altro non è che un monumento a cavallo. Ma nemmeno il Corriere della Sera scherza. I moderati sono i cosiddetti terzisti, speculari al Terzo polo, come gli indipendenti di sinistra lo erano ai tempi del Pci. È il famoso amico del giaguaro».

Voto al filone editoriale elettorale su Mussolini?

«Nel centenario della marcia gli antifascistissimi Aldo Cazzullo, Antonio Scurati e Sergio Rizzo scalano le classifiche dei libri grazie al Duce e pare di vederli in scena 100 anni fa. Arrivano a Roma per dire al re: Maestà, vi portiamo l'Italia delle classifiche dei libri. È solo marketing». 

Vincerà il partito degli astenuti?

«Ne sono terrorizzato. È il vero bastone armato dello status quo». 

Chi non vota favorisce il mantenimento della situazione attuale?

«L'elettore di centrodestra è il più distratto. Se deve andare a un battesimo ci va, non fa tutte e due le cose perché confida che ci pensino gli altri». 

Voto a Michele Santoro che ha denunciato la non rappresentanza della maggioranza contraria all'invio delle armi in Ucraina?

«Nessuno ha ampia rappresentanza politica. Io, per esempio, mi ritrovo in quella maggioranza che non ha mai avuto voce, non ha giornali, non ha tribuna. Quella degli esuli in patria, per dirla con Marco Tarchi. Quand'è così, si va dove si vede il cambiamento. Altrimenti togliamo le elezioni e continuiamo con il meccanismo in voga dal 2008. Quello che s' identifica nei tecnici alla Carlo Cottarelli, presunti super partes, che invece sono sempre della famiglia dem. Si cambia nome, ma la mobilia resta la stessa. La fureria d'Italia si appoggia ai soliti caporali. 

Quando li vedo mi chiedo se starebbero bene in orbace e camicia nera, con il fazzoletto garibaldino, con la grisaglia democristiana e mi rispondo che sì, starebbero bene con tutto perché sono il partito unico del potere».  

Voto a Draghi, premiato in America da Henry Kissinger. 

«Senza che risulti offesa, in quella scena ho visto più Alberto Sordi, eterno Americano a Roma, che un nuovo Cristoforo Colombo».

·         Pietro Scarpa.

STEFANO LORENZETTO per il Corriere della Sera il 4 dicembre 2021.

In ossequio all'antico adagio «Venessiani gran signori», Pietro Scarpa possiede due musei personali. Uno, aperto al pubblico, è a fianco delle Gallerie dell'Accademia, inconfondibile per la porta d'ingresso a forma di oblò disegnata da Carlo Scarpa: «Nessuna parentela». L'altro è la sua casa di Cannaregio, riconoscibile dalla monumentale facciata con le altinelle, i mattoni di piccole dimensioni che a Venezia furono usati fino al Trecento. 

Nel primo giganteggia L'origine di Amore del Tintoretto, tela di 2,5 metri per 1,80 esposta in passato dal Museo Pukin di Mosca, che Scarpa recuperò a Parigi trent' anni fa: «I pirati informatici mi rubano l'immagine sul Web e vendono a 1.500 euro il poster a grandezza naturale», sbuffa il decano degli antiquari.

Nel secondo pochi intimi possono ammirare il Ritratto di Zuan Paolo da Ponte di Tiziano, appena tornato da una mostra a Palazzo Tadea di Spilimbergo, due Tiepolo, due Cima da Conegliano, un Veronese, un Carpaccio, una Madonna con Bambino e angeli di Donatello e una di Brunelleschi, più infiniti altri capolavori, fra cui l'unico ritratto esistente al mondo dell'editore tipografo Aldo Manuzio («quasi certamente dipinto da Carpaccio»), e uno strepitoso tavolo di Gio Ponti, con simboli zodiacali su fondo dorato e specchio centrale che riflette una cornice in ceramica di Luca della Robbia, appesa al muro della sala da pranzo. Presto saranno 70 anni che Scarpa fa questo mestiere: inseguire, trovare, studiare, datare, autenticare. 

«Una volta fui chiamato a valutare un Tiziano che Aristotele Onassis aveva regalato a Ranieri di Monaco e Grace Kelly per il loro matrimonio: era falso».

Presentandolo all'Università di Harvard, Andrew Robinson, curatore della National gallery di Washington, ne pronunciò solo nome e cognome, giacché tutti gli studiosi e i collezionisti del mondo o erano già stati nella sua galleria vicino al ponte dell'Accademia o ci sarebbero capitati. Nessuno riesce a oltrepassare quelle vetrine disposte su tre diversi lati senza fermarsi a guardare. 

«See you later un'ostrega!», è il borbottio che insegue i turisti perditempo se osano entrare solo per curiosare. Sottovoce, ma non le manda a dire. «Sa, per noi veneziani oltre il ponte della Libertà è tutta campagna. Un giorno mia moglie vede un ragazzo con il naso incollato alle vetrine: "Varda che bel fio!". Il giovanotto suona il campanello. Non volevo aprire. Tatiana lo fa entrare: era Leonardo DiCaprio con la mamma».

E che cos' ha comprato?

«Niente. Vuol mettere Cesare Merzagora, presidente del Senato, appassionato di vetri romani? Anche Elton John è un cliente erudito. Andava a istruirsi nella sacrestia di San Zaccaria. Gli ho venduto due pannelli di nudi del Cinquecento». 

Fra i suoi clienti, Amintore Fanfani.

«Valente pittore. Venne nel mio stand alla mostra di Palazzo Strozzi. Gli chiesi: che cosa pensano di noi negli altri Paesi? Rispose: "Quando i miei colleghi mi fanno parlare del popolo italiano, dico sempre che è meglio dei suoi governanti"». 

Ha conosciuto Peggy Guggenheim?

«No, era troppo fissata con l'arte moderna. La incontrava mia moglie dal parrucchiere Gino, in Frezzaria. Pretendeva la messa in piega anche per il suo cane». 

È sempre stato qui all'Accademia?

«Dal 1997. La prima bottega la aprii a 17 anni in calle Larga XXII Marzo. Poi traslocai in campo San Moisè, un buco di 9 metri quadrati. I futuri papi Roncalli e Luciani, allora patriarchi, veste nera senza bottoni rossi, venivano lì a ciacolar con i gondolieri. Ezra Pound riposava assorto su una sedia fuori dal mio negozio».

Dov' è nato?

«Sestiere di San Marco, sotto il campanile pendente di San Maurizio. A 14 anni dovetti andare a bottega dallo zio Antonio. Vendeva quadri modesti. A parte un Cristo portacroce attribuito a Tiziano». 

Un po' presto per lavorare.

«Sulla carta d'identità di mio padre c'era scritto "possidente". La sua famiglia era proprietaria di botteghe a San Marco e sul ponte di Rialto e di case a Pellestrina. Purtroppo morì di cancro a 49 anni».

La sua cultura come se l'è fatta?

«Musei e libri, libri e musei. Ho passato due terzi della mia vita nelle Gallerie dell'Accademia, a studiare La Tempesta di Giorgione, Giovanni e Gentile Bellini, Lorenzo Lotto, Vittorio Carpaccio. Quando non ero lì, stavo al Museo Correr o alla Fondazione Querini Stampalia». 

Qual è il pezzo forte qua dentro?

«Si giri: Giovanni Boltraffio, allievo di Leonardo da Vinci. Lo storico dell'arte George Knox ha ipotizzato che sia la vestale romana Tuccia. Nol gà capìo gnente! È La Purezza . Infatti regge un catino e si specchia nell'acqua limpida».

Dove lo ha scovato?

«A Parigi, 30 anni fa. Lo misero all'asta, ignorando che cosa avevano fra le mani. Oggi vale 800.000 euro. Nella capitale francese rintracciai anche L'origine di Amore , commissionata nel 1562 da Federico Contarini, procuratore di San Marco, per adornare l'antisala della Libreria Marciana, pagata al Tintoretto 5 ducati d'oro. Fu trafugata alla caduta della Serenissima. L'avevano gli eredi del Duca di Treviso, maresciallo di Napoleone». 

Eh già, i bonapartisti fregarono tutto.

«In un bric-à-brac vicino alla casa d'aste Hôtel Drouot rinvenni la Madonna allattante con Bambino di Cima da Conegliano. La tengo appesa ai piedi del letto. Uscì dalla mia camera solo per una mostra al Bunkamura museum di Tokyo». 

Possibile che i tesori li trovi tutti lei?

«Sì, perché li ho catalogati qui dentro». (Si tocca la fronte con l'indice destro) . 

«E ci vedo ancora bene. Vado in Germania. Un amico mi mostra dei disegni. Ne intuisco il valore. Li compro e li studio per mesi: erano un'importantissima collezione seicentesca del doge Zaccaria Sagredo. A casa ho anche due enormi ritratti dei dogi Cornaro, uno di Sebastiano Ricci, l'altro di Pietro Liberi. In origine si trovavano nel Palazzo Corner, dove oggi ha sede la Guardia di finanza, che me li ha chiesti in comodato d'uso per appenderli negli uffici del comando. Ma la mia Tatiana è stata irremovibile: "Dighe che i taca al muro le foto"». 

Serve un portafoglio a fisarmonica, per accaparrarsi simili capolavori.

«Serve coraggio. Le opere che vede sono tutte nostre, mai tenuto roba in conto vendita. Il 12 settembre 2001 i miei figli Sebastiano e Jacopo le chiusero nel caveau: il giorno prima c'era stato l'attacco alle Torri gemelle, si pensava che l'Italia entrasse in guerra. Il postino ci recapitò un catalogo. Jacopo notò un quadro che veniva battuto quella sera stessa a Vienna. Partì: aeroporto deserto, casa d'aste vuota. Si aggiudicò la tela per 2.500 euro. Nessuno capiva chi fosse l'autore. Ora lo sappiamo: Lorenzo Lotto». 

Chi lo dice?

«Il mondo. Ce l'ha chiesto in prestito persino il Museo pontificio della Santa Casa di Loreto, dove sono custodite le ultime 9 tele che Lotto dipinse dopo essere diventato oblato del santuario. Raffigura il suo protettore Agostino Filago». 

Ma come fa a essere così sicuro nell'attribuzione delle opere che individua?

«Con i pareri degli esperti, Vittorio Sgarbi escluso, mi pulisco le scarpe. Un tempo le secondogenite delle famiglie patrizie venivano mandate nel monastero di San Zaccaria. Oggi, invece di farsi suore, studiano storia dell'arte. Ho a che fare ogni giorno con stranieri che riscrivono le vite dei nostri pittori e scultori senza parlare l'italiano, senza conoscere una sola parola di latino. Non sanno leggere un documento antico. Sono fermi all'ipse dixit. Da piangere, guardi. Ci sono universitarie che arrivano qui con la tesi ed escono dopo averla rifatta».

Ci sarà pure qualche eccezione.

«Certo. Doretta Davanzo Poli, docente di storia dell'arte tessile, capace di datare i quadri in base alla coerenza degli abiti, ma è morta, ahimè. E Rosa Barovier Mentasti, della famiglia muranese di soffiatori del vetro, l'archeologa che da una trasparenza identifica un Tintoretto». 

Lei è considerato un mecenate.

«Mi piace regalare. Ho fatto restaurare da Corinna Mattiello il grande crocifisso della basilica di San Marco. Che emozione tenere fra le mani la testa del Cristo, in argento annerito dal tempo. Vederla brillare di nuovo nella notte di Pasqua è stata una gioia indescrivibile».

Ha regalato un dipinto del Perugino.

«Anni di studio per accertare che era la Santa Scolastica rubata da un soldato nella chiesa di San Pietro Vincioli a Perugia durante la Prima guerra mondiale. Mi è sembrato doveroso restituirla. Ho preso da mio padre. Aiutava don Olinto Marella, nativo di Pellestrina, fondatore a Bologna della Città dei ragazzi. Il futuro beato veniva spesso a casa nostra». 

Ma che cos' è per lei l'arte?

«Se parla a chiunque la guardi, quella è arte. Ho avuto una discussione con il mio amico Pierre Rosenberg, già direttore del Louvre. Lui sosteneva che il quadro più bello del mondo è il San Francesco nel deserto di Giovanni Bellini della Frick collection di New York. Eh no, caro mio, è l'Assunta di Tiziano nella chiesa dei Frari, perché i 12 apostoli ai piedi della Madonna sono pescatori veri, di Burano e Chioggia. Ci ha pensato un attimo, poi ha concluso: "Hai ragione"». 

Sua moglie Tatiana l'ha aiutata?

«Molto. E più ancora ha aiutato i vecchi dell'ospizio San Lorenzo e i pazienti oncologici. Si faccia raccontare da lei la storia di Fabrizia, giovane e bellissima malata terminale, che sul letto di morte volle sposare il suo Davide, pilota di aerei di linea. Mi no sarìa bon de contarla».

Questa città si può ancora salvare?

«René Maheu, direttore generale dell'Unesco, mi disse: "Venezia sta in piedi perché è tenuta su dai fili della luce"».

Quindi è destinata a morire?

«No, finché ci saranno i veneziani. Ma ormai ne restano pochi. Semo tuti veci».

·        Renzo Piano.

Renzo Piano dona il suo archivio al Politecnico di Milano. GIAN ANTONIO STELLA su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.

L’architetto in cattedra tra gli studenti: «Non ho mai "insegnato" davvero. Ho però un sacco di storie da raccontare, storie vere. Che potrebbero essere interessanti»

«Ma perché?». Quasi otto decenni dopo i suoi primi cantieri dove in famiglia lo mettevano seduto su un mucchio di sabbia («Posto pericoloso un cantiere per un bambino, ma vedere ghiaia, pietre e mattoni diventare un pilastro aveva qualcosa di miracoloso»), Renzo Piano ha conficcata ancora in testa la domanda di suo padre Carlo il giorno in cui gli disse: «Voglio fare l’architetto». «"Ma perché?", mi rispose. Non capiva. Lui aveva una piccola impresa e faceva il piccolo costruttore, suo papà aveva fatto il piccolo costruttore, i miei zii facevano i piccoli costruttori, mio fratello Ermanno studiava già ingegneria per fare il piccolo costruttore... E io, figurarsi, volevo fare l’architetto».

Cominciò così, racconta: «A quell’età devi decidere: o dici sì o te ne vai per la tua strada. A Genova architettura non c’era, dovevo scegliere fra Firenze e Milano. Scelsi Firenze perché era più lontana». Innamorato di Brunelleschi? «Qui ti voglio: dopo due anni, fatto il biennio "propedeutico" (così si chiamava) un giorno mi alzo, mi guardo allo specchio e dico: "Cosa ci faccio qui a Firenze? Questa città è troppo bella. Così bella da esser paralizzante. Che ci faccio qui?". Decisi di passare a Milano. Confusamente pensavo già che l’architetto non progettasse solo edifici, ma si ponesse anche questioni sulla costruzione, i materiali, le tecniche...». Insomma, problemi pratici. Concreti. Che richiedessero studi, scienza e ricerca. Fu così che scelse Milano: «Forse era un po’ meno bella, ma mi interessava di più che fosse viva. Aperta. In francese c’è una parola che tiene dentro tutto: il bâtisseur è quello che costruisce, il master builder inglese...». Il nostro "costruttore", magari associato a palazzinaro, non rende l’idea... «Io volevo fare il bâtisseur».

Arriva a Milano, si iscrive al Politecnico («Mi piaceva che promettesse più "poli", oggi diremmo multitasking»), si tuffa nei movimenti studenteschi e nelle occupazioni delle università («Una botta di fortuna. Si cresceva respirando un’aria di libertà creativa». Libertà anche sessuale? «Imbranato completo»), comincia a rompere gli schemi più bolsi, va a bottega dall’architetto Franco Albini, che «lavorava molto sulla materia e aveva una sua poetica: la ricerca della leggerezza. Un maestro che faceva sempre delle scale che non toccavano terra... Che sfioravano il terreno...».

A farla corta, impara a studiare. Non era un secchione? «Macché, sono stato un cattivo scolaro e un pessimo liceale. Mia madre, la Rosetta, era preoccupata. Però dirò una cosa: se non cresci come il primo della classe, ma come uno degli ultimi, ti rendi conto che gli altri sono migliori di te e quindi che dagli altri c’è sempre da apprendere. È una lezione di modestia e di vita. Devo tutto all’università: è lì che sono cresciuto davvero. Che ho imparato tutto». Anche a rispondere alla domanda paterna? «Anche: era bravissimo, siamo stati legatissimi ma diversi. Faceva cose belle, ma pesanti. Io dovevo, per forza, farle leggere».

Per questo, spiega, ha deciso di donare oggi al Politecnico, per il quale aveva già progettato con Ottavio di Blasi il nuovo Campus inaugurato a metà 2021, il suo stesso archivio. Dall’aeroporto di Osaka alla torre di Sydney, dalla Columbia University a New York al tribunale di Toronto fino al viadotto San Giorgio a Genova costruito dopo il crollo del «Morandi», la Fondazione Piano possiede 1.560 metri lineari di dossier cartacei, 131 mila disegni e 20.900 schizzi censiti, 150 metri lineari di scaffali di foto e così via… Difficile spostare tutto. Il patrimonio destinato all’università milanese nei 350 metri quadrati riservati alla Fondazione però è già così ricco da diventare per gli aspiranti architetti una miniera di pepite d’oro da studiare. Proprio insieme con lo stesso Piano.

Come spiegherà oggi in una lectio magistralis nell’ateneo, infatti, dopo esser stato riverito per decenni come Maestro, il Geometra (così lo chiamano gli amici, ma non è per dileggio: lui ne va fiero) comincerà a insegnare davvero. A ottantacinque anni portati gagliardamente ha accettato di sedersi per un quinquennio in cattedra (che sarà mai!) per riversare agli studenti quanto ha imparato lui. «So quanto sia importante la cultura pedagogica italiana che accende la creatività nascosta nei giovani, da don Milani a Mario Lodi, da Loris Malaguzzi a Franco Lorenzoni: non so se ne sarò all’altezza. Tranne una breve esperienza all’Architectural Association School di Londra, ho tirato su nel mio studio e nel mio ufficio al Senato un sacco di giovani architetti, ma non ho mai "insegnato" davvero. Ho però un sacco di storie da raccontare, storie vere. Che potrebbero essere interessanti».

Dal suo incantato reportage ai Templi gemelli di Isé in Giappone (dove ogni vent’anni uno dei due viene abbattuto e pazientemente ricostruito per dare il cambio vent’anni dopo all’altro da abbattere e ricostruire in un secolare ricambio di giovani che per un terzo della vita studiano e imparano, per un terzo costruiscono il tempio nuovo, per un terzo insegnano ai nuovi allievi) fino all’importanza di cogliere nella natura l’ispirazione giusta per il progetto giusto, come sta facendo per un rifugio sul Monte Bianco ispirandosi alla scoperta che tra le rocce alpine la pirite si è aggregata nei millenni assumendo la forma di perfetti cubi argentei.

Punto di partenza della lectio, come dicevamo, il tormentone paterno: «Ma perché?». Risponderà: «Perché costruire è il mestiere più bello del mondo. Purché si parta da tre dimensioni: quella tecnica che viene dallo studio del contesto, del paesaggio, dei materiali, delle innovazioni, quella etica e quella poetica. Occorre camminare, guardare, viaggiare, scoprire, per poter andar dritto sull’obiettivo: cambiare il mondo. Dove vai a vent’anni se non hai in testa di cambiare il mondo? E così, via via, capisci che l’impegno più importante deve essere sui luoghi pubblici. In tutta la mia vita ho fatto luoghi pubblici. Biblioteche, università, scuole, musei, ospedali come quello che stiamo costruendo a Parigi...».

Ma ascolteranno, i ragazzi, l’anziano patriarca che a trent’anni, barba e capelli lunghi, maglione girocollo, strapazzò ogni concorrenza mondiale inventandosi con l’inglese Richard Rogers («eravamo due ragazzacci») il Beaubourg? «Partirò dai miei errori. Vorrei confessare reticenze, omissioni... Se riesco a essere sincero fino in fondo, perché i ventenni se ne accorgono subito quando li imbrogli, possono succedere cose miracolose. La prima sarebbe distruggere la distanza tra me e i giovani. Abbattere il muro di soggezione, diciamo pure di riverenza, che spesso esiste verso uno come me. E loro potranno sentirsi liberi di intervenire, far domande, criticare». Non rischia? «Può darsi. Ma è essenziale che capiscano, e qui devo dare io l’esempio, quanto sia importante accettare le critiche. E sa quali sono le critiche che funzionano? Quelle irritanti. Sennò non contano un fico secco».

Seconda «lezione»? «Chi fa questo mestiere deve essere consapevole che è un mestiere pericoloso. Se sbagli un libro, una tesi di diritto o un Do di petto è doloroso. Ma se rischi la vita delle persone costruendo male una casa o un ponte non te lo perdonerai mai...». Terza? «Il ping pong. È raro se non rarissimo che un genio, a una certa ora di un certo giorno, abbia un’idea folgorante. L’ho detto più volte: non vengono così, le idee. In genere si butta lì una parola, una battuta, una provocazione e poi questa passa e ripassa tra tutti come una pallina di ping pong, fino a assumere la forma di un’idea che va via via "aggiustata"». Vuol dire che «l’eureka è collettiva?». «Sì. È raro che esca dal nostro sacco. Ci si arriva insieme. Diceva Borges che ogni attività creativa "è sempre sospesa tra la memoria e l’oblio"».

Cosa c’è, di fondo, in questa scelta di riversare tanti anni di esperienze a favore degli studenti universitari? «La verità vera, se devo dirla, è che mi piace stare tra i giovani e curare queste cose, la Fondazione, il Politecnico, perché questo è l’unico modo che ho trovato per sopravvivere a me stesso. Perché tu fai tante cose nella vita, ne fai tante tante, ma quella giusta, proprio giusta, ancora non l’hai fatta, e poi trovi un momento che devi sopravvivere». È pesante, per il Renzino che giocava sulla sabbia del cantiere, tirarsi dietro un monumento come Renzo Piano? «No, non troppo perché lo vivo con leggerezza e per l’appunto sopravvivo così, regalandolo, dandolo agli altri. Non te lo devi tenere per te quel che sei. Se no non ci sopravvivi. Resti incatenato». Paura della morte? «Mah, no, no, no. Però pensi ai figli, a chi ti vuole bene, a tante cose... Certo sarebbe una bella seccatura». Troppi cantieri ancora aperti per il bâtisseur leggero...

·        Riccardo Muti. 

Federico Monga per “la Stampa” il 10 novembre 2022.

Maestro Riccardo Muti, in epoca di #Me Too, come sarebbe stato accolto il Don Giovanni di Mozart che lei dirigerà al Teatro Regio di Torino il prossimo 18 novembre?

«Il Don Giovanni ma anche Le Nozze di Figaro o il Così fan tutte, se si continua ad insistere spesso erroneamente sul politically correct, sarebbero stati censurati».

 Don Giovanni ingannava e usava le donne.

«Il trattare le donne come oggetti è un delitto da sempre. Ma bisogna saper leggere i libretti dell'opera. Non ci interessa il Don Giovanni seduttore, che poi non seduce nessuna perché dice "mi van mal tutte quante". Ci interessa il personaggio che vive nel disordine e crea il disordine».

Uno spirito libero?

«La libertà per Don Giovanni è libertinaggio. Come avviene oggi quando vediamo azioni che impediscono la libertà di tutti. Imbrattare i quadri o buttare giù statue in nome di un'ideologia scambiata per libertà è violenza». 

Cos' è la libertà?

«Quando Don Giovanni dice viva le donne, viva il buon vino, viva il mangiare, è la distruzione dell'essenza nobile dell'uomo libero. L'opera di Mozart va vista come presa di coscienza dei difetti della società e dell'umanità». 

Come commenta le polemiche su Anna Netrebko con il volto dipinto di nero per l'Aida all'Arena di Verona?

«Quando diressi Il ballo in maschera a Chicago non ho toccato il testo, come è avvenuto vergognosamente alla Scala, al Covent Garden, al Metropolitan, anche nella parte in cui il giudice bianco vuole condannare la maga Ulrica perché appartenente, uso parole testuali, "all'immondo sangue dei negri"». 

Parole oggi indicibili.

«Ho spiegato che Verdi mette in bocca questa frase per sottolineare l'ignominia di quel pensiero. La storia non va cambiata, non vanno imbiancati i sepolcri. Dobbiamo tramandare ai giovani esattamente la realtà, anche crudele, del passato per correggerla». 

Il capolavoro di Mozart è un dramma buffo. La politica di questi tempi a quali di queste due definizioni è più vicina?

«Viviamo una fase drammatica. Speriamo si rimanga nel dramma e non si cada nel tragico. La ricerca della bellezza e l'armonia della musica allora suonano come ideali lontani. Sembra un controsenso il cercare la bellezza e la perfezione quanto tu sai che hai davanti e intorno persone che soffrono. 

Ma noi dobbiamo aggrapparci alla bellezza delle arti. Io, l'11 settembre del 2001, ero a Torino e mi interrogai a lungo se era il caso di dirigere l'orchestra a poche ore da quella tragedia. Andammo avanti, il teatro era gremito. La cultura non era intrattenimento ma un cibo spirituale in un momento in cui mondo stava crollando. Ed è così anche adesso». 

Quale è lo stato di salute della cultura italiana?

«Ci sono uomini di grande cultura che si battono per la cultura. La scuola però è tremendamente in discesa. Non è formativa, non è al passo dei tempi. Quando leggo i libri dei miei nipoti in prima media non li capisco. Sono infarciti di ideologia politica a seconda dell'insegnante o della scuola». 

Cosa pensa del ministero dell'Istruzione ribattezzato della scuola e del merito?

«Ho avuto la fortuna di avere in Italia grandi insegnanti. Tutto quello che ho fatto lo devo al mio Paese e ai miei insegnanti». 

Lei però è un'eccellenza. Che cosa è il merito?

«Tutti dobbiamo partire dalla stessa linea, il contrario sarebbe un'ingiustizia. Poi chi è dotato dalla sua natura raggiunge traguardi più elevati. Questo è il merito. Ma il merito non può essere imposto per legge dall'alto». 

Il titolo completo dell'opera che inaugurerà la stagione del Regio è Don Giovanni e il convitato di pietra. Chi è il convitato di pietra della cultura italiana?

«La musica. Il problema è gravissimo: dobbiamo vergognarci. Abbiamo la più grande e lunga storia della musica del mondo. Monteverdi, Palestrina hanno influenzato tutto e noi calpestiamo questa tradizione unica». 

Però i giovani vanno ai rave e ascoltano techno.

«Un problema di educazione. In Corea o in Giappone le sale sono piene di giovani.

Hanno scoperto da decenni la bellezza della nostra musica. In Italia è ignorata dalle scuole o viene insegnata male. Tutti dovrebbero esserne educati fin dalla materna.

Vorrei sapere quanti tra senatori e deputati conoscono e si dedicano alla musica e alla lirica al di fuori delle inaugurazioni con lo smoking». 

Troppi stranieri dirigono musei e teatri in Italia?

«A parte i miei 20 anni alla Scala e i 12 a Firenze, la mia carriera si è svolta tutta all'estero. Non posso e non devo quindi criticare le nomine degli stranieri. A Capodimonte, ad esempio, Sylvain Bellenger ha fatto un lavoro straordinario. Ma non mi capacito che ci sia stata questa invasione nei teatri lirici».

 Non ci sono le condizioni perché lei torni in Italia?

«C'è ancora una forma di servilismo antico, insito nell'italianità, di piegare il ginocchio allo straniero. Ci sono teatri in città, culle della cultura mondiale, dove il sovrintendente ignora la storia plurisecolare del teatro, del tessuto sociale e del popolo». 

I partiti di destra sono stati meno attenti alla cultura. Con un governo di destra sarà ancora più bistrattata?

«Ci sono uomini di cultura di destra validi. La sinistra ha avuto e avrà intellettuali ma in questi anni non ha fatto molto per la cultura diffusa. Tutte le mie critiche sono figlie di un periodo di conduzione da parte della sinistra. Non conosco il nuovo ministro Sangiuliano. Starò a vedere. Spero che sappia ascoltare i veri uomini di cultura non per ricevere ordini ma per raccogliere consigli». 

Con la destra c'è il rischio di un ritorno al fascismo?

«Non bisogna confondere destra con fascismo. Tutti siamo antifascisti, tutti siamo contro le dittature. L'arte non può sorgere o svilupparsi sotto una dittatura anche se dalle dittature sono nati germogli meravigliosi come contrasto. Lasciamoli lavorare. Noto in questi giorni un'eccessiva violenza. Antitesi e tesi sono allo stesso modo importanti a patto che si arrivi alla sintesi. Se fanno a cazzotti, ne soffre il popolo». 

Troppi musei gratis come dice il nuovo ministro?

«I musei dovrebbero essere tutti gratis per ragazzi e studenti. Non si può negare la bellezza del Museo Egizio o degli Uffizi a chi non ha mezzi economici. Così come per la musica. La Cina sta aprendo decine di teatri e di conservatori. Non lo fa solo per amore della musica europea ma perché ha capito che se vuole entrare nelle maglie di altri Paesi deve conoscerne e praticarne la cultura». 

Lei si era battuto perché l'Inno di Mameli, che chiude le trasmissioni di RadioRai, fosse suonato da un'orchestra italiana e non dai Berliner. L'Italia deve essere più nazionalista con la cultura?

«Nazionalismo è una parola pericolosa se usata male. Dobbiamo puntare di più sulla nostra identità. Noi abbiamo bellezze, valori e genialità in tutti i settori. Per questo motivo dall'estero ci attaccano. Sono gelosi e invidiosi».

Cosa vuol dire essere un patriota?

«Amare il proprio paese e credere nelle sue grandi qualità. Difenderlo sempre a tutti i costi. Quando sto in Italia sono molto critico, ma quando sono fuori guai a chi dice una mezza parola contro». 

La differenza tra patriottismo e nazionalismo?

«Il patriottismo non ha nulla a che vedere con il nazionalismo e con il fascismo. Patria è una bella e importante parola perché deriva da pater. Bisogna vedere come la si usa. C'è stato un periodo che a parlare di patria e bandiera si veniva tacciati di fascismo. E nessuno suonava più l'Inno di Mameli. Poi con Ciampi l'inno ha ritrovato la sua giusta collocazione». 

L'invasione della Russia in Ucraina continua. Si può trovare la pace?

«Non lo so. Molti mesi fa mia moglie è andata al confine con l'Ucraina e abbiamo portato 64 artisti di Kiev in Italia che hanno poi cantato con me nel viaggio dell'amicizia a Lourdes e a Loreto. Il nostro cuore è per gli ucraini. Consideriamo inoltre che l'Ucraina è terra di grande cultura che nasce prima della Russia. Sono nazioni simili ma diverse. Tutto il mondo sta pagando il conto della guerra». 

Cosa pensa di chi si è rifiutato di suonare con i russi?

«Un tragico errore. A Salisburgo abbiamo suonato Cajkovskij e ho chiuso la stagione con Prokofiev a Chicago. Due giganti che ora sono proibiti a Kiev. Capisco lo stato d'animo ma cancellare la cultura è una forma di dittatura ideologica come avvenne con Mendelssohn, bandito durante il nazismo e il fascismo perché ebreo. Bisogna essere cauti nei giudizi quando si gode ancora della libertà e non essere severi con chi invece è già con le catene ai polsi».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” l’11 novembre 2022.

Lo scoop più silenzioso della mia vita risale al 2 aprile 2005 e riguarda Riccardo Muti, maestro d'orchestra che in questi giorni sta rilasciando interviste a giornali che stanno cercando dappertutto qualche posizione culturale antigovernativa. Se me ne ricordo ora c'è una ragione. 

Si torna appunto a 17 anni fa, quando Giuliano Ferrara mi diede il via libera per pubblicare sul Foglio un mega -ritratto di Muti (29mila battute, almeno tre pagine di questo giornale) destinato a cozzare clamorosamente contro l'apparato che proteggeva il Maestro un po' ovunque: su tutti la Sovrintendenza della Scala, il Corriere, il Giornale e soprattutto Mediaset attraverso Fedele Confalonieri, che per il maestro aveva una passione smodata. Scrissi una sorta di poema con informazioni mai pubblicate che avevo serbato per anni e che avevo recuperato tra amici orchestrali e poi da una talpa formidabile alla Sovrintendenza e anche traducendo libri e giornali stranieri.

Il giorno della pubblicazione era un sabato: Muti lesse l'articolo, telefonò a Confalonieri e gli comunicò le proprie dimissioni dal Teatro alla Scala, dov' era stato direttore di ogni cosa per quasi vent' anni: si sentiva tradito politicamente - dopo esserlo stato clamorosamente dai suoi stessi orchestrali - dopodiché Confalonieri, imbufalito, telefonò a Ferrara, che infine telefonò a me: «Hai fatto il botto». 

Mi disse pure, perfidamente, che al telefono aveva obiettato: «Ma dottor Confalonieri, che vuole? Facci è un vostro dipendente». Era vero: ero stato assunto a Mediaset nel 1999. 

Non furono giorni facili, perché il terremoto scosse mondi elitàri un po' porporali e insomma, non è che ne parlassero nei bar; poi era vero che il mio articolo era stato solo un micidiale colpo di grazia rispetto a un malcontento sorto soprattutto in seno all'orchestra: la reazione di Muti, tuttavia, diede l'idea di come un segnale mediatico di abbandono politico (che peraltro non era) poteva essere sovradimensionato in un mondo in cui il benestare del sovrano aveva ancora un suo primato. 

QUANTE REAZIONI Nei giorni successivi ricevetti le telefonate più impensabili: mi contattarono persino due celeberrime bacchette (oggi scomparse) che misero a dura prova il mio inglese incespicante, e mi chiamò anche Franco Zeffirelli, che non conoscevo ma che mi voleva assolutamente a pranzo nella sua villa: rifiutai per timidezza.

Conservo ancora i bigliettini autografi del più grande dei critici musicali, Paolo Isotta: veleno puro. Mi chiamò entusiasta, invece, un noto magistrato melomane, Renato Caccamo, presidente milanese della Corte d'Appello, il quale, tu guarda, aveva fatto condannare Bettino Craxi a una decina d'anni nei processi Eni-Sai e Metropolitana Milanese: dovevamo incontrarci, disse, e magari organizzare una serata col suo giro di amici musicofili meneghini. La serafica violenza con cui gli risposi, ricordo, lo lasciò zitto per un po': disse che, a quel punto, ci saremmo incontrati di sicuro: ma il suo tono era cambiato. Comunque non avvenne mai. 

L'altra sera, al Museo della Scala, mi hanno riconosciuto e salutato persone che non avevo mai visto e sentito - gente di un certo ruolo - ma che ancora volevano complimentarsi per quell'articolo di 17 anni fa. 

Ed è la prima ragione per cui Riccardo Muti mi è tornato in mente. La seconda ragione è perché, nelle interviste di questi giorni, le sue lagnanze sono rimaste identiche nei decenni: c'è stata qualche virata solo sui nomi.

Sei giorni fa, per esempio, Muti ha definito Vittorio Sgarbi «un uomo coltissimo», come è vero, ma nei primi anni Novanta, viceversa, muti tuonava contro «il diminuendo culturale totale degli Sgarbi e dei Pippibaudi». Era il periodo in cui si scagliava contro «la globalizzazione della musica», quando diceva che solamente tre orchestre al mondo erano degne di menzione: La Scala (c'era lui) e Vienna (c'era spesso lui) e Philadelphia (c'era stato lui).

 Ieri, in un'intervista sulla Stampa, gli hanno ricordato quando si battè perché l'Inno di Mameli, che chiude le trasmissioni di RadioRai, fosse suonato da un'orchestra italiana e non dai Berliner (dove lui non è mai stato) e Muti ha risposto che «dobbiamo puntare di più sulla nostra identità»: né l'intervistatore né l'intervistato hanno tuttavia rammentato quando il maestro, nel 1999, non volle suonare l'inno di Mameli alla Prima della Scala, questo a dispetto delle esplicite richieste del Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi, che infatti se ne andò senza salutarlo.

ORDINI E CONSIGLI Qualche musicofilo potrebbe addirittura ricordare la nolenza del Maestro alle esecuzioni lente e più solenni dell'Inno (le uniche decenti, le uniche che non la facciano sembrare quella marcetta binaria "zumpappà" che purtroppo resta) e insomma:le volte che la Sovrintendenza fu costretta a giudicare «artisticamente incompatibile» l'esecuzione dell'Inno, che oggi è la regola. 

Sempre nell'intervista alla Stampa, ieri, Muti ha detto di non conoscere il nuovo ministro Gennaro Sangiuliano ma che spera «sappia ascoltare i veri uomini di cultura non per ricevere ordini, ma per raccogliere consigli». Già sentita anche questa: capitò quando il vicepresidente del Consiglio Walter Veltroni parlò di sovvenzioni per la musica, nel 1997, e Muti rispose: «Non l'ho mai incontrato, e non sono certo io a dover battere alle porte».

Ci fermiamo qui. La verità è che il maestro Riccardo Muti oggi ci manca, e pure molto: a dispetto delle sue propensioni e di un repertorio preciso. Le sue interviste ci mancano un po' meno.

Riccardo Muti, quel coro del Nabucco che intonò con i bimbi di Sarajevo. Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 02 ottobre 2022.

Il grande direttore d’orchestra: la vita per la musica, la famiglia, l’ironia. A casa ha il pianoforte degli esordi e molti Pulcinella portafortuna. In un armadio tiene le cittadinanze onorarie e 23 lauree ad honorem 

«Non so nulla di lui, non so nemmeno ballare, richiamami tra dieci minuti che mi faccio venire un’idea». Era morto Michael Jackson. Il Corriere mi chiese una voce che facesse da controcanto. C’era anche la prima a Spoleto di Gianni Schicchi messo in scena da Woody Allen. I direttori d’orchestra coetanei di uno dei cantanti più leggendari e controversi si smarcarono rivendicando la loro «classicità», e le ore passavano. Riccardo Muti pensò alle vicende dei grandi castrati barocchi come Farinelli o Caffarelli, «oggetti di culto e di una idolatria sfrenata, spesso vittime di questo culto». Li collegò alla splendida ambiguità di Michael Jackson che non era né nero né bianco, una voce che non era né maschile né femminile. «Inseguiva la ricerca della giovinezza e della bellezza a tutti i costi, una tipicità che, senza giudizi morali, lo portò alla tragedia».

Riccardo Muti è un uomo imprevedibile. Profondamente meridionale, passa al «tu» dopo anni, ti mette alla prova raccontandoti «in amicizia» fatti non pubblicabili sul mondo musicale e i suoi protagonisti. Se superi le prove diventi uno di famiglia. Nei suoi viaggi musicali ha una cerchia di persone fidate. Ha un senso di riconoscenza e gratitudine per Karajan: «Tra di noi parlavamo italiano e ci davamo del lei»; nel 1971 lo fece debuttare al Festival di Salisburgo nel Don Pasquale, e da allora Muti non ha mancato un anno. Ma lì vuole dirigere concerti, non più opere, «troppe provocazioni» (l’ultima volta fu l’Aida «minimalista» di cinque anni fa). Quando gli dicono che ha gusti troppo tradizionalisti nelle regie, cita i modernisti Vitez o Ronconi con cui lavorò. Nessuno nel suo cuore ha sostituito Strehler: «Potevamo scambiarci i ruoli». Ma Damiano Michieletto, genio del nostro tempo, non sono riuscito a farglielo digerire. Dice che i protagonisti della scena sono sul podio; vuole essere al servizio della musica, come lo era Toscanini. Ad Anif, alle porte di Salisburgo, fino a poco tempo fa, Muti aveva una villa in Karajan Strasse, «ereditando» da Karajan il domestico.

Ha il vezzo di un cellulare di prima generazione, piccolo e mezzo scassato, che non vuole cambiare. Non ama le polemiche ma per Lissner, il sovrintendente del San Carlo che ha cancellato tre sue produzioni, compresa quella con i suoi amati Wiener Philharmoniker («l’orchestra di tutta la vita»), fece un’eccezione: non vuole più rimettere piede nel teatro della sua città. Se a uno spettatore scappa una parola durante un concerto, si volta e lo incenerisce con lo sguardo. Ma negli avventurosi Viaggi dell’amicizia del Ravenna Festival, in città sperdute o in zone di guerra, mescola musicisti dilettanti locali ai suoi fidati «Cherubini» dell’Orchestra giovanile da lui fondata, vivendo col sorriso gli imprevisti, come quando in Kenya si ruppe l’aereo e si passò la notte in bianco; e a Sarajevo, dove i palazzi erano ancora bucati dai mortai serbi, invitò bambini di sei anni a cantare «oh mia patria, sì bella e perduta».

Alla Fondazione Prada di Milano erano giorni di pioggia durante il suo corso per giovani direttori, il podio distava un metro da una sorta di discendente da cui scorreva l’acqua facendo un rumore che sembrava un pezzo di John Cage. Non c’era via d’uscita. Imperterrito, tirò avanti soffrendo il fracasso in silenzio. In tante piccole realtà del Sud, l’unico modo di fruire la musica in modo gratuito sono le bande, che lo riportano a ricordi lontani. Il governo nel 2008 pensò di tagliare i fondi alle bande. Telefonò col suo cellulare primitivo: «In tremila rischiano di chiudere, dobbiamo fare qualcosa, questo è un delitto culturale». Una battaglia civile sul Corriere, e vennero riaperte. Reclama l’orgoglio dell’italianità, più orchestre per i giovani con la riapertura di tanti teatri chiusi. L’ex presidente Napolitano nominò Abbado senatore a vita, apertamente di sinistra, e non lui, il suo conterraneo Muti, «anarchico» liberale.

Nel ’68 portò, in una piazza calda e rossa come Firenze, Mascagni, allora vituperato, ritenuto compromesso col fascismo, spalleggiato da un intellettuale antifascista come Roman Vlad. Una volta, a un concerto in Senato, dopo uno dei consueti appelli a favore della musica contro la disattenzione dei politici che «in comune con Beethoven hanno una cosa: la sordità», Napolitano bisbigliò: «Parla come un tribuno». Al contrario dei politici, quello che dice mantiene. Per esempio, dopo il suo debutto al Metropolitan di New York, nel 2010 con Attila dell’amato Verdi, «il musicista che parla all’uomo dell’uomo», disse che non vi avrebbe più rimesso piede. Così è stato. Ma con gli Stati Uniti ha un rapporto saldo, come direttore della Cso, Chicago Symphony Orchestra, che è tra le prime cinque al mondo; e lo scorso 23 giugno per Un ballo in maschera mantenne la parola «negri» spiegando come le intenzioni di Verdi fossero tutt’altro che razziste, affidando quella parte a un tenore di colore: «Sono contro la cancel culture», disse nella città di cui è sindaca una donna afro-americana che all’insediamento non volle essere intervistata da giornalisti bianchi. Alla Scala è rimasto diciannove anni, riportando il Verdi dimenticato. Due anni fa per un concerto con la Cso era a un passo dal dirigervi nuovamente un’opera, «vi torno con grande felicità, portando l’orchestra del mio cuore nel teatro del mio cuore», mi disse. Saltò tutto per l’incidente in camerino con l’altro Riccardo, Chailly: qualcuno fece lo sgambetto a Muti, non preavvisandolo della visita, ma è anche vero che il suo entourage lo lasciò da solo.

Con Roma ha un rapporto non risolto: all’Accademia di Santa Cecilia non dirige dagli Anni 80, dopo una battutaccia volgare di un orchestrale che alla prova della Messa da Requiem verdiana, dopo uno dei suoi pianissimi intessuti di trasparenze, esclamò, «a mae’, che ha messo la sordina?». Con l’Opera di Roma, dove con fiuto partenopeo non volle assumere incarichi formali, solo onorari, tagliò dopo lo sgarbo di una tournée in Giappone dove a decine, compreso il primo violino, presentarono il certificato medico, non capendo l’importanza di una verifica internazionale di quel prestigio. Riccardo Muti ha il senso della famiglia, è molto protettivo soprattutto con i tre figli, gli piace starsene defilato a Ravenna, la città di sua moglie Cristina, dove ha esposto la bandiera ucraina e dove si sente protetto. Lì ha il suo piano, il quarto di coda degli esordi, curiosi strumenti musicali, la foto con la regina Elisabetta e Kleiber il re della musica, il teatro di burattini («è il pubblico più rispettoso del mondo»), Pulcinella portafortuna ovunque, un armadio con le cittadinanze onorarie e le 23 lauree ad honorem, la prima coppa vinta come direttore nel 1955 a Molfetta. Una casa dove avverti la consapevolezza del talento, il dovere della memoria, l’ironia che tempera le pressioni, la solitudine del podio.

Dopo un giorno o due, morso dall’inquietudine sale in macchina e sfida l’autovelox in autostrada, e parte, magari per la Puglia: dalla sua casa in campagna si vede il castello di Federico II, altro suo riferimento. Muti ricorda un altro leone della scena, Vittorio Gassman. Entrambi monumentali e fragili. Ma Riccardo non conosce la depressione. Se è di buonumore, sciorina barzellette sconce che ascolta incuriosito anche il vescovo di Ravenna, che spesso lo accompagna in tournée. Muti non è così religioso, anche se una grande spiritualità vive dentro di lui, anche grazie alla musica. Ha denunciato le banali strimpellate pop delle chiese, che hanno abbandonato il patrimonio sacro. Direttore all’antica? Mica tanto, alla sua Accademia ha scelto tante giovani direttrici: sono più numerose dei maschi, sono «le più attrezzate tecnicamente e musicalmente, non è una scelta pro e contro». A Chicago le invita regolarmente: «Possono svolgere bene questo lavoro, purché restino se stesse senza mascolinizzarsi forzatamente».

 Buon compleanno Muti. Ottant'anni da maestro della vera cultura italiana. Piera Anna Franini il 28 Luglio 2021 su Il Giornale. È sempre stato rigoroso, filologico e patriottico in un mondo dominato dal pressapochismo. Oggi il direttore d'orchestra Riccardo Muti spegne 80 candeline. Lo si festeggia in tutto il mondo, da uomo di mondo qual è. Si parte da Chicago, dove è direttore di quel gioiello sonoro che è l'orchestra Sinfonica: è stato istituito il «Muti Day». Si arriva a Napoli, la città dove Muti è nato, in parte cresciuto, e soprattutto che ha nel sangue. Venerdì il Conservatorio partenopeo lo festeggerà con professori e studenti. Domani dirigerà al Quirinale per la riunione dei ministri della Cultura del G20. E su quel podio, non poteva che esserci quest'uomo, ambasciatore per eccellenza della cultura italiana. Tale non solo perché è l'artista italiano (di ogni forma d'arte) più noto al mondo, fa fede Google Trends, cliccare per credere. Ma perché usa la propria autorità e reputazione per ricordare (e bacchettare) a chi sta ai posti di comando che il sistema culturale di casa nostra è in caduta libera. Quante volte l'abbiamo visto, tra un bis e l'altro, rivolgersi al parterre dei politici e lanciare appelli, scoccare frecce da giornali e tv. «Vorrei che i proclami fatti da decenni venissero ascoltati. Nelle scuole deve essere ripristinato l'insegnamento della cultura musicale. L'Italia vanta la storia della musica più importante del mondo, abbiamo inventato l'opera, gli strumenti, il rigo musicale. Dobbiamo essere degni del nostro passato. Mi sento una voce che grida nel deserto, ma continuo a far battaglie: non per me, io ho avuto la fortuna di formarmi alla severa scuola italiana, lo dico per generazioni a venire. Io parlo come musicista, ma è un discorso generale: dobbiamo far sentire che siamo italiani, e questo non ha niente a che fare con nazionalismi e sovranismi, è la consapevolezza di appartenere a un grande Paese», ci ha detto nel corso degli anni in tante interviste. Un Paese che vanta una presenza capillare di teatri-gioiello, teatri spesso chiusi. «Riapriamoli tutti affidandone la gestione ai giovani musicisti», dice. Giovani per i quali Muti si batte con parole e fatti: nel 2004 lanciò l'Orchestra Cherubini per talenti italiani, una palestra di formazione triennale. E dal 2015, ha avviato la «Riccardo Muti Italian Opera Academy», progetto formativo per direttore d'orchestra, cantanti, pianisti accompagnatori che sotto la guida di Muti apprendono come si costruisce un'opera, mattone su mattone, battuta dopo battuta. Da anni seguiamo le Masterclass di Muti. L'approccio non cambia. Posa l'orologio e inizia a lavorare da mattina a sera, senza risparmio. Pezzi di vita spesa fra podi di valore e studio severo sono la sostanza di lezioni quotidiane pensate per «insegnare ai giovani direttori che la nostra musica non è seconda nessuna. Deve essere trattata con il rispetto che si dedica agli autori d'Oltralpe» ricorda puntualmente Muti che vive la docenza come una seconda pelle. Ne è intrigato, esige, chiede, spiega, e in fondo si diverte. Lo ricordiamo mentre sprona un ragazzo timido dicendo «Sei il boss in questo momento». E al fanciullo che eccede in perifrasi: «Vai al dunque. Parti dalla sostanza quando parli ai musicisti». Guai alle punte di pollice ed indice che nella destra si congiungono facendo il tondino: «È la mano dell'espressione, aprila». E su tutto: guai a fare di Giuseppe Verdi il musicista dello zum-pa-pà. «Verdi è il compositore che parla all'uomo dell'uomo. Nel futuro l'umanità avrà più bisogno di Verdi che di Wagner. Quando dirigi Wagner senti come una malia, una magia che non ti lascia e non ti farà dormire la notte. Verdi ti sa confortare. Ho studiato Verdi tutta la vita. E più lo studio, più capisco quanto bisogna fare». Verdi è Muti e Muti è Verdi. Ma il repertorio di questo artista è ampio. A dire il vero, in quest'ultimo anno s'è aggiunta una tessera: la Missa Solemnis di Beethoven, partitura che dirigerà alla testa dei Wiener Philharmoniker il prossimo agosto al Festival di Salisburgo. E così, torna alla guida di un'orchestra che mai nessuno ha frequentato quanto lui: si conta mezzo secolo di collaborazione mai interrotta. Un primato. E stiamo parlando del lusso musicale, un lusso talmente esclusivo e imprendibile che neppure Bernard Arnault (LVMH) riesce inglobare nella sua holding megagalattica. Muti ha riportato i Wiener in Italia questa primavera mentre i teatri tornavano a semi-aprirsi, e il primo gennaio li ha diretti per la sesta volta per il Capodanno musicale più famoso che vi sia, seguito da 50 milioni di spettatori. Spegnerà le candeline con la famiglia, la moglie Cristina Muti, sempre al fianco, ma all'occorrenza anche qualche passo indietro, una presenza costante, brillante, ironica. Non mancheranno i tre figli Francesco, Chiara e Domenico, e i nipoti. L'inseparabile cagnolino. Poi via, si lavora. Il vulcanico Muti non si ferma, non s'è mai fermato neppure durante il lockdown, nel giugno 2020 era già in pista con i suoi ragazzi dell'Orchestra Cherubini, con la sua solita carica vitale che mai abbiamo apprezzato così tanto come nei giorni bui della pandemia. Auguri Maestro. Piera Anna Franini

Dagoreport il 5 luglio 2021. “Ebbastaaa! Ancora Muti oggi sul Corriere. Una volta la settimana, diventa invasivo, poco sopportabile. Così si fa del male alla musica. Ci sono altri musicisti, non se ne può più di vedere sempre la stessa faccia e leggere gli stessi sermoni” (Marco Vizzardelli). Una volta alla settimana? Per verificare se il loggionista della Scala Marco Vizzardelli ha ragione basta sfogliare il Corriere della Sera. Dal primo gennaio 2021 a Riccardo Muti il Corriere ha dedicato 29 articoli (circa sei al mese, più di uno alla settimana), in genere di una pagina. Nella recente intervista di Aldo Cazzullo (al cui libro il Ravenna Festival di Muti aveva dedicato una serata!) addirittura due. L’unica occasione nella quale il Corriere non ha dedicato una pagina a Muti è accaduto quando ne doveva parlare, ovvero quando c’è stata una notizia: la sera dell’11 maggio, in occasione del ritorno alla Scala di Muti, questo – eternamente rancoroso verso il teatro e i suoi lavoratori – si è messo a inveire in camerino “sfanculando” il direttore musicale Riccardo Chailly, che era andato a omaggiarlo. Una scena mai vista in un teatro, documentata dai cronisti indipendenti e di fronte alla quale il giornale-istituzione avrebbe dovuto prendere le difese dell’istituzione, ovvero della Scala. Invece, no. C’è un legame poco chiaro, qualcosa come di occulto tra Muti e il Corriere della Sera a partire dai tempi del critico Paolo Isotta, che per vent’anni lo esaltò come nessuno al mondo per poi rompere e deriderne i comportamenti suoi e della famiglia. L’inginocchiamento in stile “Black lives matter” verso Muti esisteva già ai tempi in cui divampò il conflitto tra Muti e la Scala nel 2004: allora il condirettore factotum del Corriere era il fiorentino Paolo Ermini. Scaricato da Isotta e dalla Scala, Muti finì a Roma dove iniziò il sodalizio con il suo giornalista di riferimento Valerio Cappelli, che non ha mai fatto mancare articolesse ogni volta che fosse possibile e – bravura sua – anche quando era francamente non solo inutile, ma impossibile. Da inizio anno ci sono stati cambiamenti nel mondo della musica classica: ultimo la nomina di Daniela Gatti – che con Chailly e Pappano è oggi il più apprezzato direttore d’orchestra italiano – al Maggio Musicale fiorentino. Ma al Corriere niente, interessa solo Muti. Prendiamo i titoli di quattro paginate di Cappelli: “Muti commosso dopo un anno di streaming” (12/5/2021); “Riccardo Murti e l’orchestra Cherubini: tour in streaming” (28/2/2021) “Muti: mi hanno offeso” (4/2/2021), “Muti noi portiamo pace, solidarietà e fratellanza” (2/1/2021)… così moltiplicato per 29 articoli sul Corriere! Marketing? Certamente il Corriere ha realizzato, e magari realizzerà, collaterali che si avvalgono della firma di Riccardo Muti, come cd-rom ecc ecc. Ma non basta per giustificare tanta ossessiva presenza del maestro apulo-napoletano. “Muti con la figlia si gode Torino”, “Muti saluta Torino e promette: siete una eccellenza tornerò a lavorare qui”, “Donizetti alla prova di Muti”, “Muti ritorna all’Arena”… Muti di qua, Muti di là, meglio di Figaro, Muti è andato dal  barbiere, Muti è andato dal panettiere…C’è qualcosa di stonato in questo rapporto, come una trama lirica unito da un sigillo segreto. O Voi del Corriere, “Die ihr der Wandrer Schritte lenket” (“Voi che guidate il passo al viandante”), rivelateci qual è questo segreto.

Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera il 27 giugno 2021.

Maestro Muti, qual è il suo primo ricordo?

«La guerra: mio padre in divisa da ufficiale medico. Poi, nel 1946, una gita in carrozza a Castel del Monte. Partimmo da Molfetta, viaggiammo tutta la notte. All' alba il cocchiere Nicola aprì la tendina, e apparve quella corona di pietra. Rimasi stupefatto. Da allora sono ossessionato da Federico II, ho la casa piena di libri su di lui. Ho anche comprato un pezzetto di terra lì vicino, con qualche piccolo trullo, che chiamano casedde, dove a maggio tra gli ulivi fioriscono le orchidee selvatiche. Spero di passare in contemplazione del castello questi ultimi anni che mi restano». 

Lei ne compie ottanta tra un mese.

«E mi sono stancato della vita». 

Perché dice questo?

«Perché è un mondo in cui non mi riconosco più. E siccome non posso pretendere che il mondo si adatti a me, preferisco togliermi di mezzo. Come nel Falstaff: "Tutto declina"».

Insisto: perché dice questo?

«Perché ho avuto la fortuna di crescere negli anni 50, di frequentare il liceo di Molfetta dove aveva studiato Salvemini, con professori non severi; severissimi. Ricordo un'interrogazione di latino alle medie. L' insegnante mi chiese: "Pluit aqua"; che caso è aqua? Anziché ablativo, risposi: nominativo. Mi afferrò per le orecchie e mi scosse come la corda di una campana. Grazie a quel professore, non ho più sbagliato una citazione in latino. Oggi lo arresterebbero». 

Rimpiange le punizioni corporali?

«Certo che no. Rimpiango la serietà. Lo spirito con cui Federico II fece scolpire sulla porta di Capua, sotto il busto di Pier delle Vigne e di Taddeo da Sessa, il motto: "Intrent securi qui quaerunt vivere puri"; entrino sicuri coloro che intendono vivere onestamente. Questa è la politica dell'immigrazione e dell'integrazione che servirebbe». 

Non riconosce più neanche il suo mestiere?

«Purtroppo no. La direzione d' orchestra è spesso diventata una professione di comodo.

Sovente i giovani arrivano a dirigere senza studi lunghi e seri. Affrontano opere monumentali all' inizio dell'attività, basandosi sull' efficienza del gesto, talora della gesticolazione». 

Gesticolazione?

«Toscanini diceva che le braccia sono l'estensione della mente. Oggi molti direttori d' orchestra usano il podio per gesticolazioni eccessive, da show, cercando di colpire un pubblico più incline a ciò che vede e meno a ciò che sente».

Chi? Faccia i nomi.

«No».

I nomi.

«Non voglio polemiche personali: farei il gioco dei promotori di se stessi. Il mio maestro, Antonino Votto, diceva che il direttore doveva aver respirato la polvere del palcoscenico.

Invece le orchestre, i cori, i cantanti lamentano una mancanza sempre più evidente di informazioni musicali e drammaturgiche da parte dei direttori. Non si fanno neppure più prove serie».

Neanche le prove?

«Le prove di sala, con il direttore al pianoforte che prepara la compagnia di canto, diminuiscono sempre più, in favore di settimane e settimane di prove date spesso a registi ignari di musica, che non soltanto non sanno leggere una partitura, ma sempre più sovente inventano storie che vanno contro il discorso musicale. Nel carteggio con Kandinsky, Schoenberg sottolinea che, se la regia e la scenografia disturbano la musica, sono sbagliate. E certo Schoenberg non era un reazionario». 

Forse lei sì.

«Non credo. Sono il direttore che ha fatto più produzioni, nove dagli anni 70, insieme con Ronconi, che certo non era un reazionario, soprattutto a quell' epoca. Sono ancora sotto l'influenza di Strehler, che non soltanto conosceva la musica ed era in grado di leggere una partitura, ma perseguiva il Bello: non come fatto estetico, come necessità della vera arte. Le mie produzioni con Strehler - Le Nozze di Figaro, il Don Giovanni, il Falstaff - mi hanno accompagnato e mi accompagneranno per tutta la vita e mi hanno insegnato molto. Ecco perché talvolta, forse esagerando, dico che sono stanco della vita. Penso di non appartenere più a un mondo che sta capovolgendo del tutto quei principi di cultura, di etica nell' arte con cui sono cresciuto e che i miei insegnanti al liceo e al conservatorio mi hanno comunicato». 

Ha qualche rimpianto?

«Sì. Proprio adesso che ho finito di dirigere Aida in forma di concerto all' Arena, il mio rimpianto è non aver potuto fare Aida con Strehler, com' era nei nostri piani». 

Come sarebbe stata?

«Senza elefanti. Giorgio credeva in un'Aida dove il trionfo fosse solo nella musica, non in quel faraonismo che ha caratterizzato le produzioni di Aida dovunque nel mondo, fino a diventare il simbolo stesso di Aida, nuocendo alla vera essenza dell'opera. Che è costruita su una delle partiture più raffinate e delicate di Verdi. E questo non vale solo per Aida». 

Cosa intende dire?

«Non vorrei essere l'uccello del malaugurio; ma il costo esorbitante di scenografie e costumi, accanto alla scarsa competenza e autorevolezza dei direttori d' orchestra che - con le dovute eccezioni - lasciano i cantanti senza guida, mi preoccupano sul futuro dell'opera. L' Italia è piena di teatri del '700 e dell'800 ancora chiusi. L'ho detto a Franceschini: riapriteli, dateli ai giovani. Formate nuove orchestre: ci sono Regioni che non ne hanno. Aiutate le centinaia di bande che languiscono, ridotte al silenzio da un anno e mezzo, con il disastro economico delle famiglie. Dobbiamo fare molte cose, se vogliamo che il nostro patrimonio operistico, il più eseguito al mondo, non sia considerato occasione di piacevole intrattenimento ma fonte di educazione e cultura, come le opere di Mozart, Wagner, Strauss. Verdi non è zum-pa-pa!».

Com' erano davvero i suoi rapporti con Abbado?

«Tra noi c' è stata sempre ammirazione reciproca. Hanno voluto montare una rivalità tipo Callas-Tebaldi o Coppi-Bartali: tutto falso. Quando sono andato al conservatorio di Milano, Abbado era già in carriera: abbiamo avuto rare occasioni di incontrarci, ma sempre cordiali». 

E con Pavarotti?

«Ho cominciato a lavorare con lui nel 1969, con I Puritani alla Rai di Roma. Poi abbiamo avuto momenti di frizione...». 

Per quale motivo?

«Fatti tecnici. Incomprensioni musicali.

Tramutate in una grande amicizia. Devo a Pavarotti una delle più belle, se non la più bella voce della seconda metà del Novecento. Lui mi ha regalato cose meravigliose: un Pagliacci registrato in disco a Filadelfia, un Requiem di Verdi alla Scala, e soprattutto il Don Carlo scaligero, dove Pavarotti in particolare nel finale dà una lezione di tecnica vocale, di fraseggio perfetto, davvero di grande ispirazione. Sulle parole "ma lassù ci vedremo in un mondo migliore" riconosco la sua generosità. Diversi anni prima che morisse, mia moglie e io lo invitammo a Forlì a un concerto di beneficenza per una comunità di tossicodipendenti. Pavarotti venne apposta dall' America. Non volle una lira, si pagò lui il biglietto aereo. Lo accompagnai per tutta la serata al pianoforte, di fronte a settemila persone. Un gesto che non potrò mai dimenticare». 

Qual è l'ultimo ricordo che ha di lui?

«La salma nel Duomo di Modena, la piazza che risuona del famoso "Vincerò...". Io avrei preferito che fosse messo il finale del Don Carlo. Non solo per il significato delle parole, ma anche per la lezione di canto, per la sottolineatura di un aspetto della vocalità di Pavarotti non trionfalistica ma intima e delicata».

Lei pensa che davvero ci vedremo in un mondo migliore?

«Non lo so. Certo non nei Campi Elisi. Spero ci sia tanta luce; mi basta che non ci sia la metempsicosi. Non ho voglia di rinascere, tanto meno ragno o topo, ma neanche leone. Una vita è più che sufficiente». 

Crede in Dio?

«Ho avuto una formazione cattolica. Ho ammirato molto papa Ratzinger, anche come magnifico musicista. Non credo nei santini di Gesù biondo. Dentro di noi c' è un'energia cosmica che ci sopravvive, perché è divina. Ricordo la morte di mia madre Gilda: ebbi netta la sensazione che il suo corpo diventasse pesante come marmo, mentre si liberava un flusso, l'energia vitale. Sento che l'universo è attraversato da raggi sonori che arrivano fino a noi; ed è la ragione per cui abbiamo la musica. I raggi sonori che hanno attraversato Mozart sono infiniti». 

Chi ha dato la migliore definizione della musica?

«Dante. Paradiso, canto XIV: "E come giga e arpa, in tempra tesa/ di molte corde, fa dolce tintinno/ a tal da cui la nota non è intesa,/così da' lumi che lì m' apparinno/ s' accogliea per la croce una melode/ che mi rapiva, sanza intender l' inno". La musica è rapimento, non comprensione. Critici musicali, tutti a casa! Non c' è niente da comprendere. Come diceva Mozart, la musica più profonda è quella che è tra le note o dietro le note». 

Come ha passato il lockdown?

«A studiare. La Missa Solemnis di Beethoven. La mia prima partitura è del 1970. Ci lavoro da più di mezzo secolo, ma non ho mai osato dirigerla. Lo farò ad agosto a Salisburgo. È la Cappella Sistina della musica: la sola idea di accostarla mi ha sempre dato grande timore. Ci sono dettagli di importanza enorme. Al "Miserere nobis" Beethoven premette un "O", che presuppone un interlocutore. Beethoven ha sentito che l'invocazione era rivolta a Qualcuno. Pare un dettaglio, ma apre un mondo. Significa che un Essere superiore esiste». 

Quindi non è stato un brutto lockdown.

«A parte lo studio, è stato orribile. La disumanizzazione si è fatta ancora più profonda. La mancanza di rapporti umani è terrificante. Entri al ristorante e vedi al tavolo cinque persone tutte chine sul loro smartphone... Io non lo posseggo e non lo voglio. Me ne hanno dovuto dare uno, per entrare in Giappone, ma non sono riuscito ad accenderlo. La tv avrebbe dovuto approfittare del lockdown per fare trasmissioni educative. Invece, a parte qualche bel documentario, siamo stati invasi da virologi, da sedicenti "scienziati". Per me scienziato era Guglielmo Marconi!». 

Non ama i talk-show?

«Riesco a seguire un contrappunto in otto parti musicali che si intersecano una con l'altra, ma non riesco a capire due persone che si parlano una sull' altra. Creano disarmonia, cacofonia; mentre otto linee musicali una diversa dall' altra devono concorrere al raggiungimento dell'armonia. La banalità della tv e della Rete, questo divertimento superficiale, la mancanza di colloquio mi preoccupano molto per la formazione dei giovani».

Lei è di destra o di sinistra?

«Né l'uno né l'altro. Sono tra quelli che tentano di dare indicazioni utili. A Firenze negli anni 70 ero amico di molti comunisti, tra cui Paolo Barile, il costituzionalista; ma siccome usavo spesso parole come "patria" e mi piaceva eseguire l'inno di Mameli, qualcuno sentì odore di idee di destra. Io sono nato uomo libero e tale rimango. Sono cresciuto con dettami salveminiani, socialista non bolscevico. Non mi sono mai affiliato a una congrega». 

C' è un eccesso di politicamente corretto anche nella musica?

«Con il Metoo, Da Ponte e Mozart finirebbero in galera. Definiscono Bach, Beethoven, Schubert "musica colonialista": come si fa? Schubert poi era una persona dolcissima... C' è un movimento secondo cui, nel preparare una stagione musicale, dovrebbe esserci un equilibrio tra uomini, donne, colori di pelle diversi, transgender, in modo che tutte le questioni sociali, etniche, genetiche siano rappresentate. Lo trovo molto strano. La scelta va fatta in base al valore e al talento. Senza discriminazioni, in un senso o nell' altro. Posso parlare perché la maggior parte dei "Composers-in-Residence" che abbiamo ospitato in questi dieci anni a Chicago sono donne». 

È vero che da bambino pensavano che lei non avesse talento?

«Papà mi regalò a Natale un violino. Piansi; volevo un fucile con il tappo. Dopo due mesi di vani tentativi di leggere i solfeggi, papà disse: "Il piccolo Riccardo non è portato per la musica". Mamma concluse: "Proviamo ancora un mese". D' un tratto imparai a solfeggiare. Ma l'incontro decisivo fu con Nino Rota». 

Il compositore dei film di Fellini.

«Diedi con lui a Bari l'esame del quinto corso di pianoforte da privatista: mi diede 10 e lode in tutte le prove. Così decisi di iscrivermi al conservatorio. La mattina andavo al liceo, il pomeriggio prendevo la corriera per Bari». 

Per essere stanco della vita, lei è sempre in giro.

«Credo nei viaggi dell'amicizia e della pace. Non lavori per il successo, la quantità di applausi e articoli; lo fai perché capisci che la nostra professione è una missione. Ho diretto il primo concerto a Sarajevo dopo i bombardamenti, il Va' pensiero a New York nel buco lasciato dalle Torri Gemelle abbattute. Una sera ho diretto a Erevan, in Armenia, e la sera dopo a Istanbul. Ricordo a Nairobi un coro di bambini meraviglioso: avevano studiato il Va' pensiero con una pronuncia assolutamente perfetta, mi commuovo ancora se ci penso. Ma a volte mi sembra di parlare ai sordi. Muti che parla ai sordi... Avvilente. Non è mancanza di volontà; è ignoranza atavica. E dire che le radici della musica mondiale sono in Italia: Palestrina, Monteverdi, Frescobaldi, Luca Marenzio, Scarlatti...». 

Ha paura della morte?

«No. Da ragazzo andavamo la sera al cimitero a vedere i fuochi fatui. Ho conosciuto l'ultima prefica, Giustina: raccontava i pregi del morto, disteso sul letto nell' unica stanza della casa, la porta aperta sulla strada, alle pareti la foto del fratello bersagliere e dello zio ardito Un mondo semplice e fantastico, che mi manca moltissimo. Per questo le dico che appartengo a un'altra epoca. Oggi il mondo va così veloce, travolge tutto, anche queste cose semplici, che sono di una profonda umanità...».

Quindi non teme la fine?

«Non in sé. Mi dispiace lasciare gli affetti.

Mia moglie, i miei figli Francesco, Chiara e Domenico, i nipoti. E gli animali». 

Quali animali?

«Il cane Cooper, un maltese. In campagna abbiamo colombe, conigli, galline, galli, e due asini sardi, Gaetano e Lampo: intelligentissimi. Si affezionano, ti guardano interrogativi con i loro occhi rosa... E noi diamo del cane e dell'asino come se fossero insulti». 

Come vorrebbe i suoi funerali?

«Scherzosamente dico che lascerò l'indicazione di brani musicali da eseguire in chiesa attraverso incisioni, rigorosamente dirette da me». 

Perché?

«Non perché le ritenga le migliori; voglio che si ricordino come dirigevo Mozart, Schubert, Brahms. Se non sono io, me ne accorgo subito, e c' è la probabilità che si apra la bara...

(Muti sorride). C' è una cosa però su cui sono serissimo». 

Quale?

«Ai miei funerali non voglio applausi. Sono cresciuto in un mondo in cui ai funerali c' ra un silenzio terrificante. Ognuno era chiuso nel suo vero o falso dolore. Per i più abbienti c'era la banda che eseguiva lo Stabat Mater di Rossini o marce funebri molfettesi, famose in Puglia. I primi applausi li ricordo ai funerali di Totò e della Magnani, ma erano riconoscimenti alla loro capacità di interpretare l'anima di Napoli, di Roma, della nazione. Quando sarà il mio turno, vorrei che ci fosse il silenzio assoluto. Se qualcuno applaude, giuro che torno a disturbarlo di notte, nei momenti più intimi».

Vittorio Feltri risponde a Riccardo Muti: "Mi sono stancato della vita? Perché spero di andarmene prima di te". Libero Quotidiano il 29 giugno 2021. Conosco Riccardo Muti da parecchi anni e ascoltandolo ho capito che è un genio. Egli è un essere divino perché ha compreso una cosa importante. Questa. La vera rivoluzione è la normalità. Pensa che sia necessario fare le cose per bene, ciò che richiede studio e passione. Non solo nella musica, campo nel quale è un asso anche se lui non lo sa fino in fondo, forse lo sospetta quando ascolta certi direttori d'orchestra che vanno per la maggiore pur essendo minori. Ieri sul Corriere della sera è uscita un'intervista che il maestro ha affidato ad Aldo Cazzullo, forse il migliore giornalista italiano. Me la sono bevuta commuovendomi. Riccardo esprime tanti concetti e ammetto di condividerli tutti, anche i più atroci: "questo mondo non mi va più. Gradisco la spontaneità, detesto le discussioni politiche in tv durante le quali le voci degli ospiti si sovrappongono". Ovvio, un musicista di alto profilo non può tollerare il chiacchiericcio, i rumori molesti. Un particolare mi ha colpito fra i tanti che ha detto: sono un ammiratore e un seguace di Gaetano Salvemini, amo certi pensieri politici, non la politica militante. Nel mio piccolo confesso che da giovane ero iscritto al Circolo culturale Salvemini, il migliore e il più attivo di Bergamo, all'epoca. Oggi se cito Salvemini in una conversazione pensano che mi riferisca a un calciatore, anzi, ex. Muti non è un uomo banale ma pratica la linearità, che non è una chiave soltanto musicale bensì la chiave della vita. Bacchetta Magica da bambino sembrava negato per i solfeggi, poi in un mese li imparò perfettamente. Passò dal violino al pianoforte col quale si è diplomato al conservatorio. Inutile ripercorrere la sua grandiosa carriera, la conosce chiunque non sia cretino. Egli è in procinto di compiere ottanta anni e capisco che non ne possa più di campare fra gente che non sa nulla eppure assume atteggiamenti professorali. Muti discetta disinvoltamente anche della morte, consapevole che nel futuro di ogni uomo, anche intelligente quanto lui, c'è una tomba. Non so se abbia dei difetti, se ne ha li ho anche io che non ho le sue doti. Un giorno gli ho detto che pure io sono stato un pianista da strapazzo e lui ha riso. Giusto. Quando suonavo facevo ridere. Mi auguro di andare all'altro mondo prima di Riccardo perché vorrei ascoltare sino al termine la sua musica.

Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2020. «Voglio avere certezza di ciò che si fa, non di ciò che si farà. Non voglio sentir parlare del futuro. È pieno di persone che non sanno come risolvere la giornata e dare da mangiare ai propri figli. Nella mia lunga vita, una cosa del genere non solo non l' ho mai sperimentata ma nemmeno immaginata. Viviamo un film di fantascienza», dice Riccardo Muti.

Che cosa vede dalla sua casa di Ravenna?

«Persiane abbassate, come se il virus potesse entrare dalle finestre. C' è un silenzio quasi di morte, cimiteriale. Io Pasqua l' ho sempre passata a Molfetta, dove da ragazzino vedevo le processioni del venerdì Santo, molto radicate al Sud (accompagnate dalla Banda, che furono le mie prime lezioni di musica): da secoli non si erano mai fermate, neanche in tempi di guerra».

Abituato a girare il mondo, si sente come un leone in gabbia?

«Semmai un uomo in gabbia. Mi sento agli arresti domiciliari, come tutti. Con mia moglie Cristina, siamo ligi alle norme. Però un conto è decidere di stare a casa perché ti vuoi riposare, altro conto è una (giusta) imposizione».

Presto sarà estate.

«Pensate a una famiglia che vive in 70-80 metri quadrati Ma penso anche a milioni di persone che non riescono a comprare il necessario per vivere, ai miei ragazzi dell' Orchestra Cherubini. I teatri sono chiusi, la musica si è fermata e loro, il meglio prodotto dai Conservatori, non guadagnano un euro. Eppure hanno trovato il coraggio e la volontà di suonare e trasmettere messaggi musicali sul web dalle proprie abitazioni».

Segue il bollettino quotidiano sul virus?

«Non più, ogni giorno ci dicono che i dati da una parte migliorano, dall' altra peggiorano. E non capisco un accidente, non sono Einstein ma nemmeno lo scemo del villaggio. Mi viene il dubbio che questa confusione aiuti qualcuno, non so chi sia. Troppi medici dicono cose contrastanti. In tv vedo documentari. Mancano, nei programmi Rai, grandi registi trascurati, Germi, Pietrangeli, Rossellini, Bergman. A Pasqua hanno trasmesso film su Gesù in tutte le salse, e Ben Hur che conosciamo a memoria».

Cosa ci vorrebbe?

«Più fantasia e meno pigrizia, e poi quei continui appelli a lavarsi le mani, legittimi per carità, ma la tv tratta gli italiani come sottosviluppati. Quando sono all' estero vedo solo notizie negative su di noi. Invece abbiamo gli scienziati, gli artisti. E i medici straordinari che abbiamo conosciuto di questo periodo...».

La musica c' è in tv?

«Perché non si approfitta per trasmettere più musica, a parte Rai 5 che fa un lavoro egregio? Danno concerti in piazze vuote che spacciano per grande musica qualcosa che non lo è affatto. In un periodo in cui siamo costretti in casa a guardare più tv, i risultati li hanno comunque e potrebbero fregarsene dell' audience. Invece ti propinano Alien , fa aumentare la depressione che esploderà se ci diranno che non potremo andare al mare».

Si tiene in esercizio fisico?

«Potrei fare le scale ma preferisco quelle del pianoforte. Vesto sportivo, in pullover, niente tuta. Passo molte ore a studiare la Missa Solemnis di Beethoven con cui a settembre dovrei aprire la stagione a Chicago. È il trionfo del contrappunto (che condiziona con le sue regole e maglie), proteso all' espressione, in un' aderenza totale di testo e musica. Il risultato è un contrappunto trasfigurato, raggiunge una sfera metafisica che provoca sgomento».

L' Inno alla gioia di Beethoven è diventato l' Inno della Ue. Abbiamo avuto aiuti sanitari da Albania, Cuba, Russia, qualcosa dagli Stati Uniti...

«Beethoven, che significa libertà, nella Nona Sinfonia dice che siamo tutti fratelli. Invece alcune nazioni europee pensano che l' Italia sia un dio minore. Mi sono indignato quando ci hanno dato dei lestofanti, dopo tutti i nostri aiuti dati all' Europa, che non avrebbe sviluppato la cultura che ha, senza di noi».

È pessimista, ottimista?

«Uno scossone di questo genere porterà a un adattamento a una situazione diversa. Non sto a pensare se ne usciremo migliori, e non penso al futuro ma all' oggi. C' è bisogno di soluzioni perché le persone indigenti possano vivere. Non sopporto i politici che pontificano, illudono; spero non pensino alla musica come a qualcosa di cui si può fare a meno. Monsignor Ravasi mi ha citato uno scritto di Cassiodoro, il politico e storico romano: Se continuiamo a commettere ingiustizie, Dio ci toglierà la musica».

Maestro, si parla di concerti con l' orchestra in platea e il pubblico nei palchi.

«No, sarebbero per pochi privilegiati, meglio in streaming. Altra cosa: le città erano imbrattate, le statue mutilate; non si può far niente, dicevano. Gli elicotteri della polizia, per sorvegliare che stiamo a casa, come se fossimo un popolo di malfattori, dimostrano che quando si vuole le cose si fanno».

Pensa che potrà dirigere il concerto di Capodanno a Vienna, con i suoi tanti significati beneauguranti?

«Sarebbe bello poter dire è tornato tutto come prima e brindare. Io sento che il vaccino lo troverà uno scienziato italiano. Spero che si torni a una vita normale. Ma, come dice Eduardo de Filippo, adda passà 'a nuttata».

Il maestro Riccardo Muti: “Tv narcotizzante, ci vuole cultura”. Alberto Pastori il 18/01/2020 su Notizie.it.  "Tv narcotizzante, basta programmi di cucina: ci vuole cultura": a dirlo è il grande maestro Riccardo Muti. Il maestro Riccardo Muti, considerato tra i migliori a livello mondiale, per 19 anni direttore della Scala di Milano, si trova in tournée in Europa con Chicago Symphony Orchestra. Il tour toccherà anche diverse città italiane come Napoli, Firenze e Milano. In occasione di questi concerti, Muti risponde ad alcune domande sulla situazione dell’Italia riguardo il nostro Paese. E si dice “Preoccupatissimo”. Muti si è sempre mostrato pensieroso circa lo stato della Cultura in Italia e di come i politici non si prodighino abbastanza sull’argomento. A Napoli ci sarà Dario Franceschini, Ministro dei Beni e delle Attività Culturali, e questo è un fatto molto positivo per il maestro. “Ammiro l’attenzione che rivolge alla cultura intesa non come parola vuota ma come elemento formativo” ha detto Muti “Quindi sono felice che venga. So che la pensa come me. Il problema è che dovrebbe essere circondato da persone che la pensino allo stesso modo”. Il direttore poi lancia una stoccata contro la tv italiana: “Quando vedo certi programmi della tv italiana passo a tv straniere per trovare cose di sostanza, e poi non se ne può più di cuochi e cucina. Il pubblico ormai applaude a comando: questa non è cultura, è narcotizzare la gente che avrebbe invece bisogno di una sferzata di cultura, che è la colonna vertebrale della nostra storia per non perdere l’identità di chi siamo”. Poi rivolge un pensiero ai giovani italiani. Secondo Riccardo Muti, che dal 2004 dirige l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, le ultime generazioni sono più preparate non solo musicalmente, ma lo sono di “motu proprio” e devono combattere contro l’obnubilamento generale. Muti definisce i giovani come la nostra speranza ma devono essere aiutati a essere internazionali. Muti conclude dicendo: “Loro lo vogliono ma l’apparato statale rema contro. Basta pensare al livello culturale di certi politici. Al Senato ho ricordato che le orchestre sono insufficienti, e le centinaia di giovani cge escono dai conservatori spesso non trovano lavoro perché mancano orchestre e teatri”.

Flaminia Bussotti per ''Il Messaggero'' il 19 gennaio 2020. Alla sua ottava tournée in Europa con la Chicago Symphony Orchestra, Riccardo Muti tradisce sul podio l'intesa magica che lo lega alla sua orchestra: una profonda interiorità ed essenzialità del gesto. Il tour lo porta a Napoli domani, poi Firenze e Milano. A Vienna ha diretto anche i Wiener Philharmoniker in un concerto il 14 alla memoria di Mariss Jansons, che quel giorno avrebbe compiuto 77 anni. Al grande direttore lettone e amico, Muti dedica anche l'applauso del Requiem di Verdi con la Cso. «Se ne è andato uno dei più grandi direttori del nostro tempo, il mondo della musica è diventato più piccolo e siamo tutti più poveri», ha detto al pubblico. Nel colloquio Muti irraggia distacco e un'aura velatamente amara e pensosa. Molti ricordi si affollano da un passato «remotissimo».

Questo tour con la Cso sembra un suo itinerario biografico, Napoli, Firenze, Milano.

«Napoli è la città dove sono nato, ho studiato con grandi maestri, ho fatto i primi esperimenti direzionali. Ho una formazione profondamente napoletana sia umanistica che musicale. A Napoli nasce tutto, qui sono nato da madre napoletana, ho studiato e qui sono sepolti i miei genitori. A Firenze il mio primo incarico nel 1968. Fu l'Orchestra del Maggio a volermi dopo un trionfale concerto con Sviatoslav Richter al piano. Sono stati anni straordinari. La prima regia operistica di Ronconi fu qui con Orfeo e Euridice di Gluck, e poi Manzù, Cagli, Vitez, il Guglielmo Tell integrale con l'orchestra che urlava di gioia e il violoncellista Bellucci che alla fine gridò Viva Rossini, viva l'Italia. Sembrano episodi di un passato remotissimo. Ricordo un Nabucco di Ronconi per allora provocatorio che scatenò contestazioni: Ronconi in Arno, tuonò una voce in galleria. A Milano la prima volta fu nel 1970 come direttore ospite. Nel 1986 diventai direttore musicale: quasi 20 anni meravigliosi. Ricordo un Requiem di Verdi nel 1989 poco prima della caduta del Muro eseguito a distanza di 24 ore alla Philharmonie a ovest e la sera dopo al Konzerthaus a est».

In Italia lamenta sempre lo stato della Cultura: lo farà anche stavolta? Vedrà dei politici?

«So che Franceschini verrà a Napoli. Ammiro l'attenzione che rivolge alla cultura intesa non come parola vuota ma come elemento formativo. Quindi sono felice che venga. So che la pensa come me, il problema è che dovrebbe essere circondato da persone che la pensino allo stesso modo. Quando vedo certi programmi della tv italiana passo a tv straniere per trovare cose di sostanza, e poi non se ne può più di cuochi e cucina. Il pubblico ormai applaude a comando: questa non è cultura, è narcotizzare la gente che avrebbe invece bisogno di una sferzata di cultura, che è la colonna vertebrale della nostra storia per non perdere l'identità di chi siamo».

Una statistica Ocse dà i giovani italiani sotto la media: come trova la loro maturità e cultura?

«Ho fondato la Cherubini nel 2004 e trovo le ultime generazioni più preparate non solo musicalmente, ma lo sono di motu proprio, devono combattere contro l'obnubilamento generale. I giovani sono la nostra speranza ma li dobbiamo aiutare a essere internazionali. Loro lo vogliono ma l'apparato statale rema contro. Basta pensare al livello culturale di certi politici Al Senato ho ricordato che le orchestre sono insufficienti, e le centinaia di giovani cge escono dai conservatori spesso non trovano lavoro perché mancano orchestre e teatri».

Lissner a Napoli, Pereira a Firenze, Meyer alla Scala: sintomatico dell'Italia?

«Non discuto la presenza di stranieri, Cimarosa e Paisiello erano famosi a Vienna, io stesso sono a Chicago. Dico con tutto il rispetto per loro, che sarebbe anche opportuno rivolgere lo sguardo anche ai nostri perché c'è una storia dei nostri teatri che appartiene alla storia d'Italia».

A Napoli dirigerà nel 2021 Don Giovanni con la regia di sua figlia Chiara, a Firenze forse Simon Boccanegra nel 2022. Quando farà un regalo ai milanesi e a Meyer e tornerà alla Scala con un'opera?

«Tutto non si può fare, sono sempre direttore e occupato. Queste mie collaborazioni seguono la successione del tour con la Chicago, Napoli, Firenze, Milano. Spero che questo percorso, come nella successione della tournée, succeda parimenti con La Scala e si rifletta nella pratica anche con Milano. Anzi, approfitto per fare gli auguri a Meyer di cui sono amico da anni».

Con la Cso chiude nel 22, e dopo? Nel 21 poi dirigerà ancora il Concerto di Capodanno.

«Il contratto con la Chicago finiva quest'anno, mi hanno chiesto di estenderlo e ho dato due anni. Rimarrò legato ma non voglio avere più impegni di direttore musicale, voglio essere libero. Nel 22 saranno 54 anni sul podio: dopo resterò legato a loro e ai Wiener. Per un italiano è un onore dirigere il Concerto di Capodanno per la sesta volta».

Dall'alto della sua esperienza, quale è oggi il suo sguardo sull'Italia: fiducioso o preoccupato?

«Preoccupatissimo».

Il suo prossimo sogno?

«I sogni sono sempre quelli che non verranno mai esauditi: si ha la fortuna di una vita lunga e una mente chiara ma il mare della musica è talmente vasto che noi siamo solamente una goccia in questa vastità. Non è abbastanza».

·        Richard Wagner.

Come Richard Wagner è finito a Bayreuth (dove è sepolto). Redazione Notizie.it Pubblicato il 30 Novembre 2022

Bayreuth è famosa a tutti per il Festival dedicato interamente a Richard Wagner. Ma come è finito qui il grande compositore tedesco, morto a Venezia nel 1883, ma che nel 1872 si era trasferito nella capitale dell’Alta Franconia, in Baviera, dove è tuttora sepolto?

Claudia Dollinger, guida turistica Bayreuth, spiega: “Tutti lo conoscete perché lui è quello che ha costruito il Castello di Neuschwanstein in Alta Baviera. Ludovico II di Baviera diventò re nel 1806, suo padre morì che lui aveva 18 anni, ed era re e amava la musica di Richard Wagner e voleva che Richard Wagner venisse a Monaco e voleva costruire per lui un teatro dell’Opera a Monaco ma questi progetti fallirono e allora Richard Wagner ebbe l’idea ‘se non posso avere un teatro dell’Opera a Monaco, allora posso avere un teatro dell’Opera vuoto, ovvero il teatro dell’Opera dei Margravi, e questo è il motivo per cui è venuto a Bayreuth”.

La tomba di Wagner, su cui non c’è alcun nome, perché diceva l’autore del Crepuscolo degli Dei “la gente sa chi sono”, si trova nel giardino di “Villa Wahnfried”, dal 1976 sede del Richard Wagner Museum, il cui nome deriva da “Wahn” illusione, follia, e “Fried”, pace, ed è ispirato a una frase del grande musicista che compare sulla facciata della villa.

“Potete vedere l’iscrizione sulla facciata ‘Qui, dove le mie illusioni trovano pace – Wahnfried – così chiamo la mia casa’.

Saprete che Richard Wagner era un uomo che non aveva mai un soldo, o quando li aveva li spendeva. Non aveva mai avuto una casa propria e qui 10 anni prima che morisse ebbe la sua prima casa, questo fu il primo posto dove poté lavorare in pace. E questo ebbe a che fare con Ludovico II, perché lui gli diede i soldi per la casa e Ludovico gli diede inoltre i soldi per costruire la Festspielhaus, ma tutti i soldi che gli diede per la Festspielhaus furono un prestito, che fu restituito dalla famiglia Wagner”, aggiunge Dollinger.

Nella villa, riaperta nel 2015 dopo tre anni di restauro, c’è ancora del mobilio originale, tra cui il pianoforte sopravvissuto ai bombardamenti americani del 1945, immortalato in una foto con un soldato americano intento a suonarlo.

Alla fine le opere di Wagner non si tennero mai al teatro dell’Opera dei Margravi (Patrimonio Unesco dal 2012), gioiello barocco meglio preservato al mondo, ma sempre e solo alla celebre Festspielhaus, situata su una collina della città.

Alberto Mattioli per il Foglio il 9 settembre 2022.

Povero Richard. In questa grande mostra “Richard Wagner und das deutsche Gefühl”, fino a domenica al Deutsches Historisches Museum di Berlino, nessuno dei suoi peccati, nemmeno quelli veniali, gli viene perdonato. E fin dalla prima didascalia, quando fra le molteplici attività del Nostro viene indicata anche quella di “bancarottiere”, che in effetti è una descrizione abbastanza accurata delle sue abitudini finanziarie, almeno fino all’entrata in scena del povero Luigi II (c’è naturalmente anche la lettera con la quale il re ordina di pagare a Herr Wagner la famigerata pensione di quattromila fiorini annui, lo stipendio di un ministro. La burocrazia bavarese non gradì e una volta versò a Cosima la somma tutta in monetine: lei dovette salire con i suoi sacchi di spiccioli su una vettura di piazza).

La vezzosa pantofolina ricamata di Richard è l’emblema della sua passione per le sete e i velluti più fini, altrimenti gli si irritava la pelle, anche con campioni di colore spediti dai sarti fra cui prevalgono il rosa e il rosso, il magenta e il mauve: altro che Timothée Chalamet a Venezia. E poi fatture non onorate dell’architetto e del vinaio, cui sfacciatamente promette di pagare ordinandogli un’altra cantina, e nel 1879 una comanda di tre litri (tre!) di acqua di Colonia, e chiedendo pure lo sconto. C’è il suo “chapeau-claque” e il celebre berretto grigio “alla Dürer”, che ha un significato politico perché lo portavano i volontari nella guerra di Liberazione del 1813, mentre gli esemplari di corpetto e crinolina vengono criticati, ovviamente, in quanto “sessisti”.

Naturalmente, grande risalto alla questione dell’antisemitismo, con tutte le varie edizione dell’ignobile pamphlet Il giudaismo nella musica. Incredibile il disegno di Gottfried Semper per una lampada da sinagoga; a Cosima piace moltissimo e la vorrebbe in casa, ma non vuole che si sappia. Allora incarica Nietzsche di chiederlo a Semper, e voilà il disegno negli archivi di Bayreuth. 

Agghiacciante, però, la pagina del diario in cui la Nasuta scrive che Richard vuole “la completa espulsione degli ebrei” dal territorio del secondo Reich. Il cancelliere del Terzo fa la sua prima visita a Bayreuth da capo del governo venerdì 21 giugno 1933 per i Meistersinger: da locandina, si scopre che gli toccarono un Walther assai gay, il tenore Max Lorenz, e addirittura un Pogner ebreo, il basso Alexander Kipnis. Nel ’40, il Führer spunta a una finestra del Festspielhaus, acclamato dopo la vittoria in Francia, mentre il Fronte dei lavoratori organizza matinée gratuite per reduci e feriti.

Niente sconti, insomma, né per Richard né per i suoi successori, in uno sforzo di obiettività che diventa quasi presa di distanza, in nome di un politicamente corretto retroattivo e forsennato. Ma naturalmente non mancano le delizie. Ecco Wilhelmine Schröder-Devrient, la Callas dell’epoca, che nel ’49 arringa da una finestra gli insorti di Dresda, fra i quali Wagner e Bakunin. Ecco il passaporto svizzero che finalmente svela la vera statura di Richard: un metro, 66 centimetri e mezzo. Ecco il Cola di Rienzi di Engels, il cantopiano dell’Holländer con le annotazioni autografe dell’autore, il diploma di patrono del primo Festival del sultano ottomano Abdülaziz, purtroppo impossibilitato a partecipare in quanto vittima di un attentato. 

A proposito: le sedie originali della Festspielhaus avevano la seduta (volutamente scomoda, così si sta attenti) in paglia di Vienna, non nell’attuale orrido vellutino beige. E poi: bozzetti, figurini, ritratti, lettere, libri, figurine Liebig, attrezzeria varia e uno stilosissimo portaocchiali del solito Ludwig, in avorio con una scena della Götterdämmerung. 

Dopo la pubblicazione, perfino in Italia, di Wagnerismi (Bompiani), 1.173 pagine dove il critico del New Yorker, Alex Ross, fa il catalogo di tutti quelli che RW ha influenzato, ispirato, provocato e sconvolto, questa mostra è l’ennesima conferma che Wagner resta uno dei grandi inventori della modernità, lo si ami o lo si odi (restare indifferenti, come si sa, è impossibile).

Nero, gay e femminista. Wagner visto dai politici. Mattia Rossi il 26 Giugno 2022 su Il Giornale.

Un saggio (mille pagine) di Alex Ross sull'uso strumentale della musica del genio tedesco.

Musica e politica: il tema è antico eppure così d'attualità. Quella sorta di abiura richiesta al maestro scaligero Gergiev dal sindaco di Milano Beppe Sala, non più tardi dello scorso febbraio, non che è l'episodio ultimo in ordine cronologico e che, a ben vedere, conosce radici ben più profonde. A stupire, forse, è che ad avanzare quella richiesta sia stato quell'Occidente che fonda sé stesso sul dialogo e sulla libertà. Ma a ripercorrere quelle trame così fitte e così uguali della storia, ci si accorge che l'intreccio tra musica e politica, tra arte e propaganda, molto spesso si ripete tal quale.

Guardate. Francia, anno 1916, siamo in pieno primo conflitto mondiale: nasce la Ligue nationale pour la défense de la musique française, un nome solenne ed elegante per un sodalizio di compositori e musicisti sorto con lo scopo di «condannare al silenzio la moderna nazione tedesca pangermanista». Lo si legge nello stesso delirante appello fondativo: «Bisogna innanzitutto allontanare da noi per lungo tempo l'esecuzione in pubblico delle opere austro-tedesche contemporanee, non ancora di pubblico dominio, i loro interpreti, Kapellmeister e virtuosi, le loro operette viennesi, le loro pullulanti pellicole cinematografiche, i loro dischi Si tratta, insomma, di vegliare affinché il nemico non passi». Il nemico politico che diventa nemico artistico.

La musica è uno strumento privilegiato, con la sua alterità del linguaggio e le sue liturgie, per essere fidata ancella della politica. Lo sapevano bene nell'Unione Sovietica del Pcus dove vennero affinate infallibili tecniche di controllo e boicottaggio. Basta leggere le memorie di Andrej Gavrilov, pianista perseguitato dal regime rosso con sabotaggi e attentati, per farsi un'idea.

Ma non è solo questo l'utilizzo propagandistico della musica. Il caso di Richard Wagner è emblematico di come la politica, già ben prima di Hitler e della sua nazificazione, abbia sfigurato un assoluto genio e, di fatto, lo abbia ammantato di ideologia immediatamente dopo la sua morte. È la storia ricostruita da Alex Ross, musicista e critico statunitense, in Wagnerismi (Bompiani, pagg. 1184, euro 35). E per farlo, Ross parte proprio dal 1883, anno in cui il compositore rese la vita a Dio a Venezia, ovvero in quel momento individuato come origine di quello che sarà l'uso politico della sua musica: «Il caotico culto postumo che divenne poi noto come wagnerismo non fu certo un fenomeno puramente, e neppure principalmente, musicale. Abbracciava l'intera sfera delle arti: poesia, letteratura, pittura, teatro, danza, architettura, cinema. Irruppe anche nel regno della politica: sia i bolscevichi in Russia sia i nazisti in Germania utilizzarono la musica di Wagner come colonna sonora per i loro tentativi di riplasmare l'umanità». Nel giro di una quindicina d'anni dopo la sua morte, nel 1900, Wagner era diventato una sorta di Leviatano in grado di «rappresentare l'inconscio cultural-politico della modernità».

Certo, la sua declinazione nazista è la più nota - e, qui, nota Ross, «un artista che aveva conseguito il genere di universalità attinta da Eschilo e Shakespeare fu di fatto ridotto a un'atrocità culturale: la musica di sottofondo del genocidio» - ma non fu l'unica (benché ciò sia spesso ignorato): il Wagner teosofico, il Wagner esoterico, il Wagner satanico, il Wagner femminista, il Wagner gay, il Wagner ebreo, il Wagner nero, il Wagner fantascientifico. Ed è, forse, questo, uno dei punti di forza di questo mastodontico libro che - pur nella consapevolezza che non si tratti di una lettura facile di quasi 1.200 pagine - non si limita meritoriamente alla trattazione, reale fin che si vuole, di un Wagner rimodellato a un solo e preciso uso e consumo. Del resto, il contraltare sanguinario del nazismo, il comunismo, nacque proprio affiancando Marx e Wagner: pur avversato dal fondatore del comunismo, quello che Ross definisce il «Wagner socialista» fu ampiamente idolatrato dai rivoluzionari e dal proletariato che vide nel Ring un'opera socialista.

Quando, poi, a occuparsi di Wagner fu George Bernard Shaw e la sua Fabian Society, l'interesse della sinistra si assommò a quello del mondo teosofico e occultista. Addirittura, Aleister Crowley, il padre dell'esoterismo, affermò che Parsifal era stato composto su esortazione dell'occultista tedesco Theodor Reuss, gran maestro dell'Ordo Templi Orientis. E non solo: Ross rivela che il nome di Wagner apparve pure in un bizzarro elenco di membri dell'Ordine accanto a Siddharta, Osiride, Orfeo, Maometto, Merlino, Dante, Goethe e Nietzsche. Insomma, il culto esoterico «non aveva esempio migliore del Mago di Bayreuth».

E ancora. Se sul Wagner antisemita vs il Wagner ebreo la letteratura abbonda, ben più pionieristica è l'esistenza di un «Wagner nero»: «All'inizio del XX secolo, il compositore era divenuto ormai un punto di riferimento della cultura afroamericana» al punto che pure Martin Luther King, in un suo sermone del 1957, arrivò a sostenere che «certe forme di ricezione estetica possono avvicinarsi all'esperienza del divino, per esempio ascoltare un'opera di Wagner o una sinfonia di Beethoven». Stessa insolita scoperta per le varianti femminista e gay benché Wagner sia considerato campione di misoginia e omofobia: se per Joyce «Wagner puzza di sesso», in un questionario contenuto in un manuale del 1908, per autodiagnosticare la propria omosessualità, si chiedeva se ne avesse una «passione particolare».

·        Roberto Benigni.

Roberto Benigni compie 70 anni: quando prese in braccio Berlinguer, lo sketch cult con Raffaella Carrà, 20 (+1) segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 27 Ottobre 2022.

Roberto Benigni, premio Oscar 1999 per il film «La vita è bella», compie oggi 70 anni: lo raccontiamo dalla A alla Z, da come conobbe la moglie Nicoletta Braschi al rapporto con Troisi

A di Asteroide

«Il mio carattere? Strepitoso, dipende dai momenti. Anche se a volte la caratteristica del carattere è un po’ un gioco di parole, allora caratterialmente sono un po’ caratterizzato sui ruoli caratteristici del mio carattere, quindi è una risposta caratteriale alla quale non so rispondere» (da «Benigni sono io» di Alberto Negrin, intervista visibile su Rai Cultura). Il 27 ottobre Roberto Benigni compie 70 anni. In occasione del compleanno dell’attore, regista premio Oscar e genio comico - nato a Manciano di Castiglion Fiorentino, comune che gli ha anche dedicato una statua - abbiamo raccolto una serie di aneddoti e curiosità per raccontarlo, dalla A alla Z. A partire dall’asteroide che porta il suo nome, scoperto nel 1999: 21662 Benigni.

B di Berlinguer

«Io vorrei prenderlo in collo ma lui non si farà prendere, sarebbe il mio sogno prendere in collo Enrico Berlinguer». Alla fine, alla manifestazione della FGCI per la pace organizzata a Roma il 16 giugno 1983, lo prese in braccio.

C di Carrà (Raffaella)

Nel 1991 il comico toscano e Raffaella Carrà sono stati protagonisti di uno sketch entrato nella storia della televisione italiana: non appena entrato in scena, ospite del programma Fantastico, Benigni inizia a rincorrere la conduttrice provando ad alzarle la gonna. Divertita e imbarazzata Raffaella indietreggia ma inciampa, cade e Benigni le si butta addosso.

D di Dante

Dante come il personaggio interpretato da Roberto Benigni in «Johnny Stecchino» - il pacifico autista di scuolabus scambiato per un boss mafioso identico a lui -, ma anche come il Sommo Poeta che il comico toscano ha portato a lungo in scena nelle sue celebri interpretazioni della Divina Commedia (che Benigni sa a memoria).

E di Estero

Roberto Benigni nel corso della sua carriera ha lavorato molto anche all’estero: negli Stati Uniti ha recitato nei film diretti dall'amico Jim Jarmusch «Daunbailò» del 1986 e «Coffee and Cigarettes» del 1987, e nel 1993 ha interpretato Jacques Gambrelli, il figlio dell'ispettore Clouseau, ne «Il figlio della Pantera Rosa».

F di Fellini

Per quello che sarebbe stato il suo ultimo film, «La voce della luna» (1990), Federico Fellini volle Roberto Benigni e Paolo Villaggio per interpretare i protagonisti: «Benigni e Villaggio sono due ricchezze ignorate e trascurate - disse il maestro riminese -. Ignorarne il potenziale mi sembra una delle tante colpe che si possono imputare ai nostri produttori».

G di Giovanni Paolo II

Durante il Festival di Sanremo 1980, di cui era presentatore, Benigni chiamò Giovanni Paolo II con l’appellativo «Wojtilaccio»: «Per il “Wojtylaccio” in televisione mi fecero un processo in Vaticano per vilipendio di un capo di stato straniero e lo persi - ha raccontato nel 2016 alla Festa del Cinema di Roma -. Mi diedero un milione di multa e un anno di galera con la condizionale. Ma quando incontrai il Papa neanche si ricordava di “Wojtylaccio”». L’incontro tra Giovanni Paolo II e Roberto Benigni avvenne in occasione dell’uscita del film «La vita è bella»: «Ero partito da Roma per Los Angeles e ricevetti una chiamata dal Vaticano, perché il Papa voleva vedermi e vedere “La vita è bella” - ha ricordato l’attore -. Presi un aereo e tornai indietro: arrivai in Vaticano, e dentro c’era una parata di suore polacche bellissime, che quando entrò il Papa si buttarono a terra per un inchino, era come una ola bellissima. Vide (il Papa, ndr.) il film in silenzio, si voltò e mi disse “Mi ha fatto piangere”, si commosse moltissimo. Da allora rimanemmo in contatto, mi scrisse una lettera come un padre a un figlio».

H di Honoris Causa

Benigni è stato insignito di diverse lauree Honoris Causa in tutto il mondo. In Italia è stato insignito della Laurea Honoris Causa in Lettere dall’Università di Bologna (2002), della Laurea Honoris Causa in Psicologia all’Università Vita-Salute San Raffaele (2003) e della Laurea Honoris Causa in Filologia Moderna all’Università degli studi di Firenze (2007) e all’Università della Calabria (2012).

I di Inno (del corpo sciolto)

Tra le canzoni più famose di Roberto Benigni c’è sicuramente l’«inno del corpo sciolto», brano satirico cantato per la prima volta nel 1979 durante il programma «L'altra domenica una tantum» (edizione speciale di «L'altra domenica»), ripreso successivamente negli spettacoli teatrali «Tuttobenigni» e nello show tv condotto da Fiorello «Il più grande spettacolo dopo il weekend» (2011).

L di Letterman

Anche Roberto Benigni è stato ospite negli States del celebre late night di David Letterman, più di una volta (il conduttore nel 1986 lo introdusse come «l'uomo più divertente d'Italia»).

M di (Il) Mostro

Uscito nel 1994 «Il mostro» incassò oltre 35 miliardi di lire (circa 18 milioni di euro), risultando campione d'incassi assoluto nella stagione 1994/1995 davanti al disneyano «Il re leone» e al premio Oscar «Forrest Gump». Molte scene del film sono entrate nella memoria collettiva, dalla riunione di condominio al furto al supermercato, dalle lezioni di cinese alla passeggiata di Loris (lo squattrinato disocccupato interpretato da Benigni, sospettato di essere un assassino seriale per via di una serie di equivoci) e della poliziotta Jessica (interpretata da Nicoletta Braschi) con le ginocchia piegate per rendersi invisibili alla vista del portinaio.

N di Nicoletta Braschi

«Voglio dedicare un pensiero a Nicoletta Braschi, qui in sala. Non voglio nemmeno dedicarle questo premio, perché il premio è suo. Nicoletta, conosco una sola maniera di misurare il tempo: con te e senza di te». Sono queste le parole che Roberto Benigni ha dedicato, quando ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera, all’amatissima moglie (attrice in molti suoi film). I due si sono conosciuti nei primi anni Ottanta tramite amici comuni (hanno poi lavorato insieme già in «Tu mi turbi», 1983) e si sono sposati con una cerimonia privata nel convento di clausura delle suore cappuccine di via Pacchioni a Cesena il 26 dicembre 1991.

O di Oscar

«And the Oscar goes to...Roberto!». Anno 1999, la gioia dell’annunciatrice Sophia Loren e l’esuberanza del premiato Roberto Benigni, che si mise a saltare di poltrona in poltrona per raggiungere il palco. Scena immortale.

P di Pinocchio

Oltre a dirigere il suo «Pinocchio» nel 2002 (in cui ha anche interpretato il protagonista), nel 2019 Roberto Benigni ha preso parte all’adattamento della fiaba di Carlo Collodi diretto da Matteo Garrone nel ruolo di Geppetto. Per Benigni Pinocchio «va oltre la classicità, ti piace come il mare, ti ci tuffi dentro e tocca le nostre profondità, è un libro iniziatico dove tutto è metafora, simbolo».

Q di Quanti siete?

«Chi siete? Cosa fate? Cosa portate? Sì, ma quanti siete? Un fiorino!». Scritto, diretto e interpretato da Roberto Benigni e Massimo Troisi nel 1984 «Non ci resta che piangere» è considerato un caposaldo del cinema italiano. E la celebre scena della dogana (appena citata) è stata girata più e più volte perché i due attori non riuscivano a restare seri.

R di Renzo Arbore

Lo scopritore di Roberto Benigni è stato Renzo Arbore, che l’ha voluto con sè nel cast de «L’altra domenica» (1976-1979). Il comico toscano impersonava uno strampalato critico cinematografico con manie di persecuzione. La collaborazione con Arbore è proseguita in due film: «Il pap'occhio» del 1980 e «FF.SS. - Cioè: ...che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?» del 1983.

S di Sanremo

L’ultima volta di Roberto Benigni al Festival di Sanremo risale al 2020: il comico toscano ha interpretato e commentato «il Cantico dei Cantici». Era già stato ospite della kermesse nel 2002 (con il celebre monologo sul Giudizio universale, riletto in chiave politica), nel 2009 (parlò di Veltroni, di Berlusconi e lanciò un appello per i diritti gay) e nel 2011 (entrò all’Ariston in sella ad un cavallo bianco sventolando il tricolore per una lezione di storia dedicata ai 150 anni dell'Unità d'Italia). Nel 1980 invece condusse l’edizione (quella del già citato «Wojtilaccio» e del bacio appassionato con l’attrice Olimpia Carlisi, con lui sul palco).

T di Troisi (Massimo)

Roberto Benigni e Massimo Troisi, che hanno lavorato insieme soltanto in «Non ci resta che piangere», erano legati da una profonda amicizia. In occasione delle prematura scomparsa dell’attore e regista napoletano nel 1994 Benigni gli dedicò una poesia:

«Non so cosa teneva “dint’a capa”,

intelligente, generoso, scaltro,

per lui non vale il detto che è del Papa,

morto un Troisi non se ne fa un altro.

Morto Troisi muore la segreta

arte di quella dolce tarantella,

ciò che Moravia disse del Poeta

io lo ridico per un Pulcinella.

La gioia di bagnarsi in quel diluvio

di “jamm, o’ saccio, ‘naggia, oilloc, azz!”

era come parlare col Vesuvio,

era come ascoltare del buon jazz.

“Non si capisce”, urlavano sicuri,

“questo Troisi se ne resti al Sud!”

Adesso lo capiscono i canguri,

gli Indiani e i miliardari di Holliwood!

Con lui ho capito tutta la bellezza

di Napoli, la gente, il suo destino,

e non m’ha mai parlato della pizza,

e non m’ha mai suonato il mandolino.

O Massimino io ti tengo in serbo

fra ciò che il mondo dona di più caro,

ha fatto più miracoli il tuo verbo

di quello dell’amato San Gennaro».

U di Umbria

Benigni ha girato alcuni suoi film («La vita è bella», «Pinocchio» e «La tigre e la neve») in Umbria, all’interno degli studi cinematografici Umbria Studios, un complesso di fabbriche dismesse situato presso Papigno (frazione di Terni).

V di Vincenzo (Cerami)

Scrittore, drammaturgo e sceneggiatore Vincenzo Cerami, morto nel 2013 a 72 anni, ha iniziato a lavorare con Roberto Benigni - fu Bertolucci a metterli in contatto - ai tempi de «Il piccolo diavolo» (la sua firma sarà poi in tutti i film del comico toscano, da «Johnny Stecchino» a «La tigre e la neve»). Allievo di Pier Paolo Pasolini, di cui fu aiuto regista negli anni Sessanta, nel 1976 scrisse il libro «Un borghese piccolo piccolo», da cui fu tratto uno straordinario adattamento cinematografico diretto da Mario Monicelli con Alberto Sordi. «Aver conosciuto Vincenzo Cerami è stato un regalo che qualcuno mi ha fatto e non so chi sia - ha detto Benigni nel 2013 -. A volte ringraziavo a caso, un regalo grande. Come mi piaceva stare insieme a lui! Gli ho voluto un bene che non c'è verso dirlo. Scrittore, rugbista, sceneggiatore, ballerino di twist imbattibile, poeta. Mi ha insegnato come si fa a far battere il cuore alla gente. Che bellezza essergli stato amico. Che regalo! Grazie Vincenzo, per te il mio più bel sorriso».

Z di Zanicchi

«Gli organizzatori di Sanremo mi hanno fatto una grande scorrettezza: avrei dovuto cantare prima dell'esibizione di Benigni, che ovviamente ha influenzato la giuria popolare per la mia eliminazione». Così nel 2009 Iva Zanicchi commentava - ai microfoni dell'Alfonso Signorini Show su Radio Monte Carlo - la sua eliminazione dal Festival della canzone italiana. Il comico toscano infatti, nel corso del suo monologo, aveva fatto numerose battute sul suo brano in gara («Ti voglio senza amore»). La settimana successiva Benigni si scusò con la cantante: «L’ho perdonato perché la satira si sa com’è e poi lui ha avuto la carineria di chiamarmi e soprattutto chiedere perdono alla mia famiglia e io l’ho apprezzato moltissimo», ha raccontato Zanicchi nel 2020 a Pino Strabioli su Rai Radio2.

·        Robert Byron.

Robert Byron, viaggiatore che smascherò l'Urss e scoprì il Tibet magico. Stenio Solinas il 23 Dicembre 2021 su Il Giornale. Colto e cosmopolita, percorse il Paese comunista e il regno del Dalai Lama. E scelse quest'ultimo. Negli anni Trenta del '900, quando i «pellegrini politici», variopinta confraternita di intellettuali occidentali e borghesi, andavano in Russia per «vedere i bolscevichi», il trentenne Robert Byron (1905-41) decise di fare l'esatto contrario, ovvero vedere il Paese e non la sua ideologica santificazione. Ce l'aveva, Byron, soprattutto con i suoi connazionali abbagliati dall'idea «della pianificazione sociale ed economica» che nel suo farsi inglobava «il culmine della politica costruttiva» e insieme «il paradiso della GIOVENTÙ». Li definiva, senza mezzi termini, «bastardi strapagati, miserabili ipocriti pronti a correre dietro all'idea più balorda» e ironicamente si augurava che alla fine il comunismo di Mosca si insediasse a Londra e ne facesse piazza pulita così come aveva fatto con gli intellettuali di casa propria Era irascibile e rissoso, Byron, ma con cognizione di causa. Il viaggio in Russia da lui compiuto era inserito in un progetto che ne prevedeva un secondo in Tibet, e il perché era abbastanza semplice: tanto nella prima l'influenza spirituale della Rivoluzione industriale aveva raggiunto «la sua sinistra apoteosi», tanto il secondo era «l'unico luogo sulla faccia della terra» dove quell'influenza rimaneva sconosciuta. Erano, insomma, gli estremi opposti «della diversità politica, sociale e culturale» e lo erano anche fisicamente: «La Russia, incolore, è il Paese meno elevato del mondo; il Tibet il più alto e il più colorato. Questa conferma è più che una coincidenza. È una spiegazione». Corollario a tutto questo, c'era ancora un elemento. Se nel Paese dei Soviet era in atto una sfida al sistema capitalistico-liberale, in quello del Dalai Lama la resistenza era passiva, anche perché fra il Tibet e l'Occidente non esistevano relazioni di sorta e quindi «ogni prospettiva storica era superflua». Va detto, infine, che per un inglese quale Byron era, il Tibet restava associato a una pagina poco commendevole dell'imperialismo britannico, una spedizione diplomatico-commerciale, a inizio Novecento, trasformatasi in sanguinosa occupazione manu militari. L'ha raccontata da par suo Peter Fleming in quel classico che è Baionette a Lhasa (Settecolori, 2021) e non ci torneremo su, ma Byron fece quel viaggio appena vent'anni dopo la spedizione comandata dal colonnello Younghusband e si trovò spesso a ripercorrerne il cammino nonché a usufruire degli stessi alloggiamenti militari divenuti sedi commerciali. L'Inghilterra aveva infatti successivamente ritirato le sue truppe, ma non per questo aveva rinunciato all'idea di un tornaconto economico.

Prima la Russia e poi il Tibet è il titolo del libro di Byron che, a trent'anni dalla sua prima pubblicazione in Italia, esce ora per Robin Edizioni (a cura di Salvatore Marano, pagg. 320, euro 16), corredata questa volta dalle foto e dai disegni originali del suo autore, appassionato d'arte e di architettura. Libro composito e libro visivo, ovvero descrittivo, come è ben messo in evidenza nell'introduzione, con una «proliferazione quasi pedantesca del dettaglio» e «una gamma pressoché illimitata dei colori che sembrano sfidare l'immaginazione del lettore».

Fino a Prima la Russia e poi il Tibet, Byron era stato uno scrittore-viaggiatore attratto dal mondo greco-bizantino, su cui aveva scritto due libri di buon successo critico, propedeutici a quello che più tardi, nel 1937, sarebbe stato il suo testo più celebre, La via per l'Oxiana, livre de chevet di Burce Chatwin e uno dei gioielli del travel writing anglosassone. Nel doppio reportage russo-tibetano, il lettore troverà molti degli elementi che rendono la prosa di Byron un classico, dalla capacità descrittiva sopra ricordata, allo humour, dall'uso disinvolto e quasi didascalico del dialogo, all'approfondimento estetico e, come dire, filosofico. Ciò che, soprattutto nella parte russa, è però un unicum è la sua capacità di coordinare le sue osservazioni intorno a un paio di intuizioni di tutto rispetto. La prima riguarda il messianismo russo o, detto in altri termini, il fatto che «tutti i russi sono redentori per vocazione», il che spiega anche la religiosità del comunismo. La seconda ha a che fare con «il dispotismo fondato sullo spionaggio», ovvero «la polizia segreta in qualche modo connaturata alla Nazione Russa», altro elemento che accoppiato al bolscevismo spiega benissimo purghe, processi e delazioni e che, dal bolscevismo disgiunto, resta ancora oggi una costante del sistema di potere russo.

La Russia serve altresì a Byron come un antidoto a eventuali cedimenti occidentali: «L'aspetto piacevole del bolscevismo è che cancella a un tempo lo strato di narcisismo accumulatosi nelle civilizzate forse troppo civilizzate - capitali occidentali, e suscita una fede nuova e combattiva nelle sorti dell'Occidente».

Questo spirito polemico è assente nelle pagine relative al Tibet. È il passaggio radicale «da un mondo noto a uno sconosciuto, il tutto nello spazio di uno sguardo. L'aria risplendeva di una luce nuova, una luminosità liquida, e annunciava scenari senza pari». Qui quel «secondo Medio Evo» paventato in un conflitto con il bolscevismo, rimanda a «uno stadio della nostra vita materiale che abbiamo superato da molti secoli e nel quale tuttavia affondano le radici della nostra tradizione». É il materialismo occidentale quello che Byron vede come una minaccia, «il vuoto spirituale in confronto della pienezza asiatica, mascherato dalla brutale presunzione di una indimostrata superiorità morale».

Byron morì che aveva appena 36 anni, nel 1941, silurato con la nave su cui viaggiava come osservatore per il governo britannico. Studente a Eton e poi a Oxford, faceva parte di quella jeunesse dorée di cui il romanziere Evelin Waugh, che come lui ne fu membro, descriverà miserie e grandezze. Si mischiavano in essa rampolli dell'aristocrazia e della borghesia, degli affari e delle professioni, in un intreccio dove il college prima, l'università dopo, fungevano da lasciapassare e da segnale di riconoscimento. Fin dall'inizio Robert vi occupò un posto di rilievo: era un lettore onnivoro, aveva un gusto spiccato per l'architettura, detestava il formalismo istituzionale di cui il sistema scolastico britannico rappresentava la quintessenza. Alla fine venne espulso. Il suo amore per l'arte bizantina nasceva dal disprezzo per la classicità, il mondo greco come veniva inteso dalla cultura del suo tempo, retaggio di una età vittoriana e da Grand Tour dove le rovine, i marmi, gli archi e le colonne significavano la quintessenza della perfezione. «Quegli inerti corpi di pietra che hanno reso ogni museo d'Europa intollerabile a qualsiasi persona dotata di sensibilità artistica» era il suo giudizio. Lettore di Spengler, aveva trovato nel Tramonto dell'Occidente la sua Bibbia, dove veniva stigmatizzata l'idea di una preminenza dell'arte classica occidentale rispetto ad altre culture. Trovava delle «impressionanti somiglianze» fra l'architettura bizantina dei conventi del monte Athos e quella del Potala, il palazzo tibetano del Dalai Lama, il legame fra paesaggio e costruzione, l'invenzione di uno stile nella loro architettura che nasceva dal modellare i temperamenti dei suoi abitatori al panorama grandioso che li circondava. Per essere moderni- bisognava rifarsi al passato, ma guardando a Oriente.

Curiosamente, non sarà però la civiltà occidentale a distruggere quel suo Tibet e il suo splendido isolamento. Sarà la Cina con il suo materialismo orientale, l'altra faccia di un'identica civiltà delle macchine. Stenio Solinas

·        Roberto Giacobbo.

Roberto Giacobbo: concorrente di Mike Bongiorno, guest star in un video di Caparezza e altre 5 curiosità su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 19 Marzo 2022.

Autore di un programma per ragazzi

«Io non sono né un esperto, né un ricercatore, sono un trasportatore: prendo da chi sa e porto a chi non sa». Così descriveva al Corriere il suo lavoro Roberto Giacobbo: il divulgatore scientifico, nato il 12 ottobre 1961 a Roma, sarà protagonista sabato 19 marzo in prima serata su Italia 1 di Freedom presenta: Misteri irrisolti, il primo di una serie di appuntamenti tematici dedicati ai viaggi più belli di Freedom - Oltre il confine (la cui ultima puntata di stagione andrà in onda lunedì 21 marzo). Laureato in Economia e Commercio, noto al grande pubblico grazie alla trasmissione Voyager - Ai confini della conoscenza (Rai 2, 2003-2018) ed ex vicedirettore di Rai 2 (2009-2018), ha iniziato la sua carriera come autore radiofonico nel 1984 per Radio Dimensione Suono (RDS). Forse non tutti sanno che, dopo aver debuttato in televisione su Rai 1 all’inizio degli anni Novanta (come autore per Ciao Italia e Ciao Italia Estate), è stato nella stagione 1992/1993 autore del programma per ragazzi Big!, condotto da Carlo Conti.

Al Maurizio Costanzo Show

Il passaggio davanti alla telecamera è avvenuto nel 1999 in seguito ad un suo intervento al Maurizio Costanzo Show (già autore del programma La macchina del tempo, condotto da Alessandro Cecchi Paone, era stato invitato per presentare un suo libro dedicato a Cheope scritto con Riccardo Luna): «Come da accordi, mi aspettavo di avere solo quattro minuti a disposizione - ha raccontato a Vero Tv - Invece, Maurizio mi ha invitato a proseguire. Qualche giorno dopo, i responsabili di TeleMontecarlo, mi hanno proposto non solo di scrivere ma anche di condurre Stargate – Linea di confine. Il mio intervento da Costanzo li aveva colpiti».

Concorrente di telequiz

Ha svelato a Tv Sorrisi & Canzoni nel 2016 di essere stato nel 1982 tra i concorrenti del telequiz Bis, condotto da Mike Bongiorno. Riuscì anche a vincere una discreta sommetta: «Avevo partecipato come concorrente vincendo 13 milioni di lire in buoni spesa. Quelli per i beni alimentari li avevo dati tutti a mamma. Gli altri li avevo utilizzati e in parte barattati con altre cose, tra cui una moto usata».

Le apparizioni nei videoclip

È apparso come guest star nel videoclip del brano di Caparezza «La fine di Gaia» ma non era lui nel video degli 883 «Tieni il tempo», come spesso viene riportato. Ha raccontato a Il Mattino: «Mi diverte molto che questa fake news continui a circolare, nel video degli 883 c'è una persona, ma non sono io. Però l'ho fatto un video musicale, come musicale è la terra di Campania e Napoli, e a breve ci sarà una puntata di Freedom che parlerà di qualcosa di speciale legato a Napoli. Il video che ho fatto è stato insieme a Caparezza, era intitolato "La fine di Gaia", era un video sulla fine del mondo, ci siamo divertiti molto ed è stata un’esperienza, ma quella, non quella degli 883».

Passeggero misterioso

Nel 2016 a Pechino Express è apparso in veste di «passeggero misterioso» per sostituire in una puntata Costantino della Gherardesca.

Professore all’università

Ha insegnato all’Università di Ferrara Teoria e tecnica dei nuovi media nel corso di laurea specialistica in Progettazione e gestione degli eventi e dei percorsi culturali (Facoltà di Lettere e Filosofia). Per l’attività svolta in qualità di conduttore televisivo e di docente nel 2018 gli è stato conferito dal rettore Giorgio Zauli un attestato di benemerenza.

Disavventure durante le riprese

Nei 15 anni di Voyager non è mancata qualche disavventura durante le riprese: «Una volta, mentre risalivo dalla grotta dell’Uomo di Altamura, un sostegno cedette e io mi ruppi i legamenti di una spalla - ha raccontato nel 2017 al Corriere - E ancora: stavamo esplorando il pozzo di san Patrizio a Orvieto quando ci fu una delle scosse più forti dell’ultimo terremoto tra Marche e Umbria. Eravamo sottoterra mentre tutto tremava. E però qui si vede la televisione che ha rispetto delle persone. Avrei potuto spettacolarizzare il tutto. Puntare sulla catastrofe in presa diretta. Ma io non lo faccio. Io ho rispetto per il pubblico che mi segue sin dal 2003»

La parodia di Crozza

Il comico Maurizio Crozza nel 2013 gli ha dedicato una parodia: ha trasformato il suo «Voyager» in «Kazzenger».

La moglie e le tre figlie

Per quanto riguarda la vita privata Roberto Giacobbo è felicemente sposato con Irene Bellini (anche lei autrice televisiva), conosciuta nel 1988 ad una cena organizzata da amici comuni: «Era una di quelle cene in cui ognuno porta qualcosa da mangiare o da bere. Lei ci raggiunse dopo e andai io ad aprire la porta. Ricordo perfettamente il primo fotogramma di quando la vidi». Dall’unione sono nate tre figlie: Angelica, Giovanna e Margherita.

Quando ha temuto per la sua vita

In un’intervista rilasciata nel 2019 a Verissimo Roberto Giacobbo ha raccontato di aver avuto paura di morire anni fa, durante un volo Boston-Roma: «Era un grosso aereo di linea, eravamo ancora in fase di decollo, ma un motore ha deciso di abbandonare il mezzo. D’istinto ho acceso il cellulare e ho mandato un messaggio a mia moglie. Ero certo che non sarei tornato a casa».

L’inferno del Covid

Nel 2020 il divulgatore scientifico ha attraversato l’inferno per colpa del Covid: «Sono stato in rianimazione - ha rivelato a Verissimo -. Avevo confuso i sintomi e sono arrivato all’ultimo stadio. Ho affidato il mio corpo completamente nelle mani dei medici. Potevo muovere solo gli occhi. Ero a un passo dalla fine». Il conduttore è rimasto ricoverato in ospedale per quaranta giorni («Mi hanno tolto tutto, anche la fede nuziale. Ho pensato che sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbero avuto le mie figlie e mia moglie. Non avrebbero potuto piangere neanche il corpo»). Poi - fortunatamente - è guarito: «Adesso tutto è più bello, sono felice. Ogni respiro è più bello».

·        Roberto Saviano.

Il Bestiario, l'Insultino. L’Insultino è un leggendario scrittore che fa ridere definire scrittore e dall’insulto facile. Giovanni Zola su Il Giornale il 24 Novembre 2022

L’Insultino è un leggendario scrittore che fa ridere definire scrittore e dall’insulto facile.

L’insultino è un mitico essere che si sente in diritto di insultare gli avversari politici definendoli “bastardi” e pretendendo al tempo stesso di passarla liscia, come se una volta sposati potessimo insultare la suocera credendo di non finire per direttissima a dormire in automobile.

Ma andiamo per ordine. La leggenda narra che Aristofane, il famoso commediografo greco del 400 a.C., si rifiutò di insegnare la tecnica della scrittura satirica all’Insultino essendo quest’ultimo assolutamente privo di qualsiasi senso dell’ironia. L’Insultino ad esempio faceva con le dita il virgolettato di alcune parole assolutamente a caso e senza motivo. Ad esempio spesso diceva “grazie” virgolettando, cosa che mandava in bestia il buon Aristofane che per questo motivo gli tagliò i capelli a zero, da cui la pelata attuale, e lo caccio da tutte le scuole del regno antico.

Poste tali premesse, si comprende meglio l’incapacità del senso della misura dell’Insultino che sostiene che dare del “bastardo” sia solo un modo di fare “dura critica”. L’Insultino mal sopporta che a decidere se sia una “dura critica” o si tratti diffamazione sia un magistrato, comportandosi in questo modo proprio come i protagonisti di “Gomorra” che si sentono al di sopra della legge. Parliamo della serie televisiva “Gomorra”, tratta per ironia della sorte, proprio dal libro dell’Insultino.

L’Insultino dunque si sente sotto processo, secondo lui solo per aver detto una parolina, un rafforzativo, fingendo di dimenticare che “bastardo” significa nato al di fuori del matrimonio o da padre illegittimo o sconosciuto, insomma fuor di metafora, figlio di buona donna. Appellativo che un recente sondaggio ci rivela che raramente viene accolto come un complimento anche se rivolto ai diretti interessati.

D’altra parte l’Insultino ritiene che più sia importante l’avversario maggiore possa essere la critica, ovvero l’insulto. Ora che il suo nemico politico numero uno è primo ministro non vogliamo sapere quale bestemmia l’Insultino possa pronunciare perché vogliamo evitare di evocare potentissime forze del male provenienti dal profondo della terra.

E dire che l’Insultino ci aveva illuso facendoci credere che se coloro che ama insultare fossero saliti al potere se ne sarebbe andato per sempre dal nostro paese. Non mantenere le promesse è degno di chi è nato fuori dal matrimonio.

Articolo di “The Guardian”*, pubblicato da “La Stampa” il 25 novembre 2022.

Le draconiane leggi italiane sulla diffamazione sono state sfruttate a lungo dai potenti per intimidire e mettere a tacere le voci spiacevoli. Ogni anno si avviano migliaia di procedimenti giudiziari contro i giornalisti investigativi, e la Corte costituzionale del Paese ha esortato a definire e varare la tanto attesa riforma a tutela della libertà di espressione e dell'indipendenza della stampa. 

L'ignobile aggressività ai danni di Roberto Saviano, uno degli scrittori italiani più famosi, illustra chiaramente perché tale riforma sia indispensabile prima possibile. Saviano è stato appena processato e rischia una condanna al carcere per l'accusa di diffamazione penale su querela del primo ministro italiano, Giorgia Meloni.

Il caso parte dai commenti fatti due anni fa durante uno spettacolo televisivo, quando Saviano condannò la campagna di Meloni come leader dell'opposizione per impedire che le navi delle Ong soccorressero i rifugiati nel Mediterraneo. 

Reagendo emotivamente alla visione di un filmato nel quale una madre piangeva il figlioletto morto quando il gommone dei migranti si è ribaltato, Saviano ha definito «bastardi» Meloni e il suo alleato della destra radicale Matteo Salvini. Parallelamente, Saviano deve affrontare altri due distinti processi per diffamazione intentati da Salvini, oggi vice primo ministro, e da Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura, che lo vedranno comparire in tribunale nei primi mesi dell'anno prossimo.

La settimana scorsa, Salvini ha chiesto di comparire come querelante nella causa intentata da Meloni, il cui processo dovrebbe riprendere il mese prossimo.

Lo spettacolo dei politici italiani più potenti che si coalizzano in questo modo per intimidire uno scrittore è indegno di uno stato membro fondatore dell'Unione europea. 

Come ha sottolineato la Corte europea dei diritti umani, i politici dovrebbero essere tenuti a sopportare livelli più alti di critiche e di inchiesta, considerata la loro posizione pubblica. Il diritto di esprimere a voce alta il dissenso su questioni di pubblico interesse è una parte essenziale di qualsiasi democrazia ben funzionante. 

Il legale di Meloni ha lasciato intendere che la causa da lei intentata è giustificata dal «disprezzo manifestato» da Saviano durante il programma televisivo. Chiunque conosca la retorica incendiaria di Meloni quando parla di migranti e di altri temi resterà sicuramente sorpreso da tale manifestazione di sensibilità da parte sua.

Se si permetterà che continuino tali dichiarazioni vessatorie, il loro impatto alimenterà sempre più un clima di paura e di autocensura tra i redattori e i giornalisti italiani. In una dichiarazione di supporto a Saviano, il presidente del Pen International, Burhan Sonmez, ha osservato che «le cause penali per diffamazione logorano le loro vittime, li defraudano del loro tempo, dei loro soldi e della loro energia vitale». 

Le minacce di morte seguite alla pubblicazione nel 2006 del suo libro Gomorra, la denuncia di Saviano della mafia napoletana, lo hanno costretto a una vita in clandestinità e a essere sempre scortato da agenti della polizia. In tale contesto, è inammissibile che per motivi così pretestuosi i politici italiani ai vertici lo prendano serenamente di mira con azioni legali di alto profilo. 

Sembra che il team di legali di Meloni possa ancora decidere di ritirare le accuse prima che il processo a Saviano riprenda a dicembre. Una decisione in questo senso era stata anticipata e divulgata dopo la sua nomina a primo ministro in autunno. È deprecabile che, nonostante questo, le udienze della settimana scorsa siano andate avanti.

Meloni e i suoi alleati tendono ad alzare gli occhi al cielo quando sentono i critici liberali ammonire che l'Italia ha preso una brutta svolta autoritaria. La caccia vendicativa nei confronti di un giornalista illustre che ha avuto la temerarietà di dare loro dei «bastardi» sembra invece supportare proprio questa tesi. Meloni, Salvini e Sangiuliano dovrebbero richiamare indietro i loro cani da caccia e lasciare che Saviano lavori in pace. 

*Traduzione di Anna Bissanti

La stampa estera sta con Saviano? Una bufala. Sul “Guardian” lo ha difeso il suo amico di penna. Luca Maurelli su Il Secolo d’Italia il 25 novembre 2022. 

La grande stampa internazionale che denuncia l’aggressione ai danni di Roberto Saviano? Ha un nome e un cognome: il suo amico del cuore, un italiano che scrive libri con la prefazione dello scrittore di “Gomorra”, Lorenzo Tondo, che stende articoli a doppia firma con lui, che lancia campagne social con hashtag eloquenti, tipo #Savianononsitocca.”Il Guardian ha dedicato tre articoli agli attacchi contro di me…” aveva detto due giorni fa Saviano al Domani. Sì, il “Guardian“, ma nella persona del suo amico e fedelissimo collega e compagno di penna, Lorenzo Tondo. Una strana coincidenza.

Saviano a processo, il “Guardian” lo difende: come mai?

Più volte, negli ultimi giorni, nel suo piagnisteo contro il processo a suo carico per aver definito bastardi Giorgia Meloni e Matteo Salvini, Saviano aveva parlato della stampa straniera che si sta occupando della sua “persecuzione politica”, facendo riferimento, in particolare, a un durissimo articolo del tabloid inglese “The Guardian”, oggi riproposto, in italiano, da un altro house organ dello scrittore, La Stampa di Torino. Ebbene, quell’articolo obiettivo e imparziale in cui si parla di Saviano come di una vittima del liberticidio della stampa e della libera informazione da parte del regime di centrodestra, firmato dall’amico fidato di Robertino, Lorenzo Tondo, corrispondente del “Guardian” e autore di libri e articoli a quattro mani con il “gomorroide” sia in libreria – con tema i migranti, of course – sia sull’inserto dello stesso giornale, porta una tesi a senso unico e senza diritto di replica. Curioso, eh?

Le ridicole accuse sull’aggressione al giornalismo “investigativo”

Eccola, la grande stampa libera, bellezza, quella che si occupa autorevolmente del caso Saviano, e archivia quelle offese a Meloni e Salvini come opinioni quasi inevitabili a causa delle posizioni del governo sui migranti, utilizzando una persona vicinissima al protagonista della querelle giudiziaria, con argomenti risibili. La linea dell’offendere un politico di destra, non è reato, in sintesi. Bene, tutto possibile, ma spacciare quella arringa difensiva dell’amico di Saviano come l’indignazione dei giornali stranieri, è a dir poco ridicolo. Come del resto sono ridicole le accuse di Tondo contenute nell’articolo.

L’analisi “obiettiva” della situazione italiana e la reazione “emotiva” dello scrittore

Vediamo alcuni stralci, obiettivi come un coro “Fozza fozza Milan” di Abatantuono tifoso a San Siro: “Ogni anno si avviano migliaia di procedimenti giudiziari contro i giornalisti investigativi, e la Corte costituzionale del Paese ha esortato a definire e varare la tanto attesa riforma a tutela della libertà di espressione e dell’indipendenza della stampa. L’ignobile aggressività ai danni di Roberto Saviano, uno degli scrittori italiani più famosi, illustra chiaramente perché tale riforma sia indispensabile prima possibile…”.

Un incipit che farebbe intendere che Saviano sia stato querelato per le sue “inchieste”, per il suo giornalismo investigativo condotto contro i potenti, i nuovi governanti dell’Italia. Invece, l’unica indagine che ha fatto lo scrittore di Gomorra è stata per la ricerca della parola peggiore, poi risoltasi nella scelta di un simpatico epiteto: bastardi. Quindi, non si capisce consa centri la premessa sul Saviano detective, con il racconto del Saviano sboccato: ” Il caso parte dai commenti fatti due anni fa durante uno spettacolo televisivo, quando Saviano condannò la campagna di Meloni come leader dell’opposizione per impedire che le navi delle Ong soccorressero i rifugiati nel Mediterraneo. Reagendo emotivamente alla visione di un filmato nel quale una madre piangeva il figlioletto morto quando il gommone dei migranti si è ribaltato, Saviano ha definito bastardi Meloni e il suo alleato della destra radicale Matteo Salvini…”.

La libertà di stampa in pericolo… da meno due mesi però

Altro giro, altra investigazione tirata in ballo da Tondo: quella che ha portato a processo Saviano contro il ministro Sangiuliano non per uno scoop sul malaffare di qualche tipo, ma sempre per offese personali su cui, ovviamente, deciderà un giudice.

Ma per il corrispondente del “Guardian” amico di Saviano, in Italia c’è in gioco la libertà di stampa, non di insulto. “Lo spettacolo dei politici italiani più potenti che si coalizzano in questo modo per intimidire uno scrittore è indegno di uno stato membro fondatore dell’Unione europea. Come ha sottolineato la Corte europea dei diritti umani, i politici dovrebbero essere tenuti a sopportare livelli più alti di critiche e di inchiesta, considerata la loro posizione pubblica….”. Appunto. Critica e inchiesta.

Tondo poi ricorda le minacce di morte seguite alla pubblicazione nel 2006 del suo libro Gomorra, la denuncia di Saviano della mafia napoletana, “che lo ha costretto a una vita in clandestinità e a essere sempre scortato da agenti della polizia”.

Appunto: la mafia. Che c’entra il governo? C’entra, secondo “The Guardian“, che parla di ” caccia vendicativa nei confronti di un giornalista illustre che ha avuto la temerarietà di dare loro dei bastardi…”. Temerarietà, coraggio. What else?

Otto e mezzo, Sallusti su Meloni e la stampa: quando le querele erano di altri premier... Il Tempo il 25 novembre 2022

A Otto e mezzo si parla del rapporto tra potere e informazione con Lilli Gruber che spiega come quello del giornalismo politico è uno "sport di contatto". Il direttore di Domani, Stefano Feltri, critica la scelta della presidente del Consiglio di querelare il suo quotidiano per un articolo di Emiliano Fittipaldi riguardante una segnalazione da parte di Giorgia Meloni al commissario Covid Domenico Arcuri sulla disponibilità di un imprenditore a fornire mascherine durante la pandemia. "Ci ha querelato perché abbiamo scritto che è stata una raccomandazione", spiega il giornalista secondo cui il caso è preoccupante perché ora la leader di FdI è a Palazzo Chigi. "Quando diventa più potente decide di andare fino in fondo", dice Feltri. A commentare la vicenda c'è anche Alessandro Sallusti, direttore di Libero. "Se Meloni mi chiedesse un consiglio le chiedei di ritirare la querela, che è stata fatta quando lei non era presidente del Consiglio". 

"Io sono stato querelato da diversi primi ministri di sinistra, non mi sono mai lamentato e non ho mai frignato, ma non è una bella prassi ", spiega Sallusti. Tuttavia, se la "querelante è Meloni si apre un caso, quando i querelanti erano altri..." afferma il giornalista che ricorda quando è stato arrestato per l'omesso controllo di un articolo "e non mi è sembrato che lo sdegno della categoria fosse arrivato a questi livelli".

All'epoca Sallusti ricevette la grazia dall'allora capo dello Stato Giorgio Napolitano. "Dopo quaranta giorni di carcere..." commenta il direttore di Libero con Gruber che lo corregge: "Non proprio di carcere". "Agli arresti domiciliari, una passeggiata... - replica col sorriso Sallusti - Se mettono Feltri ai domiciliari l'Italia scenderebbe in piazza, e lo farei anch'io" conclude il direttore. 

Flavia Amabile per "la Stampa" il 24 novembre 2022.  

Roberto Saviano rinuncia alla parola. Ha annullato tre incontri , due a Reggio Emilia e uno a Roma, spiegando in una lunga lettera i motivi della sua decisione. Una forma di protesta, quasi un autoimbavagliamento dello scrittore dopo l'apertura del processo per diffamazione per aver esclamato «Bastardi, come avete potuto» riferendosi a Giorgia Meloni e Matteo Salvini durante una puntata di Piazzapulita del 2020. Una scelta quasi necessaria dopo aver sottolineato due giorni fa le parole usate da The Guardian, che in un editoriale definiva «bullismo» l'abuso della legge italiana sulla diffamazione «per intimidire, silenziare il dissenso».

«Resisti», gli chiede il sindaco di Reggio Emilia, Luca Vecchi. Non bisogna sottovalutare il suo monito, è il messaggio che arriva dal presidente dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini. 

Roberto Saviano per ora preferisce che sia il silenzio a parlare per lui. «Scrivo questa lettera con molta fatica e gran dispiacere», inizia così il testo della lettera inviata alla Fondazione "I Teatri" di Reggio Emilia, per spiegare il motivo del rinvio della sua partecipazione agli incontri del 27 novembre nell'ambito di "Finalmente Domenica", e il 28 con gli studenti delle scuole, per presentare il suo libro su Falcone. «Per me questa è una fase difficile, portato a processo da tre ministri di questo governo: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano». 

In particolare, il ministro della Cultura «mi ha poi minacciato nuovamente, di altro processo, per le critiche rivolte recentemente a lui; Salvini invece si è costituito, a sostegno di Giorgia Meloni, parte civile nel processo a mio carico.

Ben cinque le azioni giudiziarie pendenti da parte di ministri di questo governo. Chiunque, al mio posto, ne sarebbe paralizzato». L'attacco - aggiunge Saviano - è organizzato, congiunto. «I giornali di estrema destra, in alcuni casi pagati direttamente da esponenti della maggioranza parlamentare, stanno facendo uno squadrismo quotidiano» e - denuncia lo scrittore - «chi dovrebbe difendere spazi di libertà e democrazia è impegnato a nascondere le macerie di un percorso politico, culturale e intellettuale che non ha saputo creare ponti, ma solo disgregazione». 

Da un lato «c'è un comportamento feroce, di diffamazione, di isolamento, dall'altro prudenza, distinguo, precisazioni, paura, silenzio per convenienza. Questo genera solitudine. Per fortuna so che non sono solo: sento la solidarietà di chi mi legge, di chi sostiene le idee che esprimo e di alcuni dei miei colleghi, i più coraggiosi (pochi, tra gli scrittori, lo sono). La sento e ne sono preoccupato, perché temo seriamente che chi mi è vicino sia oggetto di vendette trasversali. Non voglio certo votarmi alla solitudine, ma sento di dover proteggere chi non ha scelto il mio percorso, ma desidera starmi accanto».

Sono in tanti a rassicurare Saviano, non è solo. Oltre a esprimere la solidarietà di tutta la comunità emiliano -romagnola, Stefano Bonaccini avverte che il gesto di Saviano «è un monito che non può essere sottovalutato». E invita lo scrittore ad andare avanti comunque. «Abbiamo bisogno della sua voce e della sua testimonianza, per un impegno che deve essere anche di tutti noi». 

Solidarietà e vicinanza anche dal sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi. Al Teatro Valli della città, Saviano era atteso per presentare il suo libro su Giovanni Falcone agli studenti. «Caro Roberto, non sei solo», assicura il sindaco. «La città che ti ha conferito la cittadinanza onoraria è al fianco di chi si impegna in prima persona contro la criminalità organizzata, per la legalità e la sicurezza. Qui stiamo e qui ci troverai, sempre».

La speranza del sindaco e di tutta la comunità è che lo scrittore presto cambi idea. La stessa speranza è stata espressa da Paolo Cantù, direttore della Fondazione "I Teatri" di Reggio Emilia «Lo avevamo invitato a parlare e discutere di quella memoria che, nel caso di Giovanni Falcone, vorremmo senza indugio condivisa e pubblica. Ci dispiace che l'attualità politica abbia preso il sopravvento e stiamo già cercando una data alternativa, il prima possibile, per riuscire ad avere Roberto Saviano con noi, per continuare ad esercitare fino in fondo la nostra funzione di spazio e presidio pubblico di pensiero e dialogo». Annullato anche l'incontro a dicembre a Roma al Festival Più libri, più liberi con Michela Murgia e Chiara Valerio dal titolo «Cremini e altre cose nere. Un viaggio nei registri simbolici nei quali siamo cresciuti».

E se l'Isis, Boko Haram e i nazisti dell'Illinois aspettassero Saviano a teatro? L’autore di Gomorra rinuncia a due incontri a Reggio Emilia e dichiara di non andare in pubblico perché teme per la sua incolumità. Un timore un tantinello eccessivo (specie da uno che querela ogni cosa in movimento...)

Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 26 novembre 2022

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Immaginatevi, una sera di novembre a Reggio Emilia. Una sera umida, tetra e patibolare come lo sguardo dell'eroe. Ecco, davanti ai cancelli del Teatro Valle, affollarsi nell'ordine: frange sparse del Pkk e dell'Isis, superstiti del battaglione Azov con bazooka sfuggiti a Putin, miliziani nigeriani di Boko Haram, un nostalgico anni 70 delle Br e un pugno di feroci nazisti dell'Illinois. Tutti lì spazientiti a sbirciare l'orologio. Scusate, ma cosa fate qui in fila? «Aspettiamo Roberto Saviano», rispondono sbuffando. 

Ma guardate che Saviano non viene. «Come non viene? Ma se abbiamo comprato il biglietto? Questo non è corretto...», urla un signore mascherato in corsetto antiproiettile. «Ma è sicuro che non viene?», insiste educatamente sparando una raffica di kalashnikov. Ma sì che non viene. «E perché non viene?». Saviano non viene perché dice che «non ha scudi». «E che minchia significa, non ha scudi?», incalzano gli astanti caricando un mortaio. Boh. Non so. In realtà, nessuno ha capito bene. I terroristi chiedono spiegazioni al bigliettaio. S' incazzano tutti.  Uno cerca di ordinare un missile dalla Cecenia.

Un altro, a sfregio, vuole piazzare del tritolo sotto il teatro. Un altro ancora, dell'Isis, fa un gesto di stizza inconsulto e, per sbaglio, stacca la linguetta di una delle granate sulla cintura. Ed è un'esplosione di raro scontento. Che - diciamoci la verità - è sempre meglio dell'«esplosione d'odio» che sta accompagnando da una settimanella a questa parte ogni atto, pensiero, opera e, soprattutto, omissione di Roberto Saviano. Ecco.

Immaginatevi questa scena surreale e pensate allo scrittore che ha appena annunciato, appunto, di disdettare gli incontri col pubblico di domenica 27 e lunedì 28 novembre a Reggio Emilia. Pensate, in particolar modo, ai motivi che l'hanno spinto a un gesto così ineducato. «Sono a processo con tre ministri di questo governo e percepisco odio, non voglio esporre chi mi ospita a questo clima», annuncia lui. E verga di suo pugno uno sfogo che è un grido di dolore verso i suoi fan, che di solito si avvicinano per toccarlo, stringergli la mano, strappargli un autografo. Ricordiamo l'antefatto.

Saviano, a Piazzapulita su La7 aveva dato dei «bastardi!» a Meloni e Salvini. Giorgia - che allora non era a Palazzo Chigi ma all'opposizione- l'aveva querelato. E Saviano, invece di scusarsi perla cazzata, con un formidabile senso del martirio ha girato la situazione a suo vantaggio; ha convocato conferenze stampa per informare che essendo scrittore ha licenza poetica di insultare chicchessia, basandosi sui reati d'opinione (un arzigogolo in punta di diritto che temo avrà vita breve); ha assemblato il suo commando situazionista capitanato da Michela Murgia, e ho detto tutto.

Come se non bastasse, ecco l'ennesimo colpo di teatro, una fascinosa mistura di vittimismo eroico: «Chiunque, al mio posto, ne sarebbe paralizzato». Chiunque. «I giornali di estrema destra, in alcuni casi pagati direttamente da esponenti della maggioranza parlamentare, stanno facendo uno squadrismo quotidiano: io sono sulle loro prime pagine ogni giorno, attaccato nella maniera più bassa e vile, senza che io sia davvero schermato da quella che dovrebbe invece essere una opinione pubblica "amica"». Considerando che, a cominciare dall'ascoltatissima tribuna di Che tempo che fa, Saviano attira sudi sé l'attenzione del mondo; be', la sua capacità di alterare la realtà qui travalica spiazzamento, indignazione e rabbia, e arriva quasi all'ammirazione.

Davvero. Quest' uomo è un genio.

Lo dico da «squadrista quotidiano di giornale di estrema destra». Saviano in uno spettacolare cortocircuito è in grado di lanciare strali verso la libera stampa che resoconta l'accaduto; ma, nel contempo, lamenta che la stessa stampa libera non gli faccia da sponda. Si tratterebbe di «silenzio per convenienza».

E, nella lettera pubblicata sul Corriere della sera, arriva perfino a definire coraggiosi quelli che lo sostengono, perché potrebbero essere vittime di «vendette trasversali». E quindi ecco che si immola per «proteggere chi non ha scelto il mio percorso ma desidera starmi accanto». Per questa nobile e drammatica ragione, per non mettere in pericolo degl'innocenti, Saviano ha annunciato l'annullamento degli incontri. «Settimane di attacchi continui, per timore di esporvi, di esporre chi mi ospita: responsabilità, questa, che sento gravosissima», ha detto, evocando un'«esposizione fisica» da evitare, perché «l'odio è tangibile e non esiste alcuno scudo». L'odio.

Nonostante abbia querelato chiunque solo provasse a fargli un buffetto (da Gasparri alla nipote di Benedetto Croce, da Genny Sangiuliano al giornalista casertano Di Meo), alla faccia della libertà d'espressione da lui invocata, Roberto rivela la sua essenza. Deve sacrificarsi, scivolare nel cono d'ombra per evitare di mettere in pericolo chi ama. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Un incrocio fra Spiderman e Salman Rushdie. Certo, poi devi spiegarlo - kalashnikov o no - a chi è lì in coda ad attenderne l'ombra nella notte...

Strumentalizza il processo per aver dato della «bastarda» a Meloni, mentre invece è un'occasione per lui. L'editoriale di Davide Vecchi.  Davide Vecchi su Il Tempo il 27 novembre 2022

Roberto Saviano è stato rinviato a giudizio a seguito di una querela presentata da Giorgia Meloni che si è ritenuta diffamata dall'epiteto «bastardi» (riferito a lei e a Matteo Salvini) scandito dallo scrittore a fine 2020 nel corso di una puntata di Piazza Pulita. La prima udienza del processo si è tenuta il 15 novembre e da allora (quindi da dodici giorni) Saviano ha messo in atto una campagna aggressiva nei confronti dell'attuale presidente del Consiglio affinché ritiri la querela spacciando lui per vittima e lei per carnefice quando in realtà è l'esatto opposto. Almeno così dice la legge. Ma si sa, i paladini della giustizia tendono a rispettarla (e invocarla) quando si applica agli avversari, mentre se ne dimenticano volentieri quando sfiora loro (e gli amici).

Ora, ciascuno è libero di scegliere come essere uomo e come essere giornalista. Ma io da uomo e da giornalista provo molta tristezza e profonda pena per Saviano. Da uomo provo molta tristezza nel vedere un quarantenne spaventato e incapace di affrontare le conseguenze delle proprie azioni, da giornalista provo profonda pena nell'assistere a questa deprimente sceneggiata piagnucolante per una querela: dovrebbe essere felice e orgoglioso di poter dimostrare in un'aula di tribunale la veridicità delle sue opinioni.

Questo comportamento è oggettivamente e (umanamente) imbarazzante per l'intera categoria. E lo è ancor di più perché palese è la strumentalizzazione di Saviano: l'autore di Gomorra da settimane ripete e scrive che è stata Giorgia Meloni a mandarlo a processo. Niente di più falso. Sicuramente lo scrittore sa bene che chi querela presenta una denuncia ed è poi un giudice a decidere se quella denuncia è fondata (e quindi dispone il rinvio a giudizio, il processo) o non ha motivo di essere (e quindi archivia il procedimento). Dunque o Saviano ignora la procedura - cosa al quanto improbabile-osta volontariamente alzando fumo per aizzare il suo circo mediatico affinché lo difenda e attacchi Meloni. Questo è infatti il risultato ottenuto. Ma il processo mica lo ha disposto l'inquilino di Palazzo Chigi. Saviano se la prenda con il giudice che - ripeto - ha ritenuto fondata la diffamazione contestata da Meloni. È molto semplice.

Nel mio piccolo, se considero solo i quasi dieci anni trascorsi al Fatto Quotidiano, ho ricevuto almeno una quarantina di querele e persino un processo d'ufficio avviato da un magistrato di Siena (l'unico caso in Italia). Non ne ho persa nessuna e al tribunale toscano sono stato pienamente assolto (ora quel pm è indagato a Genova, si chiama Aldo Natalini ed è accusato di falso ideologico per il caso di David Rossi). Mai ho avuto paura di scoprire che quanto avevo scritto fosse sbagliato: può capitare. Ma appunto si affronta.

È palese la strumentalizzazione attuata da Saviano. E dè un peccato. Perché con questo vittimismo immotivato ha semplicemente finito di demolire l'immagine del paladino della giustizia che si era costruito, quell'alone da eroe che lo accompagna (insieme alla scorta) da quasi venti anni (Gomorra è del 2006) che con indomito coraggio sfida a volto scoperto e testa alta persino la mafia, figurarsi i politici. Peccato. Ci abbiamo creduto. Ma gli eroi sono alla testa dei cortei e non si nascondono in fondo mandando avanti gli altri.

Spero abbia uno scatto d'orgoglio e ringrazi Meloni di averlo querelato così potrà dimostrare in un'aula di giustizia quanto fondata fosse la sua opinione. Anzi, ora che lei è premier, la sfidi: se io Saviano perdo, pago quanto e come stabilirà il tribunale (del resto nella giustizia bisogna crederci sempre, o no?), se invece perde lei, presidente del Consiglio, si impegna a introdurre (finalmente) una bella legge sulla lite temeraria. Ecco. Speriamo in un ritrovato orgoglio. Altrimenti Saviano sarà l'ennesima bandiera che la società civile dovrà ammainare prendendo atto di aver nuovamente visto male.

Saviano querelato da Giorgia Meloni e la difesa della Sinistra. Arnaldo Magro su Il Tempo 30 novembre 2022

«La querela a Saviano resta e non ho intenzione alcuna, di ritirarla». Si aggiungeranno capitoli nuovi, startene certi, nella querelle legata alla premier ed allo scrittore napoletano. La vicenda oramai nota un po' a tutti, è stata ricostruita ed analizzata in maniera puntuale, dal direttore su queste pagine, non più tardi di qualche giorno fa.

«Sono sotto attacco» scrive ancora Saviano. «Mi sento in pericolo così come temo, per l'incolumità , di coloro che mi vivono al fianco». Frase forte. Ad effetto. Che stia provando a giocarsi la carta del vittimismo Saviano? O ipotizza forse, una legio di meloniani ferventi, pronti a sopravanzare la scorta di cui dispone, per cantargliene quattro, in endecasillabi sciolti? Difficile anche solo da immaginare, come scenario. Vivendo in Italia e non a Kabul, dove il rischio più grande riscontrabile per strada, è quello dell'insulto sboccato e gratuito per una mancata precedenza. Nei suoi profili social, prova ugualmente ad aizzare il suo popolo. Ci prova ma non vi riesce granché. Sobilla quella intellighenzia settaria. In soccorso arriva pure l'anglosassone «Guardian».

Una sorta di stringiamoci a coorte, a favore del compagno Roberto. Roba forte. Brividi alle unghie. «Il presidente del consiglio mi porta in tribunale» dice Saviano. Ma anche qui, la ricostruzione dei fatti, come parte dei suoi scritti, non sono sinceri. La querela esposta è datata 2021, quando Meloni era ancora solitaria all'opposizione. Quando contava poco. Quando non ricopriva, il ruolo di premier. Quel «bastardi» urlato con veemenza in diretta televisiva, non rappresenta diritto di critica. E lui ben lo sa. Sarebbe bastato forse chiedere «scusa».

Ora spetterà invece ad un giudice valutare. Ma come dice Davide Vecchi, dovrebbe essere ugualmente contento Saviano, di poter argomentare il suo pensiero in tribunale. Non godrà certo di un processo sommario bensì di uno serio ed imparziale. Con tutti gli occhi addosso. La sua mediaticità schizzerà alle stelle. Mediaticità a caro prezzo però. Ma corra comunque il rischio. Ha accostato un personaggio politico alla foto di un bambino, attribuendogli de facto, la responsabilità del decesso. Ora corra il rischio che un giudice, possa ritenere quel fatto sanzionabile. E magari pensi anche solo per un attimo, a come può essersi sentito il destinatario di quell'insulto. Se può aver temuto per la propria incolumità e pure di chi le sta accanto. Ad esempio. E perché se in scrittura tutto vale, si finisce che nulla abbia più valore.

Porro gela Saviano: "Perché Meloni non ritira la querela". Cosa ha detto davvero. Il Tempo il 29 novembre 2022

Nella Zuppa di Porro, la video rassegna stampa quotidiana del giornalista Nicola Porro, si torna a parlare della querela ricevuta da Roberto Saviano. Il conduttore di Quarta Repubblica, commentando l'intervista di Giorgia Meloni al Corriere della Sera, rivela come sia rimasto stupito dal fatto che "con tutti i problemi che abbiamo, l'economia che non va, Ischia, le accuse di deriva troppo a destra del governo, ci sia comunque il tempo di chiedere conto alla Meloni della querela contro Roberto Saviano". Durante un'intervista nella trasmissione PiazzaPulita su La7, l'autore di Gomorra aveva dato dei "bastardi" sia alla leader di Fratelli d'Italia sia a Matteo Salvini. Ora andrà a processo per diffamazione. 

"Il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, nelle 15-20 domande che fa, deve piazzare quella su Saviano. E la Meloni risponde: 'Io non ritiro la querela a Saviano perché mi ha rappresentato come se fossi la colpevole della morte di un bambino annegato nel Mediterraneo'. Capito? Non solo Saviano dà della bastarda alla Meloni, ma al culmine del ragionamento la indica come mandante occulta dell'assassinio nei confronti di un piccolo migrante. Francamente, non me lo ricordavo, è abbastanza pesante" spiega Porro rivelando come lui sia, in generale, contrario alle querele contro i giornalisti. Giorgia Meloni, nell'intervista al Corriere, ricorda come questa querela era stata presentata quando non era presidente del Consiglio. "Perché un magistrato dovrebbe trattare diversamente me, in quanto premier? Sarebbe piuttosto pericoloso per la magistratura. Il problema è che una certa sinistra non si può considerare sempre sopra le righe" sottolinea Porro ribadendo il ragionamento della premier. 

La lezione di Giorgia Meloni a Roberto Saviano: "Non è al di sopra della legge".. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Novembre 2022

Il presidente del Consiglio ha deciso: non ritirerà la denuncia contro Saviano che l'aveva definita "bastarda" in un programma tv

Roberto Saviano dopo i suoi volgari e brutali attacchi "urlati" a raffica contro Giorgia Meloni, una volta resosi conto delle conseguenze penali in arrivo, sta giocando negli ultimi giorni la carta del vittimismo . Lo scrittore campano dovrà affrontare quelli che sono gli effetti delle sue parole, anche perché il presidente del Consiglio non ha alcuna intenzione di tornare sui propri passi e ritirare la querela

Intervistata da Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, Giorgia Meloni ha spiegato di non avere alcuna intenzione di ritirare le denuncia contro Saviano, che aveva detto "«Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle ong: "taxi del mare", "crociere"… viene solo da dire bastardi. A Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto? Come è stato possibile, tutto questo dolore descriverlo così? È legittimo avere un’opinione politica ma non sull’emergenza".

"Ho presentato la querela quando ero capo dell’opposizione", spiega la leader di Fratelli d’Italia ora alla guida del Governo. "L’ho fatto non perché Saviano mi aveva criticato sull’immigrazione ma perché, nel tentativo vergognoso di attribuirmi la responsabilità della morte in mare di un bambino, mi definiva in tv in prima serata una "bastarda". E quando gli è stato chiesto se quella parola non fosse distante dal diritto di critica ha ribadito il concetto", precisa. "Non capisco la richiesta di ritirare la querela perché ora sarei presidente del Consiglio: significa ritenere che la magistratura avrà un comportamento diverso in base al mio ruolo, ovvero che i cittadini non sono tutti uguali davanti alla legge? Io credo che tutto verrà trattato con imparzialità, vista la separazione dei poteri. Ma penso anche che una certa sinistra non debba considerarsi al di sopra della legge. Sto semplicemente chiedendo alla magistratura quale sia il confine tra il legittimo diritto di critica, l’insulto gratuito e la diffamazione" ha aggiunto la Meloni.

Il messaggio della Meloni è forte e chiaro. Essere, come si dice, "di sinistra" non mette al riparo dalle conseguenze. Una lezione che Roberto Saviano sta imparando proprio adesso. Lo scrittore campano si è di fatto defilato, annunciando via lettera di aver rinunciato agli eventi pubblici che lo avrebbero visto impegnato. Non ha neppure mancato di attaccare quella che lui definisce "opinione pubblica amica", responsabile secondo lui di non averlo schermato dallo "squadrismo quotidiano" dei "giornali di estrema destra, in alcuni casi pagati direttamente da esponenti della maggioranza parlamentare". Va ricordato che il reato di diffamazione aggravata (art. 595 comma 3) in questo caso dal fatto che la diffamazione sarebbe avvenuta in un talk show televisivo, è punita con la reclusione da 6 mesi a 3 anni o la multa non inferiore a 516 euro. Redazione CdG 1947

La colonna ambescìlle. Il caso Saviano e la sentenza che sancisce il diritto di scrivere falsità. Guia Soncini

su L’Inkiesta il 19 Novembre 2022.

Indignazione per la cattiva Meloni che porta in tribunale il «bastardi» pronunciato dallo scrittore di Gomorra, solidarietà al deputato buono che cita in giudizio un giornale e assoluzione dell’articolista che sette anni e mezzo fa mi ha attribuito una corrispondenza altrui. 

Nel dicembre del 2020 Roberto Saviano è, esattamente come ora, lo scrittore italiano più noto all’estero, molto letto e stimato da ormai quindici anni. Nel dicembre del 2020 Giorgia Meloni è, diversamente da ora, all’opposizione del governo all’epoca in carica. Nel dicembre del 2020 Piazza pulita è, esattamente come ora, il programma più trash della tv italiana.

La prima domanda che viene quindi da farsi, di fronte allo scandalo collettivo di questi giorni, è: perché commentiamo il tutto come se la presidente del Consiglio avesse fatto causa a uno scrittore, invece d’indignarci perché la giustizia italiana ci mette talmente tanto tempo a imbastire la prima udienza d’un banale processo per diffamazione che in quel tempo una senza alcun incarico di governo fa in tempo a divenire presidente del Consiglio?

La seconda domanda attiene alla libertà d’espressione. Che è mio personale convincimento serva innanzitutto a tutelare gli inadeguati. Se Roberto Saviano scrive un articolato editoriale in cui ne dice di tutti i colori sul mio conto, è assai probabile che sia capace di costruirlo in modo che la sua prosa si difenda da sola. È l’inattrezzato culturale che mi dice «ambescìlle» che va tutelato nella sua libertà d’espressione.

Su questo non siamo tutti d’accordo, anzi: c’è tutt’un movimento culturale che disapprova che i social siano un grande sfogatoio su cui chiunque può dirti «ambescìlle», e che mai sottoscriverebbe la mia convinzione che quello sfogatoio sia utilissimo; ogni Vongola75 che scrive i suoi penzierini ostili è una Vongola75 che dopo si sente meglio e non mi aspetta armata sotto casa.

Epperò la più parte degli intellettuali italiani (e non solo italiani) dissente, ritenendo che le parole facciano male quanto una coltellata (si vede che non v’ha mai accoltellato nessuno).

Epperò Saviano, per aver a Piazza pulita detto «bastardi» all’indirizzo di Meloni e Salvini, viene difeso moltissimo da intellettuali che invece si spendono abitualmente molto contro quelle che chiamano «parole d’odio», e solitamente fanno (o minacciano) causa per ogni «ambescìlle». È un mondo vagamente schizofrenico, quello in cui il «Bastardi» di Saviano ha una dignità diversa dallo «Stia zitta» di Raffaele Morelli.

(No, il fatto che Saviano il «Bastardi» lo usi per arringare in difesa dei buoni – si parlava dei profughi che secondo la destra sono in gita di piacere – non può valere come distinzione: le regole non possono esistere per tutelare solo quelli che ci pare stiano dalla parte giusta, non sono certo io a dover spiegare a Saviano o a Michela Murgia che questo è il funzionamento delle dittature, e che in democrazia le regole salvaguardano chi non ci piace).

La terza domanda, alla quale ha già risposto Saviano, riguarda quelli che trasecolano: dove andremo a finire, si sa che non si denunciano gli scrittori, non si denunciano i giornali, non si denunciano neanche i programmi trash, se salta questa regola è barbarie; quelli secondo i quali dev’esserci una speciale immunità dalle accuse di diffamazione per i mezzi di comunicazione di massa, altrimenti addio libertà di stampa. Scusate, ma chi pensate pratichi eventuali diffamazioni? I baristi? I cardiochirurghi? Gli elettrauti? Se mi sento diffamata da un giornale cosa devo fare, se non chiedere a un tribunale di decidere se ho ragione?

Ha già risposto Saviano, dicendo che lui non discute lo strumento della querela, anche lui querelò Gasparri. Bene, e allora tutto lo scandalo di questi giorni a cosa serve? Gli scrittori che vanno a solidarizzare in tribunale contro uno strumento che lo stesso Saviano approva perché sono lì? Per richiedere una riforma che gestisca i processi in modo da aprirli e chiuderli prima che cambi il governo del paese e con esso i rapporti di forza, spererei – ma temo non sia così.

Mentre tutta l’Italia rispettabile, l’Italia dei giusti, l’Italia che sa che posizione prendere si sdegnava per la politica che fa causa a uno scrittore, per gli ingiusti che fanno causa ai giusti, Aboubakar Soumahoro pubblicava sui social la foto d’un articolo di Repubblica sulla sua famiglia con queste parole a commento: «Non c’entro niente con tutto questo. Non consentirò a nessuno di infangarmi. Chi ha deciso di farmi la guerra, con diffamazione, dico ci vediamo in tribunale. Ho dato mandato ai legali di perseguire penalmente chiunque, usando qualsiasi mezzo, offenda la mia reputazione».

Aboubakar Soumahoro è la politica, ma è anche uno dei giusti. Come la mettiamo? Era da «stai con Togliatti o con Vittorini» che non era così scivoloso posizionarsi: stai coi querelati o coi querelanti? Se, come Saviano, elevi un «bastardi» a «la libertà di critica» e a «gli intellettuali che decidono di smontare la sua narrazione» («sua» di Salvini), forse puoi anche elevare un «difendo gli amici miei e non una linea univoca» a posizionamento culturale.

Mentre l’Italia rispettabile decide come conciliare il posizionamento rispetto a Soumahoro e quello rispetto a Saviano, a me arriva una sentenza. Riguarda un articolo del giugno 2015 (sette anni e mezzo fa, se li conti in vite dei governi chissà che cifra viene). Uscì su un settimanale. Non so se per dolo o per distrazione, parlando d’un processo in cui ero coinvolta, l’articolista attribuì a me i traffici illeciti d’un altro imputato. Intentai una causa civile per diffamazione.

Sette anni e mezzo dopo, una giudice mi comunica che non ho diritto ad alcun risarcimento, «né può dolersi della impostazione palesemente colpevolista dell’articolo […] essendo ben noto che fatti di cronaca giudiziaria dividono la pubblica opinione ed i media tra veementi innocentisti e colpevolisti da tempo immemore (quantomeno dal 1700, ma particolarmente dall’inizio del secolo scorso)» (ah, pure storica).

Mentre leggevo questa splendida sentenza che citava precedenti secondo cui «il diritto di cronaca può comportare qualche sacrificio dell’accuratezza della verifica della verità del fatto narrato per esigenze di velocità» (ma è un settimanale, è un articolo scritto da una che fa la riposante vita di chi scrive un articolo a settimana, e ha una settimana per controllare chi ha detto cosa: con questo criterio, uno che pubblica su un sito domani può darmi della serial killer e va bene così); questa splendida sentenza che definisce l’attribuirmi l’intera corrispondenza altrui, con altrui toni e altrui intenzioni, come «un errore sostanzialmente irrilevante»; mentre mi cascava la mandibola su questo «liberi tutti di scrivere il cazzo che vi pare senza porvi il problema della verità» sancito da un tribunale, mi chiedevo in che paese vivo, dei due che vedo attorno a me.

Nel paese in cui il solo fatto di istruire un processo (in cui Saviano potrebbe benissimo essere assolto) è un attentato alla libertà intellettuale e tutti dovremo d’ora in poi censurarci e saranno tempi molto bui. O nel paese in cui non è richiesto neanche quel grado minimo d’aderenza alla realtà per cui, se Pippo ha detto «t’ammazzo», è bene non scrivere su un giornale Topolino, due punti aperte virgolette, t’ammazzo.

Confesso di preferire il primo, di paese. Confesso che non mi sembra tanto malvagia l’idea che chi ha la responsabilità di parole pubbliche venga invitato, dalla giurisprudenza e dalla società civile, a soppesarle. Confesso che mi sembra assai peggio il paese in cui un giudice dice sì, vabbè, Topoli’, quante storie: è dal 1700 che si sa che non bisogna formalizzarsi.

Definì Meloni "bastarda". Ora Saviano va a processo ma chiede la "grazia". Carlantonio Solimene su Il Tempo il 09 novembre 2022

Da qualche anno ormai esistono due Roberto Saviano. Il primo è lo scrittore di successo che ha pagato a carissimo prezzo la sua decisione di sfidare a viso aperto la Camorra. Mi permetto di dire - contravvenendo a una delle regole sacre del giornalismo che imporrebbe di non personalizzare mai un articolo - che sono un fervente ammiratore di «questo» Saviano. Ho letto e amato diversi suoi libri, mi sono appassionato alla serie «Gomorra» che l'ha visto come autore e ho trovato incomprensibili le polemiche di chi gli ha rimproverato il successo. Come se in Italia fare soldi a palate con il proprio lavoro fosse una colpa da espiare e non un merito.

C'è però un secondo Saviano, l'animale politico. Colui che ha deciso di sfruttare la notorietà per far conoscere le proprie opinioni su tutto quanto avviene nel Paese. E fin qui non ci sarebbe niente di male. Però l'ha fatto in una maniera - diciamo così... - poco ortodossa. Dividendo il mondo in buoni e cattivi e usando l'insulto come arma dialettica. Definendo, ad esempio, «ministro della malavita» il Matteo Salvini dell'era gialloverde.

E qui entra in gioco l'attualità. Il prossimo 15 novembre, infatti, a Roma si celebrerà la prima udienza del processo per diffamazione intentato da Giorgia Meloni nei confronti dello scrittore. La querela si basa sulla dura requisitoria che Saviano pronunciò nel dicembre 2020 nel talk "Piazza Pulita" nei confronti delle posizioni politiche dei leader della Destra sul tema immigrazione. Testualmente: «Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle ong: "taxi del mare", "crociere"... viene solo da dire bastardi. A Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto? Come è stato possibile, tutto questo dolore descriverlo così?». Nel novembre 2021 il giudice per le indagini preliminari definì «esorbitante, rispetto al diritto di critica politica, l'epiteto "bastarda"» e decise il rinvio a giudizio dello scrittore.

Ieri, su "La Stampa", è stata pubblicata una lettera-appello di Burhan Sonmez, presidente della Pen International, associazione mondiale di scrittori «dedita alla difesa della libertà di espressione». Sonmez si rivolge a Giorgia Meloni e le chiede di ritirare la denuncia, descrivendo «una tendenza preoccupante in Italia, dove giornalisti e scrittori lavorano consapevoli di poter essere denunciati e incarcerati per quello che dicono o per quello che scrivono». Saviano ha rilanciato l'appello e ringraziato Sonmez.

Una premessa: Meloni farebbe bene, in effetti, a ritirare la querela. Non perché la presidente del Consiglio abbia torto nel merito, ma perché a Saviano e ad altri esponenti del mondo politico e culturale che l'hanno attaccata in questi anni oltrepassando i leciti confini del diritto di critica per sconfinare nel dileggio e nell'odio dovrebbe piuttosto erigere un monumento, dato che è anche grazie a loro che la sua scalata politica è stata tanto rapida e inarrestabile.

Il punto, però, è un altro. Davvero dare del «bastardo» a un avversario politico - che all'epoca, peraltro, era all'opposizione - costituisce un «sano e legittimo diritto di critica»? Davvero c'è qualcuno che, a sinistra, dopo aver denunciato per anni vere o presunte «campagne d'odio» promosse dalla destra, oggi è pronto a stracciarsi le vesti per rivendicare il diritto di insulto e di delegittimazione?

Negli scorsi mesi, per difendersi, lo scrittore ha citato il caso di una comica tedesca, Enissa Amani, condannata a 40 giorni di carcere per aver dato del «bastardo e idiota» a un leader, a detta di Saviano, «razzista e di destra». Il ché, in realtà, dimostra due cose: la prima è che non è vero che «certe persecuzioni esistono solo in Italia». No, se si insulta si viene condannati anche nella civilissima Germania. La seconda è che, se si crede davvero in quel che si dice e se si rivendica orgogliosamente la possibilità di insultare qualcuno, altrettanto orgogliosamente occorrerebbe essere pronti ad affrontarne le conseguenze, senza chiedere la «grazia» alla vigilia del processo.

Ma forse la chiosa migliore della vicenda sta nelle parole che lo stesso Saviano scrisse nel 2017, dovendo difendersi dagli attacchi di chi rilanciava la bufala del suo «attico a New York». «L'aggressione verbale in politica è uno strumento inutile, oltre che dannoso- sosteneva lo scrittore - perché distorce la voce e rende incomprensibili legittime richieste. (...) Credete davvero che le vostre urla, che i vostri insulti, vi garantiranno ciò che decenni di cattiva politica vi hanno tolto? E se la vostra risposta è: "Intanto urliamo, intanto insultiamo, poi si vede" significa che senza nemmeno rendervene conto (siete inconsapevoli, ma non incolpevoli) state lastricando voi stessi una strada peggiore di quella che avete trovato».

Ecco, al di là di come finirà la querelle giudiziaria con Meloni, l'augurio è che, per il futuro, Roberto si comporti come chiedeva il Saviano del 2017. Per non lastricare egli stesso «una strada peggiore di quella che ha trovato».

Da video.corriere.it il 15 novembre 2022.

Si apre oggi, martedì 15 novembre, il processo a Roma nei confronti di Roberto Saviano accusato di diffamazione nei confronti di Giorgia Meloni. 

Saviano, durante una puntata di «Piazzapulita» su La7 nel dicembre 2020 sul tema dei migranti, si era riferito alla leader di Fratelli d'Italia chiamandola «bastarda». 

L'indagine era stata avviata dopo una querela presentata da Meloni e nel novembre dello scorso anno il gup di Roma ha disposto il rinvio a giudizio per lo scrittore.

Fulvio Fiano per corriere.it il 15 novembre 2022.

La vicenda per la quale oggi viene processato Roberto Saviano risale al dicembre 2020, quando ospite in studio della trasmissione Piazzapulita su La7, al termine di un video che mostrava la disperazione di una donna che aveva perso in mare il proprio figlio di sei mesi dopo il rovesciamento della imbarcazione sulla quale viaggiavano, lo scrittore si scagliò contro chi porta avanti le campagne anti-immigrazione, paragonando il mancato soccorso in mare come a una ambulanza che non interviene per i feriti in strada e usò l’appellativo «bastardi», riferito a Giorgia Meloni, allora parlamentare di Fratelli d’Italia e a Matteo Salvini (che per questo episodio si è costituito parte civile pur non avendo querelato all’epoca) per il loro contrasto alle Ong. 

Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi e i suoi predecessori al Viminale Salvini e Marco Minniti, oltre al senatore Maurizio Gasparri, sono alcuni dei testi citati dalla difesa di Saviano nel processo che lo vede imputato di diffamazione ai danni del presidente del Consiglio Meloni e che celebra oggi la sua prima udienza. 

«Mi ritrovo oggi in giudizio - afferma Saviano davanti al tribunale - e ritengo singolare che uno scrittore sia processato per le parole che spende per quanto dure esse siano, mentre individui inermi continuano a subire atroci violenze». «Credo di aver il record di giornalista, personalità, individuo più processato da questo governo» aggiunge Saviano lasciando piazzale Clodio, annunciando che «Matteo Salvini ha presentato istanza per essere parte civile in questo processo». E poi spiega che Salvini lo avrà «contro sia in questo processo sia nel processo l’anno prossimo.

Il rischio «democratura»

«Non mi è stato permesso di fare dichiarazioni spontanee» afferma Saviano che legge alla stampa quello che avrebbe voluto dire al giudice monocratico: «Ho fiducia che si possa finalmente esorcizzare la più subdola delle paure e cioè che avere un’opinione contraria alla maggioranza significhi avere un’opinione non legittima, e che quindi avere un problema con la maggioranza di questo Governo significhi avere un problema con la giustizia. Ciò sarebbe gravissimo e confermerebbe un’ipotesi che questa maggioranza politica voglia condurci verso una democratura» 

«Difendo la libertà di parola»

«L’accusa è quella di aver ecceduto il contenimento, il perimetro lecito, la linea sottilissima che demarca l’invettiva possibile da quella che qui viene chiamata diffamazione» spiega ancora l’autore di «Gomorra». «Io sono uno scrittore: il mio strumento è la parola. Cerco, con la parola, di persuadere, di convincere, di attivare. Sono uno scrittore e quindi, avendo ottenuto la libertà di parola prima di qualsiasi altra, sono deciso a presidiarla - prosegue - Ho sempre scelto di difendere le mie parole con il mio corpo in maniera differente rispetto a quanto fanno molti parlamentari, che hanno usato lo scudo dell’immunità quando hanno avuto bisogno di proteggersi dalla giustizia: lo ho fatto la scelta opposta, ho scelto di esporre il mio corpo e le mie parole negandomi la possibilità di un riparo sicuro, di rifugiarmi in una zona franca tra la legge e l’individuo: perché mi illudo ancora, forse ingenuamente, che dalla giustizia non ci si debba proteggere, ma che sia essa stessa garanzia di protezione»., 

«Parole perfino troppo prudenti»

«Dinanzi ai morti, agli annegamenti, all’indifferenza, alla speculazione, dinanzi a quella madre che ha perso il bambino, io non potevo stare zitto - - spiega Saviano - E sento di aver speso parole perfino troppo prudenti, di aver gridato indignazione perfino con parsimonia». 

Piantedosi, Minniti e Salvini chiamati come testi

Minniti viene chiamato a deporre per illustrare i termini degli accordi con la guardia costiera libica da lui firmati, Salvini dovrà riferire della vicenda giudiziaria che lo vede imputato a Palermo per sequestro di persona in relazione proprio al divieto di sbarco imposto a una nave che aveva soccorso dei naufraghi in mare, Piantedosi è citato per riferire dell’operato dello stesso Salvini e del regime di protezione che tutela Saviano, Gasparri infine risponderà della diffamazione aggravata dall’uso di internet per la quale è stato querelato dallo scrittore. 

Le Ong

La linea implicita è quella di dimostrare che ci sia in atto un tentativo di intimidire chi si oppone a questa linea politica. Della lista testi fanno parte anche Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, per riferire sul report stilato sul linguaggio usato in campagna elettorale, il conduttore di Piazzapulita Riccardo Formigli e gli esponenti di Ong impegnate nel salvataggio di migranti, Oscar Camps di Mediterranea Saving Humans, e Luca Casarini di Open Arms. A portare solidarietà a Saviano sono presenti tra gli altri in aula Teresa Ciabatti, Sandro Veronesi, Nicola Lagioia, Michela Murgia, Walter Siti, Chiara Valerio, Kasia Smutniak.

Il legale di Meloni: «Valutiamo la remissione»

«Questa querela nasce dal livore dei toni utilizzati, ‘bastardo’ è un insulto non una critica», dice l’avvocato di parte civile Luca Libra, il quale non esclude la remissione della querela: «Stiamo valutando». L’udienza, alla quale assiste in gran numero la stampa estera, slitta al 12 dicembre per questioni procedurali legate al cambio del giudice.

Roberto Saviano, il processo diventa un comizio anti-governo. Il Tempo il 16 novembre 2022

Il processo non c'è stato. Lo show invece sì. La prima udienza nel procedimento ai danni di Roberto Saviano per diffamazione nei confronti di Giorgia Meloni è durata appena una manciata di minuti. Poi, per questioni procedurali - il giudice onorario non può occuparsi di una simile questione, ne va nominato un altro - è stato tutto rinviato al prossimo 12 dicembre. Per l'occasione, però, nonostante l'esito fosse già noto in anticipo agli addetti ai lavori, il tribunale di Roma è stato preso d'assalto da cronisti e da diversi intellettuali arrivati per solidarizzare con l'autore di Gomorra, dagli scrittori Nicola Lagioia, Michela Murgia e Sandro Veronesi all'attrice Kasia Smutniak fino al direttore de La Stampa Massimo Giannini.

Attestato il rinvio del processo, lo «spettacolo» si è spostato all'esterno del tribunale, in piazzale Clodio. Dove Roberto Saviano ha letto una lunga dichiarazione sulla vicenda: «Io sono uno scrittore- ha detto- il mio strumento è la parola. Cerco, con la parola, di persuadere, di convincere, di attivare». «La parola è ciò per cui io sono qui - ha proseguito L'accusa è quella di aver ecceduto il contenimento, il perimetro lecito, la linea sottilissima che demarca l'invettiva possibile da quella che qui viene chiamata diffamazione».

«Sono uno scrittore e quindi, avendo ottenuto la libertà di parola prima di qualsiasi altra, sono deciso a presidiarla - ha aggiunto - Ho fiducia che si possa finalmente esorcizzare la più subdola delle paure e cioè che avere un'opinione contraria alla maggioranza significhi avere un'opinione non legittima, e che quindi avere un problema con la maggioranza di questo governo significhi avere un problema con la giustizia. Ciò sarebbe gravissimo e confermerebbe un'ipotesi che questa maggioranza politica voglia condurci verso una democratura».

Al centro del procedimento la definizione di «bastardi» che lo scrittore dedicò a Meloni e Salvini a proposito delle loro posizioni sull'immigrazione. Proprio Matteo Salvini, ha riferito Saviano, ha deciso di costituirsi parte civile nel processo. Inoltre è stato reso noto che la difesa dello scrittore ha chiamato a deporre l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti per illustrare i termini degli accordi con la guardia costiera libica da lui firmati, l'attuale inquilino del Viminale Matteo Piantedosi per riferire dell'operato di Salvini al ministero (del quale era capo del gabinetto) e Maurizio Gasparri per gli attacchi riservati via internet allo scrittore.

Tra gli altri testimoni diversi rappresentanti del mondo delle Ong, il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury, la cui associazione ha stilato un report sul linguaggio adottato dai leader in campagna elettorale, e il giornalista Corrado Formigli, protagonista del talk Piazzapulita in cui andò in scena, nel dicembre 2020, il «j' accuse» di Saviano. In quanto a Meloni, ovviamente assente per l'impegno al G20 di Bali, è stata rappresentata dall'avvocato Luca Libra che non ha escluso una remissione della denuncia: «La querela nasce dal livore utilizzato - ha detto il legale della premier- Ho insegnato a mio figlio chela parola "bastardo" è un'offesa. Valuteremo comunque se ritirare la querela». Parole che sembrano aprire a una soluzione extragiudiziale, ma che potrebbero essere vanificate dall'intenzione di Saviano di non ritirare gli insulti dell'epoca. Lo si scoprirà nelle prossime settimane.

Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 16 novembre 2022.

Giorgia Meloni contro Roberto Saviano. La presidente del Consiglio contro lo scrittore, accusato di diffamazione, per averle dato della «bastarda» in tv. Il primo round in tribunale, a Roma, è durato pochi minuti. L'udienza è stata aggiornata al 12 dicembre, perché ci sarà un cambio di giudice. 

Ma il processo potrebbe anche interrompersi, visto che l'avvocato della premier ha annunciato che stanno valutando il ritiro della querela. La vicenda risale al dicembre del 2020 quando l'autore di "Gomorra”, ospite di "Piazza pulita" su La7, parlando della morte di un bambino in un naufragio di migranti nel Mediterraneo, pronunciò questa farse: «Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle Ong: "taxi del mare" "crociere...mi viene solo da dire bastardi. A Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto?».

Proprio il leader della Lega ha presentato istanza per costituirsi parte civile in questo processo. Avendone già un altro da affrontare contro Saviano (prima udienza a febbraio), reo di averlo diffamato definendolo in un'altra occasione il «ministro della malavita». 

Lo stesso Salvini e l'attuale ministro dell'Interno Matteo Piantedosi (all'epoca capo di gabinetto al Viminale) sono nella lista dei testimoni depositata dalla difesa di Saviano. Come pure il senatore Maurizio Gasparri, Oscar Camps, presidente dell'ong Open Arms, e il giornalista Corrado Formigli. In tribunale a piazzale Clodio, invece, ad accompagnare simbolicamente Saviano, c'erano, tra gli altri, l'attrice Kasia Smutniak, gli scrittori Sandro Veronesi, Michela Murgia, Nicola Lagioia e Walter Siti, oltre al direttore de La Stampa, Massimo Giannini.

Durante la breve udienza, Saviano avrebbe voluto leggere una dichiarazione spontanea, ma non gli è stato concesso, a causa della decisione di rinviare. Il pubblico ministero, peraltro, si era opposto, invitando lo scrittore a «non mettersi a fare il comizio». Pronta la replica: «Sono qui come imputato, per difendermi, non per mia volontà». Poi, una volta uscito dal tribunale, ha letto ai giornalisti il testo che aveva preparato per l'occasione e che è pubblicato qui sotto.

Trascrizione del discorso di Roberto Saviano in Tribunale a Roma, pubblicato da “La Stampa” il 16 novembre 2022.

Mi ritrovo in quest' aula, oggi, rinviato a giudizio per aver criticato in modo radicale due dei politici, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che ho ritenuto maggiormente responsabili di una costante e imperitura propaganda politica fatta ai danni degli esseri umani più disperati, più deboli e più incapaci di difendersi: i profughi. 

Una propaganda che non si limita ad attaccare persone in cerca di salvezza lontano da paesi martoriati da guerre, povertà e desertificazione, ma fa di più: si scaglia con violenza anche contro le Ong operanti nel Mediterraneo, che con le loro imbarcazioni raccolgono donne, bambini e uomini dal mare, un attimo prima - o un attimo dopo, purtroppo - che questo si trasformi nella loro tomba. Mi ritrovo oggi in quest' aula, e ritengo singolare che uno scrittore sia processato per le parole che spende, per quanto dure esse siano, mentre individui inermi continuano a subire atroci violenze e continue menzogne.

Ma in questo vedo anche un'opportunità: non per me, ma perché ho fiducia che si possa finalmente esorcizzare la più subdola delle paure e cioè che avere un'opinione contraria alla maggioranza significhi avere un'opinione non legittima, e che quindi avere un problema con la maggioranza di questo Governo significhi avere un problema con la giustizia. 

 Ciò sarebbe gravissimo e confermerebbe un'ipotesi: che questa maggioranza politica intende condurci verso quella che Eduardo Galeano battezzò "democratura": una democrazia che millanta un'appartenenza ai valori democratici ma che agisce di fatto in maniera illiberale, scagliandosi contro le sue figure più esposte a suon di querele e attacchi personali. Solo alla persona senza voce si lascia una comoda libertà di critica, ma a chi dispone di un megafono, di un palco, in una democratura viene resa la vita difficile.

Io sono uno scrittore: il mio strumento è la parola. Cerco, con la parola, di persuadere, di convincere, di attivare. In fondo l'ha insegnato Omero stesso: il santuario della persuasione è nella parola, e il suo altare è nella natura degli uomini. La parola è ciò per cui io sono qui. L'accusa è quella di aver ecceduto il contenimento, il perimetro lecito, la linea sottilissima che demarca l'invettiva possibile da quella che qui viene chiamata diffamazione. 

Sono uno scrittore e quindi, avendo ottenuto la libertà di parola prima di qualsiasi altra, sono deciso a presidiarla. E lo farò non sottraendomi, non proteggendomi dietro una dialettica comoda, sicura, approvata e già per questo innocua. Ho scelto nella mia vita di scrittore una parola che affronta direttamente il potere, criminale o politico, di qualunque segno.

Ho sempre scelto di difendere le mie parole con il mio corpo, a differenza di molti parlamentari che hanno usato all'occorrenza lo scudo dell'immunità. Io ho fatto la scelta opposta, negandomi la possibilità di un rifugio sicuro in quella zona franca tra la legge e l'individuo: perché mi illudo ancora, forse ingenuamente, che dalla giustizia non ci si debba proteggere, ma che sia essa stessa garanzia di protezione. Che non si riduca, la giustizia, a un'arma a disposizione del politico di turno. È una cosa seria, la giustizia. Anzi, direi sacra. Quello che ha portato il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni a chiamarmi in giudizio provo ad accennarlo qui.

Mi trovavo in uno studio televisivo, quando ho visto la scena di una donna, Haijay, appena salvata dai volontari della nave Ong Open Arms: era stata raccolta da un natante che stava affondando mentre era da giorni alla deriva. Haijay urlava ossessivamente: «I' ve lost my baby. I' ve lost my baby». «Ho perso il mio bambino». Non esistono giubbetti di salvataggio per i neonati. 

Gli operatori si tufferanno subito in mare, il bambino verrà ritrovato. Ma con i polmoni pieni d'acqua. Morto annegato. Dinanzi a questa scena, l'unica possibile salvezza dalla disumanizzazione mi è parsa essere elencare tutte le menzogne della propaganda che era stata fatta, e continua a essere imbastita, su e contro queste persone disperate, usando termini come "pacchia" e "crociere", insultando, additando, ridicolizzando chi intraprende questi viaggi della speranza e chi si preoccupa di soccorrerli in mare.

Cinque anni fa, in una manifestazione di piazza contro lo ius soli, ritenendo questo uno strumento di sostituzione etnica, Giorgia Meloni si mostrò con accanto un canotto e un manifesto con su scritto: «Cittadinanza omaggio, biglietto di sola andata, per informazioni chiedere agli scafisti». Un canotto e un biglietto. 

La cittadinanza come omaggio. Inaccettabile farsa politica sul dolore di migliaia di persone, questa ignobile e menzognera propaganda elettorale dinanzi ai morti, alla disperazione di chi fugge dall'inferno coltivando una speranza destinata ad annegare con lui. Non è giusto. Io non posso accettarlo.

Dinanzi ai morti, agli annegamenti, all'indifferenza, alla speculazione - soltanto poco più del 10% dei migranti vengono salvati dalle Ong e tanto basta per aver generato un odio smisurato verso di loro e verso i naufraghi stessi - dinanzi a quella madre che ha perso il bambino, io non potevo stare zitto. Non potevo accettarlo. E sento di aver speso parole perfino troppo prudenti, di aver gridato indignazione perfino con parsimonia.

Soltanto qualche giorno fa due bambini sono morti, bruciati vivi, su un barchino. Provano in tutti i modi a fermare le Ong, che hanno subito 20 inchieste in 5 anni, come nessuna azienda italiana, neanche quelle denunciate dal giornalismo come vicine alle organizzazioni criminali.

Nessuna fabbrica teatro di morti sul lavoro ha avuto così tante indagini. Eppure, nonostante queste 20 inchieste, nessuna fra le tesi degli accusatori è mai stata validata, mentre sono aumentate le bugie su chi soccorre in mare. Scene come quelle costruite da Meloni, con il canotto e gli slogan politici, o invocate da Meloni, che propone di affondare le navi delle Ong trattandole come galeoni pirata, avvengono mentre in mare si continua a morire. Con gli occhi sgranati e i polmoni pieni d'acqua. Si muore in mare mentre le Ong, lo ricordo, agiscono sempre su autorizzazione della Guardia costiera italiana, quando i salvataggi avvengono in mare europeo.

Dinanzi a tutto questo, non c'è la volontà di ragionare con franchezza sulla gestione dell'accoglienza. Tutto questo implicherebbe un dibattito, una diversità di vedute, l'esercizio della democrazia; ma la delegittimazione, il fango che è stato riversato su chi non ha voce, non ha nulla di politico: è solo propaganda, pregiudizi, razzismo, aberrazione. La mia affermazione è stata assai tenue, a pensarci bene. Il disgusto dovrebbe essere maggiore, e lo è, molto spesso lo è. C'è una gran parte dell'Italia che di fronte a questo inorridisce, e di questo sentimento diffuso mi sono fatto interprete. 

Mi faccio interprete del disgusto di chi, da operatore, ha dovuto subire più volte infami attacchi. Me ne sono fatto interprete dinanzi a quel video, dicendo «Bastardi, come avete potuto?». Cioè, dove avete trovato l'incoscienza di isolare, diffamare, trasformando ambulanze in navi pirata, diffondendo menzogne, avvelenando un dibattito che dovrebbe essere invece affrontato con profondità e capacità? La mia non è una risposta emotiva: vuole essere un'invettiva. Un urlo. Un gesto di ingaggio che dinanzi a quella madre che aveva perso il suo bambino voleva smuovere.

Non è un'opinione politica lasciare annegare le persone, non è un'opinione politica screditare ambulanze di soccorso: è infamia. E soprattutto è disumano. Ecco: di fronte a quel video e quelle urla ho avvertito il bisogno di sentirmi umano. 

Quello che mi sento di promettere in quest' aula è che non smetterò mai di stigmatizzare, di analizzare, di usare tutti i mezzi che la parola e la democrazia mi concedono per smentire questo scempio quotidiano. Papa Francesco - citato sistematicamente, ma a sproposito, nelle aule istituzionali, e che io cito invece con rigore filologico - ha detto: «L'esclusione dei migranti è scandalosa, è criminale li fa morire davanti a noi».

Una delle più belle immagini evangeliche viene raccontata da Matteo. Cristo dice: «Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato». Il Mediterraneo è diventata una forra di morte, la più grande. Dal fondo del mare le parole che sentiamo sono: «Avevamo sete e ci avete lasciato annegare, avevamo fame e ci avete diffamati, eravamo forestieri e ci avete respinto». È in nome di questo dolore che ho scelto le mie parole ed è in nome di questa scelta che sono qui a risponderne dinanzi a un tribunale.

Saviano sopra ogni legge: "Dico quello che voglio". A processo per aver dato della "bastarda" alla Meloni: "Sono uno scrittore, non mi possono condannare". Francesco Curridori il 16 Novembre 2022 su Il Giornale.

«Merde assolute. Merde assolute. Roberto Saviano, al termine della prima udienza del processo che lo vede imputato per diffamazione per aver dato della «bastarda» a Giorgia Meloni, è visibilmente nervoso.

Non sappiamo a chi si riferisca, ma lo scrittore napoletano sembra non deve aver digerito bene il fatto che gli sia stato impedito di poter leggere una sua dichiarazione spontanea per motivi burocratici. «In Aula si è detto che non dovevo fare il comizio ma io voglio solo difendermi», racconta Saviano parlando con i cronisti, alla presenza di amici come Michela Murgia e Massimo Giannini. La scrittrice sarda e il direttore della Stampa sono stati al suo fianco per buona parte della mattinata, uno a destra e una alla sua sinistra, proprio come delle guardie del corpo aggiunte. La Murgia lo abbraccia prima che Saviano entri in Aula e insiste per assistere come pubblico all'udienza. Alla fine ci riesce: missione compiuta. Tra gli altri sono presenti anche lo scrittore Walter Siti e l'attrice Kasia Smutniak. Tutti presenti per sostenere il collega partenopeo che, parlando con i giornalisti italiani, annuncia: «Matteo Salvini è con noi, cioè si è dichiarato parte civile in questo processo». E ha aggiunto: «Credo di aver il record di giornalista, personalità, individuo più processato da questo governo». La rabbia è palese e Saviano non vuol abbandonare la scena senza aver detto ciò che si era preparato. Saluta i giornalisti italiani e dà appuntamento a tutti i cronisti all'ingresso del tribunale dove lo attende la stampa estera. È qui che Saviano, ancora spazientito per non aver potuto esporre la sua dichiarazione spontanea, prende le tre pagine che aveva scritto e, prima di iniziare a declamarle, premette: «Non c'è nessun comizio da fare. Sono io che sono stato costretto a venire qui perché chiamato in giudizio. Chi viene qui non comizia, si difende».

Ma, poi, inizia. «Mi trovo rinviato a giudizio per aver criticato in modo radicale due politici, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che ho ritenuto maggiormente responsabili della propaganda politica fatta ai danni dei profughi», dice Saviano. Che, poi, precisa: «Una propaganda che non si limita ad attaccare persone in cerca di salvezza lontano da Paesi martoriati da guerre, povertà e desertificazione, ma fa di più: si scaglia contro le ong operanti nel Mediterraneo che, con le loro imbarcazioni raccolgono donne, bambini, uomini dal mare un attimo prima o un attimo dopo che questo si trasformi nella loro tomba». Saviano si difende e passa subito al contrattacco: «Ritengo singolare che uno scrittore venga processato per le parole che spende, per quanto dure esse siano, mentre individui inermi continuano a subire atroci violenze e continue menzogne». L'autore di Gomorra vede questo processo come un'opportunità per «esorcizzare la più subdola delle paure e cioè che avere un'opinione contraria alla maggioranza significhi avere un'opinione non legittima. E, quindi, che avere problema con la maggioranza di questo governo significhi avere un problema con la giustizia». Saviano prosegue: «Questa maggioranza politica vuole condurci verso quella che Galeano battezzò democratura». Peccato che queste parole vengano pronunciate dopo quelle del legale di Giorgia Meloni, l'avvocato Luca Libra che, parlando con i giornalisti, annuncia: «La querela nasce dal livore utilizzato. Io ho insegnato a mio figlio che la parola bastardo è una offesa. Valuteremo comunque se ritirare la querela». L'avvocato di Saviano, Antonio Nobile, invece, ha annunciato di voler ascoltare in Aula come testimoni il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, il senatore Maurizio Gasparri, il fondatore dell'Ong Open Arms Oscar Camps e l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti. Quello che non doveva essere un comizio politico è divenuto, di fatto, un monologo. Quel che doveva essere un processo contro Saviano, diventerà un processo alle politiche del governo.

Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 17 novembre 2022.

Le querele hanno le gambe corte. E allora ecco Roberto Saviano, indignato dopo il rinvio a giudizio per diffamazione ai danni del premier Giorgia Meloni, che difende il suo presunto diritto di chiamare «bastarda» un allora leader di partito: «Ritengo singolare che uno scrittore venga processato per le parole che spende, per quanto dure esse siano». Dal vietato vietare della sinistra sessantottina al vietato querelare di Saviano. Un divieto che vale solo se a essere citato è lui e non viceversa. Eh sì perché l'autore di Gomorra, quando si sente offeso, non esita a querelare.

Prendiamo Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia. Siamo a ottobre del 2017 e Saviano decide di trascinare in giudizio il politico. «Cambiare canale, evitare Fabio Fazio che fa parlare il pregiudicato Saviano», il tweet digitato da Gasparri mentre il bestsellerista è ospite di Che Tempo che Fa per presentare il suo libro «Bacio feroce». Il cinguettio manda su tutte le furie lo scrittore. «È stato da tempo condannato per plagio in via definitiva», la spiegazione del parlamentare. 

Ma non serve. «Agirò in sede penale e civile. È probabile che Gasparri si nasconderà dietro l'immunità parlamentare, ma io attenderò, perché Gasparri è un pericolo per la democrazia», il contro tweet dello scrittore. «Il risarcimento andrà alle Ong», annuncia Saviano. Solo che non se ne fa nulla, perché la Giunta delle immunità del Senato nega l'autorizzazione a procedere per Gasparri.

Andiamo avanti, anzi indietro. A marzo del 2011 scoppia il caso Marta Herling, che è la nipote di Benedetto Croce. Tutto nasce da uno dei monologhi televisivi di Saviano, raccolti nel volume Vieni via con me. Lo scrittore ricostruisce il terremoto di Casamicciola, Ischia, del 1883. Una tragedia che uccise tutta la famiglia del filosofo liberale, allora diciassettenne. «Per molte ore il padre gli parlò, prima di spegnersi. Gli disse: "Offri centomila lire a chi ti salva"», scrive Saviano. 

Herling risponde per le rime in una lettera inviata al Corriere del Mezzogiorno: «Saviano inventa storie». Si apre una disputa sulle fonti storiche dell'attuale penna del Corriere della Sera, fatto sta che l'esperto di criminalità organizzata si sente vittima di «una campagna diffamatoria». 

Altra querela, con richiesta di risarcimento totale di 4,7 milioni di euro indirizzata alla Herling, alla casa editrice che pubblica il dorso napoletano di Via Solferino, alla Rai e al vicedirettore del Tg1 Gennaro Sangiuliano, ora ministro della Cultura. 

Portiamo indietro ancora un po' le lancette dell'orologio della storia. Ed ecco la querela, presentata nel 2008, contro Ferdinando Terlizzi, storico cronista di giudiziaria casertano, all'epoca dei fatti ultrasettantenne. Saviano si inalbera per una recensione pubblicata sul sito casertasette.it. Un pezzo su un altro libro in cui l'autore accusava lo scrittore di aver inserito in Gomorra alcuni episodi inventati. 

Piccola nota di colore: la citazione in giudizio in prima battuta arriva a un omonimo del giornalista di Caserta, un postino di Lodi di 35 anni. «Saviano ha querelato tutti, stavolta lo cito io», conferma ieri il cronista Simone Di Meo che ha querelato l'intellettuale per un articolo di Repubblica in cui si scagliava contro la professionalità di Di Meo.

Parentesi chiusa, proseguiamo con le querele sporte da Saviano. Lo scrittore, che ha esordito scrivendo sul Manifesto, nel 2011 querela un altro giornale comunista, Liberazione e l'autore dei pezzi Paolo Persichetti, ex brigatista. Il duello stavolta è su Peppino Impastato, ma il procedimento viene archiviato due anni dopo. Le querele hanno le gambe corte.

Roberto Saviano? Ora reclama il diritto di insultare la Meloni. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 16 novembre 2022.

Il cinema in tribunale. La sceneggiata a Palazzo di Giustizia. Un attore, più che uno scrittore, quel Roberto Saviano là. Solo che ha sbagliato palcoscenico, location, sito. Perché ci vuole rispetto anche per il luogo dove la legge si applica. Non chiedono autografi i giudici. Dopo aver fatto sapere al mondo che ieri mattina avrebbe offerto il collo alla ghigliottina della Meloni che lo aveva querelato, da piazzale Clodio Saviano se ne è andato dopo pochi minuti - tanti quanto la durata della prima udienza così come era arrivato. Ha provocato solo un po' di fastidio a chi lavora.

In tribunale ci stava perché giustamente alla Meloni non piace essere definita "bastarda" a mezzo tv - e neanche a Salvini, offeso assieme a lei in una trasmissione di Corrado Formigli del dicembre 2020 e che ha depositato la propria costituzione di parte civile - e decise di procedere. Non era presidente del Consiglio, ma esponente dell'opposizione e contestava le politiche della sinistra di Conte e Lamorgese in materia di immigrazione clandestina.

L'eroico Saviano spera in una specie di grazia, visto che l'avvocato del premier ha detto che rifletterà con la sua assistita se ritirare la querela. Anche se quella lingua impunita di uno scrittore che pensa di poter offendere chiunque meriterebbe una bella punizione. Ma la Meloni non vuole farlo passare per martire, probabilmente. Il che per Saviano può anche essere peggio. Se ne riparlerà il 12 dicembre, alla seconda udienza e chissà se l'imputato sarà scortato in misura notevole come ieri. Già, perché oltre a chi si deve occupare di lui, c'erano anche altre note lingue urlanti, del calibro di Michela Murgia e di Massimo Giannini, direttore di quella Stampa che un tempo era la testata elegante dell'avvocato Agnelli.

Non pare vero a Saviano, evidentemente, di poter esibire la solidarietà di quelli come lui.

L'odio contro la destra è cemento per costoro, al punto che le panzane si sprecano: sono «il giornalista più processato da questo governo», afferma Saviano e a uno verrebbe da chiedersi tutto questo in un mese appena trascorso dall'insediamento dell'esecutivo Meloni... Ma il noto imputato dimentica che si può essere processati per 9 anni pure per vilipendio del Capo dello Stato, risultare innocente e nessuno che ti chieda scusa. A proposito di rapporto col potere. Tutta pubblicità, quella che gli deriva da un processo appena iniziato e quasi potrebbe dispiacerci se davvero dalla Meloni arrivasse un gesto di magnanimità verso chi non lo merita. Una sfilza di testimoni della "difesa": lo stesso Salvini, il neoministro dell'Interno Piantedosi - che del leghista aveva la colpa di essere capo di gabinetto- poi Gasparri e persino il Pd Minniti. Curiosità: tra i testi di Saviano non potrà mancare proprio Formigli, magari dovrà raccontare come era scosso il suo ospite quando sibilava la parola "bastardi". 

Sì, un martire, quando sputacchia le sue sentenze: «Ritengo singolare che uno scrittore sia processato per le parole che spende, per quanto dure esse siano, mentre individui inermi continuano a subire atroci violenze e continue menzogne». Se uno scrittore offende, è invece sacrosanto che possa essere processato. Non può esistere l'impunità. Invece lui si lamenta, persino quando ha appreso della presenza di Salvini al processo come richiesta di poter essere parte civile. Non può difendersi, l'ex ministro? Di più, Salvini ce l'ha proprio con me, pare lamentarsi Saviano: «Salvini lo avrò contro sia in questo processo sia nel processo l'anno prossimo per la frase «il ministro della malavita». Perché, è normale definire ministro della malavita chi i clan li deve combattere ogni giorno, anche correndo qualche rischio? È davvero sconcertante, l'imputato Saviano. Perché teme di trovarsi di fronte quelli che appellò come "bastardi" in televisione, senza alcun contraddittorio, una possibilità di rispondergli come meritava. Del resto, non a caso si era scelto la trasmissione a senso unico, quella chiamata Piazza Pulita. Sì, quella che pretende di fare piazza pulita degli avversari politici. Il tribunale delle chiacchiere.

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 16 novembre 2022.

Il sommo maestro Roberto Saviano ieri ha rivendicato con forza una libertà e stabilito un principio: uno scrittore può insultare perché il suo linguaggio, anche se offensivo e ingiurioso, rientra in quella che una volta si chiamava “licenza poetica”, la possibilità cioè di sbagliare volutamente per dare più forza al pensiero. Saviano ci ha comunicato tutto ciò all’uscita dell’udienza dove è imputato di ingiuria e diffamazione per aver dato della “bastarda” a Giorgia Meloni in diretta tv ospite di Formigli a Piazza Pulita.

Per nulla pentito e ben lungi dallo scusarsi per l’offesa recata a una donna, il Sommo ha spiegato che lui non sottostà alle regole, fossero solo quelle della buona educazione, dei comuni mortali perché «io sono uno scrittore, difendo a ogni costo la libertà di parola, questa (della Meloni, ndr) è una democratura». 

Detto - sempre per i comuni mortali - che per democratura si intende un regime politico improntato alle regole formali della democrazia, ma ispirato nei comportamenti a un autoritarismo sostanziale, per una volta faccio mio il Verbo del Sommo, e lo faccio avendo le carte in regola perché anche io sono uno scrittore.

Sì, ho scritto libri che negli ultimi due anni hanno venduto più di quelli del Maestro Saviano, quindi sono un super scrittore, che se poi ci aggiungiamo che sono pure giornalista, e se non bastasse gioco il jolly di essere direttore bè, capite che io altro che libertà di parola, io come Saviano ma forse più di Saviano mi avvicino a Dio. 

E quindi, seguendo il suo consiglio di non mettere limiti al mio pensiero perché noi scrittori (ma quali scrittori, intellettuali si addice meglio) godiamo dell’immunità penale e civile dico con chiarezza ciò che penso: Roberto Saviano, sei un bastardo. Di più: Roberto Saviano sei un pezzo di m. a insultare una donna, non ne hai remora perché tu sei un figlio di buona donna, che poi questi non sono altro che sinonimi della parola “bastardo”.

E adesso che fai, sommo bastardo Saviano? Smentisci la tua tesi in base alla quale io scrittore posso insultarti pubblicamente e tu devi tacere? Ti arruoli nella “democratura” e corri in tribuna- le a querelarmi? Ti ricordo che sono un super scrittore, quindi attento a quello che fai, razza di un bastardo che fai il bullo con una signora che proprio perché premier non può permettersi di rispondere e difendersi come dovrebbe e forse vorrebbe. Abbassa la cresta, chiedi scusa e finiscila lì che fai pena, sempre con licenza parlando.

Saviano, le sue giustificazioni? Teorie e auguri da bastardi. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 18 novembre 2022

Forse non bisognerebbe querelare nessuno. Nemmeno Roberto Saviano e forse nemmeno se ti dà di bastardo. Esistono altri strumenti per difendersi, anche di tipo giudiziario, e le multe e la galera sarebbe meglio che fossero accantonate. Ma è doppiamente inammissibile la giustificazione che Saviano ha opposto a chi ha chiesto che fosse sanzionata la diffamazione di cui si è reso responsabile: ha detto, come tutti sanno e come Libero ha raccontato ieri, che il processo a suo carico sarebbe ingiusto perché lui è uno scrittore, il che suppone che di analoga guarentigia non potrebbe godere un ciabattino o un manovale che si lasciasse andare a quell'insulto. 

Immunità da romanziere, diciamo. Inoltre, ed è questo il tratto più grave e detestabile della sua giustificazione, è che in realtà ne nasconde un'altra: e cioè che dare del bastardo si può se l'insulto è "meritato" da chi lo prende. Nella specie, uno che dice cose che a Saviano non piacciono. Ma è consapevole, Roberto Saviano, delle conseguenze che porterebbe quel principio?

Qualcuno, per esempio, potrebbe dargli del bastardo perché qualche tempo fa prefigurava un destino carcerario per Matteo Salvini. Aveva detto proprio così: che per vedere Salvini in carcere «basterà che si spengano le luci». Come a dire: fai che poco poco le glorie elettorali del capo leghista sentano l'assedio del riflusso democratico, ed ecco servito il tempo della giustizia finalmente libera di trionfare sul ministro della malavita. C'era parecchia violenza plebea in quella previsione, e a giudizio di qualcuno assomigliava parecchio all'augurio che poteva formulare un bastardo. Sarebbe dunque stato legittimo chiamare in quel modo Roberto Saviano? 

Saviano e la carovana dei radical chic anti Meloni. Scrittori, giornalisti e attrici: la sinistra dei salotti in campo per dare man forte a Saviano. Rivendicano il diritto di insultare la Meloni e insultano la nostra democrazia paragonandola a un regime. Andrea Indini il 16 Novembre 2022 su Il Giornale.

Roberto Saviano. Ancora e ancora. Con i suoi insulti, con i suoi comizi, con le sue balle. L'ultima (in ordine di tempo): "Un governo liberticida che porta a processo chi critica. Un primo ministro contro uno scrittore, come se avessero uguale peso. Intimidire me per intimidire chiunque critichi l'operato di questo governo". Falso. E non solo perché Giorgia Meloni l'ha trascinato in tribunale parecchio tempo prima di diventare premier. È falso soprattutto perché, proprio ora che è arrivata a Palazzo Chigi, la leader di Fdi sta valutando di ritirare la querela. E poi c'è pure quell'altra balla. Quella sulla "democratura", ovvero sull'Italia dipinta come una democrazia illiberale. Vivesse davvero in un regime, la bocca gli sarebbe stata cucita da tempo. E invece no. Saviano parla. E spesso straparla. Nessuno gli ha mai negato questo diritto: il "diritto di parola". E non perché lui è uno "scrittore", ma perché in Italia il "diritto di parola" è garantito a tutti i cittadini. Quello che, invece, viene (giustamente) contestato all'autore di Gomorra è ben altro. E cioè che non può insultare e passarla liscia. Gli insulti (e "bastarda" è un insulto, eccome!) non rientrano nel perimetro della libertà di espressione.

In un Paese normale un processo per diffamazione, in cui uno ha dato del bastardo a un altro in televisione, non solleverebbe tanto interesse. In Italia, invece, intorno a Saviano stanno montando un circo mediatico che sembra far godere soltanto la sinistra dei salotti. Ieri mattina, davanti al tribunale di Roma, si sono dati appuntamento i soliti volti che dopo cena troviamo nei talk show a pontificare contro il governo. C'erano diversi scrittori. Sandro Veronesi, Michela Murgia, Nicola Lagioia, tanto per citarne alcuni. E poi c'era il direttore della Stampa, Massimo Giannini. E pure l'attrice Kasia Smutniak. Tutti lì a dare supporto. O, più semplicemente, a mettere in piedi un inutile teatrino contro il centrodestra al governo. Chi non va manda saluti da casa. Come Erri De Luca che ci tiene a far sapere: "Condivido la sua indignazione di allora". Scrive: indignazione; leggete: insulti.

La Murgia è in primissima linea nel reiterare la narrazione (falsa) tanto cara a Saviano: "Un uomo scortato dallo Stato a causa delle sue parole oggi sarà portato davanti a un giudice dal capo di governo a causa delle sue parole: ditemi voi in quale altra democrazia lo avete visto succedere". È una battaglia che porta avanti da settimane. Aspettava l'inizio del processo con la stessa trepidazione con cui a dicembre i bimbi aspettano il Natale. Ai primi di ottobre, prima che gli altri ultrà scendessero in curva, lei già scriveva sull'Espresso che dare della "bastarda" alla Meloni è una forma di cultura. Oggi, invece, si sono sbizzarriti tutti quanti. Su Repubblica, pontificando sullo stato di salute della nostra democrazia, Chiara Valerio parla di "bullismo di Stato" contro Saviano. Sulla Stampa Elena Stancanelli lancia un appello per il prossimo 12 dicembre ("Venite tutti in tribunale"), mentre nel suo podcast Circo Massimo il direttore Giannini parla di "logica di potere" e ritira fuori il più classico "colpirne uno per educarne cento".

Nessuno di loro ha il coraggio di scrivere le cose come stanno. E cioè che "bastarda" non è, come scrive la Stancanelli, "un termine ritenuto ingiurioso" dalla Meloni. È un insulto. Punto e basta. Chiunque si sentirebbe diffamato nel sentirselo dire. E una diffamazione rimarrebbe anche se nelle prossime ore la leader di Fratelli d'Italia dovesse ritirare la querela. Lasciando così Saviano senza più un palcoscenico su cui fare il suo inutile show.

Da veritaeaffari.it l'8 ottobre 2022.

Roberto Saviano si è impoverito durante la pandemia e quindi ha chiesto allo Stato di potere attingere agli aiuti Covid. Mario Draghi ha detto di sì, concedendogli uno sconto di tasse di poco inferiore ai 10 mila euro: precisamente 9.744 euro.

Saviano, secondo il Registro Nazionale degli Aiuti di Stato, ha ricevuto in qualità di piccola e media impresa personale, lo sconto fiscale richiesto il 10 dicembre del 2021 a titolo di “rimedio a un grave turbamento dell’economia” a causa della pandemia. Difficile calcolare la perdita di introiti di Saviano, viste le sue molteplici attività. Lo scrittore continua a incassare però i diritti per Gomorra, successo mondiale.

Super aiuti alle squadre di calcio italiane, i club che hanno incassato di più grazie al governo

La pandemia certo non ha cambiato i suoi contratti di collaborazione giornalistica, quindi non è lì che ha avuto danni di fatturato. Nel 2021 lo scrittore ha dato alle stampe la sua prima graphic novel, “Sono ancora vivo“, e non è stata un successo a differenza del solito: perfino nelle classifiche di Amazon sta oltre il millesimo posto per vendita nella sua categoria. Capita non azzeccare il prodotto, ma certo non può essere colpa della pandemia.

I quasi 10 mila euro ottenuti da Saviano sono quasi umilianti in confronto agli spiccioli (374 euro) ottenuti come sostegno durante la pandemia dalla sua stessa fidanzata, Maria Di Donna, in arte Meg. Anche lei ha presentato regolare domanda con la societò di produzione musicale interamente posseduta, la Bluluz srl unipersonale. Ma alla fine si è trovata in mano un pugno di mosche. E dire che per i cantanti il danno della pandemia era ben più evidente.

Meg, che ha iniziato la sua carriera nei 99 Posse, potrà rifarsi proprio ora, visto che ha appena annunciato l’uscita di un nuovo album, Vesuvia dove le danno una mano amichevolmente due grandi firme della musica italiana, Emma ed Elisa, che hanno cantato insieme a lei in un brano – Aquila- che Maria aveva scritto proprio per loro.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 3 ottobre 2022.

Alla fine, partendo dall'inizio, la storia di Roberto Saviano è quella di un autore di un libro capofila più che capolavoro, necessario più che esemplare, giusto più che bello, popolare più che fondamentale. Il quale poi perso un pezzo di libertà e guadagnatosi la gloria è diventato (malgré lui?) prima un prodotto culturale di consumo, da brand antimafia a grossista di invettive&culturame, poi capintesta di ogni battaglia perbenista, e infine - la cosa peggiore - intellettuale. Beata la Terra dei fuochi che non ha bisogno di écrivains engagés. 

In Italia, e persino a Casal di Principe, si può essere tutto, anche eroi, e finanche scrittori. Ma dio stramaledica l'intellighenzia. 

Intelligente ma non coltissimo, vincente però vittimista, guru e irridente, chiagne e sfotte, ribelle ma moralista, predicatore ma prevedibile, Roberto Saviano - indignazione permanente e spiegoni romanzati è diventato col tempo il prete laico di una sorta di catechesi cosmopolita e progressista che vuol rieducare i popoli alla purezza dei princìpi etici. Con quel pizzico di abusato pietismo meridionaleggiante che non guasta mai.

Contro tutte le mafie, poi tutte le criminalità. Contro Berlusconi, poi tutti i salvinismi. Contro tutti i fascismi, quindi la Meloni.

Impossibile sbagliare.

E per il resto, la domanda è: ma Saviano non doveva prendere l'aereo con Paola Turci, Elodie, la Michielin, Alessandro Gassman e Peppa Pig - tour leader: Chiara Ferragni per espatriare? Ma siamo in Italia E c'era sciopero. È andata così. Saviano prima dichiara: «Se vince la destra lascio il Paese». Poi la destra vince. E allora Saviano accusa: «Gli elettori della Meloni mi invitano a lasciare l'Italia: è un avvertimento fascista. Resistere!». 

Ce lo ritroveremo in armi, tra una trasmissione di Fabio Fazio e un evento del Salone del libro, al comando della Brigata Capri, a braccetto col meglio della peggior sinistra illiberale. Elogio dell'egualitarismo, una rubrica su Sette, Anna Politkovskaja, paranze, Che Fazio che fa, teologia dell'impegno civile, «Fascisti!», occhiolino a Cesare Battisti e Nuova York.

Ma poi: basta con quella storia antipatica dell'attico a Manhattan con vista sul Central Park! Non è vero.

È un loft.

Soft, benpensante, benamato, moderato, mediatico, profeta tivù, eroe della Repubblica dei buoni - da un po' di tempo in realtà del Corriere -, populista di palco e di prime time, Saviano è tutto ciò che noi giornalisti vorremmo essere. Celebre, celebrato, invidiato - soprattutto invitato, ovunque: università, festival, televisione - candidato al premio Nobel («Ma quale?», «Per la Letteratura, per la Pace...è uguale»), coraggioso, «sguardo limpido, fiuto per scovare le storie, abilità e simpatia per trattare con le fonti e una penna capace di trasformare ogni reportage in buona letteratura», scrisse anni fa Pablo Ordaz sul quotidiano spagnolo El Pais. 

Tutto il mondo è Paese. Da noi, ad esempio, la parabola di Saviano dal ventre di Napoli, quartiere Chiaia, a Caserta, andata con glorioso ritorno editoriale ha conosciuto momenti, diciamo così, altalenanti. Le origini, come si conviene agli eroi, sono avvolte da voci e leggende. 

Le seconde raccontano di un giovanissimo Saviano rivoluzionario, impegnato nella lotta di classe e militante della sinistra; le prime misteri dell'adolescenza e della politica - di un ragazzino cresciuto nell'ambiente delle palestre frequentate dai ragazzi del Fronte della gioventù (poteva diventare un eroe di destra scippato dalla sinistra, è diventato un monumento di sinistra ripudiato dalla destra), poi gli anni di lotta e di antigoverno contro tutte le ingiustizie, la gavetta giornalistica al Corriere del Mezzogiorno diciamo che la questione delle fonti, e non vogliamo tirare fuori le storie dei plagi, poteva essere gestita meglio e le inchieste sul crimine organizzato. Da lì - libro epifanico - l'uscita di Gomorra, primavera mondadoriana 2006, romanzo «ispirato a situazioni reali» che a oggi ha venduto due milioni e mezzo di copie in Italia, dieci milioni nel mondo, tradotto in 52 lingue, in film, in serie tv, spin-off.

Hat off, giù il capello. Che in napoletano si dice Coppole 'e cazzo. 

E dopo libro-cult ecco le trasmissioni pop, le collaborazioni internazionali, il passaggio da Marina Mondadori a Carlo Feltrinelli, gli interventi a Vieni via con me - programma che lo ha reso ancora più popolare di quanto non fosse, ma anche meno sorprendente di quanto avrebbe dovuto il successo planetario, le invidie. E la tuttologia. Dai reportage dall'inferno alle prediche sui migranti, il razzismo, la xenofobia, la corruzione Bella vita e malapolitica. E Saviano si trasformò nel savianismo. Con la presunzione tipica di chi predica a sinistra e razzola per il gruppo Mondadori. 

Che poi. «A me Gomorra nun me piace».

Forza morale dell'autore del libro: indubbia. Valore civile del testo: altissimo. Valore letterario: se ne può discutere.

«Fabbula favesa, buscie». Si dice che il vero Gomorra sia Il libro napoletano dei morti di Francesco Palmieri, maestro di arti marziali e vero scrittore, amico del cuore di Antonio Franchini, all'epoca editor princeps in Mondadori, fondamentale dal titolo Gomorra, che inventò lui, al lungo incipit, riscritto ex novo - nella costruzione del successo di Saviano. Tutti amici di giovinezza (poi abbandonati) di Roberto 'O Milionario. Scoperta la vera natura, adesso lo chiamano «filetto». 

Con un sottinteso indicibile.

«Tu non sei fango ma il filetto del fango».

Aneddotica per aneddotica.

Quando Saviano frequentava l'elegante sede della Mondadori di Roma, in via Sicilia, arrivando rumorosamente preceduto dalla scorta, il custode Giovanni (di Mondragone) lo annunciava così: «È arrivato 'o Signore degli anelli!». Ma per tutti gli anelli che porta alle dita? E quello, spiritosissimo: «Ma no, si chiama accussì perché è 'nu grande scrittore di fantasy!». 

Che si dice, anche, «non fiction novel».

Ovviamente fu lui, Saviano, ad abbandonare Palmieri e Franchini, i quali non avevano sufficiente blasone per accompagnarlo nell'empireo newyorkese. Troppo poco liberal.

Tant' è che, una sera, succede che Franchini spunta nel bel mezzo di una festa Upper Manhattan, tra uommini scicche e femmine pittate per poter dirgli, anzi, intimargli: «Addinocchiati e vasami 'ste mani». 

Baciamano e bestseller, coscienze risvegliate e marketing - dalla infame provincia campana agli altari mediatici - icona di legalità e pantheon della destra più bella (Schmitt e Jünger, Pound e Evola), cover patinate ed estetica caravaggesca volto oblungo e barba sofferta Saviano alla fine è riuscito a mettere d'accordo tutti, nel disaccordo contro di lui. Mai eroe civile è stato tanto detestato.

Protagonista per una stagione del grande teatro antimafia, è sprofondato - twittando contro Salvini e Meloni - nella botola social del luogo comune.

Saviano santo subito sì, ma senza esagerare. Per adesso il suo posto è lì. Ma dove? «Dentro o' presebbio».

Roberto Saviano: “Dio, Patria e famiglia non sono valori, sono un crimine”. Giampiero Casoni l'01/09/2022 su Notizie.it.

Il tweet di Saviano sul caso Venezi: “Dio, Patria e famiglia è slogan in uso prima del fascismo, diventa sintesi della visione di Mussolini" 

Per Roberto Saviano “Dio, Patria e famiglia non sono valori, sono un crimine”. Lo scrittore si inserisce nel dibattito sui temi “fondanti” della destra e dà la sua opinione con un post social a cui correda le foto di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi.

L’autore di Gomorra ha contestualizzato il suo giudizio ed ha spiegato con un post comunque molto duro: “Dio, patria e famiglia, slogan in uso prima del fascismo, diventa sintesi della visione di Mussolini”.

Saviano contro “Dio, Patria e famiglia”

“Dio come unica verità, Patria come confine da difendere, Famiglia come monopolio dell’affetto”. Poi spiega: “Dio, Patria e famiglia, così declinati, non sono valori, sono un crimine”. E nella foto pubblicata su Twitter ci sono tre immagini-icona del centrodestra in lizza per le elezioni del 25 settembre: Matteo Salvini con un rosario in mano, Giorgia Meloni su un palco con il Tricolore e Silvio Berlusconi insieme alla compagna Marta Fascina.

Il caso Venezi e l’opinione dello scrittore

Il dibattito era nato dopo che la direttrice d’orchestra Beatrice Venezi si era pubblicamente richiamata a quei temi ed aveva espresso un’opinione affatto sfavorevole al loro valore. Libero spiega che “secondo Saviano la Venezi e il centrodestra si richiamano evidentemente al fascismo”.

La repubblica napoletana e il populismo dei nostri tempi, senza cultura né buona fede. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022 

La foto scelta mostra la porta principale di Palazzo Serra di Cassano in via Egiziaca a Pizzofalcone: è sbarrata da quando nel 1799 Gennaro Serra fu decapitato, in segno di lutto per la morte prematura di un politico che aveva commesso il grave errore di non aver compreso il proprio tempo. 

Un’immagine della Napoli di oggi che racconta la Napoli di ieri: la porta principale di Palazzo Serra di Cassano il cui ingresso principale (su via Egiziaca a Pizzofalcone) è chiuso dal 1799, ovvero da quando fu giustiziato Gennaro Serra di Cassano

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 2 settembre. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»

Leggere Il resto di niente di Enzo Striano ascoltando Nel cor più non mi sento di Giovanni Paisiello; leggerlo con i brividi che provoca il Requiem di Francesco Durante, sapendo che sua era la marcia nuziale che accompagnò Eleonora Pimentel Fonseca all’altare con il laido Tria. Leggere un romanzo storico ascoltando la musica che veniva composta in quegli stessi anni, che faceva da colonna sonora alle tragedie dei protagonisti, alle loro speranze e alla inevitabile disfatta è un’operazione struggente, ma necessaria.

«LEGGERE ‘IL RESTO DI NIENTE’ DI STRIANO È NECESSARIO PER CAPIRE IL RAPPORTO TRA INTELLETTUALI E POPOLO: NESSUN PARTITO PUÒ PERMETTERSI DI PARLARE IN NOME DEL POPOLO, PER CONTO DEL POPOLO»

Leggere Il resto di niente è d’obbligo per chiunque voglia capire quale sia il rapporto vero, non la sua volgarizzazione, tra intellettuali e popolo. E dopo che lo avrete letto, saprete anche voi come me che, definendo alcuni partiti populisti (lo faccio anch’io) operiamo una semplificazione che crea equivoci. Nessun partito può permettersi di parlare in nome del popolo, per conto del popolo. Nessuno può dire che qualche esperienza da cameriera abbia insegnato a far politica più di tanti anni in Parlamento. Striano, se pubblicasse oggi Il resto di niente, sarebbe forse massacrato: tu, intellettuale, che ne sai del popolo? Come osi immaginare parole, pensieri, odori, fetore, colori? Come ti permetti di descrivere Napoli per quello che era, è e sarà? O forse mi sbaglio, non sarebbe massacrato perché ad interessarlo sono eventi e persone che restano semi gettati su terreno arido, senza che nessuno abbia mai avuto lo scrupolo di irrigarli quanto bastava per produrre un germoglio.

«NEL 1799 C’ERA L’IDEA DI POTER PARLARE PER ALTRI, ORA L’ELETTORATO VIENE PRESO IN GIRO MIMANDO LA LOTTA»

E così, anche grazie a Striano, sappiamo cosa è Napoli da sempre, ma senza consapevolezza, senza che si riesca davvero a spiegare perché, quel laboratorio incredibile di idee ed esperienze che rappresenta, resta un mistero. La fotografia che ho scelto questa settimana mostra la porta principale di Palazzo Serra di Cassano in via Egiziaca a Pizzofalcone: una porta chiusa, sbarrata, interdetta da quando nel 1799 Gennaro Serra fu decapitato in Piazza del Mercato. Sbarrata in segno di lutto per la morte prematura di un giovane politico che aveva commesso il grave errore di non aver compreso il proprio tempo. Ma forse anche di non aver blandito - del resto mancavano i mezzi: stampare era assai complicato, comunicare alla popolazione analfabeta era totalmente impossibile - un popolo che percorreva binari paralleli, le cui istanze non potevano essere raccolte da un manipolo di intellettuali che avevano creduto di poter importare la Rivoluzione francese.

«In un canto, stupita, vede tre intimiditi lazzari ( giovani popolani; ndr) - descrive Striano il Capodanno di Eleonora Pimentel Fonseca in casa dell’avvocato Nicola Fasulo in via Atri, una casa ora lussuosa, ma allora, depredata dai lazzari, sede di una riunione di giacobini che preparano la rivoluzione - tre veri lazzari: berretti rossi a calza, giubbotti neri, fasce rosse. Hanno scarpe con la fibbia, ficcate a piedi nudi, sui giubbotti i berrettini frigi. Guardano con sofferenza proterva, restano sempre accanto ai servitori». Si scopre che sono stati pagati per stare in questa riunione di nobili intellettuali: «Solo così - dice ironico Vincenzo Cuoco - possiamo avere i lazzari con noi». E Francesco Mario Pagano chiosa con sarcasmo: «Cosa riferiranno? Che i giacobini di Napoli mangiano, bevono, si divertono, mentre loro crepano di fame?».

In queste poche righe la descrizione di cosa sia non la lotta di classe o la lotta tra classi, ma il cortocircuito che avviene quando si è convinti che, per la propria cultura e buona fede, si possa parlare per altri. Ci si possa arrogare il diritto di combattere per altri. Figuriamoci cosa accade quando mancano cultura e buona fede! Quando ci si traveste da quel che non si è, quando si prende in giro l’elettorato. Quando si finge di lottare per altri, di spendersi per altri, per difendere in realtà solo il proprio. La politica è fuoco che arde e consuma. Sono gli scioperi della fame di Pannella, quelli che qualcuno definiva «diete dimagranti». La politica fa star male perché la consapevolezza dell’impossibilità di essere compresi, di riuscire a parlare a tutti, è troppo più forte di ogni speranza di successo. L’esperienza della Repubblica Napoletana ci dice tantissimo di cosa sia la politica fatta in buona fede: un fuoco che arde, consuma, spesso fallisce. Che devasta. Un seme da comprendere, da raccogliere e piantare.

Un editore prezioso mi iniziò agli anarchici: gente che lottava per la bontà. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 22 Luglio 2022.

Ho scelto due foto. Quella che ritrae Camillo Berneri, grande filosofo anarchico morto nella guerra civile spagnola, ucciso dai comunisti... E quella di Giuseppe Galzerano, uno degli editori più importanti d’Italia, con me nell’immagine più piccola. 

Il filosofo anarchico Camillo Berneri in un’immagine felice con la moglie Giovanna Caleffi, anarchica come lui. Originario di Lodi, fu ucciso nel 1937 a Barcellona, non ancora 40enne, dai comunisti nella Guerra civile spagnola

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 15 luglio. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»

Questa settimana ho scelto due foto. Quella che vedete qui sopra ritrae Camillo Berneri, un grande filosofo anarchico che ho conosciuto da ragazzino, morto durante la guerra civile spagnola, ucciso dai comunisti. Lui e la sua famiglia, come molti anarchici che negli anni mi è capitato di studiare, combattevano in nome della bontà, una parola che a molti - a troppi! - oggi fa venire l’orticaria. Berneri l’ho conosciuto da ragazzino grazie alla persona ritratta nell’immagine piccola, fotografata accanto a me. Una persona a cui sarò eternamente grato. Vi presento dunque Giuseppe Galzerano, uno degli editori più importanti del nostro Paese. Se non lo conoscete vi invito a spulciare il sito (qui il link) e le pagine social della casa editrice, a studiarne il catalogo, perché Galzerano, con il suo lavoro, un lavoro che è iniziato più di 40 anni fa, racconta la nostra storia attraverso la lente spesso ignorata degli intellettuali anarchici e delle vicende meridionali.

DA RAGAZZO VOLEVO LEGGERE LE STORIE DIMENTICATE DEI RIBELLI CHE AVEVANO PROVATO A SOVVERTIRE IL MONDO

Il suo è stato ed è un lavoro titanico, se si pensa a quanto sia difficile fare editoria al Sud, a quanto sia difficile trovare le risorse per organizzare, in molte regioni del sud Italia, appuntamenti letterari in grado di durare nel tempo. C’è chi ci riesce, ma il lavoro è estenuante e spesso osteggiato perché la cultura, per certi amministratori pubblici, o è di parte o non è. Le regioni del Sud sono quelle in cui c’è un tasso di dispersione scolastica drammatico in tutte le fasce d’età; quelle in cui il divario nell’apprendimento tra le classi sociali fa spavento e dovrebbe far vergognare il ministero dell’Istruzione prima ancora che gli amministratori locali. Le regioni del Sud Italia sono quelle in cui la spesa per studente, per attività extracurricolari, è irrisoria rispetto alle sorelle del Centro e del Nord. 

Il Sud Italia è quella porzione del nostro Paese in cui, a parità di dati sui contagi, governatori di Regione e sindaci hanno tenuto le scuole chiuse in pandemia aggravando una situazione già drammatica, creando un gap con il resto del Paese che, dobbiamo ammettere, sarà impossibile recuperare. Quando, a fine giugno, Giuseppe Galzerano è spuntato ad Acciaroli all’improvviso, dove ero andato per un incontro pubblico, mi è accaduto esattamente quello che accade ad Anton Ego in Ratatouille quando mangia lo stufato di verdure cucinato dal topastro cuoco Remy: sono tornato ragazzino. Cercavo libri ovunque, divoravo testi, saggi romanzi poesie. Più erano fuori catalogo, più mi accanivo nella ricerca. Poi, 16enne, il pensiero anarchico inizia ad appassionarmi e così mi imbatto nella casa editrice Galzerano. Volevo leggere le storie dei ribelli, le vicende dimenticate e nascoste di chi ha provato a sovvertire il mondo del quale cominciavo a dannarmi di far parte.

DAL ’75 GALZERANO PUBBLICA LIBRI UNICI SU QUELLE TEORIE. E LO FA NEL SUD PROFONDO. QUAND’ERO RAGAZZINO OFFRIVA SCONTI E CONSIGLI

Gli anarchici esprimevano il pensiero da cui era necessario partire perché fosse l’empatia a dettare la mia ricerca e non l’approfondimento fine a sé stesso. Preoccuparsi per gli altri, mettere il proprio ego in secondo piano, considerarsi uno strumento per il raggiungimento di una presa di consapevolezza. Peraltro il primo passo è disambiguare tutte le speculazioni sul pensiero anarchico, tutte le strumentalizzazioni, per mostrare come ci sia una scarsa conoscenza e quindi una prateria sconfinata per ogni strumentalizzazione. Giuseppe Galzerano dal 1975 pubblica libri preziosi sulle teorie anarchiche, monografie degli anarchici che uccisero (o tentarono di uccidere) re e ministri. Storie ormai dimenticate che il suo studio e la sua cura salva. Tutto questo lo faceva e lo fa da Casalvelino Scalo: dal Sud profondo.

Per un ragazzino squattrinato, quale ero, i suoi i meravigliosi libroni costavano troppo e così gli scrissi per alcuni titoli che non riuscivo a trovare. Lui vedendomi così giovane e in fiamme per l’ideale mi rispondeva indicandomi i libri da leggere e mi faceva sempre grandi sconti. In alcuni casi, mi faceva omaggio dei suoi libri indispensabili che non sarei riuscito a comprare. Non l’ho mai dimenticato. Ero solo un ragazzino e lui spendeva tempo per me, per formarmi. Una delle mie prime recensioni (sul settimanale Diario) fu proprio dedicata a un libro dell’immenso Camillo Berneri, pubblicato da lui. Galzerano è un editore libertario e libero, un’anima meravigliosa: sa che ogni singolo sguardo sulle storie di lotta e resistenza è una possibilità di immaginare altri mondi. Sono felice e onorato di presentarlo a chi non ha avuto la fortuna di incrociare i suoi libri.

Saviano condannato per Gomorra: solo 6mila euro per plagio. Guido Igliori su Culturaidentita.it l'1 Giugno 2022

Se seimila euro vi sembran pochi. Per molti sono tantissimi, ma rispetto al successo di vendite planetario di Gomorra son pochini. Così il prossimo 27 settembre la Corte di Appello di Napoli rideterminerà la somma che Roberto Saviano dovrà risarcire a Libra Editrice, che edita i giornali locali Cronache di Napoli e Cronache di Caserta, per il plagio degli articoli sulla faida di camorra a Napoli e sui clan casertani nel romanzo Gomorra. L’illecita riproduzione dei testi scritti dai giornalisti di Cronache di Napoli e di Caserta era stata accertata in via definitiva in Cassazione nel 2015. La Suprema Corte aveva rinviato alla Corte d’Appello la quantificazione della somma da risarcire e nel 2016 i giudici di Napoli avevano condannato Saviano al pagamento di seimila euro ai due quotidiani campani. Ma Libra Editrice aveva presentato ricorso in Cassazione, rinviando nel 2021 alla Corte d’Appello per rideterminare la quantificazione della somma: bisognava tener conto degli utili derivati dall’enorme successo di Gomorra. In effetti, nel 2009, in soli 3 anni, Gomorra era passato da una tiratura di cinquemila copie a 12.000.000 (dodici milioni!), venendo tradotto in 54 lingue. E dopo 13 anni il libro è rimasto un best seller, commercializzato nelle librerie, in svariati punti vendita, online e in audiobook. Per non parlare della serie tv di sei stagioni e di un film di grande successo. Insomma, un po’ pochini seimila euro, deve aver detto la Cassazione. Dura lex sed lex…

Ugo Clemente per cronachedi.it il 31 maggio 2022.  

Saviano e Mondadori tornano in aula

È stata fissata al 27 settembre prossimo la prima udienza davanti alla Corte di Appello di Napoli, sezione specializzata dell’impresa e proprietà industriale (relatore Giovanni Galasso) per la determinazione delle somme che Roberto Saviano e la Arnoldo Mondadori Editore di Silvio Berlusconi dovranno risarcire alla Libra Editrice per il plagio degli articoli sulla faida di camorra a Napoli e sui clan Casertani nel romanzo “Gomorra”.

La condanna per plagio è definitiva

L’illecita riproduzione dei testi scritti dai giornalisti di Cronache di Napoli e di Caserta è stata accertata, in via definitiva, dalla Corte di Cassazione nel 2015. La Suprema Corte rinviò alla Corte di Appello per la sola quantificazione del danno da risarcire, in considerazione di una recente modifica della normativa vigente. Nel 2016 i giudici di Napoli condannarono lo scrittore e la casa di Segrate al pagamento di seimila euro, con spese compensate, alla cooperativa che edita i due quotidiani campani. 

Gli “utili realizzati illegalmente”

La Libra, attraverso i suoi legali Marco Cocilovo e Mauro Di Monaco, presentò un nuovo ricorso in Cassazione, che nel 2021 ha invitato la Corte di Appello a rideterminare l’importo. I giudici di rinvio, ora, dovranno tenere conto degli “utili realizzati illegalmente dall’autore della violazione del diritto d’autore”. Ciò in considerazione del fatto che “gli articoli in questione sono stati riprodotti e utilizzati nel loro valore d’uso, seppure nel contesto di un’opera molto più ampia, e hanno inoltre riscosso, sia pure in quel modo e in quelle forme, un grande successo”. 

I ricavi del plagiario Saviano

Tale criterio, “che associa nella funzione risarcitoria anche una componente deterrente e dissuasiva, permette di attribuire al danneggiato i vantaggi economici che l’autore del plagio abbia in concreto conseguito, certamente ricomprendenti anche l’eventuale costo riferibile all’acquisto dei diritti di sfruttamento economico dell’opera, ma ulteriormente aumentati dei ricavi conseguiti dal plagiario sul mercato”.

La Cassazione: da tenere in conto gli utili del contraffattore

La Cassazione ha inteso specificare ancora meglio il concetto, con l’evidente scopo di evitare dubbi nell’interpretazione dei criteri per la quantificazione del risarcimento, spiegando che la sentenza del 2021, “basata sull’assenza di un rapporto concorrenziale fra le parti (desunta dalla diversità del circuito commerciale di distribuzione, della differenza di pubblico, del diverso periodo di distribuzione e di vendita) si pone anch’essa contra legem nel momento in cui viene presa in considerazione per escludere l’applicabilità del criterio fondamentale di liquidazione e la rilevanza del parametro degli utili del contraffattore e non piuttosto quale mero fattore di moderazione e limitazione del risarcimento. 

Né certamente questo era il senso dell’avvertimento contenuto nella sentenza rescindente, che ha sottolineato la rilevanza di alcuni elementi ma non li ha affatto indicati come fattori di esclusione del criterio di default per la liquidazione del danno da lucro cessante”. 

Bocciata la linea degli avvocati di Mondadori

Dovrà essere riformulata anche la parte della sentenza in Appello che compensava le spese per tutti i gradi di giudizio. Gli ermellini, infatti, hanno chiesto al collegio in nuova composizione di procedere con la “regolazione delle spese del giudizio di legittimità”. Nella sentenza, inoltre, i giudici hanno cestinato, in quanto “palesemente inammissibile”, il controricorso presentato dagli avvocati di Saviano e Mondadori, Vincenzo Sinisi, Claudio Marcello Leonelli, Benedetta Carla Angela Maria Ubertazzi e Luigi Carlo Ubertazzi. Lo scopo del ricorso incidentale, spiegava la Cassazione, sarebbe quello di “riproporre alcune difese già esposte nel giudizio di riassunzione con alcuni passaggi della loro comparsa conclusionale e memorie di replica”. 

Il ricorso inammissibile

Per questo, “tale documento… neppure soddisfa il contenuto imprescindibile di un atto di impugnazione e men che meno di un ricorso in Cassazione, giacché non rivolge specifiche censure al contenuto della decisione”. Non solo. Gli Ermellini aggiungevano che “a tale onere i ricorrenti incidentali si sono totalmente sottratti con la tecnica censoria utilizzata che rimette alla Corte di andare a ricercare se, dove e quando la sentenza impugnata non si sarebbe conformata a una serie di loro osservazioni. La conseguenza non può che essere l’inammissibilità”.

Quando Saviano veniva nella redazione di Cronache

Il merito della vicenda è ormai storia. Prima della pubblicazione di “Gomorra”, Roberto Saviano frequentava la redazione di Cronache di Napoli per raccogliere articoli che narravano della faida di Scampia e Secondigliano del 2004/2005 e le vicende legate al clan dei Casalesi. Dopo la pubblicazione del libro, diversi giornalisti segnalarono alla società editrice la illecita riproduzione di loro articoli da parte dello scrittore. 

Il successo di “Gomorra”: 12 milioni di copie in 3 anni

Intanto il libro ha avuto un successo folgorante e planetario. Nel 2009, in soli 3 anni, Gomorra era passato da una tiratura di 5mila copie a 12 milioni di copie vendute ed è stato tradotto in 54 lingue. Da allora sono passati 13 anni e il libro è rimasto un best seller, commercializzato nelle librerie, in numerosi altri punti vendita e anche online. E’ stato pubblicato in audiobook e da esso sono state tratte una serie televisiva di 6 stagioni e un film di grande successo. Tutte circostanze che hanno portato una valanga di denaro nelle casse della società editrice di casa Berlusconi e che hanno garantito a Saviano un successo mai conosciuto prima per uno scrittore. 

Film, serie tv, opere teatrali e le ospitate televisive da Maria De Filippi

Basti pensare che normalmente viene definito best seller un libro che vende almeno ventimila copie. In questo caso non sarebbe azzardato ipotizzare che il romanzo abbia venduto complessivamente oltre 50 milioni di copie. Anche in ragione del fatto che, se in un primo momento la notorietà del romanzo ha fatto da apripista al successo di film e serie tv, la rapidissima espansione della distribuzione dei prodotti tv e cinematografici (la serie tv era stata stata diffusa in 170 Paesi nel 2016, 6 anni fa) ha senz’altro dato nuova linfa alla commercializzazione del romanzo. Promosso sul grande e sul piccolo schermo, esso è stato acquistato anche dai giovanissimi fruitori della serie tv (che all’epoca della pubblicazione del romanzo magari erano appena nati) e ha conquistato altri mercati esteri. 

L’intervento al Festival di Sanremo

Per non parlare dei vantaggi garantiti, come promozione, dalla assidua presenza di Saviano nelle trasmissioni televisive Rai, Mediaset (è praticamente un ospite fisso di Maria De Filippi ad Amici) e La 7. Quest’anno ha presentato un monologo persino al Festival di Sanremo. Una presenza continua in tv che nessuno avrebbe accordato a un giovane e sconosciuto scrittore, se non fosse stato per il successo del suo romanzo di esordio.

Berlusconi e il “Lodo Mondadori”

Una vicenda a tinte fosche, quella dell’acquisizione della Arnoldo Mondadori Editore da parte di Silvio Berlusconi. Nel 1987, anno in cui il presidente della casa editrice Mario Formenton morì, la società era controllata dalla famiglia Formenton, dalla Fininvest del Cavaliere e dalla Cir di Carlo De Benedetti. Quest’ultimo aveva stipulato con la famiglia un accordo che prevedeva il passaggio a Cir delle loro quote. Ne nacque un contenzioso che si decise di risolvere in via arbitrale. Il collegio diede ragione a De Benedetti, ma Berlusconi presentò un ricorso davanti alla Corte di Appello di Roma. I giudici di Appello annullarono il lodo arbitrale, spianando la strada all’acquisizione della società di Segrate da parte di Fininvest. 

La corruzione del giudice Metta

Su quella sentenza, nel 1995, furono avviate indagini dalla magistratura, la quale accertò che flussi di denaro erano transitati dalle casse della Fininvest alle tasche di uno dei giudici di Roma che avevano annullato il lodo. Berlusconi venne prosciolto per prescrizione. Cesare Previti, avvocato della Fininvest e tra le figure di spicco di Forza Italia, fu condannato in via definitiva e interdetto dai pubblici uffici per corruzione giudiziaria. Anche il giudice della Corte di Appello di Roma Vittorio Metta fu condannato per corruzione.

La condanna in sede civile: 500 milioni alla Cir

Si aprì comunque un contenzioso civile tra la Fininvest e la Cir e nel 2013 la Corte di Cassazione condannò la prima al pagamento di quasi 500 milioni di euro al gruppo De Benedetti per i danni subiti. Per la Cassazione bene avevano fatto i giudici di secondo grado “a ricondurre alla società Fininvest la responsabilità del fatto corruttivo imputabile anche al dottor Berlusconi”. Ma già la Corte di Appello, nel condannare Previti, aveva accertato che Berlusconi “aveva la piena consapevolezza che la sentenza era stata oggetto di mercimonio”. Inoltre si notava che il beneficiario ultimo delle condotte corruttive non poteva che essere il Cavaliere. 

Le nuove grane: Ruby Ter

Oggi l’editore di Saviano è di nuovo sotto processo per corruzione in atti giudiziari, accusato di aver pagato le “olgettine”, “schiave sessuali a pagamento” in un “sistema prostitutivo consolidato”, secondo la procura di Milano, perché rendessero false testimonianze nel processo Ruby. Per Berlusconi i pm hanno appena invocato la pena di 6 anni di reclusione.

·        Sacha Guitry.

Memorie di un baro. Il capolavoro inedito di Sacha Guitry su un dandy francese che amava vincere al casinò di Monaco. Luca Beatrice su L'Inkiesta il 21 ottobre 2022 

Adelphi pubblica un’opera apparsa per la prima volta in Francia nel 1935, firmata da un autore che fu anche regista, attore e grande giocatore d’azzardo. Un personaggio disprezzato dalla critica ma osannato da Truffaut e Godard 

Per amore del paradosso, una nuova vita può nascere anche da una tragedia funesta. Una punizione antica «vai a letto senza cena» e un ragazzino di dodici anni è l’unico componente di una numerosa famiglia a salvarsi. Tutti gli altri «undici cadaveri tutti insieme» muoiono fulminati dai funghi velenosi. 

E lui, orfanello come Oliver Twist, rimane solo al mondo. Disperazione? Fino a un certo punto, perché la disgrazia fu veramente eccessiva, insomma «come fai a piangere undici persone? Non sa più per chi affliggerti… Sollecitato a destra e a manca, il mio dolore aveva troppe fonti di distrazione».

Sono appena le prime pagine e già non si può non amare il delizioso “Memorie di un baro”, il libretto inedito apparso in Francia nel 1935 e ora pubblicato da Adelphi. Lo scrisse Sacha Guitry, personaggio davvero inclassificabile e proprio per questo fascinoso, di imprecisato mestiere nel senso che ne faceva tanti e tanti gli riuscivano bene da improvvisato dilettante qual’era. 

In cinquant’anni scrisse un centinaio di commedie per il teatro, fu regista, attore, sceneggiatore per il cinema; gli piaceva disegnare e collezionare arte. Non molto amato dalla critica, di certo per i suoi atteggiamenti non proprio concilianti, fu riabilitato dalla Nouvelle Vague e in particolare da Truffaut e Godard che andavano al cinema senza preconcetti.

All’anagrafe Sacha fu Alexandre Georges-Pierre Guitry, nato nel 1885 a San Pietroburgo. Suo padre Lucien fu attore molto famoso, di stanza a Parigi, dove il ragazzo trascorreva l’estate mentre in inverno tornava in Russia. Raro caso di figlio cresciuto col papà, dopo la separazione dei genitori, passò di collegio in collegio tra mille difficoltà e insubordinazioni. 

Dal 1904 recita con Lucien ancora sotto falso nome come gli era stato imposto e comincia a scrivere le prime vere commedie, stese rapidamente in tre o quattro giorni. 

Nel 1914 non parte per la Guerra perché è stato riformato dall’esercito, allora gira il suo primo film Cheux de Chez Nous. Inizia a guadagnare bene, molto bene, si veste con eleganza vistosa, guida auto di lusso, è megalomane, inquieto (si sposerà cinque volte), vive una vita di leggerezza, i detrattori dicono superficiale, un vero dandy mondano e moderno, sarcastico e irriverente. Un giocatore d’azzardo capace di affrontare alterne vicende e alterne fortune.

Più saggio, insomma, ripercorrerne la vita che anticipare la trama delle “Memorie di un baro” (da cui fu tratto il film scritto, diretto, interpretato e sceneggiato da Guitry medesimo). Esile ed esilarante, pillole di saggezza certamente da non seguire a meno di non volersi rovinare. 

Dirò solo che dopo lo sterminio micotico della sua numerosa famiglia, il giovane narratore si trova a dover attraversare la Francia per campare: un cugino a Flers, in provincia, che lo frega, poi Caen dove capisce chi sono i ricchi, e finalmente Parigi, «impressione profonda… ma confesso non eccellente. No. Troppa gente. O per essere precisi gente di troppi generi. Troppi ricchi e troppi poveri, troppe ragazze sui marciapiedi, troppi lavoratori e troppi disoccupati. Troppa grandezza e troppa miseria». 

E infine il Principato di Monaco che lo conquista fin dal primo giorno, in particolare quel Casinò dove troverà la propria vocazione, il giocatore, il baro.

Centootto pagine scorrono davvero veloci per andare oltre e il cuore del libro sta proprio nel rapporto con la sorte e il denaro. Consapevole che chi gioca d’azzardo quasi sempre perde e il banco quasi sempre vince. Sia che si rispetti le regole oppure no.

Vanità, caso, ossessioni. Ecco la vita reale di un baro per finta. Chi sono, davvero, i bari? Una risposta, elaborata direttamente sul campo, ce la regala Sacha Guitry. Luigi Mascheroni il 20 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Chi sono, davvero, i bari? Una risposta, elaborata direttamente sul campo, ce la regala Sacha Guitry, francese nato a San Pietroburgo (1885-1957), attore e regista ma sopratutto sceneggiatore e commediografo, Signore della scena e della penna. Scrive Sacha (che era solo il nomignolo di Alexandre-Pierre Georges Guitry): «I bari sono spesso equiparati ai ladri. Niente di più sbagliato, secondo me. Rubare significa prendere a persone fondamentalmente oneste dei soldi che esse non avevano arrischiato e questo non va bene. Barare, invece, significa intralciare i progetti del caso, appropriarsi delle somme che altri hanno avuto l'imprudenza o la presunzione di mettere a repentaglio, a disdicevoli fini di lucro e con la segreta speranza di essere favoriti dalla sorte e dagli errori dell'avversario. Barare significa sventare le loro trame, e non solo contrastare l'operato del caso, ma addirittura sostituirsi a lui». Poi, la staffilata. Che a teatro si chiama colpo di scena: «Io baro ergo, il caso sono io».

Sacha Guitry, che non era propriamente un baro né il caso fatto persona, era però uno straordinario uomo di teatro. Fra qualche insuccesso e moltissimi successi scrisse e mise in scena - e quasi sempre interpretò - centoventiquattro pièce teatrali e trentasei film (esordì alla regia all'alba del cinema, già nel 1914, e la critica gli riconosce originalità e capacità di innovazioni, paragonandolo persino a Orson Welles...). E poi scrisse un romanzo, uno solo, ma rimasto nella storia della letteratura: Memorie di un baro, ora pubblicato in Italia da Adelphi (pagg. 136, euro 13; traduzione di Davide Tortorella), con una serie di piccoli disegni dell'autore e impreziosito da una imperdibile postfazione di Edgardo Franzosini, grande narratore di piccole biografie eccentriche. E Sacha Guitry biograficamente è perfetto: figlio di attore forse più bravo di lui (con inevitabile strascico di rapporti molto difficili), scrittore brillantissimo e instancabile, nome di spicco della società parigina del tempo (era il «Molière della Terza Repubblica»), membro dell'Académie Goncourt e sospettato (ma la vicenda è confusa) di collaborazionismo con i nazisti durante l'occupazione tedesca di Parigi...

Ma quello che interessa, ora, è il suo romanzo (che diventerà anche un film), Memorie di un baro, apparso inizialmente a puntate nel 1934 sul settimanale Marianne creato da Gaston Gallimard, la cui trama - beffarda e paradossale - l'autore stesso riassunse così: «Quarant'anni della vita di un uomo al quale le proprie azioni disoneste procurano la felicità, e che viene immediatamente abbandonato dalla fortuna allorché decide di emendarsi». Sale da gioco, casinò, humor nero (il romanzo comincia con una intera famiglia sterminata da una cena avvelenata, unico superstite il figlio più piccolo, che commenta: «Da un giorno all'altro, un piatto di funghi mi lasciò solo al mondo»), la vita come imbroglio, e viceversa, amori, superstizioni, ossessioni, tronfi, azzardi, vanità, cadute e imprese. Cioè, la vita.

Guitry, una "fabbrica" di commedie. Avrebbe voluto fare l'attore come il padre Lucien. Così iniziò a scrivere per il teatro. Edgardo Franzosini il 20 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Alexandre Georges-Pierre Guitry nasce il 21 febbraio 1885 a San Pietroburgo in un'elegante abitazione che si affaccia sulla prospettiva Nevskij. Il padre, Lucien, è uno degli attori francesi più illustri dell'epoca. Perfetto esemplare dell'istrione, di colui che vorrebbe ogni sera, a teatro, il pubblico ai suoi piedi, scommette con gli autori che conosce e frequenta di essere in grado di provocare in qualunque momento, se vuole, l'applauso degli spettatori. Anche interpretando, cioè, la scena più debole, il passaggio più insignificante e banale delle loro commedie. E vince ogni volta la scommessa. Durante la stagione invernale lascia Parigi per recitare le opere di Dumas, di Sardou, di Rostand sul palcoscenico del Teatro Imperiale Michajlovskij davanti a una platea di granduchi e granduchesse. Ragione per cui Alexandre, per i primi cinque anni della sua vita, trascorrerà l'inverno in Russia e l'estate in Francia. Il nome Alexandre, del resto, è un omaggio ad Alessandro III. Un giorno Lucien ha recitato nel palazzo di Gatcina, dove lo zar di tutte le Russie vive pressoché recluso per il terrore di finire assassinato come il padre. Al termine della rappresentazione l'imperatore ha voluto conoscere personalmente l'attore e, assieme alla zarina Marija Fëdorovna e ai suoi sei figli, complimentarsi con lui. Qualche anno più tardi, nello stesso sontuoso palazzo, lo zar autocrate assiste al debutto teatrale di Alexandre, che ormai, come vuole Lucien che considera quel nome un po' troppo lungo, tutti chiamano Sacha. Quella sera padre e figlio, l'uno a fianco all'altro, recitano indossando lo stesso identico costume di Pierrot. Dopo lo spettacolo cenano alla tavola dello zar. Quando, di lì a poco, Lucien si separa dalla moglie, deciso a tenere con sé il figlio, lo rapisce, trascinandolo via in carrozza come in un romanzo d'appendice. Sacha inizia a frequentare la scuola, passando di collegio in collegio: dodici in dodici anni. È un allievo indolente e indisciplinato. Dei suoi insegnanti, scriverà un giorno che erano in genere «pessimi», e che quei pochi dotati sapevano solo «insegnare i propri difetti». Inizia a disegnare, a fare caricature, a dipingere. La cosa, dirà, lo divertiva «pazzamente», anche perché gli sembrava la sola attività in cui «fosse piacevole avere delle esitazioni».

Quando, con una lettera, informa il padre di voler anch'egli diventare attore, la reazione di Lucien non è quella che Sacha si attende: «Ragazzo mio, ho pensato molto a ciò che mi hai scritto. Dovremo riparlarne e ne riparleremo» è la sua risposta. Come raccontò lui stesso, in quel «ne riparleremo» Sacha vide non la promessa di affrontare più in là l'argomento, ma piuttosto «il desiderio di non volerne parlare affatto». Da quel momento comprese che «se già non è così facile per un figlio intraprendere un lavoro diverso da quello del padre, mettersi a fare lo stesso lavoro può risultare spesso impossibile». ()

Guitry comincia a scrivere e a firmare con il proprio nome le prime «commedie vere». Le stesure non durano più di tre, quattro giorni. La rapidità sarà una costante del suo metodo di lavoro (per Deux Couverts gli basteranno poche ore). «Credete che avrei scritto centoquattordici commedie, se avessi dovuto far fatica? Se fosse stato così, avrei cambiato mestiere da tempo» disse rispondendo alle domande di un intervistatore (ma una volta sentì il bisogno di correggere l'affermazione: «Le scrivo in tre o quattro giorni, dopo, beninteso, averci pensato per un anno o due»). In un'altra occasione precisò: «A voi piacciono gli schemi, le scalette? Io li detesto e non li faccio mai quando mi metto a scrivere una commedia».

«Una commedia è composta da battute che si scambiano i personaggi. Queste battute sono loro che me le dettano. Non gliele devo imporre, rischierei di spingerli a mentire; oppure gli impedirei di mentire a loro piacimento, e sarebbe ancora più grave». Il primo grande successo arriva a vent'anni con Nono, in cui, come Molière, mette in scena padroni e domestici. Commentando il favore che il pubblico comincia a dimostrargli, Guitry dirà: «Avevo un cognome, mi sono fatto un nome». Riceve anche le lodi dell'esigentissimo Jules Renard, che parla di «tre atti che sono una rivelazione». Renard, che tenterà in più occasioni di far riconciliare padre e figlio, è un assiduo frequentatore di casa Guitry. Spesso commensale di Lucien la domenica sera, è testimone di come talvolta il grande attore, tra la matinée e lo spettacolo serale, si presenti a tavola con il trucco sul viso e la parrucca: «felice» annota Renard nel suo Journal «che gliela lascino in testa per tutta la giornata». Renard considerava Lucien «un letterato che invece di scrivere recita». Era affascinato dal modo in cui a tavola raccontava anche le storie più banali; andava matto per il tono che assumeva, per la sua voce, per i movimenti, i gesti. «È prodigioso» osservava. «Sembra sempre che stia creando un testo». Persino «con la bocca piena» dava l'impressione di riuscire a padroneggiare, preciso, attento, tutto ciò che diceva. Vicino a lui, Renard confessava di sentirsi una nullità, appena capace di proferire, con l'aria dell'imbecille: «Ma è proprio vero?».

Chez les Zoaques, la commedia che Sacha scrive poco tempo dopo, rinnova il successo di Nono. Tuttavia, dopo una settantina di repliche, l'attore protagonista lascia improvvisamente la compagnia. A lui, per rimediare alla situazione, non rimane che sostituirlo. Per la prima volta Guitry interpreta Guitry. Da quella sera salirà sul palcoscenico, per più di trent'anni, migliaia e migliaia di volte. «La giornata di un attore» scriverà un giorno «non è completa se non si conclude con una rappresentazione». E ancora: «All'indomani dell'ultima replica ti puoi trovare a Parigi o in tournée, ma quando viene la sera ti senti come un'anima in pena... le città in cui non reciti hanno qualcosa di bizzarro, di ostile». A questo proposito amava ricordare le parole del padre, secondo cui, per un attore, alla malinconia dell'ultima rappresentazione si aggiungeva la tristezza che non si potesse, il giorno dopo, «cercare di recitare meglio».

·        Saint-John Perse.

Così Perse con l'"Anabasi" crea poesia senza tempo. Torna l'opera più densa dell'autore che vinse il Nobel nel 1960, Saint-John Perse. I suoi versi conquistarono anche T. S. Eliot. Davide Brullo il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

La perquisizione dell'appartamento del poeta, in avenue de Camoens, fu uno dei primi atti compiuti dalla Gestapo a Parigi. Due giorni dopo l'ingresso dei nazisti nella capitale, il 16 giugno del 1940, Saint-John Perse era riparato in Inghilterra, ospite a Chequers da Winston Churchill, «per discutere delle sorti della Francia e del destino delle forze di resistenza, falciate nel fisico e nel morale». Il mese dopo sarebbe sbarcato negli Stati Uniti inaugurando un esilio, politico e personale, durato diciassette anni.

Hitler gli aveva promesso vendetta: nel 1938, durante la conferenza di Monaco, il poeta, giunto al seguito del Primo ministro Édouard Daladier, gli aveva dato contro. Il Führer esplose, «Chi è questo martinicano, questo negro che osa tenermi testa?»; il poeta, isolato, minacciò di pigliare a pugni il Cancelliere. Tra i documenti trafugati dall'appartamento di Saint-John Perse e perduti per sempre spiccava la traduzione di Anabase realizzata da Walter Benjamin. Il testo fu ritrovato, anni dopo, tra gli archivi di Hugo von Hofmannsthal, un altro ammiratore del poeta, e stampato in volume, proprio a Monaco, nel 1961. Anche Rainer Maria Rilke si era avvicinato al poema, magnetizzato da quella lingua arcana e apollinea, di spaventosa severità, ritraendosi, «è intraducibile, è opera d'altra razza, di un altro mondo». La carriera del poeta era stata micidiale, frenetica, schizoide. Nato nelle Piccole Antille francesi, in un'isola di famiglia, Saint-John Perse conserva l'austerità dei coloni aristocratici, la nostalgia del fuggiasco, una fede granitica nell'individuo e nella solitudine. Gli fu maestro Paul Claudel e amico André Gide; dopo gli studi a Pau e a Bordeaux, nel 1914 è ammesso al Ministero degli esteri per intraprendere la carriera diplomatica. L'incontro con Aristide Briand, di cui diventa il consigliere, gli consente di abitare ai vertici della politica francese; nel 1930 redige il Memorandum per «un'unione federale europea»; poco dopo delinea la sua formula «sull'ottimismo in politica»: «la vita è atto, l'inerzia è morte; il pessimismo non è soltanto contro natura, è un errore di giudizio pericoloso quanto la diserzione».

A differenza di un altro grande artista assurto agli alti ranghi della politica, André Malraux, un autentico satrapo, Saint-John Perse scansa i riflettori, è elusivo e infine inafferrabile, rifiuta il palco. Vive da scismatico: durante gli anni degli incarichi pubblici, Alexis Léger questo il nome di battesimo non pubblica, sottomette il poeta alla ragion di Stato. Secondo l'agiografia compilata da sé stesso, in terza persona, nel 1972, allestendo per la Pléiade Gallimard l'edizione delle sue Oeuvres complètes Saint-John Perse scrive Anabasi tra il 1916 e il 1921, «in un piccolo tempio taoista in rovina, a un giorno da cavallo da Pechino», dove è segretario del corpo diplomatico francese. Di certo, nel 1920 attraversa il deserto del Gobi insieme a Gustave-Charles Toussaint, studioso, avventuriero, scopritore di antichi manoscritti in Tibet. Il 26 febbraio del 1921 invia una lunga lettera a Joseph Conrad realmente giunta a destinazione? in cui gli racconta che «sugli altipiani dell'Asia, nel cuore del deserto, cavallo e cavaliere si girano ancora d'istinto verso Est, là dove giace la tavola invisibile del mare e la sede del sale».

Ritenuto (epigrafe cretina) «poeta per poeti», Saint-John Perse che incidentalmente ottenne il Nobel per la letteratura nel 1960 prolunga l'insegnamento di Arthur Rimbaud, predilige una poesia dall'amnio estatico, dalla nobiltà formale speziata e spiazzante. Tradotto negli anni Trenta da Giuseppe Ungaretti «vi incontro a ogni passo stupori nuovi, è una consolazione potere consacrarsi ad un tal lavoro», scrive alla principessa Marguerite Caetani , Anabasi torna per Crocetti (pagg.124, euro 12) nella versione, riveduta (la prima, con ottimi apparati, era edita da Ecig, 2000), di Giorgio Cittadini. Fin dai primi versi «Su tre grandi stagioni stabilendomi con onore, buon presagio ho del suolo ove ho fondato la mia legge./ Le arme di mattina sono belle e il mare. Ai nostri cavalli lasciata la terra senza mandorle/ ci vale questo cielo incorruttibile. E il sole non è nominato, ma la potenza sua è tra di noi/ e il mare di mattina come una presunzione della mente» siamo gettati in una poesia apodittica, apocrifa, apolide, che pare scritta tra diecimila anni, sempre giovane, che al criterio della comprensione predilige il rito meridiano, al logos antepone la mania. Forse soltanto un uomo così inserito nei meccanismi della Storia poteva scrivere una poesia astorica, tracciata tra le stelle.

Poeta senza epigoni, autore di un'opera che lascia senza fiato e che finalmente, lentamente, ritorna in Italia: le edizioni Settecolori hanno annunciato la pubblicazione di Amers, l'immane poema sul mare, di cui esiste un'antica e bella versione di Romeo Lucchese , Saint-John Perse amava i deserti e gli oceani, i viaggi solitari, la compagnia delle pietre e degli uccelli carnivori rispetto a quella degli intellettuali.

Nel 1930, per la Faber and Faber, Thomas S. Eliot aveva pubblicato la sua versione di Anabasi: le lettere di elogi al poeta ad esempio: «il suo poema è uno dei più grandi e singolari dei tempi moderni, se potrò pervenire a fare una traduzione che sia quasi degna di un simile capolavoro...», 15 gennaio 1927 restarono mute, senza risposta. Anni più tardi, Saint-John Perse instaurò un rapporto di stima cordiale con Eliot, propria agli intoccabili. In una lettera qui selezioniamo alcuni brani, finora inediti in Italia lo invita a Giens, in Provenza, nella casa che sfocia nel Mediterraneo. Anche se nessuno osa dirlo, Anabasi è poema più vasto e ricco di possibilità della Terra desolata.

Un giorno, durante una cena di gala, a Washington, una ricca suffragetta delle arti si avvicinò a Saint-John Perse. «So che siete poeta. Ma non so se è T.S. Eliot che ha tradotto un vostro poema o siete voi, al contrario, il traduttore del suo famoso poema». Saint-John Perse freddò l'interlocutrice, «la seconda è quella buona». Per il resto della serata, con impeccabile arguzia, «continuarono a parlare di un poema di Eliot intitolato Anabasi» (così il racconto di Katherine Garrison Chapin). Il poeta collezionava maschere e con tutti manteneva la distanza che si confà alla menzogna e al miracolato.

·        Salvatore Quasimodo.

Ecco chi era Quasimodo oltre il Nobel e le gelosie. Davide Brullo il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.

Un volume raccoglie saggi e testimonianze sul poeta, ferocemente criticato dopo il premio.

L'assegnazione del Nobel per la letteratura a Salvatore Quasimodo segna un punto insuperabile nella storia del masochismo italico. Emilio Cecchi, dal pulpito del Corriere della Sera, azzardò quell'elzeviro dall'incipit micidiale, «A caval donato non si guarda in bocca...»; da allora, un po' tutti hanno fatto a gara a denigrare il poeta. Tra i Poeti italiani del Novecento (Mondadori, 1978), Pier Vincenzo Mengaldo, per dire, è obbligato a stipare Quasimodo (ma Nelo Risi, Virgilio Giotti e Giacomo Noventa sono liricamente più rappresentati di lui), e lo fa in negativo, asserendo che la sua poesia («quando si giunge, alla poesia») «non va oltre l'arguzia intellettualistica o la banalità sentimentale». Quasimodo percepì questa incipiente ferocia perfino da Stoccolma: il suo discorso di accettazione del Nobel, Il poeta e il politico amico di Giorgio La Pira, si iscrisse al Pci nel 1945, la militanza fu brevissima , da rileggere, insiste sul fatto che «Il poeta è solo: il muro di odio si alza intorno a lui con le pietre lanciate dalle compagnie di ventura letterarie». Capì, prima di altri, che «gli adulatori della cultura sono i suoi fanatici incendiari». Era il 1959 ed è vero, tra i nominati al Nobel spiccavano figure di primissimo piano, André Malraux, E.M. Forster, John Steinbeck, Karen Blixen, Graham Greene, Ezra Pound e Martin Heidegger; gli italiani erano rappresentati da Vasco Pratolini e da Alberto Moravia: Quasimodo, al loro cospetto e alla luce dei fatti nel 1950 ottiene il Premio San Babila, già vinto da Ungaretti; nel 1953, insieme a Dylan Thomas, è onorato con l'Etna-Taormina , più che un caval donato era un cavallo di razza.

In Poesia italiana del Novecento (1968), antologia ideologica ma piena di intuizioni folgoranti, Edoardo Sanguineti liquidò il poeta scrivendo che «Il suo più vero contributo originale alla poesia del nostro secolo non è da riconoscersi nella produzione creativa, ma nelle traduzioni dei Lirici greci». Non aveva del tutto torto: nel discorso per il Nobel Quasimodo cita, dei suoi libri, proprio i Lirici greci. Dotato di un orecchio assoluto per il ritmo, Quasimodo riuscì a rendere arcano l'arcaico, a sfidare l'accademia, a fare di Saffo la nostra sorella più prossima, cugina di Emily Dickinson, una vicina di casa, che annaffia le rose in giardino. Per paradosso, le poesie di Quasimodo ci paiono più antiche delle sue traduzioni degli antichi, spesso memorabili, nel mistero di un'eternità subacquea, che soggioga la Storia a mero gioco di specchi («Tramontata è la luna/ e le Pleiadi a mezzo della notte;/ anche giovinezza già dilegua,/ e ora nel mio letto resto sola»). Tra le molte cose, Quasimodo ha tradotto molto Shakespeare ma con sintonia difforme , Eschilo, Euripide, Ovidio; andrebbero riprese le traduzioni dall'Odissea e dalle Georgiche di Virgilio; quieta e solenne è la versione del Vangelo secondo Giovanni. Senza Quasimodo, esercizi di traduzione più estremi tentati da Pasolini, da Ceronetti, da Sanguineti, ad esempio sarebbero impensabili.

Si continua, oggi, a pubblicare il poeta con la stanca obbedienza alle norme consolidate, per fare un favore ai medagliati, riferendo di una nobiltà accattona: per questo l'album Per Salvatore Quasimodo (Ares, pagg. 232, euro 18), è strumento necessario; anche per la scrittura, di alta crudeltà, di Curzia Ferrari, confidente, amica, musa del poeta. Nel testo cardinale del libro, non sono rari gli acuti che descrivono l'indole di Quasimodo: «Lui soffriva la perdita di persone immaginate fedeli o comunque equanimi nel giudizio: rimanere solo con la propria vittoria non gli dava soddisfazione a vivere. Per vivere da soli e guardare il mondo con sufficienza si deve essere una bestia o un dio, afferma Aristotele». Il testo di Roberto Mussapi svela il Quasimodo traduttore, quello di Vincenzo Guarracino tenta «una storia della critica della poesia di Salvatore Quasimodo», l'album fotografico, vasto, è affascinante: il poeta indaga il mondo con commozione essenziale, pare allegro. Cesare Cavalleri tira le fila di questo «invito alla lettura»: Quasimodo è uno dei suoi autori domestici; in una lunga (e bella) intervista Gilberto Finzi, che ha curato il Meridiano di Quasimodo, gli rivelò la volta «che mi fece conoscere Pablo Neruda; me lo propose a bruciapelo, un giorno, in casa sua, e io mi schermii per l'abito in disordine, per le scarpe impolverate... ma lui mi portò in disparte, mi spazzolai le scarpe, e insieme, in taxi andammo da Neruda. Quasimodo era anche, a suo modo, divertente» (Studi cattolici, n. 435, maggio 1997). Amava la vita, Quasimodo, e le avventatezze feriali, pare tra l'altro, per Einaudi aveva tradotto proprio Neruda.

Iniziato alla Massoneria nel 1922, l'anno in cui Thomas S. Eliot pubblicava La terra desolata, Quasimodo muore nel giugno del 1968: è sepolto nel Cimitero Monumentale di Milano, al fianco di Alessandro Manzoni. Nel coccodrillo, Gianni Brera gli fece un ritratto, secondo il suo stile, da barocco padano «Il profilo da uccello palustre, due baffi secenteschi per ridurre, penso, l'imperiosa imponenza del becco. Dicevano tanto male di lui come uomo che doveva essere molto buono e grande» , e lo vendicò: «Insignito del Nobel, si disse che era stato merito di Nordahl, calciatore del Milan. Si scrisse che a caval donato non si guarda in bocca. Partenope Sera teneva per Montale che avrebbe voluto cantare da baritono». Anni dopo, anche Giovanni Testori se la prese con gli «imperanti re della poesia inNobelata», riferendosi a Montale, che ordinò «generalissimo silenzio» intorno a un suo libro in versi, I Trionfi. Altri tempi, quelli in cui i poeti si sfidavano a viso aperto, avidi di sole: adesso se ancora esistono si spalleggiano, dormono nello stesso letto, ambiscono a una carriera da portaborse o da editor e ti denunciano se scrivi che scrivono futili schifezze.

·        Sebastián Matta.

Dagospia il 31 ottobre 2022. Antonio Gnoli, intervista a Sebastián Matta (Tratto da ”Matta. Lettere a Luisa. Corrispondenza dall'archivio Laureati-Briganti", Treccani, 2022) 

Ho conosciuto Matta per i suoi novant’anni. Andai a trovarlo alla fine del gennaio 2002. Lui morì nel novembre dello stesso anno. Viveva in una grande casa di campagna, che in origine era stata un convento, vicino Tarquinia, insieme alla moglie Germana. 

Ricordo i suoi dipinti: all’apparenza così insoliti da sembrare governati dal caos. In realtà straordinariamente lucidi da sfidare la legge gravitazionale. Eserciti di forme schierati per un conflitto, pronti a darsi battaglia. A mutare campo, dimensione, forma. Insomma, pura morfologia. E grande movimento. Questo era Matta ai miei occhi, uno dei grandi artisti del Novecento.

Ma come i grandi artisti, Matta fu qualcosa di più sorprendente che la lingua solo in parte può restituire. Era cileno: un uomo piccolo di statura, robusto di costituzione e fornito di una lingua cantilenante nella quale mescolava italiano e spagnolo. Non so se si ritenesse un grande artista perché nei suoi racconti di tutto quello che aveva fatto di importante, dei movimenti che aveva attraversato – il Surrealismo e la Pop Art –, dei personaggi che aveva conosciuto – il meglio della cultura europea e americana – non restava che la disincantata conclusione che ogni cosa tramonta. 

E che lui – il povero Sebastián – era uno degli ultimi sopravvissuti di un mondo che non c’era più. «Cosa vuole che io sappia di me?», mi disse. «Io non so niente, non capisco niente e non so perché certe cose siano capitate proprio a me». Una tale modestia non tragga in inganno.

Matta, come dimostra l’enorme scenario morfologico che la sua pittura seppe allestire, è stato tra i grandi artisti del Novecento. Alla sua veneranda età poteva anche permettersi di trascurare il senso profondo della sua opera, le infinite implicazioni con le prime avanguardie europee, le influenze sulla pittura americana. E poteva permetterselo anche a partire da un’altra considerazione. 

Più generale, se si vuole. Nessun artista, che sia davvero tale, può conoscere il dono che ha avuto in serbo. Può esprimerlo, certo. Può confrontarlo, indubbiamente. Può affinarlo, è ovvio. Quello che non può fare è parlarne, consentendo agli altri di scendere alla profondità che quel dono richiederebbe. Di questo Matta era, più o meno direttamente, consapevole. Come pure era convinto che l’arte si nutrisse degli interdetti che la società impone. «Senza proibizioni non esisterebbero società», soleva ripetere. «E senza il proibito non sarei mai diventato artista», concludeva. 

Il vecchio Matta era sorprendentemente vicino al giovane Matta, quello degli anni parigini, delle frequentazioni con Breton, Duchamp, Ernst, Dalí, Giacometti. Quel mondo fece esplodere le forme e consegnò la ragione, almeno in parte, nelle mani del sogno. Ecco cosa è stato Sebastián: un lungo appassionato viaggio dentro l’onirico. 

Maestro, quali sono le sue origini?

«Origini? Ognuno si sceglie una data da cui fa partire la sua vita. La mia data è il 1934». 

Che cosa ha d’importante?

«Era un mattino di primavera, Madrid luminosa e bella. Mi trovavo dai miei zii, gente aperta e disponibile. Avevano una casa accogliente, una specie di punto di ritrovo per artisti e poeti. Quel giorno arrivò Federico García Lorca. Ricordo che si sedette al piano e strimpellò un’aria andalusa. Poi si interruppe, girò il busto e puntandomi il dito, ma rivolgendosi alla zia disse: “chi è questo ragazzo?”, “è mio nipote”, disse la zia, “sai, quello che mi scrive sui fogli di carta verde”. 

A quel punto Federico si alzò dal pianoforte, si avvicinò, mi afferrò una mano e con l’altro braccio mi cinse la vita. Improvvisò qualche passo di danza. Era tutto talmente folle e affascinante da sembrare di stare in un sogno. Disse che il colore verde ci univa. Non so cosa esattamente vi attribuisse. Tutto qui». 

Sa spiegare il suo atteggiamento?

«Non lo so, credo che il verde fosse il colore che lo aveva stregato. Ma chi può dire che cosa gli passava per la testa in quel momento. Ero affascinato dal suo comportamento imprevedibile. Qualche tempo dopo provai a mettere per iscritto quelle emozioni. Realizzando un piccolo componimento che chiamai La terra è un uomo. Mi pare fosse il 1937». 

C’era una relazione con la morte di Lorca?

«Il titolo di quelle pagine dimenticate farebbe pensare di sì. Quando si è giovani si scoprono i desideri più curiosi. È come una specie di alba, così ho scoperto la scrittura. Detto da uno di novant’anni, afflitto da una sorta di menopausa maschile, può risultare curioso».

Curioso perché?

«Alla fine ho fatto altro nella vita. Ho perso il contatto con una forma di energia e ho avuto la forza e la fortuna di assumerne un’altra. Bisogna stare attenti che il desiderio non sparisca. Perché se sparisce è la fine di tutto». 

Cos’è per lei il desiderio?

«È insieme il demonio e il messia».

La tentazione e la speranza.

«Oppure la voglia di una cosa che deve venire e non viene».

L’attrae il demone?

«Più che il demone amo il proibito, o ciò che è interdetto».

Interdetto da chi?

«L’interdetto è stato inventato dalla società. Senza interdetto non ci sarebbero civiltà né regole. Le società hanno il compito di proibire. Io mentalmente vivo nel proibito, lo uso, me ne nutro». 

Vuole dire che infrangere un divieto equivale a creare?

«Non tutti i divieti infranti diventano arte. Ma la creazione ha bisogno del divieto, la creazione è una sorta di “perpendicolare” rispetto alla ragione. È inseparabile e al tempo stesso la sua parte verticale».

Mi faccia capire meglio.

«In Occidente il proibito è apparso molto tardi». 

Tardi, ma quando?

«In poesia solo con Rimbaud e Lautréamont e poi con il surrealismo. Prima di allora poco o nulla. Anche Baudelaire ci girava intorno senza entrarvi veramente».

Come si affronta il proibito?

«Prima di affrontarlo devo sapere dov’è. È nel territorio meta-razionale, inseparabile dai miei desideri, come inseparabile è il corpo dall’anima. La gente ragionevole non vi si avventura e sbaglia perché è una fonte di energia, di significati da esplorare». 

E lei usa questa energia?

«Serve a rompere l’incantesimo dell’interdetto. Senza interdetto non vi sarebbe società, né le regole. Questo pensa la gente. Non usa il proibito perché lo teme. Senza sapere perché, io utilizzo il proibito. Quello che io realizzo si manifesta attraverso di me come una cosa proibita». 

 Riassume il senso del creare.

«Creare vuol dire infrangere le leggi. Anche se non è che ogni volta che le infrangi crei».

Si chiama libertà?

«Mi attribuiscono una specie di libertà che non è libertà. Perché in fondo è un esilio. Sono stato esiliato prima ancora che dal mio paese da tutta la gente che ho visto e conosciuto. Questo esilio, però, mi ha dato accesso a piccole visioni, piccoli sguardi su quello che la società ha mutilato, offeso, rimosso».

È il ruolo dell’artista.

«La società ha bisogno di artisti, per questo li inventa. Poi li esclude, li condanna, ma al tempo stesso li blandisce e li salva. Avete bisogno di nomi preziosi con cui definire l’artista e la sua arte. Ma io che c’entro? Io che ho vissuto con poeti e scrittori che non avevano niente a che vedere con le accademie. Gente infernale». 

Ma la sua arte che rapporto ha con la ragione?

«Io non ho rapporto con nulla. Io sono Matta, ma sono davvero Matta?». 

Ce lo dica lei.

«Sono nato casualmente in Cile, ma sono da sempre un espatriato. Non ho quelle radici su cui si sono costruiti monumenti di retorica». 

Le radici sono importanti.

«Macché! Le radici ti fregano. Le radici vogliono che tu stia fermo in un posto, inchiodato ai tuoi piccoli egoismi. Si vede che lei è un sentimentale».

Si vede che lei è un artista.

«Io non so che cosa sono».

La società la ritiene tale.

«La società ha bisogno degli artisti per escluderli, condannarli e poi salvarli. Vede il paradosso?». 

Vedo il capriccio.

«No, il paradosso! Voi avete bisogno di verità da esibire. Ambite a nomi preziosi con cui definire l’artista e la sua arte. Ma io che c’entro? Ho vissuto con artisti fuori dell’accademia e vicini all’inferno». 

Lei ha avuto lunghe frequentazioni con i surrealisti.

«Per me non erano surrealisti. Vedevo spesso André Breton e Marcel Duchamp, ho avuto legami con Henri Michaux. Che senso ha dire che furono dei surrealisti? Eravamo gente di passaggio, parlavamo in nome dei nostri desideri. Sa qual è il vero problema?». 

No, qual è?

«Sempre meno si usa il desiderio in quanto desiderio, si cerca solo l’appagamento del desiderio. Capisce quello che dico? Non ci sono più rivoluzioni, ma solo saccheggi nei supermercati». 

Trionfa il consumo, maestro. Ma lei che cosa faceva nella Parigi surrealista?

«Mi facevo gli affari miei. Non stavo nell’ambiente artistico. La sera ci vedevamo al caffè con Breton, Éluard, Bataille». 

Ha conosciuto anche Georges Bataille?

«Ma certo. Faceva il bibliotecario. Con lui, Balthus e Giacometti pensavamo di comprare una casa». 

Per andarci a vivere?

«Francamente il motivo non me lo ricordo. Comunque non se ne fece niente. So che all’epoca Breton aveva tuonato contro di me escludendomi dal partito surrealista». 

Motivo?

«Mah! Ignominia morale, intellettuale. Ho l’impressione che dessi fastidio. Credevano di essere un partito politico e io di politica non ho mai capito granché». 

Non sempre è un limite.

«Io non l’ho mai vissuto come un difetto o un limite. Pensi che prima che mi lasciassi coinvolgere dalla Parigi surrealista sono stato assistente di Le Corbusier. Ricordo che facemmo un viaggio a Mosca, negli anni Trenta. Il grande architetto era stato invitato per fare delle proposte e per vedere che cosa aveva realizzato l’edilizia sovietica. Io non mi accorsi di nulla». 

Di che cosa si sarebbe dovuto accorgere?

«Del terribile clima politico che stavano vivendo. C’erano i processi, la gente era arrestata per una inezia, portata via, strappata alla famiglia. Trovavo Mosca soffocante. Volevo fuggire, ma non per ragioni politiche. Mai una città mi era apparsa più inquietante e plumbea». 

Come entrò in contatto con Le Corbusier?

«Ero un giovane architetto venuto via dal Cile, senza soldi e senza lavoro. Mi ricordo che sbarcai a Parigi provando una immensa solitudine. Fu il nipote di Misia Sert a mettermi in contatto con lui. All’inizio ero una specie di tuttofare. Ero l’ultimo arrivato. A Santiago un privilegiato, a Parigi un disperato. Appena misi piede nello studio di rue de Sèvres mi chiesero di occuparmi della macchina di Charlotte Perriand, che non partiva».

Chi era Charlotte Perriand?

«Disegnava mobili. Nello studio aveva un ruolo fondamentale, quasi quanto quello di Pierre Jeanneret, cugino e braccio destro di Le Corbusier. Parigi negli anni Trenta comprendeva personaggi di prim’ordine. Ma loro avevano altro cui pensare».

Cosa intende?

«Avevo bisogno di evadere dallo studio Le Corbusier». 

Chi la fece evadere?

«Fu sempre José Luis Sert, in realtà nipote del terzo marito di Misia, a farmi collaborare nel 1937 al padiglione spagnolo dell’Esposizione Universale che si stava allestendo a Parigi. Dovevo dare una mano a Picasso». 

Cosa doveva fare esattamente?

«Nel 1937 Picasso era stato incaricato di preparare un quadro per l’Esposizione Universale in cui fossero chiari i motivi della guerra, gli orrori che essa aveva prodotto. Sullo sfondo naturalmente c’era la tragedia della Guerra civile spagnola. 

Il mio compito era quello di sollecitare Picasso a finire il quadro. Il quadro era Guernica. Andavo nel suo studio e vedevo tutto quell’orrore dipinto e lui rideva. Ricordo che mi diceva: “toh, c’è il giovane architetto che viene a controllarmi”».

Era gratificante per un giovane.

«Mi trattava come un idraulico».

Le piaceva Picasso?

«Come artista era immenso, talmente grande che ho cercato di proteggermi dalla sua influenza. Posso dire che in quegli anni due personalità ho amato e da entrambe ho cercato di scappare: una era Picasso, l’altra Duchamp». 

Breton?

«Breton era un organizzatore». 

Cosa pensava della sua arte?

«Ne restò colpito sin dall’inizio. Fu Salvador Dalí a mettermi in contatto con Breton. Ricordo che quando García Lorca morì andai a Parigi con una presentazione di Federico scritta nel risvolto bianco della copertina di un libro. Non sapevo chi fosse Dalí e quel giorno del 1937 mi presentai alle undici nella sua casa.

Dalí si stava facendo la barba, mi fece accomodare. García Lorca era stato il grande amore della sua vita. E fu per questo che mi accolse come un amico. Lo stesso giorno chiamò Breton che, incuriosito dalla descrizione di Dalí, mi volle vedere. Ricordo che al nostro primo incontro André comprò un mio disegno e decise di esporne altri alla grande mostra sul surrealismo che organizzò l’anno dopo». 

In fondo era un ambiente eccitante per un giovane come lei. «Era un ambiente strano. Dalí e Breton in quel periodo non si frequentavano e io, per qualche mese, feci il postino fra i due». 

Come artista chi preferiva?

«All’inizio la pittura di Dalí è stata un misto di furbizia e di talento, poi è diventata una baracconata. Breton fu soprattutto un intellettuale, molto ascoltato dagli artisti. Ma la vera stella era Picasso». 

Era considerato una forza della natura.

«Si è troppo insistito sulle sue tempeste ormonali. Picasso in mutande, Picasso avvinghiato a qualche ninfetta, era il lato che piaceva ai giornali. Un po’ lui si prestava. Ma la verità è che non beveva, fumava moltissimo, questo sì, ma era molto naturale. Sto parlando di Picasso fino alla fine degli anni Quaranta. Poi ne avete fatto un personaggio hollywoodiano». 

Dopo la rottura con i surrealisti lei è emigrato negli Stati Uniti, ma anche lì non ha avuto una vita facile”.

«Partii nel 1939 e ci sono restato per una decina di anni. È vero, non è stato facile, ma dove è facile vivere?». 

Si dice che lei abbia influenzato la Pop Art.

«Credo di aver influenzato solo me stesso. E se fosse così già sarebbe un risultato».

Si dice anche che quelli del gruppo non l’amavano.

«Chi, scusi?».

Quelli della Action Painting.

«Semplicemente ridicolo. La verità è che quel gruppo, tra cui Gorky, Pollock, Baziotes, cominciò a imitarmi. Ma lo facevano – come dire? – senza creatività».

Sono stati anni tormentosi.

«Anche eccitanti». 

Che ricordo ha di Pollock?

«Un simpatico ubriacone, è morto troppo presto per poter dare un giudizio. Ma in generale, posso solo dire che quel gruppo prese me come modello ma senza capire la grande esperienza europea che c’era dietro i miei quadri».

Traduca.

«Il proibito, più Freud. È Freud ad aver parlato di perturbante che io traduco con trasgressione». 

Che cosa pensa della psicoanalisi?

«A volte è comica, a volte è solo una trappola per l’anima, come la confessione in chiesa. I poveri vanno dal prete, i ricchi dall’analista. Questa è la verità». 

Dio è davvero inaffidabile, come dice?

«La parola Dio è come la parola “patria” o “inconscio”. Espressioni insondabili. Solo la retorica le può affrontare». 

Circolò anche la voce, sgradevole, che lei in qualche modo fosse la causa del suicidio di Gorky.

«Se non ricordo male la voce fu messa in giro da Breton. Si disse che c’era stato un “love affaire” con la moglie di Gorky. La verità è che eravamo solo amici e Gorky si suicidò perché era molto malato». 

Quando dice che era amico della moglie cosa intende?

«Quello che la parola indica. Era bella, ma anche esasperata. Lui era spesso ubriaco e lei un bel giorno decise di tornarsene, mi pare, a Washington, dalla madre. Prese le due bambine e partì. Dopo la morte di Gorky credo che abbia sposato un architetto. Ripeto: tra noi c’era amicizia e niente altro». 

Ma allora come è nata questa storia?

«Non lo so come può essere nata questa leggenda».

Perché qualcuno avrebbe pensato di inventarla?

«Non lo so, forse davo fastidio».

Non c’entrano le sue pulsioni erotiche?

 «Il mio erotismo non è una questione di fica, ma di testa».

Il suo amico Bataille aveva scritto un libro sull’erotismo. «È a quello che pensavo». Anche il suo amico Balthus era attratto dall’erotismo. «Un erotismo minore, anzi minorile, viste le fanciulle che dipingeva. Balthus mi voleva bene. Sempre così distante e aristocratico».

Si avvertiva la presenza di Rilke.

«Fu una specie di padre adottivo, invaghito della madre di Balthus, Baladine Klossowska».

Fu una storia importante.

«Tutto in Rilke assumeva proporzioni gigantesche. Sapeva mettere la poesia in ogni cosa. Del resto, la vera poesia è ovunque. Perfino nel gesto di un falegname. È sufficiente che ci sia la voglia smisurata di creare. È ciò che io chiamo messia». L’arrivo di qualcuno o di qualcosa che non ti aspetti? «È la parte viva dell’utopia ebraica. Togli Jehovah, togli la dura legge mosaica e resta solo questa speranza. Sono stato a scuola dai gesuiti, a Santiago, educazione francese». 

Crede in Dio?

«Mi viene da ridere. Lei comprerebbe una macchina usata da Dio?». 

Comprerei un suo “Totem”.

«Ah! Tutti uguali: preti e giornalisti». 

Entrambi si occupano di anime.

«Fanno marketing dell’anima. Infuocano i desideri per poterli meglio amministrare».

 Fare oggetti che richiamano i totem che cos’è?

«La religione non c’entra, se vuole c’entra più il cazzo. È la forma del preistorico che mi interessa: l’albero come meraviglia della natura. Quando vedo un albero, avverto la “perpendicolare”, il demonio inseparabile dall’angelo». 

Forse per questo l’hanno accostata a William Blake.

«Una ragazza, una studentessa, ha scritto una tesi su di me, in cui dice che la mia pittura ha risentito dell’influenza di William Blake».

Mi pare un ottimo spunto.

«In Blake c’è qualcosa che avrebbero ripreso i surrealisti. Il lato onirico, forse. Ma è spudoratamente vistoso. Lo conosce Blake?» 

Come dire se conosco la Torre di Londra.

«Sì, è diventato un appuntamento turistico. Ma nessuno lo conosce davvero. Nessuno ha più letto Il matrimonio del cielo e dell’inferno, neppure gli inglesi».

Perché?

«Troppo eversivo, forse. Mi piace l’idea che l’inferno non sia un luogo di punizioni, ma di pura energia creativa. Un giorno Breton mi disse: devi leggere Swedenborg. Cosa? Gli chiesi. Leggi il trattato su Cielo e inferno». 

Seguì il consiglio?

«Lo lessi, e lessi anche il Diario dei sogni, che tanto impressionò Jung». Kant definì sogni di un visionario quelli di Swedenborg. «Effettivamente era un grande visionario. E ha influenzato tutto quello che in seguito è diventato teosofia. Le sue opere riscossero molto successo in Russia e poi in Europa. Una cultrice esoterica del suo pensiero fu Annie Besant». 

Amica di Helena Blavatskiy.

«Due donne che scossero la realtà. Come Swedenborg scosse i suoi sogni prima che la psicoanalisi provasse a normalizzarli». 

Viste le sue frequentazioni parigine, ha conosciuto Lacan?

«Non credo di avergli mai parlato, anche se l’ho visto più volte. Sembrava uno tosto».

Cosa vuole dire?

«Aveva una corte di gente intorno, adorante o intimidita. Forse per questo non gli ho mai parlato». 

Un’occasione persa?

 «Non lo so. Ma la psicoanalisi dice chi sei, non quello che non sei». 

Chi è Matta?

«Lo ripeto: non so niente di me».

Non si direbbe.

«Non capisco niente, non so perché certe cose capitano a me. Non credo che quello che ci accade abbia a che fare con l’intelligenza». 

Magari con la stupidità.

«Non intendo questo. È la specie umana che per sopravvivere e continuare a generare ha bisogno di usare tutto quello che gli è disponibile. E se non lo trova lo ruba, se ne appropria. Così si va avanti da millenni. Che cosa ha messo in moto tutto questo?». 

Si è dato una risposta?

«L’origine della vita, lì è la risposta: l’origine della vita come conflitto».

Lei è un darwinista?

«Lo sono per caso, per istinto. Non per vocazione. Anch’io ho usato quello che ho trovato. Come le ho detto ci si fa male nel combattimento». 

Può sottrarsi.

«Lo posso davvero? Posso solo tentare di liberarmi dalle mie radici».

Non è fiero di essere nato in Cile? «Sarei potuto spuntare da qualsiasi altro buco del mondo».

Non è importante dove si nasce?

«Non capisco nulla di geografia, non so nulla di costumi e di etiche e di religioni, non ho mai capito nulla neppure di filosofia. Sono un intuitivo». 

Un uomo accidentale.

«Molto di quello che ci succede avviene per caso. È grazie al caso che si prende consapevolezza di cosa si è o si è diventati. Nella casualità, oltretutto, si fanno gli incontri più interessanti».

Quello fondamentale quale è stato?

«Senza dubbio Federico». 

Vi siete mai rivisti, dopo quell’incontro a Madrid da sua zia?

«Ci rivedemmo a Ibiza durante l’estate. Poi scoppiò la guerra civile. A Londra dove mi ero trasferito seppi della sua morte. Seppi che i fascisti del generale Franco lo avevano fucilato».

Perché era andato a Londra?

«In Spagna ero indesiderato, Parigi poneva problemi, alla fine dopo un breve soggiorno in Portogallo mi diressi a Londra». 

Andò prima in Portogallo perché?

«Volevo andare a Barcellona, ma non fui in grado di raggiungerla». 

Perché il Portogallo e non la Francia?

«La console cilena a Lisbona era un’amica della nonna. Si chiamava Gabriela Mistral. Mi accolse nella sua casa. Non avevo un soldo e abitai per un po’ da lei. Tra l’altro era una poetessa che negli anni Quaranta avrebbe vinto il Nobel. Era bella, con dei tratti indiani, e io in un momento di fascinazione le chiesi la mano. Mi rispose che poteva essere mia nonna, ma non aveva neanche cinquant’anni. Mi pagò il viaggio per Londra e ancora una volta mi trovai in una città sconosciuta». 

 E cosa fece a Londra?

«Ho scritto, come ho detto, e ho disegnato. Una mostra di Henri Moore fu lo spunto per fare delle cose con la mollica del pane. Parodizzai le sue sculture».

Fu un nuovo inizio.

«Il primo passo è il più difficile».

Perché?

«Si mettono in dubbio le autorità supreme».

E il secondo?

«Non c’è un secondo passo. Ogni passo che si fa è un frammento dell’autorità che cade. Come un pezzo di marmo del frontone del Partenone». 

Così fino alla fine?

«Fino a quando non hai più desideri».

Ne ha ancora?

«Certo, ogni giorno è buono. Ma non sai quando arriverà, quando prenderà forma». 

Nell’attesa che fa?

«L’inverno amo stare davanti al fuoco. Se non faccio almeno un paio d’ore di fiamma non carburo. Per me la fiamma di un camino equivale a quello che per la gente è la televisione: ipnotismo allo stato puro, assenza di pensiero, condizione necessaria di vuoto. La gente non sa che solo quelli che sanno di sapere senza sapere hanno stretto un patto con il diavolo». 

L’arte ha un lato demoniaco?

«Non lo so, so soltanto quello che in questo momento mi passa per la testa».

Le basta?

«No, che non mi basta. Ma chi vuole che prenda sul serio un tipo che ha novant’anni? Vuol sapere chi sono? Mi hanno fatto cittadino francese, ma sono nato in Cile e sono scappato. Non torno laggiù da settant’anni. Qualcuno mi rimprovera, mi dice: devi amare il tuo paese. Io amo il Cile come amo il Vietnam, l’Afghanistan, il Congo. La verità è che non so dove sto, mi piace un certo buio. Ma credo che, senza saperlo, passo attraverso quello che i cristiani chiamano il diavolo». 

Dopo gli Stati Uniti, tornò in Europa e decise di stabilirsi in Italia.

«Erano i primi anni Cinquanta. Andavo spesso in trattoria con diversi artisti. Mi piaceva Capogrossi. Gli altri li ho dimenticati. Io ero il cileno di merda che veniva a rompere le scatole all’arte romana. Ricordo che Guttuso mi guardava come se fossi un alieno. Il fatto che io provenissi dall’esperienza  surrealista era per lui un affronto. “E Matta che disegna? Disegna delle aragoste”, diceva il compagno Guttuso. Non aveva la minima idea che si potesse dipingere fuori dagli schemi del realismo». 

Beh forse c’entra il fatto che all’epoca i surrealisti la consideravano uno di loro.

«Eravamo gente che parlava attraverso la perpendicolare. Molti hanno paura della perpendicolare. Come le vergini hanno paura dei peli della loro fica. Non sanno perché sono cresciuti lì. E soprattutto non la usano». 

Forse un artista non ha bisogno di sapere chi è.

«Questo è il punto. Io non so che cosa sono».

Per questo si richiama al messia?

«Ma il messia è come la x in matematica, cioè un’incognita. Se elimini la x, in matematica resta solo la contabilità». 

L’incognita è importante?

«Fondamentale».

Si sente un incompreso?

«Magari lo fossi!».

Si sente un sopravvissuto?

«A tutti coloro che non ci sono più, sì, mi sento un sopravvissuto». 

Ha una sua idea della morte?

«L’essere umano vive sognando di essere eterno. Eterno sia come artista, sia come uomo che si illude di lasciare un ricordo di sé. E la morte io la vedo come questa eternità. Solo che in quel mondo non incontreremo mai Marilyn Monroe». 

Due suoi figli sono morti, cosa prova?

«La loro morte mi ha addolcito. Resta però il dolore indicibile». 

Lo stesso che si prova creando?

«Non lo so. Il dolore dell’arte è raro, è cosmico. È una disgrazia feroce che non si esprime con le lacrime. È un dolore con molte catene, molte frecce, e tante ferite. È un dolore fatto di umiliazione, che consuma l’immaginazione, che ti risveglia dai sonni profondi e ti fa soffrire in nome della tua specie. È la piaga invisibile. È lì che nasce, se mai nasce, il talento dell’artista».

·        Sergio Leone.

Sergio Leone, era mio padre.  Francesco D'Errico su Panorama il 15 Ottobre 2022.

Il rapporto burrascoso con Robert De Niro, la «scoperta» di Clint Eastwood, la passione per il Far West. Andrea Leone, figlio del celebre regista, rivela a Panorama aneddoti e storie sul lavoro di suo papà con gli occhi di chi il backstage lo ha vissuto fin da bambino. E anticipa il docufilm che ne celebra la carriera (nelle sale dal 20 ottobre).

«Robert De Niro è un tipo molto introverso. E sul set di C’era una volta in America nessuno poteva incrociare il suo sguardo, a parte il direttore della fotografia Tonino Delli Colli, e il regista, mio padre, altrimenti chiedeva di rigirare la scena. All’inizio lui e mio papà si studiarono, ebbero anche qualche screzio: De Niro per esempio non era d’accordo sulla colonna sonora di Morricone, ma lui finì per convincerlo. Alla fine ottenne la sua fiducia incondizionata, e ricambiata. Al punto che, se mio padre non fosse morto il 30 aprile 1989, gli avrebbe chiesto di essere protagonista anche del suo film su Leningrado, purtroppo mai realizzato».

Il produttore Andrea Leone, 52 anni, presidente e amministratore delegato di Leone Group, ricorda così la lavorazione dell’ultimo titolo e capolavoro assoluto di suo padre Sergio Leone, la cui carriera, film, collaborazioni e influenza sui cineasti a venire sono raccontati nel documentarioSergio Leone, l’italiano che inventò l’America di Francesco Zippel, in arrivo al cinema dal 20 ottobre. «Far venire star come De Niro da Hollywood, o altri come James Coburn e Rod Steiger per Giù la testa, era difficile allora come adesso. Ma quando eri un autore di cinema riconosciuto, come oggi accade a Paolo Sorrentino, allora potevi riuscirci» spiega Andrea Leone. Clint Eastwood invece lo lanciò proprio lui in Per un pugno di dollari. Clint non parlava una parola d’italiano, né suo padre d’inglese. Come riuscivano a lavorare? Comunicavano a gesti, e siccome li accomunava la conoscenza del linguaggio cinematografico, riuscirono comunque a mettere in scena uno spettacolo fantastico. Mio papà diceva che Clint era un grande attore ed era contento di aver lavorato con lui. Credo sarebbe stato curioso di vederne la crescita da regista, perché quando morì, Eastwood ancora non aveva girato i suoi capolavori. Come descriveva suo padre gli «spaghetti western»? Non amava molto quella definizione un po’ dispregiativa coniata in America. Lui era cresciuto con il genere, ma i suoi western erano realistici, perché aveva studiato quell’epoca e sapeva che i cowboy non erano damerini, ma assassini o gente che viveva di espedienti. Diceva sempre che nei film di John Ford il protagonista apre una finestra per guardare l’orizzonte oltre la prateria, mentre nei suoi per prendere una pallottola in mezzo agli occhi. I suoi western erano violenti e cupi. In C’era una volta il West il protagonista è uno spietato assassino che, mandato a intimidire un proprietario terriero, uccide lui e i suoi tre figli… Per la parte scelse Henry Fonda, che fino ad allora aveva interpretato solo ruoli da buono. Gli piaceva stupire gli spettatori di cui aveva enorme rispetto, perché diceva sempre che il pubblico è il più autorevole critico del mondo.

E con la critica che rapporto aveva? Non era molto amato dai critici e, come altri autori, è stato consacrato solo dopo la morte. Viveva la cosa con dispiacere, pur consapevole che non tutti abbiamo la stessa visione della vita e del cinema. Quando girò Giù la testa le recensioni lo massacrarono. Come mai? Era un film politico, ambientato durante la rivoluzione messicana, in cui il peone interpretato da Rod Steiger diceva all’ex rivoluzionario James Coburn che le rivolte sono combattute dai poveri, mentre i ricchi parlano, mangiano e poi alla fine rimangono al proprio posto. Era un discorso che oggi sarebbe considerato populista e in quegli anni, che seguivano la contestazione, la sinistra disapprovava, perché era un messaggio contrario alla causa. Lei aveva 21 anni quando suo padre è morto d’infarto. Che ricordi personali ne conserva? Adorava stare con mia madre (Carla Ranaldi, ex prima ballerina dell’Opera di Roma, ndr), me e le mie sorelle Raffaella (60 anni) e Francesca (58): trascorreva tutto il tempo libero con noi e organizzava vacanze dove venivano anche i nostri amici. Giocavamo a carte, vedevamo le partite di calcio della Roma, di cui era un grande tifoso, e vedevamo film. Ne ricorda alcuni?

Amava molto Qualcuno volò sul nido del cuculo di Miloš Forman e Witness - Il testimone di Peter Weir. Ricordo che uno degli ultimi visti insieme era Big: una volta finito mi disse che Tom Hanks, ancora a inizio carriera, sarebbe diventato una star. Casa vostra da chi era frequentata? Che amici aveva suo padre? In casa nostra passavano tutti: Ugo Tognazzi, Renato Zero, Luigi Magni e tanti altri. Per noi erano amici di papà, che ovviamente conoscevamo nei loro pregi e difetti. Ricordo però che quando conobbi Alberto Sordi ero emozionato. Nell’ultima fase della sua vita mio padre si legò molto a Giuliano Gemma. E poi c’era il suo grande amico ed ex compagno di scuola Ennio Morricone: si mettevano insieme al piano, Ennio suonava le melodie e mio padre gli dava indicazioni: «Ennio, questa fammela più dolce». Come mai dopo Giù la testa aspettò addirittura 13 anni per girare C’era una volta in America? Aveva letto il romanzo Mano armata di Harry Grey, una sorta di autobiografia del personaggio di Noodles (interpretato da De Niro, ndr) e voleva reinventarlo a modo suo, sostituendo i classici mafiosi italoamericani con gangster ebrei. Amava il cinema e voleva girare i film che gli piacevano, al punto tale che gli offrirono di dirigere Il padrino e rifiutò pur di realizzare quel film. Così aspettò 13 anni, mentre produceva altre pellicole e pubblicità. Il film trionfò a Cannes, ma fu un flop negli Stati Uniti, dove lo tagliarono dai 229 a 139 minuti. Mio padre la prese malissimo e non volle mai vedere quel montaggio. Che probabilmente fu realizzato per avere più spettacoli al cinema e vendere più biglietti. E di Leningrado cosa è rimasto? Solo una pagina dei titoli di testa. E il mio ricordo di quando lo raccontò scena per scena in una conferenza stampa a Mosca, poco prima di morire. Siamo convinti che esista una registrazione audio di quell’incontro, ma non siamo mai riusciti a trovarla.

Clint Eastwood: «Lavoravo in tv, Sergio Leone mi scoprì. Rivoluzionò i western anche in America». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 18 Ottobre 2022. 

Mentre esce il documentario sul grande regista italiano, prodotto da sua figlia Raffaella, un'icona del cinema americano racconta il loro rapporto: «Quella volta che per un errore della troupe spagnola si dovette ricostruire il ponte saltato in aria» 

Risponde a tutto tranne che a una domanda, argomento di cui si parla nel filmato: perché C’era una volta in America non fu capito in USA, ne tagliarono un’ora? Leone non volle mai vedere quella versione. Parlando con Clint Eastwood , 92 anni, è inevitabile ripensare al poncho e alla colt nella fondina. «Sono girate tante leggende, a un certo punto dissero che li avevo conservati in casa, sotto una teca di cristallo…Ho restituito tutto al dipartimento dei costumi dei film di Sergio».

Il vostro primo incontro?

«Appena atterrato in Italia . Non c’ero mai stato prima. Una magnifica interprete ci aiutò nella comunicazione perché all’epoca io non parlavo una parola d’italiano e Sergio non parlava una parola d’inglese. Ci capivamo a gesti. Abbiamo parlato di cinema, ho incontrato la sua famiglia. Ma eravamo concentrati sul film. Non potevo sapere che, al pari di Don Siegel, sarebbe stato l’uomo che più mi avrebbe influenzato come regista. Mi ha fatto amare l’ironia e l’amore per i paesaggi».

Come reagì il pubblico USA al western all’italiana?

«Scorsese nel documentario dice che all’inizio ne fu irritato perché non riusciva a capirlo, a prendere le misure…C’erano dei tabù, penso che solo il jazz e il western sono forme d’arte veramente americane. In effetti nell’ambiente ognuno diceva che era un genere compiuto e non si poteva aggiungere altro. Ma era entrato in una zona opaca, manierata. Ci fu un cambio di prospettiva e gli spaghetti western (la favolizzazione di un mito a voi estraneo), furono considerati una rinascita».

C’è un tempo sospeso nei film di Leone.

«Ecco, questa novità che in un western possa non succedere nulla fu una cosa rivoluzionaria. Quei film fanno parte della storia del cinema, sembrano girati oggi, non sembrano vecchi, datati. Il documentario mi è molto piaciuto, mi ha fatto scoprire nuovi elementi di un uomo che credevo di conoscere».

Lei, dopo la trilogia…

«Vengo al punto, sta per chiedermi perché non accettai C’era una volta il West . Ho sempre cercato di fare cose nuove, ed era venuto il tempo di provare qualcosa di diverso, e di parlare la mia lingua. Con Sergio non ci siamo separati, abbiamo preso filosoficamente strade diverse. I miei sono set molto diversi dai suoi, giro velocemente pochi ciak. Non dico nemmeno azione, motore; dico, ragazzi se siete pronti partite. Io mi indirizzavo verso storie più personali, lui amava la spettacolarità, le esplosioni sui treni, i soldati sulle colline».

Quale episodio ricorda?

«Beh, la scena del ponte che esplode in Il buono, il brutto e il cattivo . I tecnici spagnoli sbagliarono i tempi dell’innesco della miccia e Leone sbucò fuori imprecando, gli occhi iniettati di sangue. Era furibondo. Il ponte si dovette ricostruire. E poi i set erano pieni di comparse spagnole e tzigane con i mantelli, le divise, le pistole, se lei avesse chiesto loro di cosa parlassero quei film, non avrebbero saputo rispondere».

Ennio Morricone?

«Nessuno ha usato la musica come lui, cambia lo stile, l’approccio, le sue melodie sembra che aggiungano frasi alle sceneggiature, sono suoni che parlano. Un sacco di trombe e poi bum, i cavalli nitriscono. E’ una musica operistica che esalta la violenza e le sparatorie. Ennio è stato uno splendido compositore, ha vinto due Oscar, uno glielo consegnai io».

Leone non ne vinse.

«Beh, tanti buoni film meritavano di vincerlo e sono rimasti a bocca asciutta, e vale il ragionamento contrario. Talvolta non dipende dalla qualità del film. Di Sergio ricordo le parole che mi hanno fatto diventare un attore migliore: tieniti stretta la fantasia, l’immaginazione dei bambini».

L’uomo senza nome, come si chiamava il suo personaggio, è un eroe?

«Eroe è chi fa cose utili per la società, io la vedo così».

Cosa ama?

«Il golf, il jazz e i sigari cubani. Ma ora cerco di evitarli».

Sergio Leone, che con “un pugno di dollari” cambiò il genere western. Alvaro Gradella su culturaidentita.it il 28 Settembre 2022

Dopo Alida Valli proseguiamo con un’altra icona del cinema italiano, Sergio Leone, il papà dei cosiddetti “spaghetti western”, il Maestro al quale molti si sarebbero ispirati (tanto per citare due nomi: Dario Argento, che collaborò al soggetto di C’era una volta il West e Tarantino). Il ritratto di Sergio Leone lo trovate sul numero di settembre di CulturaIdentità in edicola.

«Al cuore, Ramon. Se vuoi uccidere un uomo, devi colpirlo al cuore! Sono parole tue, no?»

Il pistolero americano si è di nuovo alzato da terra e ripete a voce alta la sua sfida.

Gli spettatori fissano ipnotizzati il grande schermo sfolgorante di un sole implacabile.

Sollievo e stupore. Non capiscono. Ramon – l’infallibile capobanda messicano – lo ha centrato due volte!

Neppure Ramon capisce. Non può. Non sa. E’ certo di averlo colpito entrambe le volte al cuore, eppure…

Ottusamente, spara ancora col fucile Winchester. Una, due volte.

In sala, ormai tutti sanno che il pistolero si rialzerà. Aspettano solo di scoprire come mai.

«Al cuore, Ramon… Al cuore! Altrimenti non riuscirai a fermarmi.»

Sbigottito, il bandito scruta quel fantasma dal viso di pietra avvicinarsi irridendolo.

Di nuovo, mira convulsamente. Al cuore. Uno, due, tre colpi.

Ramon sorride di caparbia speranza. Il gringo è crollato. Com’era quel vecchio proverbio messicano? Quando un uomo col fucile incontra un uomo con la pistola, quello con la pistola è un uomo morto… Già.

Ma quello con la pistola è già in piedi. Lascia cadere la lastra di metallo nascosta sotto il poncho. È crivellata di colpi. All’altezza del cuore.

Il pubblico torna a respirare, estasiato dal colpo di scena. Si gode la fine dell’uomo col fucile, mentre già desidera tornare a vedere questo stupefacente film western.

La sequenza finale di Per un pugno di dollari di Sergio Leone è fra le più note e iconiche nella storia del cinema.

Questo film ha segnato una svolta nella cinematografia mondiale. Giacché rivelò al mondo il formidabile talento di Sergio Leone e cambiò per sempre il genere western. Lo cambiò anche per gli americani, che ne erano i Maestri.

Per un pugno di dollari si girò nel 1964, esterni in Spagna e interni a Roma, con soli 80 milioni di lire. Leone ebbe l’idea da Yōjinbō – La sfida del samurai del grande regista giapponese Akira Kurosawa, presentato nel ‘61 alla Mostra del Cinema di Venezia. Toshiro Mifune, nelle vesti di un solitario e misterioso ronin, si frapponeva con la sua micidiale katana fra due clan yakuza rivali che vessavano un villaggio.

Anche John Sturges, nel ‘60, si rifece a Kurosawa utilizzando il plot de I sette samurai per il suo kolossal I magnifici sette. Però il film nipponico fu citato nei titoli, evitando il contenzioso che invece subì Per un pugno di dollari quando divenne un impensato successo mondiale.

Per il pistolero senza nome, Leone volle un giovane americano dalla recitazione asciutta e dalle movenze indolenti, protagonista della serie western Rawhide (ricordate la theme song ripresa da Aykroyd e Belushi ne The Blues Brothers?). Era Clint Eastwood, e avrebbe avuto la voce secca e strascicata del geniale Enrico Maria Salerno. Al talentuoso attore italiano Gian Maria Volonté affidò il ruolo di Ramon.

E quando Leone incontrò Ennio Morricone per la colonna sonora, non ricordava che erano stati insieme alle elementari. Un segno del destino? Certo è che le musiche di Per un pugno di dollari sarebbero state essenziali per il successo planetario del film! Così come per ogni altro che il grande maestro avrebbe musicato. Morricone si ispirò alla soundtrack dell’acclamato Dimitri Tiomkin in Sfida all’O.K. Corral di Sturges e Un dollaro d’onore di Howard Hawks, ma ne reinventò il mood. Non più orecchiabili canzoncine, né fuggevoli violini. Con lui la musica diventava coprotagonista! In quelle note c’erano potenza, struggimento, metafora, Èpos! Senza Ennio Morricone, sarebbe stato un film minore.

La première fu il 12 Settembre 1964 a Firenze, col solito trucco degli pseudonimi americaneggianti: Sergio Leone apparve come Bob Robertson, Morricone come Don Savio, Volonté come John Wells.

Nessuno s’aspettava tanto successo! Ignorato all’inizio dai distributori, il film era adorato dal pubblico che tornava a rivederlo, passando parola. Gli incassi furono mai visti nel cinema italiano. In tre mesi stracciò gli introiti totali de I magnifici sette, e rimase nelle sale fino all’anno dopo quando uscì Per qualche dollaro in più. Idem all’estero. In America incassò 11 milioni di dollari! Nella patria del western il trionfo fu tale che il logoro manierismo del genere cambiò anche lì, a partire da Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah (’69) e Soldato blu (’70) di Ralph Nelson. Tanto che la Paramount chiese a Sergio Leone di dirigere Il Padrino, ma lui rifiutò.

Per un pugno di dollari fu un western rivoluzionario e sarà l’archetipo dei suoi film futuri. Egli infatti stravolse i canoni del genere, tratteggiandolo per primo con acre verismo. Il tutto esaltato da innovative riprese in primissimo piano (spesso incrociate col piano lungo), da tempi dilatati nelle inquadrature a dare solennità e suspense, da lunghe scene senza dialogo.

Al contrario di tanti imbellettati classici d’oltreoceano, case e saloon sono tetri e fatiscenti, i romantici cowboy appaiono miserabili, luridi, brutali. Perfino l’Eroe ha appena un’astuzia volpina e un casuale barlume di carità.

Per primo, Leone mostra la violenza e le brutture che in realtà avevano permeato il selvaggio West. Il cruento pestaggio di gruppo che sfigura il pistolero non ha precedenti nel western americano. Lo stesso Clint Eastwood riecheggerà la scena nel suo pluripremiato Gli spietati (’92), che poi dedicherà “A Sergio e Don (Siegel)” nei titoli di coda.

Questa rivoluzione dei canoni si riverbererà in tutte le cinque opere successive, dove Leone padroneggia grandi budget e star come Henry Fonda e Robert De Niro. Così mutò un buono per antonomasia come Fonda nello spietato assassino del monumentale C’era una volta il West (’68); mentre De Niro, nell’ultimo C’era una volta in America (’84), non sarà uno dei famosi criminali dei gangster movie americani, bensì un oscuro contrabbandiere di liquori durante il proibizionismo, un perdente dal buffo soprannome: Noodles (un piatto ebraico).

Sergio Leone rimane, quindi, uno dei cineasti più rilevanti e autorevoli nella storia del cinema. Da Per un pugno di dollari in poi, i suoi film – presto o tardi – sono stati considerati dei capolavori dalla critica e adorati dal pubblico di tutto il mondo. Ma, anzitutto, è l’unico regista italiano che abbia sfidato sul loro terreno gli americani, dimostrando ai signori e padroni del grande cinema popolare di saperlo fare altrettanto bene. Anzi, meglio.

 SERGIO LEONE. “CLINT EASTWOOD LO CONSIDERAVA UNO STRONZO”. Alessandro Ferrucci e Fabrizio Corallo per "Il fatto Quotidiano"  il 27 aprile 2019. Sul set insieme, Cinecittà o la Spagna, anche mesi senza discontinuità nel ciak ("Era un perfezionista mai contento"); le lunghe stesure dei copioni, le battute limate, le litigate non si evitavano ("spesso ci mandavamo a quel paese. Che caratteraccio"), così come il ritrovarsi e via con un nuovo progetto insieme, e via ancora con un altro pezzo di storia del cinema. Sergio Leone è cinema ("il suo ambiente, era perfetto solo sul set"). Il 28 aprile sono trent' anni dalla sua morte, e Sergio Donati è lo storico sceneggiatore dei suoi capolavori western. E come lui lo conoscono in pochi.

Come arriva a Leone?

«A 22 anni ero già riuscito a pubblicare tre romanzi come Gialli Mondadori e grazie al direttore di allora, quel fenomeno di Alberto Tedeschi».

Perché i gialli?

«Era l' argomento più semplice, meno rischioso, e andò bene tanto che sono stati acquistati all' estero. Insomma, dei piccoli successi editoriali. Quindi Dopo il terzo mi cerca Sergio Leone, due chiacchiere al telefono, poi fissiamo un appuntamento. "Te devo parlà di un proggetto"».

Western?

«No. Mi illustra l' idea di un thriller ambientato sulle montagne del Sestriere. Lo ascolto. Prendo appunti. Ci salutiamo e dopo una decina di giorni mi presento con un soggetto di una ventina di pagine».

Immediato.

«Non ho mai impiegato molto, per C' era una volta il west sono bastati venti giorni».

Torniamo all' incontro.

«Lo legge. Alza gli occhi, mi guarda e segna la strada: "Bravo, mi piace, ma tutta la parte che si svolge nella sperduta baita di montagna in realtà va ambientata in questo albergo del Sestriere". Scusa, e perché? "Il proprietario della struttura mette i soldi, e magari durante le riprese si vuole scopare pure qualche attrice"».

Uomo pratico.

«Assolutamente! Lui puntava diritto all' obiettivo, e non solo con la macchina da presa: se aveva un' idea, non si fermava, annusava la direzione da prendere e non mollava mai.

La sua reazione?

«Mi prende un colpo, dentro di me penso: "Oddio, ma è questo il cinema?". Così saluto inorridito, e decido di abbandonare il sogno, e di puntare sulla pubblicità: entro in una grande società di Milano. E lì costruisco un' ottima carriera».

Fino a quando?

«Anni dopo squilla il telefono, era Sergio: "Ma che cazzo stai a fa' al Nord?". Lavoro. "Ma che è un lavoro? Lascia perdere, sto realizzando un film, però non mi convince, ho bisogno di un tuo trattamento"».

Cede.

«Torno a Roma a spese sue e mi affida la revisione prima di Per qualche dollaro in più e poi del Il Buono, il Brutto e il Cattivo; in particolare quest' ultimo era più lungo di mezz' ora, allora lo taglio e rimonto».

Ufficialmente non lo ha firmato.

«No, solo Age, Scarpelli e Vincenzoni».

Il suo rapporto con Leone?

«Grande stima ma caratteri molto diversi, a volte inconciliabili, ancora oggi a volte mi stupisco di come siamo riusciti a concludere insieme così tanti film».

Com' era Leone?

«Un talento smisurato, un fenomeno, uno che già prima di iniziare le riprese aveva chiarissimo il prodotto finale e sapeva conquistarsi il suo sogno, con ogni mezzo. Poi a questo associava un carattere difficile, molto egocentrico».

Arriva a Roma.

«Lo incontro e esordisce con tutta la sua sicurezza, di modi e parole: "Sto a fa' un film gajardo. Un western". Un western in Italia? "Sì, fidate". Leggo la sceneggiatura ed era identica a un lungometraggio di Kurosawa (La sfida dei samurai del 1961)».

Lo ha detto?

«Certo, e la sua risposta è stata: "Tranquillo, se questo film arriva a Caltanissetta, è già un miracolo. Non se ne accorgerà nessuno"».

Previsione perfetta.

«Non aveva tutti i torti, prevedere quel successo era quasi impossibile, e poi il budget assolutamente limitato, anzi bassissimo, per questo presero Clint Eastwood, invece di Cliff Robertson, enormemente più caro: "Non ce lo possiamo permettere", mi disse Sergio».

Tra Leone ed Eastwood?

«Nessuna cordialità, Clint stava sempre da una parte, sempre per cacchi suoi, era un po' ombroso come nei film; e anni dopo non perdonò a Sergio la storica battuta su di lui: "Eastwood ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza"».

Feroce.

«Sergio non lo stimava, lo definiva uno "stronzo" o un "manichino" in grado solo di eseguire le indicazioni, e anche io non credevo molto nelle sue qualità; mi sono stupito della grande carriera da regista».

Ma Leone era geloso di Eastwood?

«Lo considerava una sua creazione, e si incazzò moltissimo quando per Il Buono, il Brutto e il Cattivo pretese un cachet da vera star hollywoodiana; per Sergio fu un affronto personale: "L' ho creato io e questo si permette pure di rompere"».

Però ha ceduto.

«Per forza, era obbligato dalle major statunitensi, ma con un piccola vendetta: non poteva più ridurre la sua parte, il copione oramai era stato approvato, quindi nel film lasciò amplissimo spazio alle controscene di mimica e smorfie del grande Eli Wallach».

Eastwood l' avrà presa bene.

«Anche Clint pensava di aver contribuito alla fortuna di Sergio, almeno in questo erano d' accordo, solo da lati opposti.

"C' era una volta il west". (Si alza dalla sedia ed estrae un tomo enorme). È la stesura originale».

Proprio lei.

«Prima di iniziare le riprese dissi a Sergio: "Occhio che è troppo lungo". E lui: "Non ti preoccupare, alcune scene le giro più brevi". Impossibile, pensai».

Impossibile in assoluto o per uno come Leone?

«Tutte e due, forse più per lo stile di Sergio. Comunque dopo poco tempo mi chiama agitato: "Per favore vieni qui in Spagna, in Almeria, c' è da tagliare". Quindi ho caricato in macchina moglie, figlio di tre anni e baby sitter e siamo rimasti lì per oltre un mese.

Un mese, come.

«Di lavoro folle e bello, di solite discussioni su come e dove tagliare, sulle battute, di rapporti con gli attori. In particolare, con Ricordo benissimo Charles Bronson, mi inseguiva per studiare insieme, "voglio capire bene la parte", mi diceva».

Non era così?

«Ogni tanto provava a correggere qualcosa, e a un certo punto un accenno di fastidio lo ho anche dimostrato, della serie "io sono lo sceneggiatore e tu l' attore"; poi all' improvviso ho capito: all' improvviso ho capito che il suo problema erano le parole con la "esse", aveva la classica zeppola».

Però non lo diceva.

«Fingeva di no, così quando gli ho rivelato la mia scoperta, si è rabbuiato, come se lo avessi offeso. Avevo sottovalutato il suo complesso nel particolare e nel generale».

Nel generale?

«In mezzo a un cast di fenomeni si sentiva una mezza cartuccia, per questo si atteggiava».

Henry Fonda.

«Con lui Sergio mi ha fatto morire».

Cosa ha combinato?

«Fonda era un vecchiotto».

No!

«Prima della Spagna la preparazione è stata realizzata a Cinecittà. Un giorno attendiamo proprio Fonda, con un po' di emozione, almeno da parte mia. A un certo punto arriva una macchina della produzione, si ferma a due metri da noi, e scende la signora Fonda con al polso due orologi, uno con l' ora italiana, l' altro con quella statunitense; dopo un paio di secondi si apre l' altro sportello e ci troviamo di fronte un vecchietto malmesso».

Fonda.

«Sergio assiste alla scena e va in crisi, bestemmia: "Che ce famo co' questo?". Tentiamo di calmarlo, macché, non sentiva nessuno. Per fortuna ascolta il direttore di produzione: "A Se', aspetta, non è come appare". Allora porta Fonda nel camerino e gli dà il costume di scena. Lui si veste. E alla fine ci raggiunge sul set tutta un' altra persona: era Henry Fonda. E il bello è che seguiva entusiasta tutte le indicazioni di Sergio, non protestava mai».

Magia del cinema.

«Fuori dal ciak tornava il vecchietto che dicevo prima, e il pomeriggio lo passava accanto a mio figlio per vedere i cartoni animati. Un pensionato. Sergio scuoteva la testa, non poteva crederci».

Il rapporto degli attori con Leone?

«Lo rispettavano, anzi lo temevano, perché Sergio sapeva girare, sapeva comunicare, era uno nato sul set e che viveva di set; non dimentichiamoci che era figlio di un regista e di un' attrice. Nato sul set Pane e cinema, e si vedeva dalla sicurezza; certi atteggiamenti sono innati, non si acquisiscono ma si possono solo perfezionare con il passare del tempo. Tra i suoi attori anche Mario Brega Insieme erano due di Trastevere, parlavano la stessa lingua, la ricerca ossessiva del popolare, quando il cinismo e l' ironia si inseguivano, e per Brega il confine tra legale e illegale non sempre veniva rispettato».

In "C' era una volta il west" c' è una battuta rivolta alla Cardinale che oggi verrebbe giudicata sessista. "Se qualcuno ti tocca il sedere, tu fai finta di nulla".

«(Scoppia a ridere). Davvero la trovate sessista? Sergio era un po' maschilista, e la Cardinale con lui spesso si ritrovava smarrita perché massacrata dai ripetuti ciak, anche 35 per una scena sola».

35 sono tanti.

«Era così in assoluto, un perfezionista, non si accontentava, e gli altri zitti. Lui era il padrone e il produttore; per questo non aveva rapporti affettuosi con gli attori».

E tra di voi?

«Alla fine ci limitavamo sempre e solo al set, un po' per evitare discussioni e un po' perché gran parte della nostra vita era lì. Ah, si scocciava per l' età Cioè? Sergio aveva solo quattro anni più di me, ma quando uscivamo insieme, magari negli Stati Uniti, ci scambiavano per padre e figlio e lui sistematicamente si incazzava».

Tra Leone e Verdone?

«Li ho presentati io: una sera vado in un teatrino vicino a San Pietro e assisto allo spettacolo di un giovane comico. Il giorno dopo chiamo Sergio: "Devi vedere questo ragazzo, bravissimo". E da lì sono partiti».

Con lui il legame c' era realmente?

«Credo di sì, con lui sì. E poi Carlo è una persona rara per carattere e talento».

Insomma, tra di voi.

«Dopo Giù la testa avevamo molti progetti insieme, ma lui cercava sempre il capolavoro, era ossessionato. Per questo a un certo punto ci siamo allontanati, ho deciso di guardare altrove».

Litigavate.

«Ci sfanculavamo».

Attualmente lei vive quasi solo negli Stati Uniti. Lì com' è valutato Leone?

«Attenzione: bisogna saper scindere il giudizio umano da quello professionale e Sergio è uno dei grandissimi del cinema, anche oltreoceano lo sanno, e lo giudicano giustamente un maestro da studiare».

Insieme dovevate anche realizzare un film sull' assedio di Leningrado.

«Eccome! Per questo motivo una sera usciamo con un regista russo molto importante, alla fine degli anni Cinquanta aveva girato Quando volano le cicogne (Mikhail Kalatozov). Durante la cena Sergio chiede del film, il russo tutto soddisfatto replica: "Davvero lo ha visto?". "Certo, e ho apprezzato molto i grandi scenari, le prospettive ampie". A quel punto cala il silenzio. E il russo freddamente risponde: "In realtà è girato e ambientato in due stradine". Insomma, non lo aveva visto, bluffava».

Bugiardo?

«Diciamo creativo, si ingegnava per arrivare a meta. Ma il cinema vero è anche questo».

Un aggettivo per Leone?

«Leone (Perché "quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto")»

C’ERA UNA VOLTA SERGIO LEONE. Gloria Satta per “il Messaggero” il 30 aprile 2019. «È il più bel regalo che potessimo fare a papà, il modo migliore per celebrarlo nell' anno del doppio anniversario: i 30 anni della morte e i 90 della nascita», dice Raffaella Leone, la figlia produttrice (in tandem con il fratello Andrea) del grande Sergio che il 30 aprile 1989 se ne andava ad appena sessant' anni, dopo aver consegnato alla storia del cinema sette film rimasti mitici: Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il Buono il Brutto il Cattivo, C' era una volta il West, Giù la testa, C' era una volta in America. E il regalo di cui parla Raffaella è Colt, il western concepito dal regista e mai realizzato: a Cannes, in pieno Festival (14-25 maggio), verrà annunciato al mondo che il film finalmente si fa, finanziato da capitali internazionali, dopo anni di tentativi andati a vuoto, entusiasmi, ostacoli, speranze. Protagonista è una pistola che passa di mano in mano e dietro la cinepresa ci sarà Stefano Sollima, anche sceneggiatore con Luca Infascelli, Massimo Guadioso e un professionista americano. «Papà ebbe l' idea di Colt molti anni prima di morire, quando noi figli eravamo ancora piccoli», rivela Raffaella, «e a dire la verità non voleva farne un film: molto in anticipo sui tempi, pensava ad una serie tv». Perché proprio Sollima? «È l' erede di Sergio. Ha il suo stesso gusto del racconto epico e concepisce il cinema come qualcosa di grande, di mitico. Il suo stile crudo, realistico e sempre accompagnato dall' ironia, è affine a quello di mio padre. Ma Stefano saprà stravolgere il progetto originale e farlo totalmente suo». Leone nacque a Roma il 3 gennaio 1929 e in occasione del novantesimo anniversario della nascita un altro grande evento celebrerà il suo talento: la grande mostra C' era una volta Sergio Leone che, dopo il debutto alla Cinémathèque Française di Parigi nell' ottobre scorso, il 12 dicembre approderà a Roma, all' Ara Pacis, per rimanervi fino a Pasqua 2020. «In Francia abbiamo registrato 60 mila presenze, più di quelle che erano state contate all' esposizione su François Truffaut. Sinceramente, non mi aspettavo un entusiasmo così grande da parte del pubblico», spiega Gianluca Farinelli, il direttore della Cineteca di Bologna (che nel 2014 ha restaurato Per un pugno di dollari) e curatore della mostra, organizzata da Equa di Camilla Morabito. «Il talento di Leone è ancora conosciuto e amatissimo». La mostra si snoderà attraverso la retrospettiva completa dei film del regista (anche quelli da lui prodotti, come i cult di Carlo Verdone Un sacco bello, Grande grosso e Verdone, Troppo forte) fotografie, documenti, documentari, conferenze, oggetti, un libro. E, rispetto all' evento di Parigi, a Roma ci sarà una sezione nuova di zecca: «Sarà dedicata all' influenza esercitata da Leone sull' immaginario collettivo e sul lavoro degli altri registi come Martin Scorsese, Quentin Tarantino, Ang Lee, Guillermo Del Toro e tanti altri», anticipa Farinelli mentre il BiFest di Bari si prepara a celebrare il padre di Sergio, il regista Roberto Roberti (nome d' arte di Vincenzo Leone). Una chicca: all' Ara Pacis verrà proiettato un filmato, mai visto, in cui Leone appare impegnato nella post-produzione di un suo film nel ruolo di rumorista. In epoca pre-digitale, era lui stesso a curare il sonoro: per rendere il galoppo dei cavalli indossava uno zoccolo sulla mano e la sbatteva sul tavolo, per rendere lo scorrere del fiume svuotava una bacinella d' acqua con il bicchiere. «Per lui il cinema era artigianato», dice il direttore della Cineteca di Bologna. È d' accordo anche Carlo Verdone: «Mentre il cinema spesso dimentica i suoi maestri, ancora oggi tutti amano Sergio», spiega il regista romano. «Ha avuto il merito di reinventare un genere, il western. Ha messo il mito al centro di ogni sua storia e creato la maschera di Clint Eastwood, ha sempre pensato in grande: gli si rizzerebbero i capelli, se sapesse che i film oggi vengono visti sugli smartphone...». Aggiunge: «Io gli devo tutto. Se Sergio non mi avesse portato dai produttori Puccioni e Colajacomo non sarei mai esistito. E non avrei imparato ad essere sceneggiatore, regista e protagonista dei miei film». Quale cinema amerebbe, oggi, Leone? «Adorerebbe Tarantino», risponde Raffaella, «e le serie tv: hanno i tempi lunghi dei suoi capolavori. L' assedio di Leningrado, l' imponente progetto che aveva in mente prima di morire, l' avrebbe realizzato a puntate».

Dal profilo Instagram di Carlo Verdone. Ponte Sisto.Il ponte dei miei ricordi più belli perché la mia casa paterna era parallela alla sua destra. Su quel ponte Il mio primo bacio ad una ragazza, mia madre che lo attraversava quando tornava dalla scuola dove insegnava, il mio primo complimento ad un attore che camminava davanti a me (Gian Maria Volonté). Il ponte dove si suicidava di tanto in tanto qualcuno e si formava un capannello di gente dove ognuno dava un' informazione sbagliata sulla persona e sul movente. Il ponte che mi ispiro' la scenetta dei " due cervi a Ponte Sisto". Il ponte dal quale gettai nel 1985 un anello che avevo comprato per la mia ragazza che poco prima mi confessò di avere un' altra storia con uno. Il ponte che Sergio Leone mi fece attraversare per fare due passi al fine di calmarmi la notte precedente all' inizio di "Un Sacco Bello". Il ponte dei ragazzi di vita che venivano rimorchiati per finire sotto la scala che portava alla banchina da uomini grandi. Il Ponte che univa Trastevere a Campo de' Fiori.  Bello il mio ponte, immagine degli anni migliori. Buona serata a tutti voi. 

Marco Giusti per Dagospia l'8 agosto 2020. Magari vi farà piacere sapere qualcosa su “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che va in onda stasera su Rai Tre alle 20, 30. Così recupero le cose che scrissi per il mio libro sugli Western Italiani, Mondadori, ora fuori commercio, che uscì assieme alla celebre rassegna western della Venezia di Muller. Intanto, sia chiaro a tutti, che "Il buono, il brutto, il cattivo" è un capolavoro. Ora si può dire. Ai tempi di Tullio Kezich e dei critici barbogi no. E’ anche il terzo western di Sergio Leone. E l’ultimo che gira con Clint Eastwood. E chiude quella che Leone chiamava Trilogia del Dollaro. Anche se ho sempre pensato che quest’idea della Trilogia era del tutto casuale, che non fosse stata cioè affatto progettata. E Leone c’era arrivato a film già fatti. Ma forse è un’idea solo mia. Ovviamente grande successo in tutto il mondo e comunque l’ultimo western leoniano di un certo tipo. Dopo arriverà “C’era una volta il West” che avrebbe dovuto chiudere tutto per sempre. Per il primissimo cast Leone parla a Dario Argento, giornalista del “Paese Sera”, di Clint Eastwood, Gian Maria Volontè e di Enrico Maria Salerno, escludendo quindi Lee Van Cleef e Eli Wallach. Nella stessa intervista ricorda che farà ancora altri due western, una storia di Calamity Jane e Wild Bill Hickock interpretata da Sofia Loren e Steve McQueen e una nuova versione di Viva Villa, il vecchio film americano di Jack Conway che tanto era piaciuto al pubblico italiano. Di certo per vedere una donna forte nel cinema di Leone dovremo aspettare il successivo C’era una volta il West. Ma qualcosa delle sbruffonate di Tuco, ricordano un po’ quelle del Villa di Wallace Beery. Proprio sulla scelta del grande Eli Wallach nel ruolo di Tuco, il brutto, una delle carte vincenti del film, dirà a Oreste De Fornari nella sua biografia: “Eli Wallach l’ho preso per un gesto che fa nella Conquista del West, quando scende dal treno e parla con Peppard. Vede il bambino, figlio di Peppard, si volta di scatto e gli spara con le dita facendogli una pernacchia. Da quello ho capito che era un attore comico di estrazione chapliniana, un ebreo napoletano: si poteva fare tutto con lui. Infatti ci siamo molto divertiti a stare insieme.” Eli Wallach, in realtà, aveva fatto già il bandito messicano con John Sturges in I magnifici sette. Era Calvera. Cattivo, ma anche comico, e già doppiato da Carletto Romano. Leone non poteva non saperlo. Come non poteva non conoscere la sua filmografia noir, almeno il magnifico The Line Up di Don Siegel. O il suo saper fare perfettamente, prima di Robert De Niro e di Joe Pesci, l’italo-americano di Brooklyn. Nel film di Leone, curiosamente, Eli Wallach, ebreo, si fa un sacco di volte il segno della croce come fanno gli italo-americani. La prima volta che lo chiamano per un provino con Leone risponde. “Un western italiano, non ne avevo mai sentito parlare, suona come una pizza hawaiana. Beh, allora incontro Sergio, che non parlava inglese. Disse in francese: Ti vorrei nel mio film. Pesava 290 libbre e disse: Ti farò vedere qualcosa. Vuoi vedere un piccolo pezzo del mio film?”. Leone gli manda così due pagine di sceneggiatura. Wallach accetta e va a scegliere gli abiti al negozio Western Costume di Los Angeles insieme a Henry Hathaway. Li porta sul set e Sergio Leone rimane incantato. Più tardi, Leone dirà: “Tuco rappresenta, come più tardi Cheyenne, tutte le contraddizioni dell’America, e in parte anche le mie. Avrebbe voluto interpretarlo Volonté, ma non mi sembrava una scelta giusta. Sarebbe diventato un personaggio nevrotico, e io invece avevo bisogno di un attore dal naturale talento comico. Così scelsi Eli Wallach, di solito impiegato in parti drammatiche. Wallach aveva in sé qualcosa di chapliniano, qualcosa che evidentemente molti non hanno mai capito. E per Tuco fu perfetto”. Per la seconda volta torna nel cinema leoniano Lee Van Cleef. Anche se in un primo tempo Leone cerca Charles Bronson, che però deve girare con Robert Aldrich Quella sporca dozzina. Lee Van Cleef ottiene quindi il ruolo di Sentenza, il cattivo, anche se nella sceneggiatura si chiamava Banjo e nella versione inglese diventerà Angel Eyes. Lee Van Cleef ricordava: “Sul primo film non potevo trattare, visto che non riuscivo nemmeno a pagare il conto del telefono. Feci il film, pagai il conto del telefono e esattamente un anno dopo, il 12 aprile del 1966, fui chiamato di nuovo per fare Il buono, il brutto, il cattivo. E insieme a questo, feci anche La resa dei conti. Ma ora, invece di fare seventeen thousand dollars, ne stavo facendo a hundred e qualcosa- merito di Leone, non mio. Da allora in poi feci il protagonista e il cattivo in Italia”. Per lui non era un problema girare due film contemporaneamente (“non lo è per qualcuno che si ritiene un attore...”), anche se i personaggi sono un po’ diversi. Sentenza è un vero son-of-a-bitch, “cattivo perché sorride mentre compie azioni orrende”. Il rapporto con Leone stavolta è davvero amichevole. Lo va a trovare anche mentre monta il film. “Il montaggio è davvero dove Leone è al top. I suoi tempi sono grandi, anche i nostri registi seguono il montaggio, ma non lo fanno manualmente. Lui invece se lo fa da solo”. Per la terza e ultima volta torna Clint Eastwood. “Sergio odiava Clint Eastwood, credo perché aveva chiesto troppo per l’ultimo film; ognuno dei due si attribuiva il merito del successo dell’altro.”, ha detto lo sceneggiatore Sergio Donati. Clint si metterà il poncho dei primi due film solo per il duello finale. Sembra che Eastwood avesse in realtà chiesto 250.000 dollari e il dieci per cento degli incassi. Ma soprattutto Eastwood non era affatto contento del suo ruolo, che era visibilmente meno forte di quello di Tuco. Inizia anche a serpeggiare una evidente competizione con lo stesso Leone su chi avesse inventato il genere e su chi fosse indispensabile all’altro. Conflitto che porterà alla rottura definitiva dopo la fine del film. Sul set Leone parla qualcosa di più di inglese e le cose funzionano meglio con gli attori americani. Grimaldi, il produttore, finì per comprare a scatola chiusa un copione che non era ancora stato scritto. Ma era comunque il terzo western di Leone. Il titolo e la storia erano di Luciano Vincenzoni, che riprendeva parte dell’idea chiave che aveva già ispirato La grande guerra e parte di un raccontino di Guy de Maupassant, “Deux Amis”, che era ambientato tra Francia e Germania nel 1871. In pratica era La grande guerra ambientato durante la Guerra Civile americana. Per questo Leone chiama anche Age e Scarpelli, che erano gli sceneggiatori del film di Mario Monicelli assieme a Vincenzoni. Anche il titolo è di Vincenzoni. Leone lavora al copione con Age e Scarpelli, ma con lui i due esperti sceneggiatori non funzionano molto. Così ci lavora da solo per due revisioni, poi durante la lavorazione e poi finisce a rivedere tutto con Sergio Donati. “Per Il buono, il brutto, il cattivo Leone voleva i migliori sceneggiatori disponibili sul mercato”, ha dichiarato Donati, “così chiamò Age e Scarpelli, e fu un errore. Scrissero una specie di commedia ambientata nel West, non un western; nel film credo sia rimasta appena una battuta scritta da loro”. Ovviamente questo è da verificare, anche se Furio Scarpelli ha descritto come “fatale” il loro incontro con Leone. Contemporaneamente si raffreddano anche i rapporti di Leone con Vincenzoni, che se ne va dalla scrittura del film e lavora a due western di registi diversi, Il mercenario di Sergio Corbucci e Da uomo a uomo di Giulio Petroni. Sul set arriva anche, fresco di tre film come aiuto di Marco Ferreri, un giovanissimo Giancarlo Santi. “Sergio voleva conoscermi e aveva i pezzi della pellicola di Per qualche dollaro in più quando l’ho incontrato. Abbiamo simpatizzato subito, mi ha chiamato per il progetto e scaraventato in Spagna dal marzo all’agosto ’66, il periodo più bello della mia vita. Il buono, il brutto, il cattivo si lasciò alle spalle le storie limitate dei primi due western, aveva maggior respiro epico, etico e storico. Imparai anche come si gestisce un budget, perché Leone era un grande imprenditore” (Santi, intervistato al Festival di Torella dei Lombardi nel 2006). E’ grazie a Santi, barbuto, e già aiuto di Marco Ferreri, che Leone si fa crescere la barba. Lo vede la prima volta e gli dice: “A Foschia [il soprannome di Santi], sotto la barba si può nasconne un genio come ’no stronzo.” E Santi risponde: “Allora nun te la fa’ cresce, così l’equivoco nun se crea!” E così divennero amici, Leone si fece crescere la barba, e “sotto c’era un genio”. Santi prepara le scene da girare in Spagna e tutta la parte sulla Guerra Civile. Dice che scelse gli hippy che stavano in Spagna, “tutte facce da primo piano. Su Se sei vivo spara hanno fatto i protagonisti”. Grazie a Santi, che dirigeva la seconda unità, e a Sergio Salvati, operatore alla mcchina, si è capito qualcosa riguardo al disastro della scena del ponte che salta in aria. In pratica Leone voleva fare un piacere all’esercitò spagnolo di Franco che si era prestato a dare le tante comparse per i sudistie  i nordisti delle scene di massa. E ebbe l’idea di far esplodere il ponte, sul serio, di fronte alle cineprese a un ufficiale spagnolo. Solo che si sbagliò e il ponte saltò prima che le cineprese girassero la scena. Un disastro produttivo e economico. Anche se poi lo stesso esercito si adopererà per rimettere un po’ in piedi il ponte e farlo saltare di nuovo. Il film è ambientato durante la Guerra Civile. Tuco è un messicano che si mette d’accordo con il Biondo per intascare le taglie e poi scappare. Sentenza, invece, un pistolero a pagamento, cerca l’oro dei Confederati e va dietro al nome di un soldato, Bill Carson. Tuco e il Biondo trovano Bill Carson morente e sentono la storia dell’oro. Devono andare al cimitero militare di Sad Hill, alla ricerca di una tomba sconosciuta, accanto a quella di Arch Stanton. Si vestono da sudisti e vanno a visitare la missione del fratello di Tuco, padre Pablo Ramirez. I due vengono presi dai Nordisti, che li scambiano per Sudisti e finiscono nella prigione militare di Betterville, dove Sentenza è diventato sergente. Lì Sentenza prima tortura Tuco e poi lo fa evadere. I tre si incontrano, si tradiscono, fino a quando arriveranno a Sad Hill. Il Biondo uccide Sentenza e se ne va con l’oro mentre Tuco è lasciato con una corda al collo e senza cavallo. “Alla fine”, spiegava Leone, “tutto si gioca fra Tuco e il Biondo. Ma concludere così il film non mi soddisfaceva. Allora appena prima della sequenza dell’arena ho inventato la scena nella quale Clint trova il poncho vicino al corpo di un giovane sudisata gonizzante, lo stesso poncho che lui indossava nei film precedenti. Alla fine, liberato Tuco, lui si allontana con quel poncho e va verso le avventure precedenti, va verso il Sud per vivere la storia di Per un pugno di dollari. E il ciclo, come la trilogia, ricomincia”. In realtà in film non viene affatto percepito in questo modo e questa sembra più una riflessione molto a posteriori acchiappa-critici inventata da Leone. Visto poi all’interno del rapporto Eastwood-Leone sembra invece l’addio della star americana al regista italiano. Il budget è molto ricco, un milione e trecentomila dollari, metà dei quali vengono dalla United Artists. La lavorazione si svolge tra maggio e luglio 1966. Il set di Tabernas è usato per Valverde, Santa Ana per Santa Fe, Colmenar Viejo per Peralta. La stazione è a La Calahorra, vicino a Guadix, mentre il convento francescano è a Cortijo de los Frailes, a pochi chilometri da Los Albicoques. La battaglia si svolge a nord di Madrid, accanto al fiume Arlanza, fuori Burgos. Lì c’è anche il cimitero, ancora luogo di culto per i fan del film. Per la prima volta Leone lavora con Tonino Delli Colli, grande direttore della fotografia legato però al cinema realistico e alla commedia, diciamo dal Pasolini di Accattone ai tanti film con Dino Risi. In realtà Tonino avrebbe dovuto lavorare da subito con Leone, del quale era molto amico, ma i produttori della Jolly Film, Papi e Colombo, gli imposero Massimo Dallamano per il primo film, “Per un pugno di dollari”, uomo di loro fiducia. E Dallamano, grande esperto di colore, funzionò benissimo, specialmente per glie sterni sotto al sole. Al punto che girerà anche “Per qualche dollaro in più”, prodotto da Alberto Grimaldi e non più da Papie  Colombo. Ma volle passare alla regia. E così si liberò il posto per Tonino. O, forse, Tonino, era sempre stata la prima scelta per Leone. Comunque fosse andata, Delli Colli farà un grandissimo lavoro sul film. “C’è stato un punto di partenza, un principio estetico: in un western non si possono mettere tanti colori.”, ha detto Delli Colli. “Abbiamo tenuto le tinte smorzate: nero, marrone, bianco corda, dato che le costruzioni erano in legno e che i colori del paesaggio erano piuttosto vivi.” In un trionfo di cultura, Eli Wallach ricorda che Leone si ispirava, per la luce, volutamente a Vermeer e Rembrandt. Possibile...? Non ci sarà lo zampino di Carlo Simi in tutto questo sfoggio di cultura? Quello che veramente cresce durante la lavorazione è il ruolo di Eli Wallach. La scena che l’attore preferisce è quella dove viene impiccato per la terza volta. “Stavo seduto su questo cavallo, le mie mani legate dietro la schiena, e pensavo: Che cosa sto facendo nel sud della Spagna seduto su un cavallo? Io potrei essere da qualche parte del mondo a interpretare Cecov”. A quel punto una piccola signora lo guarda, lui la riguarda, digrigna i denti e gli esce un Grrr... molto comico, molto umano. Certo su Eli Wallach Leone fa un gran lavoro, anche perché è l’unico personaggio davvero nuovo e l’unico vero attore del gruppo. Notevolissimo anche Aldo Giuffrè, che si vede raramente negli spaghetti western. In questo caso è doppiato da Pino Locchi. Fa un piccolo ruolo, ma interessante, la cubana Chelo Alonso, allora già moglie del produttore Alfonso Pomilia, che così ricorda il suo ruolo. “Io non dovevo interpretare nessun ruolo. Ero andata in Spagna con mio marito, che era il direttore generale del film. Avevo portato mio figlio. Eravamo molto amici di Leone, della moglie, delle figlie. Avevamo preso due ville vicine che davano sul mare. Sergio mi chiedeva in continuazione di fargli una particina, una piccola cosa, che avrebbe scritto apposta per me. Anche se eravamo molto amici, io non lo volevo fare. Poi, il giorno che devono girare la scena dove ero prevista io, mi dicono che l’attrice che avevano chiamato al mio posto non poteva più venire. Era rimasta a Madrid. Ho ancora il dubbio che non l’avessero chiamata per niente. E così feci questo piccolo ruolo, gratis. La cosa divertente è che, poco tempo fa, mi hanno chiamata quelli della Imaie, la società che tratta i diritti sui film passati in tv per gli attori. Mi dicono di avere dei soldi da darmi. Era parecchio che mi stavano cercando. Alla fine scopro che dovevano darmi 10.000 euro e che ogni volta che passa il film, io prendo 500 euro. E pensare che non lo volevo neanche fare.” Sergio Donati lavorò otto mesi al montaggio e al missaggio del film. Un lavoro che sembrava interminabile e che finì solo il 23 dicembre a un soffio dall’uscita prevista. Un massacro, ricordano tutti, visto che Leone non era mai contento. Nino Baragli, il montatore, lo chiamava “spappolation” (“ti ammazza al montaggio…”). Tagliarono una ventina di minuti dal montatone finale per problemi di durata. Via anche una scena di sesso fra Eastwood e una messicana, come capitò spesso nei film di Leone. I critici italiani, questa volta, esaltano il film. Parlano le firme maggiori. “Ironia, invenzione, senso dello spettacolo rendono memorabile questo film, situando il suo autore tra gli uomini di cinema più interessanti dell’ultima leva” scrive Pietro Bianchi su “Il Giorno”. E Enzo Biagi, sull’”Europeo”: “Per fare centro tre volte, come è appunto il caso di Sergio Leone, bisogna essere dotati di vero talento. Non si imbroglia la grande platea, è più facile ingannare certi giovanottoni della critica, che abbondano in citazioni e scarseggiano in idee.” Alberto Moravia lo accusa invece di bovarismo piccolo borghese, ma è una critica a tutto il genere, non solo al film di Leone: “Il film western italiano è nato non già da un ricordo ancestrale bensì dal bovarismo piccolo-borghese dei registi che da ragazzi si erano appassionati per il western americano. In altri termini il western di Hollywood nasce da un mito; quello italiano dal mito del mito. Il mito del mito: siamo già nel pastiche, nella maniera” (“L’Espresso”). Il film, uscito a Natale 1966 arrivò terzo negli incassi italiani dopo due kolossal come La Bibbia di John Huston e Il dottor Zivago di David Lean. Qualcosa deve avergli nuociuto anche il divieto ai 14 anni, con il film che usciva, attesissimo, in pieno Natale. Venne poi derubricato qualche tempo dopo con il taglio di qualche scena, ad esempio il pestaggio di Tuco ad opera del perfido Mario Brega (grande scena) e qualche ferito un po’ troppo truculento. Ma sembrano quasi tagli di puro alleggerimento. Lo stesso Donati poi perde due mesi in America per il doppiaggio in inglese, con Leone ormai apertamente in guerra con Clint Eastwood. In America esce nel gennaio 1968, cioè oltre un anno dopo l’uscita europea. Responsabile del bellissimo doppiaggio americano è Mickey Knox, vecchio amico di Eli Wallach, un attore che ebbe seri problemi con il Maccartismo, e che in Italia farà spesso questi adattamenti, oltre che qualche ruolo. Racconta che il lavoro fu difficilissimo, un po’ per la povertà della traduzione dall’italiano, un po’ per i frequenti cambiamenti di battute degli attori, un po’ per la solita Babele di lingue dei film western italiani. Per fare quello che, normalmente, si poteva fare dai sette ai dieci giorni, Knox ci perderà sei settimane, che è più o meno quello che ricorda Donati. Di certo, però, come spiega Knox, “questo non era un film normale”. Luciano Vincenzoni ha detto più volte di aver scritto un sequel: “Il buono, il brutto, il cattivo n.2”. Ambientato vent’anni dopo la fine del primo. Lo ha confermato anche Eli Wallach: “Tuco sta ancora cercando quel figlio di puttana. E scopre che il Biondo è stato ucciso. Ma il suo nipote è ancora vivo, e sa dove è nascosto il tesoro. Così Tuco decide di inseguirlo”. Clint Eastwood si era dichiarato pronto a dare la voce narrante e persino a produrlo. La regia prevista era di Joe Dante e Leone era solo co-produttore. Ma non ha mai accettato di farlo, né di farlo fare a qualcun altro concedendo l’uso del titolo e dei personaggi. Del resto, un film e dei personaggi così amati era difficile toccarli e farli toccare da altri. Il film ha, ovviamente, fan in tutto il mondo, e il titolo fu imitato e citato centinaia di volte. Bobby Kennedy lo usò in campagna elettorale. Ma venne usato anche molto nella musica. Pensiamo solo al gruppo inglese nato nel 2000 che si presenta come The Good, The Bad, The Queen. Tra le tante variazioni musicali del tempo ricordiamo quella, magnifica, dei Pogues per il film di Alex Cox Straight to Hell. Ma non scherzava nemmeno quello di Bruce Springsteen. Il duello triangolare finale, il triello, come lo chiamava Leone, per Tarantino è la migliore scena d’azione di tutti i tempi.

·        Staino.

PAOLO GRISERI per la Stampa il 7 agosto 2022.

Caro Staino, strana campagna elettorale. Che cosa pensa Bobo sotto l'ombrellone?

«Sembrerà strano ma questa volta Bobo è contento». 

Ohilà, che cosa lo soddisfa?

«La scelta di Letta di rompere con i grillini. Questo gli dà una soddisfazione molto grande.

Anche se...». 

Anche se?

«Beh, noi a sinistra potevamo accorgercene prima. Molto prima. Ma, insomma, l'importante è esserci arrivati». 

Che cosa sfuggiva al Pd?

«Sfuggiva che i grillini sono il virus che fa ammalare la sinistra». 

Un virus? Addirittura?

«Hanno instillato in tanta parte del nostro popolo idee sbagliate, fuorvianti. Hanno fatto gravi danni». 

Esempio?

«Beh, questa storia della riduzione del numero dei parlamentari. La sinistra gli è andata dietro ma è una pericolosa bischerata». 

Ma come? Non seve a ridurre i costi della politica, ecc. ecc.?

«Mi sono preoccupato quando i miei amici hanno cominciato a dirmi: 'Meno male, riduciamo il numero di questi mangiapane a tradimento"».

Un pensiero diffuso, direi «Ecco, noi a sinistra non abbiamo mai ragionato così. Potevi pensare che questo o quel parlamentare facesse e dicesse cose sbagliate, pericolose. Potevi dire che è una merda. Ma non che i parlamentari come categoria siano dei mangiapane a tradimento. Questo non è sinistra, questo è qualunquismo, populismo di destra della peggior specie. Quando dico del virus penso a questo modo di ragionare».

Beh, a questo punto il pericolo di un'alleanza con quelli del virus sembra scongiurato...

«Per questo Bobo è molto contento». 

Qualcosa di personale con Grillo?

«Anche. L'ho conosciuto. È una brutta persona». 

Pesante no?

«Certo, pesante. Una sera al Teatro Puccini di Firenze, che ho fondato e dirigo, c'era uno spettacolo di Grillo. Prima dell'inizio venne in direzione e volle sapere quanti biglietti omaggio fossero stati dati. Erano quattro, persone che avevo invitato io personalmente». 

Perché voleva saperlo?

«Perché subito dopo andò sul proscenio e fece un gran numero chiedendo chi avesse il biglietto omaggio e insultandoli: "Bello andare a teatro gratis eh? Vergogna". Per questo dico che è una brutta persona, rancorosa». 

Ma senza i grillini si perde, non è così?

«Con i grillini si perde l'identità della sinistra». 

Che cos' è l'identità della sinistra? Dov' è? Dove sta?

«Ah questa è una bella domanda. La verità è che la sinistra non ha più un orizzonte». 

Anche Bobo è un po' confuso?

Gli piace l'agenda Draghi?

«Bobo considera l'agenda Draghi la migliore che potevamo avere in questo momento. Anzi è quanto più di sinistra si potesse avere in questa condizione».

Ahi, attenzione che così si arrabbia Fratoianni «Che cos' ha di sinistra Fratoianni?». 

Che cos' ha di sinistra Draghi?

«Con Draghi, per la prima volta dopo tanti anni, l'Italia è stata sinceramente europeista. E anche la Nato può diventare un elemento di un sistema di difesa europeo. Un'Europa più autonoma, anche dal punto di vista della difesa, è un elemento di progresso».

Non esattamente il sol dell'Avvenir «Nel '43 Togliatti disse che la democrazia borghese era il massimo che potevamo immaginare in quel contesto. E aveva ragione. Anche quello non era il sol dell'Avvenir».

Lunedì a Monfalcone ho intervistato gli operai dei cantieri navali. Molti votano Meloni perché, dicono, lei ci tutela. 

Che cosa andrebbe a dire Bobo davanti a quel cantiere? Che c'è l'agenda europea?

«La sinistra ha commesso l'errore di non coltivare più la passione per la politica nei luoghi di lavoro. E così l'hanno fatto gli altri. Quando sento dire che ci sono degli iscritti alla Cgil che voteranno Meloni, inorridisco.

Quanti vuoti di politica ci sono dietro questo fatto? La sinistra non può perdere l'attenzione al sociale. Se no è morta». 

Ma lì, in quel caso concreto, Bobo che cosa farebbe? Darebbe dei volantini? Terrebbe dei comizi?

«Comincerebbe a parlare con i 1.000 operai italiani e con gli 8.000 bengalesi. Cercherebbe di capire come si è potuti arrivare a quella situazione e come uscirne tutti insieme. Bobo sa che la sinistra è più importante per chi sta peggio».

Dove l'ha imparato?

«Ad Arezzo». 

Ad Arezzo?

«Nel giugno di sette anni fa. Io ero a Sinalunga, ad una iniziativa di Slow Food. Una tavolata lunga centinaia di metri. Un modo per far festa con i prodotti del territorio».

Non un mondo di sofferenza...

«Quella arrivò intorno alle nove e mezza di sera. Quando tutti scoprirono che il centrodestra aveva conquistato il sindaco di Arezzo».

Non se lo aspettavano?

«Assolutamente no. Un fulmine a ciel sereno. Scese il gelo sulla tavolata. Poi, a distanza di un quarto d'ora, tutti passarono attraverso una successione di stati d'animo». 

Una lavatrice emozionale?

«All'inizio lo choc. Poi, il classico: "Beh, c'era da aspettarselo". Poi arrivò il "ce lo siamo meritato". E infine il consolatorio: "Questa sconfitta ci farà bene". E così, finalmente rinfrancati, tutti riprendemmo a mangiare tranquilli e felici e vaffanculo Arezzo».

Un happy end, si direbbe..

«Mica tanto. Una settimana dopo sono stato invitato ad assistere in carcere alla rappresentazione della Tempesta di Shakespeare nella traduzione di Eduardo. Una messinscena bellissima per la regia di Gianfranco Pedullà. Quando stava per finire lo spettacolo gli assistenti sociali ci chiesero di non uscire». 

C'era un motivo particolare?

«Certo. Se la platea si fosse svuotata in fretta, i carcerati sarebbero stati costretti a tornare subito in cella. Così invece rimanemmo un po' a parlare con loro». 

Di politica?

«Anche. Mi spiegavano che per loro il cambio di giunta ad Arezzo significava il cambio dell'assessore alla cultura e il candidato più probabile a quell'incarico aveva già annunciato che avrebbe tagliato i fondi per gli spettacoli in carcere. Chiaro? Per loro destra o sinistra non erano indifferenti». 

Che cosa disse loro?

«Nulla. Pensai alla grande tavolata di Sinalunga e alla disinvoltura con cui avevamo superato lo choc della sconfitta. E mi sentii una merda». Sembra che per voi vignettisti la sinistra offra più spunti della destra.

Come mai?

«Perché, come ha scritto Ezio Mauro, la sinistra ha il male oscuro di dividersi». Anche a destra non vanno sempre d'accordo... «Certo ma quando serve si uniscono». 

Avranno divisioni meno profonde...

«Non penso. Meloni è amica degli americani mentre Berlusconi e Salvini sono amici di Putin. Una bella differenza oggi. Ma fanno le conferenze stampa insieme». E cosi, alla fine è la sinistra che litiga di più... «Certo e in questo caso tocca a Letta tenere insieme i cocci. Mi è venuta in mente una vignetta in cui lui è vestito da alpino e dà un braccio a un alleato, una gamba all'altro. Il testamento del capitano, ricordate la canzone? Ecco». Basterà a fermare la destra? «Bobo se lo augura vivamente». 

·        Stephen King.

Marco Consoli per “il Venerdì di Repubblica” il 6 dicembre 2022.

C’è l'idea secondo cui Stephen King, che lo scorso 21 settembre ha compiuto 75 anni, sarebbe apparso all'improvviso sulla scena editoriale nel 1974 con Carrie, il primo di una lunga serie di romanzi (e racconti) di successo venduti in oltre 400 milioni di copie. 

Bev Vincent nelle prime pagine di Stephen King. La guida definitiva al Re (Mondadori Electa), volume che ne ripercorre vita e carriera con un magnifico apparato di foto e documenti dell'archivio personale dello scrittore, smentisce subito la leggenda: quando pubblicò il romanzo, King scriveva già da più di vent' anni, e i suoi primi testi ancora acerbi erano stati comprati dai compagni di scuola, pubblicati su riviste specializzate, ma anche rifiutati da vari editori e futuri colleghi. 

«Il più famoso mai pubblicato si intitola Sword in the Darkness: forse era troppo ambizioso, visto che aveva al centro le rivolte razziali nell'America degli anni Sessanta, e fu respinto. Così fu anche per un manoscritto inviato al celebre collezionista Forrest J. Ackerman, che lo conservò e glielo fece rivedere anni dopo. Non tutto di quel periodo però è andato sprecato: Squad D, respinto dallo scrittore di fantascienza Harlan Ellison, è stato pubblicato, così come poi L'uomo in fuga e La lunga marcia», spiega Vincent, a sua volta autore prolifico: ha pubblicato decine di racconti e saggi, incluso The Dark Tower Companion, guida ai romanzi del ciclo La torre nera, e il volume Odio volare, che include 17 storie dell'orrore sull'aerofobia, curato proprio insieme a King.

«Ci conosciamo dagli anni Novanta, e anche se ci siamo visti poche volte ci scriviamo regolarmente via email per suggerirci libri gialli o serie tv. Le ultime che gli sono piaciute sono Cinque giorni al Memorial e Cabinet of Curiosities». 

Che tipo è?

«La gente pensa sia strano, ma è una persona normalissima, con uno spiccato senso dell'umorismo. Ed è un tipo molto generoso: mi ha intervistato sulla mia passione per i suoi romanzi sul mensile The Big Thrill e rilanciato il mio tweet con la data di pubblicazione della biografia. Dopo averla letta mi ha inviato una mail di apprezzamento». 

Non tutti i fan di King sono come lei...

«Qualcuno ogni tanto perde il contatto con la realtà. Una volta un fan è entrato in casa sua a Bangor, nel Maine, minacciando di farsi saltare in aria se non lo avesse voluto incontrare. Però questo e altri episodi simili non lo hanno mai fatto sottrarre a incontri, letture, firmacopie dei libri. Eppure molti hanno pensato che Misery volesse parlare proprio del suo rapporto coi fan». 

E invece?

«Parlava, sotto forma di metafora, dell'evento che più di ogni altro ha influenzato la sua vita: la dipendenza dalla droga e dall'alcol. King ha iniziato a bere al liceo e a usare cocaina poi, probabilmente per sopportare il successo. Come ha detto più volte, è un uomo incline alla dipendenza. 

Quando nel giugno 1999 fu quasi ucciso da un'auto, per riprendersi iniziò ad assumere un potente antidolorifico, di cui poi divenne schiavo. È riuscito a disintossicarsi grazie all'ultimatum dei suoi cari. I suoi libri sono pieni di personaggi simili a sé, dall'alcolista Jack Torrance di Shining, all'uomo che nel recente Fairy Tale (edito in Italia da Sperling & Kupfer, ndr) si rompe una gamba e ha paura di diventare schiavo degli oppioidi».

È vero che King iniziò a scrivere Misery su una scrivania appartenuta a Rudyard Kipling?

«Sì, era appena arrivato a Londra al Brown Hotel e aveva quella storia in testa, così chiese al concierge un luogo tranquillo per scrivere. Quello lo fece accomodare a una scrivania, e quando King finì alcune pagine gli rivelò che era appartenuta a Kipling, che per giunta era morto proprio lì. Ma King ha lavorato ovunque: una volta mi ha mandato una pagina scritta in aereo...». 

Come ha fatto a pubblicare oltre sessanta romanzi e innumerevoli racconti in meno di cinquant' anni di attività?

«Lui racconta di produrre sei pagine al giorno, cioè più di duemila l'anno. Quando era giovane scriveva un romanzo la mattina e ne revisionava uno la sera. Ha dichiarato di riposarsi solo il giorno del suo compleanno, a Natale e per la festa del 4 Luglio. Poi ha anche detto che non era vero...». 

Quando ha iniziato a scrivere?

«Molto presto, attorno ai sei anni, forse anche in seguito alla necessità di passare un lungo periodo a letto per una brutta tonsillite. All'inizio scriveva adattamenti dei fumetti o dei film che amava poi, incoraggiato dalla madre, ha iniziato a produrre storie originali. Una delle prime riguardava quattro animali fatati impegnati ad aiutare i bambini: il capo era il coniglio bianco Signor Orecchie Magiche».

Chi è stato fondamentale per il suo successo?

«Ad inizio carriera il suo editor, Bill Thompson, che lo aiutò per la pubblicazione di Carrie, riscrivendo con lui il finale troppo fantascientifico. E non è vero che, una volta diventato famoso, nessuno ha più corretto i suoi romanzi: King stesso ha ammesso che La storia di Lisey gli è stato restituito dall'editor Nan Graham con più segni rossi di quanti ne trovasse nei temi del liceo. 

Il vero perno del suo successo però è sua moglie Tabitha (sposata nel 1971, ndr): era la sua prima lettrice, e fu proprio lei a suggerire di mettere un test di gravidanza nella borsetta di Jo, la moglie morta dello scrittore Mike Noonan in Mucchio d'ossa. E fu sempre lei a ispirare La storia di Lisey sistemandogli l'ufficio disordinato mentre era in ospedale. Quando King tornò e vide tutto quell'ordine ebbe l'idea di scrivere della moglie di uno scrittore defunto». 

Oggi il patrimonio di Stephen King ammonta a centinaia di milioni di dollari, ma lei ricorda che c'è stata un'epoca in cui sbarcava a malapena il lunario...

«Dopo la nascita della figlia Naomi, Stephen e Tabitha dovettero procurarsi un lavoro. Lei lo trovò in un negozio di ciambelle, lui in una lavanderia, un'esperienza che poi gli è servita per scrivere il racconto Il compressore. Un altro, Graveyard Shift, è ispirato a uno dei tanti lavoretti extra fatti per arrotondare lo stipendio del primo incarico da insegnante: pulire il seminterrato di un mulino dismesso. 

Riusciva già a vendere qualche racconto per 200 dollari, ma la sua vita è cambiata solo quando ne ha incassati 200 mila per i diritti dell'edizione tascabile di Carrie. Oggi equivarrebbero a più di un milione». 

Nel libro lei dice che King trae spesso ispirazione da idee balzane. E che gli dà più soddisfazione farsi guidare dai personaggi che avere già in mente una trama definita.

«Ha detto qualcosa del genere proprio riguardo a Rose Madder e Insomnia, i suoi romanzi più pianificati. Io ho cercato, scrivendo il libro, di ritrovare, per ogni romanzo la scintilla iniziale. Spesso erano idee cui è difficile ricondurre poi il testo finale, come Billy Summers, avviato partendo dall'immagine di un uomo che guarda dalla finestra di un seminterrato i piedi dei passanti».

C'è un romanzo che King ha scritto ma che lui proprio non sopporta?

«Una volta ha detto che sulle 700 pagine di Le creature del buio ce ne sono solo 300 decenti».         

King è considerato il re del terrore. Ha capito da dove nasce la sua fascinazione e di che cosa ha veramente paura?

«È affascinato dall'horror fin da quando era bambino e ascoltava di nascosto da sua madre Dimension X, un programma radio di fantascienza. Quanto alle sue paure, non sono soprannaturali ma molto terrene: odia i ragni e prendere l'aereo. Oggi credo abbia il terrore della demenza senile: gli impedirebbe di continuare a scrivere».

Una volta ha dichiarato che probabilmente dopo la morte non c'è nulla. Ma quella di King non era una famiglia religiosa?

«Sua madre lo era molto (il padre è andato via di casa quando lui aveva due anni, ndr) e Stephen ha frequentato la Chiesa metodista. Ma, a giudicare da come dipinge i suoi personaggi più credenti, come la madre di Carrie o Sylvia Pittston ne La torre nera, non penso sia molto religioso.

Quanto all'ipotesi che dopo la morte non ci sia nulla, per King non è quella peggiore: in Revival ci ha raccontato un aldilà in cui gli uomini vivono pene dell'inferno». 

Quasi tutti i romanzi e i racconti di King sono diventati film o serie tv. Che rapporto ha con questi adattamenti?

«Ottimo, perché è stato fortunato. Brian De Palma e Stanley Kubrick, adattando Carrie e Shining, hanno contribuito al suo iniziale successo. Dopo l'epoca d'oro degli anni 80, tutti hanno iniziato a ispirarsi a lui, e la qualità di film e serie è peggiorata. Ma la sua politica è rimasta la stessa: essere coinvolto in prima persona o restarne fuori, senza vie di mezzo». 

È vero che ha ceduto i diritti di alcuni suoi racconti per un dollaro?

«Sì, anche se il suo commercialista non approvò. I diritti furono ceduti ad aspiranti registi, purché i film non fossero sfruttati commercialmente. Tra i beneficiari c'è anche Frank Darabont, che adattò La donna nella stanza, prima di dirigere Le ali della libertà e Il miglio verde». 

Che rapporto ha con i critici?

«All'inizio quasi tutti lo consideravano uno scrittore minore, finché nel 2003 ha ricevuto il riconoscimento della National Book Foundation. Ma credo che la svolta sia arrivata già prima, nel 1997, quando passò all'editore Scribner: Mucchio d'ossa, con i suoi riferimenti a Rebecca, la prima moglie, è forse uno dei primi romanzi in cui King mostra una spiccata sensibilità letteraria». 

Quali sono gli altri scrittori che apprezza di più?

«Tantissimi, è un avido lettore. Lovecraft e Bradbury, ma anche quelli citati ricevendo il National Book Award: Elmore Leonard, Peter Straub, John Grisham, Dennis Lehane. E poi autori di gialli come Donald Westlake e Lawrence Block. Con molti suoi amici, come David Morrell e Linwood Barclay, si scambia i manoscritti per reciproci consigli, prima della pubblicazione».

·        Susanna Tamaro.

Susanna Tamaro: «Da bambina pensavo di impazzire dal dolore. Ora è tempo di avere più coraggio». Daniela Monti su Il Corriere della Sera il 23 Ottobre 2022.

«Durante la pandemia abbiamo vissuto una sorta di guerra civile e la memoria di un conflitto che ha diviso in due il Paese va affrontata», dice la scrittrice, di nuovo in libreria con Tornare umani . Un testo militante, coraggioso, divisivo. 

«Dove sta andando il mondo? Non riusciamo a capirlo. Cosa è vero e cosa non lo è di tutto ciò che ci viene detto? Non riusciamo a capirlo. Di cosa dobbiamo aver paura? Non riusciamo a capirlo». Susanna Tamaro dice che il mondo non tornerà più quello di prima, ma questa oscura minaccia la interpreta come «un gioioso augurio. Sì, il mondo di prima non tornerà». Quale mondo prenderà il suo posto? E noi che parte avremo? Come ce la caveremo? «Davanti alla spersonalizzazione perversa di questi tempi», dice la scrittrice, «si può sempre scegliere, si può sempre resistere». Tamaro non aveva nessuna intenzione di scrivere un libro quest’anno, «ero davvero molto stanca, ma poi ho sentito un forte imperativo etico che mi ha fatta ricredere. Abbiamo vissuto una sorta di guerra civile e la memoria di un conflitto che ha diviso in due il Paese va affrontata. Vedevo intorno a me tante persone smarrite, angosciate. Mi sono sentita in dovere di cercare di fare luce su quello che era successo, per riportare la razionalità al centro del discorso comune». Il risultato è Tornare umani , un libro vibrante, militante, divisivo. 

«È davvero il momento di avere coraggio, bisogna saper rischiare l’impopolarità, la più temuta sventura di questi tempi», ammette, perché c’è una battaglia da fare per ridare senso a noi stessi e al mondo e c’è bisogno che qualcuno si sporchi le mani, senza paura, affondandole nelle troppe contraddizioni, negli errori, nelle non-scelte, nelle frantumazioni di questi due anni di pandemia che hanno azzerato certezze e convinzioni. Tamaro ripercorre i mesi più duri - quelli della paura e della morte - e tutto ciò che è accaduto, personalmente e collettivamente, diventa occasione di riflessione. «Riflessione pacata», ma anche tagliente. La crisi del pensiero - quello tecnico-scientifico, alle prese con la nuova complessità del mondo - è il punto di partenza.

Tornare umani , in fondo, dice questo: torniamo a pensare. Partendo da cosa?

«Tornando alla realtà dell’umano. Noi ci siamo evoluti per migliaia di anni insieme a tutto il vivente e questo processo ha creato legami strettissimi e relazioni complesse con il mondo che ci circonda. Tutto il nostro corpo, come anche i nostri comportamenti di base derivano da questa evoluzione. Gli ultimi cinquant’anni hanno dato un colpo di spugna, proponendo un’idea dell’essere umano totalmente slegata dalla sua evoluzione biologica. Con l’illusione dell’onnipotenza, di una libertà fittizia abbiamo tagliato ogni nostro legame con il reale. Questa crisi del pensiero si può affrontare riproponendo le vecchie domande che da sempre appartengono all’identità dell’uomo. Chi sono? Che senso ha la vita? Che realtà si nasconde prima e dopo il mistero dell’esistere?».

Quando ha cominciato a pensare al libro?

«Alla fine del primo anno di pandemia perché ero impressionata dal vento di folle irrazionalità che aveva iniziato a spirare nella nostra società. Mi facevano paura gli scienziati trasformati in vati di una verità assoluta, perché la scienza è tale soltanto quando ammette la fragilità del dubbio e dell’errore; se invece si pone come assoluto può diventare pericolosa. La mia prima idea era quella di scrivere un breve saggio dal titolo Cos’è un virus, cos’è un uomo. Mi sembrava fosse importante ridefinire le due categorie in modo che una - il virus - non divorasse l’altra. Ma poi, quando ho cominciato a scrivere, ho dovuto fare i conti con un discorso che si ampliava di giorno in giorno, come cerchi nell’acqua».

Un saggio, non un romanzo.

«È una cifra che sento molto mia, soprattutto in questo momento in cui la narrativa pura viene scavalcata e divorata dalle serie televisive».

«NESSUNO PARLA PIÙ DELL’ANIMA AI BAMBINI E QUESTO NON LI TRASFORMA IN PERSONE CURIOSE, MA IN PICCOLI ESSERI DISPERATI, SENZA ORIZZONTE»

C’è un forte richiamo alla libertà di scelta, in ogni situazione, e al coraggio. Ne ha visto poco?

«La cultura dominante ha progressivamente allontanato e cancellato tutte quelle che, una volta, si chiamavano virtù. E prima fra tutte il coraggio, cioè la capacità di affrontare situazioni difficili con consapevolezza. Il risultato di questo processo è stata la trasformazione della persona in un essere sostanzialmente malato, dal ventre molle, adagiato su un divano in attesa di intrattenimenti, incapace di qualsiasi decisione che non sia insufflata dai media. Scegliere vuol dire essere consapevoli che, nella realtà, sono sempre presenti due dimensioni davanti a noi. Quella del bene e quella del male. Il bene e il male prêt-à-porter - è bene quel che mi piace ed è male quello che non mi piace - stanno trasformando la nostra civiltà in luogo in cui è in agguato la barbarie».

Il ruolo degli intellettuali?

«Se ho scritto questo libro è soprattutto perché sono rimasta colpita dal silenzio della gran maggioranza degli intellettuali, dall’emarginazione e dalla feroce ridicolizzazione nei confronti di chiunque osasse porsi delle domande che richiedevano risposte complesse, più articolate da quelle imposte dal manicheismo dei media».

Nella fine della biodiversità è scritta anche la nostra fine, eppure a causarla «non sarà il buco dell’ozono o il riscaldamento climatico», scrive, «bensì la cancellazione dell’anima». È a un nuovo umanesimo che pensa?

«Sì, proprio di un nuovo umanesimo abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di ricostruire con coraggio il percorso educativo; abbiamo bisogno di parlare di un senso etico profondo della vita; abbiamo bisogno di dire che la grandezza della nostra esistenza non è determinata soltanto dalla lunghezza, farmacologicamente assistita, dei nostri giorni, ma da come siamo in grado di viverli. Abbiamo bisogno di combattere la pavidità, la comodità e la debolezza interiore, capaci solo di partorire fanatismo e odio sociale. Abbiamo bisogno di riportare nei nostri pensieri la vera razionalità, una razionalità capace di ammettere che su tutte le nostre vite incombe l’ombra del mistero. Questa realtà a una dimensione è stata imposta da una cultura tecnico-scientifica che ormai credo si possa definire, dopo questi due anni, come l’architettura prodotta dai regimi totalitari: brutalista. Nessuno parla dell’anima ai bambini, nessuno considera che questa dimensione, nell’infanzia, è ancora completamente aperta e non lo rimane per sempre. Se non la si coltiva, il materialismo prende il sopravvento. E questo non trasforma i bambini in persone curiose e appassionate della vita ma in piccoli esseri disperati, senza alcun orizzonte».

«QUANDO HO AVUTO SUCCESSO, PER DIECI ANNI HO SUBITO UNA CAMPAGNA DI ODIO, CATTIVA E FALSA. IO PERÒ HO SEMPRE COLTIVATO LA SPERANZA»

L’uomo di cui parla nel libro, quello di cui ha nostalgia, è un uomo forgiato dalle «prove interiori». Quali sono state le sue, quelle che l’hanno resa la persona che è?

«Tutta la mia vita è stata una continua prova interiore. Sono nata da due genitori molto problematici e ho la sindrome di Asperger. All’epoca nessuno sapeva cosa fosse e dunque tutte le mie crisi, tutte le mie difficoltà venivano trattate come capricci da domare con la forza. Nel corso della mia infanzia ho pensato molte volte di impazzire dal dolore. Come tutte le persone autistiche, ho avuto tragiche difficoltà a inserirmi nel mondo del lavoro e, se non avessi avuto la fortuna di poter vivere dei miei libri, ora sarei in fila alla Caritas. Poi, quando ho avuto successo, per dieci anni ho subito una campagna stampa di odio nei miei confronti, cattiva e falsa, che avrebbe ucciso la maggior parte delle persone. Nonostante queste terribili difficoltà, però, ho sempre coltivato nel mio cuore il coraggio e la speranza, insieme alla consapevolezza che le sofferenze vengono per essere affrontate e farci crescere. Per fare questo e non trasformarsi in una vittima inerme, bisogna avere la profonda convinzione che, nella vita, esista un senso».

Cosa resta del grande mito del nostro tempo: la felicità?

«In Va’ dove ti porta il cuore scrivevo che la felicità è breve come la luce di una lampadina, mentre solo la gioia è capace di riscaldarci come quella del sole. Quando mi si parla del diritto alla felicità penso a mio nonno che, nato poverissimo, ha passato quattro anni della giovinezza nelle trincee del Carso. Nonostante ciò è andato avanti, ha costruito un lavoro e una famiglia. La felicità è un mito post moderno. Si può essere felici per un incontro, un viaggio, un libro, ma non è un diritto e non è un fondamento etico. La realtà costitutiva della nostra esistenza è la capacità - e la possibilità - di costruire intorno a noi realtà positive, che diano senso alla nostra vita».

Chiude il libro raccontando tre vite speciali (Maria Sklodowska Curie, il ginnasta Alfred Hirsch morto nei campi di sterminio, e Franz Jägerstätter, ucciso perché rifiutò di arruolarsi nell’esercito nazista), quasi ad indicare che nella biografia c’è una risposta alla crisi. «È di vite esemplari che abbiamo bisogno per uscire dall’indistinto e recuperare la virtù del coraggio davanti a scelte difficili».

Susanna Tamaro: «Il senso della meraviglia può salvare il mondo». Susanna Tamaro su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.

«Il mondo finirà quando finirà il senso della meraviglia», scriveva Chesterton. Ma quanta capacità di meravigliarsi è rimasta ai nostri giorni? Una scrittrice rievoca il rapporto, che abbiamo perduto, con la Natura. E invita gli adulti a un esame di coscienza, per salvare il salvabile: le nuove generazioni.

Appartengo alla generazione che, anche se cresciuta in città, aveva comunque un rapporto disinvolto con la natura; bastava una gita fuori porta, un pomeriggio nel giardinetto dei nonni per scatenare la nostra curiosità verso tutto ciò che era vivo; non temevamo il contatto con le ortiche, anzi, osare sfidarle in pantaloni corti era una prova di coraggio, così come lo era quella di affrontare le spaventose tenaglie delle forbicine, i ragni o cervi volanti che popolavano il crepuscolo. Lontani anni luce dalle ansie indotte dall’ecologismo, vivevamo nella dimensione primaria degli esploratori/cacciatori. Ricordo ancora che dopo aver scoperto la morbidezza assoluta di una talpa morta, con mio fratello maggiore avevamo deciso di ideare delle trappole per poterle catturare e poi stupire nostra madre con il dono di una meravigliosa pelliccia.

«AVEVAMO UN RAPPORTO DISINVOLTO CON LA NATURA; BASTAVA UNA GITA FUORI PORTA, UN POMERIGGIO NEL GIARDINETTO DEI NONNI PER SCATENARE LA NOSTRA CURIOSITÀ VERSO TUTTO CIÒ CHE ERA VIVO»

Scoprire, cacciare, sfidare

Questa dimensione, quella di scoprire, cacciare, sfidare è connaturata nell’essere umano ed è particolarmente forte nell’età compresa tra la prima infanzia e l’inizio dell’adolescenza. Con l’irrompere della realtà virtuale le cose sono rapidamente cambiate. Me ne sono resa conto quando mi è capitato di ricevere visite di amici con figli e nipoti; pensavo che sarebbero stati felicissimi di trascorrere una giornata in campagna e invece ho scoperto che ne erano letteralmente terrorizzati: la comparsa di qualsiasi insetto provocava in loro uno stato di allarme prossimo al panico, per non parlare dell’eventuale sfioramento di un’ortica o ancora peggio il contatto con le spine di un rovo!

Da esploratori a spettatori 

Cosa succede nel corso dell’evoluzione nel cervello di un bambino quando, da esploratore, si trasforma in spettatore? Una cosa molto importante di cui si parla troppo poco: gli viene sottratto l’uso dei sensi, cioè la possibilità di essere padrone del proprio corpo nel relazionarsi con il mondo reale. Paradossalmente ora, grazie ai meravigliosi documentari in streaming, i piccoli sanno tutto sul comportamento dei lemuri del Madagascar o dell’uccello Lyra, ma sono atterriti se una mosca si posa sulla loro mano. La loro sana e naturale curiosità infantile è stata spenta dal turbinio di informazioni che li avvolge, offrendo continue risposte senza che prima sia sorta in loro la necessità di una domanda, e le risposte senza domanda sono come le foglie che cadono al suolo e il vento fa vorticare nell’aria. Non essendo più curiosi, non andando più in cerca di avventure stanno perdendo anche una facoltà importante, quella di conoscere i propri limiti.

«NON ESSENDO PIÙ CURIOSI, NON ANDANDO PIÙ IN CERCA DI AVVENTURE... I BAMBINI STANNO PERDENDO ANCHE LA CONOSCENZA DEI PROPRI LIMITI»

Il peso sui bambini della narrazione catastrofista

Nelle nostre spericolate spedizioni di cacciatori/ esploratori ci facevamo spesso male, ma queste piccole ferite erano considerate prove iniziatiche che attestavano il nostro livello di coraggio e di indipendenza dal mondo degli adulti. Mentre ora ogni bambino è circondato, fin dalla sua “miracolosa” nascita, da torme di adulti pronti a intervenire, confortare, proteggere da ogni minimo imprevisto che minacci il suo artificiale equilibrio. Come se non bastasse, l’esperienza diretta con la natura è stata sostituita dalle ripetitive immagini di una narrazione catastrofista che spinge i più piccoli in uno stato di continuo allarme: ogni tuo più piccolo gesto può spingere l’ago della bilancia da una parte o dall’altra, verso la salvezza o la distruzione totale; sei tu responsabile, sei tu che devi scegliere! Ci rendiamo conto di quale spaventoso peso viene messo sulle spalle delle nuove generazioni? Invece della curiosità e della meraviglia, il terrore di sbagliare; la natura non è più una realtà che ci appartiene evolutivamente - e alla quale noi apparteniamo - ma si è trasformata in qualcosa che sta al di fuori di noi, immersa nella luce sublime del bene. E se la natura è il bene assoluto, è chiaro che noi, i distruttori, non possiamo essere altro che il male assoluto.

Una mensa aziendale dai turni serrati

Che grande falsificazione della realtà! Non è necessario scomodare Leopardi per capire che nella natura non è presente alcuna istanza etica, basta osservare un piccolo spicchio di prato per rendersi conto che la realtà dinamica del vivente è una sola: o mangi o sei mangiato. Più che un paradiso, la natura è dunque una mensa aziendale dai turni serrati ma anche di questa narrazione bisogna avere un certo orrore perché spalanca le porte alla deprimente piattezza del neo darwinismo. Una volta, a un padre che si dimostrava orgoglioso di far vedere tutti i documentari più cruenti sulla natura al figlio perché imparasse la vera legge della vita — sono i più forti e i più adatti a trionfare — ho detto che non mi sembrava una scelta particolarmente saggia perché anche lui, inevitabilmente, un giorno sarebbe diventato meno forte e meno adatto e suo figlio si sarebbe ricordato di quegli insegnamenti, abbandonandolo al suo destino.

Che cos’è la natura per noi adulti

Negli ultimi trent’anni la realtà virtuale ha totalmente divorato quella naturale - e nel tempo a venire questa sproporzione diventerà ancora più grande - per questo è importante interrogarci ora sul rapporto che lega la nostra specie all’ambiente che ci circonda. Aiutare i bambini a entrare in relazione con questa realtà è davvero una battaglia di retroguardia? I piccoli hanno bisogno della natura o possono accontentarsi delle sue rappresentazioni virtuali? Il misero porcellino di terra, che possiamo trovare sotto un vaso sul balcone, come può competere con le superbe narrazioni di Netflix? Forse è giunto il momento di dire che non si tratta di inventare una nuova forma didattica — come ci sono i corsi antibullismo possono venir introdotti corsi per “vedere” la natura — ma piuttosto invitare noi adulti a fare un esame di coscienza. Qual è la nostra visione del mondo e, in questa visione, che posto ha la natura? È una realtà meccanica, di cui noi siamo i guastatori e potremmo essere i riparatori, o è una realtà primigenia a cui apparteniamo e che ci appartiene?

«QUAL È LA NOSTRA VISIONE DEL MONDO E, IN QUESTA VISIONE, CHE POSTO HA LA NATURA? REALTÀ MECCANICA O REALTÀ PRIMIGENIA?»

Come i fagioli nell’ovatta bagnata

Quando ho iniziato a scrivere Invisibile meraviglia ho deciso di non raccontare alcuna atrocità. Naturalmente ogni poche righe mi si sarebbe spalancata una porta su realtà agghiaccianti, perché tutto l’esistere è una continua lotta non solo tra predatori e predati ma anche tra il vivente e le malattie. In tempi di Covid mi sembrava invece importante parlare di tutto ciò che nel mondo è bello e affascinante. In ogni bambino c’è nascosto il desiderio di riappropriarsi della sua indole da esploratore, di andare in giro per i campi dando un nome a tutto ciò che vede perché questa è la nostra natura evolutiva: sapere quale erba mangiare e quale no, sapere quale insetto è pericoloso e quale innocuo. La nostra sopravvivenza si è sempre basata su queste importanti sperimentazioni e il loro nucleo arcaico sonnecchia in ognuno di noi. L’eccitazione che proviamo infatti quando andiamo a fare shopping ai saldi non è altro che quello del cacciatore in cerca della preda migliore. È proprio questo nucleo che bisogna risvegliare nel bambino per creare in lui un sano rapporto di curiosità con il mondo che lo circonda. Le maestre una volta — molte lo fanno ancora adesso — mettevano i fagioli nell’ovatta bagnata per fare assistere gli alunni all’incredibile e rapidissima nascita della radice e del germoglio, o portavano in classe dei vasi con i girini. C’è qualcosa di più affascinante di quel puntino nero con la coda che con il tempo si trasforma in una rana o un rospo? Credo che nessun bambino sia in grado di resistere al fascino di questo miracolo della natura.

L’indecifrabile segreto della bellezza

Le sagge maestre di un tempo erano capaci di dire che anche noi, in fondo, siamo come i girini: anche se non perdiamo la coda comunque, nel corso della vita, affrontiamo continui cambiamenti. La rigidità imposta da una visione più degna della fisica e della matematica che delle scienze naturali ha reso asetticamente triste ogni osservazione sul vivente. Per insegnare a guardare— e trasmettere questa passione ai piccoli in modo duraturo — dobbiamo quindi essere capaci di togliere dal nostro sguardo e dal nostro cuore tutte le lenti classificatorie, permettendo allo stupore di colpirci. Gli animali e le piante che ci circondano ci parlano di noi stessi e del mistero che ci avvolge, come si fa infatti a parlare di natura se prima non si accetta il fatto che in essa è presente l’indecifrabile segreto della bellezza, e che questa bellezza riverbera dentro di noi come una nostalgia di qualcosa che ci riguarda? Chesterton diceva che il mondo finirà quando finirà il senso della meraviglia. Quanta capacità di meravigliarsi è rimasta ai nostri giorni? Ecco, più dell’ennesimo programma didattico abbiamo bisogno noi, prima ancora dei bambini, di provare quell’improvviso stupore che ci fa rimanere a bocca aperta davanti ai prodigi della natura. Il mare, i monti, gli alberi, gli insetti, il canto degli uccelli, gli animali selvatici e quelli domestici ci parlano di un’irriducibile armonia e complessità. Ed è questa la via attraverso cui condurre le nuove generazioni a conoscere, amare e proteggere il meraviglioso universo che ci circonda.

·        Sveva Casati Modignani.

Sveva Casati Modignani: «Eravamo una famiglia di miserabili, mia mamma mi menava. Ora scrivo di finanza». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.

La scrittrice, che ha 84 anni e ha scritto oltre 40 romanzi: «Mia mamma voleva che fossi educata, ipocrita, sempre con lo sguardo basso: era una bigotta spaventosa. Io non riuscivo a fare nulla di tutto ciò. Mio marito? Non ha avuto il buongusto di andarsene quando ero giovane: oggi sono contraria all’incontro tra dentiere e panciere» 

La scrittrice Sveva Casati Modignani, 84 anni. Nata a Milano, dove ancora vive, il suo vero nome è Bice Cairati

Sveva Casati Modignani ha seguito in tv i funerali della regina Elisabetta ed è incantata da tanta perfezione: «Questo senso di solennità ce l’hanno solo le monarchie e la Chiesa perché lo praticano da secoli, altro che certi Pr che si danno tanto da fare per eventi in cui non funziona mai niente... Dovrebbero andare a scuola dai reali e dai preti. Era fantastica e perfetta anche la cerimonia di nomina a cardinale dell’amico Gianfranco Ravasi». La scrittrice, vero nome Bice Cairati, vive in una villa col giardino a Milano, in una via Padova che era elegante quando suo nonno ci arrivò all’inizio del secolo scorso e ora, più che altro, finisce in cronaca per risse, feriti, scippi. Ma lei, 84 anni, sta lì, inamovibile, non è cambiata neanche la Valentina rossa di Sottsass sulla quale ha scritto 40 romanzi.

Come mai è amica del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura?

«Molti anni fa, espresse lui il desiderio di conoscermi. È un mio lettore».

Il cardinale legge libri d’amore, di tradimenti e passioni?

«Dice che, attraverso le mie storie, scopre un mondo che non conosce. Dice: dopo aver letto tomi pesanti, quando ho la mente stanca, prendo un suo libro e finalmente mi rilasso».

È regalare evasione il segreto per vendere 12 milioni di copie ed essere tradotti in venti Paesi?

«Il segreto è l’affabulazione. Quando scrivo, torno la bambina sfollata in guerra da Milano a Pavia in un complesso agricolo degli zii Oldani. La sera, uomini, donne, vecchi, bambini, ci si riuniva nella stalla e, tra l’afrore degli animali, prima, si recitava il rosario e, poi, un vecchio o una vecchia iniziava a raccontare una storia ed erano storie bellissime: c’era una volta, alla cascina dei due pioppi, una povera vedova maltrattata dalla nuora... Noi bambini stavamo a occhi aperti e orecchie tese: era la nostra televisione, ma molto più coinvolgente, ti entrava nel cuore, nell’anima. È lì che, senza volerlo, ho imparato il piacere di affabulare». 

Che le chiese Ravasi al vostro primo incontro?

«Ma signora, perché sulla Garzantina della Letteratura, lei non compare?».

Parafrasando Ravasi: perché non ha mai vinto il premio Strega?

«Ma che me ne faccio? Neanche Andrea Camilleri l’ha mai vinto».

Ha sofferto la divisione tra letteratura colta e no?

«Mi arrabbiai molto con il critico Beniamino Placido quando me lo presentarono e lui: il suo è un nome che conosco, la mia mamma legge tutti i suoi libri. Gli avrei dato un papagno sulla faccia... Poi, però, mi sdoganò Vittorio Spinazzola su Tirature : scrisse che ero un fenomeno anomalo della letteratura italiana».

Com’era la bambina che ascoltava racconti nella stalla?

«Ribelle. Non riuscivo a fare tante cose che mamma pretendeva da me. Voleva che fossi educata, ipocrita, sempre con lo sguardo basso: era una bigotta spaventosa. Io non riuscivo a fare nulla di tutto ciò. Allora, mi menava».

Che cosa sognava la piccola Bice?

«Non lo sapevo, ma non quello che voleva mia madre. Siamo stati una famiglia di miserabili, parenti poveri di una schiatta di gente danarosa. Mamma voleva scimmiottare i parenti ricchi, mangiavamo pane e patate, ma mi faceva vestiti meravigliosi e voleva che portassi con me la bambola quando uscivamo. Io non volevo, quindi, erano botte. Una volta, sul tram per andare dalla zia Maria Pettinaroli, lanciai la bambola fuori dal finestrino. Ne presi tante che non le dico».

In tutto ciò, suo padre?

«Somigliava a me, però mi diceva: porta pazienza, la mamma ti vuole bene, ma è fatta così. Quando sono nata, eravamo una famiglia abbastanza prospera, papà commerciava vini, ma finita la guerra, erano diventati di moda gli industriali e mamma voleva il marito industriale. Papà aprì una società e da lì abbiamo cominciato a patire la fame».

Si è poi riconciliata con sua madre?

«L’ho ritrovata quando, vecchia e svampita, mi regalava sorrisi che mi strappavano le lacrime. Proprio lei che mi diceva: sei tanto bruttina, poverina».

Primo lavoro in una rappresentanza di prodotti per la birra, come e perché?

«C’erano i soldi solo per far studiare mio fratello. In realtà, mamma voleva che facessi la suora. La sera, mi faceva recitare preghiere a suon di scappellotti, che si concludevano con: Gesù, fammi la grazia di farmi diventare suora. Mi hanno poi mandata a lavorare in una piccola ditta: una tristezza, guardavo fuori, vedevo il sole, mi chiedevo perché dovevo star lì. Mi consolavo leggendo libri, sognando, pensando: vorrei scrivere così».

Che cosa leggeva?

«Di tutto, specie i romanzi di Delly. Storie d’amore impossibili, che provavo a scrivere anche io, ma che rileggevo e non mi piacevano. Bisogna saper prendere per mano il lettore e fargli vedere un mondo che non conosce».

Come nasce il primo romanzo?

«Nel 1972, ero diventata madre, cominciai a scrivere una cosa per raccontare a mio figlio la mia famiglia. Pensavo: crescerà, io finisco sotto un tram e lui saprà che la nostra famiglia affondava le sue radici nella storia delle donne. Mio marito mi vide ammonticchiare fogli e volle leggerli. Dopo, trovo un foglietto sul tavolo: disgraziata, stanotte non sono riuscito a dormire, stai scrivendo un romanzo».

Era Anna dagli occhi verdi che pareva fosse ispirato all’imprenditrice Anna Bonomi Bolchini?

«Era una storia della mia famiglia manipolata. Mio marito mi disse: ora tu scrivi, io ti sistemo il manoscritto. Il suo lavoro con me è stato muovermi critiche. I primi tre o quattro libri erano scritti così, poi, lui si ammalò di Parkinson e smise. Ma le sue critiche ancora mi ronzano nelle orecchie».

Ha pubblicato Suite 405 nel 2018, Segreti e ipocrisie nel 2019, Il falco nel 2020, L’amore fa miracoli nel 2021 e, ora, Mercante di sogni: scrive ancora un libro all’anno, come fa?

«Lavoro tanto. Ma il lavoro più grosso avviene nella testa, è trovare l’idea e individuare il personaggio: io so che esiste da qualche parte, o è esistito, ma è proprio lontano, avvolto dalle nebbie, devo corteggiarlo moltissimo, devo adularlo vergognosamente, affinché si avvicini, si palesi e io possa farmelo amico. Poi, lui comincia a raccontarsi, io inizio a scrivere ed è come se scrivessi sotto dettatura».

Quale personaggio le è più caro?

«Li ho amati tutti e tutti mi hanno amata al punto di raccontarsi proprio a me. E quando la storia è finita, ci salutiamo e io resto sola con un senso di vuoto e malinconia. A volte, mi viene da piangere, chiedo scusa perché non sono riuscita a renderli belli come si sono palesati».

Che storia è questa del Mercante di sogni ?

«Di un signore che esiste, conosco, storico presidente della Borsa Valori Italiana, Attilio Ventura. Un affresco dell’Italia dal Dopoguerra a oggi. Di tanto in tanto, ci incrociamo a cena da amici comuni. Gli ho detto che avrei scritto ispirandomi a lui e mi ha risposto: fai pure. Ma a parte lo spunto, il resto è pura invenzione».

Nel romanzo, c’è una giovane giornalista. Questa è ispirata a lei, che lavorò per il quotidiano La Notte come cronista mondana e intervistatrice?

«Il giornalismo non mi piaceva: dovevo stare nei binari, invece io amavo divagare. Cominciai per caso: lavoravo in una galleria d’arte vicino alla redazione della Notte , un capocronista che la frequentava mi chiese se mi piaceva quel lavoro, risposi di no, che pagavano poco e avrei preferito scrivere; mi mandarono a intervistare Joséphine Baker perché parlavo francese, avendo fatto la baby sitter a Parigi per un conte. Come per la giornalista del Mercante di sogni , la conversazione partì male, ma quando spiegai che era la mia prima intervista, Baker disse: ulalà, allora devi fare bella figura. E si raccontò con generosità. Ero intraprendente perché avevo la forza della disperazione: dovevo portare a casa dei soldi. Una volta, mi intrufolai nella stanza d’albergo dei Beatles travestita da cameriera. Un’altra, però, Luchino Visconti mi ricevette nella vasca da bagno e me ne andai perché mi imbarazzai troppo».

Sveva Casati Modigliani, all’anagrafe Bice Cairati, con il marito Nullo Cantaroni, scomparso nel 2004: i primi romanzi li hanno firmati insieme, con lo pseudonimo di Sveva Casati Modignani, che poi la scrittrice ha conservato 

Come incontrò suo marito Nullo Cantaroni?

«In casa di amici a Parigi. L’avevo scambiato per un tedesco, alto, biondo, massiccio. L’ho visto ed è nato un folle amore. Io vent’anni, lui trenta. Era sposato, aveva una figlia, era una storia impossibile, ai tempi. Immagini mia madre. Mio padre comprò una pistola e disse: se ti vedo ancora con lui, ti ammazzo».

Ma la bambina ribelle resistette.

«A me, il ‘68 non fece neanche il solletico, perché me l’ero fatto nel ‘58. Ci siamo sposati solo quando fu legale divorziare. Quando era malato, i medici dicevano: signora non può stare in casa. Ma lui voleva essere imboccato e lavato solo da me e l’ho tenuto per vent’anni, è spirato fra le mie braccia, finalmente, e poi ho fatto festa. Era la fine di una storia penosa».

Dopo, ha più avuto voglia di amare?

«No, perché mio marito non ha avuto il buon gusto di andarsene quando ero ancora giovane. Sono fermamente contraria all’incontro fra una dentiera e una panciera».

Che cos’è il successo per lei?

«Non scrivere libri che piacciono, ma avere attorno a me un mondo di amore, avere a tavola amici che ripuliscono in un attimo la torta di mele che hai fatto per loro».

·        Tiziano.

E Tiziano inventò la donna: perché visitare la mostra a Milano. A Palazzo Reale di Milano apre una grande mostra dedicata all'immagine femminile nel Cinquecento veneziano. Eroine e nobili dame, cortigiane e Madonne: un omaggio alla bellezza, in tutte le sue forme. Di FRANCESCA AME' su Vanity Fair il 24 Febbraio 2022.

E Tiziano creò la donna. Che si trattasse di eroine, Madonne, belle cortigiane o nobildonne, Tiziano Vecellio (1488-1576) è riuscito con la sua tavolozza a dare a ognuna di loro un aspetto cosi vitale, luminoso, erotico, sensuale e sofisticato da assicurare fama eterna a sé stesso (il color «rosso Tiziano» vi dice qualcosa?) e all’universo femminile.

Una mostra che apre ora a Palazzo Reale di Milano testimonia tutta la potenza di cui è capace il grande maestro del Rinascimento veneziano: Tiziano e l’immagine della donna nel Cinquecento veneziano (visitabile fino al 5 giugno) presenta un centinaio di opere tra dipinti, sculture, manoscritti, abiti e gioielli (ci sono un paio di pazzesche collane in vetro e metallo, realizzate alla corte di Innsbruck) per raccontare il ruolo dominante della donna nella pittura nella Serenissima nel sedicesimo secolo.

Tiziano è stato il più importante regista di quella che oggi si definirebbe una riuscita strategia di empowerment femminile nell'arte, ma non fu il solo: accanto a lui maestri del cavalletto come Giorgione, Tintoretto, Palma il Vecchio, Lotto, Veronese.  

«Questa mostra parla della donna dipinta da Tiziano e dai suoi contemporanei: di bellezza, eleganza e sensualità e del ruolo tutto particolare che la loro rappresentazione acquistò nella Venezia del Cinquecento». Lo dice Sylvia Ferino, curatrice della mostra, già direttrice del Kunsthistoriches Museum di Vienna (un museo di quelli da vedere almeno una volta nella vita) da cui vengono quasi tutti e 16 i Tiziano esposti a Milano.

La Serenissima del Cinquecento è stata una culla piuttosto generosa per le donne, quelle ben nate ovviamente. Lì, come non accadeva da nessun’altra parte in Europa, una moglie poteva gestire la propria dote e, alla morte del marito, decidere in autonomia sul suo patrimonio e sul lascito da destinare ai figli. Le donne non avevano ruoli politici ufficiali, ma non erano escluse del tutto dal dibattuto sulla gestione della «cosa pubblica», a differenza di altre signorie italiane dell’epoca. Certamente anche a Venezia vigevano i matrimoni combinati, ma ad esempio, erano considerati sconvenienti i ritratti femminili da mandare ai promessi sposi, per solleticare i loro desideri. Ecco perché il nostro Tiziano non dipinse nessuna personalità principesca veneziana e i «ritratti reali» che portano la sua mano – due dei più belli in mostra ora a Milano – sono quelli di Isabella d’Este, astuta marchesa di Mantova e maestra di eleganza (era lei a dettare la moda nei primi decenni del Cinquecento) e di sua figlia Eleonora Gonzaga, che era duchessa ad Urbino.

Ma allora tutte le altre donne tizianesche (eroine indomite, personaggi mitologici o del mondo biblico) chi sono? I ritratti sono per lo più delle signore di casa Vecellio, la sorella o le figlie.

Ma torniamo a Venezia, fulcro di un proto-femminismo tutto particolare. È qui, già nel Quattrocento, che un gruppetto di scrittrici e poetesse comincia a scrivere versi, dialoghi e opere in difesa di Eva e contro il mito misogino che associava allo spirito femminile ogni tipo di guai. Ed è sempre a Venezia che, con il boom della carta stampata e dei libri finalmente “portatili”, scrittrici e lettrici trovano appagamento in una letteratura nuova, infarcita della fantasia amorosa dell’Ariosto e della battutine di Baldassar Castiglione (l’autore de Il Cortegiano, il best-seller dell’epoca!). 

Le donne si prendono tutta la scena, in Laguna. E se per Tiziano la quintessenza della bellezza artistica corrisponde al corpo burroso e ai capelli fulvi, molti altri artisti dell’epoca concentrarono i loro sforzi nella rappresentazione del potere della donna. In mostra una sala è dedicata alle «belle veneziane», un vero e proprio genere artistico che ritraeva busti di donna, spesso a seno nudo. Alcune potrebbero essere cortigiane, altre donne sono ritratte in quel modo non per stigmatizzarne la spregiudicatezza o l’appetito sessuale: mostrare il seno era simbolo di apertura del cuore e di fedeltà. Sono dunque deliziosi ritratti di donne che suggellavano probabilmente delle nozze imminenti.

In Laguna le donne sono spesso dipinte come indomite eroine (la mitica Giuditta o Salomé) o campionesse di virtù, come Lucrezia, splendida nella sua veste verde secondo Paolo Veronese e poi colta, da un Tiziano ormai anziano, in tutta il dramma dello stupro subito e del conseguente suicidio. Donne eleganti, belle, anzi bellissime, donne coraggiose o eccessive, come la Maddalena, che è sempre un misto di luci e ombre, donne che incarnano gli ideali del tempo e che, come fa la giovane ninfa di Tiziano che chiude il percorso, ci ricordano che senza di loro il mondo e con lui l’arte non sarebbero la stessa cosa. Vi mostriamo il quadro, e poi un dettaglio del suo sguardo furbetto… 

·        Truman Capote.

Quei giudizi a sangue caldo del cronista Truman Capote. Attori, scrittori, registi, pittori: nessuno sfuggiva ai caustici ritratti del romanziere in veste di fustigatore del jet-set. Gian Paolo Serino il 31 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il giovane Holden di Salinger? Un Huckleberry Finn dei quartieri alti di Park Avenue. Andrè Gide? Uno scrittore privo di immaginazione e estremamente insincero. Ezra Pound? La sua vera gabbia non era dove l'avevano rinchiuso ma la sua vita. Humphrey Bogart? Un attore senza teorie tranne quella di essere pagato. Picasso? La piovra dell'arte. Marlon Brando? Il Rodolfo Valentino della generazione bop.

Sono questi alcuni giudizi, per lo più al vetriolo, espressi in molti articoli di saggistica da Truman Capote, lo scrittore americano conosciuto a tutti per il suo A sangue freddo. E sono ora raccolti da Garzanti nelle nuove edizioni di I cani abbaiano e Giardini nascosti. Certo in quegli anni '70 Capote era diventato un alcolista imbottito di pillole: lui la definiva una «crisi creativa». Nella prefazione al romanzo Musica per camaleonti, il penultimo libro pubblicato in vita, racconta di essersi reso conto di lavorare con soltanto la metà o un terzo delle sue capacità per essersi messo in testa di epurare e perfezionare il proprio stile. La verità è più che altro che era disperato all'idea di scrivere qualcosa e istintivamente tornò alle sue radici - ai ricordi d'infanzia, alle stranezze e agli eccentrici che popolavano la sua prima narrativa - lasciandosi alle spalle il mondo dell'alta società.

Tra queste pagine, oltre che nei protagonisti della letteratura e del cinema, ci imbattiamo anche in descrizioni di città: della New Orleans del 1946 scrive che l'atmosfera è «come quella dipinta nei quadri di De Chirico», e un anno dopo scrive la stessa cosa di Hollywood: «Qui dove nessuno cammina le auto scivolano in un flusso costante e silenzioso, la mia ombra, che si muove lungo la strada bianca e spoglia, è come l'unico elemento vivo di un De Chirico».

Capote amava l'ombra tropicale e la spettrale penombra, così come amava le nebbie veneziane, le case dei pensionanti, le statue dei cimiteri. Dalle sue descrizioni, a volte è difficile distinguere un luogo dall'altro - la Brooklyn di Capote è praticamente indistinguibile da New Orleans - e questo perché tutti i suoi paesaggi aspirano in qualche modo al Sud ricordato della sua infanzia. Anche quando descrive il presente, molti dei pezzi hanno un sapore nostalgico, e su quasi tutti aleggia un'atmosfera di eccessiva maturità, di fiori che iniziano a sfiorire. «Non avevo mai conosciuto nessuno che scrivesse», ha detto una volta Capote a proposito della sua infanzia in una piccola città del Sud e «in effetti conoscevo anche poche persone che leggevano».

Queste selezioni di saggi, estratti e interviste, ricordano anche il Capote che era allo stesso tempo uno scrittore e un giornalista letterario arrivista dei suoi tempi: il bon vivant che si nutriva di patate al forno ripiene di caviale; il romantico tormentato che dichiarava che la parola più bella e la parola più pericolosa in inglese erano la stessa cosa: «amore». Era anche il pettegolo, l'amante della mondanità e l'attaccabrighe che non amava gli attori: di John Gielgud dice: «Tutto il suo cervello è nella voce»; di Marlon Brando: «Nessun attore... ha trasportato la falsità intellettuale a livelli più alti di esilarante pretesa».

Allo stesso tempo è anche un Capote al massimo della sua rilassatezza, incline a prendere in giro le sue stesse numerose bizzarrie, soprattutto quando si scontrano con le eccentricità degli altri. Il racconto di Capote di una cena a base di pollo con un famoso artista andata male è uno dei pezzi più divertenti della letteratura culinaria e un piacere in qualsiasi contesto.

Forse nessuno scrittore del XX secolo è stato un cronista così attento e aggraziato dei suoi tempi come Truman Capote. Giardini nascosti è il primo volume dedicato esclusivamente a tutti i saggi pubblicati da questo amatissimo scrittore.

Ci sono anche i pezzi dei primi anni della sua carriera, quando Capote non la smetteva mai di lavorare sulle storie e sulle sceneggiature. Ma era soprattutto il giornalismo ad alimentare la sua immaginazione. Non era soltanto prolifico, ma anche un consumato creatore di frasi poi diventate etichette in quella società mondana: famosa quella dedicata al regista John Huston: «Un dandy allampanato e strascicato».

Tra i brani raccolti c'è anche quello che lo ha portato alla fama: The Duke in His Domain, il leggendario profilo di Marlon Brando datato 2 novembre 1957 e apparso sul New Yorker. Capote descrive Brando a Kyoto, in Giappone, mentre sta girando la versione cinematografica di Sayonara di James Michener. Descrive gli oggetti presenti nella stanza di Brando, i calzini, le scarpe e le giacche, le camicie da mandare in lavanderia. E libri, una cascata di pensieri profondi, tra i quali si vedeva The Outsider di Colin Wilson e varie opere sulla preghiera buddhista, sulla respirazione degli Yogi e sul misticismo indù. Ma niente narrativa, perché «Brando non legge nulla».

«Dichiara di non aver mai aperto un romanzo dal 3 aprile 1924, giorno della sua nascita, a Omaha, Nebraska», scrive Capote. E aggiunge: «ma anche se non gli interessa leggere narrativa, desidera scriverla, e il lungo tavolo laccato era pieno di posacenere stracolmi e di pagine accatastate della sua ultima fatica creativa, che si dà il caso sia una sceneggiatura cinematografica». Le tecniche utilizzate da Capote - l'osservazione minuziosa dell'ambiente, la registrazione accurata di ogni sfumatura del dialogo, la paziente attesa del piccolo gesto rivelatore (Brando che schiaffeggia il tavolo, con allegria o forse con indignazione) che rivela il carattere - hanno ispirato generazioni di cronisti del jet set, pochi dei quali hanno operato con l'intelligenza, il brio o la precisione di Capote.

L'articolo su Marlon Brando è rivelatore anche del suo erotismo sublimato. Capote (come la maggior parte del mondo di allora) era attratto dal giovane Brando, e in seguito avrebbe stretto un forte e doloroso legame con Perry Edward Smith, uno degli assassini del caso descritto in A sangue freddo, del quale avrebbe osservato la morte, quando fu giustiziato per impiccagione il 14 aprile 1965.

A differenza del profilo di Brando, tuttavia, il romanzo A sangue freddo è scritto senza ironia e senza intrusioni autoriali, con un distacco di stampo flaubertiano che permise a Capote di affermare di aver inventato una nuova forma letteraria, «il romanzo di non-fiction», sebbene altri scrittori del New Yorker, in particolare Joseph Mitchell e Lillian Ross, avessero già imboccato questa strada.

È consuetudine sostenere che Capote sia stato vittima della celebrità che bramava. Ma in lui c'era anche qualcosa di eroico, perché ha affinato il suo mestiere e sacrificato la sua tranquillità e il suo equilibrio morale pur di (de)scrivere la vita che lui non è riuscito a vivere, ma soltanto a raccontare.

·        Umberto Boccioni.

Umberto Boccioni, il ribelle che sintetizzò arte, azione e vita. La biografia di uno degli artisti più moderni del '900. Tra opere-capitali, risse e ossessioni. Luigi Mascheroni il 16 Novembre 2022 su Il Giornale.

Da una parte l'arte e la vita, anzi l'arte è la vita. Dall'altra, l'arte e la politica, anzi l'arte è la politica.

Tra arte, politica, avanguardia, inquietudini (è stato tra gli artisti più grandi e più impazienti del nostro Novecento), pittura rivoluzionaria, scultura moderna, culto della Patria, identità nazionale e «la bella morte» si compì la vita di Umberto Boccioni, purosangue romagnolo, famiglia originaria di Rimini, nato nel 1882 a Reggio Calabria solo per un ritardo burocratico (il trasferimento del padre alla Prefettura di Forlì non arrivò in tempo) e morto giovanissimo, a 33 anni, divorato insieme con la sua generazione dalla Grande guerra, sola igiene del mondo, nell'agosto del 1916, senza neppure fare in tempo a diventare fascista. Causa: una antieroica caduta da cavallo. Fu un caso, un incidente, certo. Ma perché non pensare al cavallo (animale totemico del Futurismo per la velocità e la forza, l'opera Cavallo + cavaliere + caseggiato del 1913, Dinamismo di un cavallo in corsa + case dipinto nel 1915 per rappresentare la sua teoria di compenetrazione tra corpo e ambiente, e poi il cavallo principio di vita e macchina di morte...) come simbolo della vitalità, dell'energia e del desiderio che furono propri di Boccioni, l'uomo che voleva dipingere la velocità?

La premessa. Umberto Boccioni assieme a Amedeo Modigliani e a Giorgio de Chirico è stato l'italiano che ha più inciso nella storia dell'arte del primo Novecento, e forse anche oltre. È stato il nostro Picasso eternamente giovane. Ribelle, antitradizionale - bellezza moderna versus bellezza antica - insieme epico, eroico, erotico, tragi-comico. La vita come un poema.

Le conclusioni. Quello che resta di Boccioni, ciò che ci ha lasciato, è enorme. Citiamo tre cose. Le sue opere, sparpagliate nei più grandi musei dal mondo, dal MoMa di New York a Milano. La sua teoria, di grandezza pari alla pratica (lo scritto Pittura, scultura, futuriste. Dinamismo plastico, uscito nelle Edizioni futuriste di «Poesia» nel 1914). E un modo nuovo, moderno, di fare e di vivere l'arte. Umberto Boccioni era un creatore, un esploratore prima che un pittore o uno scultore.

Lo svolgimento. La biografia ragionata della storica e critica d'arte Rachele Ferrario Umberto Boccioni. Vita di un sovversivo (Mondadori) che in 350 pagine di testo e 50 di note, scavalcando la categoria di «saggio divulgativo» e approdando a quella di «saggio scientifico», ricostruisce la troppo breve ma straordinaria performance sul palcoscenico dell'arte di un innovatore che volle fondere la natura dell'uomo con la sua espressione artistica. Si chiamano giganti.

(Auto)ritratto sintetico e dinamico di Umberto Boccioni. Studente ben poco brillante (ma con un talento innato per il disegno) che comincia a pensare per immagini attraverso la scrittura: prima è giornalista, romanziere, poeta, poi diventerà pittore e dopo scultore. Fin da giovane sciupafemmine (oggi direbbe anche: maschilista). Il primo incontro fondamentale è con Gino Severini, altro provinciale che conquisterà il mondo e il secolo (i genitori fanno anche lo stesso mestiere: papà usciere, mamma sarta). Dettato artistico-filosofico che segna la sua vita: «La realtà va interpretata, non copiata». Maestri e amici imprescindibili: Balla, Sironi, Romolo Romani, Luigi Russolo, Carlo Carrà (ma a un certo punto litigano, e poi fanno pace), Sant'Elia, Marinetti... Tratti caratteriali: un legame patologico con la madre (sviscerato dall'autrice in tutta la biografia lungo la direttrice Arte-Madre-Patria), incostanza, volubilità, malinconia, individualismo, una particolare predisposizione all'avventura e al rischio, una marcata insofferenza a schemi e canoni, una potente ambizione (che lo trascinerà a Parigi, la prima volta nel 1906, e poi in giro per l'Europa, dalla Russia a Berlino), e una indubbia eleganza (nelle risse futuriste stava molto attento a non strapparsi gli abiti). Ossessioni: rappresentare il movimento dei corpi nello spazio, a cui dedica tutto se stesso e la sua arte. Amori: la russa Augusta Petrovna Popoff (dalla quale ha un figlio, che di fatto non vedrà mai), Margherita Sarfatti, gelosissima del suo «mugik», Sibilla Aleramo e infine la principessa romana Vittoria Colonna, con la quale visse gli ultimi giorni di un incantesimo d'amore, segreto e brevissimo (strano: i futuristi finiranno per sposarsi tutti, tranne lui). Città che non sopporta: Venezia (lenta, passatista). Città che ama: Milano (energica, moderna). È qui - verso il futurismo! - che Umberto Boccioni realizza e ambienta le sue opere più importanti - Rissa in Galleria, 1910, La città che sale, 1911, che dipinge la vita cittadina dell'epoca - ed è qui che diventa famoso ed è qui che diventa capofila dell'avanguardia futurista. Parola magica dal punto di vista umano e artistico: azione. Idea primordiale: «Non esiste nulla d'immobile». Che applica a tutto: tram, caffè, persone, sentimenti, stati d'animo.

Pensiero, azione, arte.

E alla fine, sarà la guerra. Interventista, nazionalista, patriota e italiano, Umberto Boccioni non si limita a parlare di guerra, o a gridarla. Ci va. Prima nel Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti Automobilisti (è il «plotone degli artisti», e ci sono tutti: lui, Marinetti, Funi, Sironi, Sant'Elia, Erba, Bucci, Piatti, Russolo...), da Gallarate al fronte; poi nell'Artiglieria da campagna. E la cosa più statica in cui si imbatterà in tutta la sua vita è la trincea.

Umberto Boccioni muore il 16 agosto 1916 nella campagna di Sorte, Verona, nelle retrovie. Il suo cavallo s'imbizzarrisce, lui cade, batte la testa, il piede resta incastrato nella staffa, il corpo trascinato a lungo tra le zampe dell'animale terrorizzato.

Resta una domanda. È il Futurismo che fa Boccioni o è Boccioni che fa il Futurismo?

La risposta (nessuno dei due sarebbe stato lo stesso senza l'altro, naturalmente) è nella «vita che sale» raccontata da Rachele Ferrario con rigore e passione, quella di Umberto Boccioni, artista rivoluzionario e figlio di un tempo che doveva ancora venire (la scultura Forme uniche della continuità nello spazio tutto sembra tranne un'opera del 1913) e di uno spazio in cui si sentiva, dovunque si trovasse, troppo stretto.

Look, carisma, sfrontatezza, istinto per la comunicazione e soprattutto l'idea di far coincidere non solo l'arte e la vita, ma anche il tempo e lo spazio. Ecco cosa ha fatto di Umberto Boccioni non solo il precursore della figura dell'artista moderno. Ma l'uomo che narrò il suo mondo in un modo nuovo.

Un libro su Umberto Boccioni, l’artista sovversivo più avanti di tutti. Micol Sarfatti su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022

Innovatore, spesso oscurato: il saggio della storica dell’arte Rachele Ferrario lo racconta da una nuova prospettiva

Un’opera artistica immensa e rivoluzionaria, una vita piena e fuori dagli schemi, soprattutto quelli del suo tempo, un’eredità fondamentale. Umberto Boccioni è stato uno dei più grandi e geniali pittori italiani, ma la prospettiva con cui è stato raccontato non sempre gli ha reso giustizia. Il saggio di Rachele Ferrario, scrittrice e storica dell’arte, Umberto Boccioni. Vita di un sovversivo (Mondadori, Le Scie) restituisce all’artista la sua dimensione innovativa. Un lavoro durato più di sette anni, con una ricerca di materiali inediti e in cui si dà ampio spazio alla vita e al contesto storico. «Boccioni ha lasciato un’impronta fortissima nell’arte occidentale. Ho deciso di tornare a raccontarlo quando al Museum of Modern Art di New York ho visto letteralmente muri di persone incantate davanti a La città che sale », spiega Ferrario. «È uno dei suoi dipinti più belli, racchiude tutto: il movimento, il progresso, il sogno di una nuova città. È un’idea di sequenza cinematografica su tela, ha senso dell’epico e il cavallo, animale amatissimo, appare come un presagio funesto».

Genio e sregolatezza

La vita di Umberto Boccioni si interrompe il 17 agosto 1916, a soli 33 anni, proprio per una caduta da cavallo. «Lui era genio e sregolatezza, impunito nella vita privata e sentimentale, ma dedito al lavoro e alla ricerca. Era un artista totale perfettamente immerso nella contemporaneità. Ha lavorato per le réclame, andava alle corse dei cavalli e delle automobili per studiare il movimento, aveva intuito l’importanza della tecnologia e della psicoanalisi. Sapeva ridere perché aveva molto pianto», prosegue Ferrario. «Era un artista che voleva essere guardato, coinvolgeva sempre lo spettatore. Ha trovato una chiave di racconto del suo tempo senza precedenti e le sue opere crescono a distanza di anni, perché sanno decifrare pure i nostri giorni. Promuoveva una nuova arte, ma avendo fatta propria la lezione dei grandi maestri del passato». Alla portata innovativa dell’opera di Boccioni non sempre corrisponde un’adeguata memoria postuma.

Parla alle nuove generazioni

Secondo l’autrice, anche lui sconta, in parte, l’oblio, riservato agli artisti di epoca fascista e pre fascista. «Un errore perché Boccioni ha sì vissuto le temperie che hanno portato al fascismo, ma è morto ben sei anni prima della marcia su Roma». Il saggio di Rachele Ferrario illumina il pittore di nuova luce, «è importante, soprattutto per le nuove generazioni», sottolinea, «perché la sua arte ha ancora tanto da raccontare, soprattutto a loro».

Giancristiano Desiderio per corriere.it il 2 novembre 2022.

Della vita di un artista — un pittore, un musicista, un poeta — che cosa si può conoscere se non l’opera? Mettiamoci davanti al capolavoro di Umberto Boccioni — La città che sale, noto anche come Il Lavoro — e ammiriamo, rapiti e travolti, quella tempesta di colori, forme, movimenti, materiali, anime che nel 1910 già contengono in sé la modernità e l’uomo del XX secolo che crea e distrugge sé stesso e la sua storia. 

Quell’opera, oggi esposta al MoMa di New York, ha in sé senz’altro qualcosa di sovversivo: riesce a parlare al nostro animo mettendo il movimento sulla tela e quel cavallo rosso che c’è al centro della tela è insieme moderno e antico, come l’antico e il moderno c’è nei cavalli — questa volta uno bianco e uno nero — del celebre mito di Platone in cui si mette in scena la natura inquieta dell’anima umana che è la fonte dell’opera. 

Il pittore che cosa mise realmente sulla tela: la modernità o la sua inquietudine? Forse, non c’è davvero differenza. Ma per provare ad avere una risposta bisogna leggere il libro che Rachele Ferrario, storica e critica d’arte, ha dedicato alla vita e all’opera di questo geniale pittore che con i colori e il gusto della bellezza, ereditata dal sangue e dalla gentilezza della madre, ci ha mostrato il Novecento ancor prima che il Novecento venisse al mondo: Umberto Boccioni. Vita di un sovversivo (Mondadori). 

La biografia di Umberto Boccioni scritta da Rachele Ferrario ha una caratteristica: cerca di avvicinare il più possibile vita e arte, assumendo il rischio che una delle due prenda fuoco. Senz’altro sembra che, ad un certo punto, prendano fuoco le pagine del libro perché il racconto della storia del cuore di Boccioni è materiale altamente infiammabile. Basti questa considerazione che ha davvero in sé qualcosa di incredibile: Boccioni morì, come Cristo, all’età di 33 anni nelle retrovie della Grande guerra cadendo da cavallo nell’agosto del 1916, ma sulla sua figura intellettuale e morale e vitalissima graveranno per tanto tempo l’ombra e la maledizione del fascismo. Eppure, il regime di Benito Mussolini inizierà a prender forma soltanto sei anni dopo la morte del giovane pittore che con il poeta Tommaso Filippo Marinetti mise al mondo il Futurismo.

È giusto porsi la domanda «ma se non fosse morto così bello e così giovane sarebbe diventato fascista»? È davvero una domanda strana e stralunata perché per quanto i sentimenti che agitavano il cuore del figlio di Raffaele — usciere di prefettura — e Cecilia Forlani — sarta — potessero essere in sintonia con il mito della giovinezza, della violenza, del nazionalismo che son propri del fascismo, ciò che a noi resta del grande pittore son le opere che in un sol balzo vanno ben al di là sia della vita e della morte dell’artista sia dell’inizio e della fine del regime mussoliniano, per entrare a far parte semplicemente e veracemente della bellezza dell’umanità sofferente. 

Non si vede questa bellezza straziante nei quadri di questo «purosangue romagnolo», come lo definì Aldo Palazzeschi, nato per caso a Reggio Calabria, o di questo Picasso italiano morto troppo presto? La biografia di Boccioni scritta da Rachele Ferrario corre come il cavallo rosso de La città che sale che anticipa il cavallino dei motori di Enzo Ferrari. Si va dall’infanzia di Morciano di Romagna e Padova all’incontro decisivo a Roma con Balla, dall’amicizia con Sironi e Severini al legame con Marinetti, dagli amori e dalle donne — come Margherita Sarfatti e Vittoria Colonna, ma la donna insostituibile del pittore fu la madre — ai viaggi in Russia e a Parigi, dalle scazzottate alle polemiche su arte e amore.

Ma dopo aver fatto una corsa a rotta di collo nei veloci trentatré anni di Umberto Boccioni ci si rende conto davvero di aver bruciato un secolo in una giovane vita e, allora, si può dire con la Ferrario che «non è il Futurismo che fa Boccioni; è Boccioni che fa il Futurismo» e lui, pur essendo figlio del suo tempo, ha un «respiro universale» che parla a tutti gli uomini di ogni epoca. Si può arrivare a dire, come di fatto fa la critica d’arte, che Marinetti deve a Boccioni più di quanto Boccioni non debba a Marinetti: gli Stati d’animo e La città che sale ma anche Rissa in galleria sarebbero stati dipinti anche senza Marinetti, ma non senza «la pittura rivoluzionaria di Cézanne» e la velocità che si portava in petto, che altro non era che la nuova forma dell’eterna inquietudine del cuore umano. Lo si può comprendere anche mettendo da parte tanti discorsi e guardando le Forme uniche della continuità dello spazio per vedere insieme, l’umano, l’oltreumano e il disumano. Tutto in uno.

·        Umberto Eco.

Bellezza, bruttezza, kitsch. Il gusto di Eco per l'arte. Mille pagine del semiologo da Vasari a Manzoni. E un paio di ottime idee sui musei del futuro. Stefania Vitulli il 25 Agosto 2022 su Il Giornale.

Forse alcuni ricorderanno un Umberto Eco divulgatore circondato da volumi in Occhio critico-Informazioni d'arte, trasmissione culturale della RSI, il canale della Svizzera italiana. In una puntata del 1976 si trova su Youtube spiega ad esempio perché un artista come Piero Manzoni dovesse inscatolare le sue feci: «Grande orgoglio ed estetismo» in un gesto che dimostrerebbe «uno degli aspetti dell'arte dell'ultimo ventennio: la distruzione di oggetti venerabili». Era solo uno dei viaggi nell'arte che il professore faceva per la tv, muovendosi tra le declinazioni kitsch della Gioconda e i limiti dell'arte concettuale e che dimostra in modo mediatico l'interesse di Eco per l'arte. La sua capacità, negli anni, di trattarne artisti, correnti e temi è al centro di una vera e propria impresa saggistica che ha visto protagonista lo storico dell'arte Vincenzo Trione, curatore di Sull'arte. Scritti tra il 1955 e il 2016 (La nave di Teseo, 35 euro, pagg. 1136).

Si tratta di un volume gargantuesco, eterogeneo e al contempo organico, in cui, dopo averli ritrovati, riletti e riorganizzati, Trione raccoglie saggi, presentazioni, conferenze, articoli sull'arte a firma Umberto Eco: «Sin dagli anni della laurea Eco si è interrogato sull'arte e nessuno sospettava che quell'interesse avesse sempre accompagnato il suo lavoro di filosofo, teorico, studioso dei media e scrittore», ci spiega Trione. «L'operazione archeologica è stata compiuta al fine di poter ottenere tre macroaree: testi teorici, testi di intervento su movimenti, tendenze, artisti e la terza militante. Abbiamo dunque fatto riemergere in tutti i libri di Eco, dalla stagione pre-semiotica in poi, i riferimenti all'arte. Poi, accanto a questo lavoro antologico, abbiamo cercato testi, articoli, Bustine di Minerva e, lavoro ancora più sorprendente, recuperato i testi pubblicati in cataloghi di artisti, - tra gli altri Arman, Nanni Balestrini, Gianfranco Baruchello, Eugenio Carmi, Baj, Ugo Mulas, Pericoli, Tadini - movimenti e tendenze. Cataloghi, questi, perlopiù dimenticati e rarissimi. Infine, abbiamo raccolto gli scritti più militanti o di valenza civile, compreso un inedito, quello del discorso pronunciato nel 2015 a Milano sulla bellezza, in occasione di Expo. Una ricerca durata nel complesso cinque anni. All'apparenza è un libro dispersivo, mobile, in cui si passa da argomenti legati alla quotidianità a momenti storici e più teorici, ma un filo rosso esiste: non a caso definisco il volume come il trattato sull'arte che Eco nella sua vita ha composto al di là della sua volontà».

Eco non era uno storico dell'arte e non ne aveva la formazione, ma è proprio questo a dargli grande libertà nello scriverne: non ha uno sguardo vincolato e si muove con leggerezza e profondità insieme. Inutile dire che il risultato è una godibilità per il lettore inarrivata da molti critici e storici, spesso impegnati a dimostrarsi e a dimostrare più che a comprendere e a far comprendere: «Ci sono pagine divertentissime in cui se la prende con la critica e prova a smontarne una serie di cattive abitudini», continua Trione. «Detestava la critica d'arte. Diceva che è stata troppo al gioco dell'arte contemporanea e che negli ultimi anni - e lo scrive alla fine degli anni Ottanta in Ritorno al Vasari - anziché aiutare a capire diventa più ermetica dell'arte stessa: i critici si limitano a orecchiare teorie marxiste e strutturaliste senza assimilarle. Quindi torniamo al Vasari, scrive, e partiamo da una domanda: Mi piace quest'opera? Come ha dipinto l'artista quell'opera, chi ha frequentato, che cosa lo interessava?».

Tra temi infiniti come bellezza, bruttezza e venerabilità, l'accento più forte è sicuramente sull'arte contemporanea, con cui il rapporto è persino affettuoso, ma anche dibattimentale. Secondo il professore, se tra i pericoli c'è quello che la mancanza completa di regole delegittimi tutto e svuoti l'arte di ogni senso, tra i meriti c'è quello di aiutarci a guardare con una prospettiva aumentata alcuni fenomeni propri della contemporaneità: i sacchi sono sempre esistiti, ma da quando Burri gli ha conferito dignità estetica li guardiamo indubbiamente con occhi diversi. Ecco perché non mancano passaggi in cui Eco ipotizza l'arte del futuro: «Nel 1999 si tiene un convegno alla Biennale ed Eco scrive un articolo a commento in cui intuisce il destino dell'arte», racconta Trione. Prepariamoci a un passaggio radicale dall'opera aperta all'opera flusso, dice sostanzialmente Eco, che significa che se nell'opera aperta c'è inizio e fine, nell'opera flusso puoi entrare e uscire quando vuoi. Se si pensa alle installazioni che occupano i grandi eventi internazionali da vent'anni a questa parte questa è una profezia realizzata».

A leggere questi testi, pur nel rispetto delle macroaree concretizzate da Trione, le ricorrenze metodologiche e concettuali, come l'assemblaggio, nell'argomentazione, di opere d'arte e oggetti quotidiani, sono così coerenti da dare l'impressione che ci siano due piani complementari: un approccio semiotico e un approccio sociologico-fenomenologico. Il primo, come ci conferma il curatore, portava Eco a dissezionare l'opera d'arte, il secondo a descriverla e a cercare di capire quello che di volta in volta scopriva. I due piani però, sebbene distinguibili, non sono mai distinti, ma procedono insieme, come se Eco costruisse una mappa e all'interno di quella mappa ci fossero continenti più storici, in cui la distinzione tra Botticelli e la musica pop è chiara e altri in cui addita e compone la presenza dell'arte dove non ti aspetteresti. Questo permette a Eco una fotografia del presente intrecciata con il passato, come fa ad esempio per il concetto di kitsch, e con il futuro, come fa per il destino dei musei.

Se ad esempio la sua idea di kitsch è che poteva essere dappertutto, negli oggetti d'arte ma anche nella vita quotidiana o nella politica (lo vediamo in tutti gli scritti dopo il 2000, come Il bello è brutto e il brutto è bello?,2006, o Kitsch Kitsch Kitsch, hurrah!, 2014), è perché il kitsch secondo Eco non è tanto il cattivo gusto, quanto la cultura media, alla quale ci riferiamo tutti al di là di ceto o provenienza, un terreno comune al quale tutti attingiamo. Come farebbe un cacciatore di pepite, non si prefissava di distinguere la qualità dalla mancanza di qualità e nello scorrere gli scritti del volume alla fine pare proprio questa la grande differenza con, poniamo, Argan: conservare l'atteggiamento da fenomenologo. Ma, come dicevamo, il volume fornisce anche indicazioni magistrali su un possibile futuro rinnovato per la fruizione dell'arte, ad esempio per quanto riguarda i musei: «L'idea è geniale e mai realizzata fino ad ora», chiosa Trione. «Eco pensa che il vero museo ideale sia quello che ruota intorno a un'unica opera - e cita la Primavera di Botticelli - in una sala principale. Le sale precedenti raccontano le opere che hanno condotto a quel capolavoro finale come approdo: lo spettatore viene accompagnato nella conoscenza dei riferimenti storico-artistici e antropologici che hanno condotto Botticelli fino a lì. È l'opposto delle mostre su opere feticcio fatte sinora: è il museo del futuro».

Umberto Eco avrebbe compiuto 90 anni. Quando scrisse di ‘Ndrangheta a Milano. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 5 gennaio 2022.

Umberto Eco, uno degli intellettuali italiani più celebri nel mondo, oggi (5 gennaio 2022) avrebbe compiuto 90 anni. Il sistema dell’informazione ne celebra la data, ricordandone romanzi, trattati, giornalismo militante e capacità di mescolare alto e basso che determinò un diverso approccio nella fruizione della cultura di massa.

Della sterminata opera di Eco vogliamo ricordare quando, giusto un decennio fa, sulla prima pagina di “Repubblica”, il semiologo scrisse l’editoriale: “Questa mia povera città, sturm and ‘ndrangheta”.

Cosa era accaduto un decennio fa? Le inchieste della magistratura andavano appurando che la ‘ndrangheta a Milano non era più una questione che riguardava le coppole storte ma riguardava anche i colletti bianchi e la politica lombarda.

L’elemento di cronaca dava la stura al celebre intellettuale per ricordare da par suo, e rimpiangere la Milano del Boom economico, i banchieri senza yacht e i banditi alla Cavallero che rapinavano banche in nome della rivolta proletaria quando migliaia di meridionali emigravano al Nord. Eco in quell’editoriale non parlava di Calabria e calabresi.

Gli interessava puntare l’indice sulla “Milano che non voleva prendere ordini da Roma ladrona e disprezzava il meridione, che si era “ridotta a prendere ordini dal peggio del profondo Sud”. Nel suo editoriale, Eco suggeriva anche ai milanesi un suo personalissimo “Che fare?”.

Stalkerizzare i troppo ricchi con soldi sospetti. Disertare i loro banchetti e le frequentazioni di chi cambia troppo in fretta troppe fuoriserie. Isolarli dal vivere civile. Una sorta di rivolta degli onesti. L’editoriale non sortì effetti né grandi dibattiti. In Rete ho trovato soltanto una mail inviata a Dagospia, in cui tal Leo Soretti fa presente che Eco era presidente dell’Aldus club, prestigiosa associazione internazionale di bibliofila, che annoverava come vice Marcello Dell’Utri, alle prese in quel periodo con inchieste di mafia che lo vedranno condannato.

Un contromonito a voler dire “predica bene ma razzola male”. A dieci anni dall’editoriale di Eco la situazione resta quasi uguale. La ‘ndrangheta, pur se assediata dalle inchieste giudiziarie, opera in tutta Italia con continui coinvolgimenti di settori della politica e dell’economia di diversi territori. Gratteri tuona contro gli imprenditori del Nord che aprono la strada ad una criminalità che non spara più ma opera in Borsa e rincara la dose affermando: “Sono mesi che non sento un rappresentante del governo o un parlamentare parlare di mafie: è come se il problema non esistesse”.

Dieci anni fa, la Commissione Antimafia, in trasferta all’ombra della Madonnina, scriveva che tra i milanesi “è presente l’opinione tanto diffusa quanto inesatta dell’assenza della criminalità mafiosa nella loro città”.

Oggi le operazioni della Dda al Nord parlano molto di ndrangheta 2.0 e di molte società per azioni. Gli arrestati sono del Sud e del Nord. Lo sturm and ‘ndrangheta denunciato da Umberto Eco è una questione locale che ha ancora Milano come centro di un network affaristico criminale.

Mario Baudino per “La Stampa” il 5 gennaio 2022. Oggi Umberto Eco avrebbe compiuto 90 anni e, se pure in assenza di convegni, come da suo mandato testamentario, è un giorno speciale, di ricordo collettivo: non senza un sorriso, come gli sarebbe piaciuto. Per esempio con le filastrocche che lo scrittore-filosofo scriveva ispirandosi al Corriere dei Piccoli e al signor Bonaventura. 

Giovane laureato, in quel momento programmista Rai, nelle pause di un importante congresso veneziano le declamava nei caffè di piazza San Marco davanti ai più autorevoli pensatori italiani e stranieri. Finì che Nicola Abbagnano gli propose di pubblicarle e nacque così, nel 1958, un libro in 500 copie numerate, per le piccole edizioni Taylor (facevano capo alla moglie del cattedratico) col titolo Filosofi in libertà e una serie di vignette sul tema, schizzate durante le conferenze.

L'identità dell'autore restò un piccolo segreto - segreto si fa per dire - tra lui e il suo mentore; si firmò Dedalus, amatissimo personaggio joyciano, anche per evitare di compromettere una possibile carriera universitaria - l'umorismo, Abbagnano a parte, non era considerato un gran titolo accademico, soprattutto allora. Ci sono state successive piccole ristampe, ma quel titolo è, sul mercato antiquario, di gran lunga il più ricercato e anche il più caro fra quelli del grande Umberto: lo si trova intorno ai 400 euro. 

La casa editrice da lui voluta e fondata con Elisabetta Sgarbi, la Nave di Teseo, sta per ripubblicare il volumetto (sarà in libreria da venerdì 7) con lo stesso titolo e alcune ghiotte integrazioni, provenienti insieme ai testi «canonici» da un altro libro altrettanto scomparso e in attesa di tornare sugli scaffali, il Secondo diario minimo, uscito nel '92 per Bompiani. 

C'è anche una prefazione di allora, dove Eco ne illustra la genesi, non senza la sua abituale ironia: «So di persone che hanno persino usato questo libretto per preparare l'esame di maturità (il che, se non va a lode dell'opera, va almeno a disdoro di questa istituzione inquisitoriale)». Le filastrocche vanno dai presocratici agli analisti del linguaggio, da Tommaso d'Aquino a Cartesio, da Hegel a Benedetto Croce (in tutto sono 14). Ci sono poi, non presenti nella mitica prima edizione, 6 scrittori.

Oltre a Proust, non mancano Joyce (in gloria di Giambattista Vico: «Poi pensate che Joyce,/ nell'opera matura,/ la concezion del tempo/ tutta quanta struttura/ sui ricorsi dell'ottimo/ Giovan Battista Vico/ (controllate nel Finnegans/ s' è vero quel che dico») o Thomas Mann («sono triste eppur felice./ Detto in modo un po' sintetico/ mi rovina il male estetico»); infine una sorta di ballata «per una fanciulla tentata di morire» (Piccola metafisica portatile) dove si mette in guardia la destinataria «da quel babbione del Sein und Zeit» - ovvero Martin Heidegger -, e un compendio di Chansons à boire per congressi scientifici, da cantare sull'aria di celebri motivi. Che Umberto Eco fosse spiritosissimo non lo scopriamo ora. Ma le filastrocche - e i disegni - sono l'esempio più evidente di come riusciva a divertirsi (e divertire) studiando. 

A scanso di equivoci lo spiega egli stesso nel '92: «E tanto sia di monito per le generazioni a venire: scherzare, sì, ma seriamente». In quel momento era - ormai dal '75 - seguitissimo e carismatico professore al Dams di Bologna. Ma era passata molta acqua sotto i ponti dal (relativamente) rischioso libretto giovanile, Eco era ormai il grande intellettuale di riferimento. Filosofi in libertà fu però in parte responsabile di questo ritardo, anche se non nel senso che si immaginerebbe: perché segnò l'inizio di una nuova e diversa avventura, quella di editore. Tra i primi lettori ci fu Valentino Bompiani, che volle conoscere il giovane studioso. Dopodiché lo arruolò seduta stante nella sua casa editrice; dove Eco rimase per quasi 20 anni, protagonista e innovatore.

Testo de “I Presocratici”, una delle filastrocche che compongono il saggio Filosofi in libertà, di Umberto Eco (La Nave di Teseo), pubblicato da “La Stampa” 

Nei dì che gli Argivi

vivevan beati

correndo giulivi

per boschi e per prati,

alcuni messeri

con tono profondo

si chiesero seri:

“Di che è fatto il mondo?” 

Un tal di Mileto

chiamato Talete

con tono faceto:

“Se non lo sapete

vi mostrerò tosto

- si mise a affermare -

che il mondo è composto

con l’acqua del mare!” 

Al che Anassimandro

mandavagli a dire:

“Ma con lo scafandro

si vada a vestire.

Perbacco, al postutto

mi par più compito

a base del tutto

pensar l’Infinito!” 

Al che Anassimene

per farla più varia

con subdole mene

pensò pure all’aria.

Ma Empedocle allora,

passando, per gioco,

gridò: “Alla buon’ora!”

e aggiunse anche il fuoco. 

In questo pasticcio

Pitagora stava

e acuendo il bisticcio

i numeri dava:

poiché trasmigrare

con l’alma soleva

infine girare

le sfere faceva. 

A questi sapienti

così scalmanati

si uniron frementi

persin gli Eleati;

e tanto che visse

con aria sincera

Parmenide disse

che il mondo è una sfera,

e in questo complesso

concorrer dell’ente

l’uom vive depresso:

non muove mai niente.

In tal situazione

neppure fai breccia

- lo dice Zenone - 

se lanci una freccia,

ed una tra mille

testuggini a caso

ti lascia l’Achille

con tanto di naso.

Ma, assai divertito,

“Che scemo che sei!

- gli disse Eraclito -

perché panta rei!

Chi fa un pediluvio

nel mezzo al torrente

ha sempre un profluvio

di acqua corrente!” 

Ma debbo avvertire:

la storia più nera

si mise ad ordire

un tizio di Abdera,

Democrito, il quale

- non è un fatto comico -

con tratto fatale

fondò il pool atomico;

e s’oggi la guerra

ha un tono antipatico,

lo deve, la Terra,

a quel presocratico. 

Insomma, col vento,

con gli atomi e il fuoco,

gridavan per cento,

costoro, a dir poco.

E i Greci seccati

da tutti quei vezzi,

infine adirati

li fecero a pezzi.

E ciò è confermato

da prove evidenti:

ne abbiamo trovato

soltanto i frammenti...

I 90 anni dalla nascita di Eco. L'importanza di chiamarsi Umberto. Corrado Augias su La Repubblica il 4 Gennaio 2022. La lezione del grande semiologo, scomparso cinque anni fa, è che la cultura non è né alta né bassa, solo buona o cattiva. Se Umberto Eco fosse ancora tra noi, oggi compirebbe 90 anni, età considerevole, ormai senza quell’ombra di decrepitezza che un tempo la segnava. Gli esempi di novantenni attivi nei campi più diversi, compresi quelli che richiedono un seguito diciamo “pubblico”, sono innumerevoli. Eco invece è morto nel febbraio 2016 a Milano quando di anni, assai ben spesi, ne aveva 84 dopo aver attraversato buona parte del Ventesimo secolo e intuito non poche delle novità che il Ventunesimo stava portando. 

Ho un netto ricordo delle sue prime uscite a Roma, per l’esattezza nella libreria Feltrinelli di via del Babuino che negli anni Sessanta era un vivacissimo centro di dibattito. Quando cominciava a parlare quel giovane ancora semisconosciuto, il volto tondeggiante, gli occhiali dalla pesante montatura nera, barba anch’essa nera, pipa, l’attenzione si faceva tesa, il silenzio profondo. Per una ragione semplice: Eco era divertente, tutti avevano voglia d’ascoltarlo. Mi assumo la responsabilità di questa qualifica. Divertente in senso particolare, riusciva a mettere in corto circuito elementi che mai nessuno in Italia aveva saputo conciliare: Wittgenstein e Topolino, Aristotele e Cappuccetto Rosso o Mandrake. Aveva letto gli strutturalisti russi e i Miti d’oggi di Roland Barthes quando in Italia ancora pochissimi li conoscevano. 

La sua idea era che la tradizionale distinzione di scuola tra alto e basso fosse non più utilizzabile. Nella musica, per esempio. Quando nel 1965 i Beatles arrivarono a Roma per la loro unica tournée italiana, Eco fu tra i primi a dire che tra la loro musica e quella di Mozart la sola differenza riguardava tempi e modi, non la qualità. Sessant’anni dopo, quasi nessuno nega più che l’unica differenza riconoscibile in campo musicale sia quella tra buona e cattiva musica, punto. 

La comunicazione nella società di massa, Eco l’aveva già analizzata nel piccolo capolavoro Fenomenologia di Mike Bongiorno dove, del popolarissimo presentatore, scriveva: «Bongiorno convince dunque il pubblico con un esempio vivente trionfante del valore della mediocrità. Non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo». Trent’anni dopo, l’identico modello avrebbe imposto politicamente l’homo novus Silvio Berlusconi. 

Eco pagò un prezzo per questa violazione-estensione di ciò che s’intendeva allora per “cultura”. Lo pagò per esempio in campo accademico. I vecchi cattedratici, tra diffidenza e sgomento (non esclusa un po’ d’invidia), rifiutarono il tono quasi giocoso con il quale quel bizzarro studioso mescolava, nel suo sterminato sapere, alto e basso, colto e popolare, letteratura classica e romanzi polizieschi. 

Di fronte al diniego, Eco promosse a Bologna (1971) un dipartimento delle Arti della Musica e dello Spettacolo (Dams), quattro anni dopo ottenne finalmente la titolarità per l’insegnamento di una nuova disciplina, la semiotica. Il successo planetario de Il nome della rosa, 1980, arrivò imprevisto anche per il suo autore. Parodiando Conan Doyle (Il mastino dei Baskerville), adattando alle speculazioni della scolastica le tecniche del geniale Sherlock Holmes, ispirando il titolo del romanzo ad un versicolo di Gertrude Stein, Eco voleva solo dar vita ad uno dei suoi divertissement. Il romanzo invece esplose nel mondo spingendolo ad altre prove narrative, più o meno riuscite.

Tra queste ultime si cita in genere il romanzo La misteriosa fiamma della regina Loana. A me pare, al contrario, che proprio in queste pagine Eco scopra la chiave della sua vocazione di studioso. Racconta di un vecchio professore che, per curare la memoria compromessa da un ictus, va nella casa di campagna della sua infanzia. Sale in soffitta, apre vecchi bauli, sfoglia antichi libri e albi a fumetti, tra i quali quelli di Cino e Franco, popolari negli anni Quaranta. Il titolo del libro è appunto un’avventura dei due intrepidi protagonisti. Immagino benissimo Eco ragazzetto che durante la guerra e l’occupazione, fa gli stessi gesti, legge, fruga, assorbe immagini e storie. Diventato un adulto assai sapiente, mescolerà le lontane emozioni infantili agli studi letterari e di filosofia insegnandoci a guardare in modo nuovo il complicato mondo della cultura.

Nelle lezioni in rima di Eco il pensiero è chiaro a tutti. Daniele Abbiati il 5 Gennaio 2022 su Il Giornale. I presocratici, Vico, Kant & Co. spiegati in forma di filastrocca. Un esempio di cultura anti-accademica.

«Il lungo cogitare/ rischiando d'annoiare/ indusse il prode Umberto/ (della materia esperto)/ a metter ben in rima/ il dopo con il prima/ parlando del Pensiero/ in nuova forma invero./ L'idea che come freccia/ aprendosi la breccia/ fuori dal buio scocca/ e si fa filastrocca».

Chiedendo perdono al lettore per le virgolette caporali (che preferiamo chiamare «all'italiana»), così vogliamo mettere il cappello sopra l'aureo libello, per impossessarcene, facendo eco all'Eco. Cioè «l'Umberto» in fabula, anche, e soprattutto, nel senso di affabulatore. Il micro-bestseller dal titolo Filosofi in libertà, prima di questa targata La nave di Teseo (in libreria da venerdì), vantava ben quattro micro-edizioni: 1958, 1959, 1989, 1992. Ed è bene che torni oggi, frangente in cui il linguaggio da azzeccagarbugli sembra avere la meglio sulla chiarezza del dire, che per solito conduce alla chiarezza del fare (ogni riferimento alla comunicazione virale e Covidale non è per nulla casuale).

Dunque, filosofi, sì, ma in libertà, ovvero de-accademizzati e cantati per renderli pop ma non popperiani. Esempi. Il panta rei di Eraclito non è che un'abluzione: «Chi fa un pediluvio/ nel mezzo al torrente/ ha sempre un profluvio/ di acqua corrente!». L'atomismo di Democrito va a parare sulla bomba H: «Ma debbo avvertire:/ la storia più nera/ si mise ad ordire/ un tizio di Abdera,/ Democrito, il quale/ - non è un fatto comico -/ con tratto fatale/ fondò il pool atomico;/ e s'oggi la guerra/ ha un tono antipatico,/ lo deve, la Terra,/ a quel presocratico». L'estrema razionalità di Kant ha sempre una via di fuga: «La soluzione mia è ben simpatica:/ e se mi tradisce la Ragion Pura,/ voilà!, ricorro alla Ragion Pratica/ con decisione breve e sicura». Vico è il maggiore fra i pensatori sottovalutati: «Noi che parliamo tanto/ di Rosmini e Gioberti/ è bene che teniamo/ un po' più gli occhi aperti/ per ben valorizzare/ questo napoletano/ che ci diede un sistema/ proprio di prima mano;/ e controlliamo inoltre/ se in fondo la sua voce/ sinora non sia stata/ alterata da Croce».

Nate a margine (e sui margini dei bloc notes) di dottissimi convegni, le libere lezioni di filosofia del professor Umberto Eco furono inoltre arricchite dalle gustose vignette del medesimo nei panni di Forattini della speculazione. E qui sono presentate insieme agli «Scrittori in libertà» Marcel Proust, Thomas Mann, James Joyce... E con la Piccola metafisica portatile scritta «per una fanciulla tentata di morire». Dove si dice che il troppo lungo cogitare può condurre non alla noia, ma al peggio: «E quindi assumo l'azzardo, coraggio/ poiché ci siamo incontrati è più saggio/ cercarci un senso. Sta a noi stabilire/ e come e quando si debba morire». Qui, soltanto qui, i versi del prof non fanno il verso, non burlano. Il tema è il cuore che vince sulla testa, e la filosofia cede la parola all'amore.  

Umberto Eco e le baruffe con chi scriveva in “espressese”. Brillante, geniale, e pronto a criticare con sincerità anche il settimanale che ospitava la sua “Bustina di Minerva”. E ora il meglio degli articoli del grande semiologo e romanziere vengono raccolti in un’antologia da acquistare con L’Espresso. Bruno Manfellotto su L'Espresso il 3 Gennaio 2022.

Umberto Eco ci manca. Davvero tanto. Ne abbiamo sofferto ancora di più l’assenza in questa triste stagione di pandemia, di incompetenza ostentata, di caos comunicativo, di complotti evocati e di verità rifiutate, di «rumore che più fa rumore, meno si fa caso a quello che dice». Un clima diffuso di assuefazione all’irrazionale che lo avrebbe spinto a continuare nella sua missione civile di intellettuale: demistificare, demistificare, demistificare.

Ce ne siamo convinti ancora di più sfogliando “Sulle spalle di un gigante”, i cinque volumi che, da domenica 9 gennaio, i lettori troveranno in edicola con “Repubblica” o “L’Espresso” (a 9,90 euro in più). Si tratta della raccolta di alcuni degli interventi che Eco è andato pubblicando in oltre cinquant’anni e qui divisi in cinque antologie tematiche: la comunicazione; il vero e il falso; i costumi degli italiani; il ruolo degli intellettuali; reazionari e moderati: «Pagine sparse sulle piccole cose del mondo» dalle quali, scrive Mario Andreose nella presentazione dell’opera, «viene fuori un gigante: di acume, analiticità, attenzione e ironia. Attualissimo e fuori dal tempo, come tutti i giganti». Sulle cui spalle ci accomodiamo per ripensare la realtà con i suoi occhi.

Già da molti anni Eco aveva individuato i fenomeni nuovi che avanzavano, previsto quanto avrebbero inciso sul costume, intuito le loro derive. Si rilegga per esempio ciò che scriveva dei fanatici del complotto, le cui rumorose truppe hanno ripreso a marciare in tempi di Covid-19: «I complottisti non cercano il vero; non sono cioè interessati a capire come i mali si producono; cercano una spiegazione contro, che li liberi dal Male e li elevi a Migliori (perché più intelligenti dei poveri in spirito che non capiscono i complotti)»: il 1975 o il 2021? Quando poi dilagherà Internet, metterà in guardia: «Accanto a siti attendibilissimi fatti da persone competenti, esistono in linea siti del tutto fasulli, elaborati da pasticcioni, squilibrati o addirittura da criminal-nazisti, e non tutti gli utenti del Web sono capaci di stabilire se a un sito bisogna dare fiducia o meno». Le cose sarebbero andate perfino peggio che in quel lontano 2006...

Naturalmente nei cinque volumi brilla ogni tanto una “Bustina di Minerva”, formidabile rubrica che Eco ha tenuto su queste pagine dal 1985 al 2016: bastava un’intuizione da appuntare sul risvolto della bustina dei fiammiferi per farne una pagina deliziosa. Data la tribuna, Umberto si interrogava spesso sul vero e il falso, su quanto i giornalisti soffrano questa dicotomia, e come il loro linguaggio contribuisca a creare ambiguità (a un certo punto cominciò a mandare la “Bustina” con il titolo già fatto...). Indimenticabile è “La smentita della smentita”, immaginario scambio di lettere tra Preciso Smentuccia, la vittima, e Aleteo Verità, il giornalista spregiudicato. Lamenta lo Smentuccia: «Nel corso della nostra breve intervista telefonica… non ho mai detto che sto ingaggiando degli assassini per eliminare Giulio Cesare, bensì sto incoraggiando l’assessore Filippi a eliminare il traffico in piazza Giulio Cesare…». C’era già tutto il dibattito degli anni a venire.

Già tempo prima si era divertito a rimproverare il linguaggio dello stesso giornale che lo ospitava: «Se arriverete a leggere questo articolo, capirete perché si continua a scrivere su questo giornale. Perché si può dire che è irritante. E si può perché L’Espresso è così irritante da accettare l’autoflagellazione pur di convincere il proprio lettore che non è irritante. Per questo è irritante». Insomma i giornali gli piacevano, sì, ma ne coglieva vezzi, vizi e limiti. E lo ripeteva. Finché un giorno il direttore di allora, Livio Zanetti, lo sfidò a scrivere sull’Espresso che cosa dell’Espresso non gli piacesse. Lo fece. E Zanetti titolò: “L’Espressese è una lingua biforcuta”. Ma nonostante questo, o forse in virtù di questo, sempre sincera. 

 Quando anche Umberto Eco pensava che l’Espresso avesse aiutato Silvio Berlusconi. Claudio Rinaldi su L'Espresso il 10 gennaio 2022.  

Il nostro settimanale fu il primo a denunciare i pericoli della sua discesa in campo. E finì per essere accusato in questo modo di averlo santificato. Anche dall’intellettuale più illustre. A cui rispose il direttore già nel 1994

Mentre andavo a trovare Umberto Eco, il 13 marzo, le orecchie mi fischiavano da un pezzo.

Che barba! Roma, Milano, Torino, erano piene di persone per bene che storcevano il naso davanti alla campagna de “L’Espresso” contro Silvio Berlusconi. Non dicevano, per carità, che era «vergognosa», come si tuonava tutti i giorni dal quartier generale di Forza Italia. No, obiettavano che quella campagna era tanto puntuale, martellante, ossessiva da risultare alla fine controproducente. Alcuni mi indicavano addirittura fra i tifosi inconsapevoli di Berlusconi. E costui amava ripetere che gli attacchi dei denigratori, specie se aspri, gli portavano nuovi consensi. “L’Espresso” stava dunque sbagliando tutto? Anche fra gli azionisti del settimanale c’era chi suggeriva di non fare di Berlusconi una vittima.

Così, sapendo che anche Eco aveva qualche perplessità, e che d’altra parte non era minimamente sospettabile di inclinazioni berlusconarde, andai a trovarlo quella domenica pomeriggio. Già in altre occasioni, del resto, lo avevo pregato di segnalarmi con franchezza ciò che ne “L’Espresso” non gli piaceva. E lui, semisepolto fra i 30 mila volumi che tappezzano le pareti della sua casa milanese di piazza Castello, l’aveva fatto. 

Eco non mise in dubbio la legittimità di una serrata critica a Berlusconi. Anzi, trovò subito modo di precisare che considerava l’eventuale ascesa al potere politico di Berlusconi un evento quasi storico. «Se vince», osservò, «vuol dire che, per la prima volta nella loro storia recente, gli italiani fanno coincidere i loro comportamenti etico-politici con i comportamenti di consumo».

Cioè? «Finora gli italiani compravano le pornocassette di Moana Pozzi, però mandavano le figlie dalle Orsoline. Adesso forse sono disposti a mandarle nei bordelli ... ». Eco scherzava, per sottolineare che si rendeva perfettamente conto della rilevanza del fenomeno Berlusconi. Capiva che si poteva ben scegliere di contrastare questo personaggio: del resto stava per rendere pubblica la sua scelta per i progressisti. Ma i tempi, i modi, i contenuti degli articoli de “L’Espresso” sotto il profilo dell’efficacia non lo convincevano.

Anzitutto, disse, «gli attacchi de “L’Espresso” sono cominciati troppo presto. Molti mesi prima che Berlusconi formalizzasse il proprio ingresso in politica. Così “L’Espresso” ha contribuito a fare di Berlusconi un mito, sia pure cercando di dargli una connotazione negativa: gli ha riconosciuto in anticipo la qualifica di capo della destra italiana». Mentre Eco parlava, pensai che forse non aveva tutti i torti. Certo le critiche a Berlusconi erano cominciate in estate, quando i fatti non erano ancora esplosi, e troppa gente ancora non aveva gli strumenti per valutare la portata di quelle critiche.

Ebbi il dubbio che “L’Espresso” avesse sprecato le sue munizioni, e che anzi Berlusconi se ne fosse servito per temprare i propri scudi protettivi, per imparare a far fronte a tutti gli attacchi che gli sarebbero giunti addosso durante la campagna elettorale. Ma, alla fine, mi risposi che non avevo proprio niente da rimproverarmi. Semplicemente, “L’Espresso” aveva scoperto prima di tutti che Berlusconi stava per entrare in politica; aveva capito che la sua sfida poteva risultare vittoriosa; e aveva preso tutto questo sul serio, raccontando fatti, svelando retroscena, esprimendo opinioni. Si era insomma comportato come ogni giornale che si rispetti davanti a una vicenda importante.

La seconda obiezione di Eco fu che lo spazio dato a Berlusconi da “L’Espresso” era troppo. «Buona parte dei lettori de “L’Espresso”», spiegò, «già da tempo è orientata contro Berlusconi, e si annoia se tutte le settimane deve leggere le storie dei suoi debiti e delle sue bugie, del Caf e della P2: alla lunga, queste notizie piovono sul bagnato. L’altra parte dei lettori, quella non ostile a Berlusconi, non si fa certo convincere da attacchi troppo numerosi e insistenti; anzi, ne è infastidita».

Un dosaggio eccessivo, dunque? Se avesse voluto fare campagna contro Berlusconi, Eco si sarebbe mosso diversamente. E qui spuntò l’obiezione sui contenuti, la terza. «Non avrei propinato ai lettori 10-20 pagine a numero. Avrei cercato i veri punti deboli di Berlusconi. E, una volta individuatili, avrei battuto solo su di essi. Anche con maggiore durezza, all’occorrenza; ma in modo più concentrato, più mirato».

Per esempio? «Da quanto ho potuto osservare in questa campagna elettorale, un difetto di Berlusconi è l’incapacità di parare i colpi a sorpresa, le botte non previste. In casi del genere, Giulio Andreotti era pronto a opporre la propria maschera, l’impassibilità del potere. Un Pansa è bravissimo nello sferrare contrattacchi micidiali: si pensi al suo celebre scontro con Giuliano Ferrara a “Il rosso e il nero”. Berlusconi no, è troppo costruito, troppo programmato, ha un repertorio di idee e di battute troppo limitato. Dice sempre le stesse cose, e le dice bene soltanto se il contesto in cui si trova è amichevole, tranquillo. Il cazzotto improvviso lo fa barcollare. Lo si è visto quando la procura di Milano voleva arrestare Marcello Dell’Utri: questo evento lo ha colto completamente alla sprovvista, lo ha mandato nel pallone, lo ha fatto uscire dai gangheri. Credo che lo stesso Berlusconi conosca molto bene questa sua debolezza, e che per questo si sia dato la regola di rifuggire dai confronti diretti con gli avversari: lì non riesce a dare il meglio di sé».

Dissi a Eco che forse il rifiuto dei confronti dipendeva anche dalla sconfinata presunzione di Berlusconi: egli si crede più in gamba di qualunque altro essere umano, e se si trova allo stesso livello di un avversario, anziché su di un palcoscenico sospeso sopra folle adoranti, si sente ingiustamente sminuito.

Eco rifletté, poi ribadì: «Se “L’Espresso” voleva davvero mettere in difficoltà Berlusconi, doveva essere meno prevedibile. E dunque non tanto fornire prove esaurienti della fondatezza di tante accuse contro di lui, quanto mirare ai suoi talloni d’Achille. Per uno che trae parte della sua forza dalla sua storia di self-made-man, e dall’ottimismo che ne consegue, rivelarsi impreparato agli eventi, nervoso, irascibile può essere un disastro».

Presi nota di tutto, ringraziai Eco e me ne andai. Ripensai a quel colloquio nei giorni successivi, quando fui costretto a incassare altre critiche. Valentino Parlato, del “Manifesto”, andava dicendo che involontariamente “L’Espresso” aveva dato una mano a Forza Italia. E al “Corriere della Sera”, lunedì 21 marzo, Indro Montanelli dichiarò: «Non posso credere che il mio amico Rinaldi abbia voluto portare delle fascine al fuoco di Forza Italia, ma la demonizzazione approda sempre al risultato contrario quando si esagera. Sono riusciti a fare di Berlusconi il protagonista della politica italiana».

Lo stesso osservò Lucio Colletti. Idem Gianni Agnelli. “L’Espresso” quinta colonna di Berlusca! Fosse vero, ormai si potrebbe bisbigliare: missione compiuta. Ma non è vero, non è mai stato vero. Diciamoci la verità, amici: Berlusconi era forte, era fortissimo, i suoi voti li avrebbe presi in ogni caso. Si poteva fermarlo solo denunciando fin dall’inizio, davanti al Paese, l’assurdità di una situazione in cui il magnate della tv dava la scalata al governo impugnando come clave quelle reti tv che lo Stato gli ha concesso di possedere. Peccato che per mesi “L’Espresso” sia stato l’unico giornale a svolgere questa opera e che gli avversari politici di Berlusconi non abbiano aperto gli occhi in tempo. Quanto alla “demonizzazione”, caro Indro, la parola non è la più adatta. “L’Espresso”, purtroppo, non ha demonizzato Berlusconi. Lo ha solo raffigurato, e tu lo sai bene, per quello che è. 

Questo articolo con il titolo originale “Ma non dite che è colpa nostra” è stato pubblicato sull’Espresso l’8 aprile 1994 

·        Valentino Garavani.

Serena Tibaldi per "la Repubblica" l'8 maggio 2022.

L'11 maggio 1932 nasce a Voghera Valentino Garavani, il più grande couturier italiano, il creatore con la fissazione per il bello (parole sue), l'ultimo imperatore della moda, come lo aveva ribattezzato il docufilm del 2008 su di lui. Ma se Valentino Garavani è diventato "Valentino", è stato anche grazie a Giancarlo Giammetti: l'amico, il compagno, il socio sempre al suo fianco. 

Si conoscono al Café de Paris in via Veneto, il 31 luglio 1960: Valentino ha 28 anni, Giammetti 22. Sono inseparabili da allora. La persona che meglio può raccontare il creatore alla vigilia dei 90 anni, è di sicuro lui. 

Cosa ricorda dell'incontro?

«Lui che mi parla di moda: all'epoca studiavo architettura, non ne sapevo nulla. Poi mi chiede se capisco il francese: lui è reduce da sette anni a Parigi, lo usa anche per pensare.

Gli rispondo di sì, ma quando mi dice qualcosa faccio scena muta, perché il francese insegnato dai preti negli istituti romani è molto diverso da quello parigino. Un po' deluso, mi fa: "Ma allora non lo parli". E io: "Credevo di sì". Allora mi comunica che da quel momento ci saremmo parlati solo in francese, così lo avrei imparato. Lo facciamo ancora oggi». 

La formula del vostro successo?

«Talento, lavoro, fortuna. Eravamo curiosi, pieni di entusiasmo, un po' ingenui, giovani e carini: la gente tifava per noi. Ci siamo dovuti inventare tutto, dalla pubblicità alle sfilate all'aperto in piazza Mignanelli. E quelle a ritmo di musica: l'idea m'è venuta dopo un viaggio a Londra».

Qual era il suo ruolo?

«Mettiamola così: Valentino non voleva prendersi nessun impegno, occuparsi di niente, sentire un no come risposta. Voleva lavorare in pace, e io mi occupavo di quello». 

Il modo migliore per prenderlo?

«Fargli vedere le cose all'ultimo, quando non era più possibile nasconderle. Ma si è sempre fidato». 

Quando è stata la svolta?

«Col senno di poi, quando dopo i due primi défilé a Roma abbiamo spostato lo show a Palazzo Pitti a Firenze, alle sfilate organizzate da Bista Giorgini con le grandi case italiane. Come ultimi arrivati ci piazzano a fine rassegna, quando i compratori sono già andati via». 

E invece.

«S'era sparsa la voce di un enfant prodige arrivato da Parigi, ed erano rimasti tutti: passammo la notte a scrivere ordini. Quando ci siamo spostati a Parigi, la prima cosa che ho fatto è stata garantirci il giorno e l'orario migliori: avevo imparato. È stata importante anche la Collezione Bianca del 1968: ci spalancò tutte le porte, dalla copertina di Life al legame con Jackie Onassis».

A proposito di Jackie: avete vestito regine e star. Come gestivate certi personaggi?

«Me ne occupavo io. Mi ricordo l'attesa a una sfilata perché Liz Taylor, mai in orario, tardava di due ore. Lui era serafico, mentre io per tenere buoni gli invitati dicevo che i vestiti non erano pronti o qualche fregnaccia simile. Ma tutte adoravano Valentino, appena arrivava filava tutto liscio: alla fine, era più semplice gestire Elisabetta II che Naomi Campbell (ride, ndr )». 

Pare che sia duro con la stampa.

«Lo ammetto, mi è capitato di offendermi per un articolo e cacciare chi l'aveva scritto». 

E Valentino?

«La verità? Non leggeva mai gli articoli su di lui, ero io a farlo per entrambi. Li compravo di notte all'edicola sempre aperta in piazza Colonna e la mattina lo avvisavo. Lui mi chiedeva se fossero buoni, io gli dicevo di sì, e la cosa finiva lì».

Avete in comune anche la passione per l'arte: il primo quadro?

«Abbiamo comprato da Lizzola, il sarto milanese di Pablo Picasso, dei quadri con cui il pittore pagava i vestiti. Ma se lo immagina? Per lui valevano come tre abiti: incredibile». 

Cos' è che la gente non comprende di Valentino?

«Che non è il creatore stravagante che fa scenate perché non è contento di un vestito: lui ha sempre saputo cosa funzionasse e cosa no. E anche che la sua creatività bastava a sé stessa: le collezioni le ideava seduto alla scrivania con foglio e matita, nient'altro. In archivio ci sono dei suoi bozzetti anche sulle buste dei fiammiferi e sui conti dei ristoranti».

Cosa pensa dei designer che riprendono il vostro lavoro?

«Non ce ne accorgiamo nemmeno, ci appassiona molto di più il lavoro di Pierpaolo Piccioli, che con grande bravura e intelligenza ricorda Valentino in tutto quello che fa: è un grande complimento». 

Oggi c'è spazio per una storia come la vostra?

«No. Per quanto brava, una persona - o due, come noi - non può competere con le enormi realtà che occupano il settore. Anche ai nostri tempi c'era competizione: Yves Saint Laurent lavorava con 700 persone, noi con 40, ma potevamo fare a modo nostro. La colpa è anche dei media, che trasformano questi giovani artisti in idoli, per abbandonarli quando non sono più "nuovi"; così vivono per un minuto al massimo, e poi si ritrovano senza nulla. Vorrei creare un sistema più umano, per aiutarli».

In "Valentino - The Last Emperor", il vostro rapporto è narrato con grande naturalezza.

«È il racconto di un grandissimo affetto, evolutosi negli anni, tra due persone che potrebbero ammazzare l'uno per l'altro. Tanti ci hanno scritto che grazie a quel film sono riusciti a dire ai genitori di amare qualcuno dello stesso sesso. Ne siamo felici». 

Il Teatro Sociale di Voghera dedica una mostra ai 90 anni di Valentino. Voi come festeggerete?

«A casa sua a Roma, in pochi. Siamo ancora molto attenti con il Covid, soprattutto attorno a lui». 

Daniela Fedi per Dagospia il 7 maggio 2022.

Valentino fa 90, quasi un secolo di vita e successi nel segno della bellezza. Per chi lo conosce anche solo di vista la notizia ha dell'incredibile. Infatti l'ultimo imperatore della moda mondiale ha qualcosa in comune con la Cleopatra descritta da Shakespeare per bocca di Antonio: «L'età non può avvizzirla, né la consuetudine rendere immota la sua infinita varietà». Per lui il lusso e l'eleganza non hanno limiti, la ricerca del bello è un'ossessione, lo stile si nutre di armonia tra forme, colori e proporzioni. 

Il suo novantesimo compleanno verrà festeggiato con una mostra nel Teatro Sociale di Voghera, la città in cui è nato l'11 maggio 1932. Per l'occasione la Maison Valentino oggi controllata dal fondo sovrano del Qatar e con la direzione creativa di Pierpaolo Piccioli, produrrà un'esclusiva felpa in edizione limitata con in rosso la celebre massima del Maestro: «I love beauty, It's not my fault». 

Il ricavato delle vendite che avverranno solo online sul sito valentino.com sarà devoluto alla Fondazione Valentino Garavani e Giancarlo Giammetti. Qui di seguito la storia di una leggenda vivente con molti aneddoti che lui stesso ci ha raccontato nel corso degli anni. Tanti auguri Maestro.

Valentino nasce in una famiglia piccolo borghese. Suo padre si chiamava Mauro ed era il rappresentante dei cavi Ceat per l’Oltrepò Pavese, sua madre Teresa, invece, era una casalinga di Voghera piuttosto atipica per la feroce descrizione che ne fece Arbasino su l'Espresso. 

C’è un episodio divertente che in un certo senso spiega il carattere della signora. Valentino ce l'ha raccontato nel 2000, alla vigilia di una memorabile festa a Los Angeles per il quarantennale della sua carriera. Ecco le sue esatte parole: «Nel ’68 ho comprato la mia casa sull’Appia Antica che in giardino ha uno stagno allora abitato da fenicotteri. Un giorno ne morì uno e mia madre, convinta che fosse stato ucciso da una delle guardie, decise di fargli fare l’autopsia. Così chiuse il corpo della povera bestia in frigorifero dove lo trovò, disgustato, il mio socio Giancarlo Giammetti». 

In quella stessa occasione gli abbiamo chiesto se la signora Teresa era una donna elegante e lui serafico ha risposto: «Non è mai stata magrissima ma sapeva aggiustarsi bene. Diceva che è meglio avere poche cose però fatte come si deve. Così prima che io diventassi Valentino si serviva nella miglior sartoria di Voghera dove due sorelle, care da morire, cucivano a mano tutti i capi. Ne ricordo uno che potrei mettere in collezione domani: un cappotto nero, di una lana piuttosto bruzzolosa che cadeva benissimo, con tasche ricamate di tessuto applicato e un grande collo di volpe dalle zampe annodate dietro».

Inevitabile a questo punto pensare che sia stata la madre a chiamarlo come il più romantico degli attori nei ruggenti anni Venti di Hollywood. Invece era il nome del nonno paterno che a lui piace moltissimo perché chiamarsi come il santo degli innamorati gli sembra di ottimo auspicio. Non a caso Elizabeth Taylor per San Valentino gli ha sempre mandato un bellissimo mazzo di rose rosse dal '61 quando si sono incontrati fino al 2011, quando la diva dagli occhi viola ha raggiunto il grande amore della sua vita nell'aldilà.

«Non ho mai vestito la Regina Elisabetta e mi dispiace, ma in tanti anni di carriera ho visto una processione di donne straordinarie nel mio atelier» ha detto Valentino nel 2007 in occasione dello straordinario evento (tre giorni di mostre, cene, balli, spettacoli pirotecnici, sfilate di abiti da capogiro e con un andirivieni di vip mai visto prima) organizzato a Roma ufficialmente per festeggiare 45 anni di successi ma in realtà preludio del ritiro a vita privata. 

Tra i tanti appuntamenti di quella kermesse che tutti nel mondo della moda chiamano “le Valentiniadi” c'è stata un'indimenticabile mostra organizzata all'Ara Pacis con 350 modelli creati dal maestro nel corso degli anni. Si è così scoperto che il celebre rosso Valentino nasce dalla folgorante visione di una bellissima donna dai capelli bianchi che si presenta al Teatro Real dell'Opera di Madrid con uno stupendo vestito in velluto scarlatto.

Tra gli abiti rossi esposti all'Ara Pacis c'era un minidress creato per Lady Diana, oltre al vestito da sera verde acqua drappeggiato a toga sul corpo che in diverse occasioni ha esaltato lo stile di tre donne speciali: Jackie Kennedy, Marie Chantal di Grecia e Jennifer Lopez. Non mancava il cappotto indossato da Farah Diba per andare in esilio dall’Iran, l'abito nero ricamato a cristalli per l’Oscar alla carriera di Sophia Loren e tanti altri pezzi di storia. 

Davanti a un vestito creato a suo tempo per Liz Taylor il Maestro ci raccontò del loro primo incontro avvenuto a Roma nel '61. «Bella da togliere il fiato, ha sempre avuto una faccia e degli occhi indimenticabili, ma in quel momento della sua vita era pazzesca: l’amore di Richard Burton la rendeva radiosa».

Un'altra bellissima per cui ha sempre provato un grande affetto e forse qualcosa di più è Marilù Tolo, la bruna dagli occhi verdi protagonista di tante pellicole italiane degli anni Settanta e di una tormentata storia d'amore con Dario Argento. Pare che Valentino l'abbia corteggiata fino a regalarle un anello quando lei aveva 17 anni e lui 10 di più. Lei non ne volle sapere e gli restituì subito il dono, ma sono ancora amici.

«Ci siamo incontrati al Cafè de Paris – ha raccontato Giammetti – dove io che allora studiavo architettura all’università, stavo aspettando l’apertura del Pipistrello, un altro mitico locale della Dolce Vita». Il sodalizio sentimentale e professionale tra i due cominciò poco dopo, durante una vacanza a Capri. E Giammetti che non è noto per la sua diplomazia, candidamente ha confessato: «All’inizio non mi colpì nulla di lui, poi ho cominciato ad ascoltarlo e mi sono accorto della sua genialità».

A questo punto Valentino ha sorriso come il gatto del Ceshire perché sapeva benissimo di dovere moltissimo al socio: il primo grande stratega del fashion system internazionale, l'unico che può dire senza tema di smentita: «sono il creativo che sta dietro alla creatività di un grande della moda». 

Certo tra i due ci sono state anche furiose liti che entrambi adesso definiscono «tempeste in un bicchier d’acqua». Alcune di queste sono state magistralmente raccontate nel docu-film Valentino The last emperor. Ma la più bella l'abbiamo sentita dalla viva voce di Valentino: «Una volta – ha detto – con Giancarlo ci siamo messi a discutere sui gusti della pizza e nella foga ho lanciato un piatto di spaghetti contro il muro facendo scoppiare a piangere la modella a cui stavo provando un abito».

Lei che per la cronaca era la mitica Dalma, fa notoriamente parte dell’entourage di Valentino. Gli altri sono l'irresistibile Carlo Souza, ex modello, per anni addetto alle celebrity, sposato con una stupenda signora dai capelli biondi e padre di due ragazzi belli da fermare un orologio. Poi c'è la giornalista e influencer spagnola Nati Abascal, l'elegantissimo Bruce Hoecksema che è stato l'ultimo compagno del couturier e pochi altri eletti ammessi nello chalet di Gstaad, nel castello di Videville oppure sullo yacht che d'estate naviga sempre sulle onde del greco mar.

Fanno parte della famiglia allargata di Valentino anche i cani. «Ho sempre avuto una passione per i carlini – sostiene da sempre – sono i più affettuosi del mondo con il loro padrone e poi hanno facce più che musi e un mantello di velluto color champagne». Il più famoso couturier italiano, l’uomo che ha vestito e veste le donne più belle del mondo, parlerebbe per ore di questi cani vittoriani riprodotti un tempo sotto forma di puntaspilli in pezza e meravigliosi oggetti in ceramica di Meissen.

Un tempo si diceva che Lady Diana avesse fatto una speciale dispensa per i cani di Valentino che andavano e venivano dalla Gran Bretagna senza fare la quarantena all'epoca imposta dalla legge. Una volta gli abbiamo chiesto se era vero e lui serissimo ha risposto: «No, infatti li porto con me a Londra solo da quando il governo inglese ha abolito la quarantena per gli animali vaccinati, in possesso di microchip e tatuaggio d’identificazione internazionale e che entrino in Inghilterra dalla Francia via treno oppure in aereo con volo diretto della KLM. La principessa era molto gentile con me come del resto tutti i membri della famiglia reale inglese che mi è capitato d’incontrare, ma non abbiamo mai parlato di queste cose. Il più grande privilegio che mi sia stato concesso dalla vita è stato fare questo lavoro che dopo tanti anni di successi amo ancora come il primo giorno». 

·        Vincent Van Gogh.

Scoperto a Edimburgo un autoritratto nascosto di Van Gogh: era sul retro di un altro dipinto. Alessandro Vinci su Il Corriere della Sera il 15 Luglio 2022.

Il casuale ritrovamento durante una radiografia di «Testa di contadina» alle National Galleries. L'opera sarà ora oggetto di un «delicato lavoro» di rimozione della colla e del cartone che l'hanno tenuta coperta finora. 

Doveva essere un’analisi di routine, si è tramutata in una scoperta sensazionale. Non potevano credere ai loro occhi gli esperti delle National Galleries di Edimburgo quando nelle scorse settimane hanno assistito all’esito di una radiografia effettuata su «Testa di contadina», dipinto di Vincent Van Gogh del 1885, in vista dell’apertura della mostra «A Taste for Impressionism», in programma dal 30 luglio al 13 novembre nel noto museo della capitale scozzese. L’operazione ha infatti evidenziato la presenza, sul retro della tela, di un autoritratto del genio olandese rimasto finora sconosciuto.

«Quando lo abbiamo visto per la prima volta, ovviamente eravamo molto entusiasti – ha raccontato, ancora elettrizzata, la capo restauratrice Lesley Stevenson in un video diffuso giovedì sui social –. Scoperte di questo calibro avvengono una, massimo due volte nella vita di un restauratore». A farle eco la curatrice senior dell’arte francese Frances Fowle: «È davvero significativa la scoperta di un ritratto di cui nessuno finora conosceva l'esistenza, ed è incredibilmente emozionante per il nostro museo». Nessun dubbio d'altronde sulla paternità dell'opera in quanto Van Gogh, vissuto in povertà, era solito riutilizzare le tele per risparmiare denaro. Nello specifico, a quanto emerso fin qui si ritiene che l'autoritratto sia stato realizzato intorno al 1887 e coperto con diversi strati di colla e cartone a inizio Novecento, quando gli artigiani incaricati di incorniciare «Testa di contadina» prima di un’esposizione a Parigi avrebbero deciso di rinforzare la struttura della tela «sacrificando» il dipinto sul retro. Il che ne ha fatto perdere le tracce per tutto questo tempo. 

Stando così le cose, facile capire come mai, a giudizio delle National Galleries, «il processo di rimozione della colla e del cartone sarà un lavoro delicato». Occorrerà infatti evitare di danneggiare tanto il «nuovo» autoritratto quanto «Testa di contadina», di proprietà del museo dal 1960 e in precedenza appartenuta anche alla collezionista Evelyn St. Croix Fleming (madre dell'autore di James Bond Ian Fleming). «Stiamo ancora cercando di capire come fare», hanno proseguito dalla struttura. Per il momento i visitatori di «A Taste for Impressionism» dovranno quindi accontentarsi di osservare la ricostruzione dell'immagine ai raggi X, che verrà posizionata all'interno di un apposito lightbox. Quanto basterà, comunque, per apprezzare i suoi tratti principali: quelli di un Van Gogh autorappresentatosi con la tipica barba e un cappello a falde, un fazzoletto legato al collo e lo sguardo dritto verso lo spettatore. Ben visibile inoltre l'orecchio sinistro: quello che si sarebbe tagliato nel 1888 (forse) dopo un litigio con l'amico Paul Gauguin. Una volta riportato alla luce, poi, sarà possibile contemplarne anche i colori e i dettagli: l'attesa è già altissima.

·        Virginia Woolf.

Da “la Stampa” il 3 giugno 2022.

Keynes «sembra mercurio su un piano inclinato - un po' disumano ma gentilissimo, come spesso le persone disumane», Katherine Mansfield «puzza come uno zibetto». 

È una inedita Virginia Woolf, che fa ritratti (aciduli) dei suoi amici più cari, quella svelata dai suoi diari, pubblicati per la prima volta in edizione integrale. Tuttolibri in edicola domani racconta quelle pagine private, in cui i racconti quotidiani si alternano alle lunghe interruzioni per i crolli nervosi, tra pranzi e tè, chiacchiere, qualcosa sulla guerra. 

Due le interviste. 

Ad Atticus Lish, figlio di Gordon, il più importante editor americano, che nel romanzo In guerra per Gloria fa i conti con una figura «dominante e oppressiva» che voleva impedirgli di seguire i suoi sogni. E a Jeff VanderMeer, che con le sue eco-fiction è impegnato nella lotta contro i cambiamenti climatici. Nel suo Colibrì Salamandra, in un futuro minacciato dalla catastrofe ambientale che somiglia al presente, un'esperta di cybersecurity finisce in mezzo a una spy story. 

«Dell'esperienza di Laura Lepetit voglio conservare lo scarto, l'inaspettato, la cura, mostrando pezzi di mondo e società». Così Claudia Durastanti, curatrice editoriale della Tartaruga, fondata nel 1975 da una comunità di autrici militanti, spiega cosa la guiderà nella scelta dei titoli (e ne anticipa i primi due).

E poi gli autori da scoprire. 

La bulgara Kapka Kassabova, che ci accompagna in un viaggio nei Balcani intorno ai laghi Ocrida e Prespa, un'oasi naturale teatro di guerre e spartita tra Macedonia, Albania e Grecia: le rive sono punteggiate di monasteri e avamposti jugoslavi abbandonati.

E Dezs Kosztolányi: di lui Péter Esterházy dice: «E' lo scrittore ungherese più elegante del XX secolo. Voi italiani avete amato Márai, ma ora dovete leggere Kosztolányi». Protagonista di un romanzo in 18 novelle, il suo Kornél Esti è un agnostico in perenne lotta contro la noia.

·        Vittorio Sgarbi.

Vittorio Sgarbi: «Mia sorella Elisabetta? Da piccoli la torturavo, alla fine ha vinto lei». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 27 novembre 2022.

Al Torino film festival il doc «Vittorio» firmato da Elisabetta Sgarbi. Il critico, ora sottosegretario alla Cultura: «Ha un carattere identico al mio, ma non dice parolacce. E io sono tutto per lei. Mi protegge»

A Vittorio Sgarbi puoi chiedere tutto, lui risponde. Non ha tabù. Il sottosegretario alla Cultura non teme il giudizio di nessuno, forse neppure di se stesso. Gli sfugge la maturità noiosa e impostata della vecchiaia. Ha compiuto 70 anni Sgarbi, a bordo della motonave Stradivari con la quale voleva navigare il Po (c’è riuscito solo per un tratto, poiché il Po stava morendo già a maggio). Da quella prima festa ne è scaturita anche un’altra, a Milano, a casa del finanziere Francesco Micheli, organizzata dalla sorella Elisabetta con il sottofondo musicale degli Extraliscio. E lei, nello stile che le è proprio, non si è lasciata sfuggire l’opportunità di filmare questo storico avvenimento familiare dal quale è scaturita una pellicola, Vittorio. 

In un tempo fuori dal tempo, che presenta in anteprima al Torino film festival martedì alle 17.30 al Cinema Romano e in replica venerdì alle 22.15. Tanti i personaggi appartenenti al mondo dello spettacolo che si vedono nel film, da Morgan a Giuseppe Cruciani, da Mirco Miriani a Domenico Dolce, e poi ancora imprenditori, scrittori, politici, tutti nomi legati al protagonista. 

Vittorio Sgarbi, sarà presente alla prima del «suo» film? 

«Certo che ci sarò. È meraviglioso sembri una raccomandazione: un film su di me realizzato da mia sorella. Invece per niente. Avrò una giornata molto piena. Ritorno, invitato da Licia Mattioli, a Stupinigi dove molti anni fa curai una mostra che si intitolava “Il Male”. Ero reduce dalle polemiche che avevo sollevato dopo aver difeso Cattelan che aveva “appeso” dei bambini a Milano. Lo aiutò molto a far parlare di sé. Allora feci questa mostra “Il Male”, e non il bene e il male, e feci esporre due bambini impiccati. E nessuno disse niente. E vaff... Ma feci 80 mila visitatori. Speravo il doppio. Voglio organizzare delle cose a Stupinigi. Martedì andrò anche a Staffarda e alla Gam. E a cena da Mattioli». 

E a vedere il film. 

«Non l’ho ancora visto bene, solo dei pezzi. Era la situazione ideale per lei. Ha deciso di filmare questa festa rapsodica. C’era una condizione estetica perfetta: la festa del dio fratello Sgarbi e del dio Po. È capitato, nel frattempo, che dessi il via libera anche alle Iene. E loro hanno montato pochi minuti in cui mi si vede dire solo parolacce. Non nego che ciò accada, ma non in quella dimensione da macchietta. Io non mi scandalizzo di nulla, ma quel servizio era veramente sgradevole. Mia sorella si è ulteriormente irritata. Non credo il film nasca solo da quel contrasto ma anche per un 70esimo da ricordare». 

Quanto bene vi volete voi due? 

«Lei deve tutto a me. Ha un carattere identico al mio, ma non dice parolacce. Siccome sono un demonio, da piccola la torturavo, la portavo al cimitero per terrorizzarla con i morti e i fantasmi; io facevo l’imperatore con un copricapo di piume e a lei ne lasciavo una. Ho sempre fatto ciò che ho voluto e mia madre era la mia compagna di lotta, ero il suo figlio preferito, mi comprava tutte le opere d’arte che le consigliavo — da anni l’Accademia Albertina mi chiede di portare qui in parte la mia collezione e accadrà presto — lei fece quello che doveva fare ed entrò in farmacia. Poi però stava malissimo e fu il fondatore del Premio Cibotto a introdurla all’editoria. Io sono stato il suo modello di mondo maschile da superare e lei una femminista ante litteram. Ha ampiamente dimostrato le sue qualità, attraverso una competizione estrema con me». 

Si prende cura di lei, oggi, però. 

«Ha accudito i miei genitori, prima, in maniera formidabile. Ora che non ci sono più, da qualche parte deve prendere l’energia. E io sono tutto per lei. Sono la persona che più ama al mondo. Mi protegge, mi manda i medici, le medicine. Alla fine ha vinto lei».

Maurizio Porro per il “Corriere della Sera” il 28 novembre 2022.

«Per distrarmi dagli obbligatori festeggiamenti a Vittorio, ho inventato l’esigenza di un film che testimoniasse questa doppia festa di compleanno, portandomi fuori». Con molto affetto, Elisabetta Sgarbi spiega così la nascita del suo film Vittorio - In un tempo fuori dal tempo per i 70 anni del fratello che domani sarà al Torino Film Festival. 

È il cinema che preferisce, quello antropologico, arte e uomo per sempre uniti, badanti rumene, sacerdoti del fiume o le opere e i giorni del fotografo Nino Migliori. Ecco la ripresa della doppia festa, iniziata l’8 maggio 2022 a bordo della motonave Stradivari lungo il Po e finita due giorni dopo sulla terraferma in casa di Francesco Micheli. 

Divertimento da commediante, un cocktail di mondanità, malizia, intelligenza. Ma sempre molta gente e allegria non obbligatoria, con Elisabetta che volteggia col suo drappo fucsia, dando e togliendo la parola, insieme al direttore della fotografia Andrés Arce Maldonado e al suo assistente regista Eugenio Lio. 

Giusto quindi che le sia assegnato, sabato a Chiavari, il premio di Ambasciatore della Parola, considerando i 24 intensissimi anni della Milanesiana che spesso valica i confini: del resto Elisabetta ha i favori del potere temporale, e pure di quello spirituale, da quando il Papa l’ha fatta membro dell’Insigne Accademia di belle arti. 

Il cast degli inviti è kolossal, rubrica da Guinness dei primati, ma la Sgarbi, mentre la nave va e procede sul Po, memento ancestrale alle radici, si muove sequestrando gli invitati via dalla pazza folla, fra Shammah e Colasanti, Colle e Morgan, Andreose e Dolce, Postiglione e Cairo, Valsecchi e Sallusti, Ovadia e Sacchi, Lio e Toscani, un infinito elenco di possibili relazioni e variazioni umane e culturali sul tema «Vittorio». Assenti giustificati in motonave Antonio Rezza e il figlio Giordano, gentilmente crocefisso dal padre nel film Cristo in gola, geniali presenze nel the end.

Elisabetta, mentre gli Extraliscio di «È bello perdersi» e «Romantic Robot» occupano la colonna sonora, si muove in fucsia come Ariel nella Tempesta, il che vuol dire che il festeggiato fratello, memorizzando Shakespeare, è il mago che, come Prospero, fa scoppiare uragani e incantamenti, con molte possibilità di metafora. 

Tanti amici, inteneriti dalla vitalità di Vittorio, dice la sorella: giornalisti e editori, politici e ministri, autisti e artisti, figlie e parenti, medici, dentisti e galleristi, imprenditori, creditori ed ex amanti (Elisabetta dixit, equiparando debiti), dedicano al festeggiato una parola, una testimonianza, un ricordo: una madeleine in mille pezzi. Nel titolo Vittorio è del resto fuori dal tempo, come Proust nel libro di Piperno. 

Sull’elasticità di spazio e tempo interviene anche Elisabetta, che ha fatto molti tipi di cinema, osservando e riprendendo l’arte, la natura, l’uomo, magari tutti assieme: «Vittorio, come nostra madre, non ha mai subìto il tempo, l’ha sempre moltiplicato, sovvertendo orari sociali e biologici: il furore di vita è terrore del vuoto. Col film volevo esprimere il mio esserci anche quando non ci sono, sdrammatizzando la celebrazione ma al contempo fissare questa ricorrenza dove non sapevo bene quanti fossero gli amici veri e quanti fossero venuti per esserci».

Odi et ami le feste? «No, odio le feste e quindi dovevo starci a modo mio, creando una distanza tra me e gli ospiti, obbligandoli ad essere attivi e non passivi, pensando alle domande, tutto fatto con molto understatement e senza che nessuno lo percepisse. Tanto più che facevo dispetti con i miei veli color fucsia e arancione anche nella seconda festa. Commedia sofisticata? Non ci avrei pensato, ma la definizione mi piace molto. La adotto».

Estratto da la Stampa il 28 novembre 2022.  

(…) Come era il Vittorio ragazzino?

«Se giocavamo agli indiani, lui doveva essere il capo indiano, io l’indiano semplice. Mi ingannava portandomi sulla canna della bicicletta su montagne di ghiaia altissime. E mi portava - contro la mia volontà - al cimitero. Mi terrorizzava facendomi sentire i rumori più sinistri. Era dispettoso e autoritario come mio padre. Con una dose di sadismo. Se ho il carattere che ho, lo devo alla resistenza a lui e ai suoi modi». 

Insomma, essere sua sorella è stato difficile?

«È stato formativo. A casa mia c’è sempre stata una certa ferocia. Sono cresciuta con la paura di sbagliare, cosa che credo molto utile. Sono felice di essere sua sorella, mi ha reso la vita più complicata, ma penso che le cose belle debbano esserlo».

Vittorio Sgarbi rinviato a giudizio: diffamazione aggravata. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Novembre 2022. 

La Procura di Viterbo riteneva che le parole del sindaco Sgarbi fossero il frutto di una consentita critica politica, come tali non punibili archiviando la denuncia, ma a seguito di un ricorso di opposizione è arrivata la decisione del Gip, chiamato a pronunciarsi su questi fatti, che è stato di contrario avviso.

Il sindaco di Sutri, ora sottosegretario di Stato alla Cultura Vittorio Sgarbi è stato rinviato a giudizio. A darne notizia sono il consigliere comunale di Sutri, Alessio Vettori, e gli esponenti del Movimento Popolare di Sutri che “apprendono la decisione con la quale il gip del Tribunale di Viterbo ha ordinato alla Procura della Repubblica di esercitare l’azione penale nei confronti del sindaco Vittorio Sgarbi, con l’accusa di diffamazione aggravata dall’uso del mezzo della stampa”. Il consigliere Vettori ed il Movimento popolare sono assistiti nel procedimento dagli avvocati Franco Moretti e Luca Vettori del Foro di Roma. 

I fatti risalgono al dicembre 2018 quando il sindaco Sgarbi diffuse un comunicato stampa dal titolo “A Sutri clima politico infuocato. E nuove minacce. Che Vittorio Sgarbi, sindaco dallo scorso giugno, denuncerà lunedì in Procura”, nel quale sosteneva che nel paese del viterbese fossero presenti delle infiltrazioni mafiose. aggiungendo “(…) A dare la strada a Borsellino c’era anche il procuratore capo di Viterbo, Auriemma. Qualche settimana prima mi aveva sentito sulle vicende politiche di Sutri. E mi aveva chiesto delle infiltrazioni mafiose nella politica di Sutri, delle Famiglie. Mi ero riservato di rispondere. Oggi posso dire che, per metodi, l’intimidazione, l’ignoranza, il “Movimento popolare” è una espressione di mentalità familistica e mafiosa, che si era infiltrata in “Rinascimento”, per esprimere suoi interessati e servili rappresentanti in Consiglio comunale. Lunedì denuncerò al comando dei Carabinieri e alla procura questa falsa realtà politica a Sutri, espressione di Famiglie’‘. 

La Procura di Viterbo ritenne che le parole del sindaco Sgarbi fossero il frutto di una consentita critica politica, come tali non punibili archiviando la denuncia, ma a seguito di un ricorso di opposizione è arrivata la decisione del Gip, chiamato a pronunciarsi su questi fatti, che è stato di contrario avviso. Il giudice ha ordinato la formulazione dell’imputazione contro il sindaco Vittorio Sgarbi ritenendo integrato il reato di diffamazione, “stante l’assenza di elementi di veridicità a fondamento delle espressioni utilizzate nei confronti del Movimento Popolare e la radicale impossibilità di ricondurre quelle parole nell’ambito di operatività del diritto di critica politica’‘.

“A fronte di queste gravissime accuse – spiega il consigliere Vettori – abbiamo presentato querela per tutelare la propria onorabilità e per garantire la totale estraneità rispetto alle asserite vicende. Gli esponenti del Movimento Popolare di Sutri annunciano la costituzione in giudizio, come parti civili, quale atto dovuto per tutelare la correttezza e la trasparenza del proprio operato dopo più di 30 anni di attiva partecipazione politica all’amministrazione cittadina“.  Redazione CdG 1947

I fratelli Sgarbi: Vittorio, Elisabetta e quella furia che viene da Ariosto. Pierluigi Panza su Il Corriere della Sera il 24 Ottobre 2022.

I fratelli ferraresi tra arte, libri e amori. Hanno passato metà della loro vita in auto per presenziare da una parte all’altra

Compongono un dittico ariostesco, uno di quei quadri in cui si vede, da una parte, il profilo di un uomo e, dall’altro, quello di una donna. Non sono marito e moglie, come i Ferragnez. Gli Sgarbies sono fratello&sorella ferraresi: paghi uno, compri due, valgono dieci, cento, mille. Lui è furioso come Orlando, ma al posto dell’ippogrifo cerca il senno con una capra; lei è sia maga che combattente, Morgana e Bradamante, la cui perizia nelle alchimie editoriali e culturali deriva, forse, dai genitori farmacisti: mamma Rina, sorridente e rigorosa, papà Giuseppe, silenzioso e in tarda età scrittore. Bruno Cavallini, predecessore materno, nel Dopoguerra fece parte del sodalizio di giovani professori che caratterizzarono la cultura a Ferrara (Antonio Rinaldi, Giorgio Bassani, Antonio Piromalli…): era proprietario della casa del canonico Brunoro Ariosti, in cui parte della vita trascorse Ludovico Ariosto, che lì scrisse le satire, le commedie, le prime due edizioni del «Furioso».

Le radici domestiche, dunque, spiegano la furia. Studi all’università di Bologna, specializzazione, primi scritti sui pittori ferraresi, poi mostre e collezione di quadri (acquistati, dati, presi, ricevuti…), anni fa esposta al Castello di Ferrara — roba buona e meno. Vittorio Sgarbi, il fratello maggiore del dittico, capisce presto che nella Società dello spettacolo anche un critico d’arte deve spettacolarizzarsi. Così va al «Costanzo show» augurando la morte a Federico Zeri e prosegue da Giuliano Ferrara lanciando un bicchiere d’acqua contro Roberto D’Agostino, ora un amico che lo chiama «Vecchio sgarbone». Verranno poi le escandescenze generiche e ad personam (Mughini) e il brand «capra, capra, capra». La tv gli conferisce successo e diventa la sua palestra con «Sgarbi quotidiani» e con derapate tipo «La pupa e il secchione» (espulso per una lite con Alessandra Mussolini). Il successo, per invidia, gli sbarra la carriera in università, della quale se ne frega. Intanto fa due figlie, riconosciute in tarda età, una tentata dalla partecipazione al «Grande Fratello» e salvatrice dopo un tuffo in mare, di notte, dell’incauto padre dominato dai flutti. Era già scampato a vari incidenti stradali: del resto, chi vorrebbe fare l’autista di Sgarbi, uno che fissa almeno tre appuntamenti alla stessa ora in tre località diverse?

Sindaco di tutti i comuni che iniziano per S (Salemi, Sutri, San Severino…), viceministro ai Beni culturali con Urbani, incarico finito causa gossip, visitatore in notturna dei musei («dovrebbero sempre stare aperti di notte»), fondatore del partito mai partito, Rinascimento (iniziò come Monarchico, le sue affiliazioni tengono una pagina), è stato il deputato più «amato» dai custodi dell’Aula che spesso l’hanno dovuto portare via a braccia. Esperto «di donne più di Casini» (ma guai a sottovalutare l’avversario) ha un legame talmente lungo con Sabrina Colle che manco i vecchi democristiani… Curatore della Biennale più folle, quando chiamò duecento amici per indicare «democraticamente» altrettanti pittori da esporre, fu curatore di una mostra a Milano sull’omosessualità intitolata «Vade retro» e mai aperta per contrasti con «Mestizia» Moratti, mostra che ha ottenuto il maggior numero di recensioni nella storia. Ricordo un compleanno organizzato per lui a Venezia: tutti a cena alle otto, si aspetta il festeggiato per iniziare ma vengono le nove, poi le dieci; allora, i camerieri servono timidamente il risotto, poi il secondo e sono le undici, verso mezzanotte si tira lungo per il dolce. Quando verso l’una gli invitati se ne vanno, lui arriva. L’uscente Alessandro Sallusti lo incrocia lungo un canale: «Sono il tuo direttore, in fondo, un po’ di rispetto!». Il Triveneto è ondivago con lui: insegnò a Udine, soprintendente a Venezia con burrascoso epilogo giudiziario, ora gli sta portando bene con le presidenze del Mart e del Museo Canova.

Cattolico alla Maritain è dannunziano dentro e per imitazione, come quando violò l’embargo e atterrò a Tripoli per sostenere Gheddafi. Vive nella Grande bellezza di Roma dietro piazza Navona (ma sta a casa?), conosce tutti (senza tenere una agenda, non ha tempo), è erudito come un erudito del Settecento: di arte e anche di letteratura sa molto; meno di filosofia, disciplina nella quale è laureato. L’architettura moderna non la capisce e butterebbe giù tutto per riedificare: forse ha ragione. La sorella lo costringe a pubblicare libri che io gli presento, che è la cosa più facile del mondo tanto parla solo lui. Il problema è di chi gli deve proiettare le diapositive, che sono in ordine, ma lui parte per la tangente e si arrabbia se l’immagine non corrisponde. Non invidio i colleghi del Giornale che devono impaginare i suoi articoli: a che ora arrivano? Diciamolo pure: il furioso, ariostesco Vittorio non teme magistrati e condanne, non teme il Covid e nessuno… a parte la sorella minore, l’altra metà del dittico.

Elisabetta è adorabile nelle sue lucide follie (un po’ visionaria e un po’ manuale Cencelli), sta dietro al fratello, a volte davanti, nella coscienza di sé come brand (ogni cosa è ideata e diretta da ES) e potrebbe essere la ferrarese Adriana Gabrielli del Bene (prima interprete di Fiordiligi nel Così fan tutte) dei nostri giorni, ovvero l’artista talmente contesa da costringere un imperatore a chiudere un teatro. Postmodern 100%, glamour 100%, forse radical ma omnicomprensiva, forse di sinistra ma con un fratello forse a destra, i flirt si perdono nel passato mentre sentimentalmente vale quanto detto del fratello: più fedele di una tortora… ma se si sente tradita, guai! Lasciati studi e farmacia passa ai libri: inizia alla rivista «Panta» con Tondelli, ufficio stampa e strabiliante carriera sino a diventare anima della Bompiani sotto lo sguardo del pigmalione Mario Andreose. Ama tutti i suoi autori, ma qualcuno di più tipo il colibrì, pubblica Saramago, Coelho, Maalouf e, soprattutto, Houellebecq. La Milanesiana, fondata nel 2000, è stata la rassegna che meglio ha incarnato la diffusione culturale degli ultimi vent’anni. Quando Milano è diventata meno disposta a uscire di casa (causa Covid) ha esportato il brand Milanesiana in tutta Italia passando dal local al glocal. È regista col marchio Betty Wrong: film curati, sofisticati, musiche dell’amico Battiato e nebbie di Comacchio che ci vedi dietro la nostalgia dell’infanzia passata a correre nei pantani ferraresi.

A proposito di musica: dimostra una salda fedeltà verso Morgan e ha lanciato pure gli Extraliscio, una sua invenzione ex nihilo, portandoli a Sanremo. La sua forza sta nel credere in ciò che fa: se un suo scrittore legge e viene applaudito, lei applaude di più. Se un suo autore perde a un Premio letterario tende ad arrabbiarsi con la giuria che non lo ha capito. Sublime. Quando Berlusconi (en passant quello che ha dato notorietà al fratello) compra la Bompiani, lei si dimette dal gruppo Rcs e con Umberto Eco, amici francesi e qualche locupletato italiano fonda La nave di Teseo, un nome che ci vuole un’enciclopedia per spiegarlo. Fa il botto con Joël Dicker e ristampa Eco.

Capisco chi non li sopporta, ma visti da vicino sono due ragazzi persino di buon carattere, infaticabili nel lavoro, sebbene eccentrici. Quando si legge che Mozart passò metà del proprio tempo in carrozza, ecco penso che gli Sgarbies abbiano passato metà del loro tempo in auto per presenziare da una parte all’altra… e guardate che è una faticaccia non poter stare mai sul divano di casa.

C. Mor. Per il “Corriere della Sera” il 12 agosto 2022.

Sabrina Colle, Vittorio Sgarbi sostiene che avete fatto sesso l'ultima volta nel 1999, letteralmente nel secolo scorso, è ancora così?

«Ma sì, sono le stupidaggini a effetto che s' inventa lui: gliela facciamo passare. La verità è che stiamo insieme da 23 anni e lo abbiamo fatto solo sei o sette volte. È passato molto tempo e, se dovessi farne un racconto dettagliato, lo dovrei affrontare con uno psicanalista: era una cosa buffa, anche disarmonica».

E che direbbe allo psicanalista: «buffa e disarmonica» perché?

«Perché io mi sento come la madre col figlio, la sorella col fratello. Lui ha sempre avuto accanto donne più provocanti e sexy di me. Io l'ho conosciuto che ero una ragazzina.

Quando riguardo le foto, dico: guarda che innocenza avevo. Ancora adesso, gli dico: non mi togliere questa innocenza».

Lui, coi suoi tradimenti plateali, fa la tipica divisione fra moglie angelicata e amante, madonna e donna?

«L'ha sempre fatta. Si è formato dai Salesiani, rubando i libri proibiti dalla biblioteca, e il suo mito è sempre stato Don Giovanni. Essendo io figlia unica, questa cosa ha fatto comodo anche a me: tutti e due siamo vissuti come eterni figli, abbiamo fatto di tutto per eludere le responsabilità. Infatti, i primi 15 anni sono volati. Gli ultimi sette, scanditi dalla morte di tutti i nostri genitori, ci hanno costretto a diventare via via adulti e sono stati più duri. Per me, molto». 

Vittorio sostiene anche che è stata lei a decidere lo stop al sesso. Come, quando, perché è successo?

«Anche questa è una sua fantasia. Non l'ho deciso, non gliel'ho comunicato, ho solo fatto in modo che succedesse. Non potevo più concedere la parte più intima di me a una persona così promiscua. Dopo pochi mesi, ho scoperto che era un traditore seriale.

Per noi ha funzionato, ma non può essere la regola. Per noi, è stato l'unico modo per trovare una forma di esclusività e rimanere insieme».

Esclusività nel senso che lei è l'unica che non ci va a letto?

«Vittorio mi riserva la sua grande tenerezza. Ha un modo di essere tenero che mi riporta all'infanzia, a sentirmi leggera come allora. Poi, i suoi sms sono meravigliosi oggi come 23 anni fa. Ha un suo linguaggio criptico. Una volta, gli ho chiesto: perché stai ancora con me? Mi ha guardato con occhi mai così sinceri e mi ha risposto: io non ho mai pensato di lasciarti, perché di te mi fido ciecamente. In tanti anni, mi ha chiamata ogni sera e mi ha sempre trovata. L'unica volta, venti giorni fa, ero stanca e ho dimenticato la suoneria silenziosa. Ha chiamato la polizia: temeva fossi stata uccisa». 

Lei come ha scoperto le sue infedeltà?

«Le confessava non a me, ma davanti agli altri: la telecamera o il pubblico sono sempre stati la sua debolezza. Dopo, lo prendevo da parte e lui: "Hai capito male, non è che parlassi di me".  Ma a me vengono i nervi quando gli uomini, per sedurre, devono mentire. Noi donne siamo parimenti intelligenti, guadagniamo da sole, viviamo da sole e loro continuano a mentire per portarci a letto? Lo trovo puerile». 

Da qui, il passo indietro?

«Non mi è pesato. Non rinnego la passione: è la cosa più bella che possa capitare. Ricordo il cuore che batte, ma penso che tutto abbia un'età. Quando sei giovane è un diavolo che non dorme mai, ti porta a ire violente, è anarchico, ma è giusto che, crescendo, si raggiunga un compromesso. La mia natura è tanto calma e quieta quanto quella di Vittorio è irruenta, lui ha un bisogno continuo di conquista, io no: sono più sicura di me».

Lei non ha l'ha mai tradito e dunque vive in castità?

«A me tutto quello che piace in un rapporto è quello che c'è prima: con l'atto, cade tutto. Quindi, l'ego mi ha portato a essere la gattamorta per eccellenza. Poi, si figuri se mi concedo... Il massimo è prolungare il corteggiamento allo sfinimento».

Dunque: mai arrivare al dunque?

«Il dunque mi ha sempre deluso. È stato un elemento di fantasia importante: da adolescente, in Abruzzo, non facevo che leggere libri. A parte i romanzi russi, altri sexy e conturbanti, tipo Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet. Pensavo: cosa sarà questa cosa, per cui c'è la guerra e questi due stanno sempre in camera da letto? Ma letteratura e film superano sempre la realtà. Ti dici: tanto casino solo per il senso del proibito. Infatti, oggi che tutto è ammesso, credo che il sesso sia finito. Se ne parla più di quanto se ne faccia».

Vittorio Sgarbi sulla multa in Svizzera: “Ho i lampeggianti perché sono stato minacciato dalla mafia”. Ilaria Minucci il 09/08/2022 su Notizie.it.

Minacciato dalla mafia: è questo il motivo per cui Vittorio Sgarbo può usare i lampeggianti che gli sono costati una multa in Svizzera. 

Il deputato e critico d’arte Vittorio Sgarbi ha risposto con un video su YouTube sulle critiche ricevute sul caso della multa in Svizzera, asserendo di poter usare i lampeggianti in quanto è stato minacciato dalla mafia.

Vittorio Sgarbi sulla multa in Svizzera: il video su Youtube

Il critico d’arte Vittorio Sgarbi è tornato sulla questione della multa ricevuta in Svizzera postando un video su YouTube. Nel video, Sgarbi ha dichiarato:

Viene da sorridere pensando a come un episodio del tutto inesistente venga prima usato contro di me e poi, oltre alla scortesia e alla mancanza di cortesia di spiegare quali sarebbero le gravi colpe di cui mi sarei macchiato, mi si accusa di aver superato le code per essere fermato alla dogana. Mi è stato spiegato che non si usano i lampeggianti in Svizzera, poi mi è stato detto: ‘Se avesse avvisato che veniva in visita ufficiale…’. I lampeggianti non sono un privilegio. Il mio autista, indicato come agente di Pubblica Sicurezza, ha la possibilità di usare dei dispositivi, che sono i lampeggianti. Non mi pare che questo a cento metri dall’Italia sia un reato, ma soprattutto io non ho superato la coda, cosa che leggo su alcuni giornali. Pensavo che la cattiva educazione fosse propria di certi poliziotti che usano la forza, come quelli che mi hanno detto di restare seduto mentre mi multavano.

“Ho i lampeggianti perché sono stato minacciato dalla mafia”

A proposito del lampeggiante di emergenza in dotazione all’autista del deputato, Sgarbi ha ribadito che il suo autista, indicato come agente di Pubblica Sicurezza, “ha la possibilità di usare i dispositivi, che sono i lampeggianti”. Il critico, poi, ha aggiunto: “Io sono stato minacciato dalla Mafia, per questo mi hanno dato il lampeggiante”.

Nel suo video, Vittorio Sgarbi si è scagliato anche contro i giornali locali che hanno ricostruito l’accaduto asserendo che il deputato stesse usando i lampeggianti per superare la coda degli agenti doganali.

Infine, il deputato ha attaccato un politico svizzero locale: “Non so se sia un parlamentare, ma non voglio mettere i ruoli in campo. Io a Lugano sono una persona conosciuta per quello che ho fatto per il patrimonio artistico. Qualcuno mi ha in antipatia? Benissimo, ma si misuri su cose certe né voglio scaricare tutto sull’autista. Questo politico scrive: ‘Egregio sig. Sgarbi, sarà che i lampeggianti vengono utilizzati da chiunque’.

Io non sono chiunque, sono autorizzato in Italia all’uso del lampeggiante”.

Da corriere.it l'8 agosto 2022.

«Disavventura» in terra elvetica per Vittorio Sgarbi: l’auto su cui viaggiava il critico d’arte è stata sorpresa mentre superava una colonna di auto ferme a causa del traffico azionando la luce lampeggiante blu. La polizia ha emesso una sanzione di 500 franchi (circa 500 euro). 

L’episodio, confermato dalla polizia del Canton Ticino è avvenuto sabato pomeriggio. Vittorio Sgarbi si era recato al Festival cinematografico di Locarno; sulla strada del rientro in Italia, lungo l’autostrada la vettura aveva superato una colonna di auto ferme per il traffico intenso. Alcuni automobilisti hanno segnalato la violazione alla polizia comunicando il numero di targa. Quando l’auto di Sgarbi è arrivata al confine di Chiasso-Brogeda, la polizia svizzera l’ha fermata e ha contestato la violazione del codice stradale. La multa di 500 franchi è solo una cauzione: spetterà poi alle autorità cantonali calcolare l’esatto ammontare della sanzione. I 500 franchi sono comunque stati subito pagati dall’autista del critico d’arte.

Sgarbi aveva pubblicato un video (poi rimosso) sui suoi profili social lamentandosi per il trattamento riservatogli dalla polizia che lo avrebbe trattenuto per circa mezz’ora: «Con la Svizzera ho chiuso»

Estratto dell'articolo di Franco Zantonelli per repubblica.it l'11 agosto 2022.

"Questa è la Svizzera e il Canton Ticino signor Sgarbi, dove i deputati non hanno auto blu e men che meno dotate di lampeggianti prioritari". Da Bellinzona, capitale del Canton Ticino, arriva una replica piccata a Vittorio Sgarbi, autore di una sfuriata su Facebook per essere stato fermato, sabato scorso nel pomeriggio, al valico autostradale di Chiasso-Brogeda, dalla polizia stradale ticinese e dalle guardie di confine svizzere, perché sorpreso a viaggiare su un'auto blu, con tanto di lampeggianti in funzione, sorpassando la colonna di veicoli dei vacanzieri, diretti verso il confine italo-svizzero.

A rispondere al deputato e critico d'arte, che a causa di quell'episodio ha dichiarato che mai più avrebbe messo piede in Svizzera, è stato, sempre via social, Norman Gobbi, responsabile leghista del Dipartimento delle Istituzioni, il ministero di Giustizia e Polizia del Canton Ticino. Non siamo all'incidente diplomatico ma poco ci manca. Anche perché pare che l'agente della Polizia di Stato che guidava l'auto con a bordo Sgarbi, reduce dal Locarno Film Festival, abbia insultato i poliziotti che l'hanno fermato.

"Diciamo che verso i miei uomini entrambi non si sono comportati molto bene", dice a Repubblica Norman Gobbi. Il deputato e critico d'arte, lo ricordiamo, non si è lamentato solo per la multa di 500 franchi inflitta al suo autista-poliziotto, ma pure per essere stato trattenuto in automobile, senza possibilità di scendere, durante gli accertamenti svolti dagli agenti e le guardie di confine. 

"Poliziotti, arroganti prepotenti e bugiardi", si era infuriato Sgarbi. Comportatisi, vale la pena sottolinearlo, come si comportano tutte le polizie d'Europa, italiana compresa, quando fermano un'auto. "Le regole sono regole", ha tenuto a precisare il ministro Gobbi. [...]

"Ditelo al povero bovino...". L'ira di Sgarbi contro la multa svizzera. Marco Leardi l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il noto critico d'arte, multato in Svizzera, respinge le contestazioni della polizia elvetica. Scoppia la rissa con il consigliere di Stato del Canton Ticino: "Non può dare lezioni"

Auto blu, lampeggianti e accuse reciproche. Divampa lo scontro a distanza tra Vittorio Sgarbi e il responsabile della polizia ticinese, dopo la multa comminata domenica scorsa in Svizzera al noto critico d'arte. Le autorità locali avevano sanzionato il professore contestandogli di aver superato una colonna di auto ferme in autostrada, con le luci di emergenza accese. Accuse che il deputato aveva però respinto con forza e con toni accesi, accusando la polizia elvetica di essere "arrogante, prepotente e bugiarda". La recente replica dal Canton Ticino non ha fatto altro che infiammare l'alterco.

"La legge è legge. I lampeggianti blu sono riservati ai mezzi di pronto intervento, al servizio della comunità", ha puntualizzato Norman Gobbi, consigliere di Stato del Canton Ticino eletto nella lista della Lega. Sui social, il politico ha anche difeso l'operato dei gendarmi e, rivolgendosi idealmente a Sgarbi, ha affermato: "Le regole sono regole per tutti. Questa è la Svizzera, signor Sgarbi, dove i deputati non hanno auto blu e men che meno dotate di lampeggianti prioritari, privilegio concesso solo agli enti di pronto intervento che sono loro, e non Ella, al servizio della comunità tutta". Parole che hanno mandato il noto critico d'arte su tutte le furie.

Sgarbi, che per quella presunta infrazione aveva ricevuto una multa di 500, contesta la ricostruzione delle autorità elvetiche e ancora oggi non ci sta. Così, dopo il rimbrotto ricevuto da Gobbi, il professore sui social si è scagliato contro quest'ultimo. "Questo pittoresco personaggio è tale Norman Gobbi, consigliere di Stato in Svizzera. Nel suo Paese è stato accusato di razzismo e di coprire le simpatie per il nazismo di un appartenente alla polizia cantonale", ha scritto il deputato a commento di una fotografia del consigliere di Stato ticinese, ritratto accanto a un bovino, rievocando alcuni controversi episodi contestati in passato al politico svizzero.

Poi, andando all'attacco, Sgarbi ha aggiunto: "Un tipo così, con una faccia così, e con le ambiguità che lo contraddistinguono diciamo che è l'ultima persona della Svizzera a poter fare o dare lezioni di moralità, rispetto delle regole e condotte civiche. Io non ho mai avuto un'auto blu. Ho sempre viaggiato con auto e autisti miei, pagati da me. Lo dico a Gobbi. E al povero bovino che gli sta accanto". Sempre sui social, a commento del post pubblicato da Gobbi, il critico d'arte aveva argomentato: "Anche in Italia i deputati non hanno auto blu e 'lampeggianti prioritari', ma alcuni magistrati o sindaci o altri rappresentanti, minacciati dalla mafia, hanno una tutela stabilita dal Ministero dell'Interno e conseguenti dispositivi di sicurezza, che non dipendono dalla loro volontà".

Il caso era scoppiato dopo che il professore era stato fermato al valico autostradale di Chiasso Brogeda. Gli agenti lo avevano trattenuto per circa mezz'ora, contestandogli l'indebito uso delle luci di emergenza. Mentre rientrava in Italia dal Festival cinematografico di Locarno, il critico d'arte aveva denunciato sui social quanto gli era accaduto con toni indignati.

Da corriere.it il 4 agosto 2022.

Litigio in famiglia (chissà se a suon di «capra» anche in questo caso) per Vittorio Sgarbi: stando a quanto raccontato a «Novella 2000», il critico d’arte si sarebbe infuriato con una delle sue figlie, Evelina Sgarbi, perché lei avrebbe rifiutato di partecipare al prossimo Grande Fratello Vip. Alfonso Signorini l’avrebbe voluta nel cast della settima edizione del reality in partenza a settembre (che per ora vede come primo concorrente confermato lo stylist Giovanni Ciacci), ma la ragazza, studentessa universitaria classe 2000, avrebbe rifiutato. 

«Ha deciso di non presentarsi al provino contro la mia volontà. Avrebbe guadagnato cifre ragguardevoli senza alcuno sforzo — ha detto Sgarbi al settimanale —. Per una ragazza della sua età declinare una simile offerta equivale a sputare sul denaro». Sgarbi ha anche aggiunto che, a causa di questo disaccordo, lui e la figlia non si sono parlati per qualche mese, ma sono ora in fase di riavvicinamento: «Evelina ha ritenuto che un luogo denso di pettegolezzi come la casa del Gf Vip non fosse degno di lei», ha detto ancora il critico. 

Secondogenita di Vittorio Sgarbi, Evelina è nata dalla relazione con una storica torinese, ha raccontato lui stesso in un’intervista al Corriere (senza mai svelare il nome della madre). Il primogenito è invece Carlo, 34enne, riconosciuto dopo una lunga battaglia legale con la stilista Patrizia Brenner. E l’altra figlia di Sgarbi è Alba, arrivata dopo una storia con una cantante lirica albanese già sposata. Di tutti e tre i figli, arrivati inattesi da tre donne diverse, Sgarbi ha detto di sentirsi un padre puramente «biologico» e «preterintenzionale» e di non essersene occupato: «Io non rivendico e non chiedo nulla e queste donne hanno avuto da me ciò che desideravano: diventare mamme». Di Evelina ha anche detto: «È molto sveglia, molto furba, ma un po’ irritante perché ha un temperamento simile al mio».

Da ilmessaggero.it il 5 agosto 2022.

La sua colorita schiettezza arriva prima di qualsiasi cosa, ormai si sà Vittorio Sgarbi è quel critico, personaggio tv, politico, senza peli sulla lingua. Senza alcuna remora ha confidato di aver discusso con sua figlia Eveline dopo che la stessa avrebbe rifiutato di accettare di partecipare al Gf Vip. Screzio rivelato da Novella 2000. «Ha deciso di non presentarsi al provino contro la mia volontà. 

Per una ragazza della sua età declinare una simile offerta equivale a sputare sul denaro», ha detto Sgarbi. Un no che è costato caro al rapporto tra padre e figlia. Stanno ricucendo ora i rapporti, dopo che non si sono parlati per diverso tempo. «Però continuo a farle pesare le sue decisioni. Di recente mi ha chiesto una borsa da 3000 euro e alla fine gliela ho comprata, ma non prima di averla spronata a guadagnarsi da sola il denaro utile a mantenersi questi vezzi».

Ma anche a lui hanno proposto di partecipare ai reality, e anche lui ha detto, a suo tempo no, ma la questione è diversa e la spiega lo stesso opinionista. «Io godo di una grossa fama. Perciò posso concedermi il lusso di dire no a format come L'Isola dei Famosi». Ebbene sì ci avevano provato con papà Sgarbi a portarlo in un reality, ma alla fine lui ha declinato l'invito. «C'è chi si aspetta di vedermi annuire di fronte a un cachet da 400 mila euro, anzi 800mila, visto che per convincermi la cifra fu raddoppiata». ma il critico ha detto, anche lui un no secco: «Avrei accettato solo per 2 milioni di euro, minimo 1 e mezzo. Ho impegni da sindaco, assessore e deputato, il mio tempo costa e non intendo svenderlo»

Giovanna Cavalli per il “Corriere della Sera” il 5 agosto 2022.

Quando c'è di mezzo lui le cose vanno sempre al contrario. 

E quindi ecco che Vittorio Sgarbi si arrabbia con la figlia Evelina, 22 anni, che non è voluta andare al Grande Fratello Vip «perché nella casa si fanno troppi pettegolezzi e comunque mi chiamano soltanto perché sei mio padre», ha detto rifiutando più volte il corteggiamento di Canale 5. 

«Roba da matti, Alfonso Signorini e Irene Ghergo l'hanno cercata e ricercata e lei non rispondeva nemmeno al telefono, si è data alla nebbia, così quelli poi venivano da me», racconta il principe dei critici d'arte con il consueto impeto, niente affatto orgoglioso di quel gran rifiuto. «Tutti le dicono che è stata brava, eroica, un genio, una virtuosa, per aver resistito alla tentazione. E invece no, si è comportata da str..., ecco cosa, furba per sé e dannosa per gli altri. Su questa storia abbiamo litigato e non ci siamo parlati per mesi. Poi è ricomparsa tutta affettuosa, ve lo dico io perché...per la borsa». 

Di Evelina, la secondogenita di Sgarbi (tre figli, il primo è Carlo, la terza Alba, madri diverse), si sa che è nata dalla relazione con una raffinata signora di Torino (Barbara), ha studiato all'istituto Marangoni di Milano ed è un'appassionata di moda e stile e naturalmente di arte, con un sobrio profilo Instagram da 9.418 follower e una vita finora abbastanza appartata, nonostante la celebre parentela. 

Per almeno quattro volte quelli del Gf Vip le hanno dato appuntamento per i provini, sia per la passata che per la prossima edizione del reality (il cast ormai è completato). 

«E lei non si è presentata, capite? Temeva la pubblicità negativa, le chiacchiere, non le sembrava un programma degno di lei. Balle, se una ha un carattere forte sa come difendersi, anche in un ambiente degradato, altrimenti significa che non ha una gran considerazione di sé», tuona Sgarbi: «Tanto poi di quello che succede in tv, delle liti, delle figuracce, la gente si dimentica in fretta. Quando nel 1991 mi scritturarono per Il Gioco dei Nove, mi pagavano cinque milioni di lire per fare il fesso.

Ovviamente ho accettato e ho fatto bene. A lei avevano offerto 100 mila euro, che ci sputi sopra?».

Un peccato imperdonabile, secondo lui. «Quando guadagni dei soldi, è sempre moralmente giusto. Per una come lei che frequenta l'ambiente della moda, anche sfiorare il mondo dello spettacolo le avrebbe fatto comodo, si faceva conoscere. Si pagava i conti. E non veniva a mettere in croce me per farsi comprare una borsa di Dior da duemila e 800 euro». Una Saddle, per l'esattezza. «Queste a loro modo sono opere d'arte veramente irrinunciabili!», gli scriveva Evelina su Whatsapp. 

«Mi rendo conto di averti chiesto un regalo costoso, che però per me non è solo voluttuario, si tratta di un vero oggetto di culto». 

Ed è lì che papà Vittorio le ha rinfacciato il «no» al Grande Fratello: «Con quel cachet avrebbe potuto permettersela, non pretenderla da me. Ha buttato via un'opportunità perché la considerava dannosa per la sua immagine, resta pur sempre una forma di spreco. Bah, alla fine le ho pure presentato il Ceo di Dior che è mio amico, e la borsa è arrivata».

Perché i padri in fondo hanno tutti le stesse debolezze. E Sgarbi è stato ricambiato con quest' ultimo messaggino: «Più passa il tempo e vedo situazioni in giro e più mi compiaccio e sono orgogliosa di come tu sei... mi rendo conto che non potrei sopportare un padre molle e sottomesso, volevo dirtelo da un po'». Firmato: Evelina.

UNA VECCHIA MACCHIETTA CHE MI RIFIUTO DI CITARE. Dal “Venerdì di Repubblica” di Natalia Aspesi il 10 Giugno 2022. 

Sono rimasto inorridito dalla festa in barca per festeggiare i 70 anni di XX, trasmessa, credo, dalle Iene, programma nel quale mi sono imbattuto per caso. Ho 76 anni e ormai quasi nulla mi scandalizza. E tuttavia una "festa" nella quale il festeggiato, circondato da impresentabili cicisbei, si esibisce per tutto il tempo in cui sono riuscito a seguirla (circa 10 minuti) in un repertorio ininterrotto di parolacce è stata una esperienza orrenda, umiliante per tutti. Sono arrivato a dubitare che tutto facesse parte di un talk show a pagamento a favore del festeggiato, costretto per contratto a esibirsi in una delle sue peggiori performance. Non stimo né stimerò mai XX, rimango ancora stupito del perché venga invitato, come tuttologo a pagamento, in moltissimi talk show, senza che dica mai nulla da ricordare, a parte i soliti insulti agli sventurati interlocutori. Ma mi chiedo ingenuamente se anche chi lo stima non provi vergogna ad assistere a tali obbrobri. Andrea La Francesca - Novara

Risposta di Natalia Aspesi

Decenni fa il giornale mi chiese una presa in giro di XX che iniziava la sua carriera di macchietta politica, e io risposi che mai avrei scritto quel nome per non collegarlo al mio. Mi scuso per averlo cancellato anche dalla sua lettera, ma credo che sia ovvio capire di chi lei parla. 

È quasi mezzo secolo che XX si ripete come un vecchio comico del varietà, arrivando adesso persino a fare a botte, poveruomo; eppure interlocutori ne trova sempre, non sventurati ma complici. Che sia una immagine sinistra dello spettacolo conta poco, conta invece che sia deputato della Repubblica, sindaco di una cittadina, sia stato europarlamentare e sottosegretario al ministero dei Beni culturali.

La sua carriera politica non credo sia finita, potrebbe diventare ministro, quella di comico forse sì perché sta prendendo il suo posto quel biondo e delicato professorino ovunque invitato perché sa far ridere restando serio come i comici più raffinati.

Da liberoquotidiano.it il 10 maggio 2022.

Nonostante i 70 anni appena compiuti, Vittorio Sgarbi non perde la sua verve. Il critico d'arte senza peli sulla lingua svela dettagli privati della sua vita. Anche quelli mai raccontati prima d'ora. 

Così come la prima volta che ha fatto l'amore: "È successo a 17 anni, nel ’69, con la figlia di un deputato del Partito Comunista. Sono entrato subito in politica dalla porta principale".

E ancora oggi quello del parlamento è un ambiente che bazzica. Da deputato, Sgarbi è passato da Forza Italia al Misto, ma non senza mantenere i buoni rapporti. La dimostrazione? L'ultima volta che ha fatto l'amore. Alla rivista Rolling Stone, il critico d'arte confessa: "È stata con la moglie bellissima di un esponente di Forza Italia. Era il 6 febbraio del 2021. È stato il mio personale contributo al partito".

Insomma, anche a 70 anni Sgarbi non può fare a meno delle donne. Per lui "sono superiori agli uomini. Le donne sono state importantissime, più capaci degli uomini, dovendo recuperare un ritardo storico legato alla prepotenza dei maschi. 

Io rappresento un modello di uomo tradizionale, legato a una versione arcaica, perché è vero che abbiamo fatto prepotenza sulle donne e la riconosco, quindi continuo a farla. Però sono consapevole che la liberazione passa dalle donne".

In questi giorni il critico d'arte, già noto per le sue accese discussioni in tv, ha dato parecchio da chiacchierare. Complice la litigata al Maurizio Costanzo Show con Giampiero Mughini, che per tutta risposta lo ha spintonato facendolo cadere a terra.

Che tra i due non scorresse buon sangue, questo era già noto. Meno palese il fatto che Sgarbi abbia perdonato il giornalista. Anzi, lo ringrazia addirittura, perché "ha consentito la realizzazione della mia idea della televisione. Mentre il film ha la sceneggiatura, in tv puoi essere sul luogo del delitto, quando cade un grattacielo o si verifica un terremoto. Io sono quel terremoto.

L’altra sera avrei fatto la cartolina illustrata parlando d’arte, se non avessi avuto la grazia di Mughini per creare quell’incidente, che non sarebbe stato possibile con un effetto così formidabile non ricreabile in laboratorio. L’imprevisto è la mia estetica televisiva".

"Sgarbeide", la festa elevata a opera d'arte. Il Po in secca celebra la vita piena di un genio. Luigi Mascheroni il 9 Maggio 2022 su Il Giornale.

Crociera di compleanno su immagine di Vittorio: ritardi, imbucati, danze e vip.

È da 70 anni che Vittorio Sgarbi rivendica la libertà di fare ciò che vuole nella vita, ma alla fine privilegio dei fuori quota in tutto è un tremendo abitudinario. Mangia le stesse cose, ciò quello che capita sul piatto, va a letto sempre alla mattina presto e si sveglia sempre alla mattina tardi, ha tante avventure ma sempre la stessa donna, e si fida sempre degli stessi amici.

E così, per il suo compleanno, e siamo a 70 (a proposito: auguri Vittorio), ha radunato gli stessi amici di sempre su una motonave, che per affinità di genio e di sregolatezza con il festeggiato si chiama «Stradivari». Li ha imbarcati a Boretto, piccolo centro rivierasco reggiano, Bassa padana, fra Giovannino Guareschi e Antonio Ligabue, e per tutto il pomeriggio di ieri se li è scorrazzati sul Po: direzione Ferrara. Alla meta la nave non arriverà mai, causa tragiche secche stagionali. Ma l'importante, come tutti sanno, è il viaggio.

Il viaggio di Vittorio Sgarbi è da 70 anni che non conosce soste, su e giù per l'intero patrimonio artistico italiano, mostre, musei, cene, vernissage, trasmissioni tv, incontri amorosi, risse, expertise e festivàl.

La festa appuntamento al porto turistico Lido-Po, via Argine Cisa, a Boretto (Reggio Emilia) è fissata alle ore 12. In perfetto stile Sgarbi, lui si è presentato alle 13,30. «Siamo andati a letto alle 4, alle 11 stava ancora dormendo, a Parma», fa sapere l'ufficio stampa, Nino Ippolito, un eroe a suo modo.

Acque basse e tacchi alti, qui ci sono tutti: amici, nemici, mercanti d'arte, scrittori (c'è Edoardo Nesi, il patafisico Roberto Barbolini, il poeta Roberto Pazzi), scultori (Giuseppe Bergomi, Livio Scarpella), giornalisti (Nicola Porro, Camillo Langone, Giuseppe Cruciani), e poi cuochi, quel che resta di Vissani, galleristi, editori, troioni, virologi (Crisanti), tutti i suoi autisti (altri eroi), tante ex, la fidanzata storica Sabrina Colle (sempre la più bella), politici (il ministro del Turismo, il sindaco di Ferrara), attori, cantanti.. C'è anche Morgan. Peccato manchi Mughini.

Ad attendere Sgarbi, sulla banchina, hanno portato il regalo più grande. Un enorme dipinto grottesco - 3,30 x 2,40 - di Enrico Robusti, titolo «Sgarbeide», in cui il nostro è ritratto in mezzo alle persone della sua vita come la Scuola di Atene: i genitori, Sabrina, Maurizio Costanzo, Testori, Marina Ripa di Meana, Sylva Koscina, con la quale ebbe una liaison, Silvio Berlusconi, Helmut Newton, che gli scattò un celebre ritratto, Franco Maria Ricci In primo piano, perché l'arte qui ha la sua parte, un busto di Niccolò dell'Arca.

Sull'arca salpata con sgarbiano ritardo, ma la navigazione è tranquilla il capitano secondo la lista degli inviti doveva caricarne 70. Poi nottetempo l'elenco è salito a 140.

Alla prima sirena, ore 13.40, gli imbarcati sono 200. Circa. «Gli imbucati dice Sgarbi - sono quelli che mi piacciono di più». Quando tutto è pronto per il brindisi, sul ponte, è così tardi sulla tabella di marcia che si potrebbe festeggiare il 71esimo compleanno. Ma nessuno si formalizza. Ci sono le sue due figlie (Alba: «Era due anni che non lo vedevo e non lo sentivo»), c'è Andrée Ruth Shammah che se lo coccola come un figlio. C'è la contessa Luisa Beccaria, discendente di E c'è Giampaolo Cagnin, imprenditore parmense dell'alimentare, mecenate e azionista di Finarte. È lui che ha regalato il compleanno-sorpresa sul fiume all'amico Vittorio Sgarbi.

Titolo della giornata: «La rinascita del Po». Che è anche, al giro di boa dei 70 anni, una rinascita di Sgarbi. «Gli ultimi due anni sono stati durissimi per lui dal punto di vista fisico racconta la fidanzata Sabrina -. E adesso che si è scoperto più vulnerabile forse è la prima volta che ha davvero bisogno di me». Anche gli Sgarbi hanno un cuore.

Un cuore debole, quattro stent, milioni di chilometri percorsi, centinaia di migliaia di pagine scritte e lette, 70 anni e altre cinque vite da vivere per fare tutto ciò che sogna, Vittorio Sgarbi dopo aver ballato sotto coperta, stravolto e sudato, «Nessuno mi può giudicare» e chi potrebbe si ferma sul ponte a guardare la riva, siamo all'altezza di Pieve Saliceto e quella là in mezzo agli alberi è la casetta dove andava a dipingere Ligabue.

«Dove va la nave? Vorrei a Ferrara, a casa, da mia madre e mio padre». E se invece questo viaggio fosse una metafora? «Verso il governo del Paese. Dove io sarò il nuovo ministro della Bellezza e della Cultura». Allora due volte auguri, Vittorio. Sono le 17,30. E inizia a piovere.

Il desiderio di Vittorio Sgarbi per i 70 anni: «Voglio fare il ministro dei Beni Culturali». Per il suo compleanno una traghettata con gli amici a bordo della motonave Stradivari lungo il Po. ALESSANDRA PASQUALOTTO su Il Quotidiano del Sud il 09 maggio 2022.  

Gli auguri al telefono del premier Draghi e la buona “copia” della Renaissance di Macron che, per cambiare nome al suo partito, si è ispirato al Rinascimento di Vittorio Sgarbi. Professore, onorevole, primo cittadino, critico d’arte, letterato. I titoli poco contano, ma nemmeno l’età e per festeggiare i suoi 70 anni, Vittorio Umberto Antonio Maria Sgarbi, ha scelto di ripartire dalle origini. Una traghettata con gli amici a bordo della motonave Stradivari lungo il Po, «il mio fiume», precisa durante l’intervista che riusciamo a strappargli mentre è in giro assalito da gente che vuole scambiare con lui qualche battuta. Molti sono giovani e non si risparmia nell’intrattenerli, mentre scorge un edificio di epoca fascista che vuole andare a vedere. La festa inizia dal porto turistico di Boretto: una crociera lungo le terre di don Camillo e Peppone verso Ferrara, la città che gli ha dato i natali.

Una festa o piuttosto un viaggio?

«Ho deciso qualche settimana fa di fare quello che definisco il viaggio della rinascita. Una spedizione difficile, non solo perché il Po è in secca».

A bordo in tanti, ministro del Turismo Massimo Garavaglia compreso, per un traguardo importante. Di solito in queste occasioni si fanno bilanci.

«Il bilancio è che purtroppo sono diventato vecchio ed ho la consapevolezza di aver vissuto più di quanto vivrò. Ho fatto molto ma sicuramente potevo fare di più. La mia è stata una vita trascorsa con una tensione accelerata. Ho fatto tante cose, dal critico d’arte, al letterato, al critico televisivo e tanto altro ancora. Posso dire che la mia è stata una vita intensa, ho violato due embarghi in Libia e in Iraq. Vivo senza rimpianti se non quello che non avrò più questi settant’anni».

La bellezza: progetto semplice o complesso?

«Semplice perché ognuno di noi ha il senso della proporzione difronte a ciò che è bello oggettivamente. Ma serve la conoscenza per capire quali sono i valori necessari alla bellezza. Mi sono accorto di questo quando ero fidanzato con una ragazza fiorentina e mi sono accorto come fosse nel contempo buon legno e buona stoffa. Quindi esiste un’idea astratta della bellezza e c’è necessità di educare l’occhio a capire come si manifesta. Ecco perché è semplice e nello stesso tempo complesso. Oggi tante cose sono brutte e la gente è corrotta con la frequentazione del brutto. Nel mio caso la bellezza è partita dalla conoscenza poetica, letteraria ed è passata in un secondo momento a quella delle opere d’arte. È un concetto vario ma anche tanto difficile».

Quanta bellezza c’è nella politica?

«Partiamo da un dato di fatto: io voglio fare il Ministro dei Beni Culturali. Ho un obiettivo politico che spero accada fra un anno. La verità è che non si può fare politica senza conoscenza e senza cultura. Quando dico che Macron ha copiato il mio movimento, è vero. Ha usato in politica dopo di me la parola rinascimento che è in assoluto quella più bella che si poteva usare. Io ho azzeccato dando questo nome al mio movimento e Macron l’ha capito, sia sul piano letterario che storico. Tutto questo ha a che fare con una visione crociana. Il parlamentare deve conoscere, la politica è fatta di idee. Nomi come socialista oppure liberale sono spariti in nome dell’onestà».

Quando ripete capra vuole dire una parola d’ordine?

«È la parola d’ordine che fa sì che a me i giovani parlino come se fossi loro coetaneo, mi apre al mondo dei ragazzi. È vero io litigo e mando a fare in culo. Ma è una forma di linguaggio che ha a che fare con la questione estetica. È giusto riconoscere il nostro tempo difficile e di scontri. La parolaccia portata in tv non è volgare, appartiene al linguaggio della contemporaneità. Quello che sembra volgare in realtà corrisponde ad una intensificazione. I giovani mi sentono vicino perché ho superato la barriera delle convenzioni. Del resto la tv di trent’anni fa era fatta di cortesia e di inchini. Ho sconclusionato tutto, ho ribaltato gli schemi, credo di aver inventato io il reality e la gente fa quello che vuole. Mi comporto davanti alle telecamere come se non ci fosse una telecamera. Vivo in una dimensione singolare di libertà dalle forme. Noi siamo nati con la grazia, ma per difenderla».

Ha chiesto al Papa di andare a Mosca.

«Il covid è stata una malattia di Stato. Durante la pandemia il tampone ha interferito nella nostra dimensione privata. Io ho combattuto questa battaglia in difesa della libertà personale. E anche Elon Mask mi ha dato ragione. Ora è arrivato il l tempo della guerra. Ho detto a papa Francesco che deve andare non a Kiev ma a Mosca. Ciò che bisogna vincere è la pace che è tanto difficile. La guerra la si perde comunque. La guerra è qualcosa di arcaico e barbarico che non risolve nessun problema».

Dagospia il 9 maggio 2022. Da Un Giorno da Pecora.

La ferita che ho sul naso? “Me la sono procurata lo scorso 7 maggio sbattendo su di un vetro, mentre ero al telefono con Mario Draghi che mi aveva chiamato per farmi gli auguri”.  A raccontarlo, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Vittorio Sgarbi, che  è stato intervistato da Francesca Fagnani e Giorgio Lauro in occasione del suo 70esimo compleanno.   

“Durante la telefonata col premier sono entrato in un negozio che aveva la porta a vetri aperta, che la titolare ha chiuso subito dopo il mio ingresso. Non me ne ero accorto e ci ho sbattuto. Mi è partita pure una parolaccia, ho detto 'porca puttana'. E Draghi, dopo averla ascoltata, condivideva...”

Cosa vi siete detti col Presidente del Consiglio? “Gli ho fatto i complimenti per la sua 'postura', anche se non la condivido. Mi ha detto che stava leggendo un mio libro su Raffaello, ed era contento perché gli stava piacendo molto”. Silvio Berlusconi le ha fatto gli auguri? “Non mi ha fatto gli auguri e mi ha fatto anche un dispetto”. Quale? “Lui doveva venire ad un evento che avevo organizzato il 5 maggio ma tre giorni prima mi ha chiamato dicendomi che non poteva venire: l'ho mandato a quel paese”. Come si è 'giustificato'?

“Mi ha detto: scusami, sono dispiaciuto ma sai sono in luna di miele...” Al suo compleanno aveva invitato anche Giampiero Mughini, dopo la 'rissa' tv di qualche giorno fa? “No, non l'avrei invitato comunque al di là di quell'episodio ma devo ringraziarlo – ha detto Sgarbi a Un Giorno da Pecora -se non avesse fatto quella cosa saremmo state due cartoline l'una a fianco dell'altra...”

Grazia Sambruna per mowmag.com il 9 maggio 2022.

Risponde al telefono mentre sta facendo qualcos’altro. O meglio, mentre sta parlando di qualcos’altro. La linea è disturbata ma si evince che la conversazione in corso sia molto concitata. Soprattutto quando irrompe l’unica parola distinguibile tra le tante: “Coglione”. 

Siamo al telefono con Vittorio Sgarbi, in attesa di un’intervista che, dopo due minuti di caos indaffarato, parte con un affabilissimo “Eccomi”. Di “affabilissimo”, nel corso della conversazione, rimarrà ben poco.

A farne le spese, prima di tutto il vaccino per il Covid (“Se fosse efficace, uno dopo averlo fatto non dovrebbe ancora essere costretto ad andare in giro con la mascherina, il Tampax e quant’altro”), ma anche l’intellettuale Tomaso Montanari (“Chi è? Uno che parla di cul-tura?”) e soprattutto Chiara Ferragni (“Vecchia befana con un mezzo marito”).

Una pacatissima chiacchierata tra politica, Pornhub, arte e sesso (che Sgarbi non fa mai con la persona ama "perché sarebbe un’eresia chiederle: “Dammi il culo”). Blastate da novanta, ma anche parole di stima (verso pochi eletti) e un obiettivo: diventare ministro dei beni culturali. Ci riuscirà? Intanto progetta di candidare Vasco Rossi a sindaco nel modenese. Tenetevi pronti a un nuovo capitolo di #Sgarbeide allo stato puro. E mettetevi scomodi, andiamo a cominciare.

Partiamo subito con un po’ di polemica. Lei ha detto: “Hanno sostituito Dio con il vaccino”. Chi l’ha fatto?

Intanto io sono ateo quindi crederò nel Dio che voglio, no? Il problema di Dio è di quelli che ci credono. Io non credo a nulla quindi vaccino, mia cugina… chiunque e qualunque cosa può andare bene. Ho detto che quelli che credevano in Dio e andavano in chiesa, ora hanno messo il vaccino al posto di Dio. 

Cosa che mi pare affar loro. Vaccino poi che non è un vaccino, infatti non lo rendono obbligatorio e se non lo rendono obbligatorio vuol dire che non è testato, da qui si capisce che abbiano dei problemi a riconoscere che sia efficace. 

Lei si è vaccinato, però…

Sì, sono vaccinato. Io ho avuto il Covid, il cancro e ho anche fatto il vaccino. Se vado in un Paese dove, per esempio, c’è la malaria, per non prendermela, mi vaccino. Ma non pretendo che tutti quelli che vivono in quel Paese, facciano il vaccino anche loro.

L’importante è che lo faccia io. Se il vaccino è efficace, il vaccinato di cosa si preoccupa? Deve davvero fare catechesi per diffondere il vaccino? Lui si è vaccinato, quindi è a posto. Forse ha dei dubbi? Se uno non si vuole vaccinare, sarà lui che muore, mica io. È talmente logico! Se faccio il vaccino però poi devo ancora avere paura e quindi mettere la mascherina, il Tampax… allora perché l’ho fatto? A cosa mi serve? 

Lei perché l’ha fatto?

Perché ne ho parlato col mio dottore e io mi fido ciecamente dei medici: mi hanno curato il cancro. Il loro suggerimento è stato di fare una dose di vaccino e non due perché chi, come me, ha avuto il Covid ha già gli anticorpi e necessita di una sola somministrazione. 

Ha avuto effetti collaterali?

Non ho sentito il Covid quando l’ho preso, ho avuto il cancro, ho fatto il vaccino e zero effetti collaterali. Sono invulnerabile. 

Come giudica il fatto che molti personaggi noti, dagli intellettuali alle showgirl, si espongano contro il vaccino senza avere alcuna competenza per farlo?

Evidentemente avranno letto da qualche parte che il vaccino non ha questa efficacia così assoluta. Se bastasse farlo, non ci romperebbero i coglioni con le mascherine e tutto il resto, no? 

A proposito di opinioni, abbiamo recentemente intervistato Tomaso Montanari che di lei ha detto: “È molto chiaro cosa stia a cuore a Sgarbi e direi che non è più la cultura”…

Non so chi sia questo qua. Chi è? Comunque, la mia scelta è molto chiara: sono Presidente del Mart e ho fatto decine di mostre, le ultime sono ancora in corso. Non so cosa faccia questo Montaroli (sic) però io faccio quel che devo fare e ho un obiettivo.

Quale?

Voglio fare il ministro dei beni culturali. E lo voglio fare perché voglio chiamare persone colte a lavorare con me, quindi di certo non lui. Ma poi di cosa si occupa? Di vaccini? Davvero non ho idea… 

A proposito di persone che vorrebbe con lei in politica, parliamo della sua lista "Rinascimento". È vero che ha coinvolto personaggi noti come Enrico Montesano e Sergio Japino?

No, io ho chiamato Japino ma non Montesano. Il mio candidato comunque è Morgan. 

Perché lei punta su Morgan?

Trovo che sia una persona molto intelligente e sveglia. D’altra parte, mi pare che Rimbaud, Baudelaire e tutti i famosi “Maledetti” non fossero particolarmente riconosciuti per la loro condotta devozionale. Quindi tutto ciò che c’è di trasgressivo in Morgan lo ritengo giusto per rompere uno schema sociale in cui ci sono questi Stefano Montanari (sic) o come si chiamano che fanno delle dichiarazioni così tanto per. 

Una curiosità: ha mai discusso seriamente con Morgan?

Sì, in televisione. Fu un grande spettacolo chiuso dopo una puntata (“Ci tocca anche Vittorio Sgarbi” – Rai 1 a. d. 2011, ndr). C’era Morgan con me e l’ho fatto tacere perché mi stava interrompendo ma niente di che. Non ho mai avuto discussioni radicali con lui.

Peccato. Sarebbe stato un bello scontro fra titani. Tornando alla politica, c’è qualche altro artista che vorrebbe candidare?

Sì, Vasco Rossi nel Modenese. Mi piace molto. 

Il fatto che Vasco Rossi non abbia esperienza in politica lo ritiene ininfluente?

No no, anzi, è meglio! Quelli che hanno esperienza fanno talmente schifo… Basti vedere la Raggi: moltissima esperienza ma sarebbe meglio metterla nel cesso e tirare l’acqua. 

Spostiamoci da Roma a Milano, città di cui lei è stato Assessore alla Cultura dal 2006 al 2008…

E sono stato cacciato. Sa perché? Perché avevo fatto la mostra Arte e Omosessualità. Capisce? Ero talmente avanti che prima che Fedez nascesse, io affrontavo pubblicamente queste tematiche e sono stato appunto cacciato perché la Moratti non era d’accordo. 

Chi vedrebbe bene nel ruolo di Assessore alla Cultura milanese oggi? A parte Fedez, s’intende…

Potrebbero andare benissimo Davide Rampello o Davide Rondoni, entrambi molto capaci. O anche Morgan.

Stiamo sull’arte: ho letto che ha sentito parlare della diffida che gli Uffizi hanno mandato a Pornhub per via del progetto Classic Nudes…

Certo che ne ho sentito parlare, ne ho scritto su Panorama. Io l’unico di cui non ho mai sentito parlare è quel Montanarini (sic). Comunque, riguardo a questa polemica, dico che ognuno può interpretare l’arte come gli pare, anche in un modo che non ti piace. Resta legittimo. 

A lei è piaciuta l’interpretazione di Pornhub?

Beh, se volessero farlo per il Mart gli darei volentieri l’autorizzazione, una volta pagati i diritti. Fatto questo, chiunque può fare ciò che vuole di quel che vede. La Venere di Botticelli può essere interpretata in chiave porno? Certo, pagando i diritti per utilizzare quell’immagine. 

Per sponsorizzare il rientro nei musei dopo i lockdown, sono stati in molti a ricorrere agli influencer di cui lei pare, però, non avere molta stima. È sua infatti la massima: “L’influencer è un pirla sfaticato che lucra su dei pirla danarosi incapaci di scegliersi da soli un paio di scarpe da pirla”. La pensa ancora così?

Adesso penso anche peggio perché secondo me il pirla, cioè l’influencer pirla, non è capace neanche di scegliersi le cose per sé. Come quella lì che si chiama Ferragni o Merdagni… ha degli zatteroni talmente schifosi che avrebbe bisogno di un influencer che le dica cosa prendere perché lei non sa quel cazzo che fa. Cioè già ha preso un fidanzato che non si può guardare, un mezzo marito. E poi, non contenta, si è tirata su degli zatteroni che fanno più schifo del marito. Per cui, a parer mio, avrebbe davvero bisogno di qualcuno che la influenzi. 

Beh, qualcuno tipo lei, magari. La Ferragni potrebbe comprare una delle sue magliette con la scritta “Capra”… 

Brava! Per poi indossarla e farla vedere al mondo dicendo: “Io sono capra”, ovvero quello che è.

In effetti anche lei con oltre mezzo milione di follower su Instagram è un influencer, Sgarbi…

Sì, però tenga conto che ne ho 2 milioni e mezzo su Facebook, anche. 

Poi appunto ha fatto pure il merchandising ufficiale tra magliette e power bank col suo nome, proprio come i veri influencer…

Certo. Ma uno che compra delle cose da me ha un gusto raffinato.

Quindi lei, nonostante sia un influencer, non è un “pirla sfaticato”?

No, sono decisamente più raffinato come lo è chi acquista da me. Quelli che comprano dalla Ferragni sono un milione di sfaticati incapaci che comprano perché vedono questa vecchia befana che, a fianco di un rincoglionito, propone delle cose per scemi. 

La “vecchia befana” sarebbe la Ferragni?

Sì, ormai sì. È anzianotta. 

La pornostar Malena invece, sua grande amica, quanti anni ha?

È mia amica ma non so quanti anni abbia. A Roma c’è bisogno di un capolista e ci metterei subito Malena. Così il Vaticano sarà contento. 

A questo punto si potrebbe coinvolgere anche Rocco Siffredi…

Si potrebbe, però è troppo anziano. E poi Siffredi lavora dove io mi diverto. 

Per esempio, nel campo del sesso orale che, a sua detta, è come il parmigiano…

Ma questo l’ha detto lui o l’ho detto io? 

L’ha detto lei!

Ah, mi è uscita proprio bene! 

Tornando al merchandising di Sgarbi, ho letto che si tratta di un’idea della sua compagna. È vero?

Verissimo. È un’idea della mia fidanzata Sabrina Colle e del suo amante, Ippolito. Lavorano insieme a delle stronzate di questo tipo.

Voce femminile indistinguibile 

Ma è lì presente?

La mia fidanzata è qui presente. E anche Ippolito. 

Ah bene, salve a tutti allora. Capitate giusto a proposito: nel 2019 ha detto dalla d’Urso che lei e la sua fidanzata non fate l’amore dal ’99. È tuttora così?

Confermo. Non facciamo l’amore dallo scorso millennio. È stato un accordo: come c’è il sesso senza amore, c’è l’amore senza sesso. Anzi, andare a letto con la mia compagna è quasi un’eresia, un peccato mortale. Come fa uno a scopare la donna che ama? È brutto. Le puoi dire “Dammi il culo!”? Come fai a chiederlo alla persona che ami?

Quindi lei fa l’amore solo con persone che non ama?

Solo con persone che non amo, esattamente. Anche se non vorrei scandalizzare Montanarini (sic). Perché mi pare che lui parli di cul-tura, no? Ma non importa, quello che voglio dire è che la felicità amorosa è una cosa, mentre il sesso deve essere libero, cieco: l’uccello è senza occhiali.

Stando su questa meravigliosa immagine, quand’è l’ultima volta che il suo è stato senza occhiali?

L’ultima volta che ho fatto l’amore è stato il 6 febbraio di quest’anno. 

Se lo scrive sul calendario, in genere?

No. Poi mi sono ritirato. Mi hanno messo un catetere nel buco del culo e ho avuto altre priorità. 

Si è ritirato ufficialmente, possiamo dire?

Mi è venuto il cancro e mi sono dovuto ritirare. Ma l’intervista è stata registrata?

Sì, l’ho registrata e verrà trascritta.

No, ma non chiedevo a lei. Lo domandavo qui e mi confermano: è stata registrata anche da noi. Quindi poi possiamo…Possiamo litigare?

Vittorio Sgarbi: “La politica in Italia? Gente che ruba nei cimiteri!”. Edoardo Sylos Labini il 7 Maggio 2022 su Culturaidentita.it.

Domani compie 70 anni il mitico  Vittorio Sgarbi, l’inarrestabile animatore culturale più folle e sincero della scena politica italiana. Festeggia su un grande nave che sul Po transiterà per la sua Ferrara con oltre 200 invitati. Il re delle risse in tv (l’ultima con Mughini è stata un remake comunque divertente nel mortorio generale), dice che Carmelo Bene e Pasolini lo hanno influenzato ed è pronto all’ennesima campagna elettorale con il suo movimento Rinascimento. Con noi di CulturaIdentità il Vittorio Nazionale collabora spesso, tanto che lo avremo alle V edizione del nostro Festival a Senigallia; ma per omaggiare i suoi 70 anni politicamente scorretti vi proponiamo un’intervista cult che gli feci 8 anni fa, quando definì la classe politica italiana “ladri che rubano al cimitero”, ispirandosi ad un famoso quadro di Magnasco. Tanti auguri Vittorio! Sempre al fianco delle tue pazzie

Mi racconti una episodio alla Sgarbi dell’inizio della tua carriera?

Era il 12 dicembre del 1974, il giorno della mia laurea in Filosofia. Avevo tutti 30 e lode e avevo fatto una tesi in Storia dell’Arte su Giovanni Buonconsiglio detto ‘il Marescalco’, pittore di fine ’400, inizio ’500. Tutto era buono, corretto, guardato con una certa attenzione dal relatore. Il giorno della discussione della tesi incontro la correlatrice, Anna Ottani Cavina, che dice addirittura che la tesi era precisa, minuziosa nelle date, quindi tutto tranquillo. Comincio la discussione, spiegando tutto quello che avevo fatto e vengo interrotto proprio dal relatore, che comincia a fare una serie di rilievi, di critiche, rincalzate proprio dalla Ottani Cavina! Preso tra due fuochi, non reagisco con bonomia e la discussione finisce in un incidente violentissimo, il relatore mi aggredisce, io rispondo… vengo pregato di uscire e quando rientro il Presidente della Commissione, Luciano Anceschi, mi conferma il 110 e lode!

Insomma il battesimo con la laurea?

Avevo cominciato ancora prima, con il mio primo esame, che era di italiano. Un mio bravo professore, Walter Moretti, osò dare a me, che avevo sempre preso 9 o 10 nei temi, un 6– o 5½ in un tema su Giambattista Vico che avevo articolato molto bene; il fatto era che non aveva letto bene la mia calligrafia! Arrivammo all’esame, era il 1970, gli feci una sceneggiata rifiutando il voto e dicendogli che doveva imparare a leggere! Era molto timido, rimase molto turbato, ma ammise che aveva torto e mi diede 30 e lode. Il mio primo 30 e lode l’ho conquistato con la lotta e con la violenza dialettica, sostenendo che il voto basso – per me irricevibile, come le critiche alla tesi di laurea – era determinato dal fatto che non aveva letto bene la mia calligrafia e non poteva non riconoscere la bontà di alcuni collegamenti che avevo fatto e che mi sembravano degni di molta attenzione. Rivendicai, allora diciottenne, la mia dignità letteraria e la capacità di affrontare un tema come quello senza essere guardato come uno che lo affrontava in maniera insufficiente.

E di quelle meraviglie d’Italia, di cui parli nel tuo libro “Il Tesoro d’Italia”, la lunga avventura dell’arte?

Quello è un libro fondamentale, non tanto rispetto alle novità, perché non c’è alcuna novità sostanziale, che comunque destino a una rubrica su Sette del Corriere della Sera, in cui presento ogni settimana un’opera sconosciuta di un autore sconosciuto, opere interessanti trovate in luoghi nascosti o in depositi o scoperti nella ricerca di mercanti d’arte, ma degne di interesse. Questo è il divertimento sommo del mio lavoro. “Il Tesoro d’Italia” è invece la rappresentazione di quello che c’è davanti agli occhi di tutti, ma che è largamente ignorato, se non dagli studiosi. Gli argomenti sono organizzati secondo lo schema dei libri di testo di Storia dell’Arte, con la differenza che i libri di scuola sono generalmente freddi e meccanici nel presentare una Storia che sembra obbligatoria per come è costruita. Invece gli stessi temi, che rappresentano un tesoro che tutti dovrebbero conoscere, sono affrontati da me in una dimensione letteraria, o evocativa, o di racconto, in un ‘libro di testo’ per adulti che hanno finito le scuole. Come alla musica si arriva per desiderio, per scelta, la Storia dell’Arte si raggiunge quando a un certo punto, prendendo le guide del Touring, si comincia il giro d’Italia e ci si accorge dei grandi capolavori. “Il Tesoro d’Italia” è un ‘libro di testo’ per un ideale viaggiatore che ha dai 25-30 anni in avanti e che può godere delle emozioni che le opere d’Arte danno. Esiste la possibilità di raccontare l’arte attraverso le suggestioni, le emozioni e il piacere che essa trasmette. Nel suo bellissimo libro “L’uovo di Marx” Flaiano proponeva una soluzione per riuscire a frenare l’ondata montante del Comunismo, che dilagava nel mondo degli intellettuali e della scuola: renderlo materia scolastica obbligatoria, così le persone appena uscite da scuola non avrebbero più voluto sentirne parlare! Il mio libro sottende inoltre il concetto di economia legata all’arte: l’Europa ha proposto, tra i tanti limiti, delle quote – di patate, di arance, di latte – e ogni Paese deve limitare la produzione in rapporto agli altri. Le ‘quote d’arte’, essendo un presente già maturato e prodotto, non possono essere limitate, perché solo a Modena ci sono più opere d’arte che in tutta la Germania. Questo ci rende ricchi senza soggiacere al ricatto delle quote che dovrebbero limitare la quantità di bellezza, che in Italia è soverchia e quindi è un tesoro che altri non hanno. Dal punto di vista patrimoniale abbiamo una sconfinata ricchezza, il problema è di vederla e conoscerla, perché è nascosta, occulta, privata.

Quanto è importante oggi l’entrata del privato nel mondo artistico e culturale e dell’intrattenimento culturale italiano?

Lo Stato dovrebbe essere l’insieme dei beni che lo Stato possiede e degli interventi economici. Il privato, quando interviene attraverso finanziamenti e contributi per il bene pubblico, fa qualcosa non per sé ma per tutti, quindi il privato diventa Stato e il suo contributo deve essere accolto a cuore aperto. Da questo deriva che lo Stato non è l’articolazione delle diverse proprietà, ma la coscienza del bene: chi ha coscienza del bene rappresenta lo Stato perché assume su di sé la tutela, quindi se una Fondazione o qualunque ente privato contribuisce al bene pubblico, diventa Stato. Lo dice il concetto che è implicito nella parola ‘privato’, che significa ‘ciò di cui siamo privi’: siamo ‘privi’ di molti beni pubblici, spesso nascosti, chiusi, mal gestiti. Il Museo Guggengheim di Venezia, la più importante raccolta di arte contemporanea in Italia, la più visitata e quindi la più pubblica, è un museo privato americano, eppure funziona meglio dei musei pubblici! Nel concetto di ‘pubblico’ e ‘privato’ c’è l’equivoco della ‘proprietà’ del bene rispetto alla ‘coscienza’ del bene: chi ha la coscienza del bene agisce conseguentemente, fa il bene di tutti e quindi si fa Stato. Se una Fondazione, o qualunque attività privata, riesce a ottenere il risultato di rispondere alle esigenze dei cittadini, in quel momento essa è lo Stato, mentre lo Stato, con la sua negligenza rispetto a molti interventi e a molti luoghi, diventa privato, ovvero qualcuno che egoisticamente impedisce la conoscenza e il godimento dei beni a tutti.

Perché nessun Presidente del Consiglio ti ha mai nominato Ministro?

Mi hanno nominato Sottosegretario, dopodiché ho fatto il Vice Ministro, dopo un anno mi hanno rimosso, per ragioni politiche o ragioni personali. Berlusconi era una speranza politica non perché fosse bravo o avesse dei meriti, ma perché era fuori dall’establishment. Quello che nessuno ha capito è che in Italia la contrapposizione non è tra destra e sinistra, ma tra poteri consolidati e libertà. Il Popolo della Libertà ha indicato e stabilito la possibilità di gestire il bene pubblico senza raccomandazioni, lobby, iscrizioni al partito. Purtroppo Berlusconi non ci è riuscito, è fallito il tentativo di creare un potere alternativo a quello consolidato dei partiti, dei sindacati, delle organizzazioni. In quella dimensione io potevo diventare Ministro – e non lo sono diventato – perché sono fuori da ogni potere organizzato, da ogni protezione, tutela o garanzia legata alle tessere dei partiti.

Se dovessi rappresentare l’Italia politica di oggi con un quadro italiano?

Nessuna opera italiana è così indegna da rappresentare un paesaggio di rovina e disperazione. La rappresenterei con un quadro di Magnasco che rappresenta un furto al cimitero, della gente che ruba nei cimiteri e il diavolo che viene per portarli via. (n.d.r. visioni profetiche di un intellettuale libero)

Il compleanno di Vittorio Sgarbi: "I miei 70 anni vissuti contromano tra arte, risse e 1.500 amanti". Concetto Vecchio su La Repubblica il 6 Maggio 2022.

Intervista al critico e deputato.  La passione per i quadri e per le donne, la politica e le ultime liti in tv del sindaco di Sutri che non rinuncia al ruolo di enfant terrible. "Sciando durante il lockdown ho scoperto un tumore che ho preso in tempo: dal 2015 ho smesso di considerarmi invincibile". Il racconto del rapporto con il padre. E con la sorella Elisabetta. 

L'appuntamento con Vittorio Sgarbi, che domani compie 70 anni, è a mezzogiorno a Firenze. Ma alle quattro del mattino ha inviato questo messaggio Whatsapp: "Non ce la faccio ad arrivare. Sentiamoci al telefono". 

Che cosa le è successo?

«Certe notti combatto con un residuo del cancro alla prostata, che ho sconfitto. Spesso devo correre alla toilette e quindi non ho chiuso occhio». 

Quando ha scoperto la malattia?

«Durante il lockdown facevo fondo ad Asiago. Mi si sono gonfiate le caviglie. Il medico, l'ex parlamentare Mario Pepe, quando ha visto l'esito delle analisi mi ha abbracciato: "Hai un tumore, ma non vedo metastasi"». 

Che cure ha fatto?

«Quaranta radiazioni, al Sant' Elena a Roma, seguito dal professor Giuseppe Sanguineti. Ho fatto portare un quadro di Adelchi-Riccardo Mantovani e l'ho appeso al soffitto: lo guardavo mentre mi bombardavano». 

Cosa pensava in quei momenti?

«Ho smesso di ritenermi invincibile. Già nel 2015 avevo rischiato di morire». 

Come andò?

«Ero a Brescia, e di notte aprirono le chiese solo per me. Poi, sfinito, dissi all'autista di portarmi a Firenze. Lungo il tragitto cominciai a sentire un gran peso sul cuore, dopo Mantova gli chiesi di uscire dall'autostrada e di raggiungere l'ospedale più vicino, a Modena. Svegliarono il primario e mi operarono. "Ancora mezz' ora e lei sarebbe morto", mi disse il dottor Cappello. "Sarei morto a Roncobilaccio, non mi sembrava il caso", risposi».

Ma lei non è cambiato, a giudicare dalla rissa con Mughini.

«Non ho fatto niente stavolta, è stato lui a colpirmi». 

Non l'ha provocato?

«Ho difeso Al Bano che stava raccontando del suo rapporto con Putin». 

Cosa deve dimostrare ancora a se stesso con queste gazzarre?

«Niente, ma la mia tv è fatta di imprevisti e incidenti». 

Maurizio Costanzo cosa le ha detto?

«Ci vuole in trasmissione per fare pace. È un po' una sceneggiata, vediamo, dai». 

Com' era da ragazzo?

«Mi chiamavano Ucialina , perché portavo gli occhiali. Mi piaceva stare con quelli più grandi. Quando venne Montale a Ferrara si divertì perché fu interrogato da Pazzi, Felloni e Sgarbi. Roberto Pazzi poi divenne poeta e scrittore». 

Che ambizioni aveva?

«La mia unica regola morale è rispettare le scadenze. Presi la patente a diciotto anni, la laurea a 22, a 40 ero parlamentare». 

È vero che mandò a quel paese il relatore della tesi di laurea?

«Era un importante storico dell'arte, Carlo Volpe. Mi cacciò dicendomi che avevo un brutto carattere, salvo poi richiamarmi per darmi 110 e lode». 

Primo lavoro?

«A 24 anni ero ispettore delle Belle Arti a Venezia, conobbi Pasolini, Borges, Arbasino. Giulio Einaudi mi chiedeva di accompagnarlo per le calli, era attratto dal mio dongiovannismo, le donne della bella società veneziana volevano conoscermi, ogni tanto ne incontro qualcuna, signore che oggi hanno 80 o 90 anni: "Vittorio, ti ricordi di me?". «Eh!», faccio io. Lì realizzo quanto sono diventato vecchio». 

È cresciuto in una famiglia colta.

«Papà giocava a tennis con Bassani». 

Suo padre confessò ad Antonio Gnoli di essere in ansia per i suoi eccessi.

«Chi fosse veramente mio padre l'ho scoperto leggendo i suoi libri. Il primo l'ha pubblicato a 93 anni. Era uno scrittore e non lo sapevo». 

Che genitore è stato?

«Aveva in casa l'intera collezione della Biblioteca Bur, leggeva Anatole France, m' introdusse a Céline; era un borghese abitudinario, il farmacista di Ro Ferrarese, un uomo che privilegiava l'ombra, con un suo senso intimo della tradizione». 

Pupi Avati ha fatto un film dal libro "Lei mi parla ancora".

«Sì, il racconto di sessant' anni di matrimonio con mia madre». 

Ha avuto una vita sentimentale che è l'opposto rispetto a quella dei suoi genitori.

«Forse è stata una reazione».

In che senso?

«Assistendo alle tensioni tra mia madre e mio padre ho capito che la vita di coppia non faceva per me. Vede, l'eros è anche una forma di conoscenza dell'altro, ed è quel che si addice alla mia natura inquieta». 

Perché litigavano i suoi?

«Conflitti caratteriali. Mamma voleva muoversi, papà preferiva pescare. Mia madre era una forza della natura, ha sempre parteggiato per me, quando tornavo a casa dicendo che mi ero picchiato con un compagno mi difendeva: "La prossima volta dagli due pugni in più", diceva». 

Quindi ha cercato un modello di vita non borghese?

«Sì, vedevo mio padre vittima di mia madre, l'uomo in un certo senso era lei. E come se per tutta la vita avessi sentito il bisogno di riscattare questa condizione di minorità».

Una rivalsa?

«Tutte le donne che ho avuto, sono più di 1.500 credo, le ho conquistate e dedicate a mio padre e a mio zio, Bruno Cavallini, grande letterato, lasciato dalla moglie perché gli aveva trovato le lettere d'amore scritte dall'amante». 

Un giudice chiese di sottoporla a perizia psichiatrica

«Non sono matto, sono libero. Ho fatto quello che volevo».

Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2022.

Vittorio Sgarbi si presenta al Parco dei Principi alle tre del pomeriggio: è il giorno della prima assemblea di Rinascimento, il partito che correrà da solo alle Amministrative di primavera; né con la destra, né tantomeno con la sinistra. «Perché - sostiene - andando da soli accoglieremo e raccoglieremo tutti quelli che non trovano più soddisfazione in partiti che hanno tradito quello che avevano detto, anche nel centrodestra». 

Le liste di Rinascimento ci saranno almeno in 70 Comuni e avranno al loro interno «persone coraggiose che hanno avuto ragione nei tribunali d'Italia su tutta la linea, perché ritenevano ridicolo aprire i ristoranti dalle 5 del mattino alle 18. Tutte le multe erano illegittime. Abbiamo vissuto in uno Stato illegale, voluto da un governo che ha stabilito misure senza senso». Il riferimento di Sgarbi è al cartello «Io Apro». 

Non a caso, al fianco del critico d'arte ci sono Momo El Hawi e Umberto Carriera, i due leader di «Io Apro», che poco prima dell'inizio della kermesse mettono in scena una protesta. Succede che tanti non hanno il green pass e di conseguenza non possono varcare l'ingresso dell'albergo. E allora Momi si presenta in sala e annuncia: «Centinaia di persone sono sprovviste di green pass, porteremo le sedie fuori dal parcheggio». 

Ognuno si porta con sé una sedia. «Non potete occupare il suolo pubblico», interviene lo staff dell'hotel. Arriva la polizia. Sedie all'interno, chi ha il green pass prova a rientrare. Alle 15 l'arrivo di Sgarbi che cerca di placare gli animi: «La legge va rispettata». In questo clima comincia l'assemblea. Dettaglio: pochi in sala portano la mascherina.

 Vittorio Sgarbi e la rissa con Mughini: «Io intemperante? No, sono mite per 23 ore e 55 minuti...». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 7 Maggio 2022.

Le risse, come quella al Maurizio Costanzo show con Mughini? «Dopo mi pento. Ma i giovani vogliono me». Il critico d’arte compie 70 anni. 

Vittorio Sgarbi è critico ed esperto di arte, curatore di importanti mostre internazionali.

Vittorio Sgarbi, con che spirito arriva, domani, ai 70 anni?

«Con una grande malinconia, con l’idea di aver vissuto più del tempo che vivrò e che quello che ho vissuto è stato così intenso da impedirmi qualsiasi lamento e condizione di infelicità».

Lo Sgarbi delle risse tv, l’ultima con Giampiero Mughini, è così intemperante anche nella quotidianità?

«No, sono mite. Posso fare una scenata se trovo un errore su un catalogo, ma si spiega con la formula che mia madre definiva dei cinque minuti: la giornata è fatta di 24 ore; per 23 ore e 55 sei normale, ma sugli altri cinque minuti si costruisce la tua leggenda».

Sua madre Rina Cavallini, raccontò che, a scuola, lei veniva vessato e picchiato dai fratelli Manzoli. Quando il bimbo bullizzato diventa un bullo intellettuale?

«Quella, in effetti, fu una scuola di vita che ha determinato la mia reattività. Dopo, al collegio dai Salesiani, trovai mille obblighi, l’orario, le messe tutti i giorni. In biblioteca, c’era l’elenco dei libri proibiti, divisi per categorie: C3 erano quelli “cautela, per adulti”. Erano consentiti Cuore e forse Pinocchio. Un prete trovò nel mio banco Senilità di Italo Svevo. Furono chiamati i miei genitori. Che, invece di difendermi, si scandalizzarono. Vidi una cosa logica trasformarsi in peccato. Il preside disse: dovrebbe leggere I dolori del giovane Werther . E io: C3, è vietato! Fu un colpo sgarbiano formidabile. I miei videro lì lo Sgarbi che iniziava a nascere. Sono state le proibizioni a portarmi alla trasgressione».

E che c’entra trasgredire con la violenza verbale?

«Questa è conseguenza dell’ispirazione di zio Bruno, fratello di mamma, grandissimo letterato. La sera, si parlava di politica e zio primeggiava sempre, aveva un tono polemico, argomenti che mi sembravano giusti. Fu una specie di transfert».

La folgorazione che si può prevalere con la cultura, anziché con la forza fisica?

«Esattamente».

Che cosa scatena lo Sgarbi fumantino che conosciamo?

«Un temperamento di fondo fatto di socievolezza: io sono accogliente, sono per gli imbucati, sono per i profughi, sono come Pier Paolo Pasolini per cercare di convertire chi mi odia, ma se qualcuno supera il confine, divento quell’altro Sgarbi. È un incidente imprevisto che lo scatena».

«Incidente imprevisto»? Non esibizionismo?

«Per me, passione e ragione significano: io ho passione, io ho ragione. Nel 1989, vado al Costanzo Show e, la prima volta, dico str..a a una preside, la seconda volta faccio piangere la fotografa Letizia Battaglia, la terza dico che voglio vedere morto Federico Zeri. Fino ad allora, guardavo la tv con distacco, lì ho capito che ha una velocità straordinaria nel trasmettere le idee. Oggi, sui social, ci sono mie risse vecchissime e perciò sono l’unico della mia età a cui giovani chiedono selfie. Il mio pensiero sta vivendo per un tempo più lungo che per i miei coetanei».

La conoscono per le risse e questo la rende fiero?

«Più che fiero, mi rende esistente. Un intellettuale per strada non esiste, il suo pensiero è chiuso nei suoi libri».

Quando si è dispiaciuto di aver esagerato?

«Sempre, subito dopo. Come ogni buon coccodrillo. Dopo, non per finta, dico: potevo risparmiarmelo. Ma la verità è che non potevo: era un flusso inarrestabile».

Ha tre figli da tre donne, si è definito un padre preterintezionale. Lo spirito della paternità l’ha mai sfiorata?

«Poco. L’ultima, Alba, mi commuove per la sua delicatezza e perché mi ha salvato dall’annegamento in mare. Non ero in reale pericolo, ma si è buttata per salvarmi».

Per che cosa ha pianto?

«Ho pianto ai funerali di zio Bruno. Ha avuto un infarto, come è successo a me, ma lui era solo. Il giorno in cui se n’è andato, in casa mia è entrato un San Domenico di Niccolò dell’Arca, uno scultore rarissimo, il cui spirito ha preso il posto di mio zio in casa. E ho pianto alla mostra di Caravaggio a Rovereto, aperta fra mille polemiche, poi chiusa per Covid, vedendo arrivare comunque tante persone».

La sua collezione d’arte è celebre, di quale acquisto è più orgoglioso?

«Le opere sono il modo in cui traduco il denaro in spirito. So trovare dipinti antichi a cifre contenute. Comprai un Guercino in Texas con 280 mila dollari che Corrado Passera mi fece prestare dalla banca. È sempre così: se hai i soldi, non trovi i quadri e, se trovi i quadri non hai i soldi».

Un’opera che ha rimpianto di non aver comprato?

«Tante. Una Pietà di Bellini murata in una cappella privata è uno dei pensieri stabili di ciò che avrei voluto avere».

Un libro che ha scritto che è felice di lasciare ai posteri?

«Tutti quelli su autori su cui non si era mai pubblicato, come Niccolò dell’Arca, Antonio da Crevalcore. E tutta la storia dell’arte pubblicata da mia sorella Elisabetta».

Sua sorella sostiene che lei sia molto sensibile.

«Abbiamo perso tutti i parenti. Sono diventato il suo figlio unico. Ma un aneddoto sulla sensibilità ce l’ho… Settimana scorsa, scopro che Lino Capolicchio stava morendo; sapevo che aveva dato un libro a Elisabetta. Le ho detto di pubblicarlo subito, poi ho chiamato lui. Era in ospedale, l’ho sentito passare dalla morte all’entusiasmo. L’ho fatto per farlo andare via felice».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 24 marzo 2022.

Vittorio Sgarbi può fare tutto quello che vuole. Può farlo lui e nessun altro. Qualsiasi cosa faccia, ha meno importanza del fatto che l'abbia fatta lui, insomma ci siamo capiti. Qualsiasi cosa faccia è ciò che direttamente o di riflesso desidera per se stesso: libertà. Non è l'unico uomo libero di questo Paese, ma è tra i pochi a tollerare che lo siano anche altri: è cioè un libertario - si dice - in un Paese che di libertari ne ha sempre avuti pochi, per varie ragioni. 

Quindi, ieri, non ha fondato nessuna lista o partito con i ristoratori di «Io apro», non ha lanciato politicamente nessuno, tantomeno Umberto Carriera, il ristoratore che si era rifiutato di chiudere il suo locale (e che ora Sgarbi vuole sindaco di Pesaro) e non ha lanciato neanche Biagio Passaro, il tizio fermato durante l'assalto alla Cgil di Roma. Sgarbi, ieri, ha solo fatto un tagliando a se stesso: così, per noia.

Comunque facciamo il nostro dovere e aggiungiamo qualche dettaglio: il «noto critico d'arte» (che non lo è: è Sgarbi) vuole presentare una lista alle amministrative «in almeno un centinaio di comuni» e ha straparlato di correre anche alle prossime elezioni politiche. 

Ha già previsto anche un'assemblea nazionale per questa costola del suo più globale movimento «Rinascimento», che forse non è mai decollato veramente (per noia anche questo, forse) anche se alle comunali di Roma ha preso l'8 per cento, mica capre. Questa costola, ora, si chiama «Io apro» e fa riferimento a tutti i vari «No Green Pass» e «Free Vax» (nuova definizione) che Sgarbi vuole coagulare affinché rappresentino ciò che unicamente potrebbero rappresentare: Sgarbi.

Di tutto il resto non ce ne frega niente. Anzi, non siamo neanche d'accordo - non lo è chi scrive - nel definire come «defraudati dalle scelte governative» gli elettori che vorrebbe rappresentare. Del resto, dall'11 giugno 2001 al 25 giugno 2002, al governo non c'era mica un Sottosegretario ai Beni culturali: c'era Sgarbi. 

Dal 9 dicembre 1992 al 24 dicembre 1993, a San Severino Marche in chissà quanti altri comuni (ultimo Sutri, Sicilia) mica c'è stato un sindaco: c'era Sgarbi. Vale per vari assessorati ancora in Sicilia o anche a Milano con Letizia Moratti sindaco: l'uomo non usurpava né superava la carica, la cancellava proprio. 

Deputato Sgarbi, Liberale (nel senso di Partito) e poi di Forza Italia, gruppo Misto, ancora Forza Italia, ancora Misto, ancora Forza Italia, ancora Misto ma non iscritto al gruppo, poi Alleanza di Centro di Francesco Pionati: ma che, scherziamo? Pionati? Sgarbi. Sgarbi e basta. Anche da europarlamentare: Sgarbi.

Era già Sgarbi anche quel tizio che nel 1992 comparve nudo sulla copertina dell'Espresso (a ruota di Luciano Benetton) e quello che più di recente non si è fatto problemi nel farsi vedere mentre defecava sul water: chiunque altro sarebbe stato pregiudicato anche per l'ottenimento di un posto da parcheggiatore abusivo allo stadio, lui, invece, capace che domani te lo ritrovi ministro. E tutto senza certa volgarità popolana funaresca (Vittorio non ve lo dirà mai, ma la gente, a Sgarbi, fa schifo) e senza rinunciare a quella perdizione istintiva dei sensi per cui «Io apro» dovrebbe essere il nome del circolo di ragazzine a tardone che ne insegue regolarmente la scia, e che continuerà a farlo anche quando cadrà a pezzi. -'fé' . fji' M Per il resto - e sia detto che anche alla redazione di questo giornale - ma che vuol dire «ritratto di Vittorio Sgarbi»?

Rendetevi conto: parliamo di politica? Allora è stato candidato col Pci, col Psi, con la Dc-Msi, col Pli, con Forza Italia, con l'Unione federalista, con la lista Pannella-Sgarbi (esplosa subito: frammenti di ego hanno ormai raggiunto Proxima Centauri) e poi coi Liberal Sgarbi (fondati da lui), i Radicali, la Lista Consumatori, il Movimento per le Autonomie, la Rete Sgarbi-Riformisti e liberali, il Partito della Rivoluzione-Laboratorio Sgarbi, Intesa popolare, i Verdi, Noi con l'Italia, Alleanza di Centro e Cambiamo!: e magari, ora, dovremmo anche cercare una specificità in questa «Io apro». 

Ah, è stato anche iscritto alla federazione giovanile del Partito Monarchico. Un ritratto oltre la politica, intendevate? Ossia? Il critico d'arte? Lo storico dell'arte? Il saggista, il personaggio televisivo, l'opinionista, l'irascibile, gli insulti e le aggressioni? O vorreste sapere tutti i figli che ha? Probabilmente gli daremmo una notizia, a Sgarbi. Volete sapere delle condanne? Le querele? I libri? Le videocassette? I dvd? La direzione dei teatri? No?

Volete sapere della sua unione aperta (molto) con Sabrina Colle che prosegue dal 1998? Volete sapere perché augurò la morte al critico Federico Zeri? Volete sapere degli schiaffi con Roberto D'Agostino? O di quando cercò di rompere l'embargo internazionale imposto alla Libia di Gheddafi e violò il blocco aereo e atterrando a Tripoli con un Piper? Devo raccontarvi del mio rapporto personale con lui? Di quando conobbi sua madre?

Di quando neanche trentenne (io) mi ospitò a Sgarbi Quotidiani? Allora da capo, in una frase: Vittorio Sgarbi è l'uomo che il 12 ottobre 1993, quando il Parlamento dei poveracci abolì parzialmente l'immunità parlamentare (articolo 68) con relatore il democristiano Pier Ferdinando Casini, con la complicità di tutti i partiti e il voto favorevole persino dell'ipergarantista Tiziana Maiolo, Vittorio Sgarbi, ecco, a nostra conoscenza è l'unico che votò contro. Fine. È quello lì, Sgarbi. Il resto sono capre. 

·        Walt Disney.

Stefano Giani per "il Giornale" l'1 gennaio 2022.  Che mondo sarebbe, il nostro, se Walt Disney non fosse mai esistito? Se, alla fine degli anni Venti del secolo scorso il coniglio Oswald non si fosse trasformato in Topolino? Se il futuro padre dell'animazione avesse continuato a vendere bibite sui treni? O se Charlie Chaplin l'avesse adottato?  

Invece, dalla sua mente e dalla penna del disegnatore Ub Iwerks, incontrato in un'agenzia pubblicitaria di Kansas City, nacque una favola che, un secolo prima della globalizzazione, unì grandi e piccini a ogni latitudine. Studiosi. Registi. Specialisti. Lo specchio di quanto sia esteso quel mondo glocal (in anticipo) sta nel numero e nella varietà dei personaggi che, davanti all'universo Disney, non sono rimasti indifferenti. 

È la magia di un sogno. O forse il Sogno. «Dici alla montagna "Spostati". E quella si sposta. Dici alla piovra di essere un elefante e quella diventa un elefante. Dici al sole "Fermati!". E lui si ferma». Sergej Ejzenstein lo aveva descritto così quel pianeta fantastico, vicino e lontano al tempo stesso dalla mente di ognuno. Accogliente e traumatico in una coincidenza di opposti che sembra una beffa ma dimostra come lasciarsi rapire sia facile. 

«Tutti i film di Mickey Mouse hanno in comune la sostanza delle favole. Partire per imparare a conoscere la paura». Walter Benjamin, il filosofo che studiò l'opera d'arte nel secolo della sua riproducibilità tecnica, aveva scelto queste parole per descrivere l'anima della galassia Disney. Storia di un uomo che, nel '27, gli squali li incontrò davvero. 

Nella «vasca» della Universal era approdato per strappare un contratto più vantaggioso per Oswald, il coniglio fortunato, ma si accorse che a non essere stato fortunato era lui. Con la rapacità tipica di un mercato che in nome del profitto avrebbe sacrificato qualsiasi cosa, il prodigioso animaletto gli era stato sottratto da imprenditori senza scrupoli. Lesti a rubargli perfino i collaboratori. 

Da quel viaggio a Hollywood, Walt tornò con la delusione dei suoi 26 anni e un po' di esperienza in più. L'unico a restargli al fianco fu quell'Iwerks che condivise con lui l'inizio dell'avventura. Tuttavia anche favole e fumetti hanno regole e un codice di rispetto, se non di onore. E mentre il coniglietto Oswald nelle mani sbagliate morì, Topolino- nato da quel furto con scasso - divenne immortale. 

Perché una creatura di successo non è garanzia di perpetua riuscita. Geniaccio e capacità non si acquistano sulle bancarelle della fiera delle vanità. E il topo non restò solo. John Landis, il padre dei Blues Brothers, tornò all'ossimoro iniziale. Le sue imprese sono «brillanti e perverse, rivoluzionarie e reazionarie e continueranno a sedurre, divertire, irritare e affascinare gli storici, i suoi fan e i bambini di ogni generazione». 

 E con gli occhi del bambino di cinque anni, vicino di casa di quella Disneyland che sembrava appartenergli, sottolinea come già allora- ed era il 1955- il desiderio di Walt era disegnare un mondo dove tutti vivessero e lavorassero in ambienti idilliaci dal clima amichevole.

Un sogno che non si era ridimensionato nemmeno tre lustri prima, quando il sindacalista comunista Herb Sorrell, un ex pugile dai modi bruschi e tracotanti, minacciò di calunniarlo e mantenne la promessa. Gli scatenò uno sciopero che dipinse il padre di Topolino come un antisemita. 

Soffiavano venti di guerra che rendevano inviso il democratico Disney, poi diventato repubblicano e comparso davanti al Comitato delle attività anti-americane per denunciare i simpatizzanti rossi che avevano lavorato per lui. Un passo obbligato e accuse di tradimento. Il 2021 si porta via due ricorrenze strategiche del creatore di Paperino, nato nel dicembre di 120 anni fa e morto nello stesso mese di 55 anni orsono, celebrati dalla biografia Walt Disney.  

Prima stella a sinistra di Mariuccia Ciotta (La nave di Teseo, pagg. 496, euro 20) collegata idealmente a Peter Pan. All'eterno fanciullo che si nascondeva anche nel più celebre degli animatori e a quella strada da percorrere verso l'isola che non c'è. «Prima stella a sinistra poi avanti fino al mattino». Il sapore del sogno. Lo stesso che ha caratterizzato la sua vita. 

«Era un tipo affascinante, molto allegro - disse di lui Kirk Douglas -. Quando ho recitato in Ventimila leghe sotto i mari era così assorbito nel progetto di Disneyland che usò il sottomarino per il parco». Vita, astrazione e idealismo si erano incrociate ancora. E sapevano di caramella. Oggi il nemico è il supereroe che ha fatto a pezzi principi azzurri e animali incantati, combattendo contro rivali costruiti in laboratorio.  

E dotati di armi avveniristiche. Eppure. Il regista inglese Peter Greenaway ama ripetere che «Quando Ejzenstein incontrò Disney gli disse che solo quello fatto da lui era cinema». Oggi forse solo quello che faceva lui era sogno. 

  COSA NE PENSEREBBE WALT DISNEY DELLA SVOLTA “POLITICALLY CORRECT” DELLA SUA AZIENDA? 

Guido Tiberga per "la Stampa" il 15 dicembre 2021. Un bulletto sfrontato che solleva la gonna a una ragazzina, peraltro pronta ad aiutarlo a torturare un gruppo di animali al suono di un'allegra marcetta dixieland. Una svampita che irrompe nella vita quotidiana di un gruppo di diversamente abili, usa le loro cose, stravolge le loro abitudini, ne fa innamorare senza speranza almeno un paio. Un assassino che tenta di ammazzare una minorenne, un veleno nascosto nel più innocuo dei cibi, un bambino muto e un po' tonto costretto a lavorare in miniera. Un figlio di papà che arriva alla fine e risolve tutto con un bacio rubato. Messa così, sembra la trama di un b-movie degli anni Settanta, di quelli che fondevano horror e sesso in un pastone improbabile di offese al buon gusto, all'arte e al politicamente corretto. Invece sono Steamboat Willie, il primo cartoon di Topolino, e Biancaneve e i sette nani, il primo lungometraggio animato della storia: il personaggio che Sergej Eisenstein definirà «uno dei più grandi contributi americani alla storia della cultura» e il film che molti ricordano come il simbolo di un tempo passato per sempre. Le pietre miliari dell'impero Disney, che oggi ha trasfigurato se stesso e si trova a dover fare i conti con gli eccessi della cancel culture. La storia di Walt Disney, di cui ricorrono oggi i 55 anni dalla morte, è una storia di contraddizioni. È difficile collegare la sua biografia con l'idea che ci siamo fatti della sua arte. Forse era soltanto un genio calunniato per invidia, come vorrebbero i suoi agiografi più convinti, o forse era davvero il mascalzone descritto dai suoi nemici: il fanatico fascistoide che faceva la spia per gli uomini di McCarthy nella caccia ai «rossi» di Hollywood, lo sfruttatore di dipendenti, il paranoico egocentrico che schiacciava i collaboratori nel cono d'ombra. In fondo, poco importa chi fosse davvero. In ogni caso - e nonostante tutto - per decenni Disney ha smesso di essere un cognome per diventare il termine eponimo di un mondo zuccheroso e infantile, di un divertimento sano e lontano dalla violenza, di un buonismo esasperato e stucchevole. Eppure Walt non amava i bambini. Soprattutto non lavorava per loro: ai disegnatori di Biancaneve che gli proponevano una regina rosa e paffuta in pieno stile cartoon, rispose che voleva «una via di mezzo tra Lady Macbeth e il Lupo cattivo». Tornato da un viaggio in Europa, impose le illustrazioni di Doré per l'Inferno dantesco come modello per la fuga della ragazza nella foresta, «con gli alberi che si trasformano in mostri e i tronchi che diventano coccodrilli». I film degli anni Trenta su Dracula e Nosferatu furono proiettati negli Studios come ispirazione per il castello della regina: «Deve venir fuori dalle ombre come mister Hyde dal dottor Jekyll». Per molti dei suoi 55 anni senza Walt, l'impero Disney è andato avanti, alternando successi e cadute, su una strada modellata più sulla percezione del pubblico che sugli intenti del fondatore. Un omaggio al business, più che un tradimento: qualcuna delle novità, probabilmente, Walt l'avrebbe pure apprezzata: la svolta verso l'animazione in 3d, ad esempio, così come la trasposizione in live action dei cartoni più noti. D'altra parte l'ossessione dei suoi ultimi anni, ha raccontato la figlia Diane, era «l'illusione della vita». Un traguardo che i mezzi di allora non gli potevano regalare fino in fondo, almeno sullo schermo. Per questo, scrive Diane, l'unico vero obiettivo di Walt era diventato Disneyland, la terra dove ancora oggi la fantasia si trasforma in realtà. Quello che manca, nei parchi e nei vecchi film, è il rispetto delle nuove sensibilità. Ed è qui che si incarna il paradosso attuale di Disney, il cattivo che il mondo voleva buono, il misantropo che grazie alle sue creature appariva come l'amico di tutti. Molti dei cartoni animati classici, che i boomer hanno visto al cinema e i loro figli prima in home video e poi in streaming su Disney+, sono accompagnati da una nota che ne consiglia la visione a un pubblico maturo. «Questi stereotipi erano sbagliati allora e lo sono ancora. Piuttosto che rimuovere questo contenuto vogliamo riconoscerne l'impatto dannoso, imparare da esso e stimolare il dibattito per creare insieme un futuro più inclusivo». Così recita l'avviso. Lo stigma è toccato a Dumbo, «perché i corvi che suonano e cantano «ricordano i menestrelli razzisti che si esibivano con la faccia dipinta di nero», a Peter Pan che non rispetta i nativi americani, a Gli Aristogatti per una coppia di mici dalle fattezze orientali, al Libro della Giungla , dove una scimmia canta in stile jazz e sembra una caricatura degli afroamericani. A Orlando, la riapertura post Covid di Disney World ha portato qualche piccola innovazione. Nella tradizionale attrazione dedicata a Biancaneve, la scena finale con la morte della strega, terrificante per i bambini di oggi, è stata sostituita dal «true love' s kiss» tra il principe e la protagonista ancora addormentata. Un inatteso passo falso. Due donne, Katie Dowd e Julie Tremaine, hanno protestato scrivendo un articolo sul San Francisco Gate: «Come si fa a definirlo bacio d'amore se lei non è cosciente? Non abbiamo sempre parlato di consenso? Non abbiamo sempre detto che bisogna insegnare ai bambini che un bacio tra due persone, se non sono entrambe d'accordo, non va bene?». L'obiezione di Dowd e Tremaine ha aperto un dibattito che ha rimesso sul piatto vecchie idee e nuove censure. Qualche settimana dopo, un commento sull'Orlando Sentinel ha mandato la palla dall'altra parte del campo: «Frequento il parco da decenni, sono tornato quest' anno e devo dire che la wokeness mi ha rovinato l'esperienza». Wokeness è la parola che sta condizionando le aziende americane: indica lo «stare svegli», il prestare attenzione alle ingiustizie sociali, anche quelle nascoste nei meandri della tradizione. L'intervento sul Sentinel ha scatenato una polemica e un dibattito ancora in corso. È l'ennesima contraddizione intorno al nome di Disney, l'uomo sopravvissuto a se stesso: il cattivo insensibile che tutti volevano vedere come buono, è tornato nel tritacarne 55 anni dopo la morte perché troppo attento al nuovo vento sociale. Alla fine, anche i geni non sfuggono al contrappasso.

·        Walt Whitman.

Tutti a casa di Whitman, l'Omero americano. Giuseppe Conte il 23 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il "rifugio" di Camden fu meta di pellegrinaggi: giornalisti e scrittori volevano parlare con lui

Per i cultori di Walt Whitman (West Hills, 1819 Camden, 1892), un libro come questo (Non esiste diavolo peggiore dell'uomo, De Piante editore, pagg. 246, euro 20; a cura di Emil Ronìn), diventerà indispensabile. Permette infatti di entrare nel mondo dell'immenso poeta da una angolazione diversa, quella delle interviste che rilasciò a giornalisti negli ultimi due decenni della sua vita. Whitman, uomo che contenne moltitudini, «un cosmo, di Manhattan il figlio», fece, tra cento mestieri, anche il giornalista di strada, il tipografo, l'inventore di testate, tra cui The Evening Tattler, Il Chiacchierone della Sera. E in queste pagine dice a un intervistatore che i giornali possono essere «infami e grandiosi». È dunque ben disposto verso i «colleghi», cui si concede con sincerità, umorismo, grazia, sintonia. Viene fuori un suo ritratto completo. Ecco la sua casa al 328 di Nickle Street, a Camden, un non ameno sobborgo di Philadelphia: un piccolo edificio in legno a due piani, umile, dalle cui finestre non si vede un albero. E lui, un druida infermo, la posa leonina ma affabile, i capelli e la barba bianca e fluente, pronto a parlare di tutto: non escluse le sue condizioni finanziarie molto precarie e le vendite dei suoi libri, mai così soddisfacenti da assicurargli un reddito sicuro. Eppure quest'uomo anziano, che ha subito una paralisi, che vive solo con un cane e accudito dalla benevolenza di una signora, dalla sua povera casa, da una poltrona in mezzo a una camera stracolma di libri e giornali irradia un sapere che è un punto di riferimento poetico, morale, spirituale per il mondo intero. Ruben Darìo, un poeta della sua razza, così lo descrive in un verso: «Bello como un patriarca, sereno y santo». Dall'Europa gli scrivono Tennyson, Zola, Hugo. Quando Oscar Wilde, il grande esteta alla moda, arriva in America per un tour di conferenze, non manca di fare tappa a Camden, e i due se la spassano un pomeriggio bevendo vino e parlando della bellezza. Wilde dichiarerà che Whitman «è uno degli uomini più meravigliosi, energici che siano mai vissuti». L'energia di Whitman è quella che promana dalla sua opera, e si riverbera nelle sue conversazioni con i suoi visitatori: è l'energia dell'ottimismo, della speranza, della fede, della solidarietà, della fratellanza umana. È l'energia che soffia nell'idea di democrazia, nella libertà, nella sensualità, nella inedita sintesi di Corpo e Anima.

Come nelle sue poesie, nelle interviste qui raccolte Whitman glorifica la natura (sua «vera sposa»), il lavoro, il cameratismo, la pietà, quella che lui profuse nei quatto o cinque anni di guerra, la sanguinosissima Guerra di Secessione, in cui militò come infermiere, non a distruggere, lo sottolinea spesso, ma a salvare vite di giovani uomini. Vede l'America affacciarsi sulla scena del mondo con le sue immense risorse, con la sua industria, con la sua democrazia, e ne profetizza la grandezza. Ma la grandezza di cui parla il poeta di Camden ha sempre a che fare con il primato dell'uomo e dello spirito, dell'energia vitale che anima una società affrancata finalmente da schiavitù e feudalesimo. Per Whitman, «non esiste una cosa come la decadenza». L'Europa del Decadentismo è lontana, il Tramonto dell'Occidente di Spengler ancora da venire, la critica radicale del mondo industriale di D.H. Lawrence, grande interprete di Whitman, in quel momento aurorale è inconcepibile. Whitman è tutto dentro l'attimo presente, e lancia verso il futuro messaggi istantanei di vitalità e di crescita. Parla anche liberamente di letteratura e di libri, e così veniamo a conoscere più nel dettaglio i suoi giudizi e i suoi gusti: Thoreau ama i boschi per disprezzo verso l'umanità, Tennyson manca di solidarietà, Poe è troppo incline al lato cupo della vita, Hawthorne, che ha successo di pubblico, a lui sembra sentimentale, malinconico, morboso, Byron è rancoroso, in preda a una disperata brutalità, di Tolstoj ha letto Guerra e pace, ma non ne ha «ricavato molto». Indipendente, fiero, Whitman ama Shakespeare (a cui però rimprovera un residuo di feudalesimo nel non avere creato personaggi umili che non siano comici o stolti), Walter Scott, la Bibbia, Omero.

Il suo Foglie d'erba ha la struttura di un libro sacro. Ma di un libro sacro in cui soffiano i venti del presente, del giornalismo, dell'attualità. Per me è un pregio, anche se a cominciare da Emerson molti non la videro così. La più clamorosa sottovalutazione di Whitman, forse scherzosa ma inadeguata e irritante è quella dovuta a Giorgio Manganelli, in un suo saggio premesso a una edizione di Foglie d'erba. Io non ho più letto Manganelli da allora. Sono felice che nella sua ottima introduzione, dove giustamente rimarca il coté omosessuale di Whitman che gli detta le bellissime poesie di Calamus, il poeta Franco Buffoni abbia indirizzato a Manganelli una sacrosanta risposta: scrivendo che per essere un grande poeta, «il fatto di aver davvero qualcosa da dire sia più importante di qualsiasi altro dato culturale». Walt Whitman, poeta, profeta, Capitano, ne aveva davvero cose da dire, sul corpo, sull'anima, sul sesso, sulla natura, sulla democrazia, sulla gioia e sulla malattia, sulla vita e sulla morte. Leggere queste sue interviste è risentire la sua voce, ancora più vicina e fraterna.

·        William Burroughs.

Gian Paolo Serino per "il Giornale" l'11 gennaio 2022.  

La Beat generation? Qualcosa da dimenticare. Jack Kerouac? «Un povero alcolista dipendente dalla madre». Allen Ginsberg? «Il mio spacciatore di mescalina». Gregory Corso? «Uno schifoso». Herbert Huncke? «Un drogato e un ladro che quando scrive sembra un corvo che gracchia». Truman Capote? «Dopo A Sangue freddo uno scrittore finito e al servizio del Governo». 

Arthur Rimbaud? «Niente di oscuro nella sua poesia se la vedi come immagini». I movimenti rivoluzionari americani come le Black Panthers? «Faccio più io con la macchina da scrivere che loro con le Beretta 25». L'unica soluzione per governare gli Stati Uniti? «Il controllo delle masse».

Sono solo alcuni dei giudizi che ritroviamo nelle lettere dello scrittore americano William Burroughs, uno dei grandi più vicini alla Beat generation, autore di capolavori come Pasto nudo, La scimmia sulla schiena e Strade morte (tra i tanti), sceneggiatore di film mai usciti, pecora nera di una famiglia benestante, morto a 93 anni nel 1997 dopo una vita spesa tra sperimentazione di ogni droga possibile e incubi che l'hanno ossessionato tutta l'esistenza come l'avere ucciso la moglie nel tentativo di imitare Guglielmo Tell. 

Autore di diciotto romanzi, non ha mai lavorato in vita sua, è stato sempre mantenuto dalla famiglia, dal padre prima e dalla madre poi: l'unica che non abbia subito il fascino del figlio ma, anzi, pur spedendogli denaro per vivere in una lettera gli aveva dato del «teppista», invitandolo a «non tornare mai a casa».

Laureato in antropologia, ha vissuto tra New York (dove è stato arrestato e poi internato in un ospedale psichiatrico), il Texas (dove coltivava marijuana), il Messico, la Colombia, Tangeri dove viveva seguendo il motto «Niente è vero. Tutto è permesso». Nel 1958 si è trasferito a Parigi dove ha abitato per anni nella stessa camera in un hotel, presto diventato meta di pellegrinaggio dei suoi lettori, perché Burroughs sino alla morte è stato visto come una rockstar, il «Grande vecchio» della controcultura. 

Precursore della letteratura postmoderna, ha influenzato moltissimo la musica: l'heavy metal è nato prendendo a prestito una sua definizione e tra i suoi lettori più accaniti figurano Frank Zappa, Iggy Pop, David Bowie, Rolling Stones, R.E.M., U2 e Kurt Cobain.

Da giovedì arriva nelle librerie Il mio passato è un fiume malvagio. Lettere 1946-1973 (Adelphi, pagg. 358, euro 24; a cura di Oliver Harris e Bill Morgan, edizione italiana a cura di Ottavio Fatica, traduzione di Andrew Tanzi). Un'antologia epistolare- versione "ridotta" dai due volumi americani, il primo introvabile da anni, con il titolo Rub Out the Words- che rivela tutto l'universo personale di William Burroughs: capace di slanci di generosità con dei perfetti estranei, come pronto a litigare con qualunque amico, a dimenticare per anni di essere padre, come di stroncare qualsiasi scrittore.

Non perché fosse un bastian contrario o un tossicodipendente: Burroughs è molto molto lucido nelle proprie analisi (anche le più assurde) e scrive le lettere come ha scritto i suoi libri, con molta meticolosità, ossessionato dalla perfezione della prosa e dalla catalogazione di ogni suo scritto; tanto che la maggior parte delle lettere possono essere pubblicate perché di ciascuna inviata ne custodiva una copia con la carta carbone. 

La prima parte dell'epistolario è più interessante, meglio curata, esattamente come l'edizione americana che nella seconda parte risente degli errori del curatore Bill Morgan: nomi e date sbagliati, "censura" a interi passaggi nei quali Burroughs si confronta con il dottor Dent, che ricorre molto spesso nell'epistolario. Il principale nemico nella vita di Burroughs era l'influenza debilitante dei narcotici.

Ciò che lo rendeva felice era il lavoro, in particolare il lavoro collaborativo, e l'eroina andava contro la soddisfazione di una giornata alla scrivania, penna in una mano, lama di rasoio per tagli nell'altra. In lettere inviate alla stampa, ad altri medici e a compagni tossicodipendenti, sottolinea che l'apomorfina «non funziona placando l'ansia ma regolando il metabolismo in modo che il paziente non abbia bisogno di alcol o narcotici». 

Che le autorità ignorassero il rimedio di Dent non era una sorpresa: dopo tutto, come disse Burroughs in The Job, una raccolta di interviste pubblicata nel 1969, «i medici hanno un interesse acquisito nella malattia». Burroughs non le mandava a dire. Truman Capote nel 1967 dichiarò al Chicago Daily News: «Odio a morte William Burroughs. Lui è quello che chiamerei uno scrittore pop. Ottiene alcuni effetti molto interessanti su una pagina. Ma al costo di una totale mancanza di comunicazione con il lettore. Il che è un costo piuttosto serio, credo».

Non si fece aspettare la risposta di Burroughs: «Hai messo i tuoi servizi a disposizione degli interessi che stanno trasformando l'America in uno stato di polizia con il semplice espediente di favorire deliberatamente le condizioni che danno origine alla criminalità per poi chiedere maggiori poteri di polizia e il mantenimento della pena capitale per affrontare la situazione che hanno creato. Hai tradito e venduto il tuo talento. Non scriverai mai più una frase al di sopra del livello di A sangue freddo. Come scrittore sei finito. Passo e chiudo. Mi stai seguendo? Sai chi sono? Tu mi conosci, Truman. Mi conosci da molto tempo. Questa è la mia ultima visita».

Per Burroughs, al posto della pena di morte, «l'arma da usare è il controllo di massa delle onde cerebrali. 400.000 cervelli che emettono onde alfa nel sonno e se fanno sogni superficiali, spazziamoli via con 400.000 onde epilettiche». Nel 1972 scrive: «L'Inghilterra è una cupa e fredda nave che affonda senza luce e che scomparirà con una tosse spettrale». 

Burroughs ha anticipato il Covid? Senz' altro è una suggestione, ma è certo che diverse volte ha intravisto il nostro presente: come nella sceneggiatura Blade Runner (dalla quale Ridley Scott trarrà il titolo per l'omonimo film ispirato al romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick), in cui immagina una società alla mercé delle grandi aziende farmaceutiche e il pericolo di una dittatura sanitaria.